Dizionario delle scienze e delle tecniche di Grecia e Roma 8862271840, 9788862271844

L'opera si propone di fornire, con criteri di immediata fruibilità e con una prospettiva di sintesi critica, inform

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Italian Pages 1356 [1349] Year 2010

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Table of contents :
SOMMARIO
INTRODUZIONE -
Paola Radici Colace
Elenco generale delle voci
A
B
C
D
E
F
G
I
L
M
N
O
P
R
S
T
U
V
Z
BIBLIOGRAFIA
GLOSSARIO
Gli autori
ALLE ORIGINI DELL’IDEA OCCIDENTALE DI SCIENZA E TECNICA -
Livio Rossetti
METAFORE DELLA SCIENZA E DELLA TECNICA:CONTRIBUTO ALLA LINGUA ED ALL’IMMAGINARIO -
Paola Radici Colace
FORTUNA E VALUTAZIONI DELLA SCIENZA E DELLA TECNICA ANTICHE NEL PENSIERO MEDIEVALE, MODERNO E CONTEMPORANEO -
Vincenzo Tavernese
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Dizionario delle scienze e delle tecniche di Grecia e Roma
 8862271840, 9788862271844

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B I B L I OT E C A D I « TECHNAI» * 1.

Progetto prin 2006 Coordinatore Nazionale Paola Radici Colace Responsabili di Unità Paola Radici Colace (Messina), Silvio M. Medaglia (Salerno), Livio Rossetti (Perugia), Sergio Sconocchia (Trieste) Curatori di Area logica: Flavia Marcacci agricoltura: Emanuele Lelli matematica: Flavia Marcacci agrimensura: Lucio Toneatto meccanica: Philippe Fleury alchimia: Carmelo Lupini alimentazione: Eugenia Salza Prina Ricotti medicina: Sergio Sconocchia mineralogia: Annibale Mottana architettura: Paola Radici Colace musica: Simonetta Grandolini astrologia: Paola Radici Colace nautica: Pietro Janni astronomia: Carlo Santini ottica: Silvio M. Medaglia botanica: Emanuele Lelli pneumatica: Jean-Yves Guillaumin cosmologia: Livio Rossetti polemologia: Lucio Benedetti diritto: Giuliano Crifò, Livio Rossetti pseudo-scienza: Francesco Cuzari filosofia: Livio Rossetti tossicologia: Livia Radici fisica: Silvio M. Medaglia veterinaria: Violetta Scipinotti fisiognomica: Fabio Stok zoologia: Antonino Zumbo geografia: Pietro Janni idraulica: Gilbert Argoud Maurizio Baldin Aroldo Barbieri Carlo Beltrame Carlotta Benedetti Cristiana Bernaschi Serena Bianchetti Francesca Boldrer Maria Caccamo Caltabiano Nadia Cacopardo Fabio Cavalli Maria Antonietta Cervellera Daria Crismani Alberto De Angelis Daniela Di Petrillo Chiara Diomedi Francesco Fiorucci Mauro Francaviglia Francesco G. Giannachi

Collaboratori Stefania Giombini Anna Maria Ieraci Bio Maria Nicole Iulietto Massimo Lazzeri Pietro Li Causi Oddone Longo Marcella Giulia Lorenzi Giuseppe Lupini Claudia Maggi Giulio Magli Brigitte Maire Manuela Martellini Francesco Moliterno Daniele Monacchini Rosa Otranto Dmitri Panchenko Giangiacomo Panessa Giorgia Parlato

Piergiorgio Parroni Rosario Pintaudi Shara Pirrotti Francesco Prontera Francesco Ragni Annalisa Romano Elisa Romano Vincenzo Russo Matilde Serangeli Giuseppe Solaro Piero Tarantino Vincenzo Tavernese Paola Tempone Giulia Tozzi Mario Vegetti Emmanuele Vimercati Valentina Zanusso

Emanuele Lelli (coord.) Carmelo Lupini (coord.) Daniele Monacchini (coord.) Maurizio Baldin Nadia Cacopardo

Redazione Anna Ciprí Fernando La Greca Flavia Marcacci Alfonso Natale Paola Paolucci

Giorgia Parlato Livia Radici Francesco Ragni Vincenzo Tavernese

D I Z I O NARIO D E L L E S C IENZE E D E L L E T E CNICHE D I G R E C I A E ROMA a cura di pao la r a d i c i co lac e, s i lvio m. medaglia, l i v i o ro s s ett i , s e rg i o scono cchia d i r etto da pao la r a d i c i colace

·i· a-l

PISA · ROMA FABRIZIO SERRA E D I T O R E MMX

Volume pubblicato con il cofinanziamento del miur e delle Università di Messina, Perugia, Salerno, Trieste: Progetto prin 2006 Dizionario della Scienza e della Tecnica in Grecia e a Roma. Autori e testi, Realien, saperi alle radici della cultura europea. Coordinatore Nazionale Paola Radici Colace * Sono rigorosamente vietati la riproduzione, la traduzione, l’adattamento, anche parziale o per estratti, per qualsiasi uso e con qualsiasi mezzo effettuati, compresi la copia fotostatica, il microfilm, la memorizzazione elettronica, ecc., senza la preventiva autorizzazione scritta della Fabrizio Serra editore®, Pisa · Roma. Ogni abuso sarà perseguito a norma di legge. * Proprietà riservata · All rights reserved Edizione aggiornata: 2010 © Copyright 2010 by Fabrizio Serra editore®, Pisa · Roma www.libraweb.net Uffici di Pisa: Via Santa Bibbiana 28, I 56127 Pisa, tel. +39 050542332, fax +39 050574888, [email protected] Uffici di Roma: Via Carlo Emanuele I 48, I 00185 Roma, tel. +39 0670493456, fax +39 0670476605, [email protected] * isbn 978-88-6227-184-4 (brossura) isbn 978-88-6227-203-2 (rilegato)

SOMMARIO Introduzione Nota del Coordinatore Elenco generale delle voci

9 15 17

Dizionario

21

Bibliografia Glossario (a cura di Paola Radici Colace) Gli autori

1039 1187 1275

saggi Livio Rossetti, Alle origini dell’idea occidentale di scienza e tecnica Paola Radici Colace, Metafore della scienza e della tecnica: contributo alla lingua ed all’immaginario Vincenzo Tavernese, Fortuna e valutazioni della scienza e della tecnica antiche nel pensiero medievale, moderno e contemporaneo

1291 1317 1323

INTRODUZIONE Paola Radici Colace

I

l Dizionario delle Scienze e delle Tecniche di Grecia e Roma si propone di colmare una lacuna nel campo degli studi dell’antichità, costituita dalla mancanza di un Dizionario organico della Scienza e della Tecnica relativo al mondo classico, che metta insieme gli autori, i testi, le pratiche e i processi produttivi (Realien), i saperi antichi che si riconoscono ancora alle radici della cultura europea. L’opera nasce nel fervore di una fase di riscoperta e rinnovata attenzione per i saperi, che hanno preso forma nell’antichità classica (per poi rivivere in larga misura nella scienza moderna), e, nel renderne conto, non solo ripensa le aree disciplinari più spesso fatte oggetto di studio, ma ne dilata nettamente lo spettro tradizionale. L’opera si propone pertanto la finalità di fornire, con i criteri di immediata fruibilità, che caratterizzano il labile territorio di confine tra dizionario ed enciclopedia (grazie alla disposizione della materia in ordine alfabetico) e con una prospettiva di sintesi critica, informazioni che ricostruiscano l’importanza centrale che la scienza e la tecnica hanno rivestito nelle società classiche, le loro connessioni con il resto delle discipline, il processo di costruzione dei saperi relativi : elementi, che non possono coincidere né con una storia della letteratura scientifica e tecnica, 1 né con una esposizione storica, dunque ordinata cronologicamente per autori e discipline, che se ha il vantaggio di una trattazione organica ed articolata dei grandi campi teorici delle scienze e delle tecnologie antiche nella loro dinamica storica, impedisce, con la concentrazione sui grandi nodi teorici principali, di illuminare la complessità di questi campi culturali,2 né coi semplici profili dei personaggi che se ne sono, per un verso o per l’altro, occupati. 3 Le linee progettuali hanno individuato le seguenti finalità : • la messa a fuoco dei concetti più significativi del patrimonio di conoscenze scientifiche e tecniche dell’antichità classica • la definizione dello sviluppo storico dei singoli ambiti disciplinari oggetto di indagine  



1

  Si veda la Letteratura scientifica e tecnica di Grecia e Roma (lst ), a cura di I. Mastrorosa e A. Zumbo, direzione e coordinamento di C. Santini, Roma, 2002. Tale esperienza, maturata dallo stesso gruppo di ricerca impegnato nel Dizionario, è stata fondamentale perché ha creato i presupposti di un quadro d’insieme, necessario alla redazione dello stesso, ma che si muove sul piano del recupero letterario (generi letterari, autori). 2   Questa è la struttura dell’opera diretta da G. Lloyd, con la collaborazione di M. Vegetti e G. Cambiano, Storia della Scienza (sds), Roma, 2001. 3   Vd. ad es. The Encyclopedia of Ancient Natural Scientists. The Greek Tradition and its many heirs (eans), edited by P. T. Keiser and G. L. Irby-Massie, London-New York, 2008, che, a dispetto del primo enunciato (vd. Introduction, 1 : “This work provides a synoptic survey of all “ancient”, i.e., Greek and Greek-based, natural science, broadly defined, from its beginnings trough the end of late antiquity, for the benefit of anyone interested in the history of science ”), proporne soltanto una carrellata di voci relative ad autori che si sono interessati in maniera più o meno specifica di scienza, disposti in ordine alfabetico, e priva di quelle connessioni necessarie alla costruzione di un profilo storico della scienza, delle interconnessioni tra le discipline e delle pratiche attuative del pensiero teorico.  



10

paola radici colace

• l’aggiornamento delle conoscenze • la costruzione, attraverso una rete di rimandi, interrelazioni e correlazioni tra le varie discipline, di un quadro dello sviluppo integrato del pensiero scientifico e tecnico • la revisione della letteratura scientifica e tecnica • l’avvio di nuove ricerche su temi finora trascurati • l’individuazione della ‘fortuna’ dei nuclei concettuali trasmessi alla nascente Europa moderna attraverso la mediazione latina, bizantina ed araba. Negli ultimi decenni è stata dedicata una maggiore attenzione che nel passato agli aspetti tecnici e scientifici del mondo antico, con edizioni e commenti di opere tecnicoscientifiche e studi specifici e strumenti di servizio quali Indici, Lessici, Concordanze. Il panorama si presenta ormai complesso ed articolato ed ha visto tra i suoi protagonisti tutti gli studiosi, che hanno progettato il Dizionario e che sono stati nell’ultimo ventennio promotori di numerose iniziative integrate. 1 Il progetto del Dizionario ha dunque potuto contare sulla consolidata integrazione scientifica di un gruppo di lavoro ‘storico’, che è stata negli anni continua e di alto livello, e nella quale gli scambi sono avvenuti anche con la compartecipazione all’attività docente in due dottorati, che hanno avuto l’obiettivo di formare nuove generazioni di studiosi nello specifico campo. Le ricerche e le attività sviluppate hanno, in un certo senso, reso doveroso l’impegno di questo gruppo in una opera che costituisse la sintesi organica di tutte le analisi condotte nel corso degli anni dalle singole équipes e da ciascun componente. Per questi motivi, il Dizionario si pone, al contempo, come collettore di quanto già acquisito e come punto di partenza per nuove indagini: in esso troveranno la giusta collocazione i risultati di revisioni critiche e i frutti di ricerche su argomenti e problemi non ancora adeguatamente considerati. L’opera ha inoltre l’intento di ripercorrere il cammino della progressiva affermazione di idee scientifiche e tecnologiche, colte nel loro incrocio con la storia del pensiero antico e della filosofia, e di lumeggiare l’intreccio di motivi culturali con la riflessione scientifica vera e propria ed il trasferimento tecnologico del pensiero scientifico. Essa rappresenta uno spostamento nella direzione di un campo di ricerche finora generalmente trascurato da quanti si occupano del mondo classico. Infatti non si può fare a meno di constatare che i nostri rapporti culturali col mondo greco e latino sono stati fino a questo momento incentrati soprattutto sui testi letterari e che la cultura tecnica e scientifica rappresenta un ambito del sapere degli antichi, la cui conoscenza rimane circoscritta ad un numero limitato di specialisti e che è spesso trascurato dalla didattica scolastica e universitaria. Lo dimostrano ad abundantiam • i numerosissimi casi in cui i nostri dizionari scientifici neppure registrano gli usi settoriali e specifici di alcuni termini e solo raramente includono nella rosa di testi che utilizzano come fonti opere scientifiche e tecniche • lo scarso numero di edizioni critiche, traduzioni e commenti di cui disponiamo appena si esce fuori dal panorama della letteratura ‘creativa’. 1

  Vd. infra, Nota del Coordinatore del Progetto di ricerca prin 2006.

introduzione

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Ma è pur vero che la scarsa dimestichezza con la scienza, con la tecnica, con i Realien, con gli autori e i testi che ci parlano di queste cose ha finito col ridurre ad una sola dimensione, quella della letteratura ‘creativa’, un sistema linguistico e culturale che in società integrate quali la greca e la romana si è invece profondamente materiato di interferenze, di scambi, di passaggi. Il Dizionario diventa dunque, quasi una lente retrospettiva, il luogo in cui nell’arco temporale considerato si evidenzia l’innesto tra la cultura scientifica e gli altri aspetti culturali, sociali ed economici delle società che l’hanno prodotta. Il nostro percorso all’indietro, che non relega la scienza e la tecnica in Grecia e a Roma alle prime pagine di enciclopedie, quasi un doveroso ma fugace ossequio al ritmo della storia, 1 si ferma • ad illuminare la cultura classica nella sua totalità • ad individuare nel pensiero filosofico presocratico i germi di una concezione del mondo e il tentativo di scrivere una cosmologia • a focalizzare il motivo per cui si è prodotta nella filosofia greca, quella platonica in particolare, nell’ambito di un ‘sapere’ originariamente unitario, una differenziazione tra techne ed episteme, cioè tra pratiche produttive e pensiero ‘apodittico’ puramente teorico • ad individuare, nell’affermarsi della concezione aristotelica e di quella che Fritz Wehrli chiamò “Die Schule des Aristoteles”, 2 la genesi del lavoro di definizione dei vari saperi, che sta a dimostrare come la suddivisione per discipline si sia ampliata man mano che nuovi saperi acquistavano profili autonomi • a recuperare una circolarità delle idee e dei saperi, sottesa anche alle opere della letteratura ‘creativa’, ricche di riferimenti ai Realien della scienza e della tecnica e di importazione di metafore da questi settori, i cui significati sono difficilmente recuperabili e comprensibili senza un parallelo approfondimento degli elementi tecnicoscientifici, che costituivano il naturale background di ogni uomo di cultura del tempo. Il Dizionario comprende le seguenti discipline, ciascuna accompagnata dai nomi degli studiosi che hanno assunto il compito di ‘Curatore’ :  

agricoltura : Emanuele Lelli agrimensura : Lucio Toneatto alchimia : Carmelo Lupini alimentazione : Eugenia Salza Prina Ricotti architettura : Paola Radici Colace astrologia : Paola Radici Colace astronomia : Carlo Santini botanica : Emanuele Lelli cosmologia : Livio Rossetti diritto : Giuliano Crifò, Livio Rossetti filosofia : Livio Rossetti fisica : Silvio M. Medaglia fisiognomica : Fabio Stok geografia : Pietro Janni idraulica : Gilbert Argoud  





























1

  Vd. ad es. Scienza e tecnica dalle origini al Novecento, Milano, Edizioni Scientifiche Mondadori, 1975.   Fr. Wehrli, Die Schule des Aristoteles. Texte und Kommentare, Stuttgart, 1967 ( 2a Aufl.).

2

12

paola radici colace logica : Flavia Marcacci matematica : Flavia Marcacci meccanica : Philippe Fleury medicina : Sergio Sconocchia mineralogia : Annibale Mottana musica : Simonetta Grandolini nautica : Pietro Janni ottica : Silvio M. Medaglia pneumatica : Jean-Yves Guillaumin polemologia : Lucio Benedetti pseudo-scienza : Francesco Cuzari tossicologia : Livia Radici veterinaria : Violetta Scipinotti zoologia : Antonino Zumbo  



























e si è inoltre avvalso per la redazione di singole voci, oltre che degli stessi Curatori, dei seguenti Collaboratori :  

Maurizio Baldin ; Aroldo Barbieri ; Carlo Beltrame ; Carlotta Benedetti ; Cristiana Bernaschi ; Serena Bianchetti ; Francesca Boldrer ; Maria Caccamo Caltabiano ; Nadia Cacopardo ; Fabio Cavalli ; Maria Antonietta Cervellera ; Daria Crismani ; Alberto De Angelis ; Daniela Di Petrillo ; Chiara Diomedi ; Francesco Fiorucci ; Mauro Francaviglia ; Francesco G. Giannachi ; Stefania Giombini ; Anna Maria Ieraci Bio ; Maria Nicole Iulietto ; Massimo Lazzeri ; Pietro Li Causi ; Oddone Longo ; Marcella Giulia Lorenzi ; Giuseppe Lupini ; Claudia Maggi ; Giulio Magli ; Brigitte Maire ; Manuela Martellini ; Francesco Moliterno ; Daniele Monacchini ; Rosa Otranto ; Dmitri Panchenko ; Giangiacomo Panessa ; Giorgia Parlato ; Piergiorgio Parroni ; Rosario Pintaudi ; Shara Pirrotti ; Francesco Prontera ; Francesco Ragni ; Annalisa Romano ; Elisa Romano ; Vincenzo Russo ; Matilde Serangeli ; Giuseppe Solaro ; Piero Tarantino ; Vincenzo Tavernese ; Paola Tempone ; Giulia Tozzi ; Mario Vegetti ; Emmanuele Vimercati ; Valentina Zanusso.  







































































































In totale, i numeri del Dizionario sono i seguenti : 29 ambiti disciplinari trattati, 82 studiosi tra Curatori e Collaboratori, appartenenti a varie Università Italiane e Straniere, 455 voci. Va detto che rispetto al piano originario del Progetto prin 2006 1 che prevedeva 21 discipline, il Dizionario è stato ulteriormente implementato, non solo nella definizione sempre più raffinata delle singole voci, ma anche con l’inserimento di altre otto discipline :  



alchimia alimentazione fisiognomica logica meccanica pneumatica pseudo-scienza tossicologia

In particolare i settori relativi all’alchimia ed alla pseudo-scienza hanno consentito di investigare su territori di confine dove la scienza si avvicina alle credenze ed alle superstizioni, non sempre con la scansione di limiti netti e definiti, e di ampliare suggestivamente i ‘saperi’ che sostenevano l’uomo antico nei suoi comportamenti. 1

  Vd. infra, Nota del Coordinatore del Progetto di ricerca cof in 2006.

introduzione

13

Oltre alle singole voci, tre sezioni trasversali poste alla fine incorniciano le informazioni offerte dal Dizionario. La prima sezione (L. Rossetti) individua nella Grecia dei Presocratici la genesi del pensiero scientifico, illuminando l’idea occidentale di scienza e tecnica, che può essere indicata come una nozione costitutiva per l’identità della società europea e, per estensione, ‘occidentale’. La seconda sezione (P. Radici Colace) evidenzia l’influenza della scienza e della tecnica antica nell’immaginario collettivo, indicando vari settori di produzione di metafore tecnico-scientifiche, che hanno colonizzato la lingua comune, fino ad approdare, duttile via alla perspicuità di concetti teologici altrimenti incomprensibili, all’esegesi cristiana. La terza sezione (V. Tavernese) raccoglie e discute i giudizi dati sulla scienza e sulla tecnica greca e latina a partire dal medioevo, recuperando i vari canali della ‘fortuna’ anche in ambito arabo e mettendo in luce, nell’illustrare i vari momenti del dibattito sulla scienza antica condotto da filosofi e scienziati, la trama nascosta che percorre il progresso tecnico e scientifico occidentale dal medioevo fino all’inizio del Novecento. Il Glossario ha la funzione di parcellizzare i contenuti, aiutando il lettore a ritrovare elementi che non compaiono nei titoli delle voci. All’interno delle voci è stato utilizzato un sistema di rimandi ad altre voci per certi versi connesse (segnalato da →), in modo da guidare verso l’allargamento della ricerca. Le numerose pagine di Bibliografia, indicata con l’autore e l’anno alla fine di ogni singola voce, ma raccolta per esteso nel secondo volume, rappresenta un patrimonio per quanti vogliano informarsi sulle opere fondamentali dei due settori. Ai Greci dobbiamo concetti come ‘simmetria’ e ‘armonia’, che dalla sfera prettamente tecnico-scientifica della musica sono passati a racchiudere un mondo di valori etico-politici. Ai Greci dobbiamo importanti scoperte, sotterrate dall’oblío che ha circondato la letteratura tecnica e scientifica, scoperte che la cultura europea, così strutturalmente in relazione con l’antico, « rotti i contatti coi testi del passato, avrebbe rifatto … senza riconoscerlo ». 1 La rottura dei ponti con le origini del pensiero scientifico e tecnologico antico, con la storia della scienza, con la storia delle scoperte, col ‘romanzo’ che è sottinteso alle nude ed aride formule dei teoremi, è responsabile anche della attuale generalizzata mancanza di vocazione verso lo studio delle discipline scientifiche ‘pure’, prive di risvolti pratici e immediatamente applicativi e della conseguente necessità da parte delle istituzioni di promuovere e propagandare in qualche modo la scienza, 2 nel tentativo di riempire l’attuale deserto delle aule universitarie dove la si insegna, e di ricreare un punto di dialogo con le giovani generazioni, sempre più lontane.  



1

  L. Russo, La rivoluzione dimenticata. Il pensiero scientifico greco e la scienza moderna, Milano, 20032.   Si veda ad esempio l’istituzione da parte del miur della Settimana della cultura scientifica, giunta quest’anno alla xix edizione, ed il cui scopo è quello di mobilitare tutte le competenze e le energie del Paese per favorire la più capillare diffusione di una solida e critica cultura tecnico-scientifica. In particolare, la Settimana stimola l’apertura di efficaci canali di comunicazione e di scambio tra l’universo della società civile (che vede in prima fila il mondo della scuola), da un lato, e l’articolato complesso del Sistema Ricerca (università, enti di ricerca pubblici e privati, musei, aziende, associazioni, etc.), dall’altro. Si tratta di un compito di importanza decisiva, non solo perché contribuisce alla crescita culturale del Paese, ma anche perché costituisce uno dei presupposti per il pieno esercizio dei diritti democratici dei cittadini, i quali sono chiamati a compiere sempre più spesso scelte (ambiente, genetica, energia, etc.) che, per essere davvero autonome e responsabili, implicano una solida cultura scientifica di base. 2

14

paola radici colace

Per potenziare la cultura scientifica e tecnica, dobbiamo ancora incontrarci con l’emozione di una scoperta, col fascino della casualità che ha portato Cristoforo Colombo, partito per trovare una nuova via per le Indie, a scoprire l’America, o con l’imprevisto della mela caduta sulla testa di Newton, che non immaginava certo che proprio da lì sarebbe nata la legge di gravità. Si confida pertanto che, nell’attuale fase di riscoperta della cultura scientifica e tecnica dei Greci e dei Romani, il Dizionario, con la sua impostazione rigorosamente scientifica ma anche con la varietà e quantità di temi che si è riusciti a mettere insieme, possa essere di aiuto per la rivitalizzazione di un rapporto con la scienza e la tecnica in Grecia e a Roma, nel quale ritroveremo le radici della nostra cultura europea.

nota del coordinatore del progetto di ricerca prin 2006

I

l Progetto di Ricerca di Interesse Nazionale prin 2006 Dizionario della Scienza e della Tecnica in Grecia e a Roma. Autori e testi, Realien, saperi alle radici della cultura europea (Coordinatore Nazionale : Paola Colace ; Responsabili di Unità : Università di Messina, Paola Colace ; Università di Salerno, Silvio M. Medaglia ; Università di Perugia, Livio Rossetti ; Università di Trieste, Sergio Sconocchia) è l’ultimo prodotto di un gruppo di ricerca che negli ultimi venti anni ha lavorato in maniera continua ed integrata alle materie che costituiscono il Dizionario, organizzando numerose iniziative di incontri, scambi e formazione e realizzando varie pubblicazioni scientifiche. In questo arco di tempo :  













a) sono stati realizzati i seguenti convegni: - due sui lessici tecnici greci e latini 1 - tre sulla letteratura scientifica e tecnica 2 - quattro sul tema “Lingue tecniche del greco e del latino” 3 b) sono stati istituiti due dottorati specifici 4 c) è stata pubblicata la Letteratura Scientifica e Tecnica in Grecia e a Roma, 5 la prima nel suo genere nel panorama di studi internazionale d) sono stati progettati, finanziati ed attuati vari programmi di ricerca nazionale (prin) 6 1   Atti del I Seminario di Studi sui Lessici Tecnici Greci e Latini (Messina, 8-10 Marzo 1990), a cura di P. Radici Colace e M. Caccamo Caltabiano, « AAPel », suppl. n. 1, lxvi, 1990, Messina, 1991 ; Atti del ii Seminario Internazionale sui Lessici Tecnici Greci e Latini (Messina 14-16 Dicembre 1995), a cura di P. Radici Colace, « AAPel », suppl. n. 1, lxxi, 1995, Napoli-Messina, 1997. 2   Atti del Seminario Internazionale di Studi Letteratura Scientifica e Tecnica Greca e Latina (Messina, 29-31 ottobre 1997) a cura di P. Radici Colace e A. Zumbo, Messina, 2000 ; Seminario Internazionale Ecdotica, lessicografia e teorie letterarie di testi scientifici e tecnici, a cura di P. Radici Colace e A. Zumbo, Università di Messina, 2000, (gli Atti sono in c.d.s.) ; Seminario Internazionale di Studi Letteratura Scientifica e Tecnica Greca e Latina : lessico tematico e cultura materiale, a cura di P. Radici Colace e A. Zumbo, Università di Messina, 2001 (gli Atti sono in c.d.s.). 3   Lingue tecniche del greco e del latino. Atti del i Seminario internazionale sulla letteratura scientifica e tecnica greca e latina, a cura di S. Sconocchia, L. Toneatto, con la collaborazione di D. Crismani e P. Tassinari, Trieste, 1993 ; Lingue tecniche del greco e del latino. Atti ii Seminario sulla Letteratura scientifica e tecnica greca e latina (Trieste 4-5 ottobre 1993), a cura di S. Sconocchia e L. Toneatto, Bologna, 1997 ; Lingue tecniche del greco e del latino. Atti iii Seminario Internazionale sulla Letteratura Scientifica e Tecnica Greca e Latina (Trieste, 18-20 aprile 1996), a cura di S. Sconocchia e L. Toneatto, Bologna, 2000 ; Testi medici latini antichi. Le parole della medicina : lessico e storia. Atti del vii Convegno Internazionale (Trieste 11-13 Ottobre 2001). Lingue tecniche del greco e del latino iv, dir. e coord. di S. Sconocchia e F. Cavalli, a cura di M. Baldin, M. L. Cecere, D. Crismani, Bologna, 2004. 4   Dottorato di ricerca in Letteratura scientifica e tecnica greca e latina (sede amministrativa : Perugia ; sedi attualmente consorziate : Trieste, Messina, Roma Tor Vergata), a partire dal 1990 ; Dottorato di ricerca in Filologia dei testi scientifici, tecnici e documentari : ecdotica, esegesi e lessicografia (sede amministrativa : Messina ; sede consorziata : Napoli) dal 1998 al 2006. 5   Letteratura scientifica e tecnica di Grecia e Roma (lst), diretta da C. Santini, a cura di I. Mastrorosa e A. Zumbo, Roma, 2002. 6   Paola Colace è stata : • Coordinatore nazionale del Progetto prin 2006 dal titolo Dizionario della Scienza e della Tecnica in Grecia e a Roma. Autori e testi, Realien, saperi alle radici della cultura europea (Università coinvolte : Messina, Salerno, Trieste, Perugia) ; • Coordinatore nazionale del Progetto cofin murst 2000 dal titolo : Cultura materiale del mondo antico e  















































16

nota del coordinatore del progetto di ricerca cofin 2006

lessicografia informatizzata : vasi, monete, ottica, Realien teatrali (Università coinvolte : Messina, Lecce, Salerno, Scuola Normale Superiore di Pisa) ; • Responsabile dell’Unità di Messina del Progetto cofin murst 1998 dal titolo : Cultura materiale del mondo antico e lessicografia informatizzata (Università coinvolte : Messina, Lecce,  Scuola Normale Superiore di Pisa). Sergio Sconocchia è stato : • Coordinatore nazionale del Progetto cofin murst 2000 dal titolo Corpus lessicale della medicina antica greca e latina (Università coinvolte : Trieste, Messina, Perugia). Sergio Sconocchia e Antonino Zumbo sono stati Responsabili di Unità locali nei seguenti Progetti Nazionali : • Coordinatore Nazionale del Progetto Ubaldo Pizzani, cofin murst 1995, dal titolo Edizioni, commentari, studi lessicografici e strutturali di opere di letteratura scientifica e tecnica greca e romana (Università coinvolte: Perugia, Trieste, Messina) ; • Coordinatore Nazionale del Progetto Ubaldo Pizzani, cofin murst 1996, dal titolo Fonti e struttura dei libri ‘medicinali’ della ‘Naturalis historia’ di Plinio il Vecchio (Università coinvolte : Perugia, Trieste, Messina) ; • Coordinatore Nazionale del Progetto Ubaldo Pizzani, cofin murst 1998, dal titolo Lessico tematico della letteratura alieutica e della botanica medica greca e latina (Università coinvolte Perugia, Trieste, Messina) ; Antonino Zumbo è stato Responsabile dell’Unità di Messina nel Progetto cofin murst 2000, Coordinatore Nazionale Sergio Sconocchia, dal titolo Corpus lessicale della medicina antica greca e latina (Università coinvolte : Trieste, Messina, Perugia). Silvio M. Medaglia è stato Responsabile di Unità locale nel seguente Progetto Nazionale : • Coordinatore Nazionale del Progetto Paola Colace, cofin murst 2000, dal titolo Cultura materiale del mondo antico e lessicografia informatizzata : vasi, monete, Realien teatrali (Università coinvolte : Messina, Salerno, Trieste, Perugia).  































*  Per le citazioni degli autori antichi e delle relative opere sono state utilizzate, generalmente, le abbreviazioni presenti in lsj e in thll; in pochi casi un criterio di maggiore chiarezza ha consigliato l’uso di abbreviazioni diverse. **  Le voci Agrimensori e testi di agrimensura, Idraulica, Meccanica e Pneumatica sono rielaborazioni di contributi già pubblicati dagli stessi autori in lst; la voce Caccia riprende elementi presenti in longo 1989b.

elenco generale delle voci Abaco: C. Lupini Accademia: L. Rossetti, P. Tarantino Acquicoltura: V. Zanusso Acustica: M. Lazzeri Aezio di Amida: A. M. Ieraci Bio Agenti atmosferici: E. Lelli Agostino: F. Fiorucci Agricoltura: E. Lelli Agrimensori e testi di agrimensura: L. Toneatto Agrimensura: L. Toneatto Agronomi antichi: E. Lelli Alchemici, processi: C. Lupini Alchemici, simboli: C. Lupini Alchemici, strumenti: C. Lupini Alchimia: C. Lupini Alchimisti antichi: C. Lupini Alcmeone di Crotone: L. Radici Alessandro di Tralle: F. Ragni Algebra: F. Marcacci Alimentazione in Grecia: E. Salza Prina Ricotti Alimentazione in Roma: E. Salza Prina Ricotti Altalena: F. Fiorucci Ammone: P. Radici Colace Ammonio di Alessandria: C. Lupini Anassagora: D. Panchenko Anassimandro: D. Panchenko, L. Rossetti Anassimene: D. Panchenko, L. Rossetti Anatomia: S. Sconocchia Anatomia veterinaria: V. Scipinotti Andrea di Caristo: F. Ragni Andromaco di Creta: P. Tempone Andromaco il Giovane: P. Tempone Animali velenosi: L. Radici Anonymus Londinensis: M. Baldin Antifonte Sofista: S. Giombini Antigono di Nicea: C. Lupini Antilogia: S. Giombini Antioco di Atene: C. Lupini Anubio di Diospoli: C. Lupini Apicio: A. Romano Apicoltura: C. Benedetti Apollinario: C. Lupini Apollodoro di Damasco: L. Benedetti Apollonio Cizio: D. Crismani Apollonio di Perga: L. Radici, P. Tarantino Apollonio Mys: V. Russo Arato di Soli: C. Lupini Aratro: E. Lelli Aratura: E. Lelli Arboricoltura: E. Lelli Arbusti: E. Lelli Archeoastronomia: M. Francaviglia, M. G. Lorenzi, G. Magli

Archeologia subacquea: C. Beltrame Archigene: F. Ragni Archimede: L. Radici, P. Tarantino Archita: L. Radici, P. Tarantino Architetti: S. Pirrotti Architetto: S. Pirrotti Architettura: P. Radici Colace Architettura funeraria: N. Cacopardo Architettura minoico-micenea: S. Pirrotti Architettura sacra: P. Radici Colace Architettura teatrale: P. Radici Colace Areteo di Cappadocia: L. Radici Ariete: L. Benedetti Aristarco di Samo: L. Radici Aristotele: L. Rossetti, F. Marcacci, M. Vegetti Aritmetica: P. Tarantino Arpocrazione: D. Crismani Arriano: F. Fiorucci Artemidoro di Daldi: F. Cuzari Asclazione: C. Lupini Asclepiade di Mirlea: C. Lupini Asclepiade di Prusa: F. Cavalli Asclepiodoto: F. Fiorucci Assiomatica: F. Marcacci Astrampsico: C. Lupini Astrazione: C. Maggi Astrolatria: C. Lupini Astrologia: P. Radici Colace Astrologica, letteratura (Grecia): P. Radici Colace Astrologica, letteratura (Roma): P. Radici Colace Astrologiche, metafore: P. Radici Colace Astrologiche, previsioni: C. Lupini Astrologici, compendi e compilazioni: P. Radici Colace Astrologici, manoscritti: P. Radici Colace Astrologico, lessico: P. Radici Colace Astrologo dell’anno 379: C. Lupini Astronomia: C. Santini Ateneo Meccanico: F. Fiorucci Attrezzi agricoli: E. Lelli Azienda agricola: E. Lelli Bagno: S. Sconocchia Balbillo (o Barbillo) di Efeso: C. Lupini Balista/Ballista: L. Benedetti, F. Fiorucci Biblioteche antiche: R. Otranto Bipalium: A. De Angelis Birra: F. Fiorucci Bitone: F. Fiorucci Botanica: E. Lelli Bovini: G. Parlato Brisone di Eraclea: S. Giombini

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elenco generale delle voci

Caccia: O. Longo Cadavere: F. Cuzari Caldei: C. Lupini Calendario dei lavori: E. Lelli Cantiere edile (età ellenistica): S. Pirrotti Capo: S. Sconocchia Caprini: M. Martellini Carne, consumo di: E. Lelli Cassio Felice: F. Fiorucci Catapulta: L. Benedetti Catasterismo: C. Lupini Catone: E. Lelli Celio Aureliano: D. Monacchini Celso: S. Sconocchia Ceramica vascolare: P. Radici Colace Cereale: M. Serangeli Cervello: S. Sconocchia, F. Cavalli Cheremone di Alessandria: C. Lupini Chirurgia: D. Monacchini, S. Sconocchia Chirurgia veterinaria: V. Scipinotti Clima: G. Panessa Columella, Lucio Giunio Moderato: F. Boldrer Concime: G. Tozzi Conone di Samo: C. Lupini Conservazione degli alimenti: E. Lelli Contravveleni composti: L. Radici Corpi celesti (silenzio, sonorità): P. Radici Colace Cosmetica: L. Radici Cosmologia: L. Rossetti Costruzione (sistemi e tecniche): S. Pirrotti Crateva: D. Crismani Critodemo: C. Lupini Ctesibio: L. Radici Cuore: S. Sconocchia, F. Cavalli Decorative, tecniche: N. Cacopardo Demetrio Falereo: L. Benedetti Democede di Crotone: D. Monacchini Democrito: L. Radici, L. Rossetti Diade: F. Fiorucci Dietetica: S. Sconocchia Diocle di Caristo: F. Fiorucci Diofanto: P. Tarantino Dioscuride/Dioscoride: D. Crismani Diritto: G. Crifò, L. Rossetti Dissezione: F. Cuzari Divisione: P. Tarantino Dogmatici: F. Cavalli Domnino: C. Maggi Doroteo di Sidone: P. Radici Colace Eclisse: C. Lupini Edilizia commemorativa romana: S. Pirrotti Edilizia commerciale: S. Pirrotti Edilizia privata: S. Pirrotti Edilizia pubblica: P. Radici Colace

Edilizia sportiva e ricreativa: S. Pirrotti Efestione di Tebe: P. Radici Colace Elepoli: F. Fiorucci Eliano: F. Fiorucci Eliodoro: D. Crismani Elio Promoto: D. Crismani Embriologia e sviluppo dell’embrione: F. Cavalli, S. Sconocchia Empedocle: L. Rossetti Empirici: D. Monacchini Enea Tattico: F. Fiorucci Entimema: S. Giombini Epicuro: L. Rossetti Epigene di Bisanzio: C. Lupini Episintetici o eclettici: D. Monacchini Epistolografia (medica): F. Fiorucci Equini: G. Parlato Eraclide di Taranto: M. Baldin Eraclide Pontico: L. Rossetti Eraclito: L. Rossetti Erasistrato: D. Crismani Eratostene di Cirene: L. Radici Erbe: E. Lelli Erbe velenose: L. Radici Ermete Trismegisto: C. Lupini Ermetica, letteratura: C. Lupini Erodico di Selimbria: M. N. Iulietto Erofilo di Calcedonia: L. Radici, D. Crismani Erone di Alessandria: L. Radici, L. Benedetti Esaustione (metodo di): P. Tarantino Esecuzione musicale: S. Grandolini Esiodo: G. Parlato Esplorazioni estreme: S. Bianchetti Euclide: F. Marcacci Eudemo: D. Crismani Eudemo di Rodi: L. Rossetti Eudosso: P. Tarantino Eutocio di Ascalona: C. Lupini Farmacologia: S. Sconocchia, D. Monacchini, M. A. Cervellera, M. Baldin Febbre: S. Sconocchia Fegato: S. Sconocchia, F. Cavalli Filino di Cos: L. Radici Filolao: L. Rossetti Filone di Bisanzio: F. Fiorucci Filosofia: L. Rossetti Fiori: G. Parlato Firmico Materno: C. Lupini Fisica: S. M. Medaglia Fisiognomica: F. Stok Fisiologia: S. Sconocchia, F. Cavalli Frutti: E. Lelli Funghi: F. Fiorucci Fuochi e tecniche incendiarie: F. Fiorucci, G. Lupini

elenco generale delle voci Galenismo: D. Monacchini Galeno: D. Crismani, D. Monacchini Gargilio Marziale: B. Maire Gastraphetes: F. Fiorucci Gemino di Rodi: C. Lupini Geografia: P. Janni Geometria: F. Marcacci Geoponica: E. Lelli Germanico Giulio Cesare: C. Lupini Ghiande missili: L. Benedetti Giamblico: C. Maggi Giardino: G. Parlato Ginecologia: S. Sconocchia Giuliano di Laodicea: C. Lupini Gladio: G. Lupini Ibrido: P. Li Causi Idraulica: G. Argoud Idrofobia: S. Sconocchia Idropisia: S. Sconocchia Infrastrutture e servizi: S. Pirrotti Insetti nocivi: G. Tozzi Intestino: S. Sconocchia, F. Cavalli Ipazia: C. Maggi Ipparco di Nicea: L. Radici Ippocrate: D. Crismani Ippocrate di Chio: L. Radici Ippodamo di Mileto: E. Romano Ipsicle di Alessandria: C. Lupini Ittero: S. Sconocchia Lavori agricoli: E. Lelli Lebbra: S. Sconocchia Legno: E. Lelli Legumi: F. Fiorucci Liceo: L. Rossetti Lido, Giovanni Laurenzio: C. Lupini Liquidi organici: S. Sconocchia, F. Cavalli Logica: F. Marcacci Luciano: C. Lupini Lucrezio: G. Solaro Malattie delle piante: E. Lelli Malattie mentali: S. Sconocchia Manetone: P. Radici Colace Manilio: C. Lupini Manodopera agricola: E. Lelli Mantica: F. Cuzari Marcello Empirico: S. Sconocchia Massimo di Efeso: P. Radici Colace Matematica: F. Marcacci Materiali edili: S. Pirrotti Materiali scrittori: R. Pintaudi Meccanica: Ph. Fleury Medicina: S. Sconocchia Medicina Plinii: F. Cavalli Medico: D. Monacchini

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Melisso di Samo: F. Marcacci Melotesia zodiacale: C. Lupini Menemaco: D. Crismani Metodici: S. Sconocchia Metrologia: C. Lupini Miasma: F. Cuzari Microcosmo e macrocosmo: P. Radici Colace Milza: S. Sconocchia, F. Cavalli Mineralogia: A. Mottana Mnemotecnica: S. Giombini Morte, concezione della: F. Cuzari Mulomedicina Chironis: D. Monacchini Musica: S. Grandolini Nautica: P. Janni Nechepso e Petosiride: C. Lupini Nervi: S. Sconocchia Nicandro Colofonio: A. Mottana Nicomaco: C. Maggi Nigidio Figulo: C. Lupini Numeri: C. Lupini Numeri ideali e numeri aritmetici: C. Maggi Occhio: S. Sconocchia, F. Cavalli Olivicoltura: F. Giannachi Onager: F. Fiorucci Onasandro: F. Fiorucci Oppiano di Apamea: A. Zumbo Oppiano di Cilicia: A. Zumbo Orecchio: S. Sconocchia Orfeo: A. Mottana Organi genitali: S. Sconocchia Oribasio: F. Fiorucci Ortaggi: C. Bernaschi Ottica: S. M. Medaglia Ovini: M. Martellini

Paideia musicale ed ethos: S. Grandolini Palladio, Rutilio Tauro Emiliano: A. De Angelis Pane: F. Fiorucci Paolo di Alessandria: C. Lupini Paolo di Egina: D. Crismani Pappo: L. Radici, C. Maggi Parmenide: L. Rossetti, F. Marcacci Pastorizia: M. Martellini Patologia: S. Sconocchia Patologia veterinaria: V. Scipinotti Pelagonio: D. Monacchini Perì physeos: L. Rossetti Periplo: F. Prontera Pesca: V. Zanusso Pesce, consumo di: V. Zanusso Pestilenza: F. Cuzari, S. Sconocchia Physica Plinii: F. Cavalli Piante acquatiche: E. Lelli Piante aromatiche: D. Di Petrillo Pilum: G. Lupini

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elenco generale delle voci

Pitagora: L. Rossetti Platone: L. Rossetti, P. Tarantino Plinio il Vecchio: M. N. Iulietto Plotino: C. Maggi Plutarco: E. Lelli Pneumatica: J.-Y. Guillaumin Pneumatici: D. Monacchini Podagra: S. Sconocchia Polemologia: L. Benedetti Polieri: P. Janni Polmoni: S. Sconocchia, F. Cavalli Porfirio di Tiro: C. Lupini Porti e fari: P. Janni Posidonio di Apamea: E. Vimercati Prassagora: D. Crismani Presocratici: L. Rossetti Previsioni atmosferiche: E. Lelli Proclo: C. Maggi, C. Lupini Prodico di Ceo: M. N. Iulietto Protagora di Nicea: C. Lupini Psello: A. Mottana Pseudo-Alessandro di Afrodisia: D. Crismani Pseudo-Igino (de munitionibus castrorum): F. Fiorucci Pseudo-scienza e credenze: F. Cuzari Pugnale: G. Lupini Putrefazione: F. Cuzari Reni: S. Sconocchia Retorio: C. Lupini Riproduzione vegetale: E. Lelli Rufo di Efeso: F. Fiorucci Salse: A. Romano Sambuca: F. Fiorucci Scheletro: S. Sconocchia Scribonio Largo: S. Sconocchia Scrittori di Architettura: E. Romano Scrittori greci di Architettura nel VII libro del D e Architectura di Vitruvio:E. Romano Scudo: G. Lupini Scuole mediche: S. Sconocchia Semeiotica medica: S. Sconocchia Semiologia veterinaria: V. Scipinotti Seneca, Lucio Anneo: P. Parroni Senofane: D. Panchenko Senofonte: L. Rossetti Sessualità: S. Sconocchia Sestio Nigro: F. Ragni Sillogismo: F. Marcacci Simone: L. Rossetti Sinastria: C. Lupini Sintesi: P. Tarantino Sismologia: F. Cuzari Sogno incubatico: F. Cuzari Solidi speciali: P. Tarantino Sonno: S. Sconocchia

Sorano di Efeso: D. Monacchini Spazio, concezione dello: S. Pirrotti Stelle, scrittura delle: P. Radici Colace Stelle, voci delle: P. Radici Colace Stomaco: S. Sconocchia, F. Cavalli Strabone: P. Janni Stratagemmi: F. Fiorucci Strumenti chirurgici: D. Monacchini, S. Sconocchia Strumenti musicali: S. Grandolini Suffrutici: E. Lelli Suino: C. Diomedi Tagete: C. Lupini Talete: L. Radici, F. Marcacci, L. Rossetti Teeteto: P. Tarantino Temisone di Laodicea: F. Fiorucci Teodoro Prisciano: F. Fiorucci Teofrasto: L. Rossetti, E. Lelli, D. Crismani, A. Mottana Teone Alessandrino: L. Radici Terapeutica: S. Sconocchia, V. Scipinotti Terreno: E. Lelli Tessalo di Tralle: D. Crismani Testuggini ed altre protezioni: F. Fiorucci Teucro di Babilonia: C. Lupini Tisi: S. Sconocchia Tolleno: F. Fiorucci Tolomeo: L. Radici Torsione: F. Fiorucci Tossicologia: L. Radici Traduzioni (mediche): F. Fiorucci Trapano: F. Fiorucci Trasillo di Alessandria: C. Lupini Trigonometria: F. Marcacci Urbanistica: S. Pirrotti Varrone, M. Terenzio: A. Barbieri, E. Lelli Vegezio: L. Benedetti Veleni, uso bellico: F. Fiorucci Veleni e contravveleni: L. Radici Ventre: S. Sconocchia Vescica: S. Sconocchia Veterinaria: V. Scipinotti Vetro: N. Cacopardo Vettio Valente di Antiochia: C. Lupini Vindiciano: F. Fiorucci Virgilio: F. Moliterno Vita, concezione della: F. Cuzari Viticoltura: E. Lelli Vitruvio: E. Romano Vivisezione: F. Cuzari Vomito: S. Sconocchia Zecche e conii: M. Caccamo Caltabiano Zenone di Elea: L. Rossetti, F. Marcacci Zoologia: A. Zumbo

dizionario

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A Abaco [a[bax, abacus]. L’a. è un antico strumento di calcolo, utilizzato come ausilio per effettuare operazioni matematiche. È il primo strumento usato per i calcoli sin dal 2000 a.C. in Cina, per poi diffondersi anche tra i Greci, gli Etruschi e i Romani. Il termine proviene molto probabilmente dall’ebraico ’ābāq, ‘polvere’ o ‘sabbia’, infatti il termine originario si riferiva ai primi abachi costituiti da una tavoletta con della sabbia. Si trattava, infatti, di tavolette contornate da una cornice a bordi rialzati e riempita da sabbia fine su cui si delimitavano le colonne e si tracciavano i segni delle cifre. Un altro tipo di a. usato a Roma impiegava uno strato di cera nera al posto della polvere e pare che fosse spesso impiegato per fini didattici così come si evince da un passo di Orazio. [1] Ad ogni modo, i materiali usati per la costruzione degli abachi e la loro foggia costruttiva variano moltissimo a seconda del luogo e dell’epoca storica. Il funzionamento si basa sul principio fondamentale di ogni sistema di numerazione posizionale, cioè che il valore di una cifra (nel caso dell’a. la cifra è rappresentata da un piccolo sasso o un gettone) dipende dal posto che occupa. Questo è un fatto molto significativo: infatti, sebbene da un lato il mondo classico non conoscesse un sistema di numerazione posizionale [→numeri, 1], ma si servisse di sistemi di numerazione simbolica non adatti a svolgere operazioni matematiche, dall’altro lato ci si serviva necessariamente di uno strumento che permetteva di eseguire agevolmente i calcoli in base ad un principio posizionale, cioè simile a quello che utilizziamo con le cosiddette ‘cifre arabe’. Infatti, per ottenere ad esempio il numero 6021 sulle colonne di un a. in cui ogni colonna indica unità, decine, centinaia, migliaia, etc., bisognava sistemare un gettone sulla colonna delle unità, due gettoni su quella delle decine, nessun gettone su quella delle centinaia e sei gettoni su quella delle migliaia. Il calcolo avveniva aggiungendo o sottraendo i gettoni per poi ‘leggere’ il risultato complessivo. [2] I contabili Greci e Romani si ponevano ai lati della tavola e sistemavano gettoni oppure sassolini (yh`foi o calculi) all’interno di un certo numero di colonne delimitate da linee ; ogni pezzo corrispondeva ad una  





semplice unità. Alcuni autori, tra cui Cicerone, [3] hanno chiamato questi gettoni aera, alludendo al materiale normalmente utilizzato a partire dall’epoca imperiale, cioè il bronzo. Lo storico greco Polibio, alludendo a questo strumento e alle modalità d’impiego, faceva dire a Solone le seguenti parole: « Accadde infatti ai cortigiani come alle pietruzze che servono a fare i conti : queste secondo la volontà di chi fa i calcoli hanno il valore di un calco oppure di un talento e così i cortigiani ad un semplice cenno del re possono divenire felici e subito dopo degni di commiserazione ». [4] Descrizioni dell’a. greco non arrivano solo dalla letteratura, ma anche dall’iconografia : il vaso detto ‘di Dario’, proveniente da Canosa di Puglia e risalente al 350 a.C. circa, tra le varie raffigurazioni che descrivono le attività di Dario durante le spedizioni militari, reca anche un dettaglio in cui  











Fig. 1. Abaco di Salamina. Un rettangolo di marmo, di circa 149 x 75 centimetri è l’unico tavolo di calcolo di origine greca (Ifrah 2008, 408 fig. 16.2).

si vede il tesoriere del re persiano che calcola, servendosi di un a., l’ammontare di un tributo imposto ad una città. Un reperto risalente al v secolo a.C., detto ‘abaco di Salamina’ rinvenuto sull’isola nel 1846, permette di avere un’idea diretta e quindi più chiara dello strumento. Si tratta di una lastra di marmo bianco sulla quale sono tracciate cinque linee parallele e altre undici tagliate in due da una linea perpendicolare. Inoltre, la terza, la sesta e la nona di queste linee sono contrassegnate da croci nel punto di intersezione. Su tre lati della lastra sono sistemati tredici simboli numerici che corrispondono a quelli acrofonici della numerazione attica [→numeri, 2] nel seguente ordine : T C H D I T C. Questi segni servono per notare somme espresse in talenti, dracme, oboli e calchi, cioè multipli e sottomultipli delle drac 

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accademia

me ; essi valgono rispettivamente (da sinistra a destra) 1 talento (tavlanton = 6000 dracme), 5000 dracme, 1000 dracme, 500, 100, 50, 10, 5, 1, 1 obolo (1/6 di dracma), 1/2 obolo (1/12 di dracma, scritto con metà della lettera ‘O’ di ojbovlion), 1/4 di obolo (1/24 di dracma, tetarthmovrion) e 1 calco (1/8 di obolo oppure 1/48 di dracma, calkov~). A Roma l’a. a gettoni era costituito da una tavola suddivisa in colonne, ognuna delle quali era associata ad una potenza di dieci : partendo da destra verso sinistra, la prima indicava le unità, la seconda le decine, la terza le centinaia, la quarta le migliaia e così via. Tra i Romani, diversi scritti testimoniano l’uso dell’a. a gettoni, per esempio Marziale : « Coponem laniumque balneumque/, tonsorem tabulamque calculosque/et paucos […] haec presta mihi, Rufe… » (2, 48, 1-7), e Giovenale : « Computat et cevet. Ponatur calculus, adsint/cum tabula pueri ; numera sestertia quinque/omnibus in rebus,  



Fig. 3. Abaco portatile romano. La sua struttura è molto simile a quella del soroban giapponese, tuttora utilizzato (Ifrah 2008, 425 fig. 16.94).













delle oncie e delle frazioni di questa. Fra le due file di scanalature vi sono tracciate orizzontal(105), mente le seguenti sigle : (106), (104), (103), (102), (10), (1), (oncia) e verticalmente, accanto alla scanalatura indicante le frazioni di oncia, dall’alto in basso, (1/2 oncia), (1/4 di oncia), (1/3 di oncia). L’a. cadde in disuso per la facilità di calcolo consentita dalle cifre arabe.  

Note. [1] Hor. sat. 1, 6, 71-75. – [2] Per una descrizione dettagliata delle operazioni di calcolo vd. Ifrah 2008, 407-427. – [3] Cic. Phil. frg. 5, 59 Müller. – [4] 5, 26, 13. Bibliografia. Ifrah 2008, Tybjerg 2008.

Carmelo Lupini Fig. 2. Ricostruzione di un abaco romano a gettoni (Ifrah 2008, 413 fig. 16.80).

numerentur deinde labores » (9, 40-42). Nella sua forma più perfezionata, l’a. romano era costituita da una serie di aste o bacchette nelle quali erano inserite palline (tonde o schiacciate) o dischetti. Le bacchette erano disposte su un piccolo telaio di forma rettangolare suddiviso in due sezioni di dimensioni diverse. Mentre le palline che scorrevano sulle bacchette della sezione maggiore indicavano sempre le unità dell’ordine corrispondente a ciascuna bacchetta, quelle della sezione minore indicavano invece un multiplo di questa unità, in genere il cinque. Un altro tipo di a. romano era uno strumento portatile di metallo in cui scorrevano delle palline in due file di scanalature apposite : sette di queste erano associate a potenze di dieci e due erano riservate all’indicazione  



Accademia. 1. Generalità. – La prestigiosa istituzione culturale fondata da →Platone ha da sempre un posto di particolare rilievo nell’immaginario collettivo, e non senza motivo, perché ha costituito un primo tentativo, mediamente riuscito, di dar vita a una istituzione in grado non solo di promuovere la cultura superiore e la formazione avanzata, ma anche di sopravvivere al suo fondatore e fungere tra l’altro da biblioteca specializzata. Mentre la localizzazione della scuola è nota grazie al rinvenimento di una pietra di confine recante la dicitura o{ro~ eijmi; th`~ ajkadhmiva~ (Travlos 1971, 42 sgg. ; cfr. Billot 1989), niente di preciso è dato sapere sulle circostanze della fondazione, che ebbe luogo prima della partenza di Platone per la Sicilia nel 387 o al suo ritorno nel 383 a.C. (cfr. Nails 2002, 248). Sappiamo però che all’epoca vennero aperte anche altre scuole, i.a. ad opera di più socratici, e si intuisce facilmente che la coesistenza di più scuole si  

accademia sia tradotta in spinta a caratterizzare e rendere ben identificabile l’insegnamento impartito in ciascuna di esse, e così pure che il filosofo abbia fatto tesoro delle esperienze formative di Sofisti e Socrate, così come di quelle proprie ai pitagorici e ad altre scuole dell’epoca (inclusa la scuola di Isocrate). Che dal punto di vista legale l’A. si sia configurata come un thiasos dedicato al culto delle Muse è fortunata congettura del Wilamowitz che in anni a noi più vicini è stata revocata in dubbio (cfr. Krämer 1983, 4). Che la sede della scuola sia appartenuta personalmente a Platone, che la scuola abbia ben presto espresso non solo uno scolarca (Platone stesso, o un suo sostituto durante i viaggi in Sicilia, e poi dei successori), ma anche presbyteroi e neaniskoi (ossia degli intellettuali già dotati di autorevolezza e non soltanto degli allievi), sono dettagli che emergono sia dal testamento del filosofo (in Diog. Laert. 3, 41-43), sia da notazioni reperite nell’Index Academicorum Herculanensis e in altre fonti. Il tipo di formazione offerto dall’A. abbracciò, forse fin dall’inizio, la →filosofia, la politica, la →matematica, l’→astronomia e sicuramente anche altri ambiti. In particolare un autore comico, Epicrate, indugia nel raffigurarci Platone e allievi mentre provavano a caratterizzare (ajforizovmenoi diecwvrizon, « definendo dividevano ») una varietà di specie animali e vegetali (fr. 10 K.-A. = III F 26 Giannantoni, da Ateneo). Il comico prova a volgere la cosa in ridicolo ma, coerentemente con lo schema teorico delineato in più dialoghi platonici (Phdr. 277b ; cfr. Sph. 253de), qui il gruppo di ricerca appare impegnato nello stabilire che razza di vegetale sia, per esempio, la zucca, che non è né un’erba né un albero. Notoriamente, se la moderna scienza zoologica e botanica ha investito energie imponenti nel tentativo di classificare secondo criteri non approssimativi, già →Aristotele e →Teofrasto dedicarono energie cospicue all’individuazione e caratterizzazione di alcune centinaia di specie animali il primo e vegetali il secondo. Che nel tempo l’A. abbia espresso interessi diversi è persino ovvio. Qui basti ricordare che negli ultimi anni di vita del fondatore, e subito dopo, l’A. si distinse quale centro di accreditamento e propagazione della religione astrale in virtù dell’idea che anche i sette astri mobili si muovono di moto circolare uniforme ed esprimono una perfezione eminentemente divina.  





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Come è noto, Aristotele recepì appieno questa impostazione e la accreditò ulteriormente per il fatto di caratterizzare lo spazio astrale come quinta essenza incorruttibile e il moto dei corpi celesti come circolare, e di teorizzare l’esistenza di una lunga teoria di strutture sferiche concentriche (ma non coassiali) e trasparenti (quindi invisibili), che avrebbero presieduto al moto degli astri (→cosmologia, 4). Ai tempi di Aristotele – cioè durante lo scolarcato di Speusippo (348/7-339/8) e Senocrate (339/8314/3) – la scuola espresse dunque una sorta di sua ortodossia filosofico-religiosa. Invece, durante lo scolarcato di Polemone (314/3-276/5) e Cratete (sul quale ultimo si hanno dati cronologici solo approssimativi) venne privilegiato il confronto con l’etica stoica, ma fu poco più che una parentesi, in quanto, a partire dallo scolarcato di Arcesilao (che si protrasse fino al 241/0 a.C.), si affermò un interesse primario per i temi epistemologici, sempre in sostanziale opposizione all’ortodossia stoica. La svolta, se da un lato fece parlare di “seconda A.”, quasi che la scuola fosse stata rifondata, dall’altro favorì quell’assimilazione di ‘accademico’ a ‘scettico’, che deve non poca della sua fortuna alla notorietà degli Academica di Cicerone nell’età moderna. In effetti il giovane Cicerone si recò ad Atene (79 a.C.) e, in quanto allievo di Antioco di Ascalona, frequentò una istituzione di tipo accademico, ma in una fase in cui “la scuola era già sulla via della disintegrazione, perso il luogo fisico cui era stata legata al suo inizio, modificata più e più volte la dottrina nelle sue varie fasi, nate varie discordie sulla successione e sviluppatasi la tendenza dei discepoli a fondare scuole autonome” (Natali 2005, 242). Si può dire pertanto che Cicerone fu testimone dell’ultima fase di vita dell’A. Livio Rossetti 2. La matematica nell’Accademia antica. – Nel iv sec. l’A. fu sede di uno straordinario incremento delle conoscenze matematiche e di uno sviluppo maturo del pensiero scientifico. Nell’istituzione fondata da Platone affluirono i più eminenti intellettuali dell’epoca : alcuni si distinsero per l’attività filosofica ; altri per la ricerca in campo aritmetico, geometrico ed astronomico ; altri ancora prevalentemente per l’attività politica. Lo stile di vita comunitario era scandito da un costante confronto dialettico tra i membri su questioni che afferivano ai  





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differenti settori scientifici, senza imposizioni dottrinali o rigide divisioni disciplinari. L’attenzione che Platone ha riservato all’aritmetica ed alla geometria nelle sue opere, soprattutto nella Repubblica, è segno della centralità da esse occupata nell’organizzazione scientifica dell’A. L’attività di insegnamento e la promozione degli studi matematici rientravano in un grande progetto che, attraverso la formazione di una nuova classe dirigente, mirava ad un rinnovamento dello stato. L’ideale di una finalità prevalentemente politica dell’educazione matematica incentivò probabilmente le condizioni materiali per la costituzione di un nutrito gruppo di ricerca, composto da alcune delle menti più brillanti della scienza greca, in grado di mettere mano ad una complessiva e duratura riforma dell’aritmetica e della geometria. La vivacità intellettuale che contraddistinse gli ambienti matematici dell’Accademia, certamente accompagnata dalla redazione di numerosi trattati, è purtroppo documentata da un numero esiguo di testimonianze e frammenti, che peraltro forniscono un’idea sommaria degli avanzamenti prodotti e delle intuizioni teoriche raggiunte. Risulta così un compito particolarmente arduo stabilire fino a che punto gli studiosi dell’Accademia contribuirono in modo originale alla soluzione di problemi classici ed alla formulazione di nuove teorie, alcune delle quali trovarono di fatto spazio e giustificazione nella stesura degli Elementi di →Euclide, mentre altre furono destinate ad essere obliate. Il lavoro interpretativo è inoltre reso ancora più impervio dalle incertezze nel verificare l’attendibilità di molte testimonianze, le quali furono elaborate in età parecchio posteriori al iv secolo, nella maggior parte dei casi riprendendo informazioni rimaneggiate da più intermediari. Le lacune presenti nella documentazione a nostra disposizione non impediscono tuttavia di individuare tre principali linee direttrici attraverso le quali ripercorrere l’attività dei matematici nell’Accademia : la conduzione di ricerche e il conseguimento di ragguardevoli avanzamenti nei settori dell’→aritmetica, della →geometria piana e solida e dell’→astronomia ; la rielaborazione e la formulazione di procedimenti per la soluzione di problemi ; la riflessione sullo statuto epistemologico delle proposizioni matematiche. Il momento unificante di questa tripartizione può essere rintracciato nella progressiva definizione  





di un modello di dimostrazione, verso cui, non sempre in modo unanime ed unilaterale, sembrano indirizzati gli sforzi teorici degli studiosi dell’Accademia. Tra i risultati più significativi a livello dei contenuti si possono annoverare la trattazione degli irrazionali e la definizione dei solidi regolari ad opera di →Teeteto ; la teoria delle proporzioni formulata da →Eudosso ; la scoperta delle sezioni coniche effettuata da Menecmo ; la costruzione e l’applicazione della quadratrice da parte di Dinostrato. Poiché la presentazione dell’opera di Teeteto e di Eudosso è svolta in riferimento alle rispettive voci contenute nel presente dizionario, sono di seguito illustrati i principali contributi dei restanti studiosi elencati. Menecmo evidenziò per primo che la parabola, l’iperbole e l’ellisse sono generate dall’intersezione tra un cono ed un piano non parallelo alla base del cono stesso. La scoperta delle sezioni coniche e la loro applicazione in geometria si inscrive nel tentativo di risolvere il problema dell’individuazione di due medie proporzionali tra due linee rette, al fine di effettuare la duplicazione del cubo (10 Schm.; [Eratosthenes] Epist. ad Ptolom. ap. Eutoc. Comm. in Archimed. p. 88 Heiberg = 12 D 1b [1f Lasserre]). →Eutocio riporta che Menecmo escogitò al riguardo, due soluzioni, individuando in entrambi i casi un determinato punto come intersezione tra due coniche : nel primo tentativo si avvalse di una parabola e di un’iperbole rettangolare ; nel secondo adoperò due parabole (12 D 3 L.). L’attribuzione di quest’ultima soluzione a Menecmo è stata tuttavia opportunamente messa in discussione da G. J. Toomer sulla base di quanto riportato in un testo di Diocle, recentemente ritrovato nella versione araba (Toomer 1976, 169-170). Nonostante l’ellisse non intervenga nella trattazione specifica del quesito, si può supporre verosimilmente che Menecmo affrontò lo studio e la definizione delle proprietà di tutte e tre le sezioni coniche, la cui denominazione fu però stabilita in epoca posteriore. L’ipotesi trova riscontro sia in un epigramma di Eratostene, nel quale si invita a non cercare di tagliare il cono nelle triadi di Menecmo (12 D 1 L.), sia nella menzione dell’ellisse in un problema pseudoaristotelico, che conferma la notorietà della curva presso gli studiosi accademici (Arist. Pr. 912a13). Si può dunque attendibilmente  









accademia attribuire a Menecmo la descrizione di ciascuna sezione secondo il procedimento riportato da Eutocio sulla scorta del racconto di →Gemino : un piano perpendicolare all’apotema di un cono genera una parabola se taglia un cono rettangolo, un’iperbole se taglia un cono ottusangolo e un’ellisse se taglia un cono acutangolo (12 D 2b L.). →Plutarco rende nota la disapprovazione di Platone nei confronti delle risoluzioni di Eudosso, Archita e Menecmo a proposito del problema delle medie proporzionali, in quanto tutte elaborate con l’ausilio di strumenti meccanici, che radicano la geometria in un ambito puramente sensibile, distogliendo i matematici dallo studio delle forme eterne e immateriali (12 D 1e L.). La notizia riportata non sembra però essere molto convincente, in primo luogo perché da un’attenta lettura del resoconto di Eutocio emerge che Menecmo non si avvale di congegni meccanici nello svolgimento del problema. L’osservazione di Plutarco potrebbe allora essere diretta contro la modalità adottata nel tracciare le curve oppure, più semplicemente, potrebbe essere viziata da una eccessiva genericità nell’accostare i diversi tentativi di duplicazione del cubo. La mancanza di ulteriori riscontri rende tuttavia difficile delineare un quadro più preciso dell’opera di Menecmo e del suo impatto sul lavoro e sulla riflessione degli intellettuali contemporanei. Ancor più frammentaria e lacunosa si presenta poi la documentazione pervenuta a proposito di Dinostrato, fratello di Menecmo (13 T 1 L.). La testimonianza di →Pappo ha indotto ad accreditare a Dinostrato il merito di aver adoperato una linea denominata quadratrice, precedentemente scoperta da Ippia, per risolvere il problema della quadratura del cerchio (13 D 1 L.). L’attribuzione però ha suscitato alcune perplessità, soprattutto alla luce di alcune osservazioni, implicitamente scaturite dalla considerazione di altre fonti, che hanno motivato un maggiore approfondimento della questione. In primo luogo →Proclo, sulla scorta di →Eudemo, nel fare riferimento alla quadratrice menziona Ippia e Nicomede, ma tralascia misteriosamente il nome di Dinostrato (Procl. in Eucl., p. 356, 6-12 Friedlein). Secondariamente non appare molto sensato dissociare la scoperta della quadratrice dalla sua adozione nel procedimento di quadratura del cerchio, tanto più che la curva in questione trae la denominazione proprio dalla  

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sua specifica applicazione. Entrambi i meriti, scoperta ed applicazione, dovrebbero dunque spettare ad Ippia, con la conseguenza di sottrarre a Dinostrato qualsiasi riconoscimento in campo scientifico. Lasserre 1987a, 561-565 ha avanzato un’ipotesi che, pur facendo i conti con le incolmabili carenze documentarie, risulta coerente con tutte le notizie tramandate : Ippia e Dinostrato avrebbero rispettivamente costruito due differenti curve, le quali condividono esclusivamente la funzione di quadrare il cerchio e conseguentemente la denominazione di «quadratrice». Alla trattazione svolta da Dinostrato corrisponderebbe il resoconto tramandato da Pappo, il quale non tralascia di riportare anche alcune osservazioni di Sporo in merito alla descrizione della curva ed alla sua applicazione nella soluzione del problema. Il ricorso ad teorema di →Archimede (De circ. dimens. prop. 1, i, p. 232 Heiberg) da parte di Pappo nell’illustrazione della quadratura non sembra mettere in discussione l’autenticità del lavoro di Dinostrato, dal momento che lo studioso accademico doveva verosimilmente essere al corrente di una versione cronologicamente anteriore dell’enunciato del teorema in questione. L’omonimia tra le curve di Ippia e di Dinostrato, scaturita dalla comune finalità per cui furono progettate, potrebbe dunque essere alla base di un equivoco che ha alimentato un vivace dibattito tra gli storici della matematica antica. L’impossibilità di comprovare testualmente l’esistenza di due differenti quadratrici mostra tuttavia quanto congetturale sia il livello delle nostre conoscenze a proposito della matematica accademica. Le linee programmatiche dell’indagine in campo astronomico furono dettate da Eudosso, la cui descrizione dei corpi celesti mediante il modello delle sfere omocentriche rappresentò l’imprescindibile punto di riferimento per gli studiosi dell’Accademia. Tra i più convinti sostenitori dell’impostazione eudossiana si può annoverare Menecmo, che, secondo quanto riportato da Teone di Smirne, approfondì la teoria del suo maestro, proponendo l’aggiunta di ulteriori sfere (12 F 2 L.). Infine sempre nello stesso settore si distinse particolarmente anche Filippo di Opunte, autore dell’Epinomide, opera nella quale è adottato lo schema astronomico delineato nelle Leggi e nel Timeo di Platone. Assieme alla citazione di numerosi titoli di scritti attinenti alle sfere celesti (20 T 1 L.),  

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la tradizione dossografica attribuisce a Filippo alcuni studi sull’eclissi e sulla forma della luna (20 F 25 ; 20 D 1 L.), suggerendo così la possibilità di una formulazione completa di una teoria delle fasi lunari. Le ricerche metodologiche dell’A. si coagularono nella definizione e nell’applicazione di espedienti euristici, elaborati prevalentemente per affrontare, mediante semplificazione, problemi, la cui soluzione conduceva spesso alla scoperta di nuovi teoremi. In particolare è possibile individuare due approcci tipici della geometria accademica : il diorismo (diorismov~) e l’analisi (ajnavlusi~). Il primo procedimento, associato da Proclo al nome di Leone, mira a determinare la condizione di possibilità nella risoluzione di un problema, vale a dire quando un problema è possibile e quando è impossibile (6 D 1c L.). Leone ebbe probabilmente il merito di codificare con chiarezza i passaggi di un metodo già sperimentato dai matematici, dal momento che appare evidente la più antica matrice pitagorica di alcune specifiche trattazioni classificabili come diorismi : in un passo a carattere matematico, riportato nel Menone, l’iscrizione di una superficie, trasformata in un triangolo, in un cerchio dato è subordinata al realizzarsi di una determinata condizione (Pl. Men. 87a-b) ; nel teorema i 22 degli Elementi viene stabilito che la costruzione di un triangolo a partire da tre linee rette date è possibile solo se la somma della lunghezza di due di esse è maggiore della lunghezza della linea rimanente ; nella proposizione vi 28 degli Elementi si determina che l’applicazione ad una data retta di un parallelogramma uguale ad un poligono dato e mancante di un parallelogramma simile ad un parallelogramma dato si verifica solo se il poligono dato non è maggiore del parallelogramma descritto sulla metà retta e se è simile al parallelogramma dato. Il procedimento per analisi consiste, secondo la descrizione di →Proclo, nel ricondurre l’oggetto della ricerca ad un principio generalmente riconosciuto come vero. Il metodo sarebbe stato trasmesso da Platone a Leodamante di Taso, il quale lo applicò con successo nella soluzione di molti problemi, incrementando notevolmente le conoscenze geometriche (2 D 1c L.). Il riconoscimento del contributo di Leodamante alla crescita della matematica trova conferma anche nelle parole di Favorino e di Filippo di Opunte (2 D 1a-b L.). Risulta invece  









più difficile stabilire con precisione sia l’effettiva influenza di Platone sul modo di procedere dei matematici sia l’esistenza di un nesso storico tra la dialettica e l’analisi, le quali pure risultano vagamente accomunate da un movimento ascensivo. Quasi tutte le testimonianze utili a delineare la struttura dell’analisi, compresa anche quella di Proclo precedentemente citata, furono stilate in epoca parecchio posteriore all’età classica ed inevitabilmente presentano un grado di sofisticazione e di articolazione certamente differenti rispetto all’approccio adottato nel iv secolo. Esse inoltre non danno conto dell’evoluzione storica del metodo, arricchitosi e specializzatosi nel corso dell’antichità, con il conseguente offuscamento del valore originario. Nel tentativo di restituire all’analisi il significato con cui effettivamente fu nota agli accademici si può fare riferimento ancora una volta ad un passo tratto dal Menone (86e). Platone illustra i passaggi logici di un procedimento, denominato «ipotetico» (ejx uJpoqevsew~), seguito dai matematici a lui contemporanei, che richiama da vicino il metodo di analisi, quasi come una fedele trascrizione. L’esame del valore di verità di una proposizione problematica p può essere svolto mediante la selezione e l’adozione di un’ipotesi, vale a dire una proposizione h, tale per cui p è vera se e solo se h è vera. La verità di una proposizione non è così decisa in base alle sue conseguenze, ma a partire da un’altra proposizione, denominata ipotesi, alla quale la prima è riconducibile. Il problema risulta così risolubile, se le condizioni alle quali esso è ricondotto costituiscono un problema risolubile. La ricerca dei diorismi e l’analisi dei problemi presentano una strutturale connessione e denotano come l’ampliamento delle conoscenze matematiche nell’Accademia fosse accompagnato da una crescente attenzione ai rapporti tra le proposizioni, in grado di condurre al progressivo riconoscimento di un ordine sistematico. Lo studio delle condizioni di reciprocità e di conversione tra i teoremi, presente negli interessi di Menecmo (12 D 7) e di Anfinomo (18 D 4), presupponeva infatti la consapevolezza di un costitutivo collegamento tra le singole parti dell’edificio matematico. L’esigenza di codificare per iscritto le relazioni di antecedenza e conseguenza tra i teoremi ed i problemi trovò attuazione nella stesura di libri di Elementi di grande valore da parte di Leone e

acquicoltura di Theudio di Magnesia, i quali, secondo le parole di Proclo, raggrupparono un numero notevole di teoremi, generalizzarono contenuti particolari e fornirono rigorose dimostrazioni scientifiche, probabilmente rifacendosi a quanto era stato precedentemente messo a punto allo stesso scopo da →Ippocrate di Chio (6 F 1 ; 14 T 1 ; 14 F 2a-b L.). I tentativi di catalogazione delle proprietà geometriche si inscrivono nel contesto di un’ampia discussione sullo statuto epistemologico delle proposizioni matematiche. La stessa nozione di «elemento» fu oggetto di un lavoro di disambiguazione, realizzato da Menecmo, che condusse alla distinzione di un duplice significato del termine : da una parte «elemento» indica una proposizione che interviene nella dimostrazione di un’altra proposizione ; dall’altra esso designa la parte più semplice ed originaria da cui scaturisce una catena di proposizioni, proprio come nella relazione che si instaura tra postulati e teoremi (12 D 6). Se nel primo caso il vocabolo «elemento» è usato in riferimento ad un numero limitato di proposizioni, legate tra loro secondo una specifica priorità, nel secondo caso esso si carica di una valenza fondazionale e si pone come punto di partenza di un sistema generale. La coesistenza dei due significati sembra dare conto di una vera e propria fase di transizione nella matematica, che trovò il suo spazio vitale nell’Accademia di Platone. La precisazione della funzione delle proposizioni matematiche fu oggetto di un’animata controversia che vide contrapporsi due correnti di pensiero : una fazione, capeggiata da Speusippo (fr. 36 Isnardi Parente) ed Anfinomo (18 D 2), sostenne che tutte le proposizioni della geometria dovevano essere chiamate teoremi, in quanto vertono su cose eterne e ne dimostrano le proprietà ; un altro gruppo, di cui Menecmo (12 D 5) fu principale esponente, ritenne che tutte le proposizioni dovevano essere definite problemi, in quanto riguardano la costruzione delle figure e lo studio delle operazioni ad esse connesse (Procl. in Eucl., pp. 77-78 Friedlein). Lo scarno resoconto di →Proclo non permette di chiarire con precisione in che modo la polemica si saldasse con la svolta assiomatica e deduttiva che negli stessi luoghi cominciava a prendere forma [→assiomatica]. Si potrebbe immaginare che proprio la riflessione sul modello dimostrativo abbia inevitabilmente condotto ad un confronto teorico sulla struttura ontolo 











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gica degli enti matematici e ad una divergenza sull’ammissione nel regno dell’essere anche dei procedimenti di costruzione delle figure, strettamente legati alle nozioni di movimento e divenire. Ancora si potrebbe supporre che a causare la diatriba sia stata la questione legata alla possibilità di considerare le proposizioni geometriche ed aritmetiche continuamente materia di indagine. La difesa della denominazione di teorema da parte di Anfinomo sembra infatti finalizzata a preservare un ambito della matematica da ulteriori revisioni. In virtù di ciò egli non rigetta la nozione di problema, ma la adotta per delineare lo specifico orizzonte di operatività del matematico (18 D 3 Lasserre). Menecmo al contrario, pur non mettendo in discussione l’opportunità della distinzione tra problemi e teoremi in base all’oggetto specifico che denotano, sottolineò la legittimità di una ripetuta verifica delle nozioni geometriche ed aritmetiche, facendo coincidere l’ambito della ricerca con l’universo matematico nel suo complesso. Edizioni. Acerbi 2007b ; Diels-Kranz 19511952 ; Dorandi 1991 ; Frajese 1970 ; Isnardi Parente 1980 ; Lasserre 1987a ; Thomas 1967.  











Bibliografia. Billot 1989 ; Cherniss 1945 ; Fowler 1987 ; Frajese 1971 ; Heath 1926 ; Krämer 1983 ; Lasserre 1964 ; Marcacci 2009 ; Müller 1981 ; Nails 2002 ; Natali 2005 ; Netz 1999 ; Toomer 1976 ; Travlos 1971.  

























Piero Tarantino Acquicoltura. Allevamento di organismi acquatici (pesci, molluschi, crostacei, etc.) in acque dolci o salate, a scopo eminentemente alimentare. 1. Origini. − Nell’antichità, ogni attività legata alla navigazione subiva una battuta di arresto nella stagione invernale, il cosiddetto periodo di mare clausum, in cui il clima avverso ostacolava la permanenza in mare. La →pesca, in tali frangenti, era fortemente penalizzata : ciò ha indotto gli uomini alla pratica di conserve alimentari a partire dal prodotto ittico fresco [→pesce, consumo di], che nel corso dei secoli si è raffinata, sino al raggiungimento, nel periodo romano imperiale, di livelli considerevolmente elaborati [→conservazione degli alimenti]. L’itticoltura, al contrario, non si è configurata inizialmente come attività a scopo alimentare ed economico. Le prime testimonianze relative alle civiltà del bacino del Mediterraneo, posso 

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no essere rintracciate a partire dal secondo millennio a.C. ; in questo periodo tuttavia, l’usanza di tenere pesci in vasche esprimeva esigenze di carattere simbolico e religioso. La rilevanza del pesce nella ritualità religiosa, e il suo valore simbolico, sono infatti diffusamente attestati. A partire dal v secolo a.C. viceversa, l’acquicoltura ha assunto un rilievo economico dapprima ignoto, connesso ad esigenze di ordine alimentare in un primo momento, ma in seguito, nella Roma imperiale, legato a mode alimentari in voga tra i ceti più abbienti. Non va infine tralasciato un altro stimolo al fenomeno fornito dalla →zoologia, nell’ambito della quale l’osservazione diretta degli esemplari ittici in cattività permetteva lo studio di specie con caratteristiche particolari ancora sconosciute. 2. L’allevamento in acqua dolce. – Il carattere deperibile degli impianti di allevamento ha ostacolato il ritrovamento di riscontri archeologici che confermassero l’intensa attività descritta nelle fonti letterarie. Una delle strutture più frequentemente rinvenute è quella dei vivai sacri. Si tratta delle prime forme di allevamento ittico in acqua dolce. Sono situati presso luoghi di culto per lo più orientali : Siria, Mesopotamia e regioni costiere dell’Asia Minore sono le aree geografiche maggiormente interessate. Nei culti orientali alcuni pesci d’acqua dolce sono considerati sacri alle divinità fluviali e vengono a esse quotidianamente sacrificati. Al fine di approvvigionamento dunque, i santuari vengono dotati di strutture artificiali o bacini naturali (stagna) : lo stagno di Hierapolis in Siria, sacro alla più antica divinità fluviale, Atargatis, è l’esempio più emblematico a tal proposito e pertanto ampiamente attestato nelle fonti letterarie (Plin. nat. 32,17 ; Luc. Syr. D. 45). Si suppone, data la complessa e assidua manutenzione richiesta dagli stagna, che personaggi di rango sacerdotale fossero impegnati in tal senso. Va sottolineato, inoltre, il potere oracolare attribuito ai pesci da tempo immemore, che ha consolidato l’inscindibile binomio pesce/religione. L’antichissima osmosi culturale tra civiltà orientali e Grecia, ha fatto sì che anche alcuni elementi cultuali e alcune divinità entrassero nel pantheon classico, tra cui anche il culto siriaco che ha corrispettivi in Grecia e persino a Roma. [1] I prodromi dell’itticoltura in Grecia risalgono al iv secolo a.C. (Plin. nat. 8, 17), quando si diffondono peschiere e vivai nell’ambito delle  









attività di →caccia e →pesca. Le peschiere (ijcquotrofei`a) sorgevano presso bacini naturali o fiumi, fonti di approvvigionamento idrico costante. Nella penisola italica le prime tracce di allevamenti ittici in acqua dolce risalgono al iii secolo a.C. : si tratta di bacini naturali ma anche di strutture artificiali (piscinae o vivaria). Possiamo distinguere due tipologie di impianti : quelli destinati a rifornire il mercato e quelli privati. Da notare che in entrambi i casi gli esemplari di cui ci si avvaleva erano già fecondati, pertanto non sembra fosse contemplata la possibilità di riproduzione in cattività. Frequente era lo sfruttamento dei bacini lacustri, sulle rive dei quali sovente i personaggi più in vista edificavano ville residenziali, attratti anche dalla possibilità di praticare la pesca con fini squisitamente ludici. Gli impianti privati nascono dallo sfruttamento di bacini naturali di scarsa estensione collocati all’interno delle ville (ad esempio stagni) ma anche dall’usufrutto in termini pratici degli acquari. Questi ultimi, anche di notevole estensione, non avevano valore prettamente ornamentale ma potevano detenere altresì una funzione produttiva. Tecnicamente erano vasche in muratura impermeabilizzate all’interno da un rivestimento in cocciopesto. L’area con un maggior numero di ville è quella tra Pompei ed Ercolano, ovvero laddove l’eruzione del 79 d.C., distruggendo ogni forma di vita, ha paradossalmente conservato intatte il maggior numero di testimonianze. Alcune residenze come quella di Varrone a Cassino costituiscono in realtà degli autonomi centri produttivi, configurandosi come delle piccole aziende agricole. In ville come questa gli acquari presentano caratteri diversi rispetto ad altri a scopo squisitamente decorativo : attenzione alla funzionalità seppur a svantaggio della gradevolezza estetica e vicinanza ad una fonte idrica naturale (fiume, lago o sorgente) per l’alimentazione dell’impianto. Gli acquari si estendono cronologicamente tra il ii secolo a.C. e l’età imperiale avanzata. 3. L’allevamento in acqua salata. – L’allevamento in acqua salata nasce con i Romani nel i secolo a.C. grazie ad un complesso di fattori sociali, etici ed economici. Dopo le guerre civili assistiamo ad un periodo di notevole fioritura economica con l’avvio di un programma edilizio su ampia scala, che mirava alla realizzazione di complessi abitativi fuori città. Si tratta della nascita della cosiddetta ‘villa urbana’. Queste  





acquicoltura lussuose residenze sorgono già a partire dalla seconda metà del ii secolo a.C. presso Baia, Napoli, Tuscolo, ma dal i secolo a.C. la tendenza è quella delle ville litoranee. Ciò funge da stimolo alla realizzazione di peschiere marittime per l’allevamento ittico. Inizialmente le specie sulle quali ci si concentra sono i molluschi (per lo più ostriche, negli ostriaria) che garantiscono pochi sforzi e ottimi guadagni. Questi organismi venivano allevati principalmente presso le lagune costiere, sfruttando dunque bacini naturali. Nonostante l’allevamento di molluschi avesse un ruolo economico cospicuo, bisogna ricordare che i consumatori ai quali si indirizzava erano una elite piuttosto ristretta. Il pesce, nonché i molluschi, erano difatti considerati un bene di lusso e il loro prezzo ne era la prova. Le peschiere connesse alle ville litoranee erano principalmente destinate a soddisfare i bisogni di pesce sempre fresco sulle tavole dei ricchi commensali che ivi banchettavano. Tra il 31 a.C. e il 69 d.C. (Tac. ann. 3,55) l’abitudine di degustare raffinati manicaretti a base di pesce si trasforma in una vera e propria moda alimentare ed è in questo periodo che le peschiere marittime si diffondono maggiormente. Secondo le fonti letterarie l’itticoltura ha origine in Campania ad opera di personaggi locali tra la fine del ii e l’inizio del i secolo a.C. ; in seguito si diffonde in Etruria e nel Lazio meridionale. Attraverso successivi rifacimenti e restauri gli impianti sono rimasti attivi fino al iv secolo d.C. circa, quando sono stati abbandonati a causa delle scorribande dei popoli barbari. 4. Strutture e tecnica. – Gli accorgimenti tecnici adottati dagli antichi nella scelta dei siti e nella costruzione degli impianti possono essere rintracciati in particolar modo nel testo di Columella (8,16-17). I prerequisiti fondamentali che i siti costieri dovevano avere per ospitare una peschiera erano : la contiguità ad una baia o ad un golfo riparato ma non eccessivamente chiuso, tale da garantire una protezione al vivaio ma, al tempo stesso, non ostacolare il ricambio idrico, conditio sine qua non per la vita. Altra prerogativa indispensabile era il fondale roccioso idoneo alla costruzione dei vari settori che costituisse una solida base d’appoggio. Per ciò che concerne le linee costiere, tanto le coste fangose quanto quelle sabbiose ed infine anche le alte e rocciose erano in grado di accogliere impianti di allevamento. Se la costa è bassa e sabbiosa si riscontrano più frequen 



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temente peschiere a cielo aperto ; viceversa la costa alta e rocciosa ospita peschiere del tipo a galleria scavate interamente nella roccia e coperte con volte a tutto sesto. Columella divide le peschiere in due tipologie in relazione alla tecnica di costruzione adottata : le une ottenute attraverso un’opera di scavo del banco roccioso (piscinae in petra excisae), le altre realizzate mediante murature artificiali (opere signino). Gli impianti per l’itticoltura sono articolati in tre ‘unità funzionali’ : elementi per la protezione e la delimitazione dell’impianto (moles) ; canali di captazione e adduzione dell’acqua (aestuaria, rivi, fossae) ; sistema di vasche per la stabulazione dei pesci (Giacopini-Marchesini-Rustico 1994). Le moles delimitavano la peschiera, la proteggevano dall’impeto dei flutti. I canali di adduzione e captazione dell’acqua garantivano altresì un ricambio idrico per impedire il ristagno. Erano disposti a raggiera in modo da sfruttare ottimamente ogni corrente ; erano inoltre dotati di grate al fine di bloccare la fuoriuscita del pesce e di cataratte (cataractae). Queste ultime si presentavano come delle chiuse mobili costituite da una doppia barriera : la prima, verso il mare aperto, era interamente chiusa per opporsi alle onde, la seconda, verso l’interno, era una sorta di griglia forata che permetteva l’ingresso dell’acqua ed evitava la fuga dei pesci. Curioso notare come le vasche riproducessero i vari habitat naturali nei quali i pesci vivevano in natura. Ciò per mezzo di rocce, alghe e cavità familiari alle specie in cattività. Gli impianti erano articolati in diverse vasche, ognuna delle quali ospitava una specie diversa. In ogni vasca pertanto, si osserva il tentativo di riprodurre ambienti caratteristici differenti. La costruzione delle peschiere avveniva mediante gettate di calcestruzzo in forme lignee la cui grandezza era ridotta per favorire il tiraggio del calcestruzzo che in acqua era ritardato. Le tecniche edilizie predilette sono : l’opera reticolata in tufo o arenaria, l’opera laterizia in mattoni triangolari e l’opera vittata per lo più usata in fase di restauro. Le peschiere di epoca augustea sono databili grazie ai caratteristici rivestimenti di tegole fittili. Le peschiere marittime individuate attraverso le fonti letterarie e i dati bibliografici sono cinquantaquattro, di cui la maggior parte collocate nel Lazio e una discreta quantità in Campania.[2] 5. Specie d’allevamento. – Le specie riservate all’allevamento erano quelle che popolavano le località presso le quali sorgevano gli  















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impianti. Le coste fangose ospitavano pesci piatti come la sogliola, il rombo e conchiglie (murici, ostriche, datteri di mare, spondili). Le coste sabbiose si prestavano all’allevamento dei pesci pelagici (orate, dentici, ombrine). I litorali rocciosi erano ottimali per le specie che necessitano di tane e ripari (labri, tordi e occhiate). Molto apprezzate erano le murene che si adattavano a vivere ovunque. I mosaici pompeiani sono quelli che raffigurano in modo più realistico paesaggi marini e peschiere. In essi sono riconoscibili varie specie : triglie, dentici, orate, saraghi, spigole, cernie. Ricorrenti sono l’aragosta e la medusa.  

Note. [1] Per il santuario siriaco a Roma sul Gianicolo : vd. Mocheggiani Carpano et alii 1982. – [2] Per la classificazione e la descrizione delle singole peschiere vd. Giacopini-MarchesiniRustico 1994.  

Bibliografia. Collin Bouffier 1999 ; Giacopini-Marchesini-Rustico 1994 ; Gianfrotta 1988 ; Gianfrotta 1999 ; de Reparaz 1987 ; Rustico 1999.  









si occupa delle caratteristiche degli ambienti al fine di creare ed ottenere una sempre migliore propagazione-ricezione dei suoni che si vogliono proporre all’ascolto, uniformando la distribuzione dell’intensità sonora ed evitando la formazione di echi. 2. Inizi della scienza acustica : da Pitagora a Platone. – Nella Grecia antica bisogna guardare al sec. v a.C., forse al vi, per trovare i segni di una ‘scienza’ acustica che si svilupperà poi nel sec. iv ;[3] ma le tracce di questo interesse, oltre a porre problemi di autenticità, mostrano chiaramente che lo studio dei fenomeni acustici ha solo alcuni degli aspetti di una disciplina autonoma, poiché l’acustica appare di minore importanza rispetto alle discipline, strettamente connesse, della matematica, dell’armonica e della musica, il cui studio per i Greci occupa ben più ampi spazi d’indagine : ciò spiega il motivo che giustifica un’analisi mirata delle fonti, che si siano occupate più strettamente dell’acustica. Alcuni elementi cui possiamo fare cenno sembrano da assegnarsi a →Pitagora e alla cerchia pitagorica : si tratta di ricerche che avranno una forte influenza anche in altri ambiti, come la fenomenologia acustica della voce umana e degli organi di produzione della stessa, e come le teorie grammaticali (ad es., la terminologia connessa all’accento).[4] Tuttavia gli inizi del Pitagorismo non sembrano interessarsi agli aspetti dell’acustica (produzione, propagazione, percezione o ricezione) [Ciancaglini 1991a, 50] ; si può parlare invece, intorno al sec. VI a.C., della determinazione dei rapporti matematici espressi dagli intervalli consonanti di base (quelli di ottava, quinta e quarta).[5] Che tale determinazione si debba proprio a Pitagora è attestato da alcune fonti (non dirette), ma vi sono seri dubbi sia sull’attribuzione sia sulla verisimiglianza dei contenuti :[6] si veda ad es. il famoso racconto dei suoni, riconosciuti come armonici, percepiti da Pitagora passando davanti all’officina di un fabbro al lavoro (Porph. in Harm. 56, 5-57, 27 Düring),[7] e, dopo l’osservazione de visu del fenomeno, la riproduzione ‘sperimentale’ dello stesso e le deduzioni in termini di rapporti e proporzioni matematiche e musicali.[8] Per il sec. V a.C. possiamo indicare due testimonianze su definizioni di →Empedocle concernenti l’udito (31 A 86, 9 ; 31 A 93 D.-K.), ma ancora nella prima parte del sec. iv a.C. poche sono le tracce di indagini sull’acustica : importante  







Valentina Zanusso Acustica [to; ajkoustikovn, sonorum ratio et scientia]. 1. Generalità. – Appartiene, in senso lato, alla meccanica, ed è la parte della fisica che si occupa di studiare il suono con le sue proprietà, e i meccanismi di formazione, propagazione, ricezione [→musica, 4]. Il suono consta di onde elastiche, prodotte da corpi in vibrazione : tali onde, dette sonore, possono essere di lunghezza variabile ; esse, attraverso un mezzo, solitamente l’aria, si trasmettono all’orecchio (o meglio, agli organi sensibili al suo interno). Nelle onde sonore vengono distinte, almeno in riferimento al cosiddetto ‘orecchio normale’, un’intensità e una frequenza. Va ricordato che, da un moto vibratorio nella sorgente, si causano nel mezzo circostante una serie di strati compressi e rarefatti, denominati onde longitudinali, la cui propagazione assume velocità diversa in base al mezzo e alle caratteristiche (ad. es. la temperatura, o la pressione) ; alla propagazione del suono contribuiscono anche fenomeni quali riflessione,[1] rifrazione, diffusione, interferenza (diffuso il fenomeno della diffrazione, ove la lunghezza delle onde sonore si può confrontare con la dimensione degli ostacoli frapposti alla propagazione).[2] Esiste anche un’acustica architettonica, che  













acustica risulta allora la figura di Archita di Taranto [→Archita, 4], filosofo pitagorico, che oltre a più approfonditi studi di carattere matematico [→matematica] e musicale [→musica], compì indagini sulla natura del suono in generale, “con inclusione della voce umana, i suoi aspetti genetici e le sue caratteristiche, quali ad esempio l’altezza e l’intensità, adottando una prospettiva che oltrepassa i limiti della teoria musicale per definirsi decisamente come fisica acustica” [Ciancaglini 1998, 213]. Fondamentale in questa prospettiva il fr. 47 B 1 D.-K. di Archita, da cui, in connessione con la precedente tradizione di studi pitagorica (« mi sembra che gli studiosi di matematica abbiano raggiunto buoni risultati »), si possono trarre in sintesi le seguenti acquisizioni : 1) il rumore (yovfo~) avviene grazie all’urto (plhghv, dor. plagav, su cui vd. Ciancaglini 1998, 225-227) tra oggetti in movimento, sia di pari velocità che a velocità diversa ; 2) non tutti i rumori così prodotti sono da noi percepibili, per debolezza dell’urto, per la distanza a cui avvengono, o per eccesso d’intensità ; 3) gli urti veloci e forti producono, alla nostra percezione, rumori acuti (ojxeva), quelli lenti e deboli rumori gravi (bareva) ; 4) la forza del movimento (kivnhsi~), e quindi la forza di emissione del fiato (pneu`ma), consente maggiore o minore capacità di penetrazione nell’aria (come nell’uso di un bastone, e quindi nella voce, o nel lancio di proiettili, o nell’uso dei flauti, dei ‘rombi’ e della canna [→strumenti musicali]).[9] Anche in →Platone (Ti. 67a-c ; 79e-80b) troviamo notizie che si richiamano ai Pitagorici e ad Archita, pur in una diversa prospettiva : Ciancaglini 1998, 241-243, rinvia a Pl. R. 530d per la conoscenza delle teorie musicali dei Pitagorici, ma sottolinea al tempo stesso le differenze e le critiche per il carattere eccessivamente empirico nella teoria musicale, che emergono in R. 531b ; per quanto riguarda l’acustica, nei passi del Timeo citati alcune distanze si concretizzano ove Platone “parla di suoni che appaiono (faivnontai) rapidi o lenti, acuti o gravi (tacei'~ te kai; bradei'~ ojxei'~ te kai; barei`~), mentre abbiamo visto che in Archita i suoni possono apparire solo acuti o gravi, laddove la rapidità o la lentezza sono modalità dell’oscillazione della sorgente sonora, non della percezione del suono risultante”.[10] 3. Aristotele e la scuola aristotelica. - Altri elementi identifichiamo poi in →Aristotele, di  

















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cui, nonostante il metodo d’indagine, non ci è giunta notizia di uno studio sistematico dedicato all’acustica ; ma se si può parlare di una teoria del suono, sembra necessario rifarsi a quella del senso (de An. 424a sgg. : la forma di un oggetto sensibile si trasferisce al soggetto attraverso un mezzo, l’oggetto modifica il mezzo, che modifica l’organo della percezione).[11] Per quanto concerne il suono (de An. 417b), un’alterazione (e un cambiamento : ajlloivwsi~, metabolhv) si produce nel mezzo, e questa è trasmessa all’udito ; in Sens. 446b 25 leggiamo che il suono, e l’odore, non sono corporei, « ma sono un’affezione e un movimento di qualche tipo (pavqo~ kai; kivnhsiv~ ti~) [...] anche se implicano corporeità », vale a dire che si tratta di qualcosa di incorporeo che pure transita per un mezzo corporeo. Importante appare un altro passo del de An. 419b 4-421a 6 : ne proponiamo il contenuto in sintesi per indicare un esempio dell’indagine aristotelica sul tema del suono.[12] Il suono è di due tipi, in atto e in potenza : solo alcuni oggetti sono capaci di produrlo in atto (yovfon ejnergeiva)/ , tra oggetto stesso e organo dell’udito. Il suono in atto è prodotto dall’urto (plhghv) di qualcosa contro qualcosa e in qualcosa, ed è necessario che vi sia movimento (forav), e urto, tra due oggetti ; la trasmissione avviene attraverso l’aria, ma anche, in misura ridotta, attraverso l’acqua ;[13] responsabile del suono non è però l’aria, ma l’urto di oggetti tra loro e con l’aria, se sia urtata con rapidità e forza (tacevw~ kai; sfodrw`~), e se rimane ferma e non si disperde con l’urto. Anche l’eco dipende da una certa quantità d’aria in un corpo cavo, che la contenga, ne impedisca la dispersione e la faccia rimbalzare. Si dice anche che il vuoto è responsabile dell’udito (to; ajkouvein) : sembra infatti che l’aria sia vuota, ed è l’aria con il suo movimento intero ed unico a produrlo, anche se, data la fragilità dell’aria, se l’oggetto che essa colpisce è piano (con una superficie che è unità continua) si forma un’unica massa continua, e non si produce suono. È in grado allora di produrre suono (yofhtikovn) ciò che è in grado di produrre il movimento (kinhtikovn) di una massa d’aria in modo continuato sino all’organo che consente l’ascolto (all’aria è connaturato l’ascolto, giacché l’organo uditivo è nell’aria ; e quando essa si muove all’esterno, si muove anche quella all’interno dell’organo).[14] Il suono deriva dall’oggetto colpito e da quello che colpisce, pur in modi diversi, poiché il suo 























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no è il movimento di ciò che si può muovere : ciò che è colpito deve essere piatto, in modo che l’aria vi rimbalzi e si muova come una sola massa. Le differenze tra cose che suonano si notano nel suono in atto, nel quale si distingue l’acuto e il grave : il primo muove la percezione in poco tempo ad una grande intensità, mentre ciò che è grave in un tempo lungo ad una intensità ridotta ; « ma non è veloce ciò che è acuto, e grave ciò che è lento, ma un tale movimento di ciò che è acuto avviene grazie alla velocità, e di ciò che è lento grazie alla lentezza ».[15] A velocità dunque corrisponde acutezza, e a lentezza gravità. Dopo le proprietà del suono si passa all’analisi di quelle della voce, un tipo di suono connesso a ciò che è vivo (e[myucon), anche se, per metafora, hanno ‘voce’ strumenti come l’aulos o la lyra. Se la voce è caratteristica di esseri animati, essa però si produce con alcune parti specifiche, nelle quali si dovrà necessariamente produrre l’impatto tra cose che si urtino nell’aria. Fondamentale per la voce è il respiro, il cui organo è la gola, a sua volta funzionale ai polmoni (ma il respiro è naturalmente essenziale per l’intero corpo).[16] Queste testimonianze aristoteliche indicano un interesse che ha dato frutti importanti nella scuola del filosofo : ad es. nei Problemata pseudoaristotelici, poi in una sorta di trattato più completo, il peri; ajkoustw`n (De audibilibus), e infine in →Teofrasto, successore di Aristotele nella guida del Peripato. Per quanto concerne i Problemata, essi possono ben rappresentare lo stato delle indagini sull’acustica successive ad Aristotele : il suono è causato da movimenti di carattere fisico, e le variazioni nelle sue caratteristiche (in part. nel tono) dipendono dalle variazioni di quantità nel movimento. Le risposte contenute nell’opera non appaiono di grande originalità, se non in qualche caso, poiché vi sono enunciazioni contraddittorie, e in qualche passo appare confusa una certa terminologia (cfr. ad es. Pr. 899a 22-899b 17 e 901a 20-29, ove come in Platone, ma diversamente da Archita, si confonde la velocità di vibrazione con quella di propagazione). L’argomento della sez. XI (898b 28-906a 20) è la voce, e l’indagine si muove intorno ad alcune questioni : 1) le modalità con cui un suono vocale viene prodotto ; 2) la fisiologia (produttiva) del tono di un’emissione di voce ; 3) le diverse caratteristiche del suono vocale, come il volume o la voce rauca (Pr. 898b 28-899a 3 ; 900a 20-900b  





















28 ; 902b 36-903a 6 ; 903a 27-37). Altri aspetti discussi riguardano invece la natura fisica del suono, il modo in cui si propaga e si modifica a causa della distanza o di ostacoli (Pr. 899a 23899b 17 ; 901a 7-29 ; 901b 16-23 ; 904b 34-905a 4). Nella sez. XIX, dedicata invece all’armonia, è interessante il passo 917b 21-29 (cui va connesso 904b 34-905a 4), che si occupa ancora della propagazione della voce. In merito invece al De audibilibus (800a-804b), esso è giunto a noi solo attraverso un’estesa citazione, incompleta, in Porph. in Harm. 66-77, che assegna il trattatello ad Aristotele : esso, databile alla prima metà del sec. III a.C., è anonimo (per alcune proposte di attribuzione cfr. Gottschalk 1968 ; Barker 1989, 98-99 ; Ferrini 2008, 163-166), ed è con tutta verisimiglianza un prodotto della scuola peripatetica. Almeno per noi, l’opera si apre discutendo dei modi in cui si produce e trasmette il suono (800a 1-23) : ritroviamo l’attenzione posta sull’urto dei corpi tra loro, o dei corpi con l’aria, e sul movimento dello stesso tipo tra corpi e aria, con processi di ‘contrazione’, ‘espansione’ e ‘compressione’, ed urti reciproci a causa dell’aria (e delle corde) ; infatti, come l’aria si sposta se colpita con forza da altra aria, così il processo di movimento fa sì che uno stesso suono si estenda in ogni direzione, e ciò è proprio dei suoni chiari, a differenza dei suoni che sono in origine attutiti. Si tratta della ‘teoria vibratoria’, in cui il suono si propaga attraverso l’aria senza che essa si sposti dal punto iniziale dell’urto verso il punto di ‘arrivo’ : un tipo di definizione che si ritrova in Ps.Arist. Pr. 899a 23-899b 17, « perciò il suono è continuo, perché sempre l’aria, muovendosi, si sostituisce a quella che si muove, finché il processo non svanisca ». Le osservazioni vertono in generale sulle cause delle modificazioni delle qualità percepibili del suono (ad es. l’apparente lontananza o vicinanza, chiarezza, debolezza), dovute a qualcosa che influenza il movimento dell’impulso sonoro ; e ciò che causa il cambiamento deve avere la stessa qualità di quello che si riscontra nel suono (un ‘oggetto’ sottile causa un suono acuto). Ma un altro argomento importante, quello della voce, dopo una breve riflessione iniziale sul respiro e gli organi coinvolti nel processo di emissione dell’aria, dà la possibilità all’estensore, fin quasi dall’inizio, di stabilire un primo paragone tra il fenomeno dell’uso della voce e l’uso degli auloi e delle bombykes  



























acustica (800a 32-801a 10). Nel De audibilibus infatti, per parlare estesamente dei cambiamenti di qualità nel suono vocale, si ricorre a frequenti analogie con gli strumenti musicali (a fiato, aulos, salpinx, kerata ; e a corda, kithara ed altri ; si veda ad es., a partire da 801b 27 e fino a 802b 29, la discussione sulla penetrazione del suono e i paralleli con l’aulos e soprattutto con i kevrata, « corni », forse delle piccole ‘campane’ attaccate ad altri strumenti, magari a fiato, con cui entravano in risonanza). La successiva trattazione affronta gli effetti di ostruzioni e ostacoli sul suono (802b 30-803a 6), per proseguire con i motivi cui si devono differenti qualità di suono o voce (803a 6-803b 2) : ad es., velocità o violenza dell’emissione (tacuth;~ tou` pneuvmato~ [...] hJ de; biva), rendono la voce (fwnhv) acuta (ojxei`a) o dura (sklhrav), tanto che una stessa persona può avere di volta in volta voce più acuta o grave, più dura o morbida. In 803b 3-26 si legge la notazione che dà origine alla voce aspra (tracuvnesqai) : l’aria è colpita non da un solo urto e tutta insieme, ma con piccoli urti e frequenti, tanto che ciascuna parte d’aria, di per sé, colpisce l’udito (come derivante da una diversa emissione), causa una percezione spezzata (diespasmevnh), e parte del suono decade, parte invece colpisce con più forza, e il contatto con l’udito è irregolare. Invece, le voci leggere (leptaiv), si verificano a causa della poca quantità di fiato emesso. Non manca poi (803b 27-804a 8) un passaggio ove si considera il fatto che è la sorgente del suono a determinare il carattere del suono stesso : i tipi di urti dell’aria, e il movimento conseguente, determinano quanto avviene all’udito (suono a intervalli o ravvicinato, morbido o duro, leggero o pesante). Infatti ogni parte d’aria si muove, e ne muove un’altra nella medesima direzione, e ciò provoca un suono intero e omogeneo : l’acuto e il grave preservano infatti la loro caratteristica originaria grazie alla velocità degli urti in rapida successione. Ad es., gli urti dell’aria che derivano dalle corde sono numerosi e separati da intervalli di tempo così ridotti che l’udito non può percepirli, e il suono sembra continuo ; lo stesso avviene nelle consonanze (sumfwnivai), poiché in un gruppo di suoni che si combina con un altro (e{teroi h\coi), se la loro cessazione avviene insieme, il suono che si interpone subito dopo sfugge alla nostra percezione. Infatti accade che nelle consonanze gli urti d’aria derivanti dai  

















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toni alti si verifichino spesso per la velocità di movimento (dia; to; tavco~ th'~ kinhvsew~), ma l’ultimo tra i suoni prodotti colpisce il nostro udito insieme a quello prodotto dall’emissione più lenta : perciò il nostro orecchio non riesce a percepire il suono intermedio, ma percepisce il suono continuato simultaneamente. Infine, da 804a 9 fino a quella che è per noi la conclusione (804b), le osservazioni tornano a concentrarsi sulle qualità della voce : si hanno dunque voci robuste (pacei`ai) tipiche ad es. degli uomini e dei teleioi auloi (su tali strumenti vd. Barker 1989, 108 n. 41 ; Ferrini 2008, 279 n. 190), frutto di una grande e simultanea emissione di fiato ; voci squillanti (liguraiv), leggere e dense, come quelle delle cicale, delle cavallette e degli usignoli, e di quegli esseri leggeri i cui suoni non sono seguiti da risonanza di altro tipo ; voci spezzate (saqrai;… kai; parerruhkui`ai), tali perché giungono continue sino a un certo punto, poi si disperdono ove il mezzo in cui si muovono non è continuo, e non avviene un urto unico, ma frammentato, che dà carattere di spezzatura al suono ; voci aspirate (dasei`ai), quando emettiamo il fiato contemporaneamente ai suoni, non aspirate (yilaiv) quando non c’è emissione di fiato ; e voci balbuzienti (ijscnovfwnoi), dovute al movimento della lingua, che non riesce a cambiare posizione per emettere un suono diverso da quello su cui si soffermano a lungo, e del fatto che l’emissione di aria prosegue con il medesimo impulso e la medesima forza e quantità di emissione. Nel complesso, dunque, anche se non siamo di fronte ad una visione strutturata e articolata in modo coerente, il De audibilibus costituisce un ulteriore progresso dell’analisi (empirica) dei fenomeni acustici, a volte condotta con un certo rigore, mentre in altri casi con qualche tratto singolare ; se la parte più originale risiede nelle osservazioni concernenti la voce, è notevole il fatto che in generale non vi siano riferimenti di carattere matematico (se non in merito alla questione del tono e della consonanza) ; caratteristico, come accennato, è anche il frequente ricorso a paralleli con strumenti musicali.[17] Anche per quanto riguarda Teofrasto dobbiamo fare riferimento a Porfirio (in Harm. 61, 15 sgg.) : varie sono le fonti che attestano l’interesse di Teofrasto per la musica (cfr. frr. 715-726c in Fortenbaugh 1993, 561-583) ; per quel che riguarda l’acustica il successore nella guida del Peripato sembra prendere le mosse  





















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da Arist. Sens. 488a 19, ove si considera che “i suoni componenti le consonanze potrebbero in effetti non giungere simultaneamente all’orecchio e tuttavia essere percepiti come simultanei, se l’intervallo di tempo che separa il loro arrivo all’orecchio è tanto piccolo da non essere percettibile” [Ciancaglini 1998, 249]. Ma è necessario precisare che è innovazione di Teofrasto, rispetto allo stesso Aristotele, aver riconosciuto che le implicazioni che riguardano suono e musica sono improntate dall’intento dell’anima (cfr. ad es. l’esordio della citazione teofrastea in Porfirio : « infatti il movimento che produce una melodia, quando avviene nell’anima, è molto accurato, se voglia esprimerlo con la voce »).[18] L’excerptum in Porfirio prosegue poi con una prima parte di osservazioni (di tipo astratto, e dialettico) tese a confutare argomentazioni pitagoriche, platoniche e anche di scuola peripatetica, principalmente concernenti la musica e la matematica (ad es., il filosofo non ritiene che le differenze tra suoni siano dovute a principi numerici) ; mentre in una sezione successiva (62, 50-64, 24), con osservazioni di carattere empirico, Teofrasto esamina i modi in cui sono fisicamente prodotti, ma soprattutto percepiti, suoni di tono differente. Tra le conclusioni cui egli giunge, dopo un’attenta discussione in particolare sui suoni ‘concordi’, e meglio, sulla capacità di percepire toni differenti, poiché sembra esserci differenza nel movimento e nella penetrazione del suono alto e di quello basso (63, 30-32 : « il suono più acuto è per natura più evidente, non più forte, ed è percepibile più lontano rispetto al suono più grave » ; 64, 4-7 : « e se il suono acuto si muove più lontano, non vi giunge a causa di quantità più grandi (dia; to; pleivou~… ajriqmouv~), ma per la forma (dia; to; sch`ma), poiché il suono più acuto giunge più avanti e in alto, quello più grave si muove di più intorno allo stesso modo »), notevole è l’affermazione che alcune questioni inerenti alla capacità di percezione dei suoni (63, 19-64, 7) non è dovuta alle caratteristiche quantitative, semmai a quelle qualitative (62, 24-25 : « non saranno più le differenze sulla base della quantità, ma sulla base della qualità propria dei suoni, come nei colori » ; 64, 23-24 : « non sono dunque certi numeri differenti a spiegare le differenze, ma suoni tali per natura, che per natura sono insieme combinati in armonia ») ; né è dovuta agli intervalli (64, 24-65, 13), bensì al fatto che « una sola è la  







































natura della musica : è movimento dell’anima che avviene secondo la dissoluzione dei mali causati dalle affezioni. Se così non fosse, non potrebbe esistere la natura della musica » (65, 13-15).[19] 4. Il periodo ellenistico. - È necessario ancora fare cenno a un altro brano, il Proemio (1-25 Mengel) della Sectio Canonis[20] tràdita sotto il nome di →Euclide, ove si trova di nuovo riferimento alla necessità, perché si possa udire qualcosa, che vi siano prima urto e movimento (plhgh;n kai; kivnhsin provteron dei` genevsqai). I suoni (fqovggoi) sono dunque frutto di movimenti, i quali possono avere frequenza maggiore, e danno luogo ai suoni più acuti (ojxuvteroi) ; o minore, e danno luogo a quelli più gravi (baruvteroi), cosicché dai movimenti di maggiore frequenza e entità (ejk puknotevrwn kai; pleiovnwn kinhvsewn) si generino suoni più acuti, da quelli di minore frequenza e entità (ejx ajraiotevrwn kai; ejlassovnwn) i suoni più gravi. È allora possibile abbassare i suoni crescenti attraverso una sottrazione di moto (ajfairhvsei kinhvsew~), e alzare quelli calanti con un’addizione di moto (prosqevsei kinhvsew~) : ma se si possono aggiustare con addizione e sottrazione, vuol dire che i suoni sono composti di parti. E poiché le parti si trovano in un reciproco rapporto numerico, lo stesso rapporto avranno anche i suoni tra di loro. Appare chiaro che tali osservazioni derivino, oltre che dalle precedenti ricerche nel campo (ad es. il De audibilibus stabilisce un nesso tra vibrazione e fenomeno sonoro), anche dall’osservazione empirica che riguarda gli strumenti a corda ; alla fine del brano le affermazioni sui rapporti numerici introducono alla vera e propria Sectio, uno studio di carattere matematico e musicale. 5. Vitruvio e l’acustica teatrale. – Qualche osservazione infine in merito all’acustica teatrale [→architettura teatrale, 1] secondo le indicazioni di →Vitruvio (5, 3, 5-8) : nella scelta del luogo in cui si voglia costruire un teatro, è necessario, tra altri accorgimenti, tenere in gran conto che il luogo stesso abbia un’acustica tale (diligenter est animadvertendum, ne sit locus surdus) da favorire una rapida propagazione della voce (hoc vero fieri ita poterit, si locus electus fuerit, ubi non impediantur resonantia). La voce, definita secondo il dettato aristotelico, si muove con cerchi concentrici infiniti,[21] che non devono incontrare ostacoli (la diffusione,  











acustica graduale, è sia orizzontale sia verticale), cosicché tutti giungano alle orecchie degli spettatori in basso e in alto senza eco o rimbombo (sine resonantia). Tali conoscenze, come mostrano il teatro di Epidauro ad opera di Policleto il Giovane, o quello di Siracusa (e possiamo verisimilmente supporlo per il ‘primo’ teatro di Dioniso ad Atene, fatto ricostruire da Licurgo) erano già a disposizione degli antichi architetti : grazie all’acustica offerta da luoghi favorevoli in natura (Vitruvio afferma che la diffusione del suono tende a salire verso l’alto), e con attente indagini (accurati calcoli matematici e la teoria del suono) costruirono le strutture a gradinata del teatro, per fare in modo che qualunque voce sulla scena giungesse clarior et suavior all’udito degli spettatori ; cercando cioè, in termini moderni, di fare in modo che tra il suono che giungeva al pubblico in maniera diretta e quello che giungeva dopo una riflessione vi fosse un rapporto contenuto entro certi limiti.  



Note. [1] Un fenomeno noto al mito classico (cfr. Hom. h.Pan. 21, « [le ninfe] cantano, e l’eco geme intorno alla cima del monte » ; e la vicenda di Narciso e della ninfa Eco, di lui innamorata, in Ov. met. 3, 341-401). Per brevi trattazioni in altri ambiti cfr. Arist. de An. 419b 26 sgg. ; Ps.Arist. Pr. 899a e 901b. – [2] Cfr. Minnucci 1929, 453-458. – [3] Vd. Enriques-de Santillana 1932, 479-480 ; Leisegang 1941, 1056-1059. – [4] Si pensi a prosw/diva, « accento », ojxuv~, « acuto », baruv~, « grave », tovno~, « accento (musicale) », suvmfwnon, « consonante » (cfr. Dionys. Thr. fr. 6 Lallot), forse anche sullabhv, « sillaba », che però in Filolao (44 B 6 D.K.) ha valore musicale e indica la consonanza di quarta. – [5] Per una definizione di « consonanza », sumfwniva, vd. Ciancaglini 1991a, 48-49. – [6] Vd. Ciangaglini 1991a, 56-70 ; e Ciancaglini 1991b per gli aspetti numerici e di calcolo degli intervalli musicali. – [7] Porfirio però attribuisce il famoso esperimento, e la conseguente scoperta, ai Pitagorici. Vd. anche Nicom. Ar. 6, 16-7, 5 Hoche ; e Iambl. VP 26 Jan. – [8] Sull’acustica in Pitagora e nei Pitagorici, e sulle testimonianze, vd. Ciancaglini 1991a e 1991b ; Barker 1989, 29 sgg. ; Barker 2001, 911-914. – [9] Sul frammento di Archita, e sul suo contributo all’acustica, vd. Barker 1989, 7-9, 29-30, 39-42 ; Ciancaglini 1998 ; Barker 2001, 915-917 ; Huffman 2005, 129-149. – [10] Cfr. Ciancaglini 1998, 243 a commento di Pl. Ti. 80a 3-5. Altre osservazioni in Barker 1989, 53-54, 61-63. – [11] Sulle caratteristiche connesse alla percepibilità di cose ‘concordi’ (e quindi anche dei suoni), grazie agli aspetti di alterazione e cambiamento nei movi 



















































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menti, Aristotele si sofferma ancora in Sens. 447a 12-b 21. – [12] Per alcune connessioni con Archita (47 B 1 D.-K.), si vedano in merito Barker 1989, 77-80 ; Ciancaglini 1998, 243-247, la quale le riferisce piuttosto ad alcune tesi dei Problemata. – [13] Per quanto concerne il mezzo, proprio come nel passo aristotelico, si parlerà da qui in avanti solo dell’aria, poiché « l’ascolto è connaturato all’aria » (de An. 420a 4). – [14] Per le caratteristiche, il movimento e l’interazione di aria ed acqua con l’organo uditivo, cfr. de An. 420a 6-20. – [15] Cfr. de An. 420a 31 : dovremmo interpretare queste affermazioni, come suggerisce Ciancaglini 1998, 246, in riferimento alla velocità della sorgente sonora ; questa sembra essere inoltre un’obiezione alle affermazioni di Pl. Ti. 79e-80b, e un’adesione a quelle di Archita (47 B 1 D.-K.), che distingue, come abbiamo visto, velocità (maggiore o minore) di movimento della sorgente sonora e suono che ne risulta. - [16] Di fatto la voce consiste nell’urto dell’aria inspirata contro la cosiddetta trachea (hJ kaloumevnh ajrthriva) con il controllo dell’anima (yuchv) in quelle parti. Non tutti i suoni prodotti sono voce, ma ciò che colpisce ‘la trachea’ deve essere vivo (e[myucon) e dotato di una qualche immaginazione (meta; fantasiva~ tinov~), poiché la voce (fwnhv) è un suono che ha significato (yovfo~ shmantikov~). Per un’analisi di questa sezione, che in parte esula dal nostro tema d’indagine, rinvio a Barker 1989, 79-80. Sulla voce cfr. anche Arist. GA 786b 7-788b 2 (vd. in merito Barker 1989, 80-84). – [17] Vd. in generale Gottschalk 1968 ; Barker 1989, 99-109 ; Ciancaglini 1998, 247-248 ; Ferrini 2008, 161-209. – [18] Cfr. in merito Gottschalk 1968, 456-457 ; Barker 1989, 110-111 ; Fortenbaugh 1993, 562. – [19] Per altre informazioni sulle posizioni di Teofrasto vd. in generale Gottschalk 1968, 447 sgg. ; 456 sgg. ; Barker 1989, 110-118 ; Zanoncelli 1990, 11-12 ; Fortenbaugh 1993, 562-573. – [20] Il passo è tràdito, come proemio della Sectio Canonis, ancora da Porfirio (in Harm. 90, 7-23) ; ma le Proposizioni (1-16) della Sectio appaiono in altro luogo del suo Commento. Sull’opera vd. Barker 1989, 190-208 ; Zanoncelli 1990, 31-36 ; Barker 2001, 917-918 ; Acerbi 2007b, 677-702. – [21] Cfr. Diog. Laert. 7, 158 ; Plu. Plac. Phil. 902e 5-10 : si tratta di una definizione compiuta dallo Stoicismo.  







































Bibliografia. Acerbi 2007b ; Barker 1989 ; Barker 2001 ; Ciancaglini 1991a ; Ciancaglini 1991b ; Ciancaglini 1998 ; Enriques-de Santillana 1932 ; Ferrini 2008 ; Fortenbaugh 1993 ; Gottschalk 1968 ; Huffman 2005 ; Leisegang 1941, 1056-1059 ; Mazzeo-Biondo 2001 ; Minnucci 1929 ; Zanoncelli 1990.  



























Massimo Lazzeri

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aezio di amida

Aezio di Amida. Medico bizantino originario di Amida (l’odierna Diyarbakir in Turchia, sulle rive dell’alto Tigri), della prima metà del sec. vi d.C. (menziona Cirillo arcivescovo di Alessandria, morto nel 444 [l. ix 24] ed è citato da Alessandro di Tralle [de febr. 7]) ; ha studiato ad Alessandria d’Egitto ed è stato medico di corte a Costantinopoli col rango di comes (la dignità di comes obsequii, riportata nelle inscriptiones di alcuni manoscritti, è negata da Martindale 1980, il quale data la costituzione del tèma bizantino di Opsikion al sec. vii). La sua enciclopedia medica in 16 libri (Libri medicinales) è divisa nella tradizione manoscritta in quattro tetrabibloi di quattro libri ciascuna : proprietà dei farmaci semplici e degli alimenti (ll. i-ii), pratiche terapeutiche e igieniche (l. Iii), dietetica e temperamenti (l. iv), semeiotica, prognostica e terapia delle febbri (l. v), malattie della testa (l. vi), oftalmologia (l. vii), deformazioni del viso e malattie del torace (l. Viii), malattie dell’addome e vermi intestinali (l. ix), malattie del fegato e della milza, ittero e idropisia (l. X), diabete, malattie dei reni, della vescica e degli organi genitali maschili (l. xi), sciatica, artrite e paralisi (l. xii), morsi di animali, veleni e antidoti, malattie della pelle (l. xiii), affezioni anali, ascessi, ferite da taglio e piaghe (l. xiv), edemi e tumori, empiastri (l. xv), ginecologia (l. xvi). Fonti principali sono Antillo, Archigene, →Dioscoride, Erodoto medico, Filagrio, Filumeno, →Galeno, →Ippocrate, →Oribasio, →Rufo, →Sorano, ma anche medici minori, quali Amitaone, Leonida, Magistriano, Panfilo, Teone (Capone Ciollaro-Galli Calderini 1999, 29-50, De Lucia 1996, 143153, Masullo 1992, 237-256). Presenti nella tradizione manoscritta del testo anche rimedi magico-religiosi, come la citazione di Ps. 1.3 (l. xiii 54) e di Ioh. 11,44 (l. xvi 15) o il richiamo (l. Viii 54) a Matth. 12,40 (Jon 2,1) con l’invocazione di S. Biagio (Mercati 1917, 42-45, Romano 1994, 589-594). L’opera è stata utilizzata da Teofane Nonno Crisobalante (Capone CiollaroGalli Calderini 1999, 29-50). Fozio (bibl. cod. 221) giudica l’opera superiore alle Synopseis di Oribasio e, da un punto di vista pratico, preferibile anche alle sue Collectiones in 70 libri. Perduta è la traduzione araba fatta, secondo Abū r-Raiḥān Muḥammad ibn Aḥmad al-Bīrūnī, nel sec. x da Abū-l-Hair al-Hasan ibn Suwar ibn al-Hammâr (Sezgin 1970, 164-165, Ullmann 1970, 84-85). Dopo l’editio Aldina del 1534, i li 



bri i-Viii sono stati pubblicati nel Corpus Medicorum Graecorum dall’Olivieri. Degli altri otto, i libri ii, ix, xiii (29 capp.), xv e xvi sono stati editi da Zervòs, il l. xi da Daremberg, il l. xii da Kostomiris, ancora inediti i libri x (di cui ho in corso l’editio princeps), xiv e gran parte del l. xiii (Garzya 1984, 245-257). La versione latina dei sedici libri è stata curata nel 1542 da Ianus Cornarius ( Johann Hagenbut/Haynpol). Edizioni. Aldina 1534; Olivieri 1935-1950; Daremberg-Ruelle 1879; Kostomiris 1892; Zervòs 1901; Zervòs 1906; Zervòs 1909; Zervòs 1911. Bibliografia. Garzya 1984; Garzya 2005 ; Hunger 1978 ; Martindale 1980 ; Nutton 1996a ; Scarborough 1991 ; Sezgin 1970 ; Ullmann 1970.  











Anna Maria Ieraci Bio Agenti atmosferici. 1. L’uomo e il clima. – Se l’agricoltura è il fondamento dell’economia antica, l’incidenza degli agenti atmosferici (positivi, ma soprattutto negativi) sull’attività agricola è uno dei problemi fondamentali che il ciclo produttivo doveva affrontare (Gallant 1991). La conoscenza dei fenomeni meteorologici, così come delle →previsioni atmosferiche, ebbe un’importanza primaria, non solo nel settore agricolo del resto. Al di là del calore solare e delle precipitazioni piovose, entrambi indispensabili alle colture, ma dannosi se eccessivi, due furono gli agenti atmosferici più studiati e osservati (nonché temuti) nell’antichità. 2. Grandine. – Della grandine come fenomeno atmosferico si erano occupati Arist. mete. 1,12, 348a1-348b30 ; ep. 3, 106-107 ; Chrysipp. fr. 701 SVF ; Sen. nat. 4b,3-7 ; Plin. nat. 2,152, ipotizzando per lo più che la grandine consistesse nella precipitazione di ghiaccio fermo nelle nubi più alte e più fredde dell’atmosfera, arrotondata nella caduta per effetto dell’incontro con le parti più calde dell’aere. Ma già Anassagora (59A85 D.-K.) non era andato lontano dal vero nell’ipotizzare che la grandine provenisse dal ghiacciamento dell’acqua « nella parte più alta della media atmosfera » ; solo nel xix secolo si è collegato il fenomeno all’elemento elettromagnetico presente nelle nubi. Dal punto di vista dell’agricoltura la grandine era considerata il più rovinoso e distruttivo fenomeno atmosferico (cfr. il nostro proverbio « grandinata/ può far brutta annata ») : già per l’età romana sono attestati contratti di assicurazione per danni causati dalla grandine, tra la respublica e privati  



















agenti atmosferici cittadini ; questa tradizione ha importanti sviluppi sia nel medioevo sia fino al secolo scorso. La grandine fu vista come un male ‘divino’ da allontanare attraverso scongiuri e purificazioni (vd. Paus. 2,34,3): a volte sorprendenti ; i Traci, i Galli e i Germani lanciavano frecce contro le nubi che sembravano preannunciare grandine. Anche Seneca (nat. 4b,6-7) elenca alcune testimonianze, attribuite alle fonti stoiche, su pratiche di allontanamento della grandine particolarmente strane. In alcune regioni orientali esisterebbero degli ‘avvistatori di grandine’ capaci di predire la precipitazione dal colore delle nubi (ib. 4b,6,1 : definito da Seneca una « corbelleria ») ; tanto più « incredibile », ancora, è l’usanza di compiere un sacrificio per stornare la grandine, testimoniata per la città argolica di Cleone : « ciascuno, secondo le proprie possibilità, offriva un sacrificio, chi di un agnello, chi di un pulcino : subito quelle nubi ripiegavano altrove, non appena avessero assaggiato un po’ di sangue. Tu ne ridi ? Sta’ a sentire questo, allora, che è ancora più ridicolo : se uno non possedeva né un agnello né un pulcino, rivolgeva le mani contro se stesso, cosa che poteva fare senza rimetterci nulla e, perché tu non abbia a ritenere le nubi avide e crudeli, si pungeva il dito con uno stilo appuntito e con questo sangue sacrificava con ottimi risultati ; e la grandine si allontanava dal suo campicello non meno che da quello per il quale era stata scongiurata con un olocausto più importante » (ib. 4b,6,3). Il potere apotropaico del sangue (anche umano) sulla grandine ritorna in una testimonianza di Plutarco (quaest. conv. 7,2,2), in cui è menzionata la credenza di poter allontanare la grandine attraverso sangue di talpa o, come in questo capitolo, panni femminili di mestruazione. Ancora Seneca (nat. 4b,7,1-2) rigetta come « falsa » l’opinione per cui « ci sia proprio nel sangue una forza misteriosa in grado di stornare e di ricacciare lontano le nubi » ; la credenza, in sostanza, sembra essere appartenuta al tipo di magia ‘antipatica’ per cui l’elemento rosso e caldo del sangue è opposto al freddo della grandine. La tradizione degli scongiuri e delle pratiche superstiziose per prevenire la grandine persiste durante tutto il medioevo (per l’età di Carlo Magno sono attestate tavolette e strisce di pergamena con segni cabalistici, fissate a pali posti al confine dei campi) e arriva fino alle cantilene popolari del folklore meridionale moderno, nelle quali sono protagonisti alcuni Santi scongiuratori di grandine.  







































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3. Venti. – I venti erano venerati come divinità da tutti i popoli antichi. In Grecia Eolo, dio dei venti, ne regolava la direzione e la potenza (nel folklore moderno Eolo è stato sostituito da San Marco, protettore e ‘maestro’ dei venti). Omero ne nomina quattro (Od. 5,295-296, 331-332 ; cfr. Plin. nat. 2,119 ; Gell. 2,22,16), e attribuisce ad essi tratti personificati (i cavalli di Achille sono figli di Zefiro e di un’arpia). Esiodo elenca tre venti, figli di Astreo e di Aurora (Ph. 378-380). Ma già la ‘torre dei venti’ ad Atene ne conta otto (cfr. Vitr. 1,6,4), che poi diverranno canonici. Dei venti si era occupato ovviamente →Aristotele nei Meteorologica (1,13,349a-b; 2,4-6,361a-365a); →Teofrasto ci ha lasciato un De ventis ; →Seneca nel v libro delle Naturales quaestiones (sui nomi : capp. 16-17) espone numerose teorie e dottrine, rifacendosi a →Varrone (per sua esplicita dichiarazione ; ma cfr. già Timosth. fr. 6 Wagner, l’ammiraglio di Tolemeo ii Filadelfo) cataloga dodici venti, come nell’attuale ‘rosa’. Cfr. infine Plin. nat. 2,114-121 e 18,326-341 (ove si illustra il modo di fabbricare una empirica ma efficace ‘rosa dei venti’ che funga da anemometro). « Solo i nativi conoscono i venti del luogo », recita un proverbio greco registrato dai lessicografi (Suda a 2263), e forse già riecheggiato in un famoso frammento del poeta Alceo (fr. 208,1 Voigt ; per il concetto cfr. poi Vitr. 1,6,10 ; Plin. nat. 2,120 ; Quint. inst. 12,10,67 ; Gell. 2,22,19) : l’espressione è significativa dell’importanza attribuita alla conoscenza dei venti periodici nell’attività agricola, in antichità come nella moderna agronomia. Il vento ha infatti conseguenze notevoli sullo sviluppo delle piante e la salute degli allevamenti ; effetti positivi si hanno, con venti moderati, sull’evaporazione, sulla traspirazione e sull’irraggiamento dei vegetali ; gli effetti negativi aumentano quanto più aumenta la velocità dei venti. Cfr. Ptol. Tetr. 1,2,7 : « I contadini e i pastori più attenti prevedono la qualità dei prodotti futuri dai venti che spirano durante la fecondazione e la semina ». Il vento di levante (E nella moderna rosa dei venti) è detto « afeliote » dai Greci, cioè « vento che arriva da dove sorge il sole », subsolanus o solanus tra i Romani. L’euro (ES-E), « volturno » per i Latini, corrisponde al nostro levante-scirocco, ma nelle fonti classiche, soprattutto tra i poeti, è spesso assunto a sinonimo di ‘vento orientale’. Il vento kaikías (E-N-E) è il greco-levante, temuto dai contadini per le improvvise precipitazioni : « greco  

















































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agostino

e levante/ acqua di dietro e acqua davanti ». Lo zefiro/favonio (W) è il vento cardinale di ponente. Il libeccio (dall’arabo lebeg, « vento piovoso » ; S-W), « africo » o « libo » tra i Romani, spira dalle regioni africane verso il Mediterraneo, soprattutto settentrionale e centrale : cfr. Sen. nat. 5,16 ; Plin. nat. 2,119 ; è tra i venti più forti e la sua violenza diviene presto proverbiale (cfr. Dirae 39 ; Liv. 30,24,7 ; Hor. carm. 3,23,5 ; 29,58 ; epod. 16,22) ; è tuttavia di breve durata. Lo iapigio (N-W), « coro » o « argeste » tra i Romani, è il nostro maestrale, vento freddo e secco, in generale considerato portatore di tempo buono : il vento era impiegato utilmente per la navigazione verso la Grecia e verso l’Egitto : cfr. Verg. Aen. 8,710 ; Sen. nat. 4,17,5 ; Gell. 2,22). Borea, l’« aquilone » dei Romani, e l’aparktias, septentrio per i Latini, furono termini spesso impiegati, fino all’età classica, per identificare tout court i venti freddi settentrionali. Solo con l’età tarda si arrivò ad una definizione del primo come vento di N-E, il nostro « greco », e del secondo come vento cardinale del nord, la nostra « tramontana » (vd. Nielsen 1945, 76-78 e 90-91). Il thrakias, che i romani non denominarono (cfr. Sen. nat. 4,16,6), è vento di N-N-E, tramontana-maestrale : prende nome, in un’ottica ellenocentrica, dal fatto che sembrava spirare dalla Tracia. Il Noto, « austro » tra i Romani, è vento cardinale del sud (S), caldo e potente. L’euronoto (S-S-E) è il nostro « austroscirocco », era indicato anche con il nome di phoinikias (Plin. nat. 2,119). Il libonoto (S-S-W), se mite, era definito leukonotos.  





































































Bibliografia. Cusset 2003 ; Liuzzi 1996 ; Mariolopoulos 1972 ; Nielsen 1945 ; Taub 2003.  







Emanuele Lelli Agostino. 1. Generalità. – Filosofo, teologo, vescovo e figura di riferimento nella Chiesa tardoantica, Agostino è nato a Tagaste nel 354 ed è morto a Ippona nel 430. Nelle sue molte opere prendono forma aspetti diversi del sapere dei latini. Al suo ruolo di testimone della cultura del suo tempo è stata perraltro tradizionalmente riservata un’attenzione piuttosto marginale. Oltre ai temi di medicina vd. →geografia, 11. 2. Medicina. – Quello del rapporto tra Agostino (354-430 d.C.) e la →medicina rappresenta senz’altro un tema particolarmente interessante e in gran parte ancora da indagare. Agostino, infatti, come del resto altri Padri del-

la Chiesa, si dimostra incline a trattare determinate tematiche connesse a tale scienza, soprattutto inerenti alla natura dell’anima e alle sue relazioni con il corpo. Gli scritti agostiniani costituiscono anche uno strumento preziosissimo per conoscere l’operato di certi medici altrimenti sconosciuti, grazie alla descrizione di interventi su reali casi di malattia [1] [→patologia], che ci aiutano a comprenderne anche prerogative e ruolo nella società dell’epoca. Particolarmente rilevanti, per esempio, le informazioni sul comes archiatrorum e proconsole d’Africa →Vindiciano, [2] o l’aneddoto con protagonista un non meglio noto chirurgus [→chirurgia] alessandrino, [3] che ci testimonia la considerazione di cui godeva la scuola medica di Alessandria all’inizio del v secolo. [4] Numerosi sono i tecnicismi desunti dalla →medicina usati da Agostino, nonché i riferimenti a metodologie terapeutiche [→terapeutica] e prassi mediche, a nozioni riguardanti branche quali la →anatomia, la →fisiologia, la oftalmologia [→occhio], per cui è possibile anche ipotizzare una sua conoscenza diretta di opere di settore. Agostino dimostra anche una certa cognizione dello sviluppo storico dell’arte, citando autori greci e latini, come →Ippocrate di Chio, →Celso, →Sorano [5] e accennando a questioni molto dibattute quali la →vivisezione. [6] Oltre alle connessioni con la →medicina come scienza, troviamo in Agostino anche racconti di guarigioni miracolose, ma soprattutto risaltano quelle implicazioni metaforiche comuni a tutta la riflessione patristica, il cui frutto più significativo può essere senz’altro considerato il concetto di Christus medicus.  







Note. [1] Vd. Benseddik 1989. – [2] conf. 4, 3, 5 ; epist. 138, 3. – [3] civ. 22, 8. – [4] Nutton 1972. – [5] Cfr. Courcelle 1948 ; Hagendahl 1967 ; Marrou 1938. – [6] Vd. anim. 4, 2, 3  





Bibliografia. Agaësse-Solignac 2000, 710-714 ; Arbesmann 1954 ; Bardy 1953 ; Benseddik 1989 ; Berrouard 1993, 854-855 ; Courcelle 1948, 181182 ; Courtès 1954 ; Dumeige 1972 ; Fichtner 1982 ; Fiorucci 2008 ; Hagendahl 1967 ; Keenan 1936 ; Madec 1994, 873-874 ; Marrou 1938, 141-143 ; Nutton 1972 ; Plagniuex-Thonnard 1975, 833834 ; Rassineir 1991 ; Vannier 2005.  

































Francesco Fiorucci Agricoltura. 1. « Madre e nutrice delle altre artes ». – Principale attività economica del mondo antico (lo è stata fino al xvii sec.), base  



agricoltura indispensabile per la produzione alimentare, l’agricoltura non fu considerata una vera e propria ‘scienza’ dai Greci e dai Romani, ma una pratica millenaria, un sapere tecnico che, pure, fu oggetto di centinaia di trattati e manuali. L’aspetto primario dell’agricoltura, intesa come attività dell’uomo, è la trasformazione di specie vegetali da selvatiche e spontanee a domestiche (qerapeiva : Theophr. HP 2,2,12). In questo senso la principale attività dell’uomo è preparare, migliorare e programmare la piantagione delle singole specie, in conformità alla stagione, al terreno e al clima (HP 2,5), attraverso i fondamentali →lavori agricoli : vangare (skapavnh), annaffiare (uJdreiva), concimare (kovprwsi~) e potare (diakavqarsi~ : ib. 2,7,1). In tal modo l’uomo interagisce con la tecnica nel mondo della natura, in modo positivo e necessario : tra tevcnh e fuvsi~ non c’è opposizione, ma integrazione (Theophr. CP 1,16,10-13). Il binomio tecnica/natura è fondamentale nell’immaginario collettivo antico che riguarda il mondo vegetale (e, in parte, animale), ed è un parametro che attraversa, ad esempio, tutto il De causis plantarum teofrasteo : nell’agricoltura si integrano quindi i due aspetti, l’attività dell’uomo (tevcnh, qeravpeia) e la natura, intesa come suolo [→terreno], →agenti atmosferici, sviluppo vegetativo delle piante [→botanica]. « Ha detto bene chi disse che l’agricoltura è madre e nutrice delle altre arti », afferma già il Socrate senofonteo (Oec. 5,17). Ed invero nessuna altra tevcnh applicata godette, nell’antichità, di maggiori attenzioni quanto l’agricoltura. Come di numerose altre discipline o tecniche, anche dell’agricoltura (e della botanica) fu considerato esperto Omero (Stubbings 1963) ; nei poemi omerici vennero indicati versi che illustravano particolari metodi agronomici o evidenziavano proprietà di specie vegetali (per es. : Theophr. HP 3,1,3). Gli ambiti in cui gli antichi divisero tale disciplina sono – stando a →Varrone (r.r. 5,3) – quattro : lo studio del →terreno, degli →attrezzi agricoli, dei →lavori agricoli, del →calendario agricolo. Immense sono le conoscenze che deve possedere chi si dedichi all’agricoltura, in campi tra loro anche diversissimi quali la geologia e la meteorologia [→agenti atmosferici, previsioni atmosferiche], la botanica e la →fisica, la zootecnia e la carpenteria (Colum. praef. 21-27) : « quel che credono in molti, che l’arte di coltivare i  























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campi sia cosa facilissima e non richieda nessuna intelligenza, è assolutamente errato ». Ma ciò che più conta nell’agricoltura è saper far tesoro dell’esperienza, propria ed altrui : è osservando errori e successi che si progredisce nell’arte (Colum. 1,1,15-18). 2. Agricoltura e politica. – L’agricoltura, intesa come arte che nobilita l’uomo, non è solo un topos letterario della tradizione agronomica antica. Già nell’Economico senofonteo l’arte dell’agricoltura è attribuita al re persiano Ciro, modello – per altri versi, nel iv sec. – di cultura e di politica : il sovrano si dà cura di ispezionare personalmente quante più tenute possibili, affidando il controllo degli altri fondi a uomini di fiducia, assegnando premi o castighi a seconda del merito (4,4-25). Sono, questi, tutti compiti attribuiti nella tradizione agronomica al ‘buon proprietario’ (Cat. agr. 2 ; Colum. 1,7), del quale, quindi, già il profilo del Ciro senofonteo costituisce una sorta di archetipo. Ma il ruolo delle monarchie orientali nell’impulso dato allo sviluppo delle tecniche agricole, alle sperimentazioni (innesti, trapianti, trasporto di specie da un luogo all’altro) va ben oltre l’immagine poetica tracciata da Senofonte, come documentano numerose iscrizioni assire e persiane, nelle quali i sovrani menzionano decreti e iniziative di sviluppo agronomico. Questo lato della politica agricola di matrice ‘orientale’ è proseguito, in Grecia, dai tiranni, come testimoniano notizie relative alle iniziative di un Policrate (Ath. 540d) o di un Dionigi Siracusano (Ath. 27e), nonché dalla tradizione di tiranni o re ellenistici autori di trattati agronomici (Gerone di Siracusa, Attalo Filometore). Un impulso enorme alle tecniche agricole venne infine dall’azione di Alessandro Magno, anche per l’ampiezza del mutato orizzonte geopolitico (Theophr. HP 4,4,1 ; Plu. Dem. 20). [1] A Roma la ‘questione agraria’ fu sempre al centro del dibattito politico, e costituì il terreno privilegiato di scontro (a volte durissimo) tra conservatori e riformatori : i Gracchi ne sono l’esempio più famoso. 3. Agricoltura, etica, economia di sussistenza. – Il Socrate senofonteo afferma che « neppure le persone più beate (makavrioi) possono astenersi dal praticare l’agricoltura. Impegnarvisi è a quanto pare un piacere, accresce i beni della casa e allena il corpo » (Oec. 5,1). Questa visione è alla base della convinzione che due siano gli aspetti dell’arte agricola, entrambi di pari di 















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agricoltura

gnità : la produzione del cibo da una parte, e di specie piacevoli alla vista e all’olfatto dall’altra (Xen. Oec. 5,2-3 ; 6,9-10 ; Geop. praef.). Altro effetto benefico non secondario dell’attività agricola, intesa in senso nobile, è l’irrobustimento del corpo, che fa da contrappunto all’attività militare : così già in →Senofonte (Oec. 5,5-6), e in →Catone (praef. 3 ; e vd. ancora Varr. r.r. 2,1,2, in polemica con l’abitudine dei ‘cittadini’ di andare nelle palestre greche ; Colum. praef., deplorando il disinteresse delle classi colte per l’arte agronomica). Sintetizza →Varrone (r.r. 4,1) : « gli agricoltori debbono mirare a due mete, al profitto e al piacere (utilitatem et voluptatem). L’oggetto del primo è il reddito, del secondo il godimento » ; ma aggiunge : « l’utile deve avere il sopravvento sul dilettevole ». D’altra parte, la concezione che il lavoro agricolo (e con esso la fatica) sia per l’uomo una necessità fa da sfondo, anche, all’interpretazione poetica che ne offre →Virgilio nelle Georgiche : labor omnia vicit/ improbus et duris urgens in rebus egestas (1,145 sg.). La dura vita dell’agricoltore, al tempo stesso, è considerata spesso nelle fonti letterarie antiche una condizione felice di sanità fisica e morale, e diviene simbolo metaforico (e idealizzato) di rifugio sereno dai mali della civiltà (cittadina) : così già in alcuni autori ateniesi di v sec. a.C. (Euripide), poi più frequentemente in età ellenistica (Menandro e Teocrito) e a Roma, ove il motivo idealizzante si fonde con la linea nostalgica del mos antiquum (Verg. georg. 2,458-540 ; Martin 1971, 95-105). Ovviamente, però, la realtà rurale è (e sarà ancora per molto tempo) ben diversa dall’idealizzante immagine dei poeti e dalla sicura razionalità degli agronomi : il mondo contadino è contrassegnato da un’esistenza difficile, costellata di privazioni, limitata come aspettativa di vita (circa trent’anni) e colpita da altissima mortalità perinatale nonché frequenti crisi di sussistenza. Proprio un’economia di sussistenza è, in fondo, quella che contraddistingue la stragrande maggioranza della popolazione contadina dell’antichità. Attraverso un approccio critico comparativo (Gallant 1991), si può mettere in luce quanto la vita del contadino antico (e moderno, fino almeno al xix secolo) fosse legata al calcolo del rischio di riuscita o insuccesso nel programmare e impiantare questa o quella coltura, nell’attuare una certa strategia di semina o conduzione del terreno ; l’incidenza di eventi naturali impreve 



































dibili e dannosi alle colture era altissima, così come l’eventualità di sconvolgimenti politici. Ma il maggior impegno nella programmazione e razionalizzazione delle risorse riguardava il calcolo del fabbisogno proprio e del surplus da potere mettere in circolazione nel mercato. Quello della piccola fattoria indipendente, in altri termini, si presenta come un vero e proprio ciclo di lavoro e di vita, che dipende dall’intelligenza e dalla previdenza del contadino antico (in quest’ottica occorre valorizzare il ruolo della donna). 4. Realtà agraria e fonti agronomiche. – Chi voglia ricostruire un quadro d’insieme dell’agricoltura antica deve necessariamente tenere presenti due dimensioni : da una parte le testimonianze archeologiche (iscrizioni, siti di aziende agricole, strumenti, opere idrauliche, iconografia) e le ricerche della paleobotanica, dall’altra i testi antichi, in particolare quelli della tradizione agronomica, ma non solo (si pensi alla storiografia, all’oratoria o alle fonti giuridiche). Questa interazione tra diverse fonti non sempre è agevole, e pone alcuni problemi. Le testimonianze letterarie, per esempio, omettono spesso argomenti fondamentali : il dato va interpretato come segno di estrema diffusione di talune pratiche, alle quali era sufficiente accennare ? Le iscrizioni (cippi, contratti di affitto) offrono dati singoli su situazioni specifiche : quanto è possibile generalizzarli ? Quale peso occorre dare alle preponderanti rappresentazioni del paesaggio campestre fitto di selve e boschi, [2] così come offerto dagli autori antichi : letterarietà o reale prevalenza di zone incolte ? Le condizioni climatiche e geografiche, soprattutto per l’antica Grecia, costituiscono un dato imprescindibile, ma spesso sottovalutato (Isager-Skydsgaard 1992, 9-18). Esistono, poi, numerosi problemi terminologici : quasi mai, per esempio, è possibile accertare se la manodopera descritta nelle fonti greche è libera o schiavile (oijkevtai). I testi in lineare B non consentono di delineare un quadro preciso dell’assetto agrario in epoca micenea : i problemi sono costituiti dall’esistenza o meno di una medio-piccola proprietà terriera di fronte ai grandi possedimenti aristocratici, dalla possibilità di un ciclo non solo biennale di colture, dal rapporto tra allevamento (e quindi concime) e colture estensive. In età arcaica però la situazione appare mutata, nonché meglio ricostruibile sul lato documentario : il fra 



















agricoltura zionamento dei terreni dà vita ad una classe di proprietari liberi, che possono contare anche su manodopera schiavile. Il surplus viene immagazzinato nel palazzo, in un sistema sicuramente centralizzato di ‘risorsa sociale’ (Halstead 1992). Questa realtà è ‘fotografata’ in Omero, Esiodo e Solone. Dal vi-v sec. a.C. si assiste a una progressiva specializzazione di alcune aree geografiche e ad un potenziamento dell’agricoltura intensiva. La rotazione biennale è ormai diffusa. Essenziale, in questo sviluppo, il ruolo di domanda costituito dalle città ‘consumatrici’. Il modello più diffuso sembra quello dell’economia ‘familiare’, con appezamenti medi di proprietà di un kleros familiare (che spesso, attraverso eredità e matrimoni, cerca di mantenere indivisa la tenuta). [3] A quest’epoca debbono risalire anche le prime forme di colonato : un proprietario di grandi tenute affitta a lavoratori liberi appezzamenti medio-piccoli di terreno, in un rapporto di mezzadria. Per l’Attica, stime plausibili indicano che il 5% della popolazione deteneva un quarto dei terreni (Osborne 1992, 24), e che il rendimento delle tenute agrarie era abbastanza alto da consentire di pagare liturgie e tasse elevate. È ancora a quest’epoca che deve farsi risalire lo sviluppo di quella ‘azienda agricola’ costituita da una fattoria indipendente munita di attrezzature per le colture specialistiche e di manodopera residente in loco, guidata da un ‘massaro’ fiduciario del proprietario. Il trattato di Senofonte ne fornisce un primo profilo, benché idealizzato, così come lo pseudoaristotelico Economico offre una prima teorizzazione delle norme di investimento e profitto in campo agrario. Fu tuttavia, a quanto pare, con il iii sec. a.C., nel clima culturale del Museo alessandrino, che si svilupparono teorie più innovative e propriamente agronomiche, speculazioni di taglio botanico (per le quali un precedente imprescindibile è costituito da Teofrasto) miranti a migliorare il rendimento delle colture, nonché applicazioni pratiche (soprattutto idrauliche). L’Egitto tolemaico, che pure era depositario di una tradizione agronomica millenaria, si distinse per la particolare capacità di pianificazione statale delle colture e per i progressi tecnologici.[4] Segno di questa espansione agricola, che ebbe come conseguenza principale un’espansione demografica altrettanto notevole, è forse il moltiplicarsi di trattati agronomici in età ellenistica, richiesti  



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da un pubblico sempre maggiore. Di essi nulla ci è rimasto, fuorché notizie ed estratti in opere successive. Bacino collettore di tutta questa tradizione tecnico-letteraria dovette però essere il cartaginese Magone, che costituì, dal ii sec. a.C., una sorta di summa delle opere di ambito peripatetico e alessandrino, e rappresentò il punto di riferimento per tutta la tradizione successiva, greca e romana (DevillersKrings 1996). Proprio nel ii sec. a.C., del resto, il Mediterraneo era divenuto un’unità economica e politica, in ragione dell’espansione di Roma. L’agricoltura italica era stata, tra il v e il iii sec. a.C., profondamente influenzata e ‘ridisegnata’ dalle conquiste romane. Originariamente più orientata ad un’economia fondata sulla pastorizia (come provano molti segni : fatti linguistici legati al mondo pastorale, leggende, nonché l’impianto del calendario rustico basato su feste pastorali), Roma aveva iniziato un’espansione agricola solo dopo le prime conquiste in Etruria e in Campania. Si era infatti creata, allora, una disponibilità di terreno sempre crescente, da ridistribuire alla plebe in appezzamenti però di dimensioni ridotte, legati al concetto di autosufficienza. Questo stato di cose, che è comprovato sia da evidenze archeologiche di siti rurali sia da testimonianze sulla fondazione di colonie, era perdurata fino alle guerre annibaliche. La conseguenza fondamentale della vittoria romana su Cartagine fu l’ingente quantità di manodopera schiavile che si riversò nella penisola, modificando in modo irreversibile l’economia tradizionale. Il sistema della piccola gestione contadina autarchica ne risultò sconvolto, nella maggior parte delle aree rurali, e si diffuse in modo determinante un tessuto di villae di dimensioni medio-grandi, vere e proprie aziende agricole organizzate in funzione del mercato e delle colture specializzate. È a questa realtà, in fondo, che fa riferimento il de agricultura catoniano, pur con tutti i suoi atteggiamenti conservatori. La nuova situazione economica del iii-ii sec. a.C. era al tempo stesso causa ed effetto di un declino demografico dell’Italia e in particolare di un vasto spopolamento delle campagne al centro-sud. Il problema dell’ager publicus, che le classi più agiate avevano occupato apportando migliorie e ‘riaffittandolo’ a piccoli proprietari, esplose in tutta la sua drammaticità verso la metà del ii sec. a.C., e fu lo scenario in cui si situò il tentativo  

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di riforma agraria graccana. I Gracchi mirarono a ripristinare, almeno in parte, un sistema di conduzione agricola italico che poneva al centro la figura del contadino-soldato di età altorepubblicana, ormai obsoleto per gran parte della penisola. Il tentativo fallì, non solo per ragioni politiche, ma anche per gli alti costi attuativi (un’immensa opera agrimensoria sarebbe stata necessaria) e le difficoltà pratiche. Ne risultò un accrescimento rilevante della plebe urbana di Roma, che da questo momento rappresentò sempre più un problema anche per l’economia agricola (distribuzioni gratuite di frumento, e altro). Per tutta la storia agricola dal i sec. a.C. fino alla fine del mondo antico l’approvvigionamento alimentare di Roma costituisce il punto cruciale. La maggior parte dell’economia della penisola è finalizzata a rifornire la capitale, mentre le province escono progressivamente da una posizione di subalternità, divenendo centri autonomi di produzioni anche specializzate e intensive. Diversi gli elementi di crisi nel panorama della realtà agricola italica del tempo : il ridotto investimento di capitali, la prevalenza di colture estensive, la gestione e produzione affidata agli schiavi. È dal ii-iii sec. d.C. che pare affermarsi, d’altra parte, un nuovo sistema economico agricolo fondato su una figura destinata ad avere sviluppi interessanti in età medievale : il colonato. Un coltivatore (colono), di stato libero ma vincolato al terreno, organizza con manodopera schiavile una sorta di ‘villa periferica’ di dimensioni medio-piccole : questa realtà si integra con le sempre più vaste proprietà di latifondisti aristocratici, assenteisti, che affidano la gestione delle loro tenute ad una gerarchia di affittuari e amministratori, in un progressivo irrigidimento dei ruoli sociali che porterà alla società tardo-antica e medievale. 5. Agricoltura e alimentazione [→alimentazione, in Roma]. – I più recenti studi di storia economica e sociale dell’antichità hanno messo in rilievo lo stretto rapporto fra produzione agricola e fabbisogno alimentare. “Capire che cosa e come si mangiasse in Grecia e a Roma significa affrontare in un’ottica diversa e complementare la storia dell’agricoltura” (Marcone 1997, 75). Le colture cerealicole (soprattutto il grano) forniscono la base essenziale per il sostentamento : sulla stima della produzione di cereali si fondano, ad esempio, le ipotesi demografiche (Foxhall-Forbes 1982), sem 







pre in difficile equilibrio tra evidenza documentaria e calcoli congetturali. L’apporto di vitamine, minerali e proteine, tuttavia, era garantito anche dal cospicuo impiego di →legumi, piante selvatiche e →frutti (Frayn 1975). Tutte le sfere dell’agricoltura erano dunque integrate e determinanti nel sistema dietetico antico. I →cereali venivano consumati prevalentemente in farinate o pappe (puls) : prioritari erano l’orzo, in Grecia, e il farro, a Roma. Le farine raffinate servivano di base per la panificazione [→pane], che tuttavia solo in età postclassica in Grecia e tardorepubblicana a Roma divenne un fenomeno alimentare socialmente e quantitativamente rilevante. Un ruolo importante avevano gli →ortaggi, e ciò spiega la loro costante presenza come colture di affiancamento a quelle estensive, nonché lo spazio ad essi riservato nella letteratura agronomica. Le colture specializzate, infine, costituivano la caratteristica peculiare del mondo mediterraneo : la →viticoltura (vino, aceto) e l’→olivicoltura (olive, olio). L’indagine sul legame tra produzione agricola e fabbisogno alimentare, del resto, è importante anche a livello socioculturale, nell’ottica di quel rapporto tra città (consumatrice) e campagna (produttrice) che caratterizza profondamente l’antichità. Non tutte le città antiche furono ‘parassite’, come l’Alessandria tolemaica e la Roma imperiale. La divisione delle attività produttive tra una città ‘commerciale’ e artigiana e una campagna unicamente ‘agricola’ pare tuttavia la situazione più diffusa nell’antichità. Dal punto di vista della metodologia di ricerca, negli ultimi anni diversi studiosi hanno impostato la questione dell’alimentazione antica su nuove basi, e con nuovi criteri di analisi. Benché le testimonianze letterarie rappresentino ancora la fonte principale per la ricostruzione della dieta alimentare antica (→Ippocrate, Ateneo, →agronomi antichi), l’apporto della paleobotanica e dell’archeobotanica è ormai considerato fondamentale, ed ha aperto nuovi scenari interpretativi sia dal punto di vista della storia agronomica sia da quello antropologico.[5] Un altro approccio tentato per la ricostruzione delle abitudini alimentari degli antichi è costituito dall’analisi della documentazione iconografica : statuette e materiale di ex voto (o no) sono indicativi, in generale, di quali cibi si consumassero. L’indagine è arricchita dalla comparazione con gli  





agricoltura ex-voto fittili del folklore meridionale italiano, che in moltissimi casi continuano le forme antiche di frutta e qualità di ortaggi, formaggi e pani. [6] Un discorso analogo vale per le testimonianze iconografiche vascolari, ove sono a volte raffigurati piatti e portate corredati di terminologia culinaria. [7] Sul versante delle fonti letterarie, lo spazio maggiore per l’alimentazione nella tradizione agronomica antica è quello riservato da →Columella nel xii libro della Res rustica, a seguito delle indicazioni sulla figura della vilica. Qui figurano precetti sulla →conservazione degli alimenti, sulla raccolta delle →piante aromatiche migliori, sulla preparazione di vini aromatici e curativi, e una serie notevole di ricette che vanno dai formaggi alla carne, dal pesce ai dolci, e ovviamente alla panificazione. 6. Progresso tecnologico e manodopera. – Quanto abbiano influito i progressi teorici della scienza greca e romana sulla principale attività economica del mondo antico è questione più volte affrontata, da diverse ottiche e con risultati critici divergenti. Sia il ‘modernista’ Rostovtzeff sia il ‘primitivista’ Finley, ad esempio, individuano concordemente nella facile disponibilità di →manodopera agricola servile non specializzata l’ostacolo principale per la mancanza di stimoli agli sviluppi meccanici e tecnologici in campo agricolo (così anche Lloyd 1978, 240-262). Più che per altre discipline e tecniche, nocque all’agricoltura il fatto di essere un’attività praticata da strati socio-culturali inferiori rispetto al ceto artigiano-tecnico : ciò privilegiò la ripetitività di insegnamenti millenari tramandati a livello folklorico, rispetto all’innovazione ‘d’autore’ – già difficile ad affermarsi, del resto, in altre tecniche, visto il ruolo sociale poco nobile dell’artifex.[8] Tuttavia, recentemente, anche sulla base di nuove documentazioni materiali ed evidenze archeologiche, si sono sottolineati alcuni dati significativi. Una mietitrice ‘meccanica’ con pettini e lame è descritta da →Plinio e →Palladio, e sembra di origine gallo-padana [→attrezzi agricoli]. Progressi interessanti appaiono legati allo svilupo di tecniche di irrigazione e sfruttamento dell’energia →idraulica. →Erone si interessò di torchi e frantoi, e alcuni suggerimenti sembrano sfruttati in impianti semi-industriali rinvenuti in Africa settentrionale. Anche per la macinazione dei →cereali sono stati scoperti mulini idraulici di dimen 

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sioni imponenti e di sviluppata →meccanica. Un impulso del progresso tecnico in agronomia e zootecnia, d’altra parte, dovette consistere nell’adozione, in Grecia e poi a Roma, di pratiche già note nei paesi orientali : tra queste la seminatrice unita all’→aratro e la tecnica di incubazione artificiale delle uova. La scienza applicata non riguardò solo l’aspetto meccanico. Si datano all’età ellenistica, su probabile influenza delle teorizzazioni di ambiente alessandrino, i primi tentativi di miglioramento di specie animali e vegetali attraverso incroci e selezione di sementi (Russo 1996, 271-276). Nonostante queste evidenze, l’apporto della scienza antica in agricoltura si rivela – almeno dal punto di vista quantitativo – assai ridotto, e di limitata diffusione. Il conservatorismo proprio del mondo contadino non ha minor peso in questo quadro : il valore quasi ‘magico’ di certe pratiche tramandate da generazioni, la dimensione folklorica di numerosi procedimenti agricoli, creavano una scarsa propensione all’innovazione meccanica. Nell’ambito agricolo, del resto, fu sempre l’uomo al centro del processo di trasformazione della natura, e non il lavoro, attività a cui il pensiero antico non assegnò mai un valore positivo. Inoltre il costo comunque elevato di alcune ‘macchine’ (carri a trazione o altro) e il loro rendimento impreciso non venne considerato, persino dagli agronomi, economicamente conveniente rispetto al lavoro schiavile (Kolendo 1980, 179-200). 7. Studi. – La tradizione degli studi sull’agricoltura antica procede lungo due binari che solo recentemente hanno cessato di essere distinti : l’analisi e il commento delle fonti agronomiche, da una parte, e lo studio della documentazione materiale, dall’altra.[9] Anche le realtà di Grecia e di Roma, del resto, hanno rappresentato, e rappresentano spesso ancora oggi, due campi di indagine separati. Gli studi sull’agricoltura greca sono segnati inevitabilmente dalla necessità di fare i conti con una letteratura agronomica quasi del tutto scomparsa. Non mancarono studiosi che, tra xvii e xix secolo, interpetarono questo dato come ennesimo segno del carattere ‘speculativo’ tipico della grecità, in opposizione al ‘pragmatismo’ romano, formulando un quadro idealizzato della campagna greca, assolutamente lontano dal vero. L’assetto della proprietà fondiaria nelle città greche, d’altra parte, in 





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teressò sia gli illuministi sia i positivisti, come terreno sul quale verificare teorie di carattere economico o indagini di ricostruzione demografica. Risalgono al Xviii-xix secolo anche i primi studi a carattere erudito e antiquario : sui cereali (Heyne), sugli attrezzi agricoli (Mongez). Solo dalla fine dell’‘800 compaiono delle vere e proprie storie agrarie dell’antica Grecia : Giraud e Jardé, in Francia, sostengono l’ipotesi ‘pessimistica’ di un’economia greca mai integrata fra pastorizia e agricoltura, troppo legata all’autarchia e scarsamente differenziata. Weber svalutò, in un certo senso, l’importanza dell’agricoltura greca nei confronti del commercio, specialmente marittimo, vera molla del sistema economico. Finley, diversamente, è autore di una più ragionevole sintesi storico-sociale che restituisce alla produzione agraria il ruolo principale dell’economia greca. Recentemente, infine, il ricorso frequente alla survey archeology ha aperto nuovi orizzonti di indagine, dall’ipotesi di leggere l’agricoltura greca nell’ottica di una ‘economia contadina’ con al centro l’azienda agricola e i suoi cicli produttivi, all’approccio che fa dell’ecologia rurale il quadro globale ove collocare l’attività agraria antica (Sallares 1991).[10] Ben diverso il quadro della fortuna degli agronomi latini in occidente (Fussell 1972). Riuniti già in età tardomedievale in un corpus unitario, gli auctores de re rustica latini (commentati da Poliziano e èditi dal Merula) furono fonti significative di tutto un filone di trattatistica agronomica europea che va dal bolognese Pier de Crescenzi (Opus ruralium commodorum, 1309) all’umanista Luigi Alamanni (La cultivazione, 1546) a Charles Estienne (Maison rustique, 1554). In età moderna, infine, sulla documentazione letteraria e materiale della realtà agricola romano-italica si sono concentrate le attenzioni di storici economici e sociali, che da questo aspetto del mondo antico hanno ricavato dati essenziali per la ricostruzione globale delle vicende politiche e culturali dell’espansione di Roma.  



Note. [1] Vd. recentemente Dalby 2000. Sull’importante legame tra potere ellenistico e sviluppo agricolo vd. Gabba 1984, 28-33. – [2] Sull’economia della selva vd. però Giardina 1981 ; Beal 1995. – [3] Burford Cooper 1977-1978 ha parlato di « Family farm ». E cfr. anche Rougemont 1991. Per forme di mezzadria che prevedono la figura dell’epitropos/oikonomos – assimilabile, ma con cautela, al romano vilicus – vd. Carlsen 2002. – [4] Notevo 





le testimonianza è l’archivio di Zenone, relativo alla gestione della tenuta di Apollonio, ministro di Tolemeo ii, nel Fayum : vd. Orrieux 1983. – [5] Bilancio e prospettive, con rassegna bibliografica, in Amouretti 2000. – [6] Meirano 2000. Per l’agricoltura in generale vd. Forbes 1992. – [7] Peignard-Giros 2000 ha analizzato il caso dei ritrovamenti di Delo. – [8] Bozzolato 1996 ; Traina 1996 ; Argoud 1994b, 70-74. – [9] Quadri d’insieme critici : per la Grecia : Amouretti 1994 e Fantasia 2003 ; per Roma : Capogrossi Colognesi 1982, vii-xxxv. – [10] Ma vd. già, per alcuni aspetti, Fedeli 1990, anche se da diversa prospettiva.  













Bibliografia. Amouretti 2000 ; André 1961 ; Brun 2006 ; Burford Cooper 1977-1978 ; Capogrossi Colognesi 1982 ; Carandini 1989 ; Cataudella 1971 ; Cataudella 2002 ; Cracco Ruggini 1995 ; Dalby 2000 ; De Meo 1983, 25-65 ; Finley 1973 ; Flach 1990 ; Foraboschi 2006 ; Forni 2006 ; Fussell 1972 ; Gallo 1983 ; Gara 1994 ; Giardina-Schiavone 1981 ; Giliberti 1981 ; HaenschHaberkamp de Antòn 1996 ; Hanson 1998 ; Heitland 1921 ; Humphrey-Oleson-Sherwood 1988, 75-146 ; Isager-Skydsgaard 1992 ; Jameson 1977-1978 ; Jameson 1992 ; Kolendo 1980 ; Lee 1973 ; Lo Cascio 1997 ; Marcone 1997 ; Marcone 2006 ; Margaritis-Jones 2008 ; Martin 1971 ; PeignardGiros 2000 ; Rees 1987 ; Sallares 1991 ; Sirago 1983-1984 ; Skydsgaard 1992 ; Skydsgaard 1997 ; Toutain 1968 ; Traina 1994 ; Wells 1992 ; White 1970a ; White 1970b.  























































































Emanuele Lelli Agrimensori e testi di agrimensura. 1. Generalità. – Quando qualcuno iniziò a organizzare un discorso scritto, o più probabilmente varie persone vari discorsi (la prima sistemazione dottrinale che conosciamo risale a Frontino), fu compiuto un passo fondamentale verso la creazione di centri che trasmettessero l’insieme di saperi e la coscienza di giocare ruoli definiti (registriamo in quattro manuali l’espressione professio nostra). Non abbiamo testimonianze, ma questa trasmissione dovette avvenire privatamente, all’interno dei circoli di specialisti, come in genere si può pensare per le artes liberales (grammatica, retorica, →filosofia, →medicina, →architettura). Dobbiamo presumere che ogni centro amministrativo di una certa importanza, ove esistessero magistrati che avevano necessità di operare indagini e ascoltare pareri qualificati in occasione di liti e diatribe confinarie, poteva essere sede di un circolo professionale di mensores, quindi forse

agrimensori e testi di agrimensura di una scuola. Di qui la necessità e la circolazione di testi, a nostro avviso alquanto numerosi. Di tutto ciò a noi è giunto, per vie oltremodo perigliose, un insieme di opuscoli ‘tecnici’, corredati saltuariamente d’illustrazioni, che oggi equivale a circa quattrocento pagine a stampa, formato in-8° piccolo (altrettante le vignette), ma che in realtà è costituito da quattro raccolte di scritti mai editi completamente ed unitariamente. Le raccolte sono filologicamente distinguibili tramite quattro lettere greche (a, b, p, q) : vale a dire l’‘Arceriana A’, l’‘Arceriana B’, la ‘Palatina’, la ‘mista’. La prima è tràdita da un solo manoscritto tardoantico, come d’altronde la seconda ; la terza da due codici d’epoca carolingia (il ‘Palatino del ix’ in., il ‘Gudiano’ del ix med.) e uno del pieno Medioevo (il ‘Brussellense’ del xii), la quarta da un carolingio (il ‘Laurenziano’) e da due dell’xi-xii secolo (l’‘Erfurtense’ e lo ‘Scriveriano’). Manoscritti oggi perduti di tali raccolte furono poi all’origine di un lavorio di riselezione e collezione da parte dei dotti per tutto l’Alto Medioevo, sino a giungere alla compilazione, nei secoli viii-xi, di cinque nuove opere di →agrimensura, →aritmetica e →geometria, notevolmente diffuse (nel complesso, 83 codici medievali) ; questi altri filoni di tradizione ci permettono di controllare meglio i testi dei quattro corpora citati, di cui sarebbe illusorio cercare un archetipo comune (Toneatto 1994, 13). Se i singoli opuscoli ed estratti antichi coprono un arco temporale molto ampio (dalla prima metà del i secolo a.C. all’inizio del vii d.C.), le raccolte che li comprendono a quando risalgono ? Siamo costretti ad essere molto approssimativi. Per ‘a’ l’esame dei testi ci assicura una sola conclusione datante : il nucleo (209-39 La.) del cosiddetto Liber coloniarum I, insieme di liste di territori dell’Italia centrale e meridionale in cui ogni lemma topografico è ricco di dati utili agli agrimensori, fu redatto, così come lo leggiamo, fra il 333 (o poco prima) e il 356 (Grelle 1992, 75). Nient’altro. Il terminus ante quem della raccolta è pertanto costituito dalla datazione dell’unico manoscritto, l’‘Arcerianus A’, vergato in un’onciale d’ambiente italiano (romano ?) con influssi orientali sulle illustrazioni : oscilla, nei pareri dei paleografi, tra l’inizio e la metà del vi secolo (ma anche del vii). Non si sono finora individuati elementi datanti negli scritti di ‘b’, se non troppo antichi ; l’unico manoscritto (l’‘Arceriano B’, anch’esso d’ambiente italiano,  















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forse settentrionale) è datato, sulla base della sua onciale, tra fine v e inizio vi secolo. Migliore la situazione per quanto riguarda ‘p’ : la raccolta, così come ci è giunta, non può risalire oltre il dicembre del 533, promulgazione del Digesto giustinianeo (di cui tramanda il i titolo del l. x), ma fu probabilmente redatta in Italia solo dopo la guerra gotica ; ne venne attuato un aggiornamento dopo la pubblicazione dell’enciclopedia isidoriana e prima dell’impero di Ludovico il Pio, con la cui corte era stato in contatto uno scriba del codice ‘Palatino’, capostipite bassorenano della famiglia ; le illustrazioni carolinge riecheggiano un modello tardoantico (vi secolo), aperto anch’esso agli influssi orientali : anzi, secondo recenti ipotesi, testimone indiretto dell’interesse di Teodosio ii per la letteratura gromatica (Haffner 1991). Della quarta raccolta ‘q’ si può dire ben poco : stando alle indagini filologiche, fu redatta attingendo ad esemplari degli altri corpora, altri esemplari, forse più completi di quelli da noi posseduti. Ciò comunque significa che il redattore, di cui ci rimane qualche parola (ed. Bubnov 1899, 450) non operò prima della metà del vi secolo, mentre il testimone più antico, il cosiddetto ‘Laurenziano’, è datato all’anno 800 ca., prodotto anch’esso in ambiente bassorenano, sotto lo scettro di Carlo Magno. 2. Fonti. – Le fonti gromatiche si possono suddividere in : - materiali letterari - materiali documentari : estratti documentari da archivi e catasti (attribuibili o meno a singoli autori/redattori, responsabili della loro veste attuale) ; estrapolazioni di letteratura giuridica (da leggi repubblicane, constitutiones imperiali, opere giurisprudenziali) ; prontuari di regole geometriche. Tutti i tipi di fonte furono funzionali alla formazione e alla prassi professionale, che ne giustificarono la selezione in antico, ma la natura dei materiali documentari permette di lasciarli fuori da una storia letteraria, benché siano molto rilevanti come fonti d’informazione (intendo soprattutto i cinque ‘alfabeti’ delle Casae litterarum e i due cosiddetti Libri coloniarum). 2.1. Materiali letterari (Manuali) 2.1.1. Formazione dei manuali. I singoli manuali furono certo selezionati dai tardi redattori per le singole specificità dottrinali, tuttavia non mancano di registrare sovrapposizioni d’argomenti, facilitate dal fatto ch’essi, pur  

















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agrimensori e testi di agrimensura

brevi (nessuno raggiunge le cinquanta pagine a stampa), sono sovente pluritematici : in più d’un caso, infatti, affrontano anche sei diversi settori disciplinari (di questi, considerando il complesso del car, possiamo distinguerne almeno diciassette : Toneatto 1996, 222 sgg.). 2.1.2. Le vignette accluse ai testi. Un valido contributo alla comprensione globale di queste fonti ci viene offerto dalle vignette che accompagnano i testi (l’osservazione è ovvia per i disegni geometrici, che qui lasciamo da parte). Esse non devono interessare solamente lo storico dell’illustrazione libraria (Carder 1976 ; Haffner 1991 ; Palm 1997), poiché a volte ricoprono ancora la loro originaria funzione didattica (per noi esegetica) : ancora illustrano i testi, e, alla fine, qualcuno se n’è accorto (Favory, in Chouquer-Favory 1992, 49 ; Gonzalès, in Favory et alii 1994-1997, 225 ; Gonzalès 1994 ; 1995 ; più recentemente, cfr. un esempio di acuta analisi in Capogrossi Colognesi 1999, 29-32). Una letteratura, in conclusione, multisettoriale e multifunzionale, pur nella sua ridotta estensione. 2.1.3. I manuali. Le vicissitudini della tradizione manoscritta hanno ridotto alcuni testi di carattere geometrico in una condizione che non ci permette di formalizzarne per ora l’identità tipologica : la differenza tra un manuale e un prontuario di regole potrebbe infatti individuarsi nella presenza o meno di una serie d’informazioni generali ‘introduttive’ (anche metrologiche), ma non sempre le mutilazioni e il disordine dei testi ci lasciano fissare tale differenza. È il caso dei frammenti di tradizione ‘mista’ o ‘Arceriana B’ editi da Bubnov (1899, 494-503, 503-508) sotto il nome di →Varrone (Folkerts 1992, 314) ; l’attribuzione (proposta con cautela) si spiegherebbe con un’inscriptio isolata di ‘A’, prima d’un vasto danno, nella quale dell’antico polimate è citata una « Geometria ad Rufum Silbium » (cfr. Toneatto 1994, 158); l’ipotesi tuttavia risente di un pregiudizio, l’essere esistito un archetipo unico del car, idea oggi metodologicamente insostenibile. Ricordo che alcune di queste regole riguardano i mensores aedificiorum. Meno maltrattata dalla tradizione, ma pur sempre scheletrica, aggiungiamo la breve serie di regole mensorie presentate sotto il titolo De iugeribus metiundis nella raccolta ‘Palatina’ (ed. : Lachmann 1848, 354 ; Martin-Grélois 1991 con trad. fr. ; trad. fr. di Guillaumin 1996, 199). Più ampie la  































portata e la problematica delle serie analoghe trattate (infra I), a mo’ di esempio del genere. Un caso ultimo, e diverso, è rappresentato da alcuni estratti dal i libro della versione latina ‘boeziana’ degli Elementa di →Euclide, uno dei testi ‘moderni’ della raccolta ‘p’ (edd. : Lachmann 1848, 377 ; Folkerts 1970, 177 ; cfr. Toneatto 1993, 310). a) Iulii Frontini de agrorum qualitate; de controversiis. Nato nel quarto decennio della nostra era, morto nel 103 o 104, Frontino fu console, governatore di Britannia e d’Asia sotto i Flavi, sovrintendente agli acquedotti dell’Urbe sotto Nerva, console altre due volte sotto Traiano. Fra gli scritti conservati estranei all’agrimensura, famoso è un manuale ‘tecnico’, sull’approvvigionamento idrico di Roma [→idraulica]. Dell’opera gromatica si discute la datazione (status quaestionis in Behrends et alii 1998, viii), ch’è incerta, in quanto incerta è l’estensione del testo e quindi la relazione con Frontino di alcune parole ‘datanti’ (cfr. infra) : fu probabilmente composta al tempo della dinastia flavia e sembra collegabile (von Cranach 1996, 40, 131) alla politica di recupero di terre pubbliche abusivamente occupate, caratteristica di Vespasiano (e di Tito). Ne rimangono solo parti frammentarie, alcune chiaramente attribuite a « Iulius Frontinus » dalle raccolte tardoantiche, altre attribuibili tramite l’analisi filologica delle raccolte stesse, altre ancora restituite sulla base d’indizi interni da parte di Lachmann : questi si impegnò nell’opera di ricostruzione di un liber Frontini secundus, usufruendo soprattutto del più tardo manuale di Agennio (infra, g), che a Frontino avrebbe attinto. L’operazione suscitò già le riserve di Mommsen, che influenzarono il giusto e quasi completo rifiuto del secondo editore (Thulin 1913 ; concorde Fuhrmann 1960, 98) : oggi qualcuno sembra ammettere l’uso di Frontino da parte di Agennio, ma si reputa comunque azzardato estrapolare punto per punto il testo più antico (dubbi infatti di Campbell 1996, 77) ; inoltre, faccio notare che pure il primo capitolo frontiniano suscita perplessità : che il testo non sia stato per caso ‘condensato’ più tardi a fini didattici ? Il capitolo De agrorum qualitate ci espone le categorie gromatiche del terreno agrario : ager divisus adsignatus, ager mensurā per extremitatem comprehensus, ager arcifinius ; il De controversiis la tipologia delle contese fondiarie. Restano altri quattro frammenti anepigrafi e  



























agrimensori e testi di agrimensura mutili, dei quali Thulin accettò l’attribuzione lachmanniana stampandoli sotto i titoli : (sulle origini della limitatio), e (sulla coltellazione). Quasi tutto è corredato d’illustrazioni a fini esplicativi : forse esse risalgono all’originale d’autore, più facilmente a un’edizione postuma dell’opera.  



Edizioni critiche. Lachmann 1848 ; Thulin 1913.  

Traduzioni annotate. Behrends et alii 1998 (in fr.) ; Campbell 2000 (in ingl., con comm.).  

b) . Opuscolo giuntoci acefalo e mutilo per fatti di tradizione antecedenti alla sua copiatura sull’unico manoscritto antico che lo tramanda, l’‘Arceriano B’. L’attribuzione umanistica ad un ‘Igino’ (editio princeps dello Scriverius, Leida 1607) segue il dettato di un’iscrizione e una soscrizione manoscritte totalmente inattendibili, meri rabberciamenti di un copista dinanzi ad una sequenza di testi gravemente alterata (Toneatto 1994-1995, 6) ; anche la denominazione di ‘Pseudo-Igino’, cui sono ricorsi a volte gli studiosi moderni, sarebbe da evitare, perché foriera di confusioni e semmai più adatta al caso della Constitutio limitum (infra, E). Il titolo è anch’esso umanistico ; ne esistono due versioni, corrispondenti a due diverse proposte di ignoti filologi, entrambi autori di apografi di ‘B’ vergati nella prima metà del xvi secolo : una è quella qui adottata, preferibile sotto il profilo dei contenuti restanti, l’altra è stata scelta dal più recente editore. Questi non considera il libello come un vero manuale (Lenoir 1996, 97) ; a suo parere, un ufficiale dedica ad un suo superiore la descrizione dei criteri costruttivi e organizzativi del campo militare in uso fra il tardo periodo domizianeo e il principato di Traiano (ma la collocazione cronologica non è da tutti accettata).  







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prima del 102, non molto dopo il 106), più probabilmente alla seconda. Dopo qualche spazio riservato alla metrologia, l’opuscolo è consacrato agli elementi di →geometria piana (una sessantina i disegni illustrativi) necessari alla dotazione culturale del mensor, la cui particolare prospettiva è qui ben individuabile anche sul piano terminologico-concettuale (Folkerts 1992, 317). In molti punti, comunque, Balbo costituisce la più antica versione nota degli Elementa d’→Euclide in latino, mentre il suo debito verso l’opera didattica di →Erone d’Alessandria è stato ben analizzato, qualche anno fa (Guillaumin 1996). Il testo è bruscamente interrotto ben prima che si esauriscano le figure che Balbo doveva aver affrontato (anche ammettendo che non si sia occupato dei solidi) ; questa versione, pur mutilata, divenne uno dei testi più sfruttati e diffusi dai compilatori altomedievali di →agrimensura e →geometria (Toneatto 1994-1995, 20), spesso sotto il nome di Frontino, cui è attribuito erroneamente dai manoscritti della famiglia ‘Palatina’. Lachmann giustamente evidenzia due lunghe interpolazioni ( ?) antiche, l’una metrologica, l’altra geometrica, che Thulin (1911, 23) pensa appartenessero ad una Geometria di Frontino, sulla sola base di una soscrizione sopravvissuta.  



Edizioni critiche. Lachmann 1848. Traduzioni annotate. Guillaumin 1996 (in fr.) ; Campbell 2000 (in ingl., con comm.).  

Commenti parziali. Santini 1990b 137.

d) Hygini de limitibus, , . Tre capitoli probabilmente dello stesso manuale, di cui non credo che il titolo vero ci sia pervenuto. Il primo è frammentario (parzialmente ricostruito da Lachmann tramite il tardo commento a Frontino : infra, j), il secondo acefalo (parzialmente ricostruito da Thulin recuperandone un frammento da altro luogo del codice ‘Arceriano B’, ove compare sotto la rubrica spuria Agrorum quae sit inspectio) ; il terzo potrebbe essere mutilo, ma non si sono reperiti evidenti indizi. I titoli del secondo e del terzo non sono originali, bensì desunti dal testo. Come nel caso di Balbo, una testimonianza diretta dell’autore su fatti del suo tempo rende databile l’opuscolo : tra l’ascesa al trono di Traiano nel gennaio del 98 e la sua assunzione del titolo di Dacicus alla fine del 102 (Toneatto 1994 

Edizioni critiche. Lange 1848 (comm. lat.) ; Gemoll 1879 ; von Domaszewski 1887 (comm. ted.) ; Grillone 1977a ; Lenoir 1979 (con trad. fr. e note).  







c) Balbi ad Celsum expositio et ratio omnium formarum. Il manuale si apre con un’introduzione-dedica al maestro Celso (a noi ignoto), dalla quale apprendiamo che l’autore scrisse subito dopo aver partecipato (attivamente, anche dal punto di vista professionale) ad una delle due campagne di Traiano in Dacia (dunque non





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agrimensori e testi di agrimensura

1995, 5). In quanto all’impostazione dottrinale, Igino dimostra indipendenza da Frontino, per ciò che attiene sia alle condizioni gromatiche dei terreni sia alle controversie fondiarie ; vari i punti di contatto con Siculo Flacco, tra i quali l’ambiente italico di destinazione, benché Igino abbia cognizione, probabilmente de visu, anche di situazioni provinciali (Pannonia, Dalmazia, Gallia Narbonese, Spagna, Cirenaica).  

Edizioni critiche. Lachmann 1848 ; Thulin 1913.  

Traduzioni annotate. Behrends et alii 2000 (in fr.) ; Campbell 2000 (in ingl., con comm.).  

e) [Hygini Gromatici] constitutio . La variante Kyg che leggiamo negli apparati critici degli editori non è tale, perché deriva da errata interpretazione della lettera H in scrittura onciale. Allo stato della tradizione manoscritta, tutte le iscrizioni e soscrizioni di questo manuale, con tutte le loro varianti, sono spurie, risalendo esse all’attività dei redattori delle raccolte tardoantiche : il titolo scelto da Thulin (‘Arceriano A’) è, sì, il più aderente al lessico dell’autore, ma nell’archetipo del manuale comparivano le parole Liber Hygini gromaticus, inscriptio di carattere generico, con tutta evidenza ‘redazionale’, sufficiente tuttavia a cassare l’abituale attribuzione del qualificativo all’autore (fu reintrodotta da Lachmann : prima si legge solo nell’indice dell’editio princeps di Adrien Turnèbe e Pierre Galland, Paris, 1554). Trattandosi di persona diversa dall’Igino traianeo (concordi gli studiosi), sarebbe opportuno considerare spurio il nome (dunque lo chiamiamo Pseudo-Igino). Sull’epoca si è recentemente proposto (Ratti 1996 ; 1998), che la Constitutio risalga agli anni 75-77 : l’ipotesi è ben suffragata da osservazioni inedite sui contenuti, ma va approfondita, soprattutto nei riguardi del rapporto con Frontino, ch’era sinora considerato fonte dello Pseudo-Igino : manca infatti un’analisi accurata dei non pochi punti di contatto testuale. L’opuscolo ci è giunto in ottime condizioni, benché possa sorgere qualche dubbio sulla sua completezza (non vi si nota una conclusione formale). Riccamente dotato di un’ottantina d’illustrazioni, è il manuale più ampio in nostra mano, testimoniato da tutte le famiglie di manoscritti. Non si limita a fornire istruzioni sull’impostazione di una limitatio, propone, anzi, una soluzione tecnica nuova per una pianificazione distinguibile del terreno  









tributario (ager vectigalis), riprendendo coscientemente un metodo obsoleto che Frontino qualifica come mos antiquus : possiede insomma sviluppata una sorta di senso storico professionale, che mette d’altronde in luce nei molti richiami ad esempi di passate pianificazioni, lontane da quella ch’egli considera la ratio pulcherrima : a giustificazione teorica di questa, s’inoltra in un excursus cosmologico di stampo neopitagorico [→astronomia], nel quale si rivela l’unico tra i nostri autori a citare poeti (→Virgilio e Lucano : 149, 11 e 151, 18 Th.).  





Edizioni critiche. Lachmann 1848 ; Thulin 1913.  

Traduzioni annotate. Clavel-Lévêque et alii 1996 (in fr.) ; Campbell 2000 (in ingl., con comm.).  

f) Siculi Flacci de condicionibus agrorum. Opuscolo dal testo danneggiato dopo l’esordio, in misura forse non troppo grave, e probabilmente mutilo in fine, senza che ne sia stata snaturata la fisionomia (non direi che ne sono rimasti solo « Auszüge » : Flach 1990, 2). L’impostazione dottrinale delle condizioni gromatiche dei terreni appare analoga a quella d’Igino, una tripartizione degli agri in occupatorii (equivalente a arcifinii), quaestorii, divisi et adsignati : ma questa è una conseguenza della ricostruzione d’Igino operata dal secondo editore, che ha le sue ragioni (Thulin 1910), ma non riesce del tutto convincente. Con Igino si sono comunque segnalati altri punti di contatto, visibili nella trattazione delle confinazioni (Toneatto 1984, 6). Lo sviluppo dato a questo settore della disciplina è il tratto più caratteristico del manuale e probabilmente la ragione della sua presenza nelle raccolte tardoantiche. La datazione risulta molto difficile da precisare, in quanto Siculo, sicuramente postdomizianeo (cita l’imperatore senza titoli onorifici, pertanto non ne è coevo), non ci fornisce altro appoggio, eccetto la distinzione fra agro italico e provinciale : tuttavia, se certo è antecedente alla riforma dioclezianea, l’ambiente, comune ad Igino, non sembra essere troppo lontano dall’epoca di quello (altra argomentazione, nello stesso senso, in Campbell 1996, 78) ; entrambi gli autori, infatti, danno importanza dottrinale agli agri quaestorii (sui quali Gabba 1985, 268), tipo di pianificazione obsoleto e limitato all’Italia (in entrambi l’esempio dei montes Romani in Sabina) : la cosa parla in favore dello stesso am 













agrimensori e testi di agrimensura biente professionale peninsulare, come l’autopsia dichiarata dei territori di Pesaro, Nola e Benevento. Edizioni critiche. Lachmann 1848 ; Thulin 1913.  

Traduzioni annotate. Clavel-Lévêque et alii 1993 (in fr.) ; Campbell 2000 (in ingl., con comm.).  

g) Agennii Urbici de controversiis agrorum. Testo acefalo e lacunoso, ricomposto dagli editori sulla base di una decina di lunghi frammenti in disordine, corredati di poche illustrazioni. Lachmann riscontrò l’uso da parte dell’autore di una fonte ch’egli credette essere Frontino ; l’identificazione fu lasciata in sospeso da Thulin, ma per il resto l’impostazione dell’analisi rimase la stessa : un manuale d’epoca imprecisata, basato principalmente su una fonte risalente al principato di Domiziano, visto che questi ne viene laudativamente citato. La dottrina delle controversie riflette in effetti quella di Frontino, e quindi oggi l’identità della fonte resta nel dubbio. Continuando inoltre l’attesa di una nuova costituzione del testo, non sappiamo quante e quali caratteristiche attribuire ad Agennio (ad esempio, le conoscenze molteplici di situazioni italiche e provinciali : Africa, Gallia, Lusitania) e siamo costretti a sospendere il giudizio anche sui risultati di analisi finalmente approfondite del suo trattatello (Schindel 1992, 387). Tuttavia va almeno ricordato che nel manualista la formazione retorica influenza fortemente il modo d’impostare la materia, introdotta questa da un’ampia prefazione, attenta alla metodologia della conoscenza e denotante cognizioni generali di cosmologia [→astronomia] e →geografia. In quanto alla datazione, l’uso della fonte altoimperiale mi sembra escludere che il panorama amministrativo, giuridico, professionale sia di molto cambiato.  





Edizioni critiche. Lachmann 1848 ; Thulin 1913.  

Traduzioni annotate. Campbell 2000 (in ingl., con comm.). Commenti parziali. Santini 1990b, 145.

h) Marcus Iunius Nipsus. Nypsus preferirebbe la recente editrice (Bouma 1993), come notiamo già nel codice ‘Laurenziano’. Il nome compare in una soscrizione dell’‘Arceriano A’ (Toneatto 1994, 153), a conclusione del Podismus, prece-

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duto questo da un lungo frammento de lapidibus centuriarum (291, 13-295, 15 La.), acefalo per danno meccanico ; il nome è altresì leggibile in un’inscriptio (285, 1-2 La.) dei codici ‘misti’, seguita e preceduta da vari testi dedicati ad istruzioni tecniche, alcuni frontiniani, in un panorama che rivela le tracce di dislocazioni e confusioni nel corso precedente della tradizione : il rapporto tra Nipso e i frammenti che Lachmann gli attribuisce non è dunque sicuro, tanto che il Podismus fu riedito da Bubnov come adespoto. L’inscriptio dei codici ‘misti’ menziona anche un « liber secundus » che non è da intendersi opera originaria di Nipso, come parrebbe da Lachmann, ma va considerato una partizione della tarda raccolta ‘q’, organizzata in quattro libri (non in due, come presso Bouma 1993, 81). Ciò si è veramente compreso solo con l’analisi del codice ‘Scriveriano’ (Toneatto 1994, 466), quarant’anni fa ricuperato agli studi da Folkerts 1969. In questo (nuovo) testimone, sei fogli appresso, troviamo infatti la corrispondente subscriptio del Liber secundus, che viene così ad includere nel ii libro di ‘q’ anche la collezione geometrica di cui infra, i. Il testo dei frammenti ‘nipsiani’, rimasto in buona parte inattaccabile ad un’interpretazione coerente, è stato da poco riletto parzialmente, con risultati degni di nota (Roth Congès 1996, 360), alla luce delle scoperte dei topografi sulle tecniche d’impostazione delle centuriazioni. Una datazione riesce forzatamente vaga, ma certo sembra che i capitoletti servissero a chi operava in un ambiente ove i catasti dei territori pianificati non erano ancora obsoleti e l’attività di geometrizzazione del paesaggio ancora praticata. Ridottissimo il numero delle illustrazioni.  







Edizioni critiche. Lachmann 1848 ; Bouma 1993 (con trad. in ingl. e comm.).  

i) Liber podismi + Epaphroditi et Vitruvii Rufi liber. La prima serie di problemi s’interrompe bruscamente, lasciandone incompleto l’ottavo, ancora dedicato ai triangoli, dunque ancora troppo presto (presupponendo una serie razionalmente estesa ad altri tipi di figure). Il titolo è un calco dal greco podismov~, mentre il vocabolo latino equivalente, e più usato, era pedatura («la misurazione per piedi»). Il lessico geometrico, come quello dell’altro liber, fa pensare all’influenza determinante della tradizione eroniana e pseudoeroniana [→Erone di Alessandria], l’epoca dovrebbe corrispondere

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alla Tarda Antichità. Lachmann ha individuato (296, 4-26) una lunga interpolazione riguardante misurazioni di capacità, trasmessa solo dal codice ‘Erfurtense’ (Toneatto 1994-1995, 369). Ben più ampia (45 paragrafi ), ma acefala, la seconda serie di problemi appare nell’‘Arceriano A’ distinta dalla prima tramite la suddetta subscriptio di Nipso e l’inscriptio che, priva d’un titolo, menziona i nomi corrotti dei due mensores. Il vetustissimo manoscritto è l’unico preumanistico a recare i nomi, mentre un nutrito numero di codici medievali riporta le due serie senza una distinzione formale, essendo state inglobate in coppia all’interno di collezioni ch’ebbero fortuna, come ad esempio la carolingia ‘Collezione Corbiense’ (Toneatto 1993, 314 ; 1996, 207). Forse sotto l’influenza di questo tipo di tradizione, Guillaumin tenderebbe a considerare tutt’uno l’insieme delle due serie, che si completerebbero l’un l’altra, ma certo non si nasconde (1996, 1o6, n. 14) che a monte rimane ancora da risolvere il problema se la seconda serie sia la tarda fusione di due opere distinte, e in tal caso quale preciso valore datante assuma la presenza, da lui stesso evidenziata, di metodi risalenti a →Diofanto (floruit : iii secolo med.). Numerosi (una cinquantina) i disegni illustrativi.  



Edizioni critiche. Lachmann 1848 ; Bubnov 1899.  

Traduzioni annotate. Guillaumin 1996 (in fr.).

j) [Aggeni Urbici] commentum de agrorum qualitate; de controversiis. Il testo frontiniano viene seguito passo passo : l’ignoto magister cristiano lo possedeva nella stessa nostra versione, già corrotto da errori a noi noti, sì che ne fu sviato il suo pensiero di glossatore. Conosceva i manuali d’Igino e di Agennio Urbico, con il quale qualche redattore più recente lo confuse, nonché la Constitutio limitum, già passata sotto il nome d’Igino. Schindel (1992, 390) ha posto con forza il problema ch’egli non fosse un vero tecnico dell’arte. Il fascicolo d’illustrazioni a parte (25), di cui lo scrittore dichiara d’aver corredato l’opera, chiamandolo ‘libro dipinto’ (diazographus), corrisponde ad esempi librari risalenti ai secoli v in.-vi in. : ciò in qualche modo ci aiuta nella datazione (v secolo ?), certo posteriore alla riforma amministrativa di Diocleziano, per non voler dire di una costituzione costantiniana del 22 febbraio 330 (Toneatto 1994-1995, 10).  





Edizioni critiche. Lachmann 1848 ; Thulin 1913.  

Traduzioni annotate. Campbell 2000 (in ingl., con comm.). Commenti parziali. Santini 1990b, 143.

Lucio Toneatto Agrimensura. 1. Generalità. L’identità della disciplina. – Il problema dell’identità, sullo sfondo della multiformità dei saperi che nella disciplina confluiscono, ovviamente sottintende quello dei suoi confini. L’identità non discende da antiche riflessioni e sistemazioni teoriche, ma dalla somma delle competenze di fatto storicamente accumulate dagli →agrimensori nell’esercizio dei ruoli che furono chiamati ad assumere dall’autorità pubblica, per un lato, dalle esigenze economiche e giuridiche della società, tramite le interrelazioni private, per l’altro. La genesi di competenze molteplici e la prassi attivata dai ruoli stessi portarono gradualmente alla formazione di una ‘sapienza’ professionale riconosciuta come tale dagli esperti e come tale trasmissibile da una generazione all’altra ; ma questa particolare origine del sapere, non sistematica, non filosofica, lasciò il segno nel polimorfismo della dottrina, che si concretò pertanto in manuali diversi, spesso molto difformi nei loro lineamenti tanto da causare incertezza sui confini disciplinari, non solo per la diversità dei contenuti, ma anche per la varietà di temi all’interno d’essi (Toneatto 1996, 220 sgg.), mentre rimane indefinibile la demarcazione fra dottrina vera, tecnica e cultura di fondo, supporto funzionale, quest’ultima, alla comprensione e al dominio della tecnica. Per ciò che s’è detto, risulta difficile al moderno il censimento stesso di quanto sia attribuibile alla disciplina, anche per la concorrenza di discipline considerabili affini perché e quando esercitate nello stesso ambiente agrario e coinvolte nella medesima prassi (→agronomi, →diritto, →geometria, →metrologia). Un ‘ancoraggio’ ci viene allora offerto, ovviamente, dalle stesse raccolte tardoimperiali, in quanto noi le sappiamo destinate ai professionisti (o ai loro protettori) ; allo stesso tempo, vi troviamo esigue tracce di aspetti professionali che esulano dall’ambiente agrario (regole di misurazione di edifici o della capacità di contenitori e bacini per liquidi e aridi), tanto che var 



agrimensura rebbe la pena riflettere più spesso sulla casualità delle sopravvivenze e sull’incompletezza di quanto ci è rimasto (Toneatto 1994-1995, i, 1, 12 sgg.). Insomma, o si assume come oggetto la descrizione di una professione, e le raccolte si dimostrano insufficienti (non solo per le tracce di cui s’è detto, ma anche pensando a competenze storicamente ricostruibili tramite documentazione “esterna” e non testimoniate esplicitamente dal car), oppure se si utilizzano le raccolte, insufficiente si dimostra il concetto stesso di agrimensura poiché il materiale tràdito non è omogeneo e non riguarda sempre e soltanto l’ambito agrario. Con qualsiasi occhiale si guardi, l’oggetto rimane sempre sfocato. Il secondo approccio è inevitabile per una storia della letteratura di settore, ma penalizzare troppo il primo comporterebbe l’incomprensione dei legami storici e dottrinali fra i testi che ci restano. 2. Tecnici. – L’agrimensura, molto più complessa di quanto si pensi, presupponeva da parte dei suoi cultori una vasta gamma di conoscenze, proporzionalmente al loro rango sociale e livello culturale (infra 5.1-3). Essi erano chiamati agrimensores, vocabolo usato nella letteratura del settore e nelle fonti giuridiche sino alla tarda antichità e all’Alto Medioevo. Più antico e meglio attestato, anche epigraficamente, il termine mensores copre un campo più vasto, non essendo legato al solo ambito agrario – per esempio i m. agrarii, agrorum, diversamente qualificati m. frumentarii, o con la specificazione (m. aedificiorum). Altro vocabolo utilizzato fu finitores, attestato solo in Plauto, nel prologo del Poenulus, e in Cicerone, De lege agraria, in diversi passi. Dopo il 63 a.C. non lo leggiamo più. Cicerone nelle Filippiche (xi, 12, xiii, 37, xiv, 10) adopera anche i vocaboli decempedator e metator. Quest’ultimo termine era ancora in uso cinque secoli più tardi (Veg. mil. 2, 7 ; Cod. Theod. 7 , 8, 10). La voce più nota agli studiosi moderni, gromaticus, attestata a partire dalla fine del i o all’inizio del ii secolo d.C., proviene dallo stretto ambiente professionale, poiché è menzionata nell’unico opuscolo sopravvissuto di castrametazione [→agrimensori, 2.1.3 B], come appellativo dei professores dell’arte (cioè di coloro che devono ‘rendere testimonianza’ delle loro capacità). Qualche tempo dopo un altro professionista, Agennio Urbico (infra 5.2), definisce il proprio ruolo come artifex. I ‘misuratori (di campi)’, o  

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‘confinatori’, utilizzavano principalmente la groma, detta anche ferramentum, per tracciare sul terreno linee rette coerenti ed automaticamente ortogonali, per costruire/verificare allineamenti di oggetti e parallelismi, per superare dislivelli e pendenze (Dilke 1979, tav. ii; 1995, 76 sgg. ; Settis 1983, fig. 103 ; Roth Congès 1996, 307 sgg.). La parola, con la variante fonetica grùma, è stata in generale considerata la prosecutrice del greco gnwvmwn attraverso una mediazione etrusca (Ernout-Meillet 1954). 3. Professione. – Di ‘professione’ ad un certo livello, al di fuori dell’ambiente militare, si può parlare soltanto a partire dall’epoca di formazione dello Stato imperiale ; la collocazione sociale degli operatori fu sempre di vario tipo nelle varie epoche, perché condizionata dall’esistenza o meno, e poi dall’evoluzione, di alcune strutture dello Stato, militari e civili. Ecco perciò un elenco delle competenze dell’agrimensore. 4. Compiti. – I compiti sono vari ed articolati : 1. Pianificazione e costruzione dell’accampamento militare (metatio castrorum). Affidata in età storica a ufficiali legionari (infra 5.1-2), si deve considerare come una delle fucine della competenza tecnica considerata la complessità dei castra sotto il profilo organizzativo e costruttivo (Hinrichs 1989, 85 sgg.). 2. Limitatio. Uno stretto legame di ambiente (militare) e prassi esecutiva (formalizzazione geometrica) unisce quest’attività alla principale, sotto il profilo della genesi storica della professione : la pianificazione territoriale a fini di fondazione coloniaria o di riordino amministrativo. Nella sua forma più evoluta, era detta limitatio, ma rimangono la terminologia in Frontino (i, 6 Th.) e le interpretazioni archeotopografiche (Chouquer et alii 1987) di forme precedenti. S’intende con essa la sovrimposizione al territorio prescelto di una griglia (pertica) di strade rettilinee ortogonali (limites), ordinate secondo una gerarchia d’importanza prestabilita, espressa tramite la larghezza. Si trattava di un sistema monocentrico rigido (nella forma definitiva, messa in atto perlomeno nella seconda metà del iii secolo a.C., e in seguito confermata per cinquecento anni) denotante una reiterata volontà di dominio razionalistico della realtà agraria, un vero ‘sistema integrato’ (strade, ponti, canali d’irrigazione e bonifica, insediamento urbano e rurale).  









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3. Documentazione catastale. L’intervento sul territorio era dunque un processo di (ri)organizzazione dello spazio dalle vaste conseguenze sociali ed economiche : la distribuzione della terra ai coloni in territorio conquistato e/o la riorganizzazione di un ambito amministrativo preesistente erano atti che mutavano il regime giuridico della terra (l’ager publicus diveniva dominium dei singoli : cfr. però le recenti precisazioni di Capogrossi Colognesi 1999), atti che geometrizzavano il paesaggio e riformavano il sistema agrario (Sereni 1991, 44 sgg. ; Favory 1983). Dunque implicavano, grazie anche al parallelo sviluppo del →diritto, l’esigenza di una documentazione pubblica di tutte le decisioni che avevano valore legale : di qui l’allestimento di catasti agrari territoriali, dotati gradualmente di archivi sempre più completi e complessi. Ovvio pertanto che i responsabili della pianificazione sotto il profilo esecutivo divenissero gli estensori della documentazione catastale, sia sui terreno, con l’apposizione dei cippi (termini) lungo le linee della pertica, sia all’interno dell’archivio (tabularium) ; ed altrettanto ovvio era il loro impiego come interpreti dei documenti stilati dai predecessori (libri aeris, commentarii) : dalla letteratura mensoria emerge più volte, infatti, la prassi di consultazione d’archivi risalenti anche a secoli addietro. Stante il principio che l’atto di destinazione d’un terreno pubblico (adsignatio) doveva essere pubblicamente testimoniato, annoveriamo fra la documentazione catastale le carte descrittive (formae) delle pianificazioni e distribuzioni (Moatti 1993, 31 sgg.), carte recanti non solo sommari lineamenti topografici (orografia, idrografia, viabilità) e gromatici (confini territoriali e pertica), ma anche i dati concernenti il regime giuridico/destinazione d’uso dei terreni (cioè le formule d’identificazione delle categorie gromatiche relative : infra 4.7) : un’attività degli agrimensori era pertanto anche la redazione delle carte catastali, sia di quelle bronzee (aera) o marmoree affisse in luoghi urbani destinati alla frequentazione pubblica, sia delle copie immagazzinate negli archivi municipali e statali ; a questa competenza risale la genesi della notevole tradizione illustrativa non geometrica presente nelle raccolte professionali : due carte corografiche catastali a fini didattici corredano la Constitutio limitum pseudoiginiana (→agrimensori, 2.1.3 E), unici esempi a noi noti del genere (figg. 135a, 136a Th. ; Gonzalès  





















1995, fig.4 ; Buonocore 1996, fig. 97). Un’ulteriore esigenza, di natura pratica, venne vissuta dal tecnico di età altoimperiale come la perpetuazione di un’antica tradizione religiosa etrusca : « haec ratio mensurae constituta ab Etruscorum haruspicum disciplina » (lim. grom., 131, 10 Th. ; cfr. Gabba 1985, 267 sgg.), una ‘nobilitazione’ degli usi romani operata sull’autorità di →Varrone (citato in proposito da , 10, 20 Th.). La dottrina dunque esigeva che ogni pianificazione, sia sul terreno sia nell’archivio, per essere catastato dovesse venire organizzata secondo un criterio sempre leggibile, e per essere letta dovesse essere orientata. L’orientamento avveniva generalmente per adattamento alle caratteristiche idrografiche e pedologiche [→terreno] del sito, tuttavia, se possibile, s’impiantavano i due assi ortogonali generatori del sistema (E-O, decumanus maximus, S-N, cardo maximus) in modo che si ponessero sulle rette congiungenti i punti cardinali (Hübner 1992) : non i punti apparenti, che seguono il variare stagionale dei giorni, bensì, nel rispetto religioso dell’armonia del mundus, quelli astronomicamente corretti [→astronomia]. Al mensor competeva l’applicazione delle tecniche di rilevazione delle ombre solari (due metodi descritti dallo Pseudo-Igino, 152, 4 Th.), per accertare in qualsiasi giorno dell’anno la posizione dei punti cardinali astronomici (Settis 1983, fig. 7). Se nel sistema era possibile inserire/costruire la colonia (gli assi, che passavano per le porte urbane, si facevano incrociare nel Foro), si realizzava quella condizione che lo scrittore denomina ratio pulcherrima (Const. lim., 144, 13 Th.) a proposito di Admedera (cioè Ammaedara, l’odierna Haidra in Tunisia), caso che l’archeologia sembrava aver confermato, ma sul quale oggi si discute (Peyras 1994, 241 e n. 58). La volontà razionalizzante di cui prima parlavamo, unitamente a molteplici ragioni pratiche, obbligava a mantenere uniforme l’aspetto della griglia, ch’era assicurato dalla cadenza invariabile delle strade e pertanto dalla forma geometrica scelta per le ‘unità di pianificazione’, le centuriae, quadrati o rettangoli le cui dimensioni individuavano quello che i topografi oggi chiamano il ‘modulo’ della griglia, esprimibile, come dagli antichi tecnici, tramite l’unità di misura tipica del paesaggio pianificato, l’actus (120 pedes, equivalente a ca. ml 35 ½,) : ad esempio, 1 centuria di 25x16 actus = 400 actus quadrati = 200 iugera, equivalente  













agrimensura a ca. ha 50½, (Dilke 1995, 89). L’invariabilità delle cadenze, pena la deformazione del sistema, doveva essere preservata nonostante gli ostacoli naturali di minore rilievo : di qui l’elaborazione su base geometrica di tecniche di rilevazione a distanza, come la valutazione della larghezza d’un corso d’acqua o d’un burrone (varatio) o la verifica del parallelismo d’una retta al di là dell’ostacolo (repositio limitis), nonché di tecniche di misurazione su terreno in pendenza, procedimento (cultellandi ratio) ancor oggi dai geometri chiamato ‘coltellazione’ (Hinrichs 1992 ; Roth Congès 1996, 314). La delicatissima fase della distribuzione fondiaria, all’origine basata ideologicamente sull’uguaglianza dei cittadini-soldati di fronte al dovere, temperata da una sorta di ‘equità sociale’ (tali il grado, il rango sociale, i meriti, tanti gli iugeri), veniva superata ricorrendo al sorteggio dei lotti (acceptae, sortes). Responsabile e garante era la commissione dei tresviri (o decemviri) agris dandis adsignandis (più tardi, il delegato dell’imperatore) per tutte le operazioni che riguardavano il territorio da (ri)organizzare : gli agrimensori peraltro sovraintendevano alle procedure del sorteggio, piuttosto complesse, come ci informano Igino e la Constitutio limitum (Campbell 1995 ; Guillaumin 1998) ; la cosa è comprensibile perché essi sarebbero divenuti, conclusa l’assegnazione, i depositari di tutta la documentazione che da quel momento doveva servire come base per la descrizione ufficiale dell’ager divisus adsignatus ; inoltre, essi avevano preparato la pertica allo scopo, segnando sui bordi dei limites, con pali o cippi, i punti di riferimento per le rette confinarie (rigores) dei futuri lotti. Le identificazioni catastali necessarie sul terreno (limites, rigores, centuriae, acceptae : tutto aveva bisogno di una sigla, di un numero o di entrambi) erano state operate tramite iscrizioni e contrassegni su termini di pietra, su ceppi lignei (cippi roborei), su pali. Dopo il sorteggio, venivano aggiunti nelle formae e nei libri aeris i nomi degli assegnatari (fra questi anche la comunità stessa) e la quantità di iugeri loro distribuiti, vale a dire il modus (Sic. Flacc. 119, 15 Th.). Lo Pseudo-Igino insiste (157, 18 Th.) sull’esigenza di una uniforme « ratio inscribendi», che nelle sue linee generali era fissata dalla legge di fondazione (o più tardi dall’editto imperiale), ma doveva in molti particolari ricadere sotto la responsabilità dei tecnici, che infatti ne scrivono minuziosamente. 4. Aggiornamento catastale. Al di là della fissa 















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zione su documenti di una situazione fondiaria e dei suoi confini, doveva rimanere il problema perpetuamente rinnovantesi dell’aggiornamento (Nicolet 1989, 190 ; Campbell 1996, 90), dietro i cambiamenti continui imposti al quadro della proprietà dalla dinamica del mercato e dalle revisioni amministrative conseguenti alle decisioni politiche (è questo il caso della forma di bronzo recentemente scoperta a Verona ? Cfr. Cavalieri Manasse 2000). I manuali (confermati dall’archeologia : Chouquer, Favory 1992, 101 ; Pérez 1995, 79) più volte testimoniano la realtà del renormare (rifare pianificazione e catasto, riorganizzare il territorio), il che comportava per gli agrimensori problemi complessi d’identificazione e registrazione, in panorami che recavano le tracce commiste d’interventi plurimi nel tempo (sulla ricostruzione delle tecniche mensorie in questi ambiti, nuove prospettive sono state proposte in Pérez 1995, 51 ; Roth Congès 1996, 380). 5. Determinazione dell’imposta fondiaria. Le centuriazioni non corrisposero solo al regime degli agri divisi et adsignati (Hinrichs 1989, 122) : in alcune province, segnatamente in Africa, furono estese perché stessero alla base dell’esazione dell’imposta fondiaria (dalla quale l’Italia rimase esente sino alla grande riforma dioclezianea) ; ciò comportava anche la distinzione qualitativa delle terre con il fine di graduare il peso fiscale : l’imposta (vectigal) veniva determinata dal grado di fertilità (« ad modum ubertatis » riferisce lo Pseudo-Igino : 168, 16 Th.) : la documentazione di tal tipo di catasti, cioè della base dell’imposizione, competeva ai ‘mensores’, e nel trattatello ne rimane chiara traccia (168, 9 Th.). Non tuttavia una trattazione : la lacuna appare vistosa, ma certo è che, se non fossero stati scoperti alla fine degli ultimi anni Quaranta i tre catasti marmorei riuniti nel 77 da Vespasiano in un unico, grande tabularium ad Arausio (Piganiol 1962 ; Chouquer 1991), dalle nostre fonti tecniche non avremmo mai potuto conoscere nel dettaglio formae come queste, relative ad agri centuriati di colonie provinciali, che registravano i suoli tributari rimasti a disposizione dell’autorità e i canoni d’affitto stabiliti dalla colonia per i privati locatari (erano dunque strumenti fiscali). 6. Perimetrazione pubblica. Altro tipo d’intervento su suolo provinciale ci è testimoniato da Frontino (1, 18 Th.) : la perimetrazione pub 





























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blica (che consisteva nella geometrizzazione e demarcazione dei confini) di interi territori o di grandi fondi privati, senza che si procedesse alla pianificazione agraria, ma con lo scopo di calcolarne la superficie e la possibile rendita economica, sempre a fini fiscali (Hinrichs 1992). 7. Determinazione dei confini. Gli accenni alle opere di confinazione (finitiones agrorum) ci consentono di analizzare un nuovo settore dell’arte mensoria, vale a dire il complesso di operazioni aventi come oggetto la linea confinaria (finis, che in realtà era una striscia, l’extremitas) : stesura e demarcazione (de)terminatio, depalatio), ricognizione (inspectio), riconoscimento (observatio) degli oggetti con valore confinario (documenta finium), quindi la ricostruzione, a volte induttiva (Toneatto 1984 ; Castillo Pascual 1996, 50). L’attività si esercitava sia nei territori pianificati (ove si dovevano distinguere i lotti tra di loro, e inoltre le altre categorie di terre : agri concessi, excepti, redditi, commutati, silvae et pascua, etc.), sia in quelli liberi (agri arcifinii/-ales, occupatorii). Su quest’argomento le fonti tecniche vengono confermate da abbondanti e significative testimonianze epigrafiche ; l’opera dei mensores era richiesta sia dall’autorità pubblica (centrale o municipale) sia dai privati : il contenzioso sul regime dei suoli e i diritti ivi gravanti (i manualisti dell’Alto Impero non risparmiano parole a proposito dell’occupazione abusiva di terreni pubblici), il contenzioso sulla pertinenza dei territori (in gioco erano il controllo delle rendite agrarie pubbliche e l’intercettazione dei flussi tributari : attori le città, i titolari dei grandi saltus privati, compresi i procuratori delle terre imperiali ; cfr. Castillo Pascual 1996, 207) si univano alle diatribe private più strettamente legate al solo andamento del confine : una miniera inesauribile di occasioni d’intervento costituite dalle contese (controversiae agrorum) dovute a frode, violenza, contestata interpretazione dei documenti o loro obiettiva e naturale obliterazione. Le competenze da mettere in campo erano di nuovo, da un lato la capacità di leggere i documenti ufficiali e di consultarli con la realtà fondiaria, dall’altro lato la conoscenza approfondita delle usanze locali nel più vasto panorama delle libere scelte private di confinazione non regolate da alcuna legge di pianificazione (consuetudines regionum), come le chiamano Igino e Siculo Flacco. 8. Misurazioni di ambito urbano. V’erano mi 















surazioni necessarie anche in ambito urbano, operazioni delle quali diamo solo un rapidissimo cenno. I mensores frumentarii dovevano controllare le quantità di derrate alimentari (ad esempio, per il servizio urbano dell’annona), nonché i recipienti a capacità dichiarata, sia per i liquidi che per gli aridi, e i pesi dei mercati. Controlli dei terreni andavano effettuati (fonti e bibliografia in Nicolet 1989, 194) sia a causa della conflittualità privata, sia a tutela del terreno pubblico e degli usi cui era destinato (le epigrafi ci testimoniano anche per le città il fenomeno dell’occupazione abusiva). I mensores aedificiorum erano chiamati in causa per la ricognizione delle aree pubbliche locate ai privati, o quando si dovesse calcolare la superficie coperta di un immobile, per stabilirne il valore a fini fiscali o di garanzia patrimoniale, così pure quando occorresse conoscere la quantità di materiali per un’operazione edilizia (Toneatto 1994, 8, n. 18). In quale veste agiva il mensor ? Qui il discorso sulle competenze s’intreccia con quello sulla sua condizione, poiché usciamo, anche se non del tutto, dall’ambito delle tecniche specifiche della professione ed entriamo in quello dei ruoli sociali sostenuti. 5. Status. – 1. Testimonianze di età repubblicana. Lo storico greco Polibio (6, 41) ci testimonia che verso la metà del ii secolo a.C. la castrametatio veniva affidata a un centurione, sotto la responsabilità di un tribuno militare ; un secolo dopo Cicerone, abbiamo visto, parla di duecento finitores civili di rango equestre destinabili ad una eligenda commissione per la distribuzione di terre, perché facciano da assistenti ai magistrati assegnatori giudicando sulla condizione giuridica dei terreni (Nicolet 1970). Non si sarebbe trattato di ambienti e personaggi necessariamente diversi : i magistrati previsti dalla rogatio di Rullo sarebbero stati di rango pretorio, dunque con esperienza di comando ad alto livello, e i finitores civili avrebbero potuto essere ex militari cui i magistrati si sarebbero rivolti come a loro vecchi ufficiali. Nel periodo tardorepubblicano i tecnici non esercitavano una professione riconosciuta : si trattava di privati cittadini di un certo livello sociale, in possesso di competenze utili, i quali, dietro corresponsione di un onorario, potevano essere chiamati a cooperare a una centuriazione (anche da parte di un altro privato, locatario dell’opera dietro contratto con un magistrato) o venivano incaricati dal magi 







agrimensura strato giusdicente di riferire il loro parere in un processo civile, o esercitavano i ruoli di arbiter fra le parti e di iudex nominato dal pretore. Nel contempo l’esercito continuava a formare personale qualificato, che talvolta, durante le guerre civili, venne usato direttamente per le distribuzioni ai veterani, senza ricorso a commissioni e dunque a mensores civili. 2. L’età imperiale. Per la prima età imperiale, su base epigrafica non ristrettissima (Sherk 1974, 546), si sono oggi distinte quattro categorie di tecnici (Hinrichs 1989, 167) : a) militari, ufficiali e soldati ; b) civili di servizio presso i tabularia imperiali (anche liberti e schiavi di Cesare) ; c) civili al servizio di amministrazioni municipali (anche servi publici) ; d) civili professionisti indipendenti. Nel car si conferma l’impiego di legionari e pretoriani, ufficiali e soldati, per operazioni di pianificazione datate ai principati di Traiano e Antonino Pio (prima metà del ii secolo : Hyg. 84, 8 Th. ; Lib. col. i, 244, 251 La.), mentre le caratteristiche dei manuali stessi (compresa la lacuna concernente i catasti fiscali : supra 4.5) farebbero pensare ch’essi fossero concepiti soprattutto per i mensores civili indipendenti (Hinrichs 1989, 173) ; questi, peraltro, sembrano i soli a poter godere di un livello sociale abbastanza elevato. A proposito di status, va comunque tenuta sempre nel debito conto la vecchia osservazione di Theodor Mommsen che le funzioni professionali di massimo livello venivano ad essere svolte da personaggi non particolarmente interessati a rammentarle nei loro curricula epigrafici. Curioso è infatti il caso proprio di Giulio Frontino, quasi un ‘caposcuola’ (così di fatto considerato nel Tardoantico : fu commentato nel corso del v secolo →agrimensori 2.1.3 A), che scrisse di gromatica non certo perché ne vivesse, come altri manualisti, bensì con la mentalità di grand commis dello Stato, né più né meno di quando avrebbe poi scritto sugli acquedotti pubblici nella veste di curator aquarum. E s’interessò concisamente, ma autorevolmente, di un argomento che molto avvinceva i professionisti indipendenti : la sistematica delle controversiae agrorum (supra 4.7), dottrina professionale che doveva essere stata elaborata, forse in forma ancora fluida, nelle generazioni immediatamente precedenti. Una casistica di diritto agrario, grazie alla quale gli autori d’agrimensura (oltre a Frontino, an 



















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che Igino e Agennio Urbico) si offrono come l’unica fonte letteraria in materia, alternativa rispetto alla letteratura giurisprudenziale. Furono distinte due materiae controversiarum : il confine e il luogo (finis et locus) ; inoltre vari tipi (genera) di controversie, quindici nell’impostazione voluta da Frontino e seguita quasi integralmente da Agennio, in qualche epoca successiva : de positione terminorum, de rigore (sulla retta ideale a mezzo della striscia confinaria), de loco (sul luogo conteso), de modo (sulla quantità di terra assegnata), de proprietate, de possessione, de alluvione (sullo straripamento di un corso d’acqua), de iure territorii (sulla pertinenza d’un territorio), de subsicivis (sui ‘ritagli’ di terra divisa), de locis publicis, de locis relictis et extra clusis (sui luoghi abbandonati e quelli esterni alla pertica), de locis sacris et religiosis (sui luoghi dedicati alle divinità e ai morti), de aquae pluviae transitu (sul deflusso dell’acqua piovana), de itineribus (sui passaggi campestri dovuti), de arborum fructibus (sui frutti che cadono in terreno altrui). La casistica tese a divenire più semplice nel corso della storia imperiale (le quaestiones finales compresero le controversie de fine e de loco) e nelle province venne ad aumentare il peso dell’amministrazione fiscale, alle cui dipendenze operavano sempre dei mensores, anche di basso livello. 3. Agrimensori funzionari pubblici. Secondo una nota tendenza all’ampliamento dell’apparato burocratico, gli agrimensori di un certo rango divennero funzionari pubblici, competenti, a partire da Costantino il Grande (ma con posteriori oscillazioni legislative), solo sulla striscia di confine (‘entro i cinque piedi’), in qualità di arbitri finium regundorum, mentre la giurisdizione sulla controversia de loco passò al governatore provinciale (praeses). Del loro status recano testimonianza alcuni passi della raccolta ‘Palatina’, la più ricca di materiale tardoantico : gli estratti di relazioni ufficiali su confinazioni e di altro materiale connesso (trad. Favory et alii 1994-1997) vi si trovano attribuiti ad alcuni nomi accompagnati dalla qualifica di auctor, che non va interpretata semplicemente come ‘autore dello scritto’, ma come ‘creatore del sistema descritto’, in un caso anche l’imperatore Arcadio, alla cui autorità, non competenza, evidentemente risaliva il testo (Peyras 1995, 172, 183) ; bene, accanto al nome e alla qualifica spesso leggiamo dei titoli onorifici : vir perfectissimus e/o togatus Augustorum. Ciò  











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significa, pure alla luce di altre fonti, che il funzionario era un cavaliere di alto rango, accompagnato da personale specializzato e adeguato ; egli eseguiva mandati imperiali di riordino agrario, a volte concernenti regioni diverse dell’impero. Alcuni indizi sparsi permetterebbero di tentare una collocazione cronologica di questo coacervo di materiale documentario (si è pensato all’epoca che va da Diocleziano al primo terzo del v secolo : Peyras 1995, 184 ; 1999, 197), ma non possiamo essere sicuri dell’omogeneità degli estratti, indiziati di recar traccia di un’epoca, quand’essi, all’interno della raccolta, sono situati in punti diversi, certo sospetti d’esser giunti ad essa per vie diverse di tradizione (sopravvivono inscriptiones isolate che hanno tutto l’aspetto d’introdurre a selezioni più antiche, confluite alla fine nella raccolta ‘Palatina’ : « Ordines finitionum ex diversis auctoribus », e altrove : « Ratio limitum regundorum »). Inoltre, il latino ‘volgare’ delle Casae litterarum («I poderi delle lettere catastali») confligge con l’alto status dell’unico che ne avrebbe scritto, Innocentius v(ir) p(erfectissimus) auctor (310, 1-3 La.), per non parlare del giudizio storico linguistico di Josephson, il loro solo, vero editore (1950, 128, 300), e della collocazione cronologica da lui sostenuta (fine v- inizio vi secolo : cfr. Toneatto 1993, 308). Il livello di questi opuscoli è piuttosto basso, anche a causa della loro natura semidocumentaria : un ambiente di formazione tecnico-burocratica, il loro, estraneo a quello giuridico-letterario di tardi manualisti come il commentatore di Frontino, lo Pseudo-Agennio [→agrimensori 2.1.3 J]. Ai suoi tempi (direi nel v secolo) s’impartiva ancora l’insegnamento della sua disciplina, nell’ambito delle secundae ac liberales litterae (51, 14 Th.) : in una scuola pubblica ? forse sì, visto che gli imperatori tardoantichi ebbero a cuore la professionalità dei geometrae : i docenti di questo nome, sotto Diocleziano, venivano pagati il doppio dei magistri architecti (insegnavano solo →geometria teorica, come vorrebbe Schindel 1992, 377), ed un provvedimento di Costanzo II (a. 344), dal quale si deduce la loro appartenenza al ceto curiale (dunque al ceto medio urbano), garantiva, come pure ad altri artifices, esenzioni fiscali a fini di formazione e avviamento professionale (Cracco Ruggini 1993, 859). Resta da dire che l’ultimo periodo in cui troviamo le prove di un interessamento dei governanti nell’Occidente latino è quello del regno gotico di Teodorico, grazie  













Bibliografia. Buonocore 1996 ; Campbell 1996 ; Capogrossi Colognesi 1999 ; Castillo Pascual 1996 ; Cavalieri Manasse 2000 ; Chouquer 1991 ; Cracco Ruggini 1993 ; Dilke 1979 ; Dilke 1995 ; Favory 1983 ; Gabba 1985 ; Gonzalès 1995 ; Hinrichs 1989 ; Hinrichs 1992 ; Moatti 1993 ; Nicolet 1970 ; Nicolet 1989 ; Pérez 1995 ; Peyras 1994 ; Peyras 1995 ; Peyras 1999 ; Piganiol 1962 ; Roth Congès 1996 ; Schindel 1992 ; Sereni 1991 ; Settis 1993 ; Toneatto 1984 ; Toneatto 1993 ; Toneatto 1994.  



































































Lucio Toneatto







alla testimonianza di una lettera scritta da Cassiodoro per il re (var., 3, 52, degli anni 507-511) : cosa a prima vista sorprendente, ma la pratica mensoria non era scomparsa in Italia, né del tutto le capacità dell’amministrazione (Toneatto 1993 ; 1994, 18).

Agronomi antichi. 1. Un’enorme produzione perduta. – →Varrone, all’inizio del De re rustica (1,1,8-10) elenca oltre 50 auctores di manuali o trattati di →agricoltura e →botanica, tra cui sovrani, filosofi e tecnici (Martin 1971, 5372). Una lista ancor più numerosa si trova in →Columella (1,1,6-13), mentre →Plinio, per i 16 libri dedicati alla botanica e agronomia, cita come fonti oltre cento studiosi, greci e latini. Da un’ottica che appare tutta naturalistica si era occupato di botanica il pitagorico Menestore : →Teofrasto ne conserva numerosi frammenti in cui è evidente il ricorso a concetti oppositivi quali caldo/freddo, umido/secco. Democrito aveva trattato di botanica e di agricoltura in scritti che non ci sono pervenuti, ma che pare vertessero anche su questioni tecniche (B 26f-28 D.-K.). Androzione di Atene aveva scritto un Gewrgikovn che era probabilmente rivolto ad argomenti molto tecnici e specifici di frutticoltura [→frutti], →viticoltura e →olivicoltura ( Jacoby 1950, 76-77). Di Clidemo sappiamo ancora meno : si era forse occupato anche di questioni teoriche e botaniche ( Jacoby 1950, 77). È però di →Senofonte la prima opera dell’antichità di taglio agronomico, o meglio a carattere ‘economico’ (Roscalla 1990), che possiamo leggere. 2. Magone Cartaginese. – Benché il primo scritto a carattere ‘tecnico’ della tradizione agronomica occidentale debba essere senz’altro identificato nell’Economico senofonteo (tuttavia un dialogo socratico), è al trattato del cartaginese Magone (iii sec. a.C.: terminus ante quem), una  



agronomi antichi vera e propria “bibbia agronomica” (Heurgon 1978, xxii) in ben 28 libri, che guarderanno tutti gli autori antichi di agricoltura e zootecnia, fino ai →Geoponica (che ancora ne citano brani). I ventotto libri magoniani, per decreto del senato romano l’unico testo risparmiato alla dispersione delle biblioteche cartaginesi dopo la distruzione della città (146 a.C.) e tradotto in latino da una commissione guidata da Decimo Silano, furono successivamente tradotti in greco da Cassio Dionisio di Utica, che li ridusse in venti libri e vi rifuse – stando alla testimonianza di →Varrone (r.r. 1,1,10) – opere di tradizione greca. Nel I sec. a.C. Diofane di Bitinia ridusse ulteriormente a sei libri lo scritto. Un’ultima epitomazione, in due soli libri, subì il trattato ad opera di Pollione di Tralle. È al testo di Magone, definito parens rusticationis da →Columella (1,1,13), che con tutta probabilità risale anche l’ordinamento della materia agronomica, che diverrà canonico : quasi tutti i trattati (ampi) giunti fino a noi iniziano con la trattazione sul fabbricato rustico, il calendario dei lavori, il terreno e le tecniche di lavorazione, la manodopera ; poi le colture : granaglie, vite, olivo, arboricoltura ; quindi la zootecnia : bovini, ovini, volatili e (forse) pesci ; infine una sezione medicinale e una alimentare (conservazione e cucina). Impossibile, tuttavia, un’identificazione del Magone a cui è attribuita l’opera o una sua collocazione cronologica : tanto che diversi studiosi hanno ipotizzato che il trattato conosciuto sotto il suo nome altro non sia che una raccolta di vari scritti agronomici di ambito greco-cartaginese (analisi equilibrata delle testimonianze in Devillers-Krings 1996 ; vd. anche Cataudella 2002, 43-44). 3. Nicandro di Colofone. – Del grammatico e poeta →Nicandro, probabilmente vissuto tra iii e ii sec. a.C., si possiedono scarne notizie biografiche, complicate dall’esistenza di un altro letterato omonimo (Massimilla 2000) : appartenne forse a una famiglia sacerdotale di Claro, fu abile versificatore, e si cimentò in ambiti tecnico-scientifici ardui, come la iologia [→veleni e contravveleni] e la →medicina. Oltre a dei Melissurgikà, sull’→apicultura, dei quali nulla ci è giunto (ma che sembra fossero tra le fonti del iv libro delle Georgiche virgiliane), scrisse un poema di argomento agronomico (Georgikà), molto apprezzato (cfr. Cic. de orat. 1,69), di cui rimangono diversi frammenti che spaziano dalle notizie su →fiori e  

















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ghirlande ad alcune colture di →ortaggi, alla →conservazione degli alimenti e ad alcune ricette. 4. A Roma quella degli agronomi diviene una vera e propria tradizione letteraria, visti i profondi legami della materia con l’economia e il potere politico della respublica (Martin 1971, 1-30). I numerosi ambiti trattati a volte in modo disperso dagli autori precedenti trovano codificazione in un genere letterario con un proprio status e una dignitas riconosciuta (come attestano le praefationes delle opere pervenute), che si salda presto con uno dei presupposti culturali della civiltà romana, l’ideologia del mos maiorum. La prima opera ‘agronomica’ del mondo romano è il de agricultura di →Catone. 5. I Saserna e gli altri trattatisti romani. – Poco meno di un secolo dopo, abbiamo notizia di un’opera che, a giudicare dai frammenti rimastici, è indirizzata prioritariamente ad un’amministrazione latifondistica. Si tratta del trattato dei (o di un) Saserna – padre e figlio/ padre o figlio – che affronta in modo preciso il rapporto tra latifondo e fabbisogno di →manodopera agricola servile, e ha per orizzonte di osservazione le pianure galliche dell’Italia del nord (Martin 1971, 81-93). G. Tremelio Scrofa è introdotto come protagonista del De re rustica varroniano : qui si afferma che Scrofa « è ritenuto tra i Romani il più esperto in questioni di agricoltura », e che i suoi frutteti e i suoi granai sono visitati e ammirati (r.r. 1,2,10). Lo spagnolo Giulio Igino, erudito e posto da Augusto a capo della Biblioteca del Palatino, aveva redatto un De agri cultura e un De apibus, fonte – stando a Columella (1,1,3) – delle Georgiche virgiliane. Importante doveva essere la sezione agronomica nell’opera enciclopedica di →Celso, mentre a Giulio Grecino era attribuito un trattato di viticoltura. Problematica è l’attribuzione di un De arboribus ad Apuleio di Madaura, al quale pure sono assegnati alcuni passaggi e citazioni nei Geoponica. Probabilmente nel iii sec. va collocato →Gargilio Marziale, autore di un De hortis di cui abbiamo una versione epitomata, e che nel giudizio degli antichi appare molto apprezzato. 6. La tradizione agronomica in lingua greca. – Fin dalla prima età volgare, appare fiorente la tradizione di scritti agronomici in lingua greca, composti anche da autori di ambito romano o romanizzato, i quali intendono in tal modo mirare ad un pubblico più ‘interna 





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alchemici, processi

zionale’. Di Passamo, egiziano, forse del i sec. a.C., sono noti due libri di Georgikà che probabilmente attingevano anche alla tradizione orientale. Tra primo e secondo secolo si collocano i Quintili (Sesto Q. Valerio Massimo e Sesto Q. Condiano), generali e politici di alto rango, autori di Georgikà che sembra fossero condotti in forma calendariale. Al terzo secolo appartengono due autori profondamente diversi fra loro : Florentino e Giulio Africano. Il primo è autore di Georgikà rigorosi e con un taglio anche economico (per esempio nella viticoltura). Il secondo, che si inserisce nel solco della paradossografia, redasse una sorta di enciclopedia di curiosità teratologiche, i Cesti, dove erano inserite anche notizie su tecniche di coltivazione prodigiose e rimedi vegetali miracolosi. Tarentino, forse del iv sec., aveva composto manuali di ippiatrica e di agricoltura. Altri autori citati nei Geoponica sono un Leone (o Leontino), un Panfilo, un Sozione, forse paradossografo come Africano. Sotto il nome di Zoroastro, infine, sono citati numerosi procedimenti tecnici straordinari e preparati vegetali dalle proprietà magico-terapeutiche. Tutto questo sapere della tradizione agronomica antica, greca e latina, andrà a confluire nella raccolta di Cassiano Basso, i Geoponica, collocabili tra il v e il vi secolo.  

Bibliografia. Cataudella 2002 ; Della Corte 1946, 19-42 ; Devillers-Krings 1996 ; Greene-Kehoe 1995 ; Heurgon 1986 ; Martin 1971 ; Martin 1974 ; Meana-Cubero-Sàez 1998, 36-58 ; Santini 2000 ; Speranza 1974.  

















Emanuele Lelli Alchemici, processi. 1. Generalità. – Quello che viene definito opus alchemicum, ovvero un processo il cui scopo non era soltanto quello di cambiare o perfezionare la natura, ma di ‘redimerla’, avveniva mediante sette procedimenti divisi in quattro operazioni : putrefazione, calcinazione, distillazione e sublimazione, e tre fasi : soluzione, coagulazione ed unione. Attraverso queste operazioni la materia grezza, o ‘materia prima’, mescolata con lo zolfo ed il mercurio e scaldata nella fornace, subirebbe un graduale processo di trasformazione che si articola in varî stadi contraddistinti dal colore assunto dalla materia stessa durante la trasmutazione. Dunque l’→alchimia non si limita ad un’unica realtà, ma cerca di scomporre le sostanze nei loro principi per riassociarli poi di nuovo.  



Possono essere erbe o legno, metalli, sangue o altro. Il numero delle fasi, variabile da tre a dodici a seconda degli autori di trattati alchimistici, è anche legato al significato magico dei →numeri. L’alchimia, come molte teorie occulte ed esoteriche, ammette l’esistenza di un principio o di una sostanza base capace di rivelare la natura della cose. Gli alchimisti, che erano pure filosofi, chiamavano questa sostanza Spiritus Mundi e ritenevano di poterla manipolare ; il principio è che ogni sostanza allo stato fisico può assumerne uno astrale per poi ritornare allo stato fisico e in questo processo di ‘spiritualizzazione’ può anche modificarsi a livello atomico. In questo modo essi riuscivano a spiegare concettualmente come un metallo, trasferito ad un livello di esistenza ‘astrale’, potesse poi rimaterializzarsi modificandosi profondamente sotto l’azione di questa volontà cosmica, e ricomparire sotto forma di un altro metallo più nobile : è così che il ferro può essere cambiato in oro. [1] Nella letteratura alchemica, non solo in quella antica, il numero e il tipo di processi non ha una codificazione ben determinata : oltre a quelle fondamentali che verranno esaminate di seguito, tra le meno note figurano la calcinazione (polverizzazione), la fusione, la solidificazione (congelatio), la liquefazione o deliquescenza, la separazione (separatio), la cerazione (mollifica il solido che non fonde), la fermentazione (fermentatio), la moltiplicazione (moltiplicatio), la proiezione (o tintura), la cristallizzazione, l’unione, la purificazione (ablutio), la cementazione, la deflegmazione (deflegmatio, separazione dell’acqua contenuta nei corpi), l’affinaggio (separazione dall’impuro), la mortificazione (triturare o addizionare un elemento attivo), l’amalgamazione (amalgamatio). 2. Calcinazione. – La c. non è altro che un processo di riscaldamento ad alta temperatura che si protrae per il tempo necessario ad eliminare tutte le sostanze volatili da un composto chimico. Gli alchimisti ritenevano che anche l’ossidazione del metallo fosse una forma di calcinazione, in seguito alla quale la sostanza volatile che si separava era ritenuta essere il ‘flogisto’, un misterioso principio di infiammabilità o principio solforoso. L’effetto della c. è la polverizzazione di un corpo solido per mezzo del calore e con mutamento di composizione. [2] Era diffusa la convinzione che questo processo potesse rivelare l’intima natura delle cose. 3. Coagulazione. – La c. è un indurimento  









alchemici, simboli della materia molle (liquida o fluida) e il fissaggio delle sostanze volatili. 4. Coobazione. – Fra gli alchimisti era largamente diffusa l’idea che, una volta individuato un procedimento efficace per la produzione, per esempio, di un elisir, le sostanze che lo componevano dovevano essere più volte sottoposte al medesimo procedimento come se in questo modo venisse garantita fino in fondo la purificazione delle sostanze. Per tale scopo fu messo a punto un tipo di alambicco [→alchemici, strumenti] a riflusso detto ‘pellicano’. [3] 5. Distillazione. – La d. è una tecnica di separazione di una miscela il cui principio si basa sullo sfruttamento della differenza dei punti di ebollizione delle diverse sostanze presenti nella miscela ; tale tecnica serviva sia per separare miscele complesse che per purificare le sostanze. Scavi archeologici in Asia hanno dimostrato che la tecnica della distillazione dell’alcool era già nota alle popolazioni mesopotamiche e alle culture della valle dell’Indo già tra il iii e il ii millennio a.C., [4] ma il suo uso divenne comune tra il 150 a.C. e il 350 d.C., in particolare tra gli alchimisti greci. [5] Secondo K. B. Hoffmann si inizia a parlare di destillatio per descensum nel 400 d.C. circa, per opera di un fisico greco di nome Aezio; una tra le prime apparecchiature per la distillazione fu invece inventata da →Ipazia. 6. Putrefazione. – La p. è la morte dei corpi e la divisione degli elementi che li compongono. Essa è corruzione, ma anche predisposizione alla rigenerazione. Simboleggia la distruzione di ciò che è vecchio, antico e consumato e la nascita di un nuovo essere in grado di creare nuovi frutti. Essa è associata al colore nero e per questo chiamata nigredo o ‘opera al nero’. 7. Soluzione. Una s. è una miscela tra un solvente e una materia solubile, che può essere decomposta per mezzo di metodi di separazione fisici. Essa si differenzia da una generica dispersione di materiale in un liquido, perché il soluto è disperso nel solvente in maniera omogenea e non si notano parti corpuscolate. 8. Sublimazione. – La s. consiste nel passaggio di una sostanza, mediante il calore, dallo stato solido a quello gassoso, e successivamente nella sua condensazione per rapido raffreddamento. Questa pratica spesso non otteneva i risultati previsti per il semplice motivo che la maggior parte delle sostanze assumevano lo stato liquido prima di solidificarsi. Tuttavia  







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con certe sostanze, come per esempio i solfuri, era possibile osservare facilmente la formazione di sublimati. Con ‘sublimato’ si intendeva anche quella patina liquida che aderiva alla sommità dell’apparecchio di s. [6] Lo pneu`ma («spirito») sarebbe il prodotto della s., dunque questo processo simboleggia la purificazione ; essa è associata al colore bianco e per questo chiamata albedo o ‘opera al bianco’. 9. Trasmutazione. – È il processo base su cui si fonda l’intera scienza alchemica e il fuoco rappresenta l’agente principale di tale processo. Ogni tentativo di t. consisteva soprattutto nel cercare di manipolare i metalli di base per cambiarli in oro. Tale aspirazione simboleggia la volontà di arrivare alla perfezione e di superare i limiti dell’esistenza terrena. Gli alchimisti credevano che l’oro, incorruttibile per sua intrinseca natura, era la più perfetta delle sostanze ; dunque, svelando il segreto dell’immutabilità e incorruttibilità dell’oro si sarebbe giunti alla soluzione per vincere finalmente le malattie ed il decadimento fisico, nonché alla purificazione della stessa anima. Se la t. rappresenta lo stadio finale, può dunque essere messa in relazione con la cosiddetta rubedo o ‘opera al rosso’, che simboleggia proprio lo stadio conclusivo di ogni sforzo alchemico.  





Note. [1] Ouspensky 1991, 113-114. – [2] Holmyard 1972, 42. – [3] Holmyard 1972, 49. – [4] Allchin 1979, 55-63. – [5] Underwood 1953, 251. – [6] Holmyard 1972, 43-44, 54. Bibliografia. Allchin 1979 ; Holmyard 1972 ; Ouspensky 1991 ; Underwood 1953  





Carmelo Lupini Alchemici, simboli. 1. Generalità. – Il linguaggio dell’alchimia, per sua natura ermetico esoterico, si è sempre espresso attraverso un complesso mondo di simboli che descrivono nella loro essenza concetti derivati dalle pratiche di laboratorio e dalle profonde esperienze spirituali degli alchimisti. La manifestazione più alta di ogni religione e dottrina risiede, dunque, nella sua simbologia, poiché all’immagine allegorica e metaforica vengono affidate le verità più incomunicabili. Il legame profondo che viene ad instaurarsi tra significato e significante per mezzo del simbolo è come un filo che unisce la nostra realtà a quella iperuranica, il tempo all’eternità. Gli alchimisti elaborarono una gran quantità di simboli che variano da

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tradizione a tradizione. Dal momento che gli elementi cosmici avevano grande importanza sui processi alchemici, tradizionalmente, ognuno dei sette corpi celesti del sistema solare conosciuti dagli antichi era associato con un determinato metallo : il Sole governa l’oro, la Luna è connessa con l’argento, Mercurio col metallo che porta il suo stesso nome, Venere con il rame, Marte con il ferro, Giove con lo stagno e Saturno con il piombo, quindi anche graficamente i simboli planetarî, di cui esiste una gran varietà, venivano usati dagli alchimisti per indicare i metalli, gli elementi e le loro modificazioni ; a titolo d’esempio vengono qui riportati alcuni simboli molto comuni che indicano gli stati e le modificazioni dell’oro : [1] crusov~ «oro», crusou` rJivnhma «limatura aurea», crusou` pevtala «lamine auree», cruso;~ kekaumevno~ «oro incandescente», crushvlektron «oro-elettro» (oro e ambra), crusovkolla «borace» (Lindsay 2001, 201 fig. 23). Tra i simboli più antichi, attestati da un manoscritto siriaco tardoantico conservato al British Museum di Londra, ricordiamo (Sole (Satur/ fuoco / oro), (Luna / argento), (Mercurio / mercurio), no / piombo), (Cancro (Leone / fuoco), (Toro, terra), (Cielo), (ossidazione, rug/ acqua), gine). [2] Inoltre sia i metalli che i corpi celesti erano posti in relazione con l’anatomia umana [→melotesia zodiacale] e le sette viscere dell’uomo. Molti di questi simboli si trovano non solo nei manoscritti antichi, ma anche incisi su pietre e metalli preziosi come se avessero la capacità di trasferire sulla Terra il loro potere e di conferirlo agli oggetti. Tutti questi segni, che rappresentano ciò che è ignoto alla maggior parte degli uomini, sono significativi per coloro che, esecutori di un compito divino, sentono l’influsso del mondo iperuranico : essi sono dunque messaggi di esseri e di potenze soprannaturali, rappresentabili con nomi o parole dai suoni misteriosi. La simbologia alchemica e astrologica continuerà ad evolversi nei manoscritti tardo-medievali e rinascimentali fino al Xviii secolo giungendo ad un complesso linguaggio simbolico. Il linguaggio simbolico alchemico non si è limitato solo all’elaborazione di segni grafici, ma ha sviluppato anche un sistema di immagini altamente espressive capaci di sintetizzare concetti complessi. Nelle opere più tarde di alchimia della Grecia fiorisce un vero e proprio ‘simbolismo allegorico’  









che affonda le proprie radici negli antichi miti religiosi del mondo antico, mediterraneo e orientale, e che avrà molta fortuna nei secoli successivi. La sola enfasi che viene data al Sole ed alla Luna, infatti, mostra l’origine religiosa del simbolismo allegorico alchemico che successivamente verrà arricchito con immagini tratte dalla mitologia classica. Gli alchimisti, infatti, hanno fatto grande uso della mitologia greca, latina, ma anche egizia e orientale (in particolare ebraica) adattandone i significati alle proprie teorie ; nella leggenda di Icaro, per esempio, si trovano due profondi insegnamenti tanto cari alla scienza alchemica : quello di seguire il giusto mezzo dominando l’orgoglio (Dedalo) e quello di non inorgoglirsi dei risultati raggiunti andando oltre i limiti imposti dalla Natura (Icaro che pretese di arrivare in volo fino al Sole per poi precipitare). L’arte alchemica, dunque, come anche l’→astrologia con la quale è strettamente connessa, ha la capacità di esprimersi mediante l’uso ‘combinato’ di parole, simboli ancestrali e immagini : è possibile rintracciare in ogni allegoria alchemica una parte o l’intero processo di ‘soluzione e coagulazione’ che porta alla conoscenza della Natura e alla penetrazione dei suoi misteri. Di seguito verranno descritte le più significative di queste immagini che spaziano dal mondo degli uomini a quello degli animali e della natura. 2. Androgino. – Già nelle culture antiche la figura dell’a. simboleggiava l’idea di un essere primordiale che racchiudeva in sé maschio e femmina, come Zeus inteso quale divinità totale in un inno che recita « Zeus è maschio, Zeus è una donna immortale ». [3] Nell’immaginario alchemico l’a. incarna i due elementi primordiali sulphur et mercurius ; in senso traslato, l’elemento che brucia e quello volatile. 3. Anima mundi. – Simboleggia l’energia divina che si irradia in tutto l’universo e che rappresenta anche il ‘fuoco segreto’ dell’alchimista. 4. Aquila. – Si tratta di un simbolo celeste e solare. La capacità da parte di questo animale di innalzarsi maestosamente al di sopra delle nubi e di fissare il Sole, secondo una credenza molto diffusa in antico, evoca la visione divina e la conoscenza del Logos-Luce. Essa viene assimilata alle sublimazioni mercuriali. 5. Ariete. – Notoriamente l’a. è l’emblema di Ermete. Già nell’antico Egitto rappresentava la forza e la fecondità del dio Amon ed era an 













alchemici, simboli che l’animale sacro a Khnum, il dio vasaio dalla testa di ariete che modellò l’essere umano. Amon rappresentava le forze riproduttive e veniva rappresentato in aspetto itifallico oppure con testa di ariete. Portava sulla testa un copricapo sormontato da due alte piume diritte, caratteristiche delle divinità celesti. Il nome della divinità deriva dall’antico egizio ıjmn ‘nascosto’, nome attestato anche nell’accadico iluA-ma-nu e nell’ebraico ’Āmōn, poi passa. Egli è il ‘dio nascosto’ to al copto che si manifesta soprattutto nel vento. Sembra, dunque, che furono gli antichi Egizi i fautori e creatori del culto dell’Ariete e della costellazione ad esso associata, molto importante per loro perché essa culminava quando la stella Sirio sorgeva determinando il tempo dell’alluvione benefica del Nilo. Ammone era venerato nella colonia greca di Cirene, dove veniva identificato con Zeus, e a Roma, dove era associato a Giove. Le corna di ariete sono la caratteristica iconografica più evidente di questa divinità sincretistica che è sempre stata considerata un’epifania africana ed esotica del greco Zeus. Numerosi centri di culto di Zeus-Ammone erano presenti anche in terra ellenica : ad Afitide, ad esempio, nella penisola Calcidica, si trovava un grande santuario dedicato al dio, il cui culto risaliva a un’epoca di gran lunga precedente l’impresa di Alessandro il quale, nel 332 a.C., dopo aver conquistato l’Egitto, attraversò la depressione di Qattara per recarsi presso il santuario di Ammone. L’oracolo di Siwa salutò Alessandro quale figlio del dio. [4] Le monete della zona di Afitide rappresentano Zeus adorno di corna di ariete. La stessa iconografia si riscontra anche nelle monete di Cirene. Il centro di culto più importante di Ammone, presso il quale vi era l’oracolo del dio, si trovava nell’oasi di Siwa, nel deserto libico. L’oracolo era stato meta di pellegrinaggi e ambasciate greche già dal v secolo [5] e, secondo il mito, anche Eracle e Perseo si sarebbero recati nell’oasi in veste di pellegrini. [6] Nelle monete battute da Lisimaco, re di Tracia, dopo la morte di Alessandro, il sovrano macedone viene raffigurato con le corna di ariete sul capo, come si conviene al figlio divino di Zeus-Ammone. Già Alessandro, in pubblico, era solito indossare sul capo le corna di ariete di Ammone, un’abitudine ricordata da Efippo di Olinto. [7] Le corna di Ammone, che simboleggiano la diretta genealogia divina, restano comun 







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que una caratteristica esclusiva di Alessandro e non vengono raffigurate dai Diadochi nei loro ritratti, ad eccezione di Arsinoe ii, regina tolemaica di Egitto, che in una serie di conî viene raffigurata con un corno di Ammone avvolto attorno all’orecchio e parzialmente coperto dal velo che porta sul capo (Svoronos 1904, pl. 15a). Questo attributo non va confuso con certe piccole corna bovine spesso presenti sulla fronte delle regine greche d’Egitto che, pur essendo anch’esse attributi divini, non rimandano alla figura di Ammone, ma a quella della vacca sacra o all’iconografia della dea Iside che porta sul capo un’ampia mezzaluna. In Grecia il simbolo dell’a. fu anche accostato alla leggenda del Vello d’Oro, quindi alla ricerca della saggezza. L’Ariete Zodiacale presenta una simbologia collegata con il fuoco originario, perché corrisponde all’equinozio di primavera, quando la natura si risveglia dal sonno invernale, inondando nuovamente la terra di vita ed energia. 6. Basilisco. – Il b. è un animale leggendario considerato il re dei rettili (infatti basilivsko~ significa ‘piccolo re’) capace di uccidere con il suo alito pestilenziale e lo sguardo infuocato. In alchimia descrive il fuoco devastatore che predispone alla trasformazione dei metalli, mentre da un punto di vista spirituale rappresenta il bagliore della falce della morte che colpisce all’improvviso. 7. Caduceo. – Un simbolo collegato ad →Ermete Trismegisto che viene raffigurato con una bacchetta da araldo (khruvkeion) che simboleggia l’asse di equilibrio intorno alla quale si attorcigliano in senso inverso due serpenti con le teste rivolte l’una verso l’altra (le opposte forze cosmiche maschili e femminili). Di fatto il primo rappresenta lo zolfo ed il secondo il mercurio e la loro disposizione non significa altro che l’equilibrio fra gli elementi, cioè un sistema dualistico dei principî della caducità e della combustibilità. 8. Colomba. – La c. simboleggia lo spirito divino che aleggia sulle acque e il colore bianco (albedo) della materia prima, della sostanza primordiale indifferenziata. Rappresenta anche la purezza, il bianco e la sublimazione. La c. personifica la virtù e la moderazione e divenne l’attributo di molti santi. 9. Corvo, cigno e fenice. – Questi tre simboli animali vengono qui menzionati insieme perché essi simboleggiano i tre principali stadi succes-

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Fig. 1. Caduceo, simbolo di Ermete (Lindsay 2001, 270 fig. 39).

sivi attraverso i quali la materia si trasformava secondo le convinzioni degli alchimisti : nigredo (corvo) stadio durante il quale la materia si dissolve putrefacendosi ; albedo (cigno) durante la quale la sostanza si purifica sublimandosi ; rubedo (fenice) che è lo stadio finale in cui la materia dopo essersi liberata dalle scorie risorge ad un livello di perfezione superiore. Il simbolo della fenice, per la sua capacità di rinascere dalle proprie ceneri, incarna il principio ciclico della distruzione (morte) e rinascita che è il tema centrale della speculazione alchimistica. 10. Drago. – Questo animale fantastico simboleggia il principio attivo demiurgico ed è legato alla manifestazione dell’attività celeste, grazie alla sua capacità di produrre il fulmine e la pioggia ; esso unisce la terra con l’acqua fecondandola. 11. Labirinto. – Il l. è immagine del lavoro interno della Grande Opera e delle sue difficoltà maggiori. Esso indica la via da seguire per raggiungere il centro, dove l’adepto si realizza integralmente dopo la morte e la rinascita spirituali. 12. Libro. – Il l. è il simbolo per antonomasia della scienza e della saggezza. « L’Universo è un immenso Libro » scrisse Ibn ‘Arabi. In alchimia un libro chiuso simboleggia la materia vergine, invece aperto la materia fecondata, ‘scritta’. 13. Liocorno. – Altro animale fantastico che simboleggia la possibilità di trascendere la sessualità. In epoca medievale rappresentava l’incarnazione del Verbo nel seno della Vergine.  

14. Perla. – La p. è simbolo di sublimazione degli elementi, della spiritualizzazione della materia, della trasmutazione delle sostanze. Essa rappresenta il centro mistico per eccellenza e l’immagine della perfezione ideale, concetto richiamato dalla sua forma sferica. Per l’intenso fulgore della sua lucentezza, la p. è associata al principio lunare e femminile. Il fatto che le perle perfette siano rare e che si trovino nascoste all’interno della loro conchiglia fece sì che per la Gnosi tardo antica esse divenissero il simbolo della conoscenza celata e della sapienza esoterica, intesa poi dal Cristianesimo come la dottrina stessa di Cristo che resta inaccessibile ai pagani. A tal proposito, di grande valore simbolico è il cosiddetto Inno dell’Anima, [8] testo d’ispirazione gnostica attribuito a Bardesane e risalente ai primi secoli del Cristianesimo, in cui l’uomo, simboleggiato da un fanciullo, viene inviato in Egitto (simbolo di prigionia, nel caso specifico dell’anima stessa) per cerca 











Fig. 2. Uroboro, il serpente che si morde la coda (Manoscritto di San Marco 299 f.88v, Lindsay 2001, 270 fig. 39).

re di impadronirsi di una p. (la conoscenza) che giace nel fondo del mare custodita da un drago. Però, dopo aver mangiato il cibo del luogo, egli si dimentica della sua missione fino a quando un’aquila gli porta una lettera (la dottrina della salvezza) che gliela ricorda. A questo punto può recuperare la p. (assunzione della Conoscenza o Gnosi) e fare ritorno nella sua patria celeste. 15. Rosa. – Nell’antichità l’origine del valore simbolico attribuito alle rose risale al mito di Adone, amato da Afrodite, dal cui sangue sbocciarono le prime rose rosse. Questo fiore

alchemici, strumenti divenne così il simbolo dell’amore che sopravvive alla morte, e della rinascita, e in un certo senso anche del ritorno allo stato originario di perfezione ; infatti il protagonista dell’Asino d’oro di Apuleio recupera le fattezze umane mangiando delle rose appartenenti ad una corona dedicata ad Iside, dea vivificatrice. [9] La festa delle rose, o Rosalia, rientra nel culto dei morti degli antichi Romani, ed è già testimoniata a partire dal i secolo d.C. [10] Anche durante le celebrazioni in onore di Dionisio si era soliti coronarsi di rose, giacché è diffusa la credenza secondo la quale esse avessero la virtù di calmare lo stato di ebbrezza ; forse anche per questo motivo la r. divenne simbolo di riservatezza. Nel linguaggio specifico dell’alchimia una r. rossa ed una bianca sono il simbolo del sistema dualistico rosso/bianco, nonché dei due principî originarî sulphur et mercurius, mentre una r. con sette ordini di petali veniva di solito messa in relazione coi sette metalli e con gli stessi pianeti. Una r. che lascia cadere i suoi petali è simbolo della caducità della materia e della vita stessa. La r. divenne l’emblema della setta esoterica dei Rosacroce ; trova molte affinità simboliche con la Rugiada della Redenzione e con il Santo Graal ; di fatto nell’iconografia rosacrociana il fiore occupa il centro della Croce al posto del cuore di Cristo. 16. Rugiada. – Uno dei simboli di benedizione divini, la r. è generalmente associata alla Grazie vivificante. Collegata ai simbolismi ermetici e rosacrociani della Redenzione, la r. riveste un ruolo mistico di fondamentale importanza. Originariamente la r. è stata intesa come una lieve umidità che cade dal cielo e che ha l’effetto di vitalizzare e ringiovanire. [11] Gli antichi interpretavano la r. come segno della messaggera Iris oppure di Eos, dea dell’aurora. La r. celeste (ros coelestis) nella simbologia alchemica si riferisce anche al processo di avvicinamento alla pietra filosofale. 17. Smeraldo. – Lo s. è la pietra dalla luce verde e dai grandi poteri esoterico-rigenerativi. Non a caso fu scelto dallo stesso Ermete Trismegisto per la Tavola Smeraldina. Lo s. veniva associato al segno zodiacale della Vergine e al pianeta Giove. Il colore verde ne fece un potente simbolo dell’acqua e della fecondità della pioggia (gli smeraldi di colore verde-azzurro erano sacri a Venere). 18. Uroboro. – È l’immagine di un serpente che si morde la coda [12] (oujrobovro~, serpens qui  













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caudam devorat) formando un cerchio, spesso accompagnato dalla scritta e}n to; pa`n, «uno il tutto». Si tratta di un simbolo molto antico associato non solo all’alchimia, ma anche allo Gnosticismo e all’Ermetismo. Rappresenta la natura ciclica delle cose, la teoria dell’eterno ritorno, dell’inizio dopo la fine. Nel trattato ÔIeroglufika; Orapollo (1,2), riferendosi a questo simbolo, evidentemente d’origine egizia o orientale in genere, si esprime con questa mirabile descrizione : « Quando vogliono rappresentare l’universo raffigurano un serpente picchiettato di scaglie multicolori che si mangia la coda […]. Ogni anno si spoglia, con la pelle, della vecchiaia, così come nell’universo, operando una mutazione, il ciclo annuale si rinnova. Infine, il fatto che il serpente si cibi del proprio corpo indica che tutte le cose che nell’universo sono generate dalla divina provvidenza subiscono anche un processo di diminuzione ». [13] Nella simbologia alchemica l’u. assume significati più specifici : è l’immagine allegorica di un processo, in sé concluso, che si svolge ripetutamente e che avviene attraverso l’aumento della temperatura, l’evaporazione, il raffreddamento e la condensazione di un liquido, ciclo che serve alla raffinazione delle sostanze.  









Note. [1] Cfr. Lindsay 2001, fig. 23. – [2] Vd. Lüdy 1928. – [3] Cfr. Aug. civ. 7, 9. – [4] Plu. Alex. 27 e Rom. Alex. recensio a W. 1, 30. – [5] Hdt. 3, 25-26 – [6] Call. Olynth. FGrH 124 fr. 14a, Arr. An. 3, 3, 1-2, Curz. Ruf. 4, 7-8. – [7] Ephipp. Olynth. FGrH 126 fr. 5. – [8] Jonas 1991, 130-146. – [9] de Rachewiltz 1999, 61. – [10] Di Dario 2005, 6. – [11] lxx, Is. 16, 19. – [12] Lindsay 2001, 271-286. – [13] Horap. 2. Bibliografia. Di Dario 2005 ; Jevolella 1996 ; Jonas 1991 ; Lindsay 2001 ; Lüdy 1928 ; Eliade 1952 ; Gessmann 1899 ; Guénon 1990 ; de Rachewiltz 1999 ; Svoronos 1904 ; Van Lennep 1966.  



















Carmelo Lupini Alchemici, strumenti. 1. Generalità. – Con il progressivo sviluppo dell’alchimia, molti settori della tecnologia andavano perfezionando di pari passo il loro livello di efficienza, specialmente la metallurgia nelle tecniche di estrazione dei metalli, la botanica e la mineralogia applicate alla formazione di pigmenti e sostanze coloranti, ma anche di droghe, veleni e cosmetici, e in particolare ebbe un certo impulso l’arte vetraria. La lavorazione del vetro era un’arte già praticata da secoli in Egitto e

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alchemici, strumenti

Mesopotamia e qui gli artigiani assiri si dimostrarono così abili da aver saputo produrre un vasto assortimento di vetreria colorata quali giare e fiale. Un lungo primato fu detenuto dalle vetrerie di Ascalona in Siria. Gli alchimisti, dunque, trovarono a loro disposizione non solo una gran quantità di nozioni tecniche legate all’estrazione di materie prime e alla loro lavorazione, ma soprattutto poterono disporre quasi fin dall’inizio di strumenti già adeguati a svolgere le loro attività, strumenti che spesso in seguito perfezionarono modificandone le caratteristiche e ricavando così dispositivi ancor più efficienti e maggiormente adatti a svolgere operazioni e processi alchemici [→Alchemici, processi]. Le più importanti e fondamentali di queste operazioni erano la calcinazione, la sublimazione, la fusione, la cristallizzazione e la distillazione, e rimasero più o meno le stesse durante tutto l’arco di tempo che vide sorgere e fiorire l’arte alchemica. 2. Forni, fornaci, griglie e recipienti. – Il forno è sicuramente lo strumento più importante di tutto l’armamentario alchemico ed era indispensabile per la calcinazione ed operazioni consimili quali la fusione e la sublimazione. Queste operazioni richiedevano l’utilizzo di molti tipi di forni e di varia misura ; essi costituivano la maggior parte dell’attrezzatura di un laboratorio alchimistico. La numerosità e la varietà dei forni erano dovute soprattutto alla difficoltà di regolare la temperatura di ogni singola fornace dal momento che era indispensabile potere ottenere differenti gradazioni di calore indicate per ogni particolare processo. Il combustibile principale era costituito da legna, ma qualunque altro materiale infiammabile andava benissimo. Gli alchimisti ritenevano, inoltre, che il raggiungimento di temperature molto elevate avrebbe favorito il processo di trasmutazione, e dunque diventò intenso l’uso di soffietti e mantici. L’aspetto tipico di tale strumento viene descritto da Poisson 1891 : “è una specie di fornello a riverbero che si può smontare in tre parti. La parte inferiore contiene il fuoco ; essa è bucherellata per permettere l’accesso all’aria e presenta una porta. La parte media, pure cilindrica, offre tre sporgenze disposte a triangolo su cui riposa la scodella contenente l’uovo. Questa parte è bucata, secondo uno dei dischi di cristallo, il che permetteva di vedere cosa succedeva nell’uovo. Infine la parte superiore, piena, sferica costituiva una  





cupola o riflettore che riverberava il calore”. [1] Esiste un’accurata descrizione dell’athanor fatta da Giovanni di Rupescissa (1310 ca. – 1365) nel suo De confectione veri lapidis philosophorum. La fornace degli alchimisti nella tradizione alchemica posteriore assumerà il nome di athanor, termine dall’etimologia apparentemente poco chiara. Infatti, secondo una paretimologia piuttosto diffusa in passato, tale termine veniva ricondotto ad una forma deformata di ajqavnato~ ‘immortale’, quindi ‘fornello immortale’, giacché in esso il fuoco doveva bruciarvi senza tregua, fino a raggiungere la perfezione nel risultato finale, ma in realtà il termine athanor è connesso con la radice semitica tnr ; si confronti a tal proposito la voce araba ed ebraica tannūr ‘fornello’, ma soprattutto si consideri l’inequivocabile somiglianza del termine preceduto in ebraico dall’articolo : ha-tannūr. La fusione richiedeva, oltre al forno, l’utilizzo di recipienti specifici : essa si effettuava in crogiuoli di coccio o argilla disposti a coppie, uno superiore col fondo perforato e uno inferiore che raccoglieva il materiale che defluiva dal primo. Il materiale (metallo grezzo o minerali) veniva posto nel contenitore superiore e, sottoposto al calore della fornace, defluiva fuso nel contenitore sottostante lasciando le scorie nella parte superiore. Dunque i forni venivano usati in concomitanza di recipienti di varia natura : scodelle, crogiuoli, condotti, tubi, griglie, piatti e teglie solitamente realizzati in terracotta o materiali simili : le loro funzioni erano molteplici quali, ad esempio, trattenere certe sostanze in un determinato stato di aggregazione, oppure favorire l’adesione di un certo tipo di sostanza ad una superficie opportunamente trattata filtrandone altre con caratteristiche differenti. La sublimazione, per esempio, richiedeva l’applicazione all’interno del forno di una sorta di disco perforato, una sorta di griglia posta tra il vaso, contenente la sostanza da sublimare attraverso la quale fuoriescono i gas riscaldati dalla combustione e un ricettore conico sulla bocca del vaso che serviva a raccogliere il sublimato. 3. Vetreria di laboratorio e altri strumenti. – La distillazione ha richiesto la messa a punto di strumenti e apparati specifici realizzati originariamente in terracotta, in rame e successivamente, con l’affinarsi delle tecniche artigianali, in vetro. Questo materiale, infatti, rendeva possibile la realizzazione di elementi  











alchemici, strumenti altrimenti difficilmente realizzabili, come tubi sottili dritti (swlhnavria) o a spirale, serpentine, fiale, etc. Alcune descrizioni di questi primi rudimentali strumenti fanno la loro apparizione in diversi manoscritti alchimistici greci risalenti ai primi secoli dell’era cristiana. Una tra le prime apparecchiature per la distillazione fu inventata da →Ipazia. Un tipico dispositivo di quell’epoca era costituito da una parte rigonfia (bi`ko~, cfr. l’antico egiziano b k.t), destinata a contenere il liquido da distillare, collegata ad un tubo di scarico detto swlhvn. Col termine a[mbix «tazza» si indicava in particolare la testa dello strumento, un recipiente rigonfio destinato a contenere il liquido da distillare, la testa di deflammazione (o elmo), recante il tubo di derivazione o di scarico, ma in seguito ha finito per estendersi a indicare tutto il dispositivo. Tale termine è giunto nelle lingue moderne attraverso la mediazione dell’arabo al-anbiq passando per il latino medievale alembicus ed il francese antico alambic. Le teste di deflammazione avevano nomi diversi a seconda delle caratteristiche, infatti alcune erano provviste di due o tre tubi di scarico : il primo tipo era detto divbiko~, il secondo trivbiko~. L’invenzione di quest’ultima tipologia viene attribuita a Maria l’Ebrea [→alchimisti antichi] la quale fornisce pure indicazioni su come realizzare tale pezzo ; [2] a Maria viene attribuita anche l’invenzione della khrotakiv~. [3] Con tale termine si indicava generalmente una tavolozza in materiale metallico posta su un fornelletto che aveva la funzione di mantenere fluidi i colori

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Fig. 2. Struttura di un alambicco (Lindsay 2001, 259 fig. 36).

che usavano i pittori nella tecnica ad encausto e veniva così definito in quanto il doppio bollitore conservava calda la cera (khrov~) che, nell’ambito di questa tecnica pittorica, veniva utilizzata come componente del legante. Giacché nelle applicazioni alchemiche la khrotakiv~ aveva funzioni differenti, un’altra interpreta-







Fig. 3. L’alambicco a tre bracci di Maria l’Ebrea (Lindsay 2001, 253 fig. 34).

Fig. 1. Pellicano, strumento alchemico (Holmyard 1972, 50 fig. 5).

zione voleva che lo strumento in questione veniva chiamato in tale maniera in quanto era utilizzato per bagnare i metalli e col termine khvrwma la sostanza umida prodotta all’interno dai vapori che, dopo la condensazione,

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alchimia 1972, 46-47, fig. 3 ; Lindsay 2001, fig. 37. – [4] Cfr. anche Holmyard 1972, 47-48. – [5] Lindsay 2001, 252-261, fig. 36.  

Bibliografia. Holmyard 1972 ; Lindsay 2001 ; Poisson 1891.  



Carmelo Lupini

Fig. 4. Kerotakis, come è raffigurata in un manoscritto greco (Lindsay 2001, 260-265 figg. 37-38).

Alchimia [al-chmiva, alchemia]. 1. Generalità. – Il termine alchimia deriverebbe dall’arabo alkīmiyā’ o al-khīmiyā’, che è probabilmente composto dall’articolo arabo al- e la parola greca cumeiva collegata con l’idea di ‘fondere’, ‘colare insieme’, ‘saldare’, ‘allegare’, etc. (cfr. cuvma ‘che è stato colato’, ‘lingotto’), probabilmente il nome di quella sostanza affannosamente cercata dagli alchimisti : la pietra filosofale ovvero lapis philosophorum, che nei testi del iii secolo d.C. era già nota come livqo~ tw`n filosovfwn o livqo~ th`~ filosofiva~, dunque ṣan‘at al-kīmiyā’ in arabo cioè ‘arte di (fabbricare) la pietra filosofale’ oppure al-iksīr ‘(arte) dell’elisir’. Il termine greco, attestato già verso la fine del iii secolo d.C., in età bizantina veniva scritto in molti modi, per esempio chmeiva, cimeiva, cumeiva, chmiva[1] e potrebbe essere passato in arabo attraverso il siriaco ; questo spiegherebbe perché la voce araba abbia reso con k il c greco. Ad ogni modo tale vocabolo era poco adoperato rispetto ad altre espressioni, infatti si preferiva dire hJ crusopoiiva ‘la fabbricazione dell’oro’ (indicata nei manoscritti in forma abbreviata con [→alchemici, simboli]), ma anche hJ ajrguropoiiva ‘la fabbricazione dell’argento’, hJ qeiva tevcnh ‘l’arte divina’ oppure hJ iJera; tevcnh ‘l’arte sacra’, e ancora to; mevga e[rgon ‘la Grande Opera’. Un’altra etimologia collega la parola con l’espressione ‘al-Kemi’, composta dall’articolo arabo unito ad una parola d’origine egizia che designa la stessa terra del Nilo : l’Egitto, quindi ‘arte egizia’. In effetti gli antichi Egizî chiamavano il loro paese Kmt ‘terra nera’ (copto ), in riferimento alla nera sostanza fertile (limo) rilasciata dal Nilo durante le piene ed erano considerati potenti maghi in tutto il mondo antico. Generalmente si fa infatti risalire l’origine dell’arte alchemica all’antico Egitto. Metallurgia e misticismo erano inesorabilmente legati insieme nel mondo antico, in cui una cosa come la trasformazione dell’oro grezzo in un metallo scintillante doveva sembrare un atto governato da regole misteriose. La città di Alessandria in Egitto fu un  

finiva per assumere la consistenza della cera. La khrotakiv~, infatti, consisteva in una sfera o in un cilindro con la calotta emisferica messa a contatto col fuoco, nella cui parte inferiore venivano riscaldate soluzioni di mercurio, di solfuro di arsenico e zolfo ; i metalli da trattare erano posti alla sommità della struttura ; i vapori dello zolfo interagivano col metallo liberando un precipitato di solfuro nero (il nero di Maria) che era ritenuto il primo stadio della trasmutazione (nigredo). Il prolungato effetto del calore poteva produrre una lega simile all’oro la cui composizione variava in base al tipo di metallo posto sul piatto o del mercurio e dei composti dello zolfo utilizzati. [4] La khrotakiv~ fu anche usata per estrarre oli vegetali (come ad esempio l’acqua di rose) che avevano non solo funzione cosmetica o alimentare, ma anche quella di biocombustibili. L’alambicco nel tempo, attraverso diversi stadi evolutivi, ha svariatamente moltiplicato le sue forme e molte tipologie sono state descritte da Zosimo che ci fornisce, inoltre, ulteriori informazioni sulla stessa Maria. [5] Un particolare alambicco a riflusso era noto col nome di ‘pellicano’ ; la sua funzione era quella di rendere automatico il procedimento della coobazione [→alchemici processi, 4]. I primi apparecchi di distillazione difettavano nell’efficienza del condensatore, quindi i liquidi volatili finivano per andare perduti ; a questo inconveniente di solito si ovviava con l’utilizzo di materiali assorbenti come lana o tessuti.  











Note. [1] Poisson 1891, 106 ; vd. anche Holmyard 1972, 44. – [2] Holmyard 1972, 46. – [3] Holmyard  





alchimia centro di conoscenza alchemica, e conservò la propria preminenza fino al declino della cultura egiziana antica. Sfortunatamente pare che non siano stati tramandati documenti originali egizî sull’alchimia, probabilmente, qualora fossero esistiti, andarono perduti nell’incendio della biblioteca di Alessandria nel 31 a.C. L’a. egizia, quindi, è per lo più conosciuta attraverso le opere di antichi filosofi greci, sopravvissute grazie a traduzioni arabe. La fondazione dell’a. è avvolta nel mito : la leggenda vuole che il fondatore di quest’arte fosse il dio Thoth dalla testa di ibis, chiamato Hermes-Thoth o Hermes tre volte grandissimo [→alchimisti antichi, Ermete Trismegisto] dai Greci. Il simbolo di questa divinità era il caduceo [→alchemici simboli, 7], che divenne uno dei principali simboli alchemici. Anche la Tavola Smeraldina è nota attraverso traduzioni greche ed arabe, ed è generalmente considerata la base per la pratica e la filosofia alchemica occidentale ( Jesboama 1910). 2. Prime notizie storiche e letterarie. – Non è cosa facile recuperare informazioni su pratiche e teorie pre-alchemiche e datare storicamente le prime attività che potremmo già definire alchemiche, questo perché le radici di tale arte affondano in un terreno alquanto variegato giacché l’a., come pratica proto-scientifica, combina elementi di chimica, fisica, astrologia, arte, semiotica, metallurgia, medicina, misticismo e religione. In particolare questa scienza è sempre stata ricondotta ad una conoscenza metafisica e filosofica finendo per assumere connotati mistici e soteriologici, cosicché i processi e i simboli alchemici possiedono spesso anche un significato interiore relativo allo sviluppo spirituale in connessione con quello prettamente materiale della trasformazione fisica. Il fatto che in molte culture umane l’antico concetto dell’oro è inteso come sostanza divina e ‘trasformatrice’, non significa necessariamente l’esistenza di idee alchemiche. Gli antichi Egizî consideravano l’oro un metallo divino e incorruttibile giacché non viene consumato dalla ruggine, e anche perché il suo colore ricorda il Sole, astro divino per eccellenza. Ci si avvicina alle idee alchemiche nel momento in cui nasce l’idea di una gradazione gerarchica tra le sostanze ; a tal proposito vanno ricordate le età dell’oro, dell’argento, del bronzo e del ferro nella concezione della storia in Esiodo. Il legame tra epoche e metalli era  



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penetrato anche nella cultura egizia ; infatti un manoscritto risalente al ii sec. a.C. narra di un figlio del re Neferkatah che deve compiere un viaggio alla ricerca di certi testi sacri scritti dal dio Thoth, capaci di conferire il dominio sul Cielo, la Terra e gli Inferi, e custodite in sette sarcofagi racchiusi uno dentro l’altro : uno d’oro, gli altri d’argento, d’ebano, d’avorio, di legno, di bronzo e di ferro, sette sostanze come il numero dei pianeti conosciuti e certamente poste in rapporto con essi. [2] Manilio, trattando del segno zodiacale del Capricorno e del collegamento di esso con il fuoco, fa riferimento al processo di sdoppiamento di una quantità di metallo prezioso. [3] Da Plinio, Columella e Seneca otteniamo chiare indicazioni sull’esistenza di un corpus di opere alchemiche che si era già costituito intorno ai nomi di →Democrito e del mago Ostane [→alchimisti antichi]. →Plinio, poi, riferisce che lo stesso Ostane fu maestro di Democrito e che egli stesso compilò libri di magia. [4] Nel i sec. d.C. a Roma vi fu una grande attività di astrologi le cui pratiche si legavano strettamente all’a. Tacito ricorda un certo Pammenes, esperto nell’‘arte dei →Caldei’, che fu espulso da Roma e un altro Pammenes che viene descritto come maestro di Democrito. Egli potrebbe essere identificato con l’egiziano Phimenas di Sais. [5] In un passo delle cosiddette Meditazioni, scritte in greco dall’imperatore Marco Aurelio viene espressa l’idea greca della frammentazione dei corpi dei loro componenti elementari : la sua terminologia risente della formazione storica del filosofo, ma già introduce all’idea alchemica della trasformazione. [6] I riferimenti al legame astrologico tra pianeti e metalli sono molto frequenti nella letteratura (per esempio in →Celso nell’apocrifo libro di Enoch). Quella che sarà la base dell’a., infatti, consiste in una prospettiva cosmologica globale che correla i metalli al cielo ed ai pianeti e non è un caso che molti simboli alchemici coincidono con quelli astrologici [→alchemici, simboli] ; pertanto ogni trasformazione non è di natura caotica e casuale, ma indirizzata da precisi influssi del cielo sulla terra. Tradizionalmente piombo, ferro, stagno, rame, mercurio, sono soggetti alla corruzione, mentre due, argento e oro, sono incorruttibili ovvero non soggetti al decadimento fisico prodotto dal tempo. In seguito si giunse all’idea tipica dell’a. vera e propria che solo l’oro sarebbe stato il risulta 

















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to ultimo di una scala di perfezione che tutti i metalli potevano raggiungere in seguito a trasmutazioni. Del mondo antico, purtroppo, si hanno in realtà assai scarse e confuse notizie. Unici testi originali (a parte i resoconti e le fonti indirette) sono i cosiddetti papiri di Leida e di Stoccolma recuperati a Tebe e risalenti al iii-iv secolo d.C. Questi preziosi documenti contengono una ricca, seppur frammentaria, panoramica delle conoscenze tecniche artigianali in uso in ambiente egizio e mediorientale. Esteriormente i papiri non presentano significative tracce di usura e dal punto di vista paleografico sono scritti in onciale greca, di andamento regolare, senza tracce di corsiva né di legature, per cui è ipotizzabile che si trattasse di un testo destinato ad una biblioteca piuttosto che ad un laboratorio. In essi vi sono contenute diverse ricette o procedimenti chimici e dieci estratti dal De materia medica di →Dioscoride. La lista dei procedimenti chimici si sussegue senza un preciso ordine ; vi è trattata la lavorazione dei metalli e delle leghe, dell’oro e dell’argento, degli inchiostri metallici e dei coloranti per stoffe. Di interesse tipicamente alchemico è la presenza di alcuni passi simbolici ed esoterici che istruiscono su alcuni procedimenti per la creazione o l’imitazione dell’oro e dell’argento. Tutto questo materiale probabilmente deriva da un trattato del i secolo noto come Physica et mystica, scritto dallo pseudo-Democrito. [7] 3. Note sul pensiero scientifico greco prima dell’alchimia. – Già nel vii sec., con lo sviluppo della scuola ionica e della scuola pitagorica nell’Italia meridionale, gli scienziati e filosofi greci tentarono di spiegare la natura dell’universo : gli uni individuandone i princípî e le sostanze fondamentali del cosmo concentrandosi sull’analisi dei fenomeni naturali, gli altri, invece, ne cercarono la spiegazione nel ‘numero’, in un principio astratto. Come importanti esempî di queste due scuole di pensiero, nel v secolo, si possono ricordare la teoria atomistica di Leucippo e →Democrito, e l’ipotesi della costruzione dell’universo elaborata dal pitagorico →Filolao che teorizza una struttura a sfere sovrapposte : o[lumpo~ (sfera delle stelle fisse), kovsmo~ (sfera dei pianeti, del Sole e della Luna) e oujranov~ (regione sublunare), in cui sono racchiuse la Terra ed una ipotetica ‘antiterra’ (ajntivcqwn). Filolao associò anche gli elementi alla forma di figure geometriche : la Terra è il cubo, il fuoco il tetraedro, l’aria l’ot 









taedro, l’acqua l’icosaedro, mentre un quinto elemento ideale era simboleggiato dal dodecaedro ; in questo modo egli cercava di spiegare su basi geometriche e meccanicistiche il passaggio da uno stato di aggregazione della materia ad un altro. [8] Furono i pensatori ionici a sollevare la questione della natura dell’universo e degli elementi di cui è composto. Questi primi filosofi, secondo →Aristotele, hanno cercato la visione unitaria della realtà, ma non si trovarono d’accordo sul numero e sulla forma dei princípî che costituiscono il cosmo. →Talete disse che l’elemento principale è l’acqua, dottrina questa, secondo Aristotele, suggeritagli dall’idea che dall’umido nasce il calore che è principio di tutte le cose e da esso tutte le cose traggono nutrimento; inoltre il filosofo ha pensato che fosse l’acqua l’origine del tutto, perché ha visto che tutto ciò che vive ha bisogno di acqua. Per →Anassimandro, invece, il principio di tutte le cose sta nell’a[peiron, l’‘l’infinito’, ciò che è privo di limiti, di confini, non solo spaziali ma anche qualitativi. L’infinito ‘stacca’ da sé le cose nel suo movimento rotatorio e genera il divenire. Il filosofo parla anche di una ‘colpa originaria’ che le cose hanno in questo staccarsi dall’infinito, dell’ordine unitario che è stato rotto con l’abbandono dell’a[peiron. →Anassimene fa un tentativo di sintesi fra le idee di Talete e quelle di Anassimandro : sostiene che l’elemento originario è l’aria. Giacché Anassimandro dice che il principio della realtà è indefinito e indeterminato, tuttavia non può essere tanto indefinito e indeterminato da essere nulla, →Anassimene cerca dunque un principio il più possibile indefinito, ma che comunque fosse identificabile. L’aria si prestava bene a questa idea, infatti essa è qualcosa di molto vago, ma nello stesso tempo ha una sua presenza, inoltre è veramente la causa di certe manifestazioni reali. La nebbia per gli antichi era aria, quindi l’aria era forse mutabile, ma in una certa misura concreta. Dunque, le dottrine di →Anassimene ed Anassimandro differiscono solo nella identificazione di un elemento che è nello stesso tempo origine e divenire. La Terra, il Sole, per esempio, non sarebbero dunque altro che aria condensata ; nel caso del Sole, l’aria condensata si è infuocata per la sua straordinaria e veloce attività di mutazione. In conclusione il pensiero greco si articola in tre visioni : l’idea di un processo unitario, di una qualche sostanza ultima dalla  









alchimia quale tutte le cose sono scaturite ; il concetto di un conflitto degli opposti tenuti insieme da un unico potente principio che è la forza stessa che muove l’universo ; l’idea di una struttura definita nei componenti ultimi della materia (atomi). Generalmente il mondo antico considerò il mutarsi della materia come un movimento di ‘discesa’ da uno stadio superiore e perfetto a stadî via via inferiori e sempre meno perfetti, dunque il movimento di ‘risalita’ non faceva altro che ripercorrere un processo già tracciato. Così per il Neoplatonismo l’intero cosmo deriva la sua esistenza da un principio primo ineffabile, totalmente trascendente e buono, chiamato da Plotino ‘l’Uno’ (to; ”En). La potenza infinita di questo principio genera l’universo attraverso un processo spontaneo e necessario, chiamato processione o ajpovrroia, tramite il quale l’energia vitale emanata dall’Uno penetra ovunque, formando i diversi livelli di cui è costituita la realtà. Le convinzioni gnostiche ed ermetiche condivisero con esso la credenza nella discesa dello spirito o soffio vitale (pneu`ma) attraverso differenti livelli o stadî, governati da varie forze cosmiche, fino a quelli terreni. Tali dottrine cercarono di trovare la via per un percorso inverso, in ascesa non solo mediante il ragionamento filosofico, ma soprattutto per mezzo di una conoscenza soprannaturale rivelata dall’alto, la gnw`si~. In questo contesto culturale ricco di tensioni insieme mistiche e scientifiche, l’a. trovò terreno fertile giacché, malgrado le confusioni e le ambiguità, aderiva all’idea della presenza di varî livelli di esistenza dell’essere e considerava tutti gli elementi come permeati da un unico principio che li rapporta gli uni agli altri (Lindsay 2001, 13-25). 4. Alchimia greco-alessandrina. – Tra il iv e il iii secolo l’a. trovò il suo maggior centro di diffusione ad Alessandria d’Egitto. Le dottrine alchimistiche della scuola greca passarono attraverso tre fasi evolutive : l’a. come tecnica, cioè l’arte prechimica degli artigiani egizî, l’a. come filosofia ed infine come esperienza religiosa. I Greci si appropriarono delle dottrine esoteriche degli Egizî e, nell’ambiente sincretistico della cultura alessandrina, finirono per confluire nelle filosofie del Pitagorismo e della scuola ionica e successivamente dello Gnosticismo. Il pensiero della scuola ionica era basato sulla ricerca di un principio unico e originario per tutti i fenomeni naturali ; questa filosofia, i  







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cui esponenti principali furono Talete ed Anassimandro, fu poi sviluppata da Platone ed Aristotele, le cui opere finirono per diventare una parte essenziale della letteratura alchemica. Si delinea, dunque, la nozione di una materia prima che plasma l’universo e che può essere spiegata solamente attraverso attente esplorazioni pratico-filosofiche. In quel tempo Empedocle teorizzava che tutto quanto esiste nell’universo è composto soltanto da quattro elementi essenziali : terra, aria, acqua e fuoco. A questi elementi Aristotele ne aggiungerà un quinto : l’etere ovvero la materia di cui sono formati i cieli e che viene denominata quintessenza. La fase successiva vede il prevalere dell’aspetto mistico-religioso ed esoterico rispetto a quello filosofico, ricco di rituali misteriosi, simboli arcani [→Alchemici, simboli] e caratterizzato da un linguaggio ermetico. Nei primi secoli dell’età imperiale, in età ellenistica, si sviluppò una variegata letteratura di carattere filosofico-soteriologico-religioso che si pretendeva essere stata rivelata da parte dello stesso dio Hermes-Thoth, e per questo definita ‘letteratura ermetica’ [→ermetica, letteratura]. Gli →alchimisti antichi, infatti, formatisi nell’ambiente ellenistico dell’Egitto, invocano l’autorità di mitici personaggi che sarebbero vissuti nella più remota antichità della storia millenaria dell’Egitto (come lo stesso Ermete Trismegisto identificato ora col biblico Enoch, ora con gli dei Ptah, Khnum o Thoth) e fanno risalire le loro dottrine a Salomone, Abramo e allo stesso Adamo. Il supporto dottrinale di questa letteratura è una forma di metafisica che si rifà al Neoplatonismo ed al Neopitagorismo e pare che nel ii sec. a.C. abbia esercitato il proprio influsso sui cosiddetti ‘Oracoli caldaici’, dei quali sono pervenuti solo frammenti, che dunque presentano molte analogie con gli scritti ermetici. In questo momento storico, quindi, si sarebbe operata una sintesi tra il patrimonio filosofico greco e la gnosi ermetica. Al di là dell’aspetto strettamente filosofico, mistico e religioso, va riconosciuto agli alchimisti antichi il merito di aver contribuito ad accrescere la conoscenza della chimica su basi empiriche. Le loro ricerche avevano due scopi fondamentali : la trasmutazione dei metalli in oro e la scoperta dell’elisir dell’immortalità. Probabilmente molti dei lavori degli alchimisti erano altamente speculativi o poco esatti, ma essi avevano capito il modo di compiere  





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alchimia

parecchie operazioni chimiche ben definite, quali l’estrazione del mercurio dal cinabro, dell’arsenico dal realgar (solfuro di arsenico), della biacca dal litargirio. Le prime opere effettivamente alchimistiche sono scritte in greco e pseudoepigrafe, cioè falsamente attribuite a personaggi veri o inventati ; le più antiche, non anteriori al i secolo d.C. e non posteriori al ii, vanno sotto il nome del già citato Democrito di Abdera (470-370 a.C.). Successivamente fanno la loro comparsa altri scritti pseudoepigrafi, tra i quali alcuni attribuiti a personaggi quali Ermete, Agatodemone, Iside, Chimete, [9] Cleopatra, Mosè, Maria l’Ebrea. Quest’ultimo personaggio riferisce di una pietra capace di trasformare i metalli in oro e in uno scritto noto come Littera de corona et natura de creatione, parla in chiave simbolico-ermetica, di una femmina che genera sette figli (i sette metalli). Due divengono re (l’oro e l’argento) ; gli altri rimangono servi. Giacché uno di questi si reca dalla madre lamentandosi della sua sorte, ella gli insegna che potrà tuttavia giungere alla perfezione sciogliendosi nelle particelle ultime che lo compongono e ritornando, infine, nel seno della madre. Un simile concetto di disgregazione e rinascita traspare anche dai frammenti a noi giunti degli scritti di Cleopatra, e similmente anche nelle opere di Olimpiodoro e di Zosimo (iii-iv secolo d.C.). Quest’ultimo attribuisce ai metalli non solo la vita, ma addirittura anche un sesso. Il rame e la magnesia, egli riferisce, per loro natura ‘morti’, nel momento in cui vengono mescolati ad altre sostanze, dopo lunga ‘gestazione’, formano un nuovo ‘embrione’ che si sviluppa per dare origine ad un corpo nuovo. Probabilmente questa tendenza a voler attribuire una specie di vita ai metalli, capaci di unirsi e produrre nuovi elementi, è all’origine dell’espressione ‘uovo dei filosofi ’ della quale gli alchimisti si sono spesso serviti per chiamare la fornace (o stufa) dove i metalli si fondono per trasformarsi e che simboleggia il grande vaso della Natura, nel quale avvengono tutti i processi della Grande Opera (mevga e[rgon). Con la conquista musulmana dell’Egitto nel vii secolo, l’a. spostò il suo centro propulsore a Costantinopoli dove, però, decadde in breve tempo riducendosi ad una sterile attività di compilazione di manuali realizzati con parti tratte dalla precedente letteratura, piuttosto che praticata realmente nei laboratorî.  





In questo periodo lo scritto che riveste una certa importanza è la Crysopoea (Fabbricazione dell’oro) di Michele Costantino Psello vissuto a Costantinopoli nella prima metà dell’anno 1000. Oltre che scrittore di argomenti di vario interesse, fu sacerdote, teologo e filosofo. La Crysopoea, composta per il patriarca Xifilino, è un trattatello sotto forma di lettera che sembra aver svolto un ruolo di un certo rilievo nella diffusione delle idee alchimistiche nell’Europa latina al principio del Rinascimento. Incerti, infine, sono i percorsi attraverso i quali l’a. greca, o meglio ellenistica, passò al mondo arabo musulmano (Lindsay 2001, 37-79). 5. Fonti manoscritte. – Le fonti più antiche occidentali sono fondate principalmente su tre manoscritti di epoca relativamente tarda : il Marcianus graecus 299 risalente al x o xi secolo, il Parisinus graecus 2325 risalente al xiii secolo e il Parisinus graecus 2327 del xv secolo. Tutti i testimoni posteriori traggono origine da uno di questi dei quali si è peraltro ipotizzata la derivazione da un’unica fonte bizantina. Questi codici contengono un’antologia di scritti di stili diversi : divagazioni filosofiche, poemi, prose molto tecniche ; si tratta generalmente di estratti di varî autori che coprono un arco di tempo che va circa dal iii secolo d.C. fino all’viii secolo. In tutti troviamo nomi famosi nella storia dell’a. occidentale, i cui testi sono variamente ristrutturati : Democrito, Sinesio, Ostane, Hermes, Olimpiodoro, Cleopatra, Agatodemone, Stefano di Alessandria [→alchimisti antichi]. Tra i testi tramandati dai tre codici, occupano un posto di rilievo le opere di Stefano, già note al mondo islamico, dove egli era conosciuto col nome di Istafan o Adfar. Del resto, non ci è dato sapere cosa l’ignoto redattore bizantino abbia eliminato, né quali criteri abbiano guidato la sua selezione.  







Note. [1] Zos. Alch. 2, 213, 15 ; Suid. d 250, 5 ; Olymp. Alch. 2, 94, 17 ; Steph. Alch. 2, 208, 28. – [2] Lindsay 2001, 40. – [3] Manil. 4, 243 sgg. – [4] Lindsay 2001, 44. – [5] Tac. ann. 16, 14, Lindsay 2001, 45. – [6] M.Ant. 4, 36 sgg. – [7] Vd. Caffaro-Falanda 2004 e Halleux 1981. – [8] Lindsay 2001, 13-14, 25. – [9] Dal nome di costui (Chvme~, Civme~ o Cuvme~) alcuni facevano derivare il nome stesso dell’alchimia.  





Bibliografia. Cassirer 1992 ; Evola 1931 ; Holmyard 1959 ; Lindsay 2001 ; Pereira 2001  







Carmelo Lupini

alchimisti antichi Alchimisti antichi. 1. Generalità. – Gli antichi filosofi greci avevano ben separato scienza e religione, pur mantenendo un certo rapporto tra le due culture. Dopo l’ellenizzazione dell’Egitto, la profonda esperienza filosofica e le teorie scientifiche greche si seppero compenetrare e fondere con l’antica sapienza degli Egizî. Questa fusione, però, manifestò abbastanza presto i suoi limiti : infatti la ‘chimica’ egizia si esprimeva soprattutto nell’arte dell’imbalsamazione dei morti ed era strettamente connessa con i riti religiosi così che la stessa cultura greca, tradizionalmente razionalistica, finì per impregnarsi di misticismo e cristallizzarsi in teoremi fissi e immutabili, ostacolandone in parte il successivo sviluppo. La chmeiva, così strettamente legata alle pratiche religiose, incuteva timore e conseguentemente i suoi adepti, nell’immaginario collettivo e non solo, assunsero col passare del tempo un ruolo di maghi più che di scienziati. Questa condizione fu poi ulteriormente incoraggiata con l’uso di simboli [→alchemici, simboli] e pratiche sempre più misteriose che accrescevano l’alone di mistero che circondava questa pratica ormai considerata dagli alchimisti stessi qeiva tevcnh (arte divina) o iJera; tevcnh (arte sacra). Questo retroterra culturale, infine, portò la chmeiva a mescolarsi con l’astrologia e ad accogliere le suggestioni provenienti dalle antiche religioni misteriche orientali. Così i sette metalli conosciuti diventarono legati agli astri conosciuti : infatti, mentre l’→astrologia cerca di vedere gli eventi macrocosmici come legati e corrispondenti alle vicende umane, l’alchimia tende a far agire, sotto forma di metalli, le immagini terrene delle forze planetarie, e in funzione di questa aspirazione alla purificazione della materia, gli alchimisti antichi credevano di poter purificare anche se stessi mediante una vera e propria ‘alchimia’ dell’anima, un concetto che ebbe molta fortuna presso le dottrine gnostiche. 2. Democrito (Bolo di Mende ?). – La figura di →Democrito è tradizionalmente legata, insieme a quella di Leucippo, alla teoria atomista secondo la quale tutti i corpi, compresi quelli eterei come l’anima, sono costituiti da atomi ed ogni mutamento avviene mediante combinazioni e dissolvenze degli atomi stessi secondo processi puramente meccanici. Opere che vanno sotto il nome di Democrito furono raccolte e classificate dal grammatico ed  





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astrologo →Trasillo. Attualmente ci restano solo documenti molto frammentarî del suo corpus che conteneva trattati sugli argomenti più diversi quali l’etica, le scienze naturali, la matematica, la musica, l’astronomia, la poesia, la linguistica, la medicina, l’agricoltura, l’arte, la mitologia e la storia. Pare che viaggiò molto, scrisse di Babilonia e Meroe, una terra a sud dell’Egitto, e si credeva che avesse raggiunto perfino l’Etiopia e l’India. [1] Diodoro Siculo riferisce che gli Egizî dicevano che Democrito, come anche →Pitagora, aveva passato cinque anni fra loro e venne istruito in diverse materie riguardanti l’astrologia. [2] Plinio, inoltre, ci informa che Pitagora, Empedocle, Democrito e Platone si recarono in Oriente per apprendere la scienza dei magi [3] Dunque è certo che Democrito fu un personaggio avventuroso e dai molteplici interessi [4] al punto tale che venne assunto come figura simbolica dagli alchimisti e lo stesso Plinio era convinto che il filosofo atomista fosse un convinto devoto della loro scienza ; tuttavia non è facile distinguere le informazioni relative al personaggio storico dagli elementi leggendarî, anche perché sotto il nome di Democrito circolarono parecchie opere di Bolo di Mende e di conseguenza i suoi trattati, che spaziavano dall’astrologia all’alchimia, dalla farmacologia all’agricoltura e, come riferisce Columella, sulle simpatie e sulle antipatie, furono falsamente attribuiti a Democrito da eruditi posteriori quali →Varrone, Columella o Cassiano Basso. Sebbene nell’antichità si sia caduti nell’equivoco di confondere Democrito di Abdera con Bolo di Mende, bisogna ammettere che gli interessi di quest’ultimo potevano facilmente trarre in errore gli eruditi di quei tempi; infatti molte delle opere di Bolo di Mende sono dedicate ad argomenti strettamente connessi con la fisica e la natura delle cose, argomenti che potevano essere perfettamente compatibili con gli interessi del filosofo atomista. Questi scritti tramandati col titolo Chiromecta [5] che sembra voglia significare ‘sostanze artificiali’, stando al significato di ceirovkmhto~ in Aristotele (Cael. 287b16, Mete. 381a30). Resta comunque il problema se Bolo o lo stesso Democrito abbiano scritto davvero opere con questo titolo. [6] A Mende Bolo scrisse la sua opera nota come Fusikav, sopravvissuta solo in forma frammentaria nei manoscritti, divisa in quattro parti rispettivamente dedicate alla preparazione dell’oro, dell’argento, delle gemme e della porpora. I procedimenti da  







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alchimisti antichi

lui descritti erano attinti alle fonti più diverse, avvalendosi di raccolte di ricette presso metallurgici, tintori, vetrari e altri artigiani. Il fine era quello di trovare un sistema (coloritura, imprimitura, legatura, etc.) per conferire ad un metallo che non fosse oro le medesime caratteristiche esteriori dell’oro stesso : infatti il colore era per gli alchimisti la più importante caratteristica di un metallo. 3. Ostane. – O. sembra aver avuto un ruolo cruciale nella nascita dell’alchimia nel mondo antico, come elemento di raccordo tra il sapere del Vicino Oriente e quello delle civiltà mediterranee. Diogene Laerzio riferisce che egli fu discepolo di « certi Magi e Caldei » e in quell’ambiente apprese la teologia e l’astronomia. Plinio aggiunge che accompagnò Serse nella sua spedizione contro la Grecia e pare che incontrò Democrito ad Abdera. [7] Questo particolare dato non è del tutto certo, comunque il suo nome è legato a quello di Democrito e pare che lo abbia accompagnato in Egitto dove vennero a contatto con le teorie e le tecniche alchemiche della tradizione egizia. In epoca romana circolavano testi in greco risalenti al ii secolo a.C. attribuiti ai tre magi, Zoroastro, Ostane e Istapse. Da esse, in linea con la tradizione dualistica della cultura filosofico-religiosa iranica, traspare una concezione dell’universo in cui si fronteggiano due forze opposte e uguali e spicca la figura di un Salvatore che deve discendere nel mondo inferiore per svolgere la sua missione. Le opere attribuite ad O. trattano spesso delle piante e delle pietre ; queste ultime erano considerate come ‘viventi’ alla stessa stregua di piante e animali ed erano elementi importanti nella preparazione di filtri e incantesimi. Nonostante sia possibile che dietro il nome di O. vi siano diversi ‘magi’, non v’è motivo per cui un O. non possa essere stato l’autore delle opere attribuitegli. Dal punto di vista metodologico, O. si discosta dalle pratiche egizie di calcificazione [→alchemici processi, 2] o di proiezione, mentre è più vicino alle tecniche persiane di ‘inzuppare’ e quindi ‘riscaldare’, ‘cuocere’, inoltre egli sembra conoscere dei processi particolari che la sua seguace Maria l’Ebrea (vd. infra 6) perfezionò al punto tale da essere capace di conferire fosforescenza alle pietre preziose. [8] Di O. possediamo una lettera inviata ad un tale Petasio (forse un discepolo) circa la fabbricazione dell’‘Acqua divina’ tramite varie operazioni condotte con l’uti 











lizzo di un alambicco di vetro [→Alchemici, strumenti, 3]. Essa sarebbe capace di dare la morte ai viventi, di resuscitare i defunti e di curare le malattie; una piccola goccia sarebbe capace di creare la luce o le tenebre. [9] Altri dati su questo personaggio sono tramandati da un manoscritto arabo che reca il titolo I Dodici Capitoli di Ostane il Filosofo sulla Pietra Filosofale in cui viene riportato accuratamente il racconto sulla sua iniziazione (Lindsay 2001, 143-168). 4. Ermete Trismegisto. – Identificato col dio Thoth, inventore della scrittura e del linguaggio, è noto soprattutto in campo astrologico [→Ermete Trismegisto], tuttavia spicca come figura di grande rilievo anche nel contesto della cultura alchemica essendo considerato padre di ogni sapere fondato sulla ‘rivelazione’. Psello, infatti, in linea con la tradizione, riferisce che E. T. insegnò la scienza prima di Ostane e di Pibecchio e scrisse un’opera che va sotto il nome di Kleida. [10] La Suda asserisce che egli fu lo scopritore dei metalli, in particolare dell’oro, dell’argento e del ferro ; [11] Tertulliano lo ricorda come maestro di coloro che studiano i misteri della Natura, [12] mentre Giamblico, [13] nel tentativo di razionalizzare la figura misteriosa di E. T., scrive che furono gli scienziati antichi a dedicare i risultati delle proprie esperienze a questo personaggio contribuendo, così, ad alimentarne la leggenda. In effetti Hermes-Thoth era davvero l’inventore e il custode della stessa scrittura, strumento che egli ha rivelato all’umanità: attraverso la scrittura la scienza può tramandarsi e per questo i caratteri egizi furono definiti dai Greci iJeroglufika; gravmmata o shvmata «segni sacri incisi» nel tentativo di rendere l’espressione egizia mdw-ntr ovvero ‘parole divine’, ‘parole di dio’. La funzione di Hermes-Thoth come il ‘grande rivelatore’ è forse legata al suo ruolo di dioguaritore destinatario di un gran numero di appelli documentati da una serie di papiri d’età tolemaica scritti in demotico in cui si invocava la sua protezione e rimedî per guarire le malattie. L’attributo che lo qualifica trismevgisto~, ‘tre volte grandissimo’, potrebbe essere stato ispirato da qualche espressione egizia : infatti negli antichi testi geroglifici la triplice ripetizione di un segno era un modo per esprimere il plurale, ma un triplice titolo avrebbe potuto avere valore superlativo ; un’espressione come ‘grande grande grande’ potrebbe essere sta 













alchimisti antichi ta interpretata inizialmente come ‘tre volte grande’ e successivamente ‘tre volte grandissimo’ con ridondanza. I papiri magici del periodo ellenistico e quelli più tardi, infatti, usarono come sinonimi di trismevgisto~ anche gli appellativi, probabilmente originarî, di trismevga~ e trismevgalo~, ma testi ancora più tardi arrivarono perfino a definire Ermete ‘nove volte grandissimo’. [14] Riguardo al dio HermesThoth sono infatti attestate le seguenti forme e in cui il geroglifico ‘grande’, tra), è ripeslitterato ‘ e letto ‘aa (cfr. copto tuto due volte e il tutto significa ‘Thoth due volte grande’. È quindi ipotizzabile che vi sia o* ‘Thoth stata anche una forma * tre volte grande’, quindi ‘Thoth grandissimo / magnifico’ che ha modellato l’espressione greca trismevga~ e la successiva trismevgisto~. La tradizione gnostica accenna più esplicitamente al significato del termine ‘trismegisto’ nel senso di ‘tre volte incarnato’. La credenza in Ermete come rivelatore dei segreti della Natura e dei misteri divini si diffuse ampiamente e durò a lungo ed è quindi più che probabile che qualche personaggio si sia attribuito il suo nome per conferire maggiore autorevolezza al suo lavoro e abbia svolto un ruolo fondamentale nella storia dell’alchimia antica. Sebbene ancora in epoca medievale l’alchimia era detta ‘scienza ermetica’, nessuna opera alchemica greca attribuita a E. T. è giunta fino a noi. Siamo comunque a conoscenza di un’opera nota come L’Opera del Sole di cui possediamo solo alcuni frammenti oltre che varie citazioni da parte di Zosimo, Stefano e autori cristiani. Va ricordato anche il Corpus Hermeticum, collocabile tra il ii e il iii sec. d.C., composto da 14 trattati che vennero diffusi in Europa grazie alla traduzione di Marsilio Ficino negli anni 1463-1464 e la cosiddetta ‘Tavola di smeraldo’ o ‘Tavola smeraldina’ (Tabula smaragdina), un testo sapienziale che secondo la leggenda sarebbe stato ritrovato in Egitto prima dell’era cristiana e redatto dallo stesso E. T. Il testo era inciso su una lastra di smeraldo ed è stato tradotto dall’arabo al latino nel 1250. Esso rappresenta il documento più celebre degli scritti ermetici. E. T. venne identificato con un mitico re che avrebbe regnato per 3226 anni, lasciando più di trentaseimila libri sui misteri della vita e della Natura, il cui numero reale non è ben noto. Probabilmente non si trattava di opere di E. T., bensì di scritti anonimi ispirati al sincreti 

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smo greco-egiziano. La confluenza delle dottrine contenute in questi libri scritti da autori che, secondo Giamblico, usavano firmarsi col nome di Hermes-Thoth, diede il primo impulso alla nascita di quell’unica grande dottrina che, dal nome di Ermete stesso, si chiamò ‘ermetica’ e produsse una vasta letteratura ermetica [→ermetica, letteratura]. Dell’esistenza di E. T. vi sono molte testimonianze che sono giunte sino a noi : ne parlano concretamente Platone, Diodoro Siculo, Tertulliano, Galeno e, appunto, Giamblico. Della gran mole di opere attribuite a E. T., ci rimangono soltanto quattordici brevi testi in lingua greca e una serie di frammenti conservati da autori cristiani. Essi riportano idee mistiche e filosofiche tipiche di quel tempo, in cui prevale, con grande forza, la base di principio della Gnosi, ma il libro più importante di E. T., che è giunto fino noi è il Pimandro (Poivmandro~), un’opera appartenente al Corpus Hermeticum che illustra il cammino iniziatico attraverso il quale il fedele viene condotto alla comprensione del nou`~ ed alla rinascita nella divinità, una visione in linea col principio cardine della dottrina ermetica secondo cui l’uomo deve compiere un percorso iniziatico per liberare dai vincoli terreni la parte divina (l’intelletto) insita in lui e giungere alla salvezza rappresentata dal lovgo~. Delle idee alchemiche di E. T., abbiamo informazioni frammentarie : secondo la testimonianza di Olimpiodoro egli considerava l’uomo come un microcosmo giacché contiene tutto ciò che contiene il macrocosmo anche se sotto aspetti diversi. [15] Egli dunque bramava l’unione dell’anima e della mente con il divino nel concetto di rapporto tra →microcosmo e macrocosmo. Alla base di questa convinzione v’è la teoria delle simpatie-antipatie che fonde aspetti della medicina con l’astrologia ; Ermete, infatti, cerca di individuare delle corrispondenze tra oggetti e considera quest’ultimi come entità dotate di forza vitale, il metallo stesso viene definito zw`/on e[myucon (animale vivente). In base a questo principio Ermete, accanito sostenitore della concezione unitaria del cosmo, si preoccupava di determinare il momento giusto o, per meglio dire, il momento propizio per avviare un esperimento o un determinato processo alchemico. [16] 5. Iside. – Come per il nome di Ermete Trismegisto anche il nome di I. sembra che sia stato assunto col medesimo intento di conferi 









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re autorevolezza e legittimità ai proprî risultati pratici e teorici. I. è infatti una divinità egizia originaria del Delta, è la dea della maternità e della fertilità nella mitologia egizia. In origine era una divinità celeste associata alla regalità (il suo nome st in scrittura geroglifica, infatti, include la parola per ‘trono’) e faceva parte dell’Enneade, un gruppo di nove dei che stanno alla base della cosmogonia egizia. La sua figura, insieme a quella della sorella Nefti, è legata al mito della resurrezione di Osiride in seguito alla sua uccisione da parte del fratello Seth (delitto in seguito vendicato dal Horus, figlio di I. e Osiride) e per questo la divinità venne associata anche all’idea di rinascita oltre che di fertilità. Il suo culto, incoraggiato dal dilagante sincretismo nel mondo ellenistico, finì per diffondersi capillarmente in tutto l’impero romano al punto tale che persino l’arte paleocristiana si è ispirata alla raffigurazione classica di I. nell’atto di tenere in braccio un bambino per rappresentare la figura di Maria. Nonostante l’importanza del nome, I. ha una parte marginale nella letteratura alchemica ; l’unica opera attribuitale è nota come Iside la Profetessa a suo figlio Horus (Lindsay 2001, 203219). 6. Maria l’Ebrea. – Nonostante alcuni punti interrogativi sulla sua vita, M. probabilmente visse non molto dopo Bolo e fu spesso citata da Zosimo e da altri autori. Svolse un ruolo di primo piano nell’ambito dell’alchimia antica e sembra essere stata anche una donna di straordinaria inventività, infatti a lei si deve soprattutto l’invenzione di sofisticate apparecchiature [→alchemici, strumenti] per la distillazione e la sublimazione e quella di alcune tecniche di laboratorio tra cui il balneum Mariae (‘bagnomaria’), [17] un recipiente a doppia parete per il riscaldamento graduale e uniforme di sostanze. Fu una sua invenzione anche l’apparecchiatura per la distillazione, il trivbiko~, costituito da un recipiente in terracotta, un alambicco per raccogliere il vapore condensato, tre beccucci di erogazione in rame e diverse ampolle di ricezione in vetro raffreddate da spugne. Un’importante invenzione di M. fu la khrotakiv~, un’apparecchiatura di riflusso per la sublimazione di sostanze. [18] I suoi esperimenti sulla trasmutazione dei metalli prevedevano che essi venissero esposti a vapori continui di arsenico, mercurio e zolfo fino a che si raggiungeva la liberazione del solfuro  





nero, noto come il ‘nero di Maria’, e ritenuto il primo stadio della trasmutazione. M. descrisse anche la tecnica del bagno di sabbia e del bagno d’olio, come ulteriori metodi di distillazione. Nonostante il ruolo che occupava la donna nella società antica non fosse certo di primaria importanza, M. riuscì ad affermarsi nel campo culturale scientifico con le sue scoperte e invenzioni e grazie a lei l’alchimia nel mondo ellenistico raggiunse il suo culmine (Lindsay 2001, 249-261). 7. Cleopatra. – Alchimista che pare fosse legata alla scuola di Maria l’Ebrea. Di essa possediamo un documento contenente diagrammi e un Dialogo. Lo scritto, che appare più vivace e ‘vissuto’ rispetto ad altri nell’ambito della letteratura alchemica, presenta evidenti tratti d’ispirazione ermetica, ma soprattutto è caratterizzato da una impostazione ‘egiziana’ della materia, basti pensare al classico riferimento all’acqua come sostanza che rivivifica i morti. [19] Gli scritti di Cleopatra contengono molte allusioni simboliche, per esempio i processi di trasformazione/trasmutazione sono accostati all’idea di resurrezione dall’Ade. Tale idea di resurrezione non consiste in un ‘riapparire’ sotto forma di un’altra sostanza in un’altra dimensione, ma è un processo che si realizza già a livello terreno : un processo da un livello di vita inferiore ad uno superiore. [20] 8. Agatodemone. – Con questo nome, che significa ‘spirito buono’, si indicava un’entità benefica e apotropaica nata dall’incontro della cultura greca con quella egizia. Venne considerato protettore dei campi di grano, delle vigne e degli individui. La setta gnostica degli Ofiti vedeva in questa entità la manifestazione del Logos e della Saggezza Divina e nei Misteri Bacchici era rappresentato da un serpente eretto su un palo, ma l’iconografia più comune lo rappresenta come un serpente dotato di gambe umane e, nella religione egizia d’epoca tarda, appare con la testa di Serapide o di Iside. La sua immagine è molto comune negli amuleti e nelle gemme magiche d’epoca gnostica[21] e finì per essere associato anche a Khnubis, divinità dall’aspetto di un serpente leontocefalo con sette o dodici raggi che si dipartono dal capo, che forse è la fusione dello stesso Agatodemone col dio ‘vasaio’ creatore Khnum. Dal punto di vista storico, dietro questo pseudonimo v’è un personaggio autorevole menzionato da Zosimo di Panopoli e da Olimpio 





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doro di Alessandria. Dei suoi lavori scritti in greco restano una Dimostrazione e commentario sull’oracolo di Orfeo [23] e un aforismo, [24] ma Zosimo cita anche un suo Insegnamento sulla pretintura e Olimpiodoro ricorda un suo libro dedicato all’alchimia, entrambi non pervenuti. [25] Materiali attribuiti ad A. si trovano in versioni arabe. [26] 9. Zosimo di Panopoli. – La figura di questo personaggio spicca come una delle poche che abbia una sicura consistenza storica, [27] tuttavia non solo non è nota con certezza l’epoca in cui visse (forse tra iii e iv secolo d.C.), ma anche la sua città d’origine è ancora oggetto di discussione : pare che fosse originario di Tebe o di Panopoli (Akhmin) nella Tebaide, mentre secondo la Suda proverrebbe da Alessandria. La Suda riferisce che egli ha scritto un’opera dal titolo Cheiromekta (come quella di Bolo) dedicata alla sorella Teosebia, anche se non è chiaro se questo personaggio sia davvero la sorella dell’autore o se piuttosto venga definita ‘sorella’ in senso lato caricando il termine di significati simbolici e mistici: infatti l’autore si rivolge a lei come ad una discepola devota, dunque l’impressione che si ha è quella di un rapporto tra allieva e maestro. L’opera, che non è giunta interamente, ma in porzioni, era divisa in 28 libri ognuno dei quali era contrassegnato da una lettera dell’alfabeto : 24 greche e 4 copte. La Suda gli attribuisce anche una Vita di Platone. Tra le opere conosciute figura un lavoro dal nome Chronicon, strutturato in cinque libri, che trattava degli avvenimenti dal momento della creazione al 221 a.C. Un’altra sua opera era conosciuta col titolo di Kestoi (Cinture), della quale si ignora il numero esatto dei libri in cui fu suddivisa. Sono rimasti, infine, tredici frammenti delle sue Memorie autentiche. Oltre agli aspetti teorici, Zosimo, come Maria, era particolarmente interessato agli strumenti al punto che scrisse un trattato Sugli strumenti e le Fornaci dove affrontò il tema del trivbiko~, un tipo di alambicco dotato di tre tubi di scarico Z. fu anche un prolifico commentatore delle opere degli alchimisti che lo hanno preceduto, soprattutto mostra di essere un convinto seguace di Maria della quale descrive nel dettaglio gli strumenti impiegati e della quale si propone di preservare e trasmettere la dottrina e gli insegnamenti. Testi attribuiti a Z. sono noti grazie a testimoni siriaci e arabi. [28]  















Note. [1] Cic. fin. 5, 50 ; Str. 16, 703. – [2] Diod. Sic. 1, 98, 3 sgg. – [3] Plin. nat. 30, 9, 2 sgg. – [4] Lindsay 2001, 106-108. – [5] Plin. nat. 24, 160, 1. – [6] Lindsay 2001, 109. – [7] Diog. Laert 9, 34 ; Plin. nat. 30, 8 sgg. – [8] Bidez – Cumont 1938, ii, 205. – [9] Bidez-Cumont 1938, ii, 334 sgg. – [10] cmag vi, 1928, 44 ; Bidez – Cumont 1938, ii, 309 e ss. – [11] Suid. s.v. Fau`no~. – [12] Tert. adv. Val., 15a. – [13] Iamb. Myst. 8, 1-2. – [14] Vd. Lindsay 2001, 177. – [15] Berthelot-Ruelle 1887, 100. – [16] Cfr. Lindsay 2001, 169-201. – [17] Lindsay 2001, 253. – [18] Lindsay 2001, 255 sgg. – [19] Lindsay 2001, 264-265. – [20] Lindsay 2001, 263-286. – [21] Lindsay 2001, 314-322. – [22] caag 2, 79-80. – [23] caag 2, 268-271. – [24] caag 2, 115. – [25] caag 2, 193. – [26] Hallum 2008a, 43. – [27] Lindsay 2001, 331-363. – [28] Hallum 2008c, 853.  





Bibliografia. Berthelot 1887 ; Bidez-Cumont 1938 ; Gribomont 2008 ; Hallum 2008a ; 2008c ; Lindsay 2001 ; Panaino 2008.  











Carmelo Lupini Alcmeone di Crotone [vi-v sec. a.C.]. 1. Dati biografici. – L’attività di ricerca di A., filosofo e naturalista magnogreco contemporaneo di →Pitagora, si colloca all’interno della scuola pitagorica di Crotone. A. ebbe numerosi discepoli, tra cui →Filolao di Taranto, e applicò tra i primi le teorie naturalistiche alla materia medica. [1] 2. Opere e dottrina. – Nessuno scritto di A. è pervenuto integralmente ; nell’opera Sulla natura, dedicata probabilmente a un gruppo di pitagorici e pervenuta solo in frammenti per tradizione indiretta, A. riprende la dottrina dell’armonia corporale e universale di matrice pitagorica, ne accentua il dualismo e spiega la condizione umana come contrapposizione di opposti, considerando lo stato di salute come la giusta distribuzione di caldo, freddo, umido e secco, e la malattia come il predominio di una di queste condizioni ; [2] nella stessa opera viene esposta la teoria secondo la quale il sonno e la morte deriverebbero da deflussi di sangue dal cervello di diversa entità. Ad A. vengono attribuite la distinzione tra vene e arterie, la scoperta delle trombe di Eustachio e l’individuazione del cervello come sede dell’intelletto ; inoltre, a lui si deve la scoperta dell’esistenza e delle funzioni dei nervi ottici e l’individuazione dei tre fattori fondamentali per la vista in luce esterna, fuoco interno e liquido delle membrane oculari. [3]  









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Note. [1] Vd. Krug 1985. – [2] Frammenti dell’opera di A. in Guthrie 1962-1975, I. – [3] Vd. Lloyd 1991, 8. Per i problemi visivi, vd. Aet. plac. 4, 13, 12 e Thphr. Sens. 25. Bibliografia. Guthrie 1962-1975 ; Krug 1990 ; Lloyd 1991.  



Livia Radici Alessandro di Tralle. Medico greco vissuto al tempo dell’imperatore Giustiniano (527-565). Era il più giovane dei cinque figli del medico Stefano : il più anziano tra loro, Antemio, fu l’architetto che progettò la chiesa di S. Sofia a Costantinopoli. Prima di stabilirsi a Roma per lavorare come medico e insegnante di medicina, A. viaggiò attraverso l’Italia, l’Africa, la Gallia e la Spagna, probabilmente come medico militare al seguito delle truppe di Giustiniano, ed anche attraverso l’intera area dell’Egeo. Può essere considerato il primo medico indipendente dai tempi di Galeno, in quanto utilizzò le teorie dei suoi predecessori solo quando concordavano con le sue personali esperienze : arrivò persino a rifiutare alcune teorie di Galeno. In campo medico A. era un eclettico : nella patologia e nella fisiologia aderì soprattutto a Galeno, senza però tralasciare le teorie dei Metodici e degli Pneumatici. A differenza di Galeno, era innanzitutto un pratico e dunque ebbe un particolare interesse per la terapia. Il suo capolavoro è una grande miscellanea medica (qerapeutikav) in dodici libri, che sono suddivisi secondo le malattie e le terapie (dalla testa ai piedi), ma che non trattano di chirurgia e di ginecologia. L’opera, redatta solo in tarda età, quando ormai A. non era più in grado di sopportare le fatiche della professione medica (1, 289), cataloga farmaci ritenuti miracolosi dalla tradizione popolare e amuleti sull’esempio del suo predecessore Archigene, più volte citato (2, 318 ; 474), in una visione d’insieme che unisce elementi pagani, cristiani e giudaici. Le sue cure erano tradizionali e davano risalto alla dieta e all’attività sportiva, piuttosto che ai medicinali e alla chirurgia. Sulla base della sua esperienza, tuttavia, egli era consapevole che il lavoro del medico dipendeva dalla collaborazione del paziente, anche quando i rimedi prescritti risultavano scarsamente efficaci. A. predilesse un lessico semplice per comunicare più facilmente con il malato e, attenendosi a Galeno, indicò delle re 







gole dettagliate per la sistemazione della stanza dei pazienti e per la visita medica. L’ultimo libro ha nei codici il titolo peri; puretw`n e contiene la dedica a Cosma, figlio del maestro di A., che è lo stesso redattore della cristianikh; topografiva. Successivamente A. scrisse un’opera in tre libri sulle malattie degli occhi (2, 3) e un’altra su quelle dovute alla presenza di vermi. Le sue opere furono tradotte in latino e ne sono stati rinvenuti alcuni frammenti anche in arabo. Ad A. è stato attribuito anche il De urinis, un trattato sul battito del polso e sull’urina ascritto in alcune versioni latine anche a Galeno ; nell’alto Medioevo esso fu tradotto due volte e costituisce un’importante fonte per la conoscenza delle teorie sull’uroscopia nell’Europa medioevale.  

Bibliografia. Anastassiou-Irmer 2006 ; Baltar Veloso 1975 ; Brunet 1933 ; Duffy 1984 ; Fischer 2006 ; Garzya 2006 ; Guardasole 2004a ; Guardasole 2004b ; Kudlien 1964a ; Kudlien 1970 ; Leisinger 1925 ; Löfstedt 2002 ; Martindale 1992 ; Nutton 1984 ; Nutton 1996g ; Ongaro 1964-1965 ; Ongaro 1966a ; Ongaro 1966b ; Scarborough 1985a ; Sezgin 1970, 162 ; Stoffregen 1977 ; Ullmann 1970, 85-86 ; Vallejo Girvés 2002 ; Wellmann 1894a ; Zipser 2005.  















































Francesco Ragni Algebra. 1. Generalità. – Il termine ‘algebra’ ha origine araba, e precisamente deriva dallo scritto di Mohammed ibn Musa Al-Khuwarizmi (ix sec.) Al-giabr wa-l-muqabala, che letteralmente significa ‘trasporto’, ‘connessione’, ‘completamento’, alludendo alle operazioni effettuate nelle equazioni algebriche (eguaglianza verificata per alcuni valori, dette radici, da sostituire alle incognite) per portare un termine da un membro all’altro. L’opera di Al-Khuwarizmi, infatti, verte attorno alla risoluzione di equazioni di primo e secondo grado (ovvero equazioni nelle quali i termini incogniti sono al primo o al secondo grado). Proprio in relazione a questi argomenti si intende l’algebra cosiddetta ‘elementare’, che è l’estensione dell’→aritmetica a variabili (oggetti simbolici denotati mediante lettere), sulle quali si applicano le operazioni aritmetiche di addizione, sottrazione, moltiplicazione e divisione, per poi passare allo studio di oggetti più complessi come equazioni e polinomi dei quali trovare le radici (ovvero le soluzioni). Solo dopo il sec. XIX a questa branca della matematica è stata accostata l’algebra ‘astratta’,

algebra in seguito alla scoperta di oggetti matematici quali vettori, matrici, funzioni di vario genere. La successiva assiomatizzazione (→assiomatica) ha fatto sì che divenisse centrale il punto di vista per cui ciò che ha davvero rilevanza non sono gli oggetti matematici in sé (appunto →numeri, vettori, matrici etc.) quanto piuttosto le loro relazioni, tanto che si è di fatto attuato un processo di algebrizzazione di tutta la matematica. Questi passaggi, qui così repentinamente sintetizzati, unitamente alla questione dell’algebra come scienza prevalentemente ‘araba’, potrebbero insinuare un dubbio preventivo nel parlare di algebra in riferimento al periodo antico : tale dubbio è senz’altro lecito, in quanto è norma abituale alludere pressoché al solo →Diofanto come algebrista di tradizione greca. Questa semplice osservazione rende chiaro perché ci sia la consuetudine di distinguere vari tipi di ‘algebra’ per gli antichi, in modo da uscire dalla prospettiva troppo angusta (e ben poco eloquente per l’antichità) dell’‘algebra simbolica’ (dove tutto, variabili e segni di operazione e relazione, sono simboli), tanto che si parla anche di una ‘algebra retorica’ (quando la dimensione algebrica viene espressa mediante parole e il problema non è simbolizzato ma semplicemente spiegato) e di una ‘algebra sincopata’ (quando in maniera parziale vengono introdotte delle abbreviazioni per le grandezze e le operazioni più frequenti). L’‘algebra simbolica’ diviene così specificamente quella sviluppata negli ultimi cinquecento anni di storia, a partire da quando si ebbe ben chiaro il funzionamento di un sistema numerico posizionale con cui effettuare operazioni in maniera agile e si poté disporre di una simbologia per operazioni e relazioni tra quantità che fosse semplice da usare anche per fini non matematici (ad esempio commerciali). In ogni caso risulta problematica la collocazione di un’algebra nel panorama della matematica antica : non a caso a lungo gli studiosi hanno preferito parlare di un’‘algebra geometrica’ (su cui vd. più avanti), mettendo in atto un’operazione di reinterpretazione in chiave algebrica di tutta una serie di trattazioni geometriche. Se quest’uso interpretativo è stato ormai messo in discussione, resta invece non discussa l’estrema difficoltà nel redigere un resoconto informato e convincente circa l’a. greca : se ciò dipenda dall’effettiva mancan 





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za di fonti o dalla persistenza di paradigmi interpretativi standardizzati non sembra questa la sede per discuterne. 2. Matematica greca e tentativi pre-algebrici. – Quando si parla di matematica greca e, dunque, anche di a., non si può prescindere dalla domanda su cosa ci fosse prima della Grecia. Pur essendo un ambito di studio ancora in profonda evoluzione, sono stati analizzati i contenuti algebrici relativi non soltanto alle civiltà egizia e mesopotamica, ma anche a quelle indiana, cinese e araba (Hoyrup 2002 ; Maracchia 2005b). Le connessioni con il mondo greco sono ugualmente oggetto di studio e analisi, e non è certo questo il luogo per addentrarsi in tale questione : ci limitiamo a segnalare che l’a. delle antiche civiltà tratta la risoluzione di problemi comparabili ad equazioni di grado dal primo al quarto, ma riducibili ai primi due. La premessa a tali metodi è la capacità di comprendere l’importanza di stabilire l’uguaglianza tra quantità che contengono valori non noti. In altre parole, senza il concetto di uguaglianza (anche se il segno ‘=’ è ben più tardo, della metà del Cinquecento, cfr. Maracchia 2005b, 176) l’algebra non sarebbe mai nata. Per quanto riguarda il mondo greco, prima di Diofanto non esiste di fatto un’a. dotata di una sua specificità. È possibile, però, rintracciare in vari luoghi una certa sensibilità algebrica. Il più antico elemento algebrico greco sembra risalire al pitagorico Timarida (v-iv sec. a.C., secondo l’opinione più diffusa tra gli studiosi), ideatore del cosiddetto ‘fiore’ (ejpavnqhma, Iambl. In Nic. Arithm. 62, 19), ovvero un insieme di equazioni di primo grado (oggi diremmo ‘sistema di risoluzione per equazioni lineari’) dove, data una incognita x, si pretende di determinarne il valore conoscendo la somma con altre quantità note. [1] Contenuti algebrici sono anche contenuti nel papiro greco n. 620 della collezione Michigan (i-ii sec. d.C., ed. Winter 1936). Si tratta ancora di problemi riconducibili a sistemi di equazioni lineari, espressi nel linguaggio dell’a. ‘retorica’. Il più complesso è il seguente, che sebbene mutilato consente di risalire alla formulazione completa del problema : « […] di nuovo moltiplica le 150 dracme (?) con i 30 numeri delle quattro parti ; questo fa 4500 ; più le 600 assegnate a lui e fa 5100 ; questo è il quarto termine. Allora somma i quattro valori [ottenuti] 1050 e 2550 e 5100 e fa 9900. La prova :  















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poiché [il testo del problema] dice : Il secondo superi il primo per 1/7 prendi 1/7 della prima parte 1050 e fa 150, aggiungilo al 1050 e fa 1200, che è la seconda parte. Di nuovo, poiché dice : il terzo termine supera i due [precedenti] di 300 dracme, somma il primo con il secondo e fa 2250 e aggiungi le 300 dracme di eccesso e fa 2550, che è la terza parte. E poiché dice : il quarto superi i tre [precedenti] di 300 dracme somma questi precedenti e fa 4800 e aggiungi le 300 dracme e fa 5100, che è la quarta parte. La somma è in tutto 9900 » (trad. Maracchia). La soluzione si ottiene assumendo come incognita il settimo della prima parte e si ottengono i risultati indicati nel testo. [2] Almeno un cenno va fatto alla cosiddetta ‘algebra geometrica’, relativa ai molti contenuti di geometria riconducibili con facilità a situazioni algebriche (→geometria, 5). In particolare si pensi ai libri ii e vi degli Elementi di Euclide. Questa serie di problemi è stata trattata negli ultimi decenni con una maggiore cautela, soprattutto dopo le posizioni espresse da Unguru 1975 : lo studioso sostiene che non si può dire che ci fosse uno spirito algebrico in base ai documenti posseduti, dove figurano di fatto risoluzioni schiettamente geometriche. Senza addentrarsi nei dettagli della questione si deve almeno dire che effettivamente non è Euclide l’autore a cui guardare come committente di una metodologia algebrica e magari anche simbolica per affrontare problemi geometrici che, per natura e risoluzione, rimangono tali. È stato piuttosto →Archimede a impostare un sofisticato problema che non è possibile risolvere se non con strumenti di tipo algebrico : si tratta del problema bovinum, quarantaquattro versi in distici elegiaci che il matematico avrebbe indirizzato a →Eratostene, un memorabile esempio di sfida matematica eseguito in un sofisticato codice narrativo. Il testo (ed. Mugler 1970-1972, iii, 169-171 ; trad. Frajese) è il seguente : « Amico, se partecipi della sapienza, calcola, usando diligenza, qual era il numero dei buoi del Sole che pascolavano nelle pianure della sicula Trinacria, divisi in quattro gruppi di colori diversi : l’uno bianco come il latte, il secondo di color nero lucente, il terzo fulvo e il quarto screziato. In ciascun gruppo c’erano tori in quantità, divisi secondo la seguente proporzione : immagina, o amico, che i [tori] bianchi fossero in numero uguale ad una metà più un terzo dei neri, più tutti i fulvi ; e che i  























[tori] neri fossero in numeri uguale alla quarta parte più un quinto degli screziati, più tutti i fulvi. Considera inoltre che i restanti [tori] screziati fossero in numero uguale alla sesta parte più un settimo dei tori bianchi più tutti i fulvi. Per le vacche valga questo : le bianche erano in numero uguale alla terza parte più la quarta di tutti i bovini neri, le [vacche] nere erano in numero uguale alla quarta parte più la quinta di tutti i bovini screziati, le [vacche] screziate erano in numero uguale alla quinta parte più la sesta di tutti i bovini fulvi, e le [vacche] fulve erano in numero uguale alla metà della terza parte più un settimo di tutti i bovini bianchi. Amico, se tu dirai veramente quanti erano i buoi del Sole, quale era il numero dei ben pasciuti tori e quante erano le vacche di ciascun colore, nessuno dirà che sei ignorante o inesperto nei numeri : tuttavia non sarai ancora annoverato tra i sapienti. Ma ora osserva come tutti i buoi del Sole erano situati. I tori bianchi, se mescolavano la loro quantità con i neri, formavano un gruppo avente lunghezza della stessa misura della larghezza, e tale da occupare tutte le pianure della Trinacria. Inoltre i [tori] fulvi, insieme con gli screziati, formavano una figura triangolare, a prescindere dalla presenza di tori di altro colore. Se tu troverai queste cose e se in modo comprensibile indicherai tutte le misure, va orgoglioso come colui che ha riportato la vittoria, e sarai giudicato del tutto provetto nella scienza ». Si intuisce facilmente il gran numero di incognite e di relazioni numeriche irrisolte che il testo propone senza fornire alcuna soluzione, anche se una soluzione parziale viene fornita in uno scolio al problema (ed. Mugler 1970-1972, iii, 171-173), [3] ma cosa ci fosse a monte di questo testo ci sfugge. [4] Il matematico siracusano, in ogni caso, fu coinvolto anche nella risoluzione del ‘problema complementare’, consistente nell’individuare due segmenti sferici di rapporto assegnato entro una sfera divisa mediante un piano (Sph.Cyl. 2, 4, ed. Mugler, 1970-1972, I) : si tratta, algebricamente, di determinare la soluzione di un’equazione di terzo grado. Equazioni di questo genere sarebbero state utilizzabili, d’altra parte, anche nei problemi speciali di duplicazione del cubo e trisezione dell’angolo (→geometria, 5), problemi che rendevano necessario svincolarsi dalla classica risoluzione ‘per riga e compasso’ (e dunque per equazioni di primo e secondo grado corri 







algebra spondenti alla geometria di riga e compasso). Altri esempi di procedimenti algebrici sottaciuti si trovano sovente in →Erone, il quale somma superfici e linee con una certa disinvoltura, creando soluzioni numeriche in cui l’incognita si dà priva di dimensioni e in gradi diversi (cfr. Maracchia 2005b, 116-122). 3. Diofanto. – Ma si deve sicuramente a Diofanto l’avvio e il tentativo, di fatto rimasto un unicum nella letteratura matematica greca conosciuta, di costituire un’algebra, sebbene ‘sincopata’. Sulla possibile dipendenza dell’opera diofantea dalle precedenti è tuttora impossibile arrivare a conclusioni certe. Una possibilità è che in essa fosse attuato il tentativo di stilare un compendio di problemi di tipo algebrico, così come Euclide aveva fatto per la geometria. Nella sua Arithmetica, di cui sono noti solo dieci dei tredici libri, e tra i dieci quattro sono di provenienza araba (cfr. Rashed 1974 ; Rashed 1975), Diofanto sottoscrive una lettera dedicatoria nella quale, oltre ad elencare i contenuti che affronterà nel testo, introduce una simbologia almeno affine a quella del papiro di Michigan. Considerando la notazione greca dei numeri (1, 2, 3, … = a, b, g, …) e che l’unità, ° (monav~) si dà il la monade era indicata con M breve prospetto :  



x x2 x3 x4 … 1//É2 1/É3 1/Éx2 -

~ (ajriqmov~) DÁ (D = duvnami~) KÁ (K = kuvbo~) DÁÁ bc gc DÁc ↑

Con questi accorgimenti simbolici,[5] che hanno avuto l’immenso pregio di agevolare la via dell’a. pur non essendo adottati nei secoli successivi, Diofanto rendeva possibile la scrittura di potenze di grado superiore al terzo e di scritture più estese corrispondenti a vere e proprie espressioni : ad esempio 2x6-4 poteva ° d. Se anziché una essere scritto come KKYb↑ M differenza si fosse avuta una somma i numeri ° d (= 4) sarebbero stati semKKYb (=2x6) e M ° d). È importante plicemente accostati (KKYbM la notazione relativa a vere e proprie operazioni, come quella per ottenere l’inverso del numero (ovvero il numero a denominatore).  

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Per quanto riguarda l’approccio a equazioni algebriche lineari e di grado superiore fino al terzo (determinate e indeterminate), troviamo in Diofanto diversi problemi con relative soluzioni. [6] Il numero di problemi affrontati da Diofanto nell’Arithmetica è davvero cospicuo (cfr. Heath 1910). Rispetto alle equazioni di secondo grado è celebre la proposizione : « Trovare due numeri tali che la loro somma e il loro prodotto siano uguali a numeri assegnati » (Arith. 6, 1, 27 ; cfr. Maracchia 2008, 123-125), che è un semplice sistema tra x + y = s e xy = p, dove la soluzione si può ricondurre mediante l’equazione di secondo grado x2 – sx + p = 0. Diofanto usa casi numerici per trovare la giusta soluzione, e lo fa diffusamente in tutta l’Arithmetica. Questo fino a presentare problemi con equazioni di terzo grado, come ad esempio in Arith. 6, 17 : « Trovare un triangolo rettangolo tale che il numero della sua area aumentato del numero dell’ipotenusa, formi un quadrato e che il numero del suo perimetro sia un cubo » (cfr. Maracchia 2008, 200-203). Formalmente, indicando con b, h, i rispettivamente i cateti e l’ipotenusa del triangolo, si ha un sistema di equazioni hb/2+1 = n2 e b + h + i = m3. Senza esaminare il problema con approccio geometrico, Diofanto percorre la via algebrica passando per riduzioni e sostituzioni (cfr. Maracchia 2005b, 200-209). È molto interessante l’introduzione della semplificazione di termini simili. 4. L’algebra tra logistica e aritmetica. – Il fatto che il testo di Diofanto si intitoli Arithmetica e venga denotato come fonte primaria dell’a. greca non può non sollevare una certa problematicità, accennata già nell’introduzione e sulla quale si svolgeranno ora brevi considerazioni. La concomitanza nella matematica greca di una vocazione astratta ed una vocazione pratica lascia comprendere bene la propensione a distinguere una logistica come teoria del calcolo da una aritmetica come teoria dei numeri. Tale distinzione è posta in termini quanto mai chiari da Platone. In R. 7, 525a-530e il filosofo sembra differenziare una ‘scienza del calcolo’ da una ‘aritmetica’, entrambe inerenti il numero : praticando la prima si colgono l’opposizione tra unità e molteplicità e le relazioni tra i numeri che stanno alla base delle operazioni ; da qui si perviene all’aritmetica, rivolta allo studio dei numeri in quanto tali, nella loro veste ideale. Ma la distinzione non è sempre così  

















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netta. Come notava Klein 1968, 20-21, in Platone ‘contare’ e ‘calcolare’ sembrano ricorrere sovente insieme (R. 7, 522c-e, 525a ; Phdr. 274c ; Lg. 7, 817e). Viene allora in aiuto un celebre passo del Filebo dove si distinguono due aritmetiche : quella ‘dei più’ e quella ‘dei filosofi ’, dove la prima consente di contare oggetti qualsiasi, mentre la seconda tenta di astrarre dagli oggetti stessi (56d-e ; cfr. anche Tht. 195d-196b). « Theoretical logistic would have to include primarily knowledge concerning all those relation, i.e., ratios (lovgo~) among ‘pure’ units, on which the success of any calculation depends, while knowledge of these ‘pure’ numbers themselves would be reserve for theoretical arithmetic » (Klein 1968, 24). Spingendo oltre le considerazioni di Klein, si può ottenere che la logistica è di fatto scienza del calcolo (dunque di relazione) tra oggetti contabili il cui scopo principale sia il successo del calcolo stesso ; l’aritmetica, d’altra parte, studia i numeri puri in se stessi (e dunque la capacità di relazionarsi tra loro). In qualche modo sia logistica che aritmetica hanno un volto pratico ed uno teoretico. La questione sembra rimandare direttamente alla distinzione tra →numeri ideali e numeri aritmetici, sebbene quest’ultima raffini ulteriormente la rilevanza dell’aritmetica teoretica come disciplina matematica utile al filosofo per la contemplazione delle pure forme. È comunque importante insistere in questa sede sulla comunanza che si evince tra logistica ed aritmetica, basata proprio sulla comprensione da esse attuata delle relazioni tra gli enti (siano essi concreti o ideali) studiati : considerando lo sfondo filosofico greco questa comprensione era collegata alla comprensione della dimensione ontologica del ‘numero’. [7] È in questo terreno di sfondo che si innesta l’algebra di Diofanto, divenuta capace di rappresentarsi mediante simboli quantità, proprio perché la distinzione tra quantità pensate e quantità concrete era stata fatta. Ma sarebbe interessante approfondire la specificità che in questo senso può essere stata data all’approccio di Diofanto da una determinata concezione di ‘numero’, quanto su di essa abbia contato la tradizione pitagoricoplatonica o aristotelica : uno sforzo significativo è stato svolto in Klein 1968, ma resterebbe ancora molto da esplorare. [8]  

può ricorrere alla moderna simbologia e sintetizzare in questo modo :  

















Note. [1] Per visualizzare in maniera più immediata il contenuto matematico del problema si

Ponendo a = x + x1 + ... + xn si individua la solua + a + ... + an − a zione : x = 1 2 . – [2] Anche in n −1 questo caso è possibile dare una visualizzazione più immediata del problema assumendo A, B, C, D come le parti nelle quali la somma è divisa ed ottenendo così il sistema  

{

B = (1 + 1/7)A C = A + B + 300 D = A + B +C + 300 A + B + C + D = 9900

Ponendo come incognita x = A/7 si ottengono facilmente le equivalenze A = 7x, B = 8x, C = 15x + 300, D = 30x + 600 e x = 150. – [3] Il problema di fatto è traducibile in un sistema di nove equazioni in otto incognite, la cui risoluzione è riconducibile a quella della cosiddetta equazione di Pell-Eulero : x2 + Ny2 = 1, con N numero intero non quadrato perfetto. Non è questa la sede per discutere la suddetta riduzione : è interessante però notare quanto profonda e prolifica fosse la dimensione algebrica del problema. Soprattutto verso la fine del xix secolo il problema dovette attrarre diversi studiosi di prestigio (in particolare Heiberg 1879, 66-69 ; cfr. Mugler 1970-1972, III, 168), che aiutarono a cogliere la complessità anche sotto il profilo matematico. Per una recente riflessione sui contenuti prettamente algebrici e sulla risoluzione del problema cfr. Bartocci-Vipera 2004 ; cfr. anche Maracchia 2005b, 113-116. – [4] Circa l’attendibilità dell’attribuzione ad Archimede del problema dei buoi cfr. Mugler 1970-1972, III, 167, ma più estesamente Loria 1914, 932-935. – [5] Prima di Diofanto i matematici utilizzavano le lettere maiuscole per indicare enti geometrici e per questo furono imitati da Aristotele che introdusse le variabili terministiche in ambito logico (cfr. Barnes 2006, 286-290). Anche nel papiro Michigan, si è accennato, c’è un lieve ricorso alla simbologia : ad esempio ~ indica sempre l’incognita. Sarebbe interessante, pur essendo un problema aperto, comprendere gli sviluppi del simbolismo nel periodo intermedio (iv a.C. – ii d.C.), sebbene le fonti non aiutino in questa direzione. Per quanto riguarda  









alimentazione in grecia gli aspetti ontologici occorre comprendere l’algebra’ di Diofanto in connessione allo spirito greco : in altre parole, si tratta di chiedersi cosa volessero o potessero fare i matematici greci nel ricorrere ad una qualsiasi simbologia e cosa vedessero e intendessero dietro un simbolo. Innanzitutto occorre ribadire l’affinità metodologica tra l’Arithmetica di Diofanto e i libri aritmetici di Euclide, come se il primo fosse un copioso approfondimento teoretico del secondo, del quale però riprende termini ed espressioni (provtasi~, ajpovdeixi~, lh'mma, …). – [6] Non è un caso che a Diofanto si ispiri il nome di una classe di equazioni ad una o più incognite con coefficienti interi, dette ‘diofantee’ o ‘diofantine’ e così pure il nome della cosiddetta ‘analisi diofantea’ ad indicare i problemi che, in relazione a tali equazioni, si cercano di risolvere (esistenza delle soluzioni, se le soluzioni sono determinate o indeterminate, se è possibile calcolarle). Va menzionato il grande successo che l’opera di Diofanto ebbe nelle mani di Pierre de Fermat (1601-1665). Proprio per generalizzare un problema affrontato di Diofanto relativo alla possibilità di dividere un quadrato in due quadrati (2, 8), Fermat elaborerà il famoso ‘ultimo teorema’ : ‘non esistono soluzioni intere positive dell’equazione an+bn=cn, con n>2. – [7] In realtà proprio il recente passaggio dall’a. elementare all’a. astratta mostra una possibilità estremamente più significativa e valevole per consentire una comprensione più seria di quella che poteva essere la posizione di una scienza algebrica all’interno del quadro filosofico (→filosofia) e matematico del mondo antico. Poichè la teoria dei numeri (aritmetica) è parte dell’algebra, diviene anche chiaro quanto potesse incidere, sulla possibilità di costituire una scienza come l’algebra, la capacità di comprendere il ‘numero’ in relazione ad altri enti matematici quali le grandezze ed in relazione agli oggetti concreti che i numeri andavano a rappresentare durante l’operazione di conteggio. – [8] D’altra parte è soprattutto la stessa simbologia adoperata da Diofanto a interrogare : espressioni in cui ricorre il simbolo ° , accompagnato da un prefisso per la ‘monade’ M indicante il numero di unità, rivelano la concezione del numero come ‘un numero determinato di determinate cose’, che può dunque essere anche il ‘numero di una qualche unità di misura’ e dunque non una monade astratta e pura quasi intoccabile. Sebbene Diofanto riprenda l’esigenza di rappresentare il numero mediante una forma, alla maniera neoplatonica, dunque capace di costituire ‘classi’ di numeri, la possibilità di una simbologia che dagli interi passerà a rappresentare anche i numeri frazionari risiede nell’eredità del concetto di numero di tradizione peripatetica. In qualche modo questo fa sì che le strade percorse da Dio 





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fanto siano orientate a rintracciare le relazioni tra numeri e radici più che a generalizzare le soluzioni di equazioni. Questo secondo approccio, d’altra parte, sarà più tipico della via algebrica avviata in età moderna dal Fibonacci (Leonardo da Pisa, 1170-1250) e François Viète (1540-1603) in poi. Bibliografia. Barnes 2006 ; Bartocci-Vipera 2004 ; Basti 2002 ; Cattanei 1996 ; Dijksterhuis 1987 ; Frajese-Maccioni 1970 ; Frajese 1974 ; Heath 1910 ; Heath 2002 ; Heiberg 1879 ; Hoyrup 2002 ; Klein 1968 ; Loria 1914 ; Maracchia 2005b ; Maracchia 2008 ; Marcacci 2009 ; Mugler 19701972 ; Pritchard 1995 ; Rashed 1974 ; Romano 2006 ; Toth 1998 ; Unguru 1975 ; Winter 1936.  











































Flavia Marcacci Alimentazione in Grecia. 1. Dal xiv al vii sec. a.C. – Sulla alimentazione greca abbiamo molte notizie, a cominciare dai poemi omerici : in tal modo conosciamo quanto e cosa si mangiasse sotto le mura di Ilion, riunioni conviviali che si svolgevano attorno ai fuochi quando i guerrieri seduti per terra consumavano pasti da loro stessi preparati (Il. 9,202,209). Ci sono poi le testimonianze di scrittori vissuti molti secoli dopo. Chiaramente non sempre essi sono molto attendibili. Così nei Deipnosofisti di Ateneo (1,11 c sgg.) Filemone, un glossografo del iii-ii sec. a.C., racconta che gli eroi facevano quattro pasti al giorno. Appena svegli consumavano un akratisma, ossia una prima colazione molto semplice composta da un pezzo di pane bagnato in una coppa di vino puro : il loro caffé e latte insomma. Poi a mezza giornata c’era uno spuntino, l’ariston, e in seguito si continuava con l’esperisma, forse una merenda. Infine si chiudeva con il deipnon, ossia la cena vera e propria. Ora è probabile che queste fossero le abitudini alimentari di Filemone e dei suoi contemporanei, ma non potevano certo essere quelle dei guerrieri del 1300 a.C. Infatti se effettivamente gli eroi omerici avessero consumato tali e tanti pasti, non si capirebbe dove poi avrebbero potuto anche trovare il tempo e la forza di combattere. Anche altrove nei Deipnosofisti si continua a largheggiare in pasti e spuntini e Ateneo concorda con i precedenti autori scrivendo che per prima cosa gli eroi omerici rompevano il digiuno con l’akratisma, poi c’era il deipnon, che secondo lui era anche detto ariston, un veloce spuntino di metà giornata. Veniva poi il pranzo serotino che si chiamava dorpon e quindi la cena  



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alimentazione in grecia

ad ora tarda, chiamata epidorpis. Ovviamente lasciando adesso da parte tutti i commentatori e fruitori dell’Iliade e appoggiandoci solo a quanto è scritto nel poema omerico, troviamo che di prima mattina i guerrieri consumavano un ariston che Omero però chiama embroma e, in seguito, a metà giornata, veniva loro offerto un deipnon. Infine alla sera c’era il dorpon, la cena. Per alcuni però esiste un altro dubbio, ossia si pensa che con embroma, deipnon ed ariston Omero designasse sempre la medesima cosa, ossia la prima colazione, e che poi ci fosse la cena della sera. Questo porterebbe i pasti a due, il che sembra una dieta più adatta a chi per il resto della giornata doveva darsi molto da fare per condurre una guerra accanita e sanguinosa. Due pasti, due semplici pasti che gli eroi si preparavano personalmente e che, seduti con i loro amici attorno al fuoco, consumavano senza neanche lavarsi le mani (Ath. 17f-18b). La mattina si passavano attorno grandi ceste di pane e la sera si distribuiva la rossa carne di manzo, cotta al sangue sulle braci dei fuochi accesi in tutto l’accampamento. C’era anche il vino naturalmente, e forse se ne beveva anche molto : un robusto vino rosso anzi quasi nero, spesso, forte e corposo. L’unico vegetale che compare nell’Iliade è una cipolla (Il. 11,630)  

che, con una coppa di corposo vino Pramneo rinforzato da un’aggiunta di farina e formaggio grattato, Nestore offre al medico Macaone ferito ad una spalla. Ma questo lì non era un alimento : scherzando diciamo piuttosto che era una trasfusione di sangue ante litteram. Nei pasti normali, dunque, niente vegetali e niente formaggio. Queste poi non sono le sole cose che non compaiono sulle eroiche mense : in esse infatti non c’è traccia di pesce. Eppure le navi della flotta Achea stanno lì, arenate lungo la lunga spiaggia asiatica su cui si infrangono le onde di un mare, l’Ellesponto, che lo stesso Omero ci descrive come molto pescoso (Il. 9,360 ; Ath. 9d-e), ma sulla mensa degli eroi non figurava pesce. Se vogliamo verificare quanto ci sia di vero in quel che leggiamo nell’Iliade, esaminiamo attentamente le residenze di questi grandi re del passato (Fig. 1) : la drammatica reggia di Micene, quella di Nestore a Pilo, o anche quella di Tirinto e persino quella antichissima di Knosso (Fig. 2). In ognuna di esse troviamo un megaron, il luogo dove il re stava con la sua corte, governava il paese e amministrava la giustizia. Si tratta praticamente del salone più importante di queste regge, un ambiente porticato con la parte centrale scoperta. Su una delle pareti, quella principale, si appog 







Resti del Megaron di Micene

Megaron di Tirinto Megaron di Pilo

Fig. 1.

alimentazione in grecia giava il trono del re – un sedile di pietra – il che vuol dire che gli altri si sarebbero seduti su panche di legno come quelle di pietra che circondavano tutto il perimetro del megaron di Knosso (Fig. 2). Ad una certa ora, cessato il lavoro giornaliero, si sarebbe lì preparata la cena e, per far questo, al centro di ognuno di questi megaron c’era il focolare : un focolare basso, alto circa una ventina di centimetri sul suolo, ma grandissimo : infatti questi barbecues ante litteram occupavano quasi tutta l’area della parte scoperta. Non sembrano davvero adatti  



Fig. 2. Megaron di Knosso.

a friggerci una sogliola o a crearci qualche raffinata salsa : è chiaro che fossero così fatti per arrostirci sopra grossi quarti di manzo e basta. Quindi dobbiamo accettare quello che l’Iliade ci racconta. Comunque il pesce esisteva: e come! Tutta la popolazione costiera campava di quello e lo faceva fin dai tempi più antichi. In uno degli affreschi di Santorino, città posta sull’isola chiamata Thera che nel 1700 a.C. fu distrutta da una spaventosa eruzione, vediamo l’affresco (oggi al Museo di Atene), con il dio pescatore che torna dal mare stringendo nelle sue mani il bottino della giornata : due mazzi di lampughe ; non era certamente per sport che era andato a catturarle (Fig. 3) : quei pesci da lui pescati sarebbero poi stati cotti e mangiati. Pesci troviamo poi sempre sulla ceramica minoica e micenea : grossi polpi che abbracciano con i loro tentacoli le brocche mentre attorno a loro sfrecciano altri pesci e vicino giacciono ricci di mare e molluschi. Non c’è dubbio che tutte queste cose fossero già molto gradite. E allora perché non le vediamo mai apparire sulla mensa dei re e degli eroi ? È semplicissimo : perché, gli eroi, come ci racconta anche Ateneo questi, esattamente come gli dei che dovevano campare di nettare e ambrosia, non  

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potevano nutrirsi che di cibi di elezione come il rosso manzo, quel manzo che la gente del popolo raramente avrebbe potuto assaggiare. Quindi, secondo l’Iliade di Omero, niente insalata e niente frutta. E per quanto ? Per molto tempo, per quel riguarda gli eroi, dato che in una ceramica della fine del vi sec. a.C., quando già le cose in fatto di alimentazione erano rapidamente cambiate, vediamo un eroe con vicino appunto le stesse cose appena citate : tre grossi filetti di manzo, alcune pagnotte e una grande coppa per il vino (Fig. 4). Era un eroe e per la fantasia popolare quello doveva mangiare. Passiamo adesso all’Odissea, poema che riguarda un eroe e un personaggio della saga omerica, e nel quale si parla dell’alimentazione e delle cene dei protagonisti. Se però prendiamo il testo di Ateneo, il racconto si fa confuso perché per lui i due poemi erano contemporanei e tutti e due opera del vecchio Omero. Quindi il greculo di Alessandria non fa altro che dire una cosa che trova nell’Iliade per poi subito dopo contraddirla con quello che legge nell’Odissea. Nell’aria infatti c’era del nuovo e molto nuovo. Non si arriva naturalmente a far comparire piatti di pesce sulle eroiche mense, ma si accenna a questo alimento che nell’Iliade è completamente ignorato. Vediamo che, quando sono in Sicilia i compagni di Ulisse pescano addirittura con «ami ricurvi» (Od. 12,331-332). Del resto che gli eroi si intendessero  















Fig. 3. Dio pescatore.

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alimentazione in grecia seide e le altre – ma evidentemente le destinavano ad altri più piacevoli scopi. Nell’Odissea invece si hanno anche comuni serventi e non solo questo, perché durante il pasto i convitati erano intrattenuti con canti e danze, come quando, durante la cena che Menelao offre a Telemaco, si vede un menestrello che intona gli immortali versi mentre alcuni acrobati si esibiscono in ogni genere di capriole. Niente di simile si sarebbe mai visto nei megara dei re dell’Iliade : basta dare un’occhiata a quegli ambienti e sapere che in essi, destinati come erano al governo del paese, queste frivolezze non vi sarebbero state apprezzate. Tutto questo, però, non basta a denotare il gran cambiamento che troviamo nell’Odissea dove sono addirittura citati i letti tricliniari come quello che Arete ordina sia preparato per Ulisse (Od. 7,336), mentre Nestore si vanta con Telemaco di possederne molti (Od. 3,351). L’uso dei letti tricliniari (klinai) è perfettamente databile (Dentzer 1882) in quanto tali mobili comparvero per la prima volta in Assiria e, precisamente, il primo di essi è quello rappresentato nel basso rilievo, oggi al British Museum di Londra, in cui si vede Assurbanipal (668629) che, per festeggiare la sconfitta e morte di Teuman, la cui testa mozzata è appesa ad un albero, cena con la moglie. Questa, con i piedi appoggiati su uno sgabello e modestamente velata, sta seduta su un rigido seggiolone mentre il re, coricato su uno spesso materasso, giace su una monumentale kline. Se queste klinai sono descritte nell’Odissea, dobbiamo concludere che la data di composizione del poema, o di alcune parti di esso, sia molto più recente rispetto a quella dell’Iliade, e che il poema di Odisseo descriva abitudini alimentari più vicine all’età classica. 2. Dal v secolo in poi. – Nel 1200 a.C., subito dopo il periodo dei grandi poemi omerici, un’invasione dei Dori, una rozza popolazione che mise in fuga gli abitanti della terra dei re e li costrinse a rifugiarsi nell’Asia Minore, si abbatté sulla civiltà micenea. Per la Grecia iniziò il buio periodo del Medioevo Ellenico, tempi anche definiti Dark Ages, che durarono dal xii all’viii sec. a.C., secoli bui in cui venne distrutta la civiltà che lì era esistita. Si perse l’uso della scrittura e con essa anche il ricordo della cultura precedente. Evidentemente, in questa epoca non vi erano autori che potessero informarci sugli usi e costumi che regola 

Fig. 4. Eroe a banchetto.

di pesca risulta anche dalla descrizione dell’assalto di Scilla alla nave di Ulisse, in cui marinai catturati dal mostro e scagliati sulla spiaggia vengono descritti come pesci pescati con la lenza (Od. 12,251-255). Direi che molto tempo era passato dall’assedio di Troia e – anche se si continuava a non mostrare che qualcuno di loro quei pesci poi li mangiasse – essi ormai fanno parte della sfera alimentare. Che poi la cena non fosse più la stessa ce lo segnalano alcuni versi dell’Odissea in uno dei quali si parla di «golosità gradite dai principi cari a Zeus» (Od. 3,479-480) mentre in un altro si citano «pietanze di ogni genere» (Od. 6,76-77), ossia una varietà di cibi e preparazioni che non si potrebbe certo applicare al monotono manzo al sangue. Ci sono quindi cucine e gastronomie nuove ed esse non possono essere contemporanee ai grandi focolari che, nei megara dei re del 1300 a.C., erano chiaramente adibiti a giganteschi barbecues. Inoltre nell’Odissea, anche se non vengono mai mostrati eroi che le consumano, vediamo l’ingresso di frutta e verdure nell’alimentazione degli uomini. Arrivato nel paese dei Feaci, Ulisse può ammirare il famoso frutteto di Alcinoo in cui «pere mature crescono su altre pere, e fichi su fichi» (Od. 7,120) e non solo questo perché poi, arrivando ad Itaca, ricorda che quando era fanciullo suo padre gli aveva donato 13 alberi di pere (Od. 24,340). E non sono queste le sole novità, perché molti usi sono cambiati : nell’Iliade, come abbiamo prima visto, le cene venivano preparate e servite dagli stessi eroi ; ora sono essi ad essere serviti. Prima della cena chiacchierano, mangiucchiano qualcosa, poi, dopo che hanno cenato, vi sono ancelle per sparecchiare (Od. 19,60-62). Ora, non è che gli eroi dell’Iliade non avessero donne a loro disposizione – vedi Criseide, Bri 



alimentazione in grecia vano la vita quotidiana dell’epoca. Così niente sappiamo dell’alimentazione di questo periodo. Intuiamo però che molte cose erano cambiate: infatti, quando poi nell’viii sec. a.C. una nuova Grecia emerse da quel triste periodo, il mondo era completamente diverso da quello di prima e diversa era anche l’alimentazione. I quarti di bue al sangue erano scomparsi dalle mense dei potenti ; maiali, capretti, agnelli, volatili da cortile e tutti i tipi di selvaggina li avevano sostituiti e in quel tumultuoso e splendido periodo la vita continuava sempre più a cambiare, a diventare più varia e ad essere più ricca. Infine, nel iv secolo a.C assistiamo all’ingresso trionfale del pesce sulle mense elleniche. Esso viene esaltato e descritto come cibo di elezione nell’opera di Archestrato di Gela (fr. 60 Olson-Sens = SH 192, ap. Ath. 101 b-e), un personaggio della Magna Grecia, un gastronomo e poeta della raffinatissima Sicilia, regione che era anche patria della buona cucina e che in questo campo dettava legge a tutto il mondo. Era naturale che di preferenza la sua influenza fosse diretta alla Grecia. Così fu da Archestrato che i greci impararono a godersi la vita e a gustare piatti di ogni tipo e il pesce di qualità. Il dotto gastronomo scris 

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se sulle gioie della mensa un’opera intitolata Hedypatheia. Si trattava di un poema stilato in versi epici (esametri eroici) talmente belli e sonori che, secondo Ateneo, esso era l’unico libro che i saggi avrebbero dovuto amare. Nel testo, dopo aver dettato un certo numero di norme riguardanti l’organizzazione di un convito, vari consigli tra cui quello di porsi in testa corone di fiori («incorona sempre il tuo capo con corone di tutti i fiori che la felice terra produce ed orna i tuoi capelli con profumato unguento distillato») ed inviti a profumarsi ed a profumare anche l’ambiente dove si sarebbe svolta la cena, spargendo continuamente mirra e incenso sulle braci del focolare, si attacca con l’alimentazione e molto si parla dei pesci. Per ognuno di essi Archestrato indica in quale luogo se ne trovasse la qualità migliore e come andasse cucinato. Pare che per creare il suo poema Archestrato avesse dovuto molto viaggiare e in ogni luogo comprare ed assaggiare i pesci locali (Ath. 7, 278d-e). Secondo il suo amico Dafno di Efeso, «per soddisfare la sua gola ed anche più bassi appetiti egli fece un viaggio tutto attorno al mondo». Un mondo in realtà un po’ ristretto se lo guardiamo sulla carta geografica : esso  

Storione

Tonno Palamido Amia Spada Roma

Maccherello

Saperda

Pesce Balestra Napoli

Ostriche Scari Granchi

Seppie Cozze Scorfano Triglia Polpi

Palermo

Spada Buccina Astice

Cappe sante Totani Pesce Balestra Grongo

Anguille Elope Razza Murena

Atene

Anguille Cappe sante Gamberi Salpe Nasello Triglia Palombo

Cefali Bianchetti

Cuori di mare Scaro Polpi Trglie Bianchetti Gattuccio

Gamberi Rombo Sogliole

Fig. 5. Il mondo di Archestrato.

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alimentazione in grecia

comprendeva soltanto la Grecia, la Magna Grecia, il canale del Bosforo e parte delle coste dell’Asia Minore (Fig. 5). 3. Le varie cucine e le varie cene. – A parte Archestrato ed il suo poema, la Grecia continuò a godersi maiali, capretti, selvaggina e tutto il resto e, ad essi, con le sue lunghe coste frammentate fatte apposta per pescare, aggiunse subito il pesce, i molluschi ed i frutti del mare. Comunque la massa di piccole città-stato spesso in contrasto l’una con l’altra, in cui c’era chi preferiva una cosa e chi l’altra, e dove ognuno trovava da ridire sulle usanze di tutti gli altri, ebbero sempre una propria cucina. Tra loro non ci fu mai molta unità e le critiche che ognuno rivolgeva alla polis presa in quel momento in esame erano pretesto per divertenti prese in giro, che finirono col formare la gioia dei vari commediografi. Così si parlò male di Tebe, di Sparta e – perché no – anche di Atene, cui si rinfacciava il tipo di cena che gli stranieri, una volta arrivati sotto il Partenone, avrebbero dovuto subire. Ad Atene pare che il menu prevalente fosse costituito da una lunga lista di cose, che poi però si riducevano ad una sfilza di piattini ognuno diverso dall’altro, e con porzioni piccolissime. Insomma un tipo del sempre presente metzè in vigore ancora oggi. Ma una cosa è vedersi servire quest’insieme di assaggini con ouzo, acqua e ghiaccio, ed un altro è vedersele offrire come tutta la cena. Quindi si protestava proprio come fa un avventore nel Centauro di Linceo (fr. 1 K.-A.) : «Il cuoco vi mette dinanzi un gran vassoio sul quale vi sono cinque piattini : uno contiene aglio ; un altro due ricci di mare ; uno un panino dolce, un altro dieci lumache e l’ultimo un piccolo pezzo di storione. Mentre io mangio una cosa, l’altro ne mangia un’altra, e mentre io mangio quello, l’altro mangia questo. Ciò che voglio, mio caro, è che ognuno abbia un po’ di tutto». Oltre tutto ciò, non pare si mangiasse proprio bene ad Atene, anzi alcuni autori ci dipingono le cene Ateniesi come ancor peggiori di quelle austere degli Spartani. Dipendeva però anche dai momenti storici ai quali essi si riferivano ed è probabile che su Atene pesassero ancora le leggi di Solone (vii a.C.). Come ben sappiamo, il severo legislatore si era subito dato da fare per limitare qualsiasi forma di lusso e di gioia della gola. Aveva persino prescritto che alle cene si dovesse servire esclusivamente il pane di orzo: economico e rustico. Quello di  







farina veniva consentito soltanto in particolari occasioni. Ancor peggio si diceva di Tebe che veniva accusata di mangiar male e di affamare gli ospiti. I Tebani passavano per essere molto tirati e pare che per risparmiare si nutrissero soltanto di involtini di foglie di fico, verdure cotte, acciughe, pescetti, salsicce, costiglie di bue e polenta di legumi. Dato però che, quando la città fu conquistata da Alessandro, nella sua cassa furono trovati solo 440 talenti, si capisce poi che a Tebe c’era poco da scialare e che si dovesse badare alle spese. Fu comunque una cena del genere che un Tebano, un certo Attagino, figlio di Frinone offrí al Persiano Mardonio ed a cinquanta altri suoi commilitoni, e questo nonostante che Erodoto (9, 16) affermi che Attagino fosse molto ricco : «Era evidente» aggiunge lo storico Clitarco (FGrHist 137 F 1), «che in queste condizioni i Persiani non avrebbero mai potuto vincere e che non ci sarebbe neanche stato bisogno che i Greci si disturbassero a scontrarsi con loro sul campo di Platea, perché tanto a massacrarli ci aveva gia’ pensato Attagino con la sua cena». (Ath. 4, 148 d-f ). Se tanto si rideva su Atene e Tebe, figuriamoci per Sparta. Qui c’era la famosa ed infame mensa comune a cui tutti gli Spartani, dai bambini ancora piccoli ai più vecchi cittadini, dovevano partecipare ; si mangiava male e per giunta si doveva anche pagare per farlo. Della loro cucina sappiamo poco e non credo che qualcuno pensasse che le loro ricette potessero aver fortuna ed essere divulgate. Dicearco nel suo Tripolitikov~ (fr. 72 Wehrli = Ath. 4, 141b) parla della cena spartana nella quale si serviva pane d’orzo, maiale lesso ed una coppa di vino. Qualche volta il peso della carne non superava neppure l’etto e così si offriva pure il brodo che si ricavava facendo bollire la carne. Talora si distribuivano pure olive, formaggio, qualche fico ed anche qualche aggiunta speciale come una lepre, un pesce o un colombaccio. Dopo questo pasto, che veniva frettolosamente consumato, si servivano gli epaikla. L’unica specialità spartana che viene nominata era il brodo nero. Si racconta che un re del Ponto, che doveva aver molto sentito parlare e sparlare di questa minestra, un giorno, sicuro che non poteva esser così cattiva come si diceva, decise di farsela preparare e addirittura assoldò un cuoco spartano. Però quando assaggiò il primo cucchiaio della zuppa, ebbe una smorfia di disgusto; al che il cuoco che gliel’aveva presentata si scusò  



alimentazione in grecia dicendo che lui l’aveva fatta secondo tutte le regole ma era evidente che soltanto chi, nato a Sparta, fosse abituato ad affrontare il quotidiano gelo del bagno nelle acque dell’Eurota, poteva aver la forza di trangugiare il nauseante intruglio. Pare del resto che gli Spartani non soltanto lo trangugiassero, ma che lo assaporassero con piacere e ci intingessero il pane facendolo diventare nero come il carbone. Alla fine poi, come del resto si faceva anche in altre parti della Grecia, venivano loro servite foglie di alloro, che seppur profumate sono piuttosto dure e non particolarmente gustose. Andava meglio nella Magna Grecia, dove già abbiamo trovato Archestrato che aveva girato il mondo per soddisfare la sua gola, e soprattutto troviamo i Tarantini, una popolazione giunta ai tempi della colonizzazione da Sparta e che, forse proprio per i ricordi della mensa comune, cercava attivamente di dimenticarla. Da loro niente brodo nero : si mangiava solo il meglio della gastronomia dell’epoca perché per loro la vita doveva essere molto allegra e ci tenevano a mangiar bene. Infatti essi non si preoccupavano nemmeno per i quattrini e facevano festa tutti i giorni, dichiarando che, mentre tutti gli uomini si davano da fare ad ammassare ricchezze che avrebbero permesso loro di vivere da nababbi, loro non stavano a perder tempo e vivevano subito come se lo fossero. Passando poi in rivista le ricette che sono giunte fino a noi vediamo che si trattava di una cucina fondamentalmente molto semplice e molto simile a quella tuttora esistente. Ovviamente c’era il pane, un scelta spettacolare, in quanto ne esistevano ben 66 varietà. Si passava da quel pane piuttosto rozzo (kodraton) che i Romani chiamavano quadratus, cioè la pagnotta che quattro tagli dividevano in otto spicchi, per arrivare al raffinatissimo boletinos, panino a forma di fungo cosparso di semi di papavero. Ovviamente questo esagerato numero di tipi di pane era anche legato al fatto che molte città avevano le loro particolari varietà e che talvolta la sola differenza tra uno dei pani citati ed un altro consisteva nell’aspetto. Insomma, spesso gli impasti erano simili, ma i panini o le pagnotte si presentavano con forme diverse. Nelle cene di questi periodi si cominciava sempre con gli antipasti in cui venivano offerti ricci di mare spaccati in due e serviti con un’ottima salsa – la salsa di Archippo – composta di  

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miele, aceto, menta e prezzemolo. Con i ricci venivano girate attorno ostriche, altri frutti di mare, lumache e spesso anche i thryon, involtini molto simili agli odierni dolmates, per i quali però, invece delle foglie di vite, si usavano quelle di fico. C’erano poi sempre olive verdi e quelle nere e a proposito di queste Archestrato (fr. 8 Olson-Sens = Ath. 2, 56c) : «Fatti servire le rugose olive mature». Che chiaramente sono le moderne ‘passolone’ siciliane. Erano ottime nell’antica Grecia e lo sono ancora adesso e, come quelle dell’epoca di Archestrato, erano condite con il finocchio selvatico. La ragione ce la spiega proprio lui : «Perché, in pia memoria di Maratona, (in greco marathon significa ‘finocchio selvatico’), da quel momento in poi tutti mettono finocchio selvatico nelle loro olive». Ma negli antipasti non ci si fermava solo alle olive e con nostro grande scandalo si assaporavano anche cavallette e cicale fritte, una delicatezza che Aristofane (fr. 53 K.-A. = Ath. 4, 133b) doveva molto amare dato che in una sua commedia un attore sospira : «O cielo, quanta voglia avrei di mangiare una cavalletta o una cicala infilata su una sot­tile canna». Il resto della dieta che viene citato e che troviamo nei brani di vari scrittori, tuttavia, è molto attraente. Di banchetti ce ne erano di tutti i tipi : si cominciava da quelli che si potevano fare con gli intimi molto cari, cene che venivano definite «quelle con gli amici del sale e della fava», ossia le persone più vicine ed intime con le quali si poteva pranzare avendo soltanto un po’ di sale ed una fava. All’opposto si collocano cene come quella delle nozze di Carano il Macedone (Ath. 5, 128 c-130 d), nella quale si servì un’interminabile lista di pietanze : polli, anatre, tortore, oche, piccioni, pernici, tordi, beccafichi e altra selvaggina. Oltre a questi vi erano i i classici agnelli, i capretti, i maiali e l’inevitabile cinghiale allo spiedo, per non contare poi i pesci che ormai trionfavano in tutte le cene ed avevano molti estimatori. Tra i desserts si servirono placente e tra queste, speciale, quella ateniese che godeva la fama di essere la migliore. Simile a questo era anche il banchetto descritto da Filosseno di Citera (fr. 2 Sutton = 836b Page = Ath. 4, 146 f-147 e), una cena di ben 35 portate, tra cui, oltre ad un vassoio di anguille e ad una grossa razza, furono poi offerti altri pesci come un pesce smeriglio, seguito poi da calamari e seppie ; subito dopo un enorme cefalo, gamberi e, per finire, una  











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alimentazione in roma

grossa fetta di ventresca di tonno. Poi, finito col pesce, Filosseno passa alla descrizione delle carni e dei piatti che ven­nero offerti : talmente tanti che il poeta, incapace di contarli, li elenca l’uno dopo l’altro con un’interminabile filastrocca : «interiora, trippa, lombo e coscio di maiale domesti­co, capretto di latte spaccato in due, braciole, piedini costiglie e testina di maiale e un filetto insaporito col silfio». Né si ferma a questo, perché racconta che, quando i vassoi contenenti queste pietanze furono vuotati, ne vennero portati altri contenenti «capretto ed agnello sia bolliti che ar­rostiti. Poi si offrirono lepri, galletti, pernice calda e colombacci. Pane in abbondanza naturalmente e col pane miele, cagliata e formaggio fre­sco e tenero». Poi grazie a dio la cena finisce, ci si lava le mani e si va a casa. Ci sono certo anche altre e più tristi cene come quelle dei filosofi che non si sprecavano mai con costosi manicaretti. Così c’è quella descritta da Platone (R. 372 c) che racconta come all’inizio vi fossero sale, olive e un po’di formaggio. Poi si servivano quei lampacioni (Muscari comosum), bulbi che hanno bisogno di molto artifizio per far loro perdere il sapore amarissimo e renderli appena commestibili, e questi erano seguiti da verdure di campagna e, come desserts, da fichi, ceci e fave. Dopo cena, sorseggiando un vino generosamente annacquato, i commensali arrostivano ghiande e bacche di mirto. Una cena di filosofi cinici si presentava ancora peggio, perché si basava soltanto su lenticchie : una dopo l’altra venivano versati due tipi diversi di zuppa di lenticchie e a queste si aggiungevano altre lenticchie condite con aceto. In fondo però la zuppa di lenticchie non doveva poi essere tanto male e sia nel Geritade (fr. 165 K.-A.) che nell’Anfiarao (fr. 23 K.-A.) Aristofane decanta la mode­sta zuppa di lenticchie, che doveva piacergli assai perché la definisce «la più ghiotta delle pietanze». Vi erano anche altre ricette interessanti come il ‘bollito misto all’alessandrina’. Lo si trovava ad Alessandria in quelle speciali botteghe chiamate hefthopolia o botteghe del bollito (Ath. 4, 94 c). Esso, un po’come l’odierno bollito misto piemontese, era costituito da una gran varietà di componenti : piedini, testina, guance, orecchie, trippa e lingua. È in Ateneo, in conclusione, che troviamo tutto quello che si mangiava nel mondo di allora e come lo si serviva.  







Bibliografia. Bortolin 2008 ; BrecciaroliTaborelli 2005 ; Brothwell 1969 ; Curtis 2001 ; Dalby 1996 ; Dalby 2003 ; Dentzer 1882 ; Flandrin-Montanari 2007 ; Race 1999 ; Salza Prina Ricotti 1984a ; Salza Prina Ricotti 1988c ; Salza Prina Ricotti 1989b ; Salza Prina Ricotti 1999a ; Salza Prina Ricotti 2005.  

























Eugenia Salza Prina Ricotti Alimentazione in Roma. 1. Il contesto e gli ambienti. – Come è evidente, l’alimentazione si sviluppa col passare del tempo e, man mano che crescono la potenza e la ricchezza di una civiltà, anche essa aumenta e varia. Questo comporta l’introduzione di novità sia nell’agricoltura che nell’allevamento. È ovvio che nella dieta di ogni popolo saranno sempre presenti i cibi dei primissimi tempi legati ormai a gusto e tradizione, come pure resteranno anche i tabù, divieti antichissimi, alimenti proibiti dal buon senso e anche dalla religione. È attraverso tutte queste notizie che impariamo a conoscere un popolo. Insomma tutto quello che riguarda l’alimentazione fa parte della storia di una civiltà ed è molto importante. Possiamo così seguire quello che successe nei secoli della Roma antica e la vedremo cambiare, man mano che dall’epoca delle semplici polente di farro e del panis quadratus non lievitato si passa a pietanze più gustose e raffinate. Vedremo mercati sempre più ricchi e più grandi importazioni, tutte cose che si allargarono come conseguenza delle fortunate conquiste. Esamineremo tutto il complesso del settore studiando dove i Romani cucinavano i loro pasti, e dove li servivano, e passeremo dalle mense più povere ai grandi e sfrenati banchetti della città, che, ormai divenuta caput mundi, poteva permettersi qualsiasi capriccio. Su quanto riguarda i tempi più antichi riusciamo a intuire qualcosa basandoci sui resti delle abitazioni che troviamo in questa area a partire dall’inizio degli insediamenti nella zona che doveva poi diventare Roma. Cominciamo quindi dal principio e cioè dall’epoca in cui la gente viveva in capanne tonde o ovali, il cui pavimento era costituito da una piattaforma rocciosa più o meno spianata, mentre le pareti, sostenute da un certo numero di pali infissi nel tufo, erano fatte con un graticcio di canne e di strame su cui si era spalmato e fatto indurire uno strato di argilla. Sopra la capanna (almeno se dobbiamo giudicare da quelle urne

alimentazione in roma funebri che riproducono abitazioni del genere) vi era un tetto a due spioventi, e per cucinare nel centro di esse regnava un focolare il cui fumo sfogava da una finestrella posta nella parte alta sotto il tetto (Fig. 1). Non molto come sistema per prepararsi i pasti, ma non sottovalutiamo queste basse piattaforme sulle quali si preparava un letto di braci abbastanza ampio da potervi porre il pentolone per quella polenta di farro che poi fu sempre l’alimento base per i poveri dell’antica Roma. Il pasto in queste primitive capanne poteva però venir arricchito con gli spiedi della selvaggina che gli uomini erano riusciti a cacciare e probabilmente vi erano anche la frutta e le verdure coltivate nei campicelli e quelle erbe selvatiche che le donne raccoglievano nei prati. Forse nelle grandi feste c’era persino un agnello o un capretto. Ma questo è tutto quello che riusciamo soltanto ad immaginare, in quanto non esistono documenti scritti di queste epoche. Allora non vi erano libri che ci informassero su quale fosse la vita di questi villaggi, e se pure tra questi rudi campagnoli ci fosse stato qualche letterato (ed io non lo credo) egli non si sarebbe certamente occupato né della cucina, né dell’alimentazione. Ovviamente non vi erano neanche ambienti speciali per consumare i pasti e la gente mangiava queste vivande accoccolata per terra accanto al focolare. Dalle capanne si passò poi alle case in muratura : case molto semplici con i pochi ambienti disposti attorno a quell’atrio che per secoli fu il centro della vita quotidiana. Era nell’atrium che si viveva e, per i primi tempi della semplice casa romana, era lì che si cucinava, si mangiava e non solo questo, perché l’atrio fungeva anche da centro religioso della casa. Era in un suo angolo infatti che si trovava sempre l’altare dei lari con il sacro fuoco, una fiamma che la mater familias doveva mantenere sempre accesa pena, se mai lo avesse lasciato spegnere, di far abbattere un mare di disgrazie su tutta la sua famiglia. Sappiamo però che ritualmente una volta all’anno il fuoco sacro veniva spento. Lo si faceva di marzo e l’indomani il pater familias lo riaccendeva con uno specchio che concentrava i raggi del sole su legna e fuscelli. Quella fiamma, sempre nutrita, restava lì nell’atrio e non doveva mai essere usata per scopi culinari o altro : infatti essa doveva essere mantenuta pura e mai sporcata. Quel fuoco serviva soltanto  



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Fig. 1. Urna funeraria dell’viii sec. a.C. rappresentante una casa.

per infiammare fuscelli o fascetti di paglia con cui torce, lampade e lucerne venivano accese e, soprattutto, con cui si dava fuoco alla legna per formare la brace da ammucchiare sul piano della cucina. In quanto ai focolari, a lungo a Roma si cucinò su questo genere di bassi ripiani più o meno rustici, simili a quelli delle capanne palatine della seconda età del ferro, e su di essi si costruirono i letti di brace. Fino al iii sec. a.C. questa cucina rustica, o braciere che fosse, troneggiò nell’atrium, nodo della semplice abitazione, e li restò fino a quando con il passar dei secoli la casa romana dei primi tempi si ampliò. Le guerre con i loro bottini e le lunghe file di schiavi rendevano la vita sempre più facile. Forse per un bel po’ fu sempre la mater familias ad occuparsi del fuoco sacro, ma pian piano le conquiste e le popolazioni portate a Roma ed ivi vendute in schiavitù mutarono la vita quotidiana della grande città. Con l’arrivo della numerosa servitù, la piccola casa concentrata attorno ad un atrio cambiò e si espanse : nacquero i quartieri per i domestici e con questi nacque pure la cucina vera e propria. A questo punto anche il larario la seguì e lì si installò con il fuoco sacro. Esso in fondo era il dio del focolare e vicino a quel focolare doveva stare, anche se nell’atrio, accanto alla nicchia dove erano esposti i ritratti degli antenati, ci fu spesso un altro larario più elegante ed artistico : un sacello di figura insomma. La cucina si adeguò alle dimensioni delle  



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case : nei modesti abituri formati da una sola stanza aperta sulla strada, molto simili ai bassi napoletani, restò il solito ripiano alto una ventina di centimetri su cui si cucinava e accanto al quale ci si accoccolava per mangiare ; nelle abitazioni modeste, a volte abbellite da un minuscolo cortiletto con in un angolo un albero di fico, la cucina era in uno stanzino nel quale il minuscolo bancone, alto quanto una nostra moderna cucina, entrava appena, mentre nelle case ricche gli ambienti di servizio con i loro annessi e connessi occuparono un intero quartiere : cortili, abitazioni per gli schiavi e servi, dispense e, ovviamente, le grandi cucine con i loro comunque praticissimi alti banconi e con tutto lo spazio del loro piano utilizzabile. Vi si poteva disporre un gran numero di teglie, casseruole, griglie : cosa importante, perché il pasto dell’epoca era costituito da un gran numero di portate. Quasi sempre i banconi poggiavano su una serie di archetti nei quali veniva stivata la legna che, in alcuni casi – come ad esempio a Pompei nella casa di Fabio Rufo – si trova ancora lì. In molte di queste cucine il piano di cottura era limitato da una fila di coppi, che impedivano alla cenere di cadere per terra. Le pentole, dato che dovevano incastrarsi sulla brace, avevano il fondo concavo e, a volte, per occupare poco posto nei ripostigli, erano fatte in modo tale da poter esser riposte appilate le une dentro le altre (Fig. 2) : questo era logico perchè, dato che occorreva una bella serie di cuccume, tegami, tegamini, padelle e graticole per cucinare una cena romana, spesso non vi era abbastanza posto dove riporli. Al momento di iniziare i preparativi per cucinare il pasto, si copriva il piano di cottura con uno strato di brace che veniva tenuta scoperta su una parte del focolare, mentre su un’altra sezione la si cospargeva di cenere. Su queste varie zone, e tenendo presente la quantità di calore occorrente per ogni preparazione, si ponevano le varie pentole. Si mantenevano le braci ben vive sotto le griglie e le padelle per arrostire o friggere qualcosa a fuoco vivace ; se, invece, si stava preparando una farinata od una pietanza nel cui sugo vi fosse farina, e quindi una minestra od un intingolo che correvano il rischio di attaccarsi al fondo del recipiente, si poneva la pentola sopra un fitto strato di cenere che la proteggesse dall’eccessivo calore. Questo espediente consentiva la cottura a fuoco lento. Quando poi si desiderava soltanto tenere  









in caldo qualcosa, si appoggiava il recipiente di cottura su un sostegno, che nelle cucine pompeiane si trova spesso. A volte era un treppiede metallico posto ad un’estremità del bancone ; altre volte, ad esempio nelle abitazioni più modeste, esso era fatto con mattoni disposti a formare una C od una E con il lato lungo verso il muro. Sopra questi sostegni si ponevano i grossi bollitori di acqua calda, che così si conservava sempre pronta sia per i normali usi di cucina, sia per lavare bicchieri, vassoi e casseruole. Il lavaggio del vasellame avveniva ovviamente nei quartieri servili. In quelle cucine nelle quali non si trovano vasche adatte per tale operazione, si dovevano probabilmente usare catini di legno o bacinelle di terracotta. In alcune, però, esistono ancora i lavelli in muratura : alcuni sono ampi e alti come quelli odierni, altri sono bassi sul suolo, ma tutti hanno nella parte inferiore un buco che, tappato mentre si lavava il vasellame, veniva poi aperto lasciando scorrere l’acqua direttamente sul pavimento. Qui una pendenza la incanalava o verso un’apertura che dava sulla strada o verso un tombino che, posto al centro dell’ambiente, comunicava con la fognatura. A volte, approfittando del fatto che nelle abitazioni importanti e dotate di terme private questi bagni erano adiacenti alle cucine, si usava l’acqua dello scaldabagno metallico lì esistente anche per il vasellame e, mediante un’apposita tubazione, la si portava fino ad un rubinetto posto sopra il lavello. Sia nella villa Arianna di Stabia che nella Casa del Labirinto di Pompei si vede come funzionasse questo sistema. Gli scaldabagni sono spariti, ma le tracce dell’impianto sono ancora visibilissime. Contemporaneamente la parte signorile  





Fig. 2.

alimentazione in roma della casa diventò più lussuosa. L’atrium, che una volta si chiamava così perchè era sempre annerito dal fumo della cucina (Serv. Aen. 1,726 ; Sen. ep. 44, 5 ; Maiuri 1951, 24 sgg.), era ora rivestito di lucidi marmi, e qui non si cenava più accoccolati attorno ad un focolare. L’orticello che aveva occupato lo spazio retrostante della casa si era trasformato in un profumato giardino. Attorno ad esso correva un portico colonnato ed era qui che, rivolto alle sue aiuole e agli allegri zampilli delle fontane, spesso si apriva l’ingresso di una grande aula rettangolare : il triclinio (Casa dei Vettii a Pompei e altri), il luogo dove si cenava stesi sui comodi letti tricliniari costruiti con legni preziosi e ornati con raffinati bronzi. Ma per avere tutto questo bisognò aspettare la fine del ii sec. a.C. 2. Forni, fornai e pane. – Spesso nelle residenze importanti con le loro grandi cucine e gli alti banconi troviamo, oltre ai forni più piccoli per preparare pasticci e arrosti, anche quello grande per il pane (Villa dei Misteri a Pompei), ma questo solo nelle dimore molto ricche dove vi era molta servitù e quindi molte persone da sfamare, il che rendeva il procedimento economicamente valido. I comuni mortali invece si rifornivano dai fornai, ma fu solo a partire dal 186 a.C. che poterono farlo perché solo allora i primi pistrina o panetterie apparvero nel mondo romano. In Grecia e Magna Grecia era così già da vario tempo e due secoli prima che a Roma comparissero queste botteghe per pagnotte, lì addirittura si discuteva su quali fossero i migliori panettieri ed a quale nazionalità dovessero appartenere coloro che si sarebbero occupati di cuocere il pane dei loro padroni. Tra tutti gli altri Archestrato (330 a.C.) consigliava i Lidi ed i Fenici («Assicurati di avere nella tua casa un panettiere che sia Lido o Fenicio e che sappia come fare il tuo pane quotidiano in mille modi qualunque sia il tipo che tu desideri» : fr. 6 Olson-Sens = SH 136 ap. Ath. 3, 112c). In Grecia di tipi di pane ve ne erano moltissimi : li troviamo elencati in Ateneo Naucratite, un graeculus che, proveniente da Alessandria, si era trasferito a Roma ed era qui diventato il bibliotecario di Publio Larense, un potente patrizio romano discendente da Varrone e che da questo antenato aveva ereditato la ricchissima biblioteca. Ateneo approfittò della sua posizione per trarre da questi testi tutto quello che vi era stato scritto riguardo all’alimentazione, ai ban 









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chetti, ai simposi, ai cibi ed ai vini e riunì tutto questo materiale in un testo, i Deipnosophistai su cui sempre ci basiamo. Ovviamente si occupò anche del pane ed oltre ad elencare i tipi che si trovavano in Grecia parlò anche di quello di Roma : 19 qualità contro le 65 greche. Parlò anche del lievito, una novità per i Romani che fino allora non lo conoscevano. Non tutti però approvavano questa sostanza ed infatti la sua introduzione fu altamente deprecata da →Plinio (nat. 18,104), che attribuiva la robustezza degli antenati al fatto che essi mangiavano pane non lievitato. Anche se il passo é molto discusso e se ne hanno diverse interpretazioni basate su una parola che sembra mal trascritta e quindi parrebbe voler invece dire che il lievito irrobustiva la gente, personalmente, però, dato il carattere dei Romani e quello di Plinio, continuo a propendere per la prima interpretazione. Comunque è attraverso la sua Naturalis Historia che riusciamo ad avere molte notizie sul lievito dell’epoca, in quanto qui sono elencati i processi attraverso i quali se ne otteneva la migliore qualità. Secondo l’illustre scienziato, il lievito si produceva con un impasto di miglio, o anche facendo fermentare un po’ di pasta di pane ; infine si poteva anche ottenerlo lasciando inacidire una farinata senza sale (nat. 18,102-104). Comunque da quel momento in poi si ebbe pane lievitato soffice, profumato e con la crosta croccante. A Pompei le botteghe dove esso si confezionava, i pistrina dei fornai, si aprivano sulle strade con locali abbastanza ampi nei quali dominavano i grandissimi forni: nel I sec. d.C. ve ne erano ben 25, mentre altri 9 esistevano nelle ricche residenze private. Quando si passeggia per le strade di questa città morta, eppure sempre viva, si vedono questi pistrina affacciati sulla strada con la grande apertura propria a tutti gli esercizi commerciali della città. Lungo un lato dello spiazzo in cui si trovava il grandissimo forno, vi era una fila di macine di scura pietra lavica e, a volte, accanto ad esse i grossi dolia nei quali si conservavano le granaglie che esse avrebbero macinato. In molti di questi pistrina la vendita era diretta e veniva fatta dal bancone che si trovava alla sua porta : quindi pane appena sfornato al cliente. Esistevano però anche apposite panetterie, una delle quali è rappresentata in un piacevole affresco pompeiano. Nel quadretto vediamo il  





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panettiere, che si è tolto le scarpe e sta seduto alla turca su un alto soppalco di legno. Attorno a lui é messa in mostra la sua mercanzia profumata, dorata e croccante : grosse ciambelle di pane che le incisioni per aiutare la lievitazione permettevano di dividere in porzioni. Vicino, su un lato della scena, una grossa sporta di foglie di palma intrecciate, identica a quelle che si trovano tuttora in tutto il Nord Africa, è colma di qualcosa che somiglia molto a quelle tipiche e croccanti ciambelline napoletane chiamate ‘taralli’. Nell’affresco, vicino a due clienti che stanno acquistando il pane, un bambino con le braccia alzate per richiamare l’attenzione di uno di loro, probabilmente suo padre, chiede di comprare le ciambelline. Qui nell’affresco il pane è di un solo tipo, ma ormai nel mondo romano vi erano altre qualità. Cominciamo ad elencarle partendo dall’antichissimo pane di farro (1) fatto con la farina del Triticum dicoccum, un grano che oggi è ancora molto usato in Abruzzo, dove con esso si confezionano minestre lontane parenti delle pultes dell’antichità, quelle stesse pultes che spingevano i raffinati siculi della Magna Grecia a dileggiare i rozzi Romani chiamandoli pultifagi. In epoca imperiale il pane di farro cadde però in disuso. Esso ormai veniva soprattutto usato per celebrare, secondo la tradizione antica, il matrimonio religioso chiamato appunto confarreatio. Per questo rito la sposa portava con sé un pane di farro (Plin. nat. 18,10, farreum ; Gaius inst. 1,112 farreus panis) e lo consumava con lo sposo davanti all’ara del fuoco domestico; ma questo tipo di matrimonio, dal quale era molto difficile sciogliersi, era troppo vincolante e stava anche esso scomparendo, tanto che all’epoca dell’imperatore Tiberio (14-37 d.C.), dovendosi nominare un flamine diale, quindi un patrizio che fosse figlio di sposi uniti con la confarreatio, in tutta Roma si trovarono solo 3 persone che rispondevano a tale requisito (Tac. ann. 4,16). Dopo il i sec. a.C. non sembra che il pane di farro fosse molto usato mentre continuavano ancora ad esservi pani molto antichi come quello depsticium (2), un pane non lievitato che si faceva impastando semplicemente farina con acqua (Cat. agr. 74, 1). Comunque di qualità di pane c’era di tutto un po’, partendo dall’ottimo panis siligineus (Iuv. 5,70) fatto da fornai speciali che si chiamavano siliginarii. Esso probabilmente era quello  



che abbiamo visto nell’affresco pompeiano. Si trattava di un pane bianco (3) fatto con lievito e farina del triticum siligo, un grano tenero. Era di indiscutibile qualità ed era chiamato panis e polline o panis e flore, ossia pane di fior di farina, certamente il migliore che si potesse trovare in commercio (Plin. nat. 18,86). C’era poi anche il Panis e similagine o panis e simila (4) che veniva fatto da panettieri chiamati similaginarii. Era un pane bianco, panis candidus, e aveva anche altri nomi come panis mundus o panis limpidus. Scendendo di qualità troviamo poi il pane di crusca chiamato panis autopyrus, che sarebbe quel pane (5) di cui parla Habinna, il liberto amico di Trimalcione, vantandone le proprietá lassative (Petr. 66). Con esso c’era anche il pane bigio, chiamato secundarius da Plinio (nat. 18,90) e secundus da Orazio (epist. 2,1,123). Per altri era semplicemente detto sequens (6). Si trattava di un pane fatto con farina di seconda qualità contenente una certa percentuale di crusca. Nella Roma imperiale ne faceva uso anche la gente benestante e questo cibo popolare aveva i suoi estimatori tra i quali troviamo persino l’imperatore Augusto, persona dai gusti frugalissimi e, a dire di Svetonio (Aug. 76), addirittura plebei, tanto che di preferenza si nutriva di pane bigio, formaggio vaccino, pesciolini e fichi. Questo prodotto di seconda qualità veniva però disprezzato sia da Marziale (9,2), il quale rimproverava ad un avaro anfitrione di far servire panini bianchi per sé e per la sua amante mentre ai convitati propinava pane bigio, sia da Giovenale che nella satira contro il banchetto di Virrone (5,67-69) lamentava lo stesso fatto. Abbiamo poi il pane nero (7) fatto con una farina detta cribraria (Plin. nat. 18,115). Era chiamato panis plebeius (Sen. ep. 119,3) ed era il pane dei poveri e degli schiavi. Ma si poteva anche cadere più in basso e continuando a scendere nella qualità troviamo addirittura le pagnotte per i pastoni degli animali le quali costavano molto poco e qualche volta venivano mangiate anche dalla gente più povera (Iuv. 5,11). Era chiamato panis furfureus (8). Come si vede c’era di tutto come pane e, ovviamente c’erano anche tipi molto raffinati e speciali come ad esempio il pane per ostriche (9) di cui ci parla Plinio (nat. 18,105), un pane la cui fette venivano servite con le ostriche e che doveva essere molto simile a quello che in Francia ed in Inghilterra viene oggi offerto con questi

alimentazione in roma squisiti molluschi. Interessante poi tra i prodotti di questi pistrina è l’artolaganum – (Plin. nat. 18,105) letteralmente ‘sfoglia di pane’ (10) : qualcosa che quindi doveva esser molto simile alla nostra pizza bianca o pizza romana e veniva anche essa usata con gli antipasti. Dello stesso tipo era il panis adipatus (cgl v,560,10) che sembra esser stata solita pizza bianca, arricchita da pezzi di lardo o di pancetta (11). Infine, sempre tra gli antenati delle pizze, abbiamo il pane streptikios (Ath. 113d ; Plin. nat. 18,105) un impasto leggero al quale si aggiungeva latte, olio o strutto. e pepe (12). Poi si cuoceva rapidamente a sfoglie sottili come quel pane indiano che viene chiamato chapatti. Vi erano poi pani destinati a certe speciali categorie di persone come un tipo di galletta dedicata ai marinai (13) che si chiamava panis nauticus (Plin. nat. 22,138) e, analogamente al pane per i marinai, c’era quello per i soldati il panis militar (14). Nel iii sec. d.C. di questo ne esistevano due tipi : quello mundus, che evidentemente veniva fatto nelle città e distribuito alla truppa quando essa si trovava nelle caserme, e quello castrensis usato negli accampamenti, durante le campagne militari. Probabilmente quest’ultimo sarà anche esso stato una galletta o un pane biscottato come quello che oggi si chiama fresella. Ovviamente continuava ad esistere l’antico panis quadratus (Ath. 3, 114e), un pane che, come quello descritto nel Moretum pseudovirgiliano, veniva confezionato impastando farina ed acqua e, prima di metterlo al forno, veniva segnato in superficie con un coltello praticando quattro incisioni che lo dividevano in otto parti chiamate dai Romani quadrae, da cui il nome (15). Pani di questo tipo sono stati anche trovati nelle botteghe dei fornai di Pompei e al museo di Stabia vediamo un pastore che si avvia al lavoro dei campi portandone uno nella sua bisaccia (Fig. 3). Oltre a queste c’erano golosità speciali come il pane alessandrino (16). André 1981a, grande studioso dell’alimentazione, pensa che potesse essere un pane a cottura rapida fatto con un impasto arrotolato attorno ad uno spiedo e cosí fatto cuocere. →Apicio (4,1,3) lo inserisce in una ricetta di antipasto nel quale viene usato come una normale galletta o un pane biscottato. Estrema delicatezza tra tutte era considerato il pane picentinus (Mart. 13,47 ; Apic. 4,1,2). Era fatto con alica che veniva lasciata macerare in acqua per nove giorni. Al decimo la si im 







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pastava con succo di uva passita foggiandola a forma di tractæ le quali venivano poi introdotte in olle di ceramica e messe nel forno (17). Qui, durante la cottura, le olle finivano col rompersi. Il pane picentinus, non si mangiava altro che inzuppato e quindi veniva servito accompagnandolo con latte addolcito con miele o con vino mielato, il mulsum (Colum. 12,41). Marziale (13,47) dipinge questo pane come niveo e spugnoso. Seguiva il pane partico (Plin. nat. 18,105) che era anche detto aquaticus perché, molto spugnoso anche lui, assorbiva una grande quantità di acqua (18). Infine non potevano mancare i panini all’olio o al burro e con uova (Plin. nat. 18,105). Secondo Plinio questi venivano fatti da gente pacifica che non doveva fare la guerra ed aveva tempo da perdere (19). Chiaramente, data l’assenza nella cucina Romana del burro che il comasco Plinio chiama cibum lautissimum barbarorum, cibo molto nutriente dei barbari, i panini al burro venivano fatti nel nord dell’Impero Romano. 3. Storia ‘alimentare’ di Roma antica. La prima età repubblicana. – Ma non si vive di solo pane e adesso passiamo a dare uno sguardo alla mensa romana che iniziò con i primi pasti essenziali di una povera civiltà contadina, con i suoi campicelli, le sue greggi e le prime brevi guerre, quasi risse con i vicini, che si interrompevano a sera quando arrivava l’ora di recarsi al desco familiare o quando, dato che era giunto il momento di procedere alla raccolta delle messi, si doveva fissare una tregua indispensabile per tutte le parti in conflitto. Un’epoca nella quale l’alimentazione si basava sulla semplice e quotidiana polenta di farro che, accompagnata dalle foglie di cavolo di →Catone il Censore, o dalle rape di Manio Curio, fu per secoli l’unica portata con cui sfamarsi ; un’epoca buia in cui solo per le grandissime feste si veniva rallegrati dall’eterna porchetta romana. Per lunghi secoli, dall’viii fino a tutto il iii sec. a.C., l’alimentazione romana fu poverissima. D’altra parte era quella che ci si poteva aspettare dalla sua semplice agricoltura e dagli allevamenti basati su greggi di ovini e branchi di suini, gli unici animali che per lunghi secoli si potessero portare in tavola. Anticamente infatti era severamente proibito usare la carne dei bovini considerati essenziali per l’economia di allora in quanto i buoi servivano per il lavoro dei campi e le vacche provvedevano alla produzione di latte e latticini. Così fino al iii sec. a.C. si po 

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alimentazione in roma riguarda la città dei sette colli e non Atene ? Così pure l’Hedyphagetica di Ennio ci riporta un’opera (Hedypatheia) scritta in esametri da Archestrato di Gela, un autore siciliano del iv sec. a.C., che la compose in un momento in cui la Magna Grecia era la patria della buona cucina e dava lezioni alla Grecia. Si trattava di un’opera che, a parte alcuni versi su pane, vino, corone di fiori, era però tutta concentrata sul pesce e precisamente indicava dove trovarne la migliore qualità e come fosse meglio prepararlo. È proprio questa la parte di cui Ennio si era interessato e quella di cui ci è pervenuto un suo breve brano, in cui sono elencati vari tipi di pesci : la murena di Clupea (oggi Calibia), un promontorio vicino a Bisanzio, i moscardini (polipetti) di Enos, città della Tracia di fronte a Samotracia, le ostriche di Abydos in Turchia, il pettine di Mitilene, il sarago di Brindisi (non la città italiana, ma quella omonima posta ai confini dell’Epiro), il pesce porco di Taranto, l’elope di Sorrento in Campania e sempre dalla Campania il glauco di Cuma. Poi vengono nominati il tordo, la merula e lo scaro, che pare fosse buonissimo a Pilo nel Peloponneso, com’erano pure buoni il polpo di Corcira, la calvaria, vari tipi di murice e il dolce riccio di mare. Come si vede, tutti questi pesci e molluschi appartengono alle coste di Grecia, Turchia e Magna Grecia. Non è citato un solo pesce pescato nel Lazio e questo la dice lunga. Sembra cioè che fino al iii sec. a.C., benché il prodotto ittico facesse sicuramente parte della dieta delle popolazioni costiere, il consumo del pesce non dovesse avere un posto molto importante nei pasti romani. Comunque il fatto che Ennio decida di tradurre l’opera di Archestrato indica che a Roma qualcuno cominciava ad interessarsene. Non tutti ovviamente, ma ne erano attratti i giovani di buona famiglia, quelli che erano stati ad Atene a completare i loro studi, ed Ennio poteva esser sicuro che la sua trasposizione in latino di quel poema della Magna Grecia avrebbe conquistato molti lettori curiosi e interessati. Quindi, una volta eliminati Ennio e Plauto, tutti e due troppo legati alla Grecia, è chiaro che per avere sicure notizie sulla vita quotidiana e la mensa di quell’epoca dobbiamo rivolgerci a Catone il quale, da perfetto romano, era sospettoso di tutto ciò che fosse straniero e quindi diffidava di cibi non prettamente latini. Da lui abbiamo un elenco  



Fig. 3. Panis quadratus.

teva venir condannati all’esilio o addirittura a morte per questo crimine, cioè si infliggevano ai trasgressori le stesse pene che venivano comminate a chi avesse ingiustamente ucciso uno schiavo (Plin. nat. 8,180 ; Varr. r.r. 2,5,4 ; Cic. nat. deor. 2,159 ; Colum. praef. 7). Inoltre fino alla fine del iv sec. a.C. fu anche proibito tirare il collo alle galline che venivano tenute per le uova. Si mangiavano solo i galletti perché questi non potevano convivere col gallo del pollaio. Ma già nel iii sec. la gallina in brodo doveva essere permessa in quanto Catone dà le norme per fare ingrassare pollastre e piccioni (Cat. agr. 89). Comunque per avere notizie più sicure sulla mensa e sulla vita quotidiana degli antichi Romani dobbiamo aspettare il iii-ii sec. a.C. ed i primi testi letterari che trattarono l’argomento. Essi sono il De agricultura di Catone il Censore (234-149 a.C.), l’Hedyphagetica del suo contemporaneo Ennio ((234-149 a.C.) e le allegre commedie di Plauto (255-184 a.C.). In tutti e questi tre autori ci sono sempre molti riferimenti alla vita quotidiana ed a conviti e cene, ma quale dei tre ci dà un quadro preciso della vita dei Romani dell’epoca ? Plauto parla molto di cene e di banchetti ma attaccato com’è alla letteratura greca ed alle commedie greche che egli imita, possiamo essere proprio sicuri che il quadro che ci presenta sia quello che  







alimentazione in roma dei piatti che si servivano alla sua mensa : vivande che egli considerava la base della cucina patria. Probabilmente il buon vecchio ignorò sempre che certuni di essi avevano origini lontane e straniere : ricette probabilmente portate da qualche marinaio e adottate già da qualche secolo tanto che ormai tutti le consideravano piatti squisitamente locali. Si vedano ad esempio gli encyti nati sulle rive del Nilo mille anni prima di Catone e la cui confezione, assolutamente simile a quella da lui prescritta, era già chiaramente rappresentata sulle mura della tomba di Ramsete iii, il faraone che regnò dal 1197 al 1165 a.C. (Fig. 4). Non credo che Catone, così contrario alle infiltrazioni straniere, abbia mai sospettato che il dolce di cui dava la ricetta alla sua villica non avesse niente a che fare con Roma e la sua gente. Probabilmente era da parecchio che in Italia si friggevano e si mangiavano gli encyti tanto che si era finito col considerarli un piatto locale. Il De agricultura ci dà una chiara idea su quale fosse l’alimentazione di Catone il Censore mentre il genere di vita che egli conduceva lo troviamo nel testo di Plutarco (Plu. Cat. M. 23). Sappiamo così che era un uomo socievole, che amava invitare i suoi amici a cena e con loro passava ore liete in piacevoli conversazioni. Catone era infatti un uomo intelligente ed anche spiritoso Alla sua tavola si discutevano vari argomenti, ma egli non ammetteva che si potesse parlar male di qualcuno. Il Censore consentiva soltanto che si decantassero le virtù dei loro conoscenti così che il pettegolezzo, uno dei sistemi più volgari ed a buon mercato per risvegliare gli interessi, era bandito. Comunque a casa sua non si doveva poi mangiar male, perché anche se la sua cucina era molto semplice, i suoi convitati erano sempre numerosi.  



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Chi cucinava per Catone era la sua vilica. Anche se adesso a Roma si poteva affittare uno di quei cuochi del forum coquinum (Ter. Eun. 255‑257). che, con tutta la loro troupe, aspettavano al Macellum i clienti e, una volta assoldati, si occupavano di tutta la cena, Catone solo di lei si fidava. Nelle sue ricette ogni cosa vi era specificata con grande precisione fissando le dosi degli ingredienti, spiegando come lavorarli e come cuocerli ed il risultato era molto buono. Leggendo il De agricultura, dove queste ricette sono elencate, vediamo così sfilare davanti a noi varie minestre come la puls punica (85) un tipo di saporita crema fatta con alica – una farina di grano duro – formaggio fresco, miele e uova. C’era poi la granea triticea (86), altra minestra basata su grano e latte, e ad accompagnare queste minestre, doveva esserci il soffice libum profumato di alloro (75), e basato su formaggio fresco, farina e uova. Nel libum il formaggio o, secondo le proprie preferenze, la ricotta, funzionavano da lievito. Poi lì, vicino al cestino di liba, pronto per spalmarcelo sopra ci sarebbe poi sicuramente stato l’epityrum, un trito di olive salate con l’aggiunta di olio, aceto, varie erbe e spezie (119). Sulla mensa avranno sempre troneggiato pasticci come la scriblita (78), e la placenta (76), salata la prima e dolce la seconda, ma fatte tutte e due con la stessa ricetta basata su una serie di sfoglie, dette tractae simili all’odierna ‘carta da musica’ sarda, che venivano poste una per volta su un’altra sfoglia morbida di semplice farina impastata con acqua. Su ognuna di queste tractae veniva poi spalmata una sorta di crema fatta di formaggio fresco e sale se si trattava della scriblita, e di formaggio fresco e miele per la placenta. Quando si erano finite tutte le tractae e tutta la crema, si avvolgevano, sia dolce che pizza, nella sfoglia

Fig. 4. Pasticceria egizia. Encyti e dolci vari.

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morbida, chiudendole poi in cima, quasi a formare un grande tovagliolo. Questi colossali pasticci si cuocevano in quel testum che nelle traduzioni è spesso, e in questo caso erroneamente, tradotto come ‘tegola’. Se si pensa che sia la placenta che la scriblita di Catone erano pasticci che pesavano la bellezza di nove chili ed erano costruiti su una base quadrata di 30 cm di lato, si capisce che non si sarebbe mai potuto cuocerli ponendoli sotto una tegola infuocata come se fossero piadine : è evidente che il qui citato testum in terracotta dovette essere l’antenato del ‘forno di campagna’. Del resto questo si capisce ancor meglio quando, nella ricetta della placenta, Catone conclude consigliando di mettere queste confezioni sotto un testum e di ammucchiargli attorno e sopra braci ardenti. Uno di questi testi di bronzo si trova nell’Antiquarium di Pompei : è fatto come un catino rovesciato e la sua parte superiore è incavata per potervi ammucchiare la brace (Fig. 5). Tra i dolci ci sarebbero poi certamente stati i globi (79) specie di piccoli krapfen fatti con lo stesso impasto del libum. Queste palline venivano fritte in un padellone di strutto caldissimo e, dopo esser state ben scolate, si inzuppavano di miele e si spolverizzavano con semi di papavero. C’erano poi altri dolci come l’ernaeum ed il savillum, tutti e due tipi di budino (84). Di carne invece non se ne parla, ossia non se ne danno ricette e ciò non perché essa non facesse parte della cena di Catone – dove comunque non doveva essere preponderante – ma molto semplicemente perché la si faceva o allo spiedo o su una griglia posta sul focolare e tutti sapevano come la si preparasse. Da varie fonti apprendiamo che le pietanze di carne più usate a quell’epoca si basavano su porcellini, agnelli e capretti. Il maiale predominava allora e continuò a predominare nei menu di tutte le epoche, così ne conosciamo molte ricette, tanto che, a meno di non avere a propria disposizione un intero libro in cui elencarle, é impossibile descriverle tutte. Plinio era un amatore del suino e, secondo lui, nessun animale forniva più gioia alla ghiottoneria. Egli affermava addirittura che questa carne aveva più di 50 gusti diversi, mentre quella di tutti gli altri animali ne avevano uno soltanto (Plin. nat. 8,209). Varrone poi dichiarava che la natura aveva creato il maiale apposta per i banchetti (Varr. r.r. 2,4,10) e si dilungava sugli  



allevamenti di questi animali (Varr. r.r. 2,4,1-22 ; Colum. 7,9-11), mentre Petronio ne descriveva le appetitose portate che faceva servire sulla tavola di Trimalcione (Petr. 47 e 49). Fin dai tempi più antichi le carni suine vennero poi salate ed affumicate tenendole appese sul focolare a quei ganci denominati carnaria (Cat. agr. 162,13 ; Petr. 135,4). Si ottenevano cosí i lombi di maiale salati che si chiamavano sucidiae (Moretum 55-57 ; Iuv. 11,82) e vari tipi di pancetta e lardo. Vi erano poi anche salsicce ed insaccati di tutti i generi. Citazioni di questi prodotti si incontrano spesso e, da quel che si può capire, furono sempre cibi usatissimi dal popolo in quanto accessibili a tutte le borse o, almeno, a quasi tutte. Marziale decanta le lucaniche specificando che si usava accompagnarle con una candida polenta di alica fumante (Mart. 4,46,8 ; 13,35). Per le verdure Catone parla molto del cavolo, da lui considerato un non plus ultra. Buono non solo da mangiare, ma anche da usare come potente medicinale. Era con le foglie del cavolo che il Censore curava ogni tipo di malanno (agr. 157). Nella sua fattoria oltre gli onnipresenti cavoli c’erano poi olivi per l’olio (64-65), e Catone dà anche le ricette per salarne le olive (117-118). A quell’epoca si coltivavano moltissimi vegetali e legumi : spaziando dalle comuni lenticchie ai pregiati asparagi. Come frutta ci si poteva sbizzarrire : c’erano fichi, melograni, mele cotogne, susine, nocciole e via dicendo. Si parla poi di vino e di tutti i suoi tipi : da quello più grossolano destinato ai contadini per giungere all’imitazione del preziosissimo vino greco di Cos che, nell’enolo 













Fig. 5. Testum dell’Antiquarium di Pompei.

alimentazione in roma gia dell’epoca, era considerato il non plus ultra. Nelle ricette di questi sostituti laziali che ci dà Catone, troviamo sempre una certa dose di acqua di mare, uso comune per quelli greci. Così per fare il vino di Cos, il migliore dell’antichità, bisognava prendere questa acqua ad una certa profondità settanta giorni prima della vendemmia. Subito dopo la si metteva in un’anfora pulita nella quale doveva stare per 30 giorni, poi la si travasava con attenzione in modo da lasciar via tutti i sedimenti. Si aspettavano altri 20 giorni e infine si ripeteva l’operazione continuando così anche per un’ulteriore terza volta (112). Si prendevano infine le uve che si erano lasciate stare sulla vite affinché fossero ben mature, e, dopo aver versato l’acqua di mare in un recipiente 5 volte più grande dell’anfora che l’aveva contenuta, vi si aggiungevano tutti i grappoli pressandoli con le mani per far sì che stessero completamente immersi e potessero ben imbeversi di quel liquido. Le uve stavano lì per 3 giorni, dopo di che si toglievano, si portavano alla pressa e infine si riponeva il vino così ottenuto in anfore ben pulite e sigillate. Oltre al vino c’era comunque la plebea e rustica posca – aceto diluito con acqua – che i contadini portavano con sé nei campi e che li dissetava durante il lavoro. Anche Catone la gradiva. Con questo abbiamo una chiara idea della vita quotidiana e dell’alimentazione della massa dei Romani nel iii-ii sec. a.C. Ma, ormai, col passare dei secoli e l’aumento del lusso, tutto stava cambiando e la vita romana stava evolvendosi. Passiamo così rapidamente a cene sempre più ricche e ad una interessante gastronomia che trionfa a partire dal i sec. a.C. e continua con un susseguirsi di vari capricci e mode per tutta la durata dell’impero. Le elenca il rustico Ofello della satira di Orazio (sat. 2,2), che poi depreca la docilis Romana iuventus che si piegava a questa pubblicità ante litteram. Comunque ormai a Roma ci si permetteva qualsiasi stravaganza : essa era allora la potenza più grande esistente. Cartagine, la grande nemica, era stata distrutta e, assieme al Medio Oriente, tutta la parte mediterranea dell’Africa era nelle sue mani; i suoi confini si erano talmente allargati che stavano diventando indifendibili e, agli inizi del ii sec. d.C., l’imperatore Adriano fu costretto a restringerli. Ma il mercato di Roma continuò ad esere il più ricco del mondo In esso si trovava di tutto : le spezie più rare, i  



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cibi più costosi, e frutta fino allora sconosciuta (Fig. 6). 4. Dalla repubblica all’impero. – Per questo periodo le notizie le troviamo negli storici, nei poeti conviviali come Orazio e negli autori importanti come Varrone e Cicerone. Non siamo ancora alla rutuba, la rovina e il decadimento della civiltà romana preconizzati da Varrone, ma certamente i banchetti si erano moltiplicati e la spesa per queste riunioni conviviali erano talmente aumentate che i legislatori dovettero imporre misure restrittive : le famose leggi suntuarie che si susseguono nella storia dell’alimentazione romana, partendo addirittura dai tempi di Catone e delle sue parche cene. La prima legge suntuaria fu la legge Orchia del 181 a.C., fortemente appoggiata dal Censore. Nel 161 a.C. se ne dovette proclamare un’altra, la legge Fannia e nel 143 a.C. la legge Didia che fu estesa a tutta l’Italia e così via di vent’anni in vent’anni. A quell’epoca a Roma c’erano sempre molti banchetti e anche se le cene cominciavano tradizionalmente con le uova e finivano con la frutta – ab ovo usque ad mala – in mezzo ci si scapricciava con le vivande più care e stravaganti. Inoltre mentre prima ci si limitava a piccole cene con gli amici più cari, adesso si avevano grandi epula : banchetti in occasione di feste religiose o dei trionfi di generali che tornavano carichi di preziosi bottini, con migliaia di convitati. Quando poi non c’erano epula con cui festeggiare qualcosa, c’erano sempre le cenae collegiorum, ricchissime associazioni che pur di avere i prodotti di alta qualità non badavano a spese ed erano persino riuscite a far rialzare i prezzi nei mercati. Tutto questo fece nascere gli allevamenti speciali, i cui prodotti raggiungevano prezzi da capogiro: si passava dall’allevamento degli uccelli sia pregiati che rari come quello organizzato dalla zia di Varrone, che grazie allo sfruttamento specializzato della sua piccola proprietà riusciva a guadagnare molto più di un latifondista, e poi si continuava con altri generi di impianti : certuni si occuparono delle api, altri delle lumache, e altri ancora dei ghiri, tutte prelibatezze molto apprezzate dai loro concittadini. Ma soprattutto con l’avvento trionfale del pesce sulle mense romane, comparvero le piscine. Stranamente le prime non erano sulle rive del mare : furono invece impiantate da gente le cui proprietà erano nell’entroterra. I proprietari degli impianti non  







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Fig. 6. Importazioni.

volevano sfigurare di fronte ai grandi anfitrioni romani sulle cui tavole il pesce non mancava mai, così si fecero portare avanotti di spigole e orate e le immisero nelle loro vasche e nei loro laghetti. Ovviamente questi esemplari allevati in acqua dolce non avevano lo stesso gusto degli esemplari marini e non ebbero molta fortuna. È da Columella che apprendiamo cosa il Romano medio pensasse di questi esemplari. Scrive Columella (8,16,3-4) : «All’epoca dei nostri nonni il modo di comportarsi e le frasi di Marcio Filippo si trovavano su tutte le bocche dato che erano considerate spiritose, mentre erano soltanto gli atti e le parole di una persona maleducata. Infatti a questo tipo capitò di cenare a Cassino a casa di un ospite, e qui, appena assaggiata una spigola pescata in un vicino fiume, la sputò. Poi, non fermandosi, a questo riprovevole gesto, esclamò “Che possa io morire se non credevo che fosse un pesce !”». Ovviamente questo dimostrava che la gente non apprezzava questi esemplari e nonostante che Varrone lodasse tali impianti decantandone l’economicità e produttività (r.r. 3,17,2), essi furono poi abbandonati (Colum. 8,16,3). Comunque a partire dagli inizi del i sec. a.C.,  



con l’idea di aver sempre ottimo pesce fresco a disposizione facesse o non facesse buon tempo, comparvero i primi allevamenti marittimi e presto tutto il litorale ne fu costellato : ve ne furono più di 42 sul litorale tirrenico, e solo uno su quello adriatico dove, inspiegabilmente, essi non attecchirono affatto (Higginbbotham 1997). Secondo Plinio chi inventò queste piscine fu Licinio Murena (nat. 9,170) ed il suo esempio fu subito seguito sia da Filippo, il patrigno di Augusto, che da Ortensio e da Lucullo. Quarantadue piscine, dunque, dall’inizio della Toscana fino a giù dopo la Campania. Ognuna di esse, secondo il luogo dove furono impiantate, era destinata ad uno speciale tipo di pesce : in quelle basse con fondo limaccioso si allevavano sogliole, ostriche ed altri molluschi bivalvi (Colum. 8,16,7.) ; in quelle arenose pullulavano spigole e orate, dentici ed ombrine (Colum. 8,16,8) ; infine c’erano, bellissime, quelle delle coste rocciose, fossero esse cavate nella roccia o create dentro le grotte che si aprivano negli scoscesi promontori ; esse erano le migliori tra tutte e qui si allevavano i pesci da tana e di scoglio come i tordi, le triglie, le murene e le cernie.  









alimentazione in roma In tutte queste piscine per mantenere i pesci in vita ed in buona salute bisognava però che ci fosse un continuo ricambio dell’acqua, cosa che si otteneva collegandole al mare mediante canali che immettevano in esse l’acqua fresca della marea e cacciavano via quella vecchia ed impoverita d’ossigeno Columella (8,17,1) consigliava di creare due canali per ogni bacino ponendoli alle due estremità della piscina : una per l’ingresso dell’acqua fresca e l’altro per dare un’uscita a quella vecchia che era spinta via. Lucullo, poi, per alimentare meglio i suoi bacini e metterli in più diretto contatto col mare, creò un canale tagliando addirittura una montagna : gesto spropositato che spinse Pompeo ad affibbiare al rivale il nomignolo di «Serse togato» (Plin. nat. 9,170). Cambiare periodicamente l’ambiente con l’immissione di acqua ossigenata però non bastava : bisognava anche pensare al nutrimento dei pesci che in quei vasconi non potevano procurarselo da soli come in mare aperto e questo aveva il suo costo. Tutte le piscine costavano molto ma le più dispendiose furono proprio quelle più belle, i vivai scavati nella roccia. Infatti il tipo di pesci in essi allevato preferiva una appropriata dieta di gamberetti e pesciolini appena catturati, e così i proprietari erano anche obbligati a mantenere flotte di pescatori. Scriveva Varrone : Illae autem maritimae piscinae nobilium, quibus Neptunus ut aquam et piscis ministrat, magis ad oculos pertinent quam ad vesicam et potius marsippium domini exinianiunt quam implent (r.r. 3,17,2). Niente di più vero dato che questi tritones piscinarum come li chiamava Cicerone (Cic. ad Att. 2,9,1) non traevano nessun guadagno con il prodotto di questi loro impianti. Essi si affezionavano talmente ai loro pesci che si guardavano bene dal mangiarli o venderli e consideravano le loro piscine come se fossero soltanto magnifici acquari, splendidi passatempi. Non è che non mangiassero pesce, ma lo mandavano a comprare al più vicino mercato dove intanto certi esemplari stavano raggiungendo prezzi incredibili, come ad esempio le grosse triglie che pesassero almeno 1 kg e mezzo. I ricchi gastronomi lottavano fra di loro per aggiudicarsele. Oltre le piscine i ricchissimi patrizi avevano anche creato riserve di caccia e pure in queste gli animali potevano star sicuri di morire di vecchiaia. Figuriamoci se gente come Ortensio, che per la morte di una sua amata triglia  







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aveva portato per nove giorni il lutto avrebbe accettato di far uccider un cerbiatto o un cinghiale; proprio Ortensio aveva una bellissima riserva in quella sua villa di Castel Fusano che fu erroneamente attribuita a Plinio il Giovane e viene tuttora sempre più erroneamente così chiamata (Colini 1985). Il vero Laurentinum fu, poi, da me scoperto e scavato a Castel Porziano. 5. L’età imperiale. – Molto si trasformò nell’alimentazione. Pur ammettendo che Catone con il suo carattere avrebbe sempre offerto cene buone ma non dispendiose, già qualcuno ai suoi tempi doveva aver cominciato ad esagerare, altrimenti non ci sarebbe stato bisogno di imporre la prima legge suntuaria, quella Orchia del 181 a.C. Comunque le cene che si offrivano a Roma non avevano niente a che fare con quelle campagnole del censore. Queste, come abbiamo visto, erano fondamentalmente basate sui farinacei mentre le verdure e la frutta venivano dai suoi campi ; le altre, quelle di cui abbiamo notizia a Roma soprattutto a partire dalla fine del ii sec. a.C., sono ormai impostate su vari tipi di carni : maiale, agnello di latte e quello squisito capretto che, lattonzolo, non avesse ancora mai assaggiata l’erba (Iuv. 11,56 sgg.). Ma questo nei giorni di festa lo si poteva anche trovare sulle tavole dei poeti conviviali che molto ricchi non erano. Sulle tavole dei potenti c’era molto di più e più ancora si spendeva. Ormai era quasi di obbligo servire nelle proprie cene un cinghiale intero e arrosto e a volte sembrava pure che un cinghiale solo non bastasse, se dobbiamo credere a quello che ci racconta Plutarco. Il nonno dello storico aveva un amico che da giovane era stato a studiare ad Alessandria e lì aveva fatto amicizia con uno dei cuochi del palazzo di Cleopatra. Questi un giorno lo invitò a venire nelle cucine per assistere ai preparativi del banchetto. Una volta lì il giovane Philotas – così si chiamava l’amico del nonno – oltre ad essere colpito dalla magnificenza della cena fu molto stupito nel vedere otto spiedi con cui si stavano arrostendo altrettanti cinghiali e non poté fare a meno di chiedere all’amico cuoco quanta mai gente ci sarebbe stata a cena. Il cuoco ridendo gli disse «Non molta : dodici persone al più». Ancor più stupito il ragazzo chiese «Ma allora perché otto cinghiali ?». «Perché vedi» gli rispose l’amico «Non si può mai sapere quando Antonio verrà a cenare. Può darsi che arrivi  







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subito, ma può anche darsi che si fermi a bere con qualche amico o che comunque faccia tardi e noi dobbiamo fargli trovare uno di questi cinghiali cotto a puntino» (Plu. Ant. 28,3). Comunque un’idea di come fossero per esempio le cene del i sec. d.C. possiamo averla leggendo nel Satiricon di Petronio l’Arbitro la descrizione di quella offerta dal liberto Trimalcione, il quale scimmiottava le cene imperiali di Nerone. Ovviamente la cornice del banchetto e i convitati satiricamente presentati da Petronio sono una presa in giro, e esagerati sono la presentazione dei cibi, il loro impiattamento ed il loro servizio. Probabilmente però quello che vediamo portare a tavola, anche se esagerato, è esattamente ciò che allora faceva parte del menu ricco. Vediamo così arrivare gli antipasti di Trimalcione : i servi portano un asinello di bronzo con due bisacce a bisdosso, una piena di olive nere e l’altra di olive verdi Appoggiati ai rami di un albero lo sovrastano due enormi vasi d’argento sui quali sono stati saldati due ponticelli che sostengono ghiri arrostiti, cosparsi di miele e spolverizzati con semi di papavero. Sotto ai ponticelli, su un letto fatto di nere prugne secche a semi di melograno per simulare la brace, stanno due griglie cariche di salsicce (Fig. 7). Ma la cena romana iniziava per tradizione dalle uova. Ed ecco che viene portato un vassoio su cui ad ali distese una chioccia di legno dipinto sembra covare uova. Le uova sono in realtà pasticci nel cui interno si trovano beccafichi conditi con una salsa pepata di tuorlo d’uovo. Così mangiando e bevendo si arriva alla seconda portata la quale sottolinea come Petronio si sia ispirato alle cene di Nerone di cui lui era un ospite frequente. In Campania questo Arbiter elegantiarum doveva spesso frequentare la Villa di Oplontis che probabilmente apparteneva a Poppea e, quindi, dopo il suo matrimonio, anche a Nerone. Infatti viene portato un elaboratissimo vassoio simile a un globo con un coperchio emisferico contornato da una fascia piatta su cui sono segnati tutti i segni dello Zodiaco. Questo trionfo da tavola è assolutamente simile a quello che vediamo dipinto su una delle pareti del piccolo triclinio di Oplontis e, data l’abitudine di riprodurre negli affreschi i più importanti pezzi dell’argenteria dei proprietari, questo probabilmente faceva parte dei servizi imperiali. Naturalmente anche qui Trimalcione deve infliggere ai suoi convitati i suoi scherzi mettendo sull’orlo del  

coperchio cibi vili per far credere loro che la festa sia finita. Poi però si scoperchia il vassoio e dentro, in mezzo a cacciagione e saporiti volatili, si vede una lepre che con l’aggiunta di due poderose ali sembra un Pegaso pronto a spiccare il volo. Attorno, in un canale, messi come se nuotassero, ci sono pesci su cui quattro statuette d’argento versano una salsa di garum. Arriva di corsa uno scalco, uno di quegli speciali servi che, come gli altri addestrati nella Suburra dal maestro Trifero (Iuv. 11,56,206), sapeva perfettamente come trinciare e fare a pezzi qualsiasi arrosto o vivanda. Esso affetta tutto e tutto viene servito ai convitati. Poi viene portato il terzo ferculum : un’enorme cinghialessa arrosto con panierini di datteri appesi alle sue zanne da distribuire ai presenti e contorno di cinghialini che si affrettano verso le sue mammelle. Questi piccoli sono in realtà pasticci di caccia che vengono dati agli ospiti perché se li portino a casa. Intanto un nuovo scalco squarcia il fianco della cinghialessa da cui volano via tordi vivi subito catturati da una banda di cacciatori e distribuiti tra i convitati. Finita questa scena, tutti si accingono a mangiare la cinghialessa ormai fatta a pezzi. Subito dopo arrivano tre maialini vivi. Trimalcione chiede agli invitati di sceglierne uno, poi chiama un cuoco e gli ordina di cucinarlo rapidamente, e rapidamente infatti l’artista dei fornelli ritorna con il suo capolavoro, ma Trimalcione si mette ad urlare che lo sciagurato lo ha arrostito senza sventrarlo. Al poveretto vengono strappate le vesti mentre egli prega di essere risparmiato, e i presenti si uniscono alle sue suppliche, Encolpio, uno dei protagonisti del romanzo, è invece furioso e vorrebbe che al colpevole venisse inflitta una pena severa. Per il momento Trimal 

Fig. 7. L’antipasto della cena di Trimalcione.

alimentazione in roma cione pare condividere la sua idea, poi, però, sembra calmarsi e ordina al cuoco tremante di sventrare adesso il maiale. Dal taglio escono salsicce ed insaccati vari con cui la povera bestia era stata imbottita : così tutti ridono allo scherzo e il cuoco viene premiato. Il banchetto però non finisce qui e arriva un altro pesantissimo vassoio per giunta carico di un vitello lesso con un elmo in testa. Dietro, farneticando, arriva un terzo scalco vestito da Aiace che con la sua spada si accanisce contro il povero lesso tagliandolo a pezzi che poi, infilati sulla punta della sua spada, offre ai convitati. Si portano infine dolci e frutta, ma non è ancora finita e subito dopo si offrono altre cose come pollastre in galantina, che nessuno ha più la forza di mangiare. Per ultimo arrivano due schiavi con grosse anfore e mostrandosi furiosi l’uno contro l’altro cominciano a picchiarsi con colpi di bastone, ma ad essere colpite sono solo le anfore che vanno in pezzi lasciando cadere per terra ostriche e altri prelibati molluschi. I piatti che vediamo descritti – ovviamente senza la carica di scherzi e buffonate che trasformano il banchetto di Trimalcione in uno spettacolo di varietà – sono quelli che si servivano in tutti i banchetti. Analizziamo il menu della cena di Trimalcione : essa è composta da un antipasto, sei fercula, più naturalmente le secundae mensae, cioè dolci e frutta. Prendiamo una cena di Augusto : essendo molto parco normalmente offriva cene di tre fercula, ma quando voleva abbondare ne faceva servire sei (Svet. Aug. 74). Quindi non siamo tanto distanti dalla cena di Trimalcione come numero di portate. Per quel che poi riguardava la presentazione delle vivande, possiamo citare presentazioni analoghe. Arriviamo alla portata con la gallina di legno dipinto che covava la uova : queste con i beccafichi dentro pasticci a forma di uova sono esagerate, ma piatti di quel genere esistevano da secoli e secoli ed in diverse parti del mondo di allora. Una si trova al Museo del Cairo con l’unica differenza che a covare le uova è un’anatra invece di una gallina (Fig. 8). Se poi passiamo al ferculum dello Zodiaco non solo c’è quello dipinto nel piccolo triclinio di Oplontis (Fig. 9), ma dal mondo greco ci viene la descrizione di un trionfo da tavola del genere. In Ateneo ce lo descrive Alexis, commediografo greco vissuto nel iv-iii sec. a.C. (fr. 155 K.-A. ap. Ath. 2, 55a), che scrive : «Senza saper come, mi trovai proprio dove conveniva – parla un pa 







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rassita che racconta un sogno da lui fatto – ci furono lavate le mani. Si preparò una tavola su cui non vennero apparecchiati formaggio olive e pietanze unte e fumanti ed altri piatti di poco prezzo, ma un magnifico vassoio profumato da tutte e quattro le stagioni, addirittura un vassoio che rappresentava l’emisfero celeste ! Vi era di tutto, tutte le bellezze di lassù : pesci, capriolo e come se corressero lì in mezzo, aragoste. Uova spaccate a metà rappresentavano le stelle». In mezzo al vassoio di Trimalcione si erge fiera la lepre con le ali a mo’ di Pegaso, e come non fare qui un parallelo con il polpo di Cicerone che, a quel che ci dice l’Arpinate (Cic. fam. 9,168), era sistemato come Giove ? È ovvio che questo polpo tutto rosso di porpora è piuttosto sacrilego, ma è altrettanto ovvio che ormai non si portavano a tavola vivande che non fossero sapientemente e sfarzosamente sistemate (Fig. 10). Quindi sempre più cene complicate e ricette elaborate piene di spezie e di garum. Le ritroviamo tutte nel De re coquinaria, spesso ancora oggi attribuito ad Apicio, il ricco gastronomo romano che si rovinò con i suoi pranzi e che, quando la sua fortuna si ridusse ad una somma che avrebbe fatto felice ognuno dei suoi contemporanei, bevve una coppa di vino avvelenato e chiuse lì tutte le sue cene. Basta leggere poche righe del De re coquinaria per capire che è scritto in un brutto latino e anche di epoca tarda. Se poi si va ancora più in fondo si trovano piatti dedicati ad imperatori che vissero molti secoli dopo quello di Apicio e se poi qualcuno approfondirà meglio la questione si scopre quanto detto da Tertulliano (ap. 3,6) che scrive : «Tanto i medici prendono nome da Erasistrato, quanto i grammatici da Aristarco ed i cuochi da Apicio». Quindi il compilatore del De re coquinaria era semplicemente un cuoco bravo e quindi  









Fig. 8. Anatra con le uova.

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altalena Note. [1] Dal ricettario apiciano si possono, ancora oggi, realizzare gustose pietanze romane : cfr. Salza Prina Ricotti 1983.  

Bibliografia. André 1981a ; Borgongino 2006 ; Bortolin 2008 ; Brecciaroli-Taborelli 2005 ; Cerchiai-Manodori-Sagredo 2004 ; Curtis 1979 ; Curtis 1991 ; Dosi-Schnell 1986a ; DosiSchnell 1986b ; Flandrin-Montanari 2007 ; Higginbotham 1997 ; Maiuri 1986 ; Salza Prina Ricotti 1983 ; Salza Prina Ricotti 1986 ; Salza Prina Ricotti 1987 ; Salza Prina Ricotti 1988a ; Salza Prina Ricotti 1989a ; Salza Prina Ricotti 1993a ; Salza Prina Ricotti 1993b ; Salza Prina Ricotti 1993c ; Salza Prina Ricotti 1994a ; Salza Prina Ricotti 1994b ; Salza Prina Ricotti 19981999 ; Salza Prina Ricotti 1999b ; Salza Prina Ricotti 2001 ; Thurmond 2006 ; Turcan 1964.  



















































Eugenia Salza Prina Ricotti

Fig. 9. Il ferculum dello Zodiaco.

Fig. 10. Polpo presentato come Giove.

chiamato Apicio, che visse probabilmente nel iv secolo d.C. ; uno che sapeva scrivere un po’ di latino e che mise assieme tutto quello che sull’argomento poteva conoscere e trovare. Tra l’altro si vede bene che quasi tutte le sue ricette sono rivolte a colleghi in quanto in esse non si danno mai dosi ma si elencano interminabili liste di erbe e spezie : semplici promemoria, dunque, poiché sulle quantità da usare qualsiasi cuoco avrebbe saputo come regolarsi. Le uniche ricette in cui tutto è specificato esattamente al grammo sono quelle prese da trattati medici. Insomma il libro era una congerie di ricette varie, ma ebbe fortuna e continuò ad essere usato e consultato anche nel Medioevo. I monaci, anzi, lo ritennero meritevole di trascrizione e così è arrivato fino a noi. [1]

Altalena. Conosciamo questa macchina da →Ateneo Meccanico (29,9-31,5), che la attribuisce a →Ctesibio. La fonte non ne conserva il nome e altalena è designazione moderna. [1] Il congegno sfrutta infatti il principio della leva di primo genere, con un asse che oscilla su un fulcro centrale (vd. anche →Tolleno). La trave principale poggiava su un supporto con ruote, che poteva quindi essere avvicinato alle mura. Come spiega lo stesso Ateneo Meccanico, infatti, l’altalena doveva consentire di raggiungere la sommità delle fortificazioni avversarie senza l’utilizzo di scale. I soldati salivano sull’altalena e ne bilanciavano col proprio peso l’oscillazione e l’angolo di inclinazione. Il mezzo era munito di una copertura per proteggere gli uomini durante la fase di ascesa, mentre  







Fig. 1. Altalena di Ctesibio secondo Ateneo Meccanico (da Lendle 1983).

anassagora all’estremità era prevista una porta dalla quale gli assalitori invadevano le mura. Nonostante tali accorgimenti, la macchina dimostrò grandi limiti nell’utilizzo pratico. Note. [1] Vd. Campbell D. B. 2003a, 24 ; Lendle 1983, 113 sgg.  

Bibliografia. Campbell D. B. 2003a ; Lendle 1983.  

Francesco Fiorucci Ammone [iv sec. d.C.]. Del poema intitolato Iniziative (katarcaiv), e che rientra nell’ambito del genere coltivato da →Anubio e da →Massimo di Efeso, si conservano solo 19 versi riportati da Tzetzes ed editi da Ludwich : [1] nonostante l’affermazione di Tzetzes che colloca A. all’inizio di una lista di autori della disciplina,[2] e quindi con una cronologia alta, elementi di ordine metrico e linguistico fanno propendere per il iv sec. Sopravvive anche, di anonimo, un excerptum bizantino in prosa, relativo alla dottrina dei nodi lunari (edito da F. Boll [3]).  

Note. [1] Ludwich 1877, 51-52. – [2] Ludwich 1877, 52. – [3] In ccag vii, 123-124; Gundel-Gundel 1966, 236.

Bibliografia. ccag 1898-1953 ; Gundel-Gundel 1966 ; Ludwich 1877.  



Paola Radici Colace Ammonio di Alessandria. Filosofo neoplatonico, astronomo e matematico del vi secolo d.C. Fu scolaro di →Proclo e succedette poi al padre Ermia nella direzione della Scuola di Alessandria. Nel commentare il De interpretatione di →Aristotele difende la teoria delle idee di Platone contro le posizioni del filosofo stagirita. Damascio (Vita Is. 79) nell’apprezzarne l’operosità come autore di vari commentari, lo ricorda anche come esperto di geometria ed astronomia. Dal punto di vista astrologico, si ricorda una sua opera sull’uso dell’astrolabio, cui rinviano vari punti del ccag. [1] Note. [1] ccag vi, p. 3, fol. 175 ; vii, p. 7, fol. 21 ; viii 2, p. 28, fol. 243 e n. 1 ; viii 4, p. 21, fol. 15 ; xi 1, p. 5, fol. 113 ; cfr. Urso 2002, 111.  









Bibliografia. Andron 2008, s.v. Ammonios of Alexandria, son of Hermeias, 66 ; Gundel-Gundel 1966, 246 sgg. ; Urso 2002, 111.  



Carmelo Lupini

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Anassagora. Una antica tradizione indica, per il filosofo A., nativo della polis greca di Clazomene in Ionia, la nascita nel 500 e la morte nel 428 a.C. Le sue dottrine cominciarono ad essere conosciute intorno al 460. Trascorse una parte significativa della sua vita a Atene. Viene riferito che fu accusato di empietà e costretto a lasciare la città (ma sfuggono molti dettagli relativi all’epoca e al particolare contenuto delle accuse mosse contro di lui) e spese il resto della sua vita a Lampsaco, sull’Ellesponto, dove venne trattato e ricordato con onore. Fu uomo famoso sia ai suoi tempi che dopo, ed è stato il primo filosofo a vivere ad Atene, portando la filosofia ad Atene nel periodo in cui la città stava assumendo importanza come centro politico, culturale e intellettuale del mondo greco. Sono pervenuti svariati frammenti del suo libro. →Platone, →Aristotele e molti altri autori hanno fatto riferimento alle sue teorie. Gli antichi lo considerarono discepolo di →Anassimene di Mileto, ed è chiaro che egli fece sue almeno alcune delle teorie di costui sul mondo fisico, e così pure alcune idee lanciate da →Parmenide. Nella sua teoria della materia egli si attenne all’idea, condivisa tra i Milesi, secondo cui nulla viene dal nulla, per cui la somma totale delle cose è sempre la stessa. Ma mentre per →Talete e Anassimene la varietà delle cose emerge dall’acqua o dall’aria attraverso una serie di trasformazioni, A. introduce un punto di vista del tutto nuovo. Egli deriva le cose non da una particolare sostanza originaria, ma da un infinito numero di particelle minime : come l’oro è fatto di particelle di polvere d’oro, così l’intero universo è composto di parti minutissime ognuna delle quali, egli sostiene, contiene porzioni minime di ogni cosa, quantunque in proporzioni differenti. Questi corpuscoli vennero denominati ‘omeomerie’, cioè cose fatte di parti simili. Questi ingredienti minimi, impercettibili ai sensi, sono concepiti come eterni al pari dell’acqua di Talete o dell’aria di Anassimene. L’ulteriore novità di A. fu di introdurre un agente esterno, denominato Mente (nous). Secondo le parole di apertura del suo libro, «tutte le cose erano insieme» ; poi venne la Mente e le mise in ordine. Il ruolo della Mente si limita, peraltro, a innescare il processo cosmogonico, per cui il vero agente principale del processo di separazione della mistura originaria e della successiva riorganizzazione è il vortice cosmico. I corpi celesti vennero a occu 



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anassimandro

pare il posto che occupano grazie al moto circolare. Le cose pesanti, umide, nere e fredde si raccolsero nel centro e la terra si formò quando esse si compattarono. Le cose luminose, secche e calde sono andate a formare le porzioni esterne del cosmo. Sole e luna sono stati, in origine, pesanti agglomerati di materia simile alla pietra o alla terra ; vennero portati in alto dal vortice cosmico e tuttora mantenuti in quella posizione dalla velocità del loro moto. La luna è grande quanto il Peloponneso e il sole è molto più grande. La luna riceve la sua luce dal sole. Le eclissi di luna hanno luogo quando la terra o qualche altro corpo invisibile sotto la luna impedisce la sua illuminazione da parte del sole. Le eclissi di sole hanno luogo quando il sole si trova ad essere schermato dalla luna. A. ammise la possibilità che la luna fosse abitata. Quanto alla forma della terra, A. respinse l’idea di sfericità adducendo che il sole, al suo sorgere e al tramonto, scompare alla vista secondo una linea retta, non curva (se la terra fosse sferica, la riga dell’orizzonte sarebbe stata, invece, necessariamente curva). Pertanto aderì all’idea di Anassimene di una terra piatta sostenuta dall’aria che per sua natura tende a muoversi verso l’alto, ottenendo di tenere la terra ‘a galla’. Al pari dei suoi predecessori milesi, egli offrì anche la spiegazione di diversi fenomeni meteorologici. Sostenne, per esempio, che il tuono è uno scontro di nubi e il fulmine un attrito violento. Secondo A. gli animali furono generati nel caldo-umido da una sostanza terrestre. L’uomo è il più intelligente degli animali perché ha le mani.  

Edizioni. Curd 2007 ; Diels-Kranz 1951-1952 ; Lanza 1966 ; Sider 2005.  





Bibliografia. Couprie 2006 ; Couprie 2008 ; Graham-Hintz 2007 ; Inwood 1986 ; Mansfeld 1979 ; O’Brien 1968 ; Panchenko 1997 ; Panchenko 2002a ; Schofield 1975 ; Schofield 1980 ; Schofield 1996 ; Stokes 1965 ; Vlastos 1950 ; Vlastos 1975a ; Woodbury 1981 ; Šijaković 2001.  





























Dmitri Panchenko Anassimandro. Poliedrico intellettuale greco, nativo di Mileto e vissuto in quella città, all’incirca, tra il 610 e il 540 a.C., avrebbe avuto un ruolo come fondatore di Apollonia, colonia milesia sul Mar Nero (12A3 D.-K.). A. per primo ha pubblicato in un’opera in prosa i risultati delle sue ricerche. Il suo libro, forse intitolato Peri physeos, è andato perduto. Sem-

bra che fosse scritto in un linguaggio conciso e talvolta poetico. →Aristotele lo menziona nella Fisica (203b15) in riferimento all’idea di infinito. Molte altre informazioni hanno origine dossografica e raramente lasciano intravedere l’accesso diretto alle sue pagine. Una possibile spiegazione è che l’astronomia conobbe una rapida evoluzione tra il vi e il iv secolo e Aristotele pensava che l’astronomia del suo tempo avesse superato di molto ogni contributo anteriore. Pertanto non è strano che né i suoi discepoli →Eudemo e →Teofrasto, impegnati a ripercorrere uno l’astronomia e l’altro la filosofia del passato, né altri dopo di loro abbiano posto molta cura nel rendere conto delle idee di A. e nel decodificare il suo linguaggio peculiare. I temi da lui trattati divennero tradizionali per chi scriveva un trattato Sulla natura e anche il modo di trattarli dovette fare scuola, il che segnala l’immensa portata dell’aver scritto il primo ‘trattato scientifico’ della storia. Proprio a causa di questo suo libro (su cui vd. anche →cosmologia, 2.2 e →Peri physeos), A. si distingue non solo per le teorie che ha sostenuto, ma anche per aver fissato un modello di trattato al quale molti altri intellettuali greci fecero riferimento durante il vi e soprattutto il v secolo a.C. La carenza di informazioni impone molta prudenza nel tentativo di indicare le caratteristiche del suo Peri physeos ; nondimeno, è relativamente agevole congetturare che il suo testo includesse: (a) una trattazione sul cosmo, il posto della terra nell’universo, la forma della terra e il processo che avrebbe dato luogo all’assetto attuale; (b) una trattazione sulla comparsa degli esseri viventi, in particolare degli animali terrestri e dell’uomo a partire da una popolazione eminentemente acquatica, trattazione che avrebbe potuto spaziare anche su altri aspetti delle forme di vita ; (c) il pinax, ossia una rappresentazione grafica delle terre note (grosso modo l’area del Mediterraneo). La mappa predisposta da A. ha notoriamente inaugurato una vera e propria tradizione cartografica (vd. →geografia, 3). Non sappiamo se il suo pinax venne accompagnato da un testo sui luoghi sommariamente rappresentati (ad es. con menzione di alcuni insediamenti coloniali ellenici), ma non lo possiamo nemmeno escludere. Una questione interessante riguarda l’ordine in cui vennero trattati i vari argomenti. Una distinzione di fatto tra cosmologia, biologia e geo 



anassimandro grafia è verosimile perché i tre gruppi di temi sono vistosamente differenti. Di conseguenza è difficile immaginare una disposizione troppo disordinata degli argomenti trattati. A. fu allievo di →Talete ed ebbe, a sua volta, due allievi importanti : Anassimene, che si dedicò allo studio del mondo inanimato, ed Ecateo, che coltivò la storia, la geografia e la cartografia. A. dovette essere un intellettuale con vasti interessi e una ferma attitudine a spiegare i fenomeni più diversi – vento e pioggia, fulmine e tuono – come eventi naturali. Una sua caratteristica è di accostare allo stesso modo l’origine della vita animale e la formazione dei corpi celesti. Le informazioni disponibili sulle teorie da lui elaborate incoraggiano a pensare che egli possa aver delineato da un lato una non banale storia evolutiva del cosmo, partendo dall’indistinto originario (l’apeiron) per arrivare alla comparsa degli animali terrestri e poi dell’uomo, e dall’altro una rappresentazione delle terre note (l’area del Mediterraneo) per mezzo di un’apposita elaborazione grafica (pinax). La sua ambizione sembra essere stata quella di delineare le dinamiche ‘naturali’ grazie alle quali il mondo – che, a suo avviso, in origine dovette essere molto diverso da come ci appare adesso – ha finito per assumere i connotati attualmente osservabili, e anche di dare un’idea dei principali rapporti spaziali : forma cilindrica della terra, sua collocazione al centro del mondo, sua stabilità, ipotesi sulle diverse distanze dei corpi celesti (luna, sole, stelle). Rispetto a →Talete, A. sembra aver manifestato un minore interesse per le misurazioni. In lui sembra prevalere l’interesse per arrivare a costruire una rappresentazione plausibile, anche se non più che congetturale, di molti fenomeni, insieme con l’esigenza di accreditare spiegazioni semplici e rassicuranti. Come Talete, anche A. si è preoccupato dell’origine del mondo attorno a noi. Egli lo fa derivare da una sostanza eterna (archē) ma, a differenza di Talete, non la identifica con nessuna sostanza conosciuta e inventa una parola apposita per designarla, l’Apeiron, cioè il Senzalimiti, l’Indeterminato, intendendo che alcune fondamentali coppie di opposti – il caldo e il freddo, il secco e l’umido – fossero presenti sin dall’inizio, per cui la loro interazione e il loro equilibrio sono importanti per lo stato presente e futuro del mondo. L’interazione degli opposti divenne un’idea largamente condivisa nell’antica cosmologia greca e nella medicina. La sua influenza sul pensie 



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ro europeo è continuata fino al secolo xvii ; l’influenza sul dualismo cinese di Yin e Yang è pure possibile. Eterno al pari dell’apeiron è anche il movimento. Il processo cosmogonico inizia con la separazione del caldo e del freddo dall’apeiron. L’ordine del mondo si è formato gradualmente, a tappe. A. è all’origine del sistema geocentrico del cosmo, che è stato mantenuto per due millenni in quanto rendeva conto in modo ragionevole del sorgere e tramontare degli astri così come di altri fenomeni. Un apporto di particolare rilievo è l’affermazione che la terra rimane nello spazio senza alcun sostegno e non cade perché a livello cosmico non ci sono un su e un giù. L’ordine del mondo è la risultante di tappe successive. In una prima fase la terra, ruotando, determinò il distacco di parti situate nella zona centrale, tanto da assumere la forma di cilindro schiacciato con, a grande distanza, delle fasce che ruotavano e ruotano attorno alla terra, e che potrebbero essere state concepite come molteplici sfere o fasce concentriche (in alternativa A. avrebbe potuto intendere che simili a invisibili ruote sono le strutture portanti di sole e luna). Nel corso del tempo le creature viventi si formarono nell’ambiente caldo-umido dovuto al calore solare e alcuni animali marini impararono a vivere sulla terraferma, perdendo le loro scaglie per essiccazione. L’uomo è stato generato, in origine, da creature di altra specie, perché ha un vitale bisogno di essere allevato durante il lungo periodo in cui non sarebbe stato in grado di provvedere a se stesso. La sua rappresentazione della formazione del mondo e della vita si caratterizza per l’assenza di qualsiasi agente esterno, anche se si combina con una sottile religiosità : al suo Apeiron eterno egli applica infatti l’epiteto di ‘divino’ (12B3 D.-K., dalla Fisica di Aristotele). A. ha anche provato a indicare le distanze dei corpi celesti, utilizzando le dimensioni della terra come unità di misura, ma i numeri 9, 18 e 27 suggeriti da alcune fonti (Aezio: 12A11 e 21-22 D.-K.) sembrano introdurre, nel suo modo di rendere conto delle cose, un elemento di arbitrio, che non trova riscontro in altre evidenze. Affermò che, contrariamente alle apparenze, il sole è grande quanto la terra, o non più piccolo. Quanto alla natura dei corpi celesti, essi sono composti di fuoco avvolto in una densa foschia, per cui ciò che noi vediamo sono aperture, spiragli che si aprono in tale fo 



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schia. Quanto alle eclissi, è possibile che egli se le spiegasse in termini di relativa instabilità della foschia che circonda i corpi celesti. Una tradizione antica presenta A. non solo come un pensatore profondo, capace di spiegare perché la terra non cade, ma anche come uno specialista che usa degli strumenti. Di lui si dice che inventò lo gnomone (un’asta verticale su un piano accuratamente livellato sul quale si possono poi segnare alcune posizioni particolarmente significative, in primo luogo il mezzogiorno). Ciò dovrebbe significare che, in realtà, egli si limitò a introdurre nel mondo greco questo strumento ben noto in Mesopotamia e in Egitto. L’uso di questo strumento induce a pensare che la sua astronomia non sia stata solo astratta e speculativa. Edizioni. Diels-Kranz 1951-1952 ; Conche 1991 ; Daiber 1980.  



Bibliografia. Algra 1999 ; Blanck 1997 ; Bodnár 1988 ; Bodnár 1992 ; Cerri 1999 ; Classen 1970 ; Couprie 1995 ; Couprie-Hahn-Naddaf 2003 ; Evans 1988 ; Furley 1987 ; Gehrke 1998 ; Graham 2005 ; Gray 1999 ; Heilen 2000 ; Kahn 1960 ; KirkRaven-Schofield 1983 ; Laurenti 1971 ; Lloyd 1970 ; Mosshammer 1979 ; Naddaf 2005 ; O’Brien 1967 ; Panchenko 1994 ; Panchenko 2002a ; Prontera 1998 ; Rossetti 2006a ; Schofield 1997 ; Šijaković 2001.  



















































Dmitri Panchenko-Livio Rossetti Anassimene. 1. Generalità. – Anassimene di Mileto, discepolo di →Anassimandro, è vissuto nel vi secolo a.C. (Apollodoro colloca la sua nascita intorno al 576) e contribuì non soltanto all’affermazione del gruppo dei sophoi di Mileto, ma anche alla formazione di un primo circuito di intellettuali interessati a elaborare un sapere in grado di rendere conto, in primo luogo, di fondamentali fenomeni naturali. Del suo libro, noto col titolo di Peri physeos, si è salvato un frammento (fr. 2 D.-K.) insieme a un certo numero di espressioni e immagini. Dei suoi insegnamenti Seneca (nat. 2,17 ; 6,10,1) e Plutarco (Mor. 947D) sanno qualcosa che non affiora dal filone dossografico, ma questo non significa necessariamente che essi abbiano letto il libro. Sappiamo inoltre che egli scrisse in uno stile semplice e diretto, usando frequentemente comparazioni e analogie per illustrare il suo pensiero. È anzi possibile che le informazioni disponibili vertano per una parte su  

spiegazioni così semplici da far pensare a una forma di divulgazione (es. : gli astri conficcati nel cielo come chiodi, il sole che gira attorno come un berretto, i venti che volano a grande velocità come uccelli, il cosmo che ruota come una mola da mulino…) e per un’altra parte su nuclei dottrinali assai più impegnativi. 2. L’aria. – A. ha formulato la più coerente ed elegante versione del monismo materiale, indicando nell’aria sia l’origine (archē) sia l’elemento base di ogni cosa. Sostenne che il movimento dell’aria è sempre presente al pari dell’aria stessa e spiega la varietà delle cose attraverso vari gradi di condensazione o rarefazione di tale elemento. Rispetto a →Talete egli fece un passo avanti poiché l’aria, diversamente dall’acqua, non ha bisogno di contenitore e si presta ad essere immaginata come distribuita infinitamente a largo. Il moto costante dell’aria, a sua volta, era facile da ammettere, per cui non si richiedeva nessuna forza cosmogonica distinta da essa. Seguendo Anassimandro egli concepì l’aria come decisamente apeiron, dunque come illimitata. Lungi dal rappresentare un arretramento su posizioni più difficilmente attendibili, è verosimile che la soluzione sia risultata interessante da diversi punti di vista. L’aria di A., invisibile ma di provata esistenza e capace di resistere alla pressione in una membrana gonfiata, era più plausibile dell’enigmatico ‘indefinito’. Inoltre, con la condensazione e la rarefazione dell’aria A. non ha più bisogno di postulare, accanto alla archē, anche l’iniziale presenza di qualcosa che si distingue per il fatto di essere caldo e qualcosa che si distingue per il fatto di essere freddo. Ancora, A. non ha indicato soltanto la scaturigine di tutte le cose ma, come già si è accennato, anche il loro ingrediente ultimo, mentre su questo punto Anassimandro era rimasto nel vago. Pertanto la sua aria non è una mera sostanza materiale del mondo, ma, a certe condizioni, è anche gli esseri viventi animati, perché l’aria che ci rende vivi non differisce in modo sostanziale dall’aria diffusa ovunque, tanto da scrivere : « Proprio come la nostra anima, che è aria, ci tiene assieme, così il respiro e l’aria circondano [cioè tengono unito] l’intero cosmo » (fr. 2 D.-K.). Egli ha anche utilizzato il moto rapido dell’aria per rendere conto di fenomeni come il fulmine e il tuono. La sua idea di aria ha rappresentato un’attrattiva per molte generazioni di filosofi greci.  







anatomia 3. Cosmogonia. – Quanto alla cosmogonia di A., pochi dettagli figurano nelle nostre fonti. Apprendiamo che egli non derivava tutte le cose immediatamente dall’aria, ma supponeva che, in uno stadio iniziale, fossero emersi dall’aria la terra, il fuoco e l’acqua, mentre ogni altra cosa si sarebbe formata a partire da questi costituenti o ingredienti di base. A. cercò di collegare particolari aspetti del processo cosmogonico alla situazione presente. Per effetto della compressione dell’aria sarebbe venuta all’essere anzitutto la terra, che è piatta e sospesa nell’aria « a forma di tavola ». Una simile espressione sembra sottolineare che la superficie della terra è essenzialmente piatta e non curva. Siccome i Greci usavano tavole sia rettangolari sia rotonde, e nella tradizione cartografica di Ecateo, milesio appena un po’ più giovane di A., dominava la forma circolare, è possibile che dicendo « a forma di tavola » egli abbia inteso dire ‘rotondo’. L’introduzione dell’idea di un supporto per la terra deriva da idee dei predecessori di A., ma è coerente con il resto della sua cosmologia. Mentre Anassimandro riteneva che la terra è stabile anche senza supporto in quanto occupa il centro di tutte le rotazioni celesti e ciò che vediamo sopra di giorno va poi sotto di notte, per cui non ci sono un su e un giù assoluti, A. non aveva la possibilità di ragionare in questo modo perché a suo avviso i corpi celesti non vanno sotto la terra ma le girano attorno (« come un berretto » : 13A7 D.-K., da Ippolito). Sulle ragioni di tale scelta non siamo informati, e conosciamo pochi dettagli. A suo avviso il sole scompare alla nostra vista non perché si trovi sotto la terra, ma perché si accresce la sua distanza. Poiché per metà dell’anno (dopo l’equinozio autunnale e fino a quello di primavera) il sole sorge e tramonta a sud per chiunque lo osservi dall’area greca, l’idea di ‘parti alte’ della terra non viene percepita come decisiva e pertanto l’idea centrale di A. fu quella di illusione ottica, nel senso che gli oggetti sembrano più vicini all’orizzonte via via che aumenta la loro distanza dall’osservatore. L’→astronomia di A. non si è affermata durevolmente tra i Greci, ma in Cina qualcosa di comparabile, la teoria della ‘coperta celeste’ (gai tian), ebbe corso per molti secoli e potrebbe essere stata mutuata dall’area greca. L’ulteriore immagine usata da A., che la terra, mancando di spazio sufficiente per spostarsi, rimane ferma « come l’acqua nel 















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la clessidra » (13A20 D.-K., da Aezio) rinvia a un particolare tipo di klēpsydra al quale si riferisce con maggiori dettagli →Empedocle (fr. 100 D.-K.), intendendo per clessidra un tubo che, immerso nell’acqua, si riempie e poi si presta ad essere estratto (a fini di travaso) senza che l’acqua immediatamente cada giù [→fisica, 2]. Una delle nostre fonti attribuisce ad A. la creazione della cosiddetta gnomonica, cioè lo studio di come varia la lunghezza dell’ombra prodotta dallo gnomone in base alla latitudine dei luoghi. Si direbbe pertanto che anche A., non diversamente da Talete e Anassimandro, poté contare su un strumento pensato (e utile) per conoscere : uno strumento scientifico. In questo caso non è però esclusa una possibile confusione con Anassimandro. Ricordiamo infine che per A. i terremoti dovrebbero dipendere da fratture a grande profondità, in particolare da crolli per eccesso di siccità o di umidità (13B21 D.-K., da Aristotele).  



Fonti. Diels-Kranz 1951-1952 ; Wöhrle 1993 ; Daiber 1980.  



Bibliografia. Bicknell 1969 ; Guthrie 1962 ; Kirk-Raven-Schofield 1983 ; Mosshammer 1979 ; Panchenko 2002a ; Panchenko 2002b ; šijaković 2001.  











Dmitri Panchenko-Livio Rossetti Anatomia. 1. Premessa storica. – Anatomia [ajnatomhv, orig. «dissezione», anatomia] come

scienza autonoma e disciplina fondamentale per la medicina è un concetto moderno. Alle origini significa letteralmente, dal greco ajnatevmnein, «tagliare via», appunto ‘arte di tagliare, sezionare’). L’idea di anatomia come la intendiamo oggi è attestata per la prima volta in →Celio Aureliano. [1] Alle origini la disciplina si sviluppa senza la dissezione sistematica dei cadaveri. Nei poemi omerici (Iliade e Odissea) l’anatomia è legata prevalentemente all’osservazione delle ferite e alla macellazione degli animali. →Aristotele stesso [2] si appoggia ancora su Omero). Per i Presocratici, come →Alcmeone di Crotone, la dissezione non è ancora ammessa, gli studi anatomici sono spesso connessi strettamente con le ricerche sulla natura. Nei testi del Corpus Hippocraticum dei secc. v a.C. (seconda metà) e iv a.C. (prima metà) le ricerche sono rivolte per lo più alle forme degli organi interni (schvmata) maggiori e minori (come uvola, tonsille, etc.) per poter  



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anatomia [3]

conoscere correttamente le malattie e anche per evitare errori nella pratica chirurgica. [4] Nei trattati più specificamente anatomici del Corpus (De carnibus, De natura ossium, De corpore e De anatomia – i due ultimi probabilmente ascrivibili a età ellenistica) – c’è un grande interesse per le ossa e per i vasi : la mancanza di una terminologia specifica e l’utilizzazione di definizioni piuttosto generiche (come ‘vena stretta’, ‘piccola’ etc.) caratterizzano una ricerca ancora allo stadio iniziale. Gli organi sono studiati per lo più in rapporto alle loro funzioni. Questo tipo di anatomia è fondata su osservazioni esterne compiute su malati, feriti, morti, e su illazioni analogiche tratte da osservazioni anatomiche compiute sugli animali. [5] Per l’anatomia ippocratica la dissezione anatomica non è dimostrabile. →Diocle di Caristo è autore del primo scritto specifico Anatomia (ajnatomhv [6]) : l’opera, che riguarda l’anatomia animale, rivela anche interessi per una ricerca anatomica vera e propria. Con →Aristotele ajnatomh [7] v indica la dissezione di animali; [8] lo scienziato faceva riferimento ad un’opera con figurazioni su tavola per la costruzione del corpo. [9] Soltanto con prima metà del iii sec. a C. viene praticata abbastanza regolarmente, a fini di ricerca, in laboratorio, ad Alessandria, la dissezione di cadaveri e anche di persone vive : a praticarla sono i tre celebri autori alessandrini, →Erofilo, →Erasistrato ed →Eudemo. [10] Questa maggiore apertura, nel periodo protoellenistico, verso un nuovo tipo di anatomia, con il superamento del ‘tabù’ della dissezione di cadaveri umani e della stessa vivisezione, è resa possibile, fuori della Grecia vera e propria, dal milieu socio-culturale e dall’atteggiamento illuminato dei Tolomei. L’opera di Erofilo, discepolo di →Prassagora, che sviluppa un’anatomia sistematica [11] dal titolo Anatome o Anatomica, è tradita solo in frammenti. [12] Erofilo scopre, tra i tendini (neura) i nervi che trasmettono le sensazioni (neura aisthetika) ; studia il collegamento di questi nervi con il midollo spinale e il cervello e ne trae conclusioni ulteriori in relazione al sistema sensoriale e percettivo. La medicina arcaica e quella ippocratica non ignorano l’esperimento e la dissezione, ma, a queste pratiche si attribuisce una valenza conoscitiva modesta : le dissezioni sono effettuate con ogni probabilità su animali piuttosto che sull’uomo, e, in ogni caso, mai su esseri viventi : specialmente dagli →empirici persino il valo 





























re conoscitivo di queste pratiche viene messo in dubbio. La pratica della dissezione di esseri umani viventi è legata soprattutto al nome di Erasistrato, originario di Ceo – paradossalmente nessuno degli scienziati ‘alessandrini’ era nato ad Alessandria –, che, come Erofilo, aveva trovato nel Museo e nei sovrani mecenati mezzi e incoraggiamento per studiare e superare le conoscenze della tradizione. Anche l’opera di Erasistrato ci è conservata solo in frammenti :[13] lo studioso prende in considerazione, attraverso l’anatomia, anche fenomeni patologici. Sull’anatomia di Erasistrato si basa assai verosimilmente lo scritto ippocratico Sul cuore [14] relativo alle valvole cardiache e alla loro funzione e ascrivibile presumibilmente a età ellenistica. Anche il trattato ippocratico breve di anatomia [15] si differenzia, per lingua e contenuto, dai rimanenti trattati del Corpus Hippocraticum e appartiene ad un periodo più tardo. I medici del iii sec. a.C. non difettano certo di quella coscienza professionale che traspare nell’opera di Celso ; eppure non ci sono conservate testimonianze su quale fosse il loro punto di vista professionale sulla dissezione. Così, se per un verso, vi sono testimonianze di una chirurgia in qualche modo temeraria, dall’altra vengono applicate nuove tecniche capaci di salvare vite umane. La scuola empirica, fondata da →Filino di Cos, è contraria ad ogni tipo di ricerca teorica che non sia concretamente finalizzata : non prevede lo studio dell’anatomia in sé, ma una anatomia fondata sulle dissezioni : tuttavia le osservazioni acquisite sui cadaveri, la cui ricerca stessa, anche se non crudele come la vivisezione, era turpe (foeda), non erano poi applicabili agli uomini vivi e dunque non erano utili per la medicina : gli Empirici postulavano inoltre una ricerca anatomica legata al casus. [16] Per gli Erofilei il ruolo dell’anatomia era polemicamente posto in discussione. [17] I →Metodici arriveranno a pensare di poter fare del tutto a meno dell’anatomia. [18] In epoca romana l’anatomia con dissezioni di cadaveri è ritenuta utile per la medicina, ma l’insegnamento della disciplina non è più molto praticato. Per gli Ermetici l’anatomia è ritenuta manifestazione di una curiosità umana insaziabile. [19] In Alessandria per l’insegnamento dell’ars sono utilizzati degli scheletri. [20] Nel periodo successivo, ii sec. a.C.- ii sec. d.C., l’anatomia acquista un ruolo determinante nella scienza medica : si registrano scritti di mole rilevante, come la nomenclatura di →Rufo di Efeso e alcune ope 

























anatomia re di →Galeno, come Anatomicae administrationes e De usu partium) ; ma la disciplina è più incentrata sul corpo o sul cadavere dell’uomo, anche se è legata prevalentemente allo studio del corpo degli animali, soprattutto scimmie e suini. L’osservazione praticata sul corpo umano è piuttosto occasionale : per Galeno stesso la ricerca anatomica sull’uomo è possibile solo attraverso lo studio di cadaveri di nemici caduti in battaglia, di condannati alla pena capitale o vittime di assassini, su corpi di bambini esposti (oppure su feriti nei ludi gladiatorii, su corpi dilaniati dalle belve nel circo etc.) ; [21] è consentita anche l’osservazione attenta di ferite o interventi chirurgici. Galeno utilizza una anatomia funzionale ; scrive una Introduzione voluminosa alla disciplina). [22] Sono celebri, di Galeno, le ‘pubbliche dimostrazioni’, cioè esecuzioni spettacolari davanti a un pubblico di addetti ai lavori e di profani, di dissezioni di animali vivi o morti. Per l’anatomia di età bizantina sarà sufficiente citare Teofilo Protospatario, che si rifà per lo più a testi di Galeno. Ci sono indizi, per i secc. iv-xii, per cui si ammette la dissezione di cadaveri al solo fine di acquisire conoscenze scientifiche di anatomia. Nella presente trattazione si prenderanno in esame i seguenti elementi anatomici : →scheletro ; 2. Anatomia esterna (2.1. parti anteriori, 2.2. Visione da tergo) ; →capo ; 3.1. Anatomia del collo e del tronco (parte superiore).3.2. Anatomia del tronco (parte inferiore) ; →cervello ; →occhio ; →nervi ; →polmoni ; →cuore ; →reni ; →stomaco ; →fegato ; →milza ; →intestino ; →ventre ; →vescica ; →organi genitali ; →liquidi organici  



   









































Note. [1] Cael. Aur. acut. 1, 8, 57. – [2] Arist. ha 3, 3, 513b, 26-28. A – [3] vm 22 / 1, 626 L. – [4] Art. 30 / 4, 140-144 L. – [5] Hp. Epid. 6, 4, 6 / 5, 308 L. – [6] Cfr. Gal. Anat. admin. 2, 1 / 2, 282 K. – [7] F 295-324 Gigon : lo scritto non ci è pervenuto. – [ 8] Cfr. HA 2, 1.497 b 17. – [9] HA 3, 1. 509 b 22 ; 511 a 13. – [10] Gal. In Hipp. Nat. hom. 2, 6 / 15, 134 K. – [11] Anon. Lond. 21, 22s. – [12] Si veda, per l’edizione, von Staden 1989. – [13] (Garofalo 1988. – [14] Cord. / 9, 76-92 L. – [15] Anat. / 8, 538-541 L. – [16] Cels. i Prooem. 42-44 / 24 M. – [17] Apollon. Cit. 3, 23. – [18] Gal. Meth. med. 5, 10 / 10, 349 K. – [19] Corp. Herm. F. 23 / Festugière 4, 15. – [20] Gal. Anat. admin. 1, 2 / 2, 220 K. – [21] Cfr. Gal. Anat. admin. 3, 5 / 2, 385 K. ; Comp. med. per gen. 3, 2 / 13, 604 K. – [22] Anat. admin. 2, 215-731 K.  





Fonti. Hp. vm 22/1, 626 L ; Anat. Carn. Oss. ; Arist. ha 2, 1 ; 497, b 17 ; 3, 1 ; 509 b 22 ; 511 a 13 ; 3, 3. 513b,  













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26-28 ; Diocl. Anat. ; Erasistr. Cord. 9, 76-92 L. Cels. 1, Prooem. 42-44/24 M ; Gal. Anat. admin. / 2, 215-731 K ; 3, 5 / 2, 385 K ; Meth. med. 5, 10 / 10, 349 K ; Comp. med. gen. 3, 2 / 13, 604 K ; Cael. Aur. acut. 1, 8, 57 ; Corp. Herm. F 23 / Festugière 4, 15.  















Bibliografia. André 1991 ; Craik 1998 ; Dumenil 1998 ; Edelstein 1967a ; Garofalo 1988 ; Garofalo 1994 ; Hellmann 2004 ; Kollesch 1997 ; Kudlien 1963 ; Kudlien 1968a ; Kudlien 1969 ; Lloyd 1987, 158-167 ; Marcovecchio 1993 ; Mazzini 1997, 211-252 ; Nutton 1996f ; Oser Grote 2004 ; Rütten 1996 ; Scarborough 1976a ; Selinger 1999 ; von Staden 1989 ; von Staden 1995 ; Stückelberger 1998.  









































2. Anatomia esterna 2.1. Parti anteriori. – Le parti anatomiche esterne del corpo, viste anteriormente, citate da Celso, per lo più nel l. viii, con andamento a capite ad calcem, sono : nuca (uertex, gr. korufhv, Cels. 8, 1, 1 / 363 M) ; tempia (tempus, gr. krovtafo~, 2, 6, 1 / 55 M) ; guance (malae, 2, 7, 35 / 66 M, gr. aiJ a[nw gnavqoi 8, 1, 4 / 363-364 M ; maxillae, gr. aiJ kavtw gnavqoi 8, 1, 7 / 364 M ; mento (mentum, gr. gevnue~, 8, 1, 7 / 364 M) ; omero (umerus, gr. bracivwn, 8, 1, 14-19 / 370-371 M) ; muscolo dell’omero (lacertus uel musculus umeri, gr. oJ tou` bracivono~ provsqio~ mu`~, 8, 10, 7B / 394 M ; 8, 16, 3 / 404 M) ; braccio (brachium, gr. ph`cu~, 2, 10, 14 / 79-80 M), torace (thorax, gr. qwvrax, 3, 19, 1 / 127 M) ; mammella (mamma, gr. mastov~, 2, 7, 16 / 62 M) ; petto (pectus, gr. sth`qo~, 2, 1, 10,) ; addome (abdomen, gr. uJpogavstrion, 4, 1, 13,) ; palma (palma, gr. qevnar, 8, 19 / 405-406 M) ; fianco destro (latus dextrum, gr. to; pleuro;n to; dexiovn, 2, 3, 1 / 51 M) ; ileon (ilia, gr. lagovne~, 7, 18, 11 / 337 M) ; inguine (inguen, gr. boubwvn, 2, 7, 10 / 61 M) ; pube (pubes, gr. h\tron, 2, 3, 1 / 51 M) ; cavolo (organo, coles, gr. kaulov~, 2, 7, 14 / 61-62 M), scroto (scrotum, gr. o[sceon, 7, 18, 2 / 335 M cheon Graeci, scrotum nostri uocant) ; femor (femur, gr. mhrov~, 8, 1, 25 / 372 M) ; gamba (crus, 2, 3, 1, gr. skevlo~, 2, 3, 1 / 51 M) ; ginocchio (genu, gr. govnu, 8, 20, 5, 7 / 407-408 M) ; gamba, parte inferiore (crus, 2, 7, 21, gr. knhvmh, 2, 7, 21 / 63 M). Per una efficace illustrazione dell’anatomia esterna delle parti anteriori si veda Cels. ed. Fr. Marx, Lipsiae et Berolini 1915, cml 1, tav. p. 368. 2.2. Visione da tergo. Occipite (occipitium, gr. ijnivon, Cels. 8, 1, 1 / 363 M) ; cervice (ceruix, gr. aujchvn, 2, 6, 7 / 254 M) ; ascella (ala, gr. mascavlh, 8, 15, 3 / 402 M) ; scapola (scapula, gr. nw`ton, 2, 8, 7 / 68 M) ; gomito (cubitus, gr. ajgkw`n, 8, 16, 1  



















































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anatomia veterinaria

/ 403 M ; Hp. de fract. 37 ; ano (anus, gr. e{dra, 6, 18, 7 / 294 M) ; lombi (lumbi, gr. yovai, 4, 1, 5 / 150 M) ; glutei (clunes, gr. gloutoiv, 7, 29, 8 / 358 M) ; poplite (poples, gr. ijgnuva, 8, 21, 2 / 408 M) ; tallone (talus, gr. sfurovn, 8, 22 / 409 M) ; calcagno (calx, gr. ptevrnh, 8, 20, 2 / 406 M). Per una efficace illustrazione dell’anatomia esterna, con visione da tergo, si veda Cels. ed. Fr. Marx, Lipsiae et Berolini 1915, cml i, tav. p. 369.  













ventricolo (uentriculus, gr. koiliva, Cels. 4, 1, 3 ; 4 ; 5 ; 6 ; 9 etc. / 147-150 M) ; piloro (porta uentriculi, gr. pulwrov~, 4, 1, 7 / 150 M : 4, 19, 1/ 173 M ;) ; intestino (intestinum, gr. e[nteron, 7, 14, 1 / 330 M,) ; intestino tenue (tenuius intestinum, gr. lepto;n e[nteron, 2, 1, 8 / 47 M ; 4, 1, 8 / 150151 M ; 4, 20, 1/ 174 M) ; intestino crasso ad anse (crassum intestinum sinuatum) ; intestino più rilasciato maggiore, (intestinum laxius maius, id est colum, gr. kw`lon, 1, 7, 1 / 40 M e passim ;) ; intestino più crasso, più pieno (intestinum crassius, plenius, gr. pacu; e[nteron, 1, 7 / 40 M ; 2, 12, 2A / 81 M ; 4, 1, 8 /150-151 M. 20, 1/ 174 M ; Cael. Aur. chron. 2, 1, 11 ; 4, 6, 86) ; intestino cieco (intestinum caecum, gr. tuflo;n e[nteron, 4, 1, 8 / 150-151 M) ; intestino retto (intestinum rectum, gr. ajpeuqusmevnon, 4, 1, 9 ; 8, 1, 23 longanōn, Cael. Aur. chron. 2, 1, 11 ; 4, 6, 86). Per una efficace raffigurazione di questa parte dell’anatomia si veda Cels. ed. Fr. Marx, Lipsiae et Berolini 1915, cml i, tav. p. 149.  



























Fonti. Per la parte anteriore, luoghi celsiani : 2, 1, 10 / 47 M ; 2, 3, 1 /51 M ; 2, 6, 1 / 55 M ; 2, 7, 10 / 61 M ; 2, 7, 14 /61-62 M ; 2, 7, 21 / 63 M ; 2, 10, 14 / 7980 M ; 3, 19, 1 /127 M ; 4, 1, 13 /151 M ; 7, 18, 2 / 335 M ; 7, 18, 11 / 337 M ; per la visione da tergo, luoghi celsiani : 2, 5, 2 / 54-55 M ; 4, 1, 1 / 147 M ; 6, 18, 7 / 294-295 M ; 8, 16, 1 / 403-404 M.  































Bibliografia. André 1991 ; Craik 1998 ; Duminil 1998, 199-206 ; Garofalo 1994 ; Hellmann 2004 ; Kollesch 1997 ; Marcovecchio 1993 ; Mazzini 1997, 211-252 ; Nutton 1996f ; Oser Grote 2004 ; Rütten 1996 ; von Staden 1995 ; Stückelberger 1998, 287-308.  























3.1. Anatomia del collo e del tronco (parte superiore). – Carotide sinistra (carotis sinistra, gr. karwti;~ ajristerav, 4, 1, 2 / 147 M) ; carotide destra (carotis dextra, gr. karwti;~ dexiav, 4, 1, 2 / 147 M) ; costole (costae, gr. pleuraiv, 8, 1, 11 / 366 M) ; fibra destra/sinistra del polmone (pulmonis fibra dextra/sinistra, gr. pneuvmono~ lobov~ dexiov~/ajristerov~, cfr. 4, 1, 4-5 / 147 e 150 M) ; ventricolo destro del cuore (cordis uentriculus dexter, gr. kardiva~ koiliva dexiav, Cels. 4, 1, 3-4 / 147 M, Poll. 2, 217) ; ventricolo sinistro del cuore (cordis uentriculus sinister, gr. kardiva~ koiliva ajristerav, 4, 1, 3-4 / 147 M). Per una efficace illustrazione di questa parte anatomica si veda Cels. ed. Fr. Marx, Lipsiae et Berolini 1915, cml i, tav. p. 148.  

   





Fonti. Celso 4, 1, 3 ; 4 ; 5 ; 6 ; 9 etc. / 147-150 M ; inoltre Poll. 2, 217.  









Bibliografia. André 1991 ; Craik 1998 ; Duminil 1998, 199-206 ; Garofalo 1994 ; Hellmann 2004 ; Kollesch 1997 ; Marcovecchio 1993 ; Mazzini 1997, 211-252 ; Nutton 1996f ; Oser Grote 2004 ; Rütten 1996 ; von Staden 1995 ; Stückelberger 1998, 287-308.  























3.2. Anatomia del tronco (parte inferiore). – Diaframma (transuersum saeptum, gr. diavfragma, Cels. Prooem. 42 / 24 M ; Poll. 2, 219 ; petto (pectus, gr. frevne~, sth`qo~, 4, 1, 4 / 147 M e passim) ;  























Fonti. Le fonti sono soprattutto i passi di Celso e di Celio Aureliano ora citati. Bibliografia. André 1991 ; Craik 1998 ; Duminil 1998, 199-206 ; Garofalo 1994 ; Hellmann 2004 ; Kollesch 1997, 367-373. ; Marcovecchio 1993 ; Mazzini 1997, 211-252 ; Nutton 1996f ; Oser Grote 2004 ; Rütten 1996, 561-582. ; von Staden 1995 ; Stückelberger 1998, 287-308.  























→scheletro ; →cranio ; →cervello ; →occhio ; →nervi ; →polmoni ; →cuore ; →reni ; →stomaco ; →fegato ; →milza ; →intestino ; →ventre ; →vescica ; →organi genitali ; →liquidi organici  





























Sergio Sconocchia Anatomia veterinaria. 1. Cenni storici. – Veg. Mul. 3 Prologus 245 : Sicuti medicorum prima doctrina est humani corporis parietes organumque cognoscere, ita necessarium mulomedicis de ossibus, de nervis ac venis iumentorum universa perdiscere. Neque enim curare rationabiliter potest, qui qualitatem rei, quam curat, ignorat. Le nozioni provenienti dagli studi anatomici sugli animali, fin dall’epoca omerica, sono state utilizzate anche nel campo medico poiché la pratica della dissezione di cadaveri umani non era ammessa. L’anatomia veterinaria antica si occupava dei cavalli e degli armenti ; l’intento con cui venivano sezionati animali morti o vivi era quello di analizzare lo stato patologico dei vari organi, ma anche di approfondire le conoscenze  



anatomia veterinaria sulla fisiologia e lo studio sui principi primi della vita animale. Fino ad →Aristotele, le concezioni anatomiche greche furono scarse e poco attendibili. Lo Stagirita fu il primo ad usare il metodo dell’anatomia comparata. Le conoscenze di Aristotele rimangono pressoché le stesse di tutti i veterinari ed i mulomedici fino a →Galeno anche se alcune notizie interessanti e nuove si avranno nei manuali veterinari di epoca tardo-antica. Lo Stagirita, primo tra gli autori antichi, descrive i quattro stomaci dei ruminanti, la ruminazione, la molteplicità della placenta e nota la mancanza della vescichetta biliare nel cavallo, di cui sa stabilire l’età dall’esame della dentizione. Sarà Galeno ad imprimere nuova forza a questo ramo della veterinaria approfondendo le conoscenze sull’anatomia dei buoi ed il loro sistema nervoso. Egli, inoltre, attraverso la dissezione delle scimmie e dei cani, portò nuova chiarezza alla miologia in generale ed alla conoscenza del sistema nervoso e del cervello. Anche se fin da Aristotele tanta importanza ha assunto lo studio del cavallo e della sua anatomia, l’analisi degli organi interni di tutte le specie addomesticate per l’allevamento sarà approfondito nella letteratura greca con sempre maggiore interesse. Quando il cavallo diventerà indispensabile non soltanto alla vita quotidiana, ma anche nell’arte della guerra, interi manuali saranno scritti per salvaguardarne la salute e per dare consigli a chi ne volesse acquistare un esemplare. Si svilupperà, quindi, un interesse preponderante per lo studio anatomico degli equini che sarà basato principalmente sulle caratteristiche esteriori dell’animale piuttosto che su uno studio approfondito degli organi interni. La scarsa conoscenza della fisiologia degli animali da allevamento, infatti, ha contribuito alla teorizzazione di tecniche curative che, molto spesso, causavano più danni che guarigioni. In merito basti pensare alla comune pratica di far assumere per via nasale al cavallo malato beveroni che rischiavano di causare all’animale, già provato fisicamente, anche gravissime crisi respiratorie ed infezioni all’apparato respiratorio e polmonare. Negli studi anatomici antichi ha fatto la sua comparsa (seppure in maniera del tutto embrionale) anche l’anatomia patologica, cioè lo studio delle lesioni esterne ed interne causate all’animale dalle varie affezioni. Di questo ramo si sono particolarmente interessati gli autori di

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veterinaria d’epoca tardo antica come →Chirone e →Vegezio, ma anche gli autori degli Hippiatrica greci. 2. Apparato scheletrico. – Gli animali che sono stati sottoposti a maggiori studi circa il loro apparato scheletrico sono indubbiamente gli equini. Per questo particolare argomento, infatti, gli studi di veterinaria si scindono in due rami : l’ippiatria propriamente detta (cioè gli studi sui cavalli ed in minore misura sui muli) e l’ars veterinaria vera e propria, cioè la cura e l’allevamento degli animali da fattoria quali gli armenti, gli ovini, i caprini ed i suini. In questo secondo ed ampio campo di studi pochissime sono le notizie sull’apparato scheletrico degli armenti, fanno eccezione gli studi sulla dentizione, il palco corneo e la podologia. Per questa seconda sezione ci affideremo quasi esclusivamente ad Aristotele con l’Historia animalium, De partibus animalium e De motu animalium, ai trattati di agricoltura di →Columella (libri sesto e settimo), a →Plinio con la sua Naturalis historia, a →Palladio e la sua De veterinaria medicina, a Vegezio con il suo Digesta artis mulomedicinalis ed a Chirone con la sua Mulomedicina. Da questi autori, fatta eccezione per Aristotele, Plinio e Columella, è possibile ricavare solo notizie frammentarie sull’apparato scheletrico degli armenti e degli altri animali da allevamento, mentre gli altri autori, ma soprattutto Aristotele, dedicano a questo argomento maggiori attenzioni. Per quanto riguarda, invece, l’apparato scheletrico dei cavalli abbiamo ampie e numerose notizie da quasi tutti gli autori che trattano di ippiatrica. Queste informazioni sono raccolte in due forme distinte : sia in capitoli a sé stanti all’interno dei testi come, ad esempio, in quello di Vegezio (libro terzo), sia nel momento della trattazione riguardante i consigli da seguire per l’acquisto di un cavallo alle fiere. In questo secondo caso, inoltre, si fanno nette distinzioni tra la corporatura di un cavallo adulto da acquistare per i giochi, per la cavalleria da guerra, per i lavori in una fattoria o più semplicemente per le parate. Infine, altre ed importanti nozioni sugli apparati scheletrici si hanno quando viene trattato l’argomento dell’acquisto e dell’addomesticamento di un puledro. Altre informazioni possono essere ricavate nei passi dedicati alla podologia ed all’ortopedia. L’apparato scheletrico equino, quindi, avrà maggiore risalto in opere dedicate quali il Peri;  



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anatomia veterinaria

iJppikh`~ di →Senofonte, gli Hippiatrica, l’Ars Veterinaria di →Pelagonio, la →Mulomedicina C hironis e di →Vegezio piuttosto che nelle opere di più ampio respiro come in Aristotele, Catone, Columella, Varrone e Plinio. Qui di seguito alcune immagini con didascalie che esplicitano la terminologia latina e moderna dell’apparato scheletrico, l’anatomia esterna equina, ed i termini greci delle principali ossa del sistema scheletrico con una loro breve trattazione. Per l’analisi delle principali ossa componenti uno scheletro equino si procederà dal cranio alla coda. Cranio [kranivon, caput]. Nella grecità è attestato il termine kranivon ; nella latinità, invece, non esisteva il corrispettivo termine inteso come struttura ossea cranica, ma soltanto il concetto di ‘parte superiore del muso’. Questo stesso concetto in greco viene espresso con le parole kefalhv, korufhv ed in latino con i termini cerebrum e caput, ma l’ambiguità persiste fino alla latinità anche tarda. Aristotele specifica  

meglio l’area semantica in esame quando, nel De partibus animalium, [1] scrive : «l’osso intorno alla testa – quello che alcuni chiamano bregma – è il più tardo a solidificarsi : questo non accade a nessuno degli altri animali sanguigni [si riferisce all’uomo]». Egli, dunque, riconosce l’esistenza di un osso cranico chiamato bregma ; inoltre, sempre in riferimento all’uomo, ma anche al genere maschile degli animali vivipari afferma che [2] «[Il maschio] inoltre, ha moltissime suture, più delle femmine». Esplicativa è la descrizione aristotelica della testa dei vivipari dell’Historia animalium : «Parti della testa : la parte coperta con i capelli è chiamata cranio. La parte anteriore di questo è chiamata bregma (sinciput) che si completa per ultima – esso è l’ultimo di tutte le ossa a solidificarsi ; la parte posteriore della testa è l’occipite e la parte tra il bregma e l’occipite si chiama nuca (la parte più alta del cranio). Al disotto del bregma c’è il cervello. La nuca è vuota ; tutto il cranio è formato da un osso sottile, arrotondato nella  

















Fig. 1. Apparato scheletrico da Black’s veterinary Dictionary, London, 1985.

anatomia veterinaria forma e coperto da pelle senza grasso. Nelle femmine il cranio ha una sola sutura circolare ; nei maschi generalmente vi sono tre suture che si incontrano in un punto […] [3] ». Già con Aristotele erano state denominate tutte le parti che compongono il cranio di un animale a sangue caldo e viviparo, ma in un autore come Senofonte, certamente meno interessato alla descrizione minuziosa delle parti che compongono il cranio animale, troviamo soltanto i termini più generici e conosciuti quali korufhv e kefalhv : « Inoltre una nuca più ampia e orecchie più piccole danno alla testa un aspetto più caratteristico di un cavallo [4]» così come una descrizione sommaria delle ossa craniche : «Bisogna poi lavare bene con l’acqua la testa, essendo fatta di ossa, se, infatti, la si pulisse con (un arnese di) ferro o con (un arnese di) legno questo ferirebbe il cavallo [5]». L’uso della parola cerebrum nella medicina veterinaria latina è vario, ma la maggior parte delle volte indica esclusivamente il cervello. In alcuni casi specifici e di epoca tarda questo termine si riferisce alla parte esterna della testa : come in Chirone dove, dato il contesto, cerebrum non può stare ad indicare il cervello bensì la scatola cranica che lo contiene. [6] Lo stesso accade anche per il cranio delle pecore : [7] «Per purificare la testa degli animali da soma attraverso le narici immetti in una giornata serena con il sole caldo pulverem e ungi con olio la parte dei reni e del cranio [parte superiore della testa]» ed in alcuni passi dell’opera di Pelagonio quando l’autore sta descrivendo una commozione cerebrale dovuta ad un evento traumatico. [8] Anche in questi casi il termine cerebrum sta ad indicare la scatola cranica più che il cervello in sé. Nei testi di medicina umana, e più nello specifico nei primi manuali, cerebrum indicava la parte frontale del cranio a difesa del cervello, mentre nel latino colloquiale questo termine, talvolta, sottintendeva il concetto di cranio nella sua complessità. L’uso della parola cerebrum inteso come ‘parte frontale esterna della testa a protezione del cervello’, nella medicina veterinaria, si ritrova anche in Chirone dove vengono descritti due trattamenti da applicare in cerebrum ed inter auriculas. [9] L’uso del termine in questo contesto potrebbe far propendere per cerebrum inteso come ‘la parte esterna tra le orecchie’ o banalmente la ‘fronte’. Vegezio fu consapevole della potenziale ambiguità della parola cerebrum (usata dal suo predecessore[10])  

















   





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tanto che (nel descrivere una grave lesione alla testa tale da danneggiare anche il cervello) si è spinto a rendere esplicita la distinzione tra caput inteso come testa nel suo complesso e cerebrum indicante, invece, l’organo interno. [11] Entrambi questi autori usano il diminutivo di caput per indicare la testa di animali di piccola taglia quale appunto l’agnello : Chirone scrive capitulum, [12] mentre Vegezio usa capitellum. [13] Tra gli autori di epoca tarda è Chirone che ci offre una descrizione attenta della testa degli armenti : «Questa malattia del sangue che i Greci chiamano diaftoram arriva alla testa attraverso la membrana del cervello e attraverso le vene con lo sfregamento [14]». Chirone, dunque, sembra voler indicare con caput la parte superiore del muso dell’animale e con cerebrum ciò che vi è all’interno. In questo secondo caso, però, cerebrum può stare ad indicare sia il cervello sia la scatola cranica che lo contiene. 3. Anatomia della testa [kefalhv, caput]. – In questa voce verranno analizzati : nuca - cervello - orecchio - occhio - bocca - mandibola - dentizione - muso - narici - collo. Specifici del cavallo : dentizione. Nuca [korufhv, cervix]. Nella veterinaria greca con la parola korufhv si intendeva la parte più alta del collo compresa tra le orecchie, quindi, la parte più alta della testa. Senofonte descrive l’importanza, per un cavallo armonioso nelle sue parti, di una nuca proporzionatamente più grande delle orecchie [15] ed accenna al portamento di un cavallo con una bella stazza a partire proprio dal collo : «A salire dal petto il collo non deve protendersi in avanti, come in un cinghiale, ma deve rimanere dritto fino alla nuca, come quello di un gallo, flessibile, inoltre, nella vicinanza della giuntura (con la testa sott.), invece, la testa pur ossuta dovrebbe avere mascelle piccole [16]». Aristotele nell’Historia animalium descrive in maniera succinta, ma efficace, la zona della nuca. [17] Lo Stagirita nel De partibus animalium, inoltre, usa più di una perifrasi per indicare questa parte della testa [18] – «la zona posteriore di essa [testa] non contiene cervello, eppure è ugualmente priva di carne […]». Per quanto riguarda, invece, la latinità, pur essendo ben riconosciuta la parola cervix come nuca, bisogna pure sottolineare che questo termine, in alcuni casi specifici di epoca tardo-antica, assume anche il significato di una parola tecnica, come zona posteriore del collo da cui dipartono la giugulare ed i nervi che tendono le vertebre. [19]  



























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anatomia veterinaria

Cervello [ejgkevfalo~, cerebrum]. Il concetto di cervello inteso come il ‘contenuto della testa’ è invariato sia nella veterinaria greca sia in quella latina, ma traslazioni semantiche si hanno per quanta riguarda le funzioni e la natura del cervello così come il suo essere simile o meno al midollo spinale. Aristotele non conosceva a fondo il sistema nervoso ed il cervello ma lo considerava la sede dell’anima. Egli aveva riconosciuto le due membrane dette mh`nigx, la prima situata direttamente sul cervello, l’altra, invece, sull’osso cranico, infine aveva anche riconosciuto la parte finale del cervello detta ‘cervelletto’ paregkefaliv~. Nella Historia animalium Aristotele scrive : «Prima di tutto il cervello si trova nella parte frontale della testa […]. Tutti gli animali con il sangue ne hanno uno […], ma per la sua dimensione, gli uomini hanno il cervello più grande e più umido (uJgrovtaton). Il cervello è circondato da due membrane (uJmevne~) : la prima che circonda l’osso cranico è più consistente (ijscurovtero~, dura mater) della seconda che circonda il cervello stesso ed è un po’ ‘meno forte’ (pia mater). In tutti gli animali il cervello è doppio. Dietro il cervello, all’estremità posteriore vi è il cervelletto (paregkefaliv~) […]. In tutti gli animali il cervello è privo di sangue (a[naimo~) ; non c’è alcun vaso sanguigno ed esso sembra per natura freddo al tatto (kata; fuvsin yucrov~). In molti animali c’è una piccola cavità nel mezzo. La membrana (mh`nigx) che lo circonda è ricoperta da vasi sanguigni (flebwvdh~) : questa è come una pellicola (uJmhvn) di pelle (dermatikov~) che circonda il cervello. Sopra questo c’è l’osso più sottile del cranio chiamato appunto bregma». [20] Nel De partibus animalium Aristotele aggiunge qualche altra informazione sul cervello distinguendo la sua natura da quella del midollo spinale. [21] La più grande differenza tra queste due parti consiste nella loro natura opposta : laddove il cervello è freddo per natura, il midollo, essendo il residuo interno maturato dal nutrimento sanguigno, è, per sua stessa definizione e natura, caldo. In merito al sistema nervoso ed a maggiori approfondimenti sull’organo del cervello si veda →Medicina e →Galeno. Per quanto riguarda, invece, la latinità, il termine cerebrum indicava tanto la testa quanto l’organo interno. Nella medicina veterinaria tale termine viene usato nella maggior parte delle volte per indicare il cervello, ma in alcuni casi particolari anche per indicare  











il cranio. Per quanto riguarda questa seconda tipologia di significato si veda cranio, ma per cerebrum inteso come cervello si vedano, tra i tanti esempi, i testi di Vegezio, che ha specificato l’area semantica di caput e di cerebrum per la veterinaria. In alcuni suoi passi, infatti, è possibile notare la distinzione tra il termine caput che indica la testa nel suo complesso, le nares che sono i canali attraverso i quali i veterinari tenteranno di far arrivare i medicamenti all’interno dell’animale (a volte anche con gravissimo danno per la salute dell’animale stesso) ed il cerebrum che si trova all’interno del cranio insieme agli altri interna, tra i quali si deve sicuramente leggere la membrana che ricopre il cervello stesso. [22] In Chirone, pur non essendo presente tale distinzione semantica, si fa riferimento alla membrana cerebrale. [23] 4. Apparato uditivo – Orecchio [ou\~, auris, auricula]. – Aristotele [24] descrive l’apparato uditivo esterno dei quadrupedi vivipari correggendo anche l’affermazione di Alcmeone secondo il quale le orecchie delle capre avrebbero avuto facoltà respiratorie. In merito all’uso di termini strettamente tecnico-anatomici annoveriamo lobov~ usato per indicare la parte dell’orecchio interamente formato da carne e cartilagine cioè il ‘lobo’. Rimanendo nel campo dell’anatomia comparata Aristotele nel De partibus animalium precisa come la posizione delle orecchie nei quadrupedi sia solo apparentemente diversa da quella dell’uomo poiché l’asse che va dalla testa alla coda dei quadrupedi è simile a quella dell’uomo dalla testa alla fine della schiena. Nella latinità si trova tanto il sostantivo auris quanto il diminutivo auricula. Quest’ultimo, però, che indica in genere l’orecchio ammalato, sostituisce raramente auris, che continua a predominare fino ad epoca molto tarda quando auricula diventa di uso comune. Eccezione è la Mulomedicina Chironis, [25] dove troviamo auris più di auricula. C’è dunque sinonimia tra i due termini nella letteratura latina, ma in alcuni casi, quando gli autori vogliono far riferimento a zone anatomiche specifiche, auris è da intendersi come l’organo dell’orecchio, mentre auricula come una sua parte: nei testi medici auricula è usato per indicare l’interno dell’orecchio (in riferimento ad esempio ad una parte dell’organo colpita da malattia). Nella medicina veterinaria auricula è genericamente preferito ad auris : il primo termine, pur essendo originariamente  







anatomia veterinaria un diminutivo, è riferito all’organo uditivo degli animali senza che esso stia a sottintendere un significato specifico o una particolare zona. È usato generalmente per indicare la parte esterna delle orecchie dei cavalli e Columella lo usa sia in riferimento all’apparato uditivo esterno degli armenti [26] sia degli ovini [27] sia dei suini. [28] Eccezione nella tarda latinità è il manuale di Pelagonio dove l’uso di auris è più frequente di auricula, [29] perché preferito da Pelagonio nel nesso [30] in + acc. Per l’apparato uditivo accenniamo solo alla conformazione dell’orecchio interno degli animali e del loro ‘modo di sentire’ secondo Aristotele[31] (in merito si veda →zoologia). Secondo lo Stagirita, l’orecchio, internamente, ha la forma di una conchiglia (strovmbo~) ; la parte più profonda è costituita da un osso simile all’orecchio e attraverso questa parte il suono si fa strada così come quando giunge alla fine di un vaso. Questo ‘vaso’ non ha un canale diretto con il cervello ma passa attraverso il palato e da questo poi parte una vena che arriva fino al cervello. Occhio [ojfqalmov~, o[mma, oculus]. Così i Greci lo descrivevano : una parte interna detta pupilla o kovrh, l’iride riconosciuta come la parte interna nera e che circonda la zona colorata detta to; mevlon, e la parte bianca detta sclera o to; leukovn. Aristotele, [32] inoltre, sottolinea come «La vista in tutti gli animali che la possiedono, si trova presso l’encefalo per una buona causa [...]. Inoltre poiché il movimento è in avanti la vista è in linea retta : ecco perché (la vista) è posta nella parte anteriore del corpo e nella parte alta del muso». Per quanto riguarda, invece, lo studio anatomico dell’occhio, lo Stagirita risulta meticoloso sia nell’Historia animalium sia nel De partibus animalium quando descrive anche le due palpebre (fuvlax, blefariv~). [33] Secondo Aristotele le palpebre sono a protezione dell’occhio e non sono fatte di pelle dura perché altrimenti gli animali non avrebbero una vista così acuta. Senofonte, per indicare l’organo oculare, usa il termine o[mma oltre che ojfqalmov~. [34] Per quanto riguarda, invece, la veterinaria latina, gli studi sull’occhio sono approfonditi quando trattano delle malattie che lo possono colpire : in particolare l’oculus percussus, l’oculus albus, l’albugo, ed i vari colpi che l’occhio può subire sia in battaglia sia durante il lavoro nei campi. Chirone è, tra gli autori di epoca tarda, il più prodigo di termini  























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che si riferiscono all’occhio. Nella sua opera, infatti, oltre ad ocularis, ocularium, oculus, sono attestati glaucoma cataratta, palpebra palpebre, supercilium sopracciglia, bulbus bulbo oculare, membrana membrana oculare. [35] 5. Testa. Muso ; naso ; narici [provswpon, rJiv~, mukthvr, rostrum, nares]. – Aristotele non solo individua con precisione l’area delle narici, mukth're~, ma, nel darne una definizione, ne sottolinea subito l’importanza per la respirazione. [36] Egli usa provswpon per indicare il muso e rJiv~ per il naso. Senofonte è forse meno accurato quando indica con provswpon [37] il muso e con mukth're~ [38] le narici del cavallo senza nominare l’organo che le comprende ovvero il naso. Nella veterinaria latina il muso dell’animale, rostrum, è nettamente distinto dalla parte comprendente le narici, nares, ma, come sottolinea Adams, [39] il termine rostrum, nel latino tardo, individua tutta l’area del muso comprendendo anche le cavità delle narici. Bocca ; mandibola [stovma, siagwvn, fauces, maxilla]. Aristotele nel De partibus animalium [40] scrive che «sotto le narici, negli animali con sangue e denti si trovano le labbra e la lingua sotto il palato, in modo simile in tutti gli animali terrestri». Infine, afferma che «negli animali si trova la natura dei denti, e anche quella della bocca, che è circondata da essi e ne è costituita [41]». Quindi per lo Stagirita la bocca è la parte interna, delimitata e definita nella sua natura e nei suoi limiti dai denti, mentre la zona delle labbra è la parte esterna dello stesso ‘organo’. Per quanto riguarda, invece, le mandibole, dobbiamo prendere in esame l’Historia animalium [42] quando afferma che «vi sono due mascelle (siagovne~ duvo) : la parte anteriore costituisce il mento (gevneion), la parte posteriore la zona delle guance (gevnu~). Tutti gli animali muovono la mascella inferiore (kavtwqen siagovna), tranne il coccodrillo che muove solo quella superiore». Sotto il naso vi sono due labbra (ceivlh duvo), di carni molli (savrx) e mobili (eujkivnhto~). L’interno delle mandibole e delle labbra è costituito dalla bocca (stovma). Questa, a sua volta è costituita dal palato (uJperwv/a) e dalla faringe (favrugx). In Aristotele per indicare palato dunque abbiamo individuato due termini : oujranov~ e uJperwv/a. Nella letteratura veterinaria latina non è possibile rinvenire alcuna differenziazione linguistica tra i concetti di ‘mandibola superiore’ e ‘mandibola inferiore’ così come è ravvisabile nella letteratura medi 

























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ca, sebbene, nei testi mulomedici, il termine maxilla, ricorrendo al plurale ed al singolare, indicava sia la parte immobile sia la parte mobile della dentizione. [44] Usata singolarmente, questa parola, probabilmente, manteneva un retaggio dell’antico significato di ‘parte inferiore [45]’, mentre al plurale, non solo indicava ‘le mandibole’, ma anche tutta la zona che le comprendeva ovvero, le ‘guance [46]’. Fauces, invece, prende il significato di bocca nel senso di apertura verso la trachea [47] e l’esofago, [48] ma anche di tutta la zona compresa tra le orecchie (sotto le narici), quindi la parte della faringe. [49] Probabilmente il termine fauces era usato per indicare la parte esterna, mentre maxilla per la parte interna della zona della bocca [50] sebbene in autori non tardi come Columella [51] fauces sembri indicare la zona finora contrassegnata con maxilla. Denti [ojdouv~, dens ]. In questa sezione parleremo della dentizione del cavallo che in antico ha costituito l’unico modo per accertarne l’età precisa fino ai dieci anni, ma anche la salute, poiché fino ai cinque anni il puledro mantiene ancora alcune tracce della dentatura da latte. Senofonte, in merito, è stato particolarmente prodigo di particolari nel suo trattato sulla cavalleria. Egli infatti afferma che «per prima cosa non può sfuggire l’età di un cavallo (da dover acquistare) che ha perso tutti i denti che indicano l’età [ovvero gli incisivi da latte] (oJ ga;r mhkevti e[cwn gnwvmona~) non fa sperare apprezzamento, né si può vendere facilmente». [52] Aristotele descrive genericamente la dentatura di un cavallo e la scansione temporale della crescita dei denti di un puledro : «un cavallo ha 40 denti. Mette la prima serie di quattro denti, due nella mascella superiore due nella mascella inferiore, all’età di circa due anni e mezzo. Dopo un anno di intervallo mette altri quattro denti, nella stessa maniera, e, sempre ad intervallo di un anno, ne mette altri quattro. Giunto all’età di quattro anni e mezzo non mette più denti. […] Di conseguenza quando un cavallo ha circa quattro anni e mezzo è adatto per l’allevamento». [53] Lo Stagirita prosegue affermando che «il mulo ed il cavallo sono nel pieno del loro vigore fisico quando hanno appena finito di mettere tutti i denti». [54] Sugli animali che compongono una fattoria afferma che «il maiale è l’unico animale che non perde alcun dente [55] […] e che nei cavalli accade il contrario di quanto succede agli altri  



























animali». [56] Anche nella latinità per riconoscere l’età di un cavallo, grande importanza ha avuto la dentizione. Pelagonio, nella sua prima lettera a Falerio, rapporta direttamente la crescita dei denti con l’età del puledro e dà istruzioni precise per acquistare un cavallo senza essere ingannati dal venditore sulla sua età : «durante il secondo anno e mezzo escono i denti incisivi che crescono fino al quarto anno; appena cresciuti questi, si aggiungono quelli che vengono chiamati canini. Entro il sesto anno escono i molari superiori. [...] Al settimo anno sono tutti ugualmente formati e da questo momento in poi iniziano ad incavarsi. Dopo il settimo anno non è più possibile, se non ad un uomo attentissimo ed espertissimo capire che età abbia il cavallo in maniera palese […]». [57] Fonti latine di Pelagonio, per questo passo, sono Varrone e Columella, [58] che, capitolo diciottesimo, elenca il numero dei denti che hanno gli animali domestici : «il cavallo ne ha 42, la cavalla 36, la mula 28, l’asino 32, l’asina 25, il montone 24, il montone castrato 23, la pecora 21, il caprone 25, la capra 19, il toro 26, il toro castrato 24, la mucca 24». [59] Vegezio riporta un elenco simile, [60] ma più dettagliato poiché specifica i nomi propri dei denti che compongono le arcate dentarie : «i denti sono 40, di cui 24 molari (molares), 4 canini (canini) e 12 incisivi (rapaces)». Per quanto riguarda gli incisivi superiori da latte fornisce un ulteriore nome quale, appunto, lactantes [61] così come per l’alveo dentario loculamenta dentium, idem gengivae. [62] Infine, descrive in maniera abbastanza particolareggiata anche la dentizione dei puledri. [63] Anche Chirone aveva costruito uno schema simile per enumerare i denti degli armenti ma meno dettagliato : afferma semplicemente che «i cavalli hanno in tutto tra mascella superiore ed inferiore 40 denti, ma gli asini ed i muli ne hanno 30 praeterquam appendices». [64] Vegezio è più dettagliato di altri autori contemporanei o precedenti; nel terzo libro, fornisce indirettamente informazioni quando indica le tecniche per scoprire l’età di un cavallo nel quinto capitolo intitolato : De indiciis aetatis. Qui di seguito una breve scheda circa i nomi dei denti più importanti : • gnavqo~ – barra della dentatura del cavallo [65] • gnwvmone~ – dentes pueriles – dentes primores – dentes lactantes – denti incisivi da latte • kunovdou~ – dens caninus – dente canino  































anatomia veterinaria • oiJ gomfivoi – dentes maxillares – dentes molares (superiores et inferiores) – dentes genuini molari • oiJ prosqivoi – dens qui secat – medii dentes superiores – dentes acuti – dentes rapaces picozzi (o incisivi). 6. Collo [aujchvn, collum, cervix]. – Con il collo analizzeremo anche gli organi interni che ne fanno parte cioè la trachea, l’esofago, la faringe, la laringe (inserite nell’apparato respiratorio insieme ai polmoni) e le tonsille. Aristotele, sia nell’Historia animalium sia nel De partibus animalium descrive il collo (aujchvn) in funzione della trachea e del tronco, mentre Senofonte in funzione della testa e dell’andatura del cavallo. [66] Quest’ultimo, però, precisa che questa è una delle parti più vitali del cavallo, forse in funzione del fatto che al suo interno vi scorrono la trachea e l’esofago indispensabili per la respirazione. [67] Lo Stagirita considera il collo un prolungamento del tronco, ma nei suoi testi non sembra esistere differenza tra cervice e collo quanto piuttosto tra nuca e parte superiore del cranio. In entrambi gli scritti, Aristotele precisa che il collo è proprio solo di quegli animali che possiedono la trachea, l’esofago e la laringe. [68] Nella latinità, con il termine cervix si intendeva esclusivamente la parte posteriore del collo e, quindi, la nuca. Con il termine collum, invece, si faceva riferimento al più generico concetto di ‘collo’: più nello specifico, nella letteratura veterinaria, con il termine cervix si intendeva sia la parte posteriore ed alta del collo sia la zona del collo in cui sono site le vene e le vertebre cervicali, quindi la sua parte interna. In questo ambito letterario si scorge, inoltre, un uso diversificato della parola cervix al singolare ed al plurale; infatti, nel manuale vegeziano, quando usata al singolare, sembrerebbe indicare la parte iniziale del collo vicina alla nuca (fanno eccezione alcuni passi meno tecnici nei quali indicherebbe la parte posteriore del collo [69] dove sono le vertebre cervicali [70]). Quando usata al plurale, invece, starebbe ad indicare le parti laterali del collo dove scorrono le due vene giugulari. [71] Possiamo dunque concludere che, probabilmente, nella letteratura veterinaria tarda cervix veniva usato in contesti più spiccatamente tecnici (come il suo utilizzo in riferimento all’apparato circolatorio ed alle pratiche chirurgiche quali la flebotomia o la sutura di ferite anche profonde nella zona  











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delle giugulari o della gola), mentre collum aveva un’accezione meno tecnica che faceva riferimento a contesti più usuali e quotidiani. Per quanto riguarda, invece, l’uso che Columella e Varrone facevano dei due termini, possiamo notare che il primo utilizza collum in riferimento alle capre ed ai maiali, mentre cervix è proprio del montone, delle capre, dei maiali. Pur non essendo chiaro se vi sia una netta distinzione tra i due termini sembra che Columella preferisca cervix in riferimento alla descrizione del vello o dell’esteriorità del collo degli animali, [72] mentre collum sia utilizzato per indicare il collo dell’animale nella sua complessità. [73] Varrone, invece, sembra distinguere tra cervix e collum, intendendo con il primo la parte iniziale e posteriore del collo mentre con il secondo tutta la zona compresa tra la testa e le scapole. [74] 7. Apparato respiratorio. – All’interno dell’apparato respiratorio inseriamo anche gli organi interni della gola, per cui : trachea [ajrthriva, arteria, gola], laringe [lavrugx, favrugx, gula, gurgulionem], esofago [oijsofavgo~, stovmaco~], polmone [pneuvmwn, pleuvmwn, pulmo]. Aristotele dedica il trattato De respiratione all’apparato respiratorio ed alle sue funzionalità, ma è con l’Historia animalium ed il De partibus animalium che abbiamo notizie dettagliate sugli organi che permettono la respirazione. Lo Stagirita inizia la sua analisi dal collo inteso come un prolungamento del tronco e che contiene la laringe [lavrugx – favrugx], la trachea [ajrthriva], l’esofago [oijsofavgo~ – stovmaco~], l’epiglottide [ejpiglwttiv~] ed il diaframma [diavzwma]. Alla fine delle trachea si trovano i polmoni [pneuvmwn – pleuvmwn]. Lo scienziato ha ben chiaro il ruolo della laringe nella funzionalità respiratoria, il suo collocamento nella parte più profonda della gola e la sua natura cartilaginosa. [75] Aristotele la descrive come liscia e consistente, simile alla trachea, adatta, quindi, a far da cassa di risonanza alla voce. [76] Egli, però, adotta due termini differenti per descrivere questo organo : lavrugx nell’Historia animalium [77] e favrugx nel De partibus animalium. [78] Per quanto riguarda la trachea, Aristotele sottolinea come il suo nome abbia un’origine popolare che voleva sottolinearne la lunghezza e la strettezza. [79] La descrive come poco irrorata di sangue pur se la sua parte esterna è ricca di piccoli vasi sanguigni. Ne descrive anche la posizione anatomica all’interno del collo  















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davanti all’esofago e ne percepisce la pericolosità (attenuata dall’esistenza dell’epiglottide che impedisce agli animali di soffocare). L’esofago, invece, è la parte del collo dove il nutrimento arriva agli intestini ; la sua natura è di essere carnoso pur essendo flessibile e resistente come un nervo così da dilatarsi con il passaggio del bolo alimentare. Anche qui dobbiamo sottolineare come nel De partibus animalium egli utilizzi il termine oijsofavgo~ mentre nell’Historia animalium usi il termine stovmaco~. [80] In questo trattato, inoltre, ne definisce con chiarezza la posizione : la parte superiore è unita alla bocca, si trova posteriormente alla trachea, contiguo alla spina dorsale ed alla trachea, essendovi attaccato con membrane ; infine attraverso il diaframma arriva alla cavità dello stomaco. [81] Circa l’epiglottide, invece, sottolinea come sia propria soltanto dei vivipari con polmoni e pelle coperta di vello. La sua funzione, coordinata con la lingua, è quella di impedire al bolo alimentare di scendere attraverso la trachea e di soffocare l’animale. [82] Aristotele, come tutti gli altri veterinari ed i medici antichi, percepisce i polmoni come un organo soltanto e, per questo, utilizza il singolare molto più frequentemente del plurale. Lo Stagirita ne descrive la natura e la funzionalità con particolare cura ed attenzione sia nel De partibus animalium sia nell’Historia animalium. Nel primo possiamo leggere come siano il mezzo che l’animale ha per respirare e la loro natura porosa. [83] Aristotele descrive brevemente anche il movimento respiratorio quando vi entra l’aria (proprio grazie al loro essere spugnosi), quando si ingrandiscono ed espirando, invece, quando si rimpiccioliscono. Egli nota anche come, a seconda della specie di animale cambi anche la tipologia dell’organo : i vivipari hanno polmoni grandi e molto irrorati di sangue. [84] Circa la loro natura di organo doppio Aristotele nell’Historia animalium, pur continuando ad usare il singolare afferma che «tale è il loro essere», ma anche che «nei vivipari questa doppiezza non è del tutto comprensibile, così come negli uomini». [85] Nella veterinaria latina, data la specificità dei manuali che ci sono pervenuti, l’apparato respiratorio non è analizzato nella sua complessità quanto nell’analisi delle patologie che lo possono colpire. Non troviamo, quindi, un’analisi dettagliata e completa dell’apparato respiratorio così come lo abbiamo visto nei testi di Aristotele : le in 





















formazioni vanno desunte indirettamente dal testo attraverso uno studio comparato tra i capitoli riguardanti l’anatomia, quelli riguardanti le operazioni chirurgiche e l’analisi patologica delle malattie che colpiscono i singoli organi. Nella letteratura veterinaria la trachea è chiamata arteria, ma nella Mulomedicina Chironis è definita arteria faucium. [86] Calco dal greco ajrthriva, solo più tardi il termine arteria starà ad indicare la vena del cuore. Le patologie più riconosciute e descritte dai veterinari per questo organo sono la rottura, l’irritazione e l’ostruzione. Un altro termine, ancora in parte oscuro che potrebbe avere riferimenti stretti con la trachea è gurgulio che potrebbe star ad indicare sia la gola in senso lato, sia la trachea in maniera particolare sia i bronchi (la parte alta ?) sia l’esofago. [87] Il termine arteria è strettamente connesso con il termine gula che sta a significare la parte interna della bocca, quindi ‘gola’, oppure la parte esterna della trachea stessa: è, comunque, la zona dove passa il bolo alimentare. Attestato sia in Chirone sia in Vegezio (che riprende lo stesso passo), non lo è in Pelagonio. Accettata la definizione di parte iniziale della trachea, con il termine gula potrebbe essere compresa anche la ‘laringe’. Nella veterinaria tardo-antica il termine indicante i polmoni è pulmo, ma la voce pulmopulmunculus indica anche una patologia del garrese degli animali da lavoro e del cavallo riconducibile ad un rigonfiamento in quella zona causata o dal giogo oppure da qualche ferita infettata e incistata di conseguenza. Il termine quindi si differenzia nettamente nel significato tra medicina e veterinaria ; probabilmente in veterinaria questo ha indicato tale patologia per metafora di significato, per somiglianza del rigonfiamento che si espande ed i polmoni stessi. [88] 8. Apparto digerente. – Stomaco [koiliva, venter, stomachus, alvus] ; i quattro stomaci dei ruminanti [stomaco vero e proprio : gasthvr – primo stomaco dei ruminanti o reticolo : kekruvfalo~ – echino o riccio del ventricolo dei ruminanti : ejci`no~ – abomaso detto anche il quarto stomaco dei ruminanti volgarmente lampredotto : h[/nustron] – intestino digiuno o crasso [nh`sti~, intestinum, aqualiculus] – intestino tenue [e[/nteron stenovn, leptovn] intestino cieco [e[/nteron tuflovn, intestinum ieiunum] colon [kw'lon, colum] retto [ajrcov~, rectum, longaon] mesenterio [mesentevrion] epiploon o omento o piegatura del peritoneo [ejpivploon, omentum, peritonaeum]  



















anatomia veterinaria fegato [h|par, iecur, hepar, epar] vescica biliare o cistifellea [colhv] milza [splhvn] reni [oiJ nefroiv, renes] vescica [hJ kuvsti~]. Nella veterinaria greca e latina molta importanza hanno ricoperto gli studi sull’apparato digerente e sulle sue patologie, in primo luogo per la particolarità dello stomaco dei ruminanti, ben individuata già da Aristotele, in secondo luogo perché all’apparato digerente venivano imputate molte più malattie di quelle che realmente erano a suo carico, infine perché molte delle terapie venivano somministrate in modo tale da finire proprio nello stomaco o negli intestini (non sempre con risultati ottimali per la salute dell’animale). Per la veterinaria greca sarà analizzato lo stomaco dei ruminanti poiché fin da Aristotele è stato studiato accuratamente, mentre per la veterinaria latina porremo l’accento sull’apparato digerente degli equini poiché i manuali strettamente tecnici di carattere veterinario hanno, anche se solo in parte, approfondito questo tipo di organo. Lo Stagirita affronta l’analisi dell’apparato digerente definendo genericamente tutti questi organi come viscere (splavgcna), proprie degli animali sanguigni ; di queste fanno parte tutti gli organi dell’apparato digerente così come tutti gli organi dell’apparato circolatorio. Aristotele separa lo stomaco (koiliva) propriamente detto dall’intestino (e[nteron) sia nell’Historia animalium sia nel De partibus animalium attribuendo loro la funzione dell’elaborazione del nutrimento : il primo raccoglie il cibo ingerito, il secondo, invece espelle i residui della concozione. Lo scienziato crea un collegamento di causa-effetto tra gli animali con un solo stomaco e la presenza o meno di tutto l’ordine dentario in entrambe le mascelle : nel caso in cui un animale abbia gli incisivi su entrambe le mascelle avremo un solo stomaco ; al contrario, per compensare una dentatura incompleta e quindi una masticazione meno accurata, saranno presenti più stomaci. Tra gli animali con un solo stomaco Aristotele enumera anche il cavallo, il mulo e l’asino, cioè gli animali dotati di zoccolo. Per la seconda categoria di animali, lo Stagirita, non solo annovera gli animali dotati di unghia fessa, ma fa anche l’esempio dei ruminanti assegnando ad ognuno dei quattro stomaci un compito diverso nella digestione e concozione del cibo : [89] «ciascuno di questi animali ha molti stomaci (koiliva~), come la capra, il bue, il cervo e tutti gli animali siffatti : uno stomaco riceve il nutrimento dall’altro, il primo non  







   



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digerito (ajkatevrgaston), il secondo ridotto in piccole parti (kateirgasmevnhn ma`llon), il terzo del tutto sminuzzato, il quarto triturato. Perciò gli animali siffatti hanno molti luoghi e parti. Queste sono chiamate stomaco (koiliva), reticolo (kekruvfalo~), riccio (ejci`no~) ed abomaso (h[nustron)». Nel passo appena citato con koiliva Aristotele intende lo stomaco propriamente detto, cioè il rumine. Distingue gli animali con un solo stomaco tra quelli che lo hanno simile al cane, cioè piccolo per dimensioni e ben levigato, e quelli che lo hanno simile al maiale, cioè grande con superfici interne adatte ad una concozione lunga e laboriosa. [90] I nomi assegnati agli altri tre stomaci fanno riferimento, invece, a come appaiono durante la dissezione : il kekruvfalo~ è così definito perché assomiglia alle reti per gli uccelli o alle retine per i capelli ; l’ejci`no~ cioè l’omaso era detto ‘riccio’ [91] per la sua conformazione simile a quella del riccio di mare o della parte corrispondente del capitello ionico, l’h[nustron cioè l’abomaso era detto popolarmente ‘lampredotto’ o ‘molletta’. Descrivendo gli intestini (e[nteron) Aristotele ne sottolinea le molteplici differenze anatomiche tra le superfici interne e le specie di animali. [92] Quelli dotati di corna hanno l’intestino grande, con numerose pieghe al suo interno a causa delle grandi quantità di nutrimento che devono digerire. [93] Lo Stagirita suddivide gli intestini in tre categorie principali : quello semplice ed uniforme o dritto ; con una conformazione più grande vicino allo stomaco, ma più stretto verso la fine ; con una conformazione più stretta verso lo stomaco e più larga verso la fine. In tutti gli animali che non hanno l’intestino dritto questa parte dell’apparato digerente diventa sempre più larga fino a dilatarsi e ad essere detta colon (kw`lon). Dopo il colon, l’intestino si riallarga fino a formare una sacca rigonfia e cieca e quindi il retto (ajrcov~), la cui funzione è quella di far fuoriuscire i residui di cibo non concotti. Affinché il nutrimento venga essiccato del tutto prima di fuoriuscire dal corpo dell’animale, è necessario che l’intestino abbia anche una terza parte dove il nutrimento non sia più fresco ma non ancora secco : questa sezione è detta digiuno (nh`sti~) e si trova nell’intestino tenue [94] (leptovn). Il mesenterio (mesentevrion) è la membrana che avvolge ed alla quale sono attaccati e sospesi gli intestini per dare loro mobilità. Aristotele la definisce come una membrana larga e grassa [95] che si estende dagli intestini alla vena grande e  

















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all’aorta. L’omento o epiploon o piegatura del peritoneo (ejpivploon) è una membrana situata nella parte anteriore dell’addome che copre e tiene insieme tutti gli intestini, Aristotele lo descrive come una membrana grassa o adiposa, [97] presente sia negli animali con uno stomaco sia con più stomaci. [98] Il fegato [h|par], vescica biliare e cistifellea [colhv], milza [splhvn], reni [oiJ nefroiv], vescica [hJ kuvsti~]. Per Aristotele il fegato (h|par) è privo di vescica biliare nel cavallo, nell’asino e nel mulo. [99] Nelle opere dello Stagirita la duplice natura di questo organo non è mai messa in discussione sebbene Aristotele sottolinei che in alcune specie come negli ovipari, questa duplicità sia appena accennata mentre in altri, quali la lepre, sia ben evidente. Questo dato fa supporre ad Aristotele l’esistenza di due organi uguali. [100] Nelle opere di Aristotele riguardanti la zoologia e la veterinaria il termine colhv indica sia la cistifellea sia la bile, quindi sia ‘la ghiandola’ sia il liquido da lei prodotto. Egli, inoltre, descrive le numerosissime differenze che sussistono tra una specie e l’altra nella conformazione della milza (splhvn) ; in particolare, ci soffermiamo sulle specie della veterinaria : piccola e di forma tondeggiante nella capra e nella pecora, allungata nel maiale e nel cane, grande ed allungata nel bue. [101] Più in generale Aristotele afferma che è di forma rotondeggiante negli animali dotati di corna e di unghia fessa ; di dimensioni maggiori rispetto alla media negli animali dotati di piedi con dita come il maiale ed il cane, di grandezza media, ma di forma allungata e non regolare [102] negli animali dotati di zoccolo come il cavallo, il mulo e l’asino. [103] Per lo Stagirita la sua funzione rimane subordinata a quella del fegato ed il suo maggiore o minore sviluppo all’interno dell’addome dell’animale è legato alla maggiore o minore capacità di concozione di tutto il sistema digerente della specie in esame. Galeno correggerà Aristotele in merito alle funzioni emopoietiche e depurative della milza poiché lo Stagirita non le aveva comprese appieno (Gal. UP 4, 15). Reni [oiJ nefroiv]. Secondo Aristotele la natura dei reni è quella di raccogliere i liquidi in eccedenza che provengono dalla concozione e che la vescica non è riuscita a contenere. Egli sottolinea, infatti, come ne siano sprovvisti tutti gli animali che non possiedono la vescica. Paragona i reni dei buoi a quelli umani poiché entrambi sono formati da piccole ‘sfere rena[96]









li’ [104] particolarmente dure al tatto, mentre quelli delle pecore sono più uniformi e regolari. Accenniamo brevemente ad un passo del Peri; iJppikh`~ di Senofonte [105] per sottolineare quanta incertezza ci fosse nell’uso di termini tecnici anatomici, relativi all’apparato renale : «alcuni ritengono che un animale che abbia le gambe sciolte sia capace anche di impennarsi, ma non è così : piuttosto è il cavallo con le reni sciolte, corte e potenti e per reni intendiamo non le parti attorno alla coda, ma quelle che si trovano tra i fianchi e le anche all’altezza del ventre, che sarà in grado di mettere avanti le gambe posteriori ben al di là di quelle anteriori [106]». Vescica [hJ kuvsti~]. Aristotele non segnala alcunché di particolare nella vescica degli animali studiati dalla veterinaria che, essendo tutti vivipari quadrupedi, ne possiedono una. Nella terminologia veterinaria latina tardoantica esiste una buona quantità di sinonimi atti a descrivere la parte finale dell’apparato digerente. Questo perché tale sezione dell’apparato è più accessibile dal retto e di maggior interesse da parte di veterinari ed allevatori per alcuni procedimenti chirurgici (come la riduzione del prolasso rettale) e terapici (come la somministrazione di clisteri) che procedevano proprio dalla parte più visibile ed accessibile di tutto l’apparato digerente. Ne è testimonianza l’uso, da parte di Chirone, Vegezio e Pelagonio di terminologia tecnica propria del linguaggio veterinario che si differenzia da quello medico e che, pur ricorrendo spesso anche a terminologia di stampo popolare, assume significati propri e specifici con traslazioni semantiche forti rispetto al linguaggio medico. Le concezioni d’epoca tardo-antica sullo stomaco, sull’ano e sul retto del cavallo, invece, non sono esaustive, rispecchiando una conoscenza non approfondita delle loro funzioni che si basava, soprattutto, su quanto appreso dalla tradizione più ‘bassa’. Stomaco [uenter, intestina, stomachus, aluus]. Indicano la parte bassa del sistema digestivo. In veterinaria sono poco usati sia stomachus sia aluus, ma Columella, autore più antico e meno specializzato nella veterinaria, usa entrambi i vocaboli in riferimento ai bovini. [107] Lo stomaco, propriamente detto, è definito da questi con il termine venter, ma anche con l’arcaico aluus e con stomachus (calco dal greco). Quando, nel testo veterinario, si vuole, però, usare un termine tecnico, a venter è preferito aqualiculus. Più in generale possiamo affermare che termini quali  



anatomia veterinaria venter – intestina – stomachus – aluus indicano la parte bassa del sistema digestivo. Nel linguaggio veterinario tardo-antico non è forte l’opposizione tra venter ‘stomaco’ e intestina ‘intestini’ tipica, invece, della medicina, quanto più tra esterno ed interno della parte addominale. Venter indica, più frequentemente, la parte esterna della cavità addominale, mentre con intestina si indicavano gli organi interni propriamente detti nella loro complessità. [108] Aqualiculus. Chirone è l’autore che meglio di altri ha descritto ed usato questo termine nel terzo libro del suo manuale nel quale possiamo leggere termini tecnici propri solo della veterinaria [109] frammisti a parole di uso più comune come interanea che troviamo anche in Columella ed in Plinio. Inoltre, vi si può scorgere una conoscenza, seppur non approfondita, delle varie parti che compongono l’apparato digerente. [110] Ventriculum sinonimo di aqualiculus è usato esclusivamente da Chirone [111] e Vegezio. [112] Questo termine, pur essendo rarissimo anche negli scrittori di mulomedicina, è un tipico esempio di come il linguaggio specifico della veterinaria abbia spesso attinto da fonti non conformi né letterarie poiché deriva, appunto, da una metafora di stampo popolare: l’aqualis era una piccola pentola piena d’acqua senza i manici. Successivamente è passato ad indicare lo stomaco del maiale, poi quello del cavallo ed infine, pur se nel linguaggio popolare, anche quello umano. [113] In Vegezio si trova usato solo due volte, di cui una in riferimento ad un pollo. [114] La zona compresa tra lo stomaco ed il retto, cioè l’intestino tenue e l’intestino crasso, era quasi sconosciuta, quindi, poco descritta e dettagliata sia per quanto riguarda la terminologia sia per le patologie ad essa riferite. La maggior parte delle conoscenze veterinarie giungono a noi da Chirone, da Vegezio e dalle loro fonti greche. Pelagonio, infine, risulta essere estremamente avaro circa questo argomento sia nelle informazioni fornite attraverso il testo sia nell’uso di termini tecnici poiché, ad esempio, non distingue nemmeno i due intestini. Intestinum-intestina. Nella trattatistica veterinaria il termine indica genericamente tutto l’intestino. Permane, anche nella veterinaria tardo-antica, una vaghezza terminologica e semantica circa le varie parti che compongono gli intestini. Si può distinguere un doppio uso di questo termine sia al plurale sia al singolare,

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con sfumature semantiche differenti. Al plurale, spesso è sinonimo di venter, quindi assume un significato più generico di basso ventre, mentre al singolare sta ad indicare una parte specifica del tratto digestivo (quindi o l’intestino crasso, o l’intestino tenue, o, raramente, anche il colon). Questa dicotomia si riscontra sia in Vegezio [115] sia in Chirone [116] sua fonte principale. Pelagonio, invece, usa il termine intestinum sempre al plurale volendo significare tutta la cavità addominale e gli organi ivi compresi. Usa questo termine per indicare un tratto specifico di intestino [117] solo quando sta facendo riferimento a quello che in Chirone e Vegezio è definito con aqualiculus, [118] oppure quando si riferisce alla parte finale degli intestini che portano il residuato del cibo verso il retto e l’ano. [119] L’intestino crasso (ed il digiuno), nella sua completezza, era conosciuto sia dai mulomedici di epoca classica sia tardo-antica, ma raramente, nei loro testi, ne sono riportate anche le sezioni che lo compongono, le peculiarità e le funzionalità (di cui spesso ci giungono notizie incongruenti). Questo fatto sottolinea, ancora una volta, come le conoscenze dell’apparato digerente più interno, quindi più difficile da raggiungere, non fossero altrettanto approfondite rispetto alle zone più conosciute per interventi chirurgici o farmacologici in loco. Anche la terminologia tecnica, che in epoca tardo-antica vede la sua ‘età dell’oro’, in questo caso fa un’eccezione rimanendo vaga e poco appropriata. Vegezio e Chirone usano termini quali intestinum maius o intestina maiora, [120] mentre intestinum ieiunum [121] è riportato solo in riferimento al calco dal greco e[nteron stenovn cioè quando gli autori fanno uso di una fonte greca. L’uso del sostantivo singolare e dell’aggettivo maius (tipico anche della medicina) serviva a compensare una mancanza di tecnicismi atti alla definizione anatomica della parte. Ad utilizzare maggiormente questo costrutto è Chirone che, probabilmente, si fa forte della tradizione medica più antica, mentre Vegezio usa quasi esclusivamente il singolare intestinum anche per indicare il retto o il cieco. Colum. Nella tradizione medica più alta e precedente a quella veterinaria con colum si intendeva definire l’intestino crasso, [122] ma non vi è corrispondenza stretta nell’uso di questo termine anche nella tradizione mulomedica. In autori quali Columella e Catone, così come

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Gargilio Marziale e Pelagonio, non vi sono sostanziali informazioni su questo argomento, ma in Chirone e Vegezio l’uso di colum non è del tutto rispondente. Colum è un calco dal greco kw`lon e lo troviamo riferito, anche nella tradizione veterinaria tardo-antica, in riferimento all’intestino crasso e all’intestino cieco [123] o tuflo;n e[nteron. [124] La sua area semantica, quindi, sembra coprire, come è accaduto per il termine intestinum, sia la sezione intera dell’organo sia una parte. In questo secondo caso, essendo di fronte ad un uso tipicamente veterinario del termine, potremmo intravedere anche gli albori di un linguaggio mulomedico tecnico e specifico. Autore che maggiormente fa uso di questo secondo significato è proprio Chirone, laddove Vegezio e Pelagonio non sembrano ricercare una particolare attinenza tra parola e significato. Pelagonio, infatti, lo usa una sola volta in riferimento al coli dolorem. [125] L’analisi del testo vegeziano, svolta da Adams, [126] porterebbe a dedurre che vi sia un errore nelle concezioni fisiologiche ed anatomiche di V. circa l’ultima parte dell’apparato digerente del cavallo, perché questo autore usa il termine colum sia per indicare una parte dell’intestino crasso, cioè il caecum (così come Chirone), sia per indicare una parte dell’intestino tenue. Vegezio, quindi, si stacca dalla sua fonte principale per istituire un collegamento tra il colum e lo ieiunum affermando che il primo è parte del secondo. [127] Secondo Ortoleva, [128] invece, “ristabilendo il testo tradito, la descrizione di Vegezio concorda pienamente con quella rinvenibile nella Mulomedicina Chironis. […] il termine colum assume il significato tecnico di intestino cieco (tuflo;n e[nteron). […] Con il termine ieiunum (scil. intestinum) sia Vegezio che Chirone indicano ciò che ancor oggi si chiama intestino digiuno, concordemente all’uso medico greco-latino”. Rimane, in ogni caso, una certa vaghezza nell’uso di colum in tutta la veterinaria, visto che anche Chirone non rimane sempre fedele al collegamento tra colum e caecum, appoggiandosi al significato classico del termine di intestino crasso. [129] Per quanto riguarda la sezione del retto, invece, possiamo affermare che il linguaggio veterinario non solo è più vasto, ma anche più tecnico e preciso di quello medico. Non ci sono tra gli autori di veterinaria incongruenze semantiche, anche se permangono preferenze terminologiche. I termini più frequenti, nella manualistica veterinaria di epoca tarda, sono due : longao ed  

extalis. Essi non sono sinonimi stretti poiché il secondo indica più specificatamente il prolasso rettale. Altra particolarità riguarda Vegezio che, oltre ad usare entrambi i termini sopra citati, spesso con intestinum [130] indica anche la zona del retto e dell’ano. Pelagonio non offre esempi né per longao né per extalis, ma troviamo nel suo manuale il termine meatus stercoris [131] per indicare la stessa parte : “this may be his own ad hoc coinage”. [132] Le influenze sulla terminologia per questa sezione di intestini del linguaggio medico non sono preponderanti, anzi, si nota una certa indipendenza dei mulomedici così come una diretta conoscenza delle fonti greche : un esempio è l’uso chironiano del termine spincter [133] che Vegezio ha omesso preferendo, invece, il termine anum. Quest’ultima voce si ritrova sia in medicina sia in autori di agricoltura come Columella; [134] lo stesso accade per rectum, anche se non è attestato in Pelagonio, né in Vegezio. Longao. Termine specialistico per indicare l’intestino retto: riferito ad animali nella Mulomedicina Chironis ed in Vegezio. Entrambi i termini sono specificatamente veterinari, dunque, pur essendo utilizzati anche nella medicina umana in autori quali Celio Aureliano, Sorano, Vindiciano, Oribasio e Dioscoride. Cataliden longaonis è una traslitterazione dal greco katakleiv~ indicante «serratura» ed è attestato, con il significato di sfintere anale (anus) solo in Chirone [135] e Vegezio, [136] anche, come sottolinea Ortoleva, in greco tale significato non sembra invece rinvenirsi. [137] Accenniamo brevemente all’omentum peritonaeum poiché tali termini corrispondono ai moderni concetti di omento e peritoneo. Nella veterinaria era ben chiara la differenza tra i due organi, poiché probabilmente entrambi i concetti sono stati ripresi dalla medicina umana. Reni – renes – lumbus. In latino classico renes indica i reni, ma nel linguaggio della veterinaria di epoca tardo-antica con questo termine, insieme con lumbus, era designata la parte esterna e posteriore della zona lombare. 9. Apparato della locomozione. Introduzione. – Gli arti anteriori e quelli posteriori di un animale sono per la veterinaria gli organi più importanti di tutto il corpo. È per questo che l’anatomia del piede, dello zoccolo, del ginocchio e di tutta la gamba ricopre tanta parte dei manuali tecnici greci e latini. Accenneremo solo in breve a tutti quegli organi, ossa, cartilagini e muscoli che comprendono l’apparato locomotorio, non soltanto per una questione  



anatomia veterinaria di economia all’interno del volume, quanto per sottolineare come nella veterinaria abbia da sempre preoccupato ogni mulomedico e veterinario la salute e la cura dei piedi dell’animale. Questo accadeva, ed in parte accade tuttora, perché le patologie che colpiscono questa parte dell’animale spesso gli impediscono di svolgere la funzione per la quale è stato allevato ed inoltre, se non curate in fretta, lo portano ad una menomazione perenne. In questo ambito, quindi, ci occuperemo principalmente del cavallo e degli ovini che costituiscono l’80% degli animali presi in cura dai veterinari dell’epoca. [138] Simone, [139] scrittore appena precedente a Senofonte scriveva : «Poi gli zoccoli devono risuonare bene. Un buon cavallo deve avere uno zoccolo di tipo leggero e comodo, né ampio né troppo alto, magro e con la parete spessa. Anche il suono è indice di uno zoccolo buono : quello cavo suona più come un cembalo che in modo pieno e carnoso. Deve avere le pastoie flessibili e nessuna rigidità delle articolazioni del nodello. I suoi stinchi devono essere ricchi di pelo, con le parti comprese tra il garrese e lo stinco ben robuste e magre fino al ginocchio. La parte superiore della gamba deve essere tuttavia più consistente e robusta. Lo spazio tra le gambe deve essere il più ampio possibile, perché possano distendersi senza incrociarsi. […] le cosce grandi e larghe, i fianchi molto piccoli. Le cosce non devono essere molto grasse […]». Senofonte, nel Peri; iJppikh`~, [140] sottolinea come, nell’esaminare il corpo di un cavallo o di un puledro, le prime attenzioni vadano poste ai suoi piedi. Anche per questo autore è importantissimo lo stato di salute delle unghie degli zoccoli poiché la ferratura ancora non era in uso in Grecia. Lo scrittore considera cavalli migliori quelli con le unghie spesse rispetto a quelle sottili [141] perché offrono maggiore resistenza passiva. Ulteriore accertamento che Senofonte consiglia di fare, riguarda l’altezza degli zoccoli che deve essere la medesima sia negli arti anteriori sia negli arti posteriori; [142] inoltre S. consiglia un cavallo che abbia uno zoccolo piuttosto alto che sollevi la ‘parte viva’ del piede dal terreno e dagli eventuali urti. [143] Nell’affermare questo, usa celidwvn, termine particolarmente tecnico che nel linguaggio mulomedico latino corrisponde a ranula ovvero al fettone, ma in greco è la ‘coda di rondine’, cioè l’escrescenza nella cavità dell’unghia del cavallo. Procedendo verso l’alto, Senofonte, descri 



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ve come deve essere conformato il pastorale (o pastoia) composto da tre ossa : queste non devono essere né troppo ‘verticali’ rispetto all’articolazione del ‘nodello’ né troppo inclinate: nel primo caso le articolazioni subiscono contraccolpi non ‘ammortizzati’ e nel secondo, nell’eventualità di marcia in un terreno accidentato, si rischia che il cavallo subisca ferite alle ‘barbette’. Il linguaggio usato da Senofonte è specifico, riscontrandosi un termine quale kunhvpode~ per le «barbette», ma non estremamente tecnico, perché definisce la zona del ‘pastorale o pastoia’ utilizzando invece una perifrasi. [144] Tutto quanto è descritto da Senofonte con un linguaggio molto scorrevole e piano, i termini tecnici non sono frequenti quanto le parole specifiche sull’argomento. Nomina alcune delle singole ossa che compongono la gamba del cavallo usando knhvmh per indicare la zona dello stinco della gamba anteriore ovvero ‘l’osso cannone’, ijsciva per le anche ma nella loro interezza bracivwn, brachiolum per indicare l’avambraccio cioè quella parte della gamba, che va dall’armus al ginocchio. Eccezioni sono il termine hJ perovnh [145] indicante non tanto l’osso quanto il tendine posteriore e l’aggettivo krissov~ [146] indicante la patologia della varicosi. Senofonte fa prova di conoscere anche il termine specifico ajstravgalo~ ‘garretto’ [147] ma non quello della parte subito sottostante, perché utilizza la stessa tipologia di perifrasi incontrata in precedenza : «ci sono alcuni che insegnano questi esercizi colpendolo con un bastone sotto i garretti». Senofonte analizza la struttura delle zampe e del piede del cavallo soprattutto in funzione del cavaliere, quindi di tutto quanto possa essere utile ad una cavalcatura comoda, agile e sicura, mentre la mulomedicina dovrebbe essere improntata al benessere dell’animale in sé, concetto questo non particolarmente sviluppato nell’antichità. Il cavallo era un animale che doveva essere in buona salute ma anche possedere per natura delle caratteristiche che lo rendessero non solo addestrabile e da allevamento, ma anche atto alla guerra o da parata. Ecco quindi spiegata l’importanza che Senofonte associa a ginocchia che si pieghino con agilità in un puledro non addestrato, perché questa caratteristica renderà più comoda la cavalcatura al cavaliere che non subirà contraccolpi troppo duri. Anche per la veterinaria latina somma im 



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Fig. 2. Diane Alexandra Julie Menard, Traduction et commentaire des fragments des Hippiatrica (Apsyrtos, Theomnestos), These pour le Doctorat Veterinarie, 2001, 53.

portanza aveva la cura del piede dei cavalli così come il saper riconoscere in un puledro o in un animale adulto qualche malformazione che potesse inficiarne il valore. A tal proposito anche i mulomedici e gli agricoltori latini, fin da Columella, dedicano a questo tema molte pagine dei loro manuali. Columella esorta a fare in modo che la stalla sia un luogo asciutto affinché gli zoccoli non rimangano a contatto con terreni molli o umidi. [148] Coscia [coxa, femur]. Sia in epoca arcaica che in epoca classica [149] coxa stava ad indicare l’osso iliaco mentre con femur si intendeva il femore o la coscia. In epoca tardo-antica, il termine coxa è caduto in disuso a cominciare dalla lingua veterinaria. Con femur si è iniziato ad indicare anche tutta l’area semantica di coxa :[150] infatti, come nota André, [151] Columella ha usato il termine coxa per indicare la coscia e la parte inferiore della zampa degli armenti. [152] I mulomedici di epoca tarda come Pelagonio, Chirone e Vegezio hanno preferito il termine coxa a femur relegando quest’ultimo ad un uso meno intenso. Pelagonio, nella maggior parte dei casi, usa coxa riferendosi alla ‘coscia’ del caval 

lo e scrive femur solo due volte. Nel linguaggio pelagoniano, dunque, sembra che il primo termine abbia soppiantato femur sia nell’uso che nel suo significato allargato a coscia. Anche in Vegezio l’uso di coxa è molto più diffuso di femur, sebbene il suo intento di ritornare ad un latino classico l’ha spinto ad usare coxa e femur con significati arcaici. [153] Chirone usa ancora femur nel suo significato arcaico, ma è con coxa che indica sia le ossa interne alla coscia, quindi l’anca ed il femore, sia, traslando leggermente la sua area semantica con il significato più generico di ‘coscia’. Da quanto sopra, si possono evincere alcuni dati : incertezza nell’istituire un linguaggio tecnico sull’argomento ed una tendenza a suddividere i termini tra quelli più indicati ad individuare la zona esterna e visibile del corpo del cavallo e quelli più adatti a descriverne l’anatomia interna. Colefium. Sinonimo di coxa ma con una sfumatura semantica aperta al senso di coscia in generale e poi ad anca o ad ossa della coscia. È attestato maggiormente in letteratura che in testi scientifici. [154] Acrolefium, quindi, sta ad indicare la grassella, cioè la rotula dell’arto po 

anatomia veterinaria steriore del cavallo. Entrambi i termini sono attestati in Pelagonio, [155] Chirone [156] e Vegezio. [157] Gamba [crus]. Nella veterinaria latina, sia di epoca classica che tardo-antica, indica l’intera zampa dell’animale, mentre solo in alcuni casi particolari significa la parte bassa della zampa compresa tra il ginocchio ed il piede. Questo secondo significato potrebbe essere ravvisato nelle descrizioni di ferite[158] o di patologie tipiche della ‘zona’ attestate nei manuali tecnici. Il termine gamba, più nello specifico, indica il garretto, cioè quella parte delle zampe posteriori tra la tibia ed il metatarso. [159] Suffrago. In autori quali Plinio il Vecchio, Columella e, più in generale, nella letteratura non specificamente veterinaria di epoca imperiale aveva il significato di garretto di un animale. [160] Corsetti, [161] tuttavia, ha sviluppato una teoria per cui lo stesso termine assumerebbe nei testi di veterinaria il significato più specifico di ‘parte posteriore della pastura – piega della pastura’, cioè la parte interna dell’osso pastorale del cavallo ovvero della falange del piede del cavallo. Con cirrus, invece, si deve intendere il margine inferiore del pastorale, cioè la ‘corona’. Nel latino tardo, tuttavia, indicava l’intera gamba. [162] Il pastorale, nella terminologia tecnica veterinaria tarda, è detto basis, [163] ma con alcune particolarità. La zona del pastorale del cavallo, infatti, è formata da tre falangi (l’osso pastorale propriamente detto, l’osso coronario e l’osso triangolare). Nell’anatomia vegeziana il concetto di basis è, come sostiene Adams, [164] superfluo perché esso è compreso nel concetto di articulus, che non soltanto comprende l’articolazione del nodello, ma anche la prima falange o osso pastorale. Vegezio percepisce l’articolazione del ginocchio come tale ma non accade la stessa cosa per l’articolazione del nodello che è sentita semplicemente come «the joint of which the basis forms part[165]». Inoltre non esiste alcuna distinzione, in tutta la veterinaria antica, tra le tre falangi che comprendono la zona del pastorale. [166] Nella Mulomedicina Chironis, invece, il concetto di basis è strettamente legato a patologie che si sviluppano proprio nella zona del pastorale, quindi, nella zona delle tre falangi e non nell’articolazione del nodello. Articolazione del nodello è l’articulus. L’articolazione tra il metacarpo o osso cannone

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(tibia) e l’osso lungo del pastorale o pastorale (basis). [167] Nel linguaggio della veterinaria, però, il concetto espresso da articulus al plurale, sembra comprendere anche le articolazioni della parte bassa della gamba del cavallo. [168] Tibia, supragamba indicano il metacarpo o osso cannone o tibia [169] della zampa anteriore, ma in alcuni contesti specifici (cirri tibiales [170]) tibia può indicare la zona corrispondente della zampa posteriore, cioè il metatarso, [171] e supragamba la parte iniziale della tibia. Subgamba indica il metatarso della zampa posteriore. Brachiolum - bracivwn sono gli ‘avambracci, [172] cioè la parte della zampa anteriore che va dall’armus, cioè dalla spalla, al ginocchio. [173] Con centriae brachiolares, invece, si devono intendere “negli scrittori di veterinaria, le castagne del cavallo ovvero delle piccole placche cornee poste nella parte inferiore interna dell’avambraccio degli equini. Tali castagne, inoltre, si trovano anche sulla faccia interna e superiore dello stinco posteriore. La caratteristica peculiare delle castagne è dunque quella di costituire dei noduli callosi. Esistevano quindi due tipi di centriae, quelle brachiolares ovvero degli arti anteriori del cavallo e quelli femorales (o simile) quando si voleva indicare la castagna dello stinco posteriore”. [174] La parte esterna dello zoccolo (calcagno), ricoperta da pelle viene detta calx o calcaneum mentre tutto il ‘piede’ dell’animale era definito con il termine pes. Entrambi i termini sono attestati sia in letteratura scientifica [175] che comune, ma calcaneum si rinviene non prima del terzo secolo dopo Cristo mentre calx si ritrova fin da Plauto. Con planta, invece, doveva probabilmente essere indicata la parte esterna dell’articulus, quindi la ‘caviglia’ in senso lato con pelle, tendini, vene e quant’altro si trovasse nella zona delle giunture definita con articulus. Per quanta riguarda, invece, la parte dura ed esterna dello zoccolo, cioè l’unghia, dobbiamo distinguere due zone : la corona e l’ungula - unguis. Con il primo termine, nei manuali di veterinaria tardo-antica, era indicata, la parte inferiore del pastorale, quindi la zona dell’osso coronarico detta ancora oggi ‘corona’, mentre con il secondo si intendeva la parte ossea dello zoccolo. 10. Apparato riproduttore ed organi genitali. Introduzione. - Nella pratica veterinaria la conoscenza e lo studio della conformazione degli organi riproduttivi era importante soprattutto in vista della castrazione, del tempo dell’ac 

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coppiamento e del parto. In questo ambito i testi greci e latini divergono circa gli aspetti trattati. Aristotele e Galeno, infatti, hanno esaminato, fin nei minimi particolari, gli organi dell’apparato riproduttore maschile e femminile, mentre i letterati latini specializzati, fin da Columella, si sono preoccupati di istruire i mulomedici e gli allevatori circa gli aspetti pratici della castrazione, della riproduzione, del parto e, più in generale, dei problemi legati agli organi riproduttori. Questo ha fatto sì che i testi si possano suddividere tra ‘manuali di anatomia pura’ e manuali ‘pratici’. Eccezione, in questo ambito, risultano essere gli Hippiatrica ed i Geoponica che, pur essendo una raccolta di testi in greco, mostrano la stessa sensibilità latina verso manuali di natura più concreta e specifica. Anche all’interno di questo secondo genere si possono individuare testi più improntati alla pratica e manuali basati maggiormente su una divulgazione dotta della materia veterinaria. In merito facciamo subito riferimento a due autori strettamente collegati quali Vegezio e Chirone. Pur essendo entrambi interessati a scrivere un manuale pratico per il mulomedico, Vegezio non concede alla materia che gravita attorno all’apparato riproduttore tutto lo spazio che Chirone, invece, occupa nel suo testo. Egli, infatti, dedica un intero libro alla gestazione ed al parto. Lo stesso vale per Columella che dedica ben quattro paragrafi al parto. Pelagonio e Vegezio, invece, rimangono più indifferenti a questa materia, forse per una semplice economia del testo o perché non reputavano l’argomento sufficientemente dotto. Gli Hippiatrica, per contro, eccezione nel panorama veterinario greco, offrono molto spazio al parto ed alla riproduzione. Nella trattatistica latina cercheremo, più che teorie anatomiche sull’apparato riproduttore, informazioni di carattere linguistico, analizzando brevemente i termini ed il loro uso nei vari autori così da individuarne l’evoluzione nell’arco temporale preso in esame da questo dizionario. Per uno studio approfondito sulla lingua veterinaria di epoca tarda sono indispensabili le teorie linguistiche di Adams, [176] di André [177] di Fischer [178] e di Langslow. [179] Nel più ristretto ambito dell’anatomia dell’apparato riproduttore gli studi di filologia concordano sul fatto che i termini specifici hanno subito fortissime influenze dal linguaggio medico, ma si riscontrano, soprattutto in epoca tarda,

anche derivazioni di stampo popolare. Useremo anche il testo di Galeno sull’anatomia pur non essendo di materia veterinaria (insieme a quello di Aristotele) perché seziona corpi di animali da allevamento per illustrare l’anatomia dell’apparato riproduttore umano. Aristotele, invece, descrive l’apparato degli animali principalmente nel terzo e nel quarto libro dell’Historia animalium. Nel primo volume tratta nello specifico degli organi riproduttori, nel secondo, invece, descrive lo sviluppo del corpo nell’età fertile e tutto quanto concerne i diversi tipi di accoppiamento tra gli animali, la gestazione ed il parto. 11. Apparato riproduttore maschile. – Quando Aristotele descrive l’apparato riproduttore degli animali l’incipit del capitolo volge subito l’attenzione del lettore su un’analisi esterna della zona : «questo tipo di organi è del tutto interno nelle femmine mentre nei maschi esso mostra molte differenze tra le specie». [180] Galeno, invece, nel dodicesimo libro dei Procedimenti anatomici entra subito in medias res scrivendo : «ti descriverò in questo libro la struttura delle parti della generazione. Il significato dell’espressione degli anatomisti ‘parti della generazione’ è ‘parti che sono state fatte per generare figli’ e sono uteri, testicoli, il pene dei maschi e la vagina nelle femmine, e i dotti del seme. Queste parti si trovano negli animali maschi e femmine, anche se alcuni hanno detto che le femmine non hanno testicoli, e questa è la prima cosa di cui debbo parlarti».[181] Testicoli [o[rci~. testis, testiculus, coleus (lat. volgare)]. – Galeno sostiene, al contrario di Aristotele, che anche le femmine abbiano i testicoli (ovvero le ovaie) ma che vi sia una sostanziale differenza tra i primi ed i secondi : «i testicoli degli animali femmine sono simili alla carne che regge le vene e le arterie ; i testicoli degli animali maschi al contrario sono lassi e cavernosi, pieni di un liquido bianco; gli anatomisti chiamano questo corpo in greco adenes cioè carne lassa [182] […] quello che viene generato nei testicoli in tutti gli animali è un liquido bianco».[183] Lo scienziato inoltre definisce con scroto (o[sceon, scrotum) la pelle sospesa che avvolge i testicoli. Sia Aristotele sia Galeno si soffermano lungamente sulla vascolarizzazione interna dei testicoli distinguendo le due vene che li irrorano di sangue, i vasi spermatici, gli altri condotti e la minu 







anatomia veterinaria ta e capillare vascolarizzazione dello scroto. Galeno inoltre analizza nel dettaglio anche la sua conformazione definendo la membrana più esterna dartov~ e lo scroto stesso come «la pelle sospesa che avvolge i testicoli. Gli animali che hanno testicoli aderenti alla radice delle cosce o non visibili non hanno affatto scroto».[184] Infine Galeno si dilunga molto nella descrizione del sezionamento dei testicoli degli animali, sottolineando che è preferibile usare un animale di grossa taglia e con scroto ben visibile come un caprone o un montone o un cavallo o un asino. Anche Aristotele [185] accennava alla descrizione dei testicoli e dello scroto, e la sua analisi, pur con molte differenze, risulta essere altrettanto approfondita. [186] Nei testi veterinari latini, soprattutto di epoca tarda, troviamo sia testis – testiculus sia coleus, termine escluso dal linguaggio medico classico. [187] Nella veterinaria tarda, è preferito il sostantivo, al contrario di quanto accade nei testi medici. Si hanno esempi in Chirone dell’uso quasi contemporaneo dei due termini senza apparente motivo di distinzione nell’uso dell’uno o dell’altro. [188] Anche nella pratica latina tanta importanza aveva l’operazione della castrazione. È in questi capitoli che troviamo termini tecnici riferiti all’anatomia dell’apparato riproduttore. Gli autori tardi che più si sono occupati di questo argomento sono Chirone (nel settimo libro della sua Mulomedicina) e Palladio Rutilio Tauro Emiliano (nel sesto libro della sua Opus agriculturae de veterinaria medicina de institutione). Il primo tra il sessantottesimo ed il centunesimo capitolo, descrive fin nei minimi particolari questa tecnica riportando anche i termini anatomici propri di questo apparato. Il legamento che unisce il testicolo all’apparato riproduttore è chiamato cremaster mentre la parte iniziale del legamento è detto folliculus e la membrana che avvolge i testicoli è la membrana testis. [189] Pene [aijdoi`on, veretrum]. Ecco come lo definisce Aristotele : «in alcuni animali l’organo è biancastro, in altri giallastro ; in tutti gli animali è percorso da minute e delicate vene. Da ciascuno dei due testicoli si estende un condotto, e, come nel caso dei pesci, i due condotti si uniscono in un unico canale per la secrezione (uJpe;r th`~ tou` perittwvmato~ ejxovdou). Ciò costituisce il pene». [190] Galeno dedica tutto il nono capitolo del dodicesimo libro dei Procedimenti anatomici alla sua descrizione minuziosa sia esterna  



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sia interna : «L’origine del pene è dai due ossi del pube, da presso la loro sinfisi ; infatti il pudendum del maschio, ossia il pene, comincia dalla regione in cui finisce il collo della vescica, e tutto il corpo del pene che è al di qua della regione del prepuzio è detto esso solo pene ; ciò che circonda la regione da cui comincia il prepuzio è detto la corona ed è il luogo in cui la pelle che circonda il pene aderisce alla testa del prepuzio. Tutti coloro che parlano questa lingua sanno che, dicendo prepuzio (ajkrovbusto~), s’intende la pelle che avvolge l’estremità del pene, e che la cosa tondeggiante avvolta da questa pelle è detta ghianda [glande] ed è la regione nella quale termina il condotto [uretra] che penetra nel pene e che è posto sotto il pene per lungo».[191] Questa descrizione è meritevole di ulteriori studi sia di anatomia veterinaria sia di filologia perché pone alcuni problemi di natura fisiologica. La descrizione dell’organo prosegue poi con quella del condotto che va dall’uretra al glande e che passa nel mezzo dell’organo.[192] La veterinaria latina usa il termine veretrum per tutta l’epoca tardo antica, ma “in the later period it functions as an equivalent of aijdoi`on and is therefore also applicable to females”.[193] Durante l’epoca classica si ha più spesso, come accade in Columella, l’uso di loca naturalia o natura sia per indicare l’intero organo. Abbiamo detto come nei testi di veterinaria latina (ma anche negli Hippiatrica) vi sia attenzione soprattutto ai problemi riproduttivi, urinari o a disfunzioni specifiche più che un’analisi fisiologica dell’organo stesso. Questa, infatti, non è oggetto di capitoli o trattati specifici, ma è ricavabile di volta in volta attraverso l’analisi del disturbo preso in considerazione. [194] 12. Apparato riproduttivo femminile. – Galeno risponde al De generatione animalium di Aristotele confutando la sua teoria sulla riproduzione e l’embriologia. [195] Lo Stagirita, infatti, sosteneva che il contributo femminile alla generazione del feto fosse solo di tipo meccanico e che il mestruo, per mancanza di calore, non si potesse trasformare in seme. Inoltre, non riconosceva all’apparato riproduttore femminile l’esistenza dei ‘testicoli’, cioè delle ovaie. Grazie alla scoperta da parte di Erofilo delle ovaie, [196] le teorie galeniche sull’anatomia dell’apparato riproduttore femminile risultano più vicino alle nostre conoscenze. Sia Galeno sia Aristotele costruiscono una gabbia di analogie  





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tra gli apparati maschili e femminili cercando sia nell’anatomia sia nella fisiologia rispondenze tra i due. [197] Le teorie aristoteliche si basano sul principio per cui i maschi possiedono più calore e forza vitale per cui diventano, attraverso il seme, la causa motrice della generazione. [198] Le teorie galeniche, invece, non potevano più limitarsi a sostenere un ruolo così secondario della femmina per la generazione del feto basato soltanto sulla materia mestruale. Galeno viviseziona femmine gravide, appena sviluppate e dopo il parto, arrivando anche a provocare il distacco della placenta per un ulteriore e più approfondito studio sia dell’apparato riproduttore femminile sia dello sviluppo fetale. Pur considerando importantissima la conoscenza di questa fitta rete di analogie, si rimanda alla medicina umana per ulteriori approfondimenti. In questa sede ci dobbiamo limitare ad una breve trattazione degli organi più importanti. È stato Celso ad introdurre il termine di loca naturalia o naturale per indicare l’organo femminile esterno dell’apparato riproduttore femminile. Con questo senso è stato usato anche da tutti gli autori di veterinaria seppure con leggere sfumature. Già Columella lo usava in riferimento ad una cavalla, [199] ma insieme a questo termine nel De agri cultura troviamo anche genitalia. [200] Nel testo di Chirone troviamo anche pars virginalis per indicare quanto sopra espresso. [201] Mestruazioni [kaqavrsei~]. – Aristotele dedica un intero paragrafo ai cicli mestruali nelle varie specie animali,[202] descrivendo quanto accade nelle capre, nelle pecore e nelle mucche prima e dopo il parto. Afferma che «nelle pecore e nelle capre le mestruazioni appaiono quando inizia la stagione dell’accoppiamento». Subito dopo istituisce una comparazione sulla quantità di mestruo nelle varie specie animali sottolineando come la mucca, l’asina e la cavalla abbiano un ciclo più abbondante della capra proprio per la loro mole, ma che in proporzione risulta molto inferiore. Infatti la mucca in calore produce circa metà emicotile di flusso o poco meno. [203] Aristotele compara anche gli intervalli tra i vari animali : «nelle mucche e nelle cavalle il flusso periodico (katamhvnio~) appare per lo più ogni due, quattro o sei mesi, nelle mule non appare ma le loro urine sono dense». Egli, infine, sottolinea che comunque «è difficile capire il periodo in cui il flusso deve arrivare in questi animali e quindi è opinione  

di alcuni che questo non accada». Lo Stagirita, quindi collega l’assenza di flusso ed il momento dell’accoppiamento, ma non mostra alcuna conoscenza delle cause fisiologiche che lo producono, pur sottolineando che esso scompare quando la femmina è gravida. Utero [aiJ u{sterai, matrix, uterus, cavum uteri]. Così Aristotele definisce l’utero : «non è di forma uguale in tutti gli animali che lo posseggono ; le differenze maggiori si trovano tra i vivipari e gli ovipari. In tutti gli animali che hanno l’utero vicino all’apparato genitale questo si divide in due camere».[204] Quando Galeno illustra come andare a sezionare l’animale per scoprire l’utero egli pone sempre l’animale, in genere una capra, sulla schiena così da essere ben visibile ogni singola parte : «per prima cosa sarà possibile prendere visione della vescica, al disotto vi sarà l’utero in ogni sua parte».[205] «Solo quando l’utero è messo a nudo, puoi vedere chiaramente queste vene e le arterie che vanno ai testicoli [ovaie], […] queste si inseriscono nel corpo dell’utero stesso e si suddividono fino al suo collo ; puoi chiamare la parte tra vagina e cavità uterina ‘collo dell’utero’ (aujchvn)o cervice (travchlo~)».[206] Purtroppo, Galeno non indica di volta in volta l’animale che sta sezionando ; quindi anche le conformazioni dell’utero che ci fornisce vanno analizzate attraverso una comparazione anatomica sugli animali che egli preferisce come cani, capre, scimmie, scrofe e vacche. In Plinio il Vecchio, Columella e Varrone troviamo il termine uterus. Nel primo autore è riferito a tutti quegli animali di cui descrive nell’ottavo libro dell’Historia naturalis, la gestazione ed il parto dei cuccioli. Per quanto riguarda gli animali presi in cura dalla veterinaria l’utero è proprio degli equini, dei maiali, delle capre e degli asini. [207] Nel trattato di Columella, invece, leggiamo che animali femmine (vacche e ovini) con un’ampia zona uterina sono particolarmente fertili ed hanno propensione al parto. [208] Columella usa questo termine non tanto in riferimento all’organo vero e proprio quanto piuttosto alla corrispondente anatomia esterna dell’animale, quindi al ‘ventre’, inoltre uterus è usato anche in riferimento alla sterilità degli animali [209] e ad alcune patologie equine. [210] Procedendo in avanti con i secoli, accanto alla parola uterus, troviamo anche matrix. Questo secondo termine con il significato di cavità uterina è usato soprattutto da Chirone e Vegezio  









anatomia veterinaria laddove in Pelagonio, invece, è da intendere solo in riferimento alla vena giugulare. [211] Tra gli autori di epoca tarda Chirone è il mulomedico che fa maggior uso di sinonimi per indicare l’utero ed in genere gli organi riproduttori femminili poiché nel suo testo possiamo trovare, oltre ad uter (per uterus) usato una sola volta, [212] anche matrix, [213] vulva, [214] verginalis [215] e natura – naturalis. Nell’uso di questi termini si potrebbe supporre una differenziazione : vulva sembrerebbe riferirsi all’organo esterno mentre virginalis parrebbe riferito all’organo interno. Uterus, poiché usato una sola volta, non sembra far parte del vocabolario consueto di Chirone, ma forse più della sua fonte. Il termine matrix è usato esclusivamente in paragrafi legati al parto, alla gestazione ed a malattie a carico dell’apparato riproduttore femminile (o ritenute tali), quindi il suo significato di ‘utero’ non sembra poter essere messo in discussione. Differenze macroscopiche tra virginalis e matrix quindi possono essere ipotizzate solo sulla scorta di una maggiore genericità del secondo termine sul primo. Il costrutto in ventre potrebbe essere sinonimo di matrix poiché legato alla gestazione ma con una sfumatura più colloquiale e quindi meno tecnica. Tra tutti i termini appena indicati, dunque, matrix e vulva sono da considerare tecnici e specifici, legati alla lingua veterinaria propria di epoca tarda ; gli altri, invece, sono più generici e d’uso comune.  



Note. [1] Arist. PA 2 653a 35 peri; th;n kefalh;n o~stou`n, o} kalou`si brevgma tinev~ [...]. – [2] Arist. PA 2, 653b 1 kai; rJafa;~ de; pleivsta~ e[cei peri; th;n kefalhvn. – [3] Arist. HA 1, 7, 491a 31 Kefalh`~ me;n ou\n mevrh to; me;n tricwto;n kranivon kalei`tai. touvtou de; mevrh to; me;n provsqion brevgma, uJsterogenev~ [...], to; d∆ ojpivsqion ijnivon, mevson d j ijnivou kai; brevgmato~ korufhv. – [4] Xen. Eq. 1, 11. – [5]

Xen. Eq. 2, 6. – [6] (Per la Mulomedicina Chironis si fa riferimento all’edizione teubneriana di Eugenius Oder, 1901) Chiron 332 totum corpus defricationibus termanticis defricito et cerebrum eius similiter et auriculas. – [7] Chiron 961 De primis pecoribus. ad purgandam caput […] et cerebrum oleo iunges. – [8] (Per Pelagonio si fa riferimento all’edizione teubneriana di Klaus-Dietrich Fischer, 1980) Pelagon. 50 Sin autem cerebrum commotum habuerit, cfr. Pelagon. 60, 1. – [9] Chiron 264 […] ex eo cataplasma imponito in cerebro. – [10] Chiron 526 Si cerebrum percussum habuerit. – [11] (Per Vegezio si fa riferimento all’edizione teubneriana di Ernestus Lommatzsch, 1903) Veg. mulom. 2, 13, 8 Si graviter offenderit caput, ut cerebrum vexet intrinsecus, […]. – [12]

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Chiron 815 similiter et haec potio valde facit ad articularium : haedinum capitulum cum suis pedibus decoques. – [13] Veg. mulom. 1, 56, 18 donec acron ille vel caput haedi, inteso come ‘piccola testa di animale’. – [14] Chiron 256 De capitis valitudinibus […] in capite se derivaverit circa membrana cerebri et venas ex perfricatione, tendideritque membrana totius capitis. – [15] Xen. Eq. 1, 11. – [16] Xen. Eq. 1, 8. – [17] Arist. HA 1, 7, 491a 31. – [18] Arist. HA 2, 10, 656 b. – [19] Adams 1995, 366-368. – [20] Arist. HA 2, 494 b – 495 a 16, 56, 25. – [21] Arist. HA 2, 652 a – 652b 7. – [22] Veg. mulom. 2, 13, 8 Si graviter offenderit caput, ut cerebrum vexet intrinsecus; Veg. mulom. 4, 3, 15 atque ita ad cerebrum et interna salutare remedium penetret. – [23] Chiron 258 cum medio cerebro corruptio sanguinis gravando membrana tenderit nimis. – [24] Arist. HA 1, 11, 492 a, 42. – [25] Chirone usa raramente auris, più spesso auricula; Chiron 330 girat, sicut mola, oricula curva. – [26] Colum. 6, 14, 1-4 perforatae auriculae inseritur, […] praestantissimum est remedium sanguis de aure emissus […], ex utraque auricula sanguis emittitur. – [27] Colum. 7, 5, 14 inserta per auriculam radicula. – [28] Colum. 7, 10, 2 ut ex diversa parte de auricula sanguinem mittamus. – [29] Pelagonio cita auricula in : 22, 2 ; 34, 3 ; 49 ; 54 ; 205, 3 ; 296 ; 404 e auris in : 49 ; 54 ; 55 ; 122 ; 135 ; 153 ; 278 ; 409 ; 50,2 ; 54 ; 304,1 ; 448,1 ; 204,1 ; 47 ; 267,2. – [30] Pelagon. 22, 2 Hoc et intrinsecus et ex superiori parte auriculae cum factum est. – [31] Arist. HA 1, 11, 492 a, 42, 18-23. – [32] Arist. PA 2, 10, 656b. – [33] Arist. PA 2, 13, 657a657b. – [34] Xen. Eq. 1, 8. – [35] Chiron 529 De oculis. si quod iumentum claucomam aut suffusionem humorem temptavit. […] Palpebra utraque fi bulas salutaris in superiorem traicies, aut supercilium in inferiorem aut maxillam interiorem alligabis. – [36] Arist. HA 11, 492 b, 44, 5-21. – [37] Xen. Eq. 5, 4. – [38] Xen. Eq. 1, 10. – [39] Adams 1995, 365. – [40] Arist. PA 2, 16, 20 659b 20-23. – [41] Arist. PA 3, 1, 661 a 35-37. – [42] Arist. HA 1, 11, 492 b, 46, 22-28. – [43] Cels. 8, 1, 7. – [44] Pelagon. 56 Si equus glandulas habuerit inter maxillas. – [45] Pelagon. 208 etiam maxillam tumidiorem; Chiron 564 Duae autem venae a capite summo discendunt, conveniunt sed sub maxillam usque ad gulam. – [46] Adams 1995, 369. – [47] Pelagon. 30, 3. – [48] Pelagon. 87 Ad tussem quae de faucibus nascitur. – [49] Andre 1991, 72. – [50] Pelagon. 69 Si dentes aut gengivae doluerint equo, […]. tunc gengivae intumescunt. – [51] Colum. 7, 5, 15 Medicinae pecoris ovillis. Celso placet, […] atque axungiae sextantem faucibus inserere. – [52] Xen. Eq. 3, 1. – [53] Arist. HA 6, 22, 576 a 10 - 15. – [54] Arist. HA 6, 22, 576 b 12 - 9. – [55] Arist. HA 2, 1, 501b, 98, 1-5. – [56] Arist. HA 2, 3, 501b, 98, 14-17. – [57] Pelagon. pract. F. 3 ; 93-94. – [58] Varr. r.r. 2, 7, 3. Colum. 6, 29, 4-5. – [59] Pelagon. 276-277. – [60] Veg. mulom. 3, 1, 1. – [61] Veg. mulom. 3, 5, 2 Pullis enim bimis et sex mensium medii dentes superiores cadunt, quos lactantes vocant. – [62]  















































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anatomia veterinaria

Veg. mulom. 2, 32. – [63] Veg. mulom. 2, 25 cum caput pullorum calefecerit prima dentitio, inter gingivas atque maxillas tumor collectioque generatur. Cfr. Chiron 91. – [64] Chiron 775. – [65] Xen. Eq. 1, 9 : « bisogna inoltre osservare se le barre sono entrambe morbide o dure in egual misura, o se sono dissimili. Infatti i cavalli con barre diseguali finiscono in generale per avere diversa sensibilità al morso »; Xen. Eq. 3, 5 : « Un cavallo con le mascelle sensibili in maniera diseguale (eJterovgnaqo~) viene rivelato dalla manovra detta della ‘volta’, ma molto di più cambiando direzione all’esercizio ». – [66] Xen. Eq. 1, 8 - 10, 3 - 10, 4. – [67] Xen. Eq. 12, 2. – [68] Arist. PA 3, 3 664 a 14 ; Arist. PA 3, 10, 686 a, 18 e 25 ; Arist. HA 1, 12, 493 a, 5-11. – [69] Veg. mulom. 3, 3. – [70] Veg. mulom. 3, 1, 1 ; Veg. mulom. 3, 4, 1. – [71] Adams, però, sottolinea come “This alternation suggests that there is no genuine semantic significance to the selection of plural vis – à – vis singular. […] Cervix was originally normal in the plural ; it would appear that cervices lingered on a san occasional variant for cervix (Pelagonius prefers cervix to cervices by 18 :2, Vegetius by 2 :4). The medical writer Cassius Felix, on the other hand, has only the singular […] Cervix is particularly frequent in the context of blood-letting. A writer advising the letting of blood from the veins of the neck will tend to use an expression such as de cervice rather than de collo […] cervix then was the neck as the site of veins. It was also the site of vertebrae […]. There is however one context in which collum does recur in both Pelagonius and Vegetius, and that is in reference to labour (under the yoke) and the damage done thereby to the neck”: Adams 1995, 366-367. – [72] Colum. 7, 3, 7 Igitur cervice prolixi villi nec asperi. Colum. 7, 6, 2 Caper, […] cruribus crassis, plena et brevi cervice. Colum. 7, 9, 1 (De suibus) : amplae et glandulosae cervicis. – [73] Colum. 7, 6, 2 ; Colum. 7, 10, 3 (Medicina earum - de suibus) : Deinde fissas taleas ferularum lineo funiculo religant et ita collo suspendunt. – [74] Varr. r.r. 2, 2, 3 maxime circum cervicem et collum, ventrem quoque ut habeat pilosum; Varr. r.r. 2, 3, 7 ac cervice et collo brevi; Varr. r.r. 2, 9, 4 : capitibus et auriculis magnis ac flaccis, crassis cervicibus ac collo, […]. – [75] Arist. PA 3, 3 664 a, 20 ; Arist. HA 1, 12, 46, 6. – [76] Arist. PA 3, 3 664 b, 1-5. – [77] Arist. HA 1, 12, 46, 5. – [78] Arist. PA 3, 3 664 a, 15. – [79] Arist. HA 1, 16, 495 a, 19-21. – [80] Arist. PA 3, 3 664 a, 20-25 ; 664 a, 30. Arist. HA 1, 16, 62, 20 - 25. – [81] Arist. HA 1, 16, 62, 20 - 25. – [82] Arist. PA 3, 3, 664 b, 21. – [83] Arist. PA 3, 3, 664 a, 28. – [84] Arist. PA 3, 6, 669a, 1 – 37. – [85] Arist. HA 1, 16, 495a, 34-35 ; 495b, 1-7. – [86] Chiron 504. – [87] Adams 1995, 371. – [88] Si veda Chiron 911 Arteriacen ad tussem vetustam et vomica in pulmone; Chiron 150 ex aestuatio pulmonis et contractio et vomica et suspirium, tussis cum purulento proflu 





































vio; Pelagon. 204 non commeat naturalis in pulmone spiritus; Pelagon. 59 de umoris narium […] crassus spumosus a pulmonibus ; Pelagon. 78 ad tussem, quae pulmonibus nascitur vel si renes percussos habuerit; Pelagon. 81 Aliud ad tussim, quae pulmonibus nascitur. Pelagon. 211 ; Pelagon. 402 ; Pelagon. 403 Quibusdam etiam pulmones rumpuntur; Veg. mulom. 1, 38, 4 : A pulmone autem humor crassus. – [89] Arist. PA 3, 14, 674 b, 6-15. – [90] Arist. PA 3, 14, 675 a, 25-30. – [91] I ruminanti producono il caglio nel ‘riccio’ ; Arist. PA 3, 14, 676 a, 6-17 ; Arist. HA 3, 20, 222, 17 sg. – [92] Arist. PA 3, 14, 675 a, 30-36. – [93] Arist. PA 3, 14, 675 b, 1-6. – [94] Arist. PA 3, 14, 675 b, 7-23. – [95] Arist. HA 1, 16, 64, 495b, 8-9. – [96] Arist. PA 4, 4, 678 a, 1-20. – [97] Arist. PA 4, 3, 677 b, 15-19. – [98] Arist. PA 4, 3, 677 b, 20. – [99] Arist. HA 1, 17, 496b, 68, 1524 ; 2, 15, 506a-506b, 126-127. – [100] Arist. HA 2, 17, 507 a, 132, 16-19 ; Arist. PA 3, 7, 669b, 35-36. – [101] Arist. HA 1, 18, 496 b, 68, 16-24 ; 2, 15, 506 a, 126-127, 20 sg. – [102] Arist. PA 3, 7, 674 a, 1-5 ta; de; mwvnuca metaxu; touvtwn kai; miktovn. – [103] Arist. HA 2, 15, 506 a - 506 b, 126-130. – [104] Arist. PA 3, 9, 671b, 6-8. – [105] Xen. Eq. 11, 2. – [106] Traduzione di Giuseppe Cascarino. – [107] Colum. 6, 4, 3 Multi caulibus vitis albae et valvulis albis bubus medentur ; […]. Est etiam rimedio. […] singulis diebus per triduum datae alvum purgant. – [108] Tale differenza si può scorgere già in Columella che indica con venter tutta la zona addominale, mentre con intestina gli organi interni : Colum. 6, 7, 1 Ventris quoque et intestinorum dolor sedatur […]. Quam si conspexerit, cui intestinum dolet […]et mucosa ventris proluvies. – [109] Chiron 208 primo de ipso ventre, quod est aqualiculum. Quod principium omnium interaneorum est, totius corporis dominator, in quo ventris capacitatem cibus et potus mixtus convenit […]; Chiron 209 […] et glutinosum faciendo retinet in parte intestinorum, quae sunt medio positae, quae ducunt ab aqualiculo usque ad colum, quod appellatur typlon enteron. Unde fit sera digestio stercoris. Fit hic ipse intestinus. Superius, quod dixi, stenon enteron appellatur, quod latine dicunt ieiunum intestinum, ab eo quod nihil in eodem stentino cibi aliquid permaneant. Per hoc enim intestinum cibus ab aqualiculo in colum velocem transitum habent. – [110] Chiron 206. – [111] Chiron 208. – [112] Veg. mulom. 3, 10, 3. – [113] Adams 1995, 416; Ortoleva 1999, 177. – [114] Veg. mulom. 2, 130, 5 Item si ex faucibus causa est […] et tolles ei ventriculum. – [115] Veg. mulom. 1, 43, 1 in internis residet intra ventris intestinorumque compaginem; Veg. mulom. 1, 43, 3 peritoneum enim dicitur membrana quae intestina omnia continet. – [116] Chiron 209. – [117] Pelagon. 118 si equus peduculos in intestinis habuerit. – [118] Chiron 224-225 ; Veg. mulom. 1, 44, 1 ; Garg. Mart. cur. boum 20. – [119] Pelagon. 210, 1 et tumore intestinorum per meatum stercoris rumpitur. – [120] Chiron 212 : intestina maiora laxaverit; Chiron 213-214 in eadem intestina  



























anatomia veterinaria maiora abundare coeperit […] ubi fit reclusio intestini maioris; Veg. mulom. 1, 42, 1. – [121] Chiron 209 Fit hic ipse intestinus. Superius, quod dixi, stenon enteron appellatur, quod latine dicunt ieiunum intestinum. – [122] Cels. 2,12, 2B. – [123] Chiron 209. – [124] Si veda anche Veg. mulom. 1, 40, 2 usque ad colum quod appellatur typhlon enteron. – [125] Pelagon. 459. – [126] Adams 1995, 275-276 ; 413-414. – [127] Veg. mulom. 1, 40, 2 in colum quod latine ieiunum dicitur. – [128] Ortoleva 1999, 174. – [129] Chiron 420 de stentini versatione. […] Intestinum qui vocatur monenteron quod quidam colum appellant. – [130] Veg. mulom. 1, 42, 1 longanon autem intestinum vocatur. – [131] Pelagon. 210. – [132] Adams 1995, 414. – [133] Chiron 230 oleo manum perunges et ipsum spincterem oleo satiabis et subicies in anum, in interiorem partem longaonis […]. – [134] Colum. 6, 6, 4 Si dolor remanet […] et uncta manu per anum inserta fimum extrahere. – [135] Chiron 213 usque ad longaonis cataclidem, ubi fit reclusio intestini maioris. – [136] Veg. mulom. 1, 42, 1 prohibet illa ad cataclidem longanonis. – [137] Ortoleva 1999, 175. – [138] Nella trattazione delle varie parti che compongono l’arto equino non sarà seguito un metodo strettamente anatomico quanto più filologico. – [139] Frammento edito da Blass, 1863. – [140] Xen. Eq. 1, 3. – [142] Xen. Eq. 1, 3. – [143] Xen. Eq. 1, 2. – [144] Xen. Eq. 1, 4. – [145] Xen. Eq. 1, 5. – [146] Xen. Eq. 1, 5 : kai; krissou;~ givgnesqai. – [147] Xen. Eq. 11, 3. – [148] Colum. 6, 30, 2 Multum autem refert robur corporis ac pedum servare. – [149] André 1991, 105. – [150] Fischer 1980, 116 nomen articulationis transit in os articulationi subiacens. – [151] André 1991, 107. – [152] Colum. 5, 9, 11 deinde arando ne coxam bos, aliamve partem corporis offendat. – [153] Veg. mulom. 1, 27, 3-4 in singulis femoribus eminentes venas medias [...] aliquis dolor coxae vel gambae; Chiron 26. – [154] André 1996, 46-58. – [155] Pelagon. 85 in aqua acronem pinguem porcinum decoque […]. – [156] Chiron 45 si quod iumentum coxam fregerit aut acrocolefia aut supragambam […]; Chiron 588 ; Chiron 495. – [157] Veg. mulom. 3, 1, 2. – [158] Colum. 6, 12, 1 Sed si sanguis adhuc supra ungulas in cruribus est; Veg. mulom. 4, 9, 1 sed si sanguis adhuc supra ungulas in cruribus est. – [159] ThlL 6, 2, 1687, 84-1688, 20 : commissura tibiae et pedis equorum. – [160] Plin. nat. 11, 248 nam quae animal generant, genua ante se flectunt et suffraginum artus in aversum; Colum. 6, 15, 2 et deinde suffragines, coronae, ac discrimen ipsum, quo divisa est bovis ungula, vetere axungia defricentur. – [161] Corsetti 1982, 242-245. – [162] Gloss. 3, 606, 13 suffragines : gambas ; 2, 330, 29 suffragines, to; uJpo; to; govnu mevro~. – [163] Chiron 619 - 620 si quod iumento in basibus duritiae natae fuerint ; Chiron 652 Quodcunque iumentum articulos oneraverit vel bases. – [164] Adams 1995, 397, 406, 549. – [165] Veg. mulom. 2, 46 De genu emoto vel basi. Genu vel basim si emoverit, […]. – [166] Veg. mu 













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lom. 3, 1, 1 Iumentum igitur habet in capite ossa II […] Bases quae appellantur numero II. – [167] Fischer 1980, 96. – [168] Adams 1995, 549. – [169] Chiron 400 Venter ei turget et crura et testes et tibia; Chiron 47 si iumentum cambam percussam habuerit […] Si quod iumentum cambosum factum fuerit [...] Sanguinem emittito de tibia; Pelagon. fragm. 515, 3 quae nascuntur in genibus aut tibias aut internodiis aut articulis. – [170] Adams 1995, 401. – [171] Veg. mulom. 3, 2, 1 ab acrolefio usque ad gambam II, a gamba usque ad cirros tibiales II. – [172] Pelagon. 190 sanguis de brachiolis mittendus est; Pelagon. 212; Veg. mulom. 1, 25, 5 de brachiolis sanguis minuatur ; […] ubi centriae id est musculi brachiolare sunt. In merito si veda Ortoleva 1999, 159. – [173] Prima della puntualizzazione di Adams si pensava che con brachiolum si dovesse intendere un muscolo della gamba del cavallo. Così infatti il ThlL 2. 2156.34 e Lewis-Short IIA. – [174] Per queste ed ulteriori osservazioni : Ortoleva 1999, 160-161. – [175] Veg. mulom. 1, 26, 2 ut a corona ungulae sublevetur […] inter unguem et solum ; […] de calcaneo venas fluire; Chiron 23 ut solum se ab ungula levet. […] ex quo a calcaneo invenies venas fluere; Chiron 662 cum tibi calciata separata ab ungula visa fuerit, […] et auferes eum calcaneum ungulae. – [176] Adams 1981a, 120-128 ; Adams 1981b, 231264 ; Adams 1982 ; Adams 1990b, 90-109. – [177] André 1991b. – [178] Fischer 1980. – [179] Langslow 2000. – [180] Arist. HA 3, 1, 148, 30-32. – [181] Traduzioni e rinvii qui ed infra da : I. Garofalo, Galeno ; Procedimenti anatomici traduzione e note, Milano, 1991. – [182] Gal. Anat. Admin. 12, 1 Gar. (953). – [183] Gal. Anat. Admin. 12, 7, 154; Garofalo 2002, 967-968. – [184] Gal. Anat. Admin. 12,1, 155 Gar. (968). – [185] Arist. HA 3, 152. – [186] Arist. HA 3, 1, 153, 29-35. – [187] Pelagon. 481 bis coleos foveto. – [188] Chiron 484 De testiculorum dolore; Chiron 485 Si quod iumentum testes dolebunt. – [189] Chiron 683684. – [190] Arist. HA 3, 1, 150, 29. – [191] BonnetCadilhac 1997 “Ces corps érectiles sont formés d’une tunique fibreuse et épaisse, l’albuginée qui les entoure et qui envoie des travées plus ou moins nombreuses et fibreuses délimitant les cavernes, pour donner au pénis le type fibro-élastique chez le porc et les ruminants (pénis ferme en dehors de l’érection), et le type musculo-caverneux du cheval (pénis flacide au repos)”. – [192] Bonnet-Cadilhac 1997, 35. – [193] Adams 1995, 421 ; Adams 1982, 53 ; cfr. André 1991, 167-168. – [194] Pelagonio adotta il termine veretrum nel caso di cure per eventi traumatici ma loca naturalia quando parla di problemi urinari : Pelagon. 152-153 ita ut spongias calidas locis omnibus naturalibus admoveas. […] et alterum supra natura; Pelagon. 157 si equus veretrum summissum habuerit nec revocare potuerit; Palladio in 14, 22, 4 riprende il passo di Columella, quindi usa loca naturalia e genitalia non solo in riferimento  





















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andrea di caristo

agli organi maschili ma anche a quelli femminili. Per Palladio si segue l’edizione di Rodgers 1975a. Chirone usa spesso il termine veretrum sia in riferimento alla pratica della castrazione sia nel caso di cure per eventi traumatici sia in riferimento a problemi urinari. Chiron 730 Si quod iumentum veretrum submiserit; Chiron 680 Quodcunque iumentum veretrum submiserit et revocare non potuerit, […]; Chiron 401 [De ydropico] ad veretrum versus sagitta pungis, ut peritoneon ipsum rumpas. Vegezio usa sia il termine veretrum sia natura - loca naturalia. Al contrario di quanto accade nel testo di Chirone troviamo il temine natura in riferimento ad eventi traumatici : Veg. mulom. 2, 73 Si natura revocari non possit. Vegezio usa veretrum per problemi legati alla funzione urinaria : Veg. mulom. 2, 79, 2 Et si difficulter mingat […] ; si quando guttas per veretrum mittit com labore […]. – [195] Arist. GA 2, 2 ; Gal. Anat. admin. 12, 1, 137 Gar. (953). – [196] Erofilo (330-250 a.C. ca) scrisse il primo trattato di ostetricia contribuendo enormemente alla conoscenza dell’apparato riproduttore femminile. Egli, infatti, non solo confutò la teoria dell’utero a due camere, ripresa però da Galeno, ma scopri l’esistenza delle ovaie e delle tube di Falloppio. Russo 2003 ; von Staden 1989. – [197] Arist. HA 1,14, 493b ; Gal., Anat. Admin. 1, 2, 716. – [198] Arist. GA 1, 20, 729, 9 ; Arist. GA 2, 3, 736 b, 28; Lloyd 1990 ; Vegetti 1996b ; Lanza-Vegetti 1996 ; Gotthelf 1965 ; Devereux-Pellegrin 1987. – [199] Colum. 6, 27, 10 Si equa marem non patitur, detrita scilla naturalia eius linuntur; Colum. 6, 30, 4 Si urinam non facit, eadem fere remedia sunt […] inseritur naturalibus. – [200] Colum. 6, 30, 4 […] vel de bitumine collyrium inseritur naturalibus […] si urina genitalia decusserit; Colum. 7, 7, 4 Cum effetae loca genitalia tumebunt […] et naturalia ceroto liquido repleantur; Colum. 7, 3, 16 cum transuersus haeret locis genitalibus. – [201] Chiron 772 quibus decoctis adicies ei haec in virginali [...] et coicies in virginalem impones. – [202] Arist. HA 6, 18, 302-304. – [203] Arist. HA 6, 18, 304, 2. – [204] Arist. HA 3, 1, 156, 7-10. – [205] Gal. Anat. admin. 12, 2, 141 (Gar. 956). – [206] Gal. UP 14. – [207] Plin. nat. 8, 68 sed incontinens uterus urina genitale reddit, […]; Plin. nat. 8, 77 Suilli pecoris admissura a favonio ad aequinoctium vernum, […] tempus utero quattuor mensum. – [208] Colum. 6, 1, 3 capaci et tamquam implente utero; Colum. 7, 3, 7 eliges [...] lanosi et ampli uteri, nam vitandus est glaber et exiguus. – [209] Colum. 6, 22 et utique taurae, […] propter uteri sterilitatem, patientes sunt. – [210] Colum. 6, 30, 9 Solent etiam vermes atque lumbrici nocere intestinis […] si admovent caput utero. – [211] Adams 1995, 422 : “in Pelagonius it has the sense ‘jugular vein’ = (vena matricalis)”. – [212] Chiron 224 similiter et tiniolae in utri, quae pediculi ab aliis  

appellantur. – [213] Chiron 176-177 propter quod feminarum matrix ipsum concipit morbum. [...] quod matricem earum magis prendat; Chiron 745-746 Dentitio prima totum corpus commovet [...] et tumescet matrix. – [214] Chiron 771. – [215] Chiron 177 id est virginalis. Bibliografia. Adams 1981a ; Adams 1981b ; Adams 1982a ; Adams 1995, 275-276 ; 365-369 ; 397 ; 401 ; 406 ; 413-414 ; 416 ; 421-422 ; 549 ; André 1991, 72, 105-107 ; 167-168 ; Bonnet-Cadilhac 1997, 35 ; Corsetti, 1982a, 242-245 ; Devereux-Pellegrini-Garofalo 1991 ; Fischer 1980, 96, 116 ; Garofalo 2002, 967968 ; Gotthelf 1965 ; Langslow 2000 ; Ortoleva 1999, 159 ; 174-177; Russo 2003 ; von Staden 1989.  













































Violetta Scipinotti























Andrea di Caristo. Medico personale del re Tolemeo iv Filopatore, fu ucciso per errore, al posto del re, o nell’anno 217 o nel 215 a.C., prima della battaglia di Rafia (Plb. 5, 81). Seguace di Erofilo, scrisse un’opera intitolata Navrqhx sui poteri dei farmaci (Schol. Nic. Ther. 684) resa famosa da Dioscoride nel De materia medica ; essa contiene anche descrizioni di piante e radici ed è citata da Serapione (200 a.C.), da Eraclide di Taranto e da Plinio per il tramite di Sestio Nigro. A. è inoltre autore di un’opera sui veleni (Ath. 7, 312 d ; Schol. Nic. Alex. 537 ; Cael. Aur. acut. 3, 9, 218) forse nota a Nicandro, di uno scritto contro i libri di magia (Ath. 7, 312 e ; Schol. Nic. Ther. 823) e di un trattato di ostetricia ; a lui va attribuita anche l’opera sulle corone citata da Ath. 15, 676c. Non è sicuro se debba essere identificato con quell’’Andreva~ oJ tou` Crusavrou~ che apparteneva ai gravyante~ ta;~ ojnomasiva~ tw`n farmavkwn e con l’autore dell’opera peri; th'~ ijatrikh'~ genealogiva~ : al contrario A. è il Caristio che ipotizzò la formazione dello stinco dal midollo (Cass. Pr. phys. 58). Commentò Ippocrate, senza però scrivere un proprio commento e per questo Eratostene lo accusò di plagio e lo chiamò Bibliaivgisqo~, mentre Galeno lo bollò come mago e imbroglione. Celso e Galeno conoscono la sua pomata per gli occhi (Cels. 6, 6) e il suo strumento per la sistemazione degli arti slogati (Cels. 8, 20) descritto da Oribasio (de mach. 4 sg.).  











Bibliografia. Fraser 1972, 369-371 ; Nutton 1996e ; von Staden 1989, 472-477 ; von Staden 1998 ; Wellmann 1894b.  







Francesco Ragni

animali velenosi Andromaco di Creta. Medico personale di Nerone, famoso per aver scoperto un antidoto contro i veleni di provenienza animale. Tale rimedio, la cui preparazione è stata da lui descritta in un componimento poetico di 87 distici elegiaci, divenne così famoso da sostituire il Mithridatium di Mitridate VI Eupatore. A Roma era preparato non solo da medici e ciarlatani, ma anche con l’espressa autorizzazione di Marco Aurelio, che ne assumeva giornalmente una dose come tonico e lo apprezzava particolarmente ; il suo esempio incoraggiò le classi agiate ad imitarlo, ma dopo la sua morte passò di moda. Rispetto ai 41 ingredienti del Mithridatium, questo ne conteneva 64 provenienti da tutto il mondo. Il figlio →Andromaco il Giovane, che mise in prosa i versi del padre, consiglia il contravveleno contro tutti i disturbi interni, compreso il mal di stomaco, ed anche contro i veleni mortali e gli attacchi di ogni genere. Il componimento ci è tramandato da Galeno (Antid. 14, 32-42; Ther. Pis. 14, 233 K).  

Bibliografia. Hautala 2005 ; Heitsch 1963 ; Heitsch 1964 ; Houston 1992, 354-361 ; Luccioni 2003, 59-75 ; Nutton 1996c, 691-692 ; Salemme 1972 ; Schneider 1858 ; Watson 1966 ; Wellmann 1894c, 2153-2154.  

















Paola Tempone Andromaco il Giovane. Figlio di →Andromaco di Creta e medico anch’egli, esercitò la professione a Roma e, come suo padre, fu al servizio della corte imperiale. Negli anni 70-80 del i sec. d.C. scrisse un’opera di farmacologia (Peri; farmavkwn skeuasiva~) in tre libri, nel primo dei quali trattava delle cure esterne, nel secondo delle cure interne, nel terzo delle cure oftalmologiche. Si tratta in gran parte di un elenco di rimedi efficaci dei medici precedenti, agli scritti dei quali A. aggiungeva le proprie considerazioni. Galeno gli rimproverava di non aver trattato né della preparazione, né degli effetti dei rimedi e di non aver distinto accuratamente i casi in cui essi si sarebbero dovuti utilizzare. Tuttavia lo scienziato di Pergamo nei suoi De compositione medicamentorum secundum locos e De compositione medicamentorum secundum genera inserisce, spesso alla lettera, interi passi di A. ; nel De antidotis, infine, si trovano poche citazioni delle opere di A., compreso il poemetto Galhvnh composto dal padre e da lui messo in prosa.  

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Bibliografia. Durand 1991 ; Fabricius 1972, 185189 ; Marganne 1997, 153-174 ; Nutton 1996d, 692 ; Wellmann 1894d, 2154.  







Paola Tempone Animali velenosi. 1. Anfisbena [ajmfivsbaina, amphisbaena] 1. – Identificazione della specie. Rettile da alcuni ritenuto un animale fantastico, [1] da altri identificato con specie esistenti, come il Blanus strauchi. [2] L’a. deve il suo nome alla peculiare caratteristica di strisciare indifferentemente da ambo le parti, elemento che la distingue dallo scitale, [3] rettile che appartiene evidentemente a una specie vicina. 2. Descrizione. – →Nicandro,[4] seguito da →Eliano, [5] →Plinio [6] e Lucano, [7] afferma che l’a. ha due teste, inaugurando una tradizione che arriverà fino a Brunetto Latini [8] e Dante. [9] L’a. è descritta come di modeste dimensioni, con gli occhi poco visibili e la pelle color terra, punteggiata. 3. Sintomatologia. – Il morso dell’a., da alcuni ritenuto molto temibile, [10] è descritto da Filumeno[11] come poco visibile e non mortale, al pari di quello dello scitale, mentre Nicandro sottolinea come la sua pelle possa essere utilizzata contro l’intirizzimento e il dolore dovuto alla tensione dei tendini.  













Note. [1] Vd. Scarborough 1977, 8 ; KnoefelCovi 1991, 134. – [2] Vd. Bodson 1986b, 70. – [3] Vd. Jacques 2002, 125. – [4] Vd. Nic. Th. 372-383. – [5] Vd. Ael. NA 9, 23 – [6] Vd. Plin. nat. 8, 85. – [7] Vd. Luc. 9, 719. – [8] Vd. Trésor i, v, 140. – [9] Vd. Inf. xxiv, 87. – [10] Vd. Plin. nat. 8, 85 ; Nonn. 5, 146 sg. – [11] Philum. 32, 23-25 W. ; 33, 1-7 W.  





Bibliografia. Bodson 1986b ; Knoefel-Covi 1991 ; Jacques 2002 ; Scarborough 1977.  





2. Aspide [ajspiv~, aspis] 1. – Identificazione della specie. Sotto il nome tradizionale di a. si identifica il cobra egiziano Naia Haje, [1] originario, secondo →Aristotele, [2] della Libia. Nell’antichità ne erano note almeno tre specie, distinguibili per colore e dimensioni e diverse per vis venefica e sintomatologia : cersai'ai, celidoniai'ai e ptuavde~. Proprio a quest’ultima specie, la più venefica, apparteneva il rettile che diede la morte a Cleopatra. [3] 2. Descrizione. – →Nicandro [4] descrive l’a. come un rettile di circonferenza ragguardevole e lunghezza superiore al metro e mezzo, la cui pelle può essere grigia, bruna o nera, con due  







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animali velenosi

escrescenze callose sulla fronte, sulla cui sommità si distinguono gli occhi rossastri ; quattro denti aguzzi e lunghi nell’arcata inferiore sono nascosti da una membrana in cui ha sede il veleno. Caratteristiche dell’a. sono la subitanea dilatazione del collo [5] e lo scatto con cui leva la testa in preparazione all’attacco. 3. Sintomatologia. – Il morso dell’a., ritenuto il più pericoloso tra i rettili perché secondo diverse fonti al suo veleno non era noto alcun antidoto efficace, [6] non lascia alcun segno sulla pelle, né causa bruciore o gonfiore, ma, secondo →Nicandro, [7] provoca uno stato comatoso seguito da una morte indolore.  





Note. [1] Vd. Bodson 1986b, 69 ; Scarborough 1977, 7 ; Knoefel – Covi 1991, 134. – [2] Vd. Arist. HA 607a 22. – [3] Vd. Jacques 2002, 98. – [4] Vd. Nic. Th. 157-189. – [5] Vd. Nic. Th. 179-181 ; Plin. nat. 8, 85 ; Luc. 9, 701. – [6] Vd. Ael. NA 2, 24 ; 6, 38 – [7] Vd. Nic. Th. 187-189.  









Bibliografia. Bodson 1986b ; Knoefel-Covi 1991 ; Jacques 2002 ; Scarborough 1977.  





3. Bupreste [bouvprhsti~, bouprestis] 1. – Identificazione della specie. Insetto coleottero ritenuto appartenente alla famiglia delle cantaridi, [1] identificato da alcuni con il Meloe variegatus, [2] da altri con il Meloe proscarabaeus[3] ; deve il suo nome alla frequenza con cui, nascondendosi tra le erbe, viene ingerito dai bovini e li avvelena. 2. Descrizione. – Secondo →Plinio, [4] il b. è molto simile allo scarabeo longipede ; le sue dimensioni sono variabili, con tegumenti duri dai colori brillanti e metallici. Secerne un odore molto caratteristico e il suo sapore è simile a quello del nitro. [5] 3. Sintomatologia. – Il morso del b. è assai temibile e causa sintomi molto simili a quelli provocati dall’idropisia : dolori allo stomaco, blocco della vescica, gonfiore addominale[6] e, secondo alcune fonti, infiammazione. [7]  















Note. [1] Vd. Diosc. 2, 61. – [2] Vd. Scarborough 1979, 21. – [3] Vd. Lenz 1856, 541. – [4] Plin. nat. 30, 30. – [5] Vd. Nic. Al. 337-338 ; Scrib. Larg. 190. – [6] Vd. Nic. Al. 335-346 ; Gal. 14,141 ; Paul. Aeg. 5, 32. – [7] Vd. Radici 2006, 221-225.  





Bibliografia. Lenz 1856 ; Radici 2006 ; Scarborough 1979.  



tenente alla famiglia dei Meloidi, da alcuni identificato con la Lytta vesicatoria, [1] da altri ritenuto di identificazione impossibile. [2] 2. Descrizione. – Caratteristica della c. è la pelle dal colore splendente ; [3] →Plinio [4] ammette la difficoltà a localizzare la sede del veleno all’interno del corpo della c. e, operando una distinzione in base alla vis venefica, sostiene che il veleno più efficace è secreto dalla c. che mostra strisce gialle sulle ali e ha dimensioni maggiori rispetto agli altri tipi. Già →Aristotele [5] testimonia che la c. vive in colonie su alberi di fico, di pero e abeti sin dallo stato larvale. 3. Sintomatologia. – Il succo estratto dalla c., che secondo le fonti ha proprietà medicamentose, [6] se assunto in quantità non opportunamente dosate, provoca bruciore, vesciche e infiammazione, e può essere mortale. [7]  









Note. [1] Vd. Gossen 1919, col. 1482 ; DaviesKathirithamby 1986, 92-94. – [2] Vd. Jacques 2002, 208. – [3] Vd. Nic. Th. 755. – [4] Vd. Plin. nat. 29, 93-95. – [5] Arist. HA 552b 1-3. – [6] Vd. Diosc. 2, 61. – [7] Vd. Plin. nat. 29, 93.  

Bibliografia. Davies-Kathirithamby 1986 ; Gossen 1919 ; Jacques 2002.  



5. Ceraste [keravsth~, cerastes] 1. – Identificazione della specie. Rettile identificato da alcuni con il Cerastes cornutus, [1] da altri con il Cerastes cerastes ; [2] il c. deve il suo nome alla presenza di corna sulla sommità del capo. 2. Descrizione. – →Nicandro [3] lo descrive come simile all’echis, a cui è pari nelle dimensioni, ma sottolinea che la sua caratteristica è la presenza di due o quattro corna ; [4] la pelle è di colore scuro o simile alla sabbia, [5] ricoperta di squame, e, secondo →Plinio, [6] anche di quattro paia di piccole corna. L’andatura del c. non è lineare, come quella dell’echis, in quanto procede per continue spinte del ventre e, secondo Filumeno, [7] strisciando produce una sorta di fischio per via delle squame che ne ricoprono il ventre. 3. Sintomatologia. – Nella zona interessata dal morso del c., la carne diventa callosa e coperta di vesciche di colore scuro ; la ferita non causa molto fastidio, ma, non appena il veleno entra in circolo, il dolore si diffonde nei lombi e tutto il corpo si fiacca, fino alla morte che sopraggiunge entro pochi giorni. [8]  















4. Cantaride [kanqariv~, cantharis] 1. – Identificazione della specie. Insetto coleottero appar-

Note. [1] Vd. Gossen-Steier 1921, 546a ; Knoefel-Covi 1991, 134. – [2] Vd. Bodson 1986b, 69. –  

animali velenosi [3] Vd. Nic. Th. 258-270. – [4] Vd. Jacques 2002, 111. – [5] Vd. Diod. 3, 50, 2. – [6] Vd. Plin. nat. 8, 85. – [7] Vd. Philum. 25, 6-13 W. – [8] Vd. Nic. Th. 271-281. Bibliografia. Bodson 1986b ; Gossen-Steier 1921 ; Jacques 2002 ; Knoefel-Covi 1991 ;  







6. Dipsade [diyav~, dipsas] 1. – Identificazione della specie. Viperide identificato da alcuni con la Vipera prester, [1] da altri, a seconda del biotipo africano o europeo, rispettivamente con il Cerastes cerastes o con la Vipera ammodytes; [2] la d. deve questo nome alla sete che il suo morso provoca in chi lo subisce, ma le fonti riportano anche denominazioni diverse. [3] 2. Descrizione. – La d. è descritta come una vipera di piccole dimensioni dalla coda esile, molto scura e nera all’estremità[4] ; alcune fonti l’assimilano al seps e sostengono che il suo corpo è ricoperto da squame nere e arancioni, [5] altre che è bianco con due bande nere sulla coda. [6] Caratteristica della d. è il restringimento di tutto il corpo o del solo muso[7] a guisa di pungiglione in previsione dell’attacco. 3. Sintomatologia. – La ferita provocata dal morso della d. non è particolarmente evidente né dolorosa, ma, alla penetrazione completa del veleno, si diffonde un bruciore che coinvolge tutte le membra, e il corpo si disidrata notevolmente. [8]  











Note. [1] Vd. Brenning 1904, 133, n. 88. – [2] Vd. Bodson 1986b, 68-69. – [3] Vd. Jacques 2002, 119. – [4] Vd. Nic. Th. 334-337. – [5] Vd. Philum. 20,1 W. – [6] Vd. Ael. NA 6, 51. – [7] Vd. Schol. Nic. Th. 334a. – [8] Vd. Luc. 9, 737-746. Bibliografia. Bodson 1986b ; Brenning 1904 ; Jacques 2002.  



in previsione dell’attacco, gli occhi assumono un colorito rossastro, la lingua bifida vibra e la coda si incurva ; inietta il veleno attraverso i due canini dell’arcata superiore. L’echidna, invece, ha la testa di dimensioni più ampie, un corpo più robusto e la coda mozza e squamosa ; i suoi occhi, come quelli dell’echis, si iniettano di sangue, e ha numerosi denti. 3. Sintomatologia. – Le fonti non operano una distinzione netta tra echis ed echidna, e anzi alcuni sintomi sono caratteristici dell’avvelenamento provocato anche da altri viperidi. [7] La carne interessata dal morso secerne un siero oleoso rossastro o incolore, diventa livida e si gonfia, si ricopre di bolle e si incancrenisce ; non appena il veleno entra più completamente in circolo si diffonde un indebolimento generale, accompagnato da infiammazioni diffuse e sete, sudore freddo e vomito. [8] 4. Mitologia. – Echidna è una divinità ctonia che, secondo Esiodo, [9] appare come metà serpente e metà donna bellissima ; generata in una grotta, abita in una roccia e inghiotte crude le sue prede nelle viscere della Terra. La mostruosità di Echidna è confermata dalla sua progenie ; suoi figli sono personaggi mitologici terrificanti, quali Cerbero, Orto, la Sfinge, il Leone di Nemea, l’Idra di Lerna e la Chimera.  















Note. [1] Vd. Gossen-Steier 1921, coll. 537-543 ; Bodson 1986b, 68. – [2] Vd. Knoefel-Covi 1991, 134. – [3] Vd. Nic. Th. 219-221 ; 223-229. – [4] Ael. NA 10,9. – [5] Vd. Gal. 14, 265, 1-7. – [6] Aet. 13, 23. – [7] Vd. Jacques 2002, 109. – [8] Vd. Nic. Th. 235-57. – [9] Vd. Hes. Th. 295-297.  



Bibliografia. Bodson 1986b ; Gossen-Steier 1921 ; Jacques 2002 ; Knoefel-Covi 1991.  



7. Echis – Echidna [e[[ci~, e[[cidna, echis, echidna] 1. – Identificazione della specie. Rettile identificato da alcuni con la Vipera ammodytes, [1] da altri genericamente indicato come viperide[2] ; →Nicandro[3] fornisce descrizioni separate dell’echis (maschio) e dell’echidna (femmina), ma, al contrario di Eliano, [4] li ritiene appartenenti alla medesima specie, come accade generalmente per la letteratura parallela. 2. Descrizione. – Con la descrizione di Nicandro anche →Galeno [5] e →Aezio [6] sono abbastanza concordi. L’echis, che striscia in maniera costante e lineare, è più esile dell’echidna, ha la testa appuntita, lunghezza variabile, termina in una coda appuntita e squamosa ;  







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8. Emorro [aiJmovrroo~, haemorr(h)ois] 1. Identificazione della specie. – Rettile identificabile con un viperide del genere Echis, [1] che deve il suo nome all’effetto emorragico del veleno che produce. →Nicandro (Th. 282-319) lo descrive con caratteristiche molto simili a quelle di cui parla per il ceraste (vd. supra 5), e questa somiglianza spinge a pronunciarsi per l’appartenenza dei due rettili alla medesima specie. [2] 2. Descrizione. – Secondo Nicandro ed Eliano, [3] la pelle dell’e. ha colori che variano dal grigiastro al rossiccio ed è ricoperta da squame che producono un caratteristico rumore mentre striscia, procedendo diritto ; la forma  







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animali velenosi

del corpo, lungo quanto l’orma di un piede, si assottiglia molto in prossimità della coda ; sulla testa presenta due corna bianche, [4] che costituiscono il tratto più peculiare di questa tipologia di rettile. Filumeno, [5] invece, attribuisce alla pelle dell’e. un colore simile a quello della sabbia, con punte bianche e nere. 3. Sintomatologia. – Gli effetti del morso dell’e. rientrano nella sintomatologia dell’avvelenamento provocato da viperidi ; Nicandro ed Eliano parlano di ematomi, dolore al petto, [6] idropisia, piaghe e minzioni ematiche, oltre che di emorragie dalle narici, dalla gola, dalle orecchie ; secondo Filumeno anche gli occhi si iniettano di sangue. Particolare attenzione è dedicata da Nicandro alla descrizione delle conseguenze del morso dell’e. femmina, che provoca emorragie da gengive e unghie. 4. Mitologia. – Un’eziologia del peculiare procedere dell’e., estesa anche al ceraste, ha come responsabile Elena, che, adirata per la morte di Canobo, timoniere di Menelao morso da un e. femmina, schiaccia il serpente e ne spezza le vertebre. [7]  













Note. [1] Vd. Bodson 1986b, 72 ; Scarborough 1977, 8 ; Knoefel-Covi 1991, 134. – [2] Vd. Jacques 2002, 113. – [3] Vd. Nic. Th. 286-297 ; Ael. NA 15, 1318 ; Jacques 2002, 113-114. – [4] Vd. Jacques 2002, 114. – [5] Vd. Philum. 27, 10-7 W. – [6] Vd. Touwaide-Förstel-Aslanoff 1997, 207, nn. 73-74. – [7] Vd. Nic. Th. 309-319.  







Bibliografia. Bodson 1986b ; Jacques 2002 ; Knoefel-Covi 1991 ; Scarborough 1977 ; Touwaide-Förstel-Aslanoff 1997.  







9. Salamandra [salamavndrh, salamandra] 1. – Identificazione della specie. Anfibio appartenente alla famiglia delle Salamandridae. [1] 2. Descrizione. – Secondo →Plinio, [2] la s. è molto simile alla lucertola ; la pelle, che può essere di diversi colori e con disegni variabili, è peculiare per la sua viscosità. [3] Proprio per questa caratteristica, le fonti antiche[4] ritengono che la s. abbia la facoltà di passare indenne attraverso il fuoco o di spegnerlo, fama che si conserverà fino al Medioevo. 3. Sintomatologia. – La s. è ritenuta dalle fonti antiche particolarmente temibile : secondo →Nicandro, appena il veleno entra in circolo la base della lingua si gonfia, la pelle si illividisce, brividi si diffondono per tutto il corpo e le articolazioni si indeboliscono. Plinio ritiene che la s. sia capace di uccidere molte persone  









in pochi minuti[5] e che anche la sua bava sia mortale. [6]  

Note. [1] Vd. Jacques 2002, 224-225 ; Pontani 1971; Orth 1920, 1821-1822. – [2] Vd. Plin. nat. 10, 188. – [3] Vd. Pontani 1971, 153-155 ; Jacques 2002, 224. – [4] Vd. Nic. Th. 817-821 ; Theophr. Sign. 15. – [5] Vd. Plin. nat. 29, 74-76. – [6] Vd. Plin. nat. 10, 188.  





Bibliografia. Jacques 2002 ; Orth 1920 ; Pontani 1971.  



10. Scorpione [skorpivo~, scorpio] 1. – Identificazione della specie. Artropode appartenente alla classe degli aracnidi di cui nell’antichità si distinguevano diverse specie. Nicandro [1] ne descrive nove diverse tipologie : lo s. bianco (leukov~), identificato con lo scorpio europaeus, [2] era considerato innocuo ; lo s. rosso (pursov~) corrisponderebbe al buthus occitanus[3] ; lo s. nero (zofovei~) e lo s. verde (cloavwn) sono identificati come appartenenti al genere androctonus[4] ; lo s. simile al paguro, descritto anche da →Aristotele, [5] corrisponderebbe al cancer pagurus[6] ; uno s. di colore livido (ejmpevlio~), uno assimilato al granchio, un altro color miele con la punta della coda nera e uno le cui membra sono assimilate al fuoco sono di difficile identificazione. [7] 2. Descrizione. – Nicandro[8] distingue i diversi tipi di s. in base al colore della corazza o alla somiglianza con altri aracnidi ; in particolare, lo s. verde è dotato di un pungiglione retrattile e nove punti di articolazione delle vertebre ; lo s. livido ha un ventre pronunciato ed è erbivoro come lo s. assimilato al granchio, che mangia alghe e vive sulla costa ; lo s. simile al paguro ha una corazza pesante e chele molto rigide e ruvide ; lo s. con membra simili alle fiamme del fuoco è dotato di ali bianche, assimilato alla locusta e probabilmente coincidente con una delle specie (pterwtov~) a cui accenna Ps.Elio Promoto. [9] Plinio [10] conferma l’esistenza di nove diverse tipologie di s., mentre per Eliano[11] esistono undici diverse tipologie di s., distinte per colore e forma e diversamente nocive. 3. Sintomatologia. – La zona interessata dal morso dello s. è colpita da un dolore locale acuto, mentre i muscoli della gola, paralizzati, danno sensazione di costrizione e sete. [12] Tra le tipologie ritenute maggiormente venefiche, lo s. rosso, [13] il cui morso provocherebbe febbre alta e infiammazione ; [14] l’avvelenamento  































antifonte sofista causato dalla puntura dello s. nero provoca convulsioni, mentre il morso dello s. verde causa brividi e sensazione di raffreddamento in tutto il corpo. [15]  

Note. [1] Vd. Nic. Th. 769-804. – [2] Vd. Steier 1929, 1804. – [3] Vd. Steier 1929, 1804. – [4] Vd. Steier 1929, 1805. – [5] Vd. Arist. HA 525b 5. – [6] Vd. Jacques 2002, 217. – [7] Vd. Jacques 2002, 216218. – [8] Vd. Nic. Th. 769-804. – [9] Vd. Ps.-Ael. Prom. 51, 16-20. – [10] Vd. Plin. nat. 9, 87. – [11] Vd. Ael. NA 6, 20. – [12] Vd. Touwaide-FörstelAslanoff 1997, 224. – [13] Vd. Ael. NA 6, 20. – [14] Vd. Nic. Th. 771-774. – [15] Vd. Nic. Th. 775-779. Bibliografia. Jacques 2002 ; Steier 1929 ; Touwaide-Förstel-Aslanoff 1997.  



Livia Radici Anonymus Londinensis. Frammento papiraceo di un volumen, che conserva 39 coll. e 23 frr. minori e che rientra, per tipologia testuale, nella dossografia medica. Edito nel 1893 da F. Kenyon e H. Diels, il testo è mutilo all’inizio. Recentemente D. Manetti[1] ha sostenuto che l’A. L. sia un testo autografo (“l’A. non solo scrive materialmente l’opera, ma è anche il suo autore”), respingendo così sia l’ipotesi di Diels [2] (appunti di uno studente di medicina copiati da un modello lacunoso o danneggiato) che quella di Jones [3] (appunti di uno studente di medicina “desunti da lezioni di un professore e copiati successivamente da uno scriba”). Ci troveremmo dunque di fronte a uno scriba che “sta elaborando ciò che scrive e talvolta ha dei ripensamenti” ; [4] ad “un lavoro (incompiuto) in cui l’autore è tutt’uno con l’anonimo scriba del testo”. [5] Il papiro è databile al i/ii sec. d.C. (il termine post quem è dato dalla citazione di Alessandro Filalete, medico erofileo vissuto all’inizio del i sec. d.C.). Fonti certe dell’A. sono la ’Aristotevlou~ ijatrikh; sunagwghv, gli Aijtiologouvmena di →Sorano (utilizzati nelle coll. xxi-xxxix), [6] e la fisiologia di →Asclepiade. Il contenuto dell’opera si presenta diviso in tre parti distinte : a. Definizioni ; b. Eziologia delle malattie ; c. Evoluzione della →Fisiologia. Gli autori citati, oltre ad Aristotele, sono compresi tra →Ippocrate e Filalete.  











Note. [1] Manetti 1994. – [2] Diels 1893. – [3] Jones 1947. – [4] Manetti 1986, 58. – [5] Dorandi 1992, 50. – [6] Garofalo 1993, i, 346. Bibliografia. Diels 1893, 410 ; Dorandi 1992, 50 

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51 ; Garofalo 1993, 345-368 ; Jones 1947 ; Manetti 1986, 58-59 ; Manetti 1990, 219-221 ; Manetti 1994, 47-58 ; Manetti 1999, 94-141 ; Manetti 2003, 335347 ; Mazzini 1997, 60-61 ; Nutton 1996h.  

















Maurizio Baldin Antifonte Sofista. La storiografia filosofica ha dibattuto a lungo sull’identità di Antifonte Sofista già dal i sec. a.C. con Didimo Alessandrino. Successivamente Ermogene (Hermog. de id. B 399, 18 Rabe = 87A29 D.-K.) affrontò la questione affermando l’esistenza di diversi A., due dei quali di ambito sofistico : uno detto A. Sofista di Atene, l’altro A. di Ramnunte (un demo ateniese) logografo, dedito alla retorica e alla politica. Tale distinzione, basata su presunte incongruenze stilistiche e contenutistiche delle opere attribuite ai due, è oggi ritenuta dubbia e le due figure sono, pressoché unanimemente, fatte coincidere nella stessa persona (vd. Narcy 1989). 1. La vita. – A. visse nel v sec. a.C. (480-411) e prese parte attiva nella storia di Atene. Non si hanno notizie dettagliate della sua vita. Tucidide (8, 68) ci offre un significativo ed entusiastico profilo di A. (riferendosi al Ramnusio) quale personaggio di spicco del colpo di stato oligarchico dei Quattrocento, messo in opera ad Atene nel 411 a.C. Caduto il governo dei Quattrocento, A. non si sottrasse alle leggi della città venendo così processato. Al processo si difese con un discorso mirabile che non lo salvò, però, dalla condanna a morte. Anche →Aristotele (AP 32, 2-3) esaltò la sua figura, insieme a quelle di Pisandro e Teramene (gli altri due fautori del colpo di stato), ritenendolo un uomo di buone origini che si distinse per intelligenza e saggezza. Platone lo cita, forse ironicamente, quale esperto di retorica (Menex. 236a) e →Senofonte quale interlocutore critico di Socrate (mem. i, 6 = 87A3 D.-K.). 2. Le opere. – Tra le opere attribuibili ad A. abbiamo frammenti di Della verità (libro I sulla teoria della conoscenza e la dottrina dei princìpi; libro ii sulla fisica, l’antropologia e l’etica) – di cui due piuttosto estesi sono stati ritrovati nel 1906 (P.Oxy. xi 1364 – integrato dal n. 3647 nel 1984 – e xv 1797 = 87B44 D.-K.) –, Dell’interpretazione dei sogni, Della Concordia, il Politico, le tre orazioni integre Contro la matrigna, Per l’uccisione di Erode, Sul coreuta (appartenenti alla produzione logografica che, per Cecilio di Calatte, constava di trentacinque discorsi e  

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antigono di nicea

per i filologi alessandrini di sessanta discorsi), le Tetralogie e, forse, l’Arte del non provare dolore (Plu. vit. x orat. 1, 833 c = 87A6 D.-K.). 3. Il pensiero. – A. riprese il tema del rapporto tra nomos e physis indagato anche da Protagora di Abdera e Ippia di Elide. La natura dell’uomo, sempre volta a ciò che è utile e vantaggioso, si pone in contrasto con la legge che non riconosce le istanze umane a favore di una rigidità sancita dalla possibilità della punizione e della pena. La legge si dimostra contraddittoria mentre la natura è regolare : in virtù di questo, ogni uomo è uguale all’altro e non vi può essere differenza tra un greco e un barbaro (questa tesi ha alimentato l’idea che l’autore non potesse essere ateniese). L’utilità personale è il criterio su cui fondare la politica (la democrazia non è, dunque, un sistema auspicabile). Tale posizione presente nel Della Verità, viene poi rivista in maniera più mitigata nel Della Concordia. 4. La retorica. – A. fu un retore di elevato rigore, capace di grande affabulazione. →Plutarco riferisce che A., ritenendo di poter curare il male con le parole, aprì un vero e proprio ambulatorio a Corinto (Plu. vit. x orat. 1, 833 c = 87A6 D.-K.) ; Filostrato aggiunge che per la sua capacità di persuadere fu chiamato Nestore e che impartiva lezioni pubbliche sull’arte di eliminare il dolore (Philostr. vs i 15, 2 = 87A6 D.K.). Si distinse nell’arte di preparare discorsi e in quella di utilizzare un lessico molto accurato nonché nella prassi, propria della Sofistica, di inventare neologismi. Opera retorica sono le Tetralogie, un brillante esempio di antilogie (→Antilogia). 5. La quadratura del cerchio. – A. è anche noto per il suo tentativo di risolvere il problema della quadratura del cerchio. Il metodo utilizzato dal Sofista (→Esaustione) è analogo a quello di →Brisone Di Eraclea. Secondo Simplicio (phys. 54, 12 = 87B13 D.-K.), che si è soffermato anche sul tentativo di quadratura di →Ippocrate di Chio, A. inscrisse nel cerchio un poligono regolare di quattro lati. Dividendo i lati a metà, tracciò da quei punti le perpendicolari fino a intersecare il cerchio. Unendo il punto individuato sulla circonferenza con gli estremi dei lati del quadrato ottenne dei triangoli : l’insieme della figura inscritta era così diventato un ottagono. Procedendo in questo modo (dai lati dei triangoli via via generati), A. riteneva di  





poter far coincidere il poligono con la circonferenza (Simplicio fa riferimento agli Elementi di →Euclide dove è dimostrato che per ogni poligono è possibile costruire un quadrato equivalente : se è accettabile la quadratura, allora anche per il cerchio sarà possibile costruire un quadrato equivalente; Eucl. 2, 14; vd. Narcy 1989). Simplicio osserva che la dimostrazione di A. non può essere considerata valida perché non muove da presupposti geometrici e sostiene, probabilmente con Alessandro di Afrodisia, che A. era in errore, poiché una retta può intersecare una circonferenza in un punto se è esterna (tangente) e in due punti se è interna. Temistio (phys. 4, 2 = 87B13 D.-K.) ci dà un’altra versione della prova di Antifonte : a suo parere il sofista inscrisse un triangolo equilatero nel cerchio sui cui lati elevò tre triangoli isosceli. Continuando in questo modo avrebbe potuto far coincidere poligono e circonferenza. Per Temistio era impossibile proporre tale dimostrazione dal momento che una retta non può mai coincidere con una circonferenza. Sia Simplicio che Temistio criticano A. per non aver tenuto conto del principio della divisibilità all’infinito dello spazio già proposto da →Zenone. Aristotele (Ph. 1, 2, 185 a 14 = 87B13 D.-K. ; Soph. El. 11 171 b 15-29 e 172a 1-8) ritenne erroneo il calcolo di A. tanto da non meritare la confutazione di un ‘geometra’.  





Bibliografia. Albini 1958 ; Barigazzi 1954 ; Casertano 1985 ; Funghi 1994 ; Heath 1921 ; Kerferd 1956-57 ; La Greca 1994 ; Lapini 1991 ; Loria 1914 ; Martano 1972 ; Narcy 1989 ; Niceforo 1972 ; Pichot 1993 ; Ramírez Vidal 2000 ; Rufini 1926 ; Untersteiner 1967 ; Zeppi 1958 ; Zeppi 1961.  

































Stefania Giombini Antigono di Nicea. Vissuto tra il ii e il iii secolo d.C., fu un astrologo autore di numerosi oroscopi di personaggi storici, tra quali spicca un oroscopo riferibile all’imperatore Adriano. [1] Questi oroscopi, alcuni passi e altri materiali erano contenuti nel suo ‘manuale’ che pare fosse suddiviso in almeno quattro libri. [2]  



Note. [1] Jones 2008, s.v. Antigonos of Nikaia, 9394. – [2] Cfr. Rhetor. in ccag viii 1, p. 242, 16 s. Bibliografia. Gundel-Gundel 1966, 221 sgg. ; Jones 2008, s.v. Antigonos of Nikaia, 93-94 ; Urso 2002, 111.  



Carmelo Lupini

antilogia Antilogia. L’antilogia è una struttura retoricoargomentativa dalla forma logica ‘A e non A’ dove le proposizioni ‘A’ e ‘non A’ vengono argomentate e proposte con lo stesso valore epistemico, ossia come dotate dello stesso grado di veridicità. L’arte e la capacità di costruire antilogie in maniera corretta è detta antilogica. 1. L’agone teatrale. – Nel teatro tragico e comico antico si possono riscontrare tracce significative di quell’attitudine a costruire discorsi opposti che è stato creativamente sviluppato in forme autonome dai Sofisti incominciando con i paradossi di →Zenone e con le Antilogie di Protagora. Infatti l’agone teatrale, perno del dramma, istituisce ogni volta dispute verbali che hanno uno sbocco drammaturgico ma dalle quali non scaturisce una vera e propria sintesi o una conciliazione, poiché nessun interlocutore è pronto a riconoscere la sua tesi come la più debole. Ricordiamo soltanto l’agone tra Antigone e Creonte nell’Antigone di Sofocle e tra il Discorso Giusto e il Discorso Ingiusto nelle Nuvole di Aristofane. 2. Zenone di Elea. – Platone fa di Zenone il padre dell’argomentazione antilogica nel Fedro (261d-e, dove Zenone è chiamato ‘Palamede di Elea’) per la sua caratteristica di utilizzare l’arte del contraddittorio. Anche →Aristotele sembra convenire su questo (in Soph. El. 10, 170 b 19-20 = 29A14 D.-K.) e così pure →Plutarco (Per. 4, 3 = 29A4 D.-K.). In effetti, un suo frammento, tramandatoci da Simplicio (phys. 140, 27 = 29B3 D.-K.), è esplicito nel presentare una doppia linea argomentativa : « […] se (gli esseri) sono tanti quanti sono, saranno limitati. Se gli enti sono molti, sono infiniti ». A fronte di questo demonstrandum, il suo libro doveva verosimilmente presentare svariate argomentazioni contrapposte due a due. 3. Protagora di Abdera. – La sofistica trovò grande fortuna nell’antilogia : alcune delle produzioni migliori che ci provengono lo possono attestare. Il primo sofista di cui si attestano delle antilogie, ‘due ragionamenti contrapposti’, è Protagora di Abdera (Diog. L. 9, 51 = 80A1 D.K.), il quale dedicò a questi discorsi un’opera a noi non pervenuta intitolata proprio Antilogie. Circa l’uso delle antilogie da parte di Protagora abbiamo le testimonianze di →Platone (Euthd. 286b-c = 80A19 D.-K.), Aristotele (Metaph. 3, 4, 1007 b 18 = 80A19 D.-K.) e Clemente Alessandrino (Strom. 6, 65 = 80A20 D.-K.). Dioge 







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ne Laerzio avvicina le antilogie protagoree al dialogo socratico (Diog. L. 9, 53 = 80A1 D.-K.). Protagora avrebbe decodificato, a livello linguistico e logico, le opposizioni naturali : Aristotele nota che, seguendo la prospettiva del sofista, tutte le opinioni sarebbero vere e non si potrebbe così andare alla ricerca di una scienza certa in cui la verità è una e indiscutibile (Arist. Metaph.1, 1053a35 = 80A19 D.-K.). Delle Antilogie di Protagora non ci rimane nessun frammento : appare perciò interessante, per capirne la probabile natura, il famoso episodio che narra della disputa di Protagora con Evatlo. Evatlo, allievo povero del sofista, promette di pagare l’onorario delle lezioni dopo aver vinto la sua prima causa. A seguito del mancato pagamento, il maestro lo avverte che intenterà una causa vincendola sicuramente : infatti se Evatlo vincerà, in virtù dell’accordo, dovrà pagare e se perderà, in virtù del giudizio dei giudici, dovrà versare l’onorario. Evatlo, però, avendo ben appreso l’arte antilogica, propone un discorso di pari valore : infatti, se vincerà non pagherà, in virtù del giudizio della giuria, se perderà non pagherà, in virtù dell’accordo iniziale (fonti principali sono Apuleio e Gellio, oltre a 80A1 e 80B6 D.-K.). 4. Gorgia di Lentini. – L’antilogia può essere stata praticata anche da Gorgia secondo ciò che tramanda Filostrato (vs 1, 1 = 82A1a D.-K.) che coglieva bene la presunzione del filosofosofista di discutere su tutto, a prescindere dal fatto che gli venisse richiesta un’argomentazione dal valore affermativo e negativo, potendo svolgere, di fatto, qualsiasi tipo di discorso. Le due operette epidittiche di Gorgia, pervenuteci per intero, l’Encomio di Elena (82B11 D.-K.) e l’Apologia di Palamede (82B11a D.-K.) così come l’opera Del non essere o della natura (in due versioni : Sext. Emp. math. 7, 65-87 = 82B3 D.-K. ; [Arist.] Xen. 5-6, 979a11-980b21 = 82B3a D.-K.) possono essere considerate un esempio di antilogia in quanto si propongono come discorsi opposti all’opinione comune. 5. Antifonte Sofista. – Lo schema antilogico è alla base delle Tetralogie antifontee (→Antifonte Sofista), opera costituita da tre gruppi di quattro discorsi che concernono tre eventi giudiziari in cui viene ripetuto lo stesso schema argomentativo : il primo discorso è l’accusa, il secondo è la difesa, il terzo e il quarto sono le repliche ai due precedenti. Quest’opera si caratterizza per essere non tanto una narrazione, quanto  













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antioco di atene

piuttosto una vera e propria messa in opera delle argomentazioni : entrambe le posizioni di accusa e difesa con le relative obiezioni si propongono con stessa forza epistemica e persuasiva e questo le rende proprio degli esercizi antilogici. La prima tetralogia tratta dell’assassinio di un uomo ricco e del suo servo al rientro da un banchetto ; di questo omicidio è accusato l’acerrimo nemico del nobile che in tribunale si difende. La seconda tetralogia concerne l’omicidio di un giovane da parte di un amico che lanciando un giavellotto lo colpisce ; il padre del ragazzo morto accusa il giovane lanciatore che deve difendersi dall’accusa della volontarietà e della responsabilità dell’azione (questa tetralogia è avvicinabile alla discussione tra Pericle e Protagora circa la morte di Epitimo di Farsalo tramandataci da Plu. Per. 36 = 80A10 D.-K.). La terza tetralogia riguarda la discussione tra un giovane ed un vecchio che sfocia in una zuffa e in cui ha la peggio il vecchio che muore in seguito ad un colpo del giovane ; un anonimo accusa il giovane di omicidio ma questi si difende affermando che si è trattato di legittima difesa. 6. I Dissoi Logoi. – I Dissoi Logoi, ossia i Ragionamenti Duplici, sono un testo tramandatoci da un manoscritto di Sesto Empirico e probabilmente attribuibile ad un allievo di Protagora, che li compose come esercitazioni scolastiche. Si tratta di quattro antilogie complete a cui seguono altri cinque testi meno strutturati il cui carattere antilogico è andato perduto. I Dissoi Logoi chiudono la raccolta sui frammenti dei Presocratici Diels-Kranz dopo i sofisti e l’Anonimo di Giamblico : hanno avuto grande fortuna proprio grazie a questa collocazione e, non in ultimo certo, per il loro valore intrinseco. Il primo ragionamento si sviluppa sul rapporto tra il bene e il male, il secondo si muove tra il bello e il brutto, il terzo concerne il giusto e l’ingiusto, mentre il quarto tratta del vero e del falso. I seguenti ragionamenti riguardano : il linguaggio, la sapienza e la virtù (la loro insegnabilità), l’elezione casuale dei politici, la capacità dialogica, il valore della memoria. 7. Altre antilogie. – Anche Tucidide presenta una sua memorabile antilogia nel cosiddetto dialogo dei Meli (5, 85-110). Anche →Prodico, con il suo Eracle al bivio presenta l’eroe attratto sia dalla Virtù sia dal Vizio (disponiamo non del testo ma dell’epitome che ne fa →Senofonte, Mem. 2, 1, 21-34 = 84A2 D.-K.). Anche Antistene è stato autore di due notevoli orazioni epidittiche contrapposte, l’Aiace e l’Ulisse,  











che sono pervenute fino a noi (costituiscono le sezioni v A 53 e 54 delle Socratis et Socraticorum Reliquiae). Bibliografia. Berti 2004-2008 ; Decleva Caizzi 1969 ; Demont 1994 ; Durán López 2005-2006 ; Martano 1970 ; Matelli 2000 ; Pastori 2002 ; Rosati 1977 ; Rossetti 2006c ; Rossetti 2008c ; Untersteiner 1947-50.  



















Stefania Giombini Antioco di Atene. Pare che fosse vissuto tra il 100 a.C. e il 50 d.C. Cumont ne ipotizzava una possibile identificazione con il filosofo Antioco di Ascalona, [1] che studiò e professò ad Atene, dove ottenne la direzione dell’Accademia. Più recentemente è stato collocato nella seconda metà del ii secolo. Pingree, in particolare, ritiene l’opera di Antioco posteriore al Tetrabiblos di Tolemeo. [2] Antioco scrisse due trattati di astrologia, l’Introduzione e il Thesaurus. Entrambi sono persi, ma se ne conservano i sommari e numerosi frammenti. Dei 28 capitoli della sua Introduzione elencati nell’Epitome Parigina, 20 sono identici ai capitoli dell’Introduzione di Porfirio. Dell’altro libro, il Thesaurus, è pervenuta una serie di estratti confluiti nella tradizione di Retorio, [3] e 6 di questi capitoli sono presenti anche nella Introduzione di Porfirio. I frammenti greci di Antioco citano Nechepso e Petosiride, Ermete e Timeo (i sec. d.C. ?). Antioco è a sua volta citato da →Porfirio, →Firmico ed →Efestione di Tebe, dal quale apprendiamo che Antioco era originario di Atene. Una nuova edizione della tradizione manoscritta di queste opere dovrà tenere conto anche dei frammenti della tradizione araba, e tentare di definire i vari testi in modo da distinguere Antioco da Retorio. Infatti Pingree osserva che diversi frammenti non pubblicati di Antioco, in versione araba e sotto il nome di Antīqūs, si ritrovano in al-Sayamarī, al-Qasrānā, e in altri autori arabi.  







Note. [1] Cfr. Gundel-Gundel 1966, 115. – [2] Pingree 1977, 204 ; Hübner 1996. – [3] Edd. F. Cumont, ccag viii 3, 104-111 ; viii 4, 115-774 ; F. Boll, ccag i, 140-164 ; vii, 107-128.  







Bibliografia. Gundel-Gundel 1966, 115 ; Pingree, 1977 ; Urso 2002, 111-112.  



Carmelo Lupini Anubio di Diospoli. Visse tra il ii e il iii secolo d.C. A lui si ascrivono dei frammenti in distici elegiaci di un un poema astrologico molto fa-

apicio moso nell’antichità, di almeno quattro libri, ma di cui sopravvivono solo alcuni versi, citati da →Efestione e presenti anche all’interno del testo di →Manetone. [1] Autore molto citato da Efestione , [2] e ricordato da →Firmico Materno come una fonte inesauribile di dottrina, [3] il suo testo è stato oggetto di una parafrasi in prosa, pervenuta anche questa frammentaria. [4] La branca astrologica trattata da A., stando ai frammenti pervenuti, è quella catarchico-oroscopale. Nonostante l’eccentrico uso del distico elegiaco, il poema di A. si colloca sulla scia di →Doroteo. Nonostante la strutturazione in versi delle iniziative (katarcaiv) rappresenti un tentativo di nobilitazione letteraria di un contenuto didascalico già ampiamente sviluppatosi in prosa, l’opera di A. si colloca nel genere della manualistica dedicata ai praticanti astrologi. [5]  







Note. [1] Heph. 2, 2, 11 sgg. [= epit. 4, 21, 5], i versi sono presenti anche in Manetone, 117 Koechly ; ccag viii 4, 208, 4 sg. [Retorio] ; POxy 464 ; cfr. anche Gundel-Gundel 1966, 157 e n. 46. – [2] Heph. 2, 2, 15 sgg. ; 5, 5 [da epit. 4, 23, 4]. – [3] Firm. math. 6, 3-27. – [4] Ed. A. Olivieri, ccag ii, 204-212 [parziale]. – [5] Radici Colace 1986, 129 sgg., n. 10.  







Bibliografia. Calderon Dorda-Clua Serena 2003 ; Gundel-Gundel 1966, 155 sgg. ; Jones 2008, s.v. Anoubiōn of Diospolis, in EANS, 89 ; Pingree 1976 ; Urso 2002, 112.  







Carmelo Lupini Apicio. 1. Biografia. – La biografia di Apicio è misteriosa in quanto vi furono nella storia tre distinte persone con il nome di Apicio, che vissero in epoche diverse e che condivisero, oltre al nome, la fama di impavidi ghiottoni : un Apicio vissuto in epoca repubblicana che inveisce contro la legge Fannia proposta da un certo P. Rutilio Rufo per limitare l’eccessivo lusso dei banchetti romani ; un Marco Gavio, soprannominato Apicio dal nome del famoso ghiottone che visse nel secolo precedente, operante sotto Tiberio ; un Apicio vissuto sotto Traiano specializzato nella conservazione delle ostriche. Fu probabilmente il secondo di questi tre personaggi l’autore o almeno il prestanome del corpus di ricette culinarie che va sotto il nome di De re coquinaria che possiede anche il titolo alternativo di De opsoniis et condimentis sive de re culinaria libri decem. I manoscritti del De re coquinaria pervenutici tramandano il nome di Celio Apicio e non quello di Gavio, attestato invece da tutti gli storici romani. L’attribuzione  





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ad Apicio del nome Caelius che gli viene fatta ancora oggi da alcuni studiosi è sicuramente da respingere. Essa è stata assai diffusa e comune in tutto il mondo umanistico e si basa probabilmente sull’unico frammento del titolo della sua opera, presente sulla prima pagina del manoscritto di uno dei due più antichi testimoni, il codice V del nono secolo. Vi si legge : «incipit api cae». L’attribuzione umanistica del nome è forse dovuta al fatto che qualche testo manoscritto ora disperso tramandò il nome di Celio poi divenuto consueto, oppure è possibile che l’autore, per qualche motivo, abbia aggiunto ai suoi come appellativo personale il nome Celio. [1] Sulla vita di Apicio si sa ben poco. Ateneo (4, 168 d ; 7, 294 f ), Cassio Dione (52,19,5), la Historia Augusta (2,5,9), uno scolio a Giovenale (4,23), Seneca (Helv. 10,8) e Tacito (ann. 4,1) raccontano succintamente che Apicio frequentò il figlio di Tiberio Druso, e che ebbe per amante il quasi coetaneo Seiano. Da queste fonti si presume che la sua nascita risalga al 25 a.C. circa. Fu un uomo molto ricco e passò alla storia per le sue stravaganze culinarie. Seneca (Helv. 10,8-10) racconta che, dopo aver profuso tutta la sua fortuna in eccentricità culinarie, si accorse di non avere più che dieci milioni di sesterzi e, piuttosto di ridurre il suo tenore di vita, si avvelenò. Seneca aggiunge anche che la sua ultima pozione era stata la più salutare tra quelle che Apicio aveva bevuto in vita. Anche Marziale (3,22) ricorda in modo simile l’episodio della morte di Apicio : «Tu, o Apicio, avevi sacrificato al tuo ventre sessanta milioni di sesterzi, ma te ne restavano almeno dieci milioni. Davanti a una simile prospettiva, come se tu rischiassi di morire di fame e di sete, hai vuotato un’ultima coppa, ma era una coppa di veleno. Come segno di ghiottoneria, o Apicio, non c’è niente di meglio». La sua morte per veleno fu interpretata dai cristiani e dagli stoici come la punizione esemplare di un provocatore di dissolutezza che, con la sua condotta di vita e con la sua opera, costituiva un pericolo per la salvezza morale della società. La sua morte si colloca all’incirca alla fine del regno di Tiberio. Attorno a questo personaggio singolare si venne a creare una leggenda, tanto che il suo nome ha finito col designare una funzione : ai tempi di Tertulliano infatti per designare ‘un cuoco’ si diceva ‘un Apicio’. 2. L’opera. – Il De re coquinaria ci è giunto diviso in dieci libri, alquanto disorganici nella di 









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apicoltura

sposizione della materia e difformi nello stile e sotto il profilo linguistico, tanto che possiamo affermare con sicurezza che il testo è frutto di una stratificazione di redazioni successive fino al secolo iv d.C. Un’analisi storico-filologica del testo che ancora oggi conserva una sua validità è costituita dal lavoro di Brandt 1927 (Untersuchungen zum römischen Kochbuche). [2] In esso lo studioso evidenzia le lacune del testo, le incongruenze riscontrate tra ricette identiche, le aggiunte, e sostiene che il De re coquinaria sia un testo molto complesso, costituito da più parti : delle 478 ricette tramandateci, circa 300 sarebbero da ricondurre a due possibili testi originari di Apicio : uno sulla cucina in generale, con le figure dei recipienti e degli attrezzi di cucina necessari, e uno sulle →salse (De condituris), che comprende 138 ricette. Secondo l’ipotesi del Brandt, le restanti 178 ricette sarebbero da ricondurre in parte ad un libro greco di cucina dietetica, in parte a frammenti di trattati medici ; la raccolta composita che noi abbiamo si può datare, in base alla lingua latina usata, intorno al 385 d.C., quando un compilatore o lo scrittore, certamente non esperto di gastronomia, tanto da confondere i fondi dei cardi con le ostriche, ma abbastanza competente in medicina, riunì le varie ricette di Apicio e di altri autori, sconosciuti e a lui successivi. Si trattava di un’opera di uso corrente, scritta in un latino molto adatto al linguaggio dei cuochi dell’epoca, i quali manipolarono il testo con l’aggiunta di ricette nuove, interpolazioni, glosse esplicative, semplificazioni delle ricette originali, dando vita così a poco a poco al corpus nella forma attuale che noi possediamo. Le caratteristiche principali del ricettario sono, dal punto di vista formale, la distinzione per categorie (volatili, pesci, legumi, etc.), la mancanza quasi sempre dell’indicazione del dosaggio degli ingredienti, che vengono semplicemente elencati, o dei tempi di cottura ; dal punto di vista contenutistico la compresenza di cibi comuni ed esotici, l’impiego di numerose salse e spezie, combinate tra loro al fine di creare delle sensazioni completamente nuove, a tal punto che, per abuso di condimenti, la pietanza sembra perdere completamente il sapore originario. Caratteristica del ricettario è poi la tendenza a mescolare tra di loro gli alimenti, o i sapori dolci con quelli salati, al fine di creare l’effetto sorpresa. Si tratta di una cucina elitaria, ricca, adatta a chi poteva permettersi  



ostriche, aragoste, struzzi, fenicotteri, triglie e altri cibi prelibati, lontana dalla semplice cucina romana antica tramandata da →Catone nel De agricoltura. Note. [1] Per i problemi riguardanti l’identità di Apicio e la storia dell’opera a lui attribuita, cfr. Vollmer 1920, 3-47 ; André 1974, 7-16 ; Gentilini 2004, 8-9. – [2] Brandt 1927.  



Bibliografia. André 1974, 7-23 ; André 1981a ; Brandt 1927 ; Dosi-Schnell 1990, 200-203 ; Drachline-Petit Castelli 1984, 7-12 ; Gentilini 2004, 8-9 ; Shmitt-Paris 1966 ; Vollmer 1920, 3-47.  













Annalisa Romano







Apicoltura. 1. Origine ed evoluzione. – L’apicoltura è l’allevamento di api allo scopo di sfruttare i prodotti dell’alveare (un’arnia popolata da una famiglia di api), in particolare il miele, di cui si hanno testimonianze già dall’epoca preistorica, come ci conferma la pittura rupestre della Cueva de la Araña (grotta del ragno) a Valencia, in cui si vede un uomo appeso a delle liane che ha in una mano un paniere, mentre l’altra è infilata in un tronco di albero per cercare il favo di miele ; l’apicoltura era inoltre considerata un’attività normale già dal 2400 a.C. in Egitto dove, pur non essendo direttamente monopolizzata, era comunque sotto l’influsso delle finanze regie : basti pensare alle scene di raccolta e conservazione del miele raffigurate nel tempio del re Niuserra della v dinastia ad Abusir. Molte sono le notizie che provengono dalla Grecia a proposito della produzione e dell’utilizzo del miele : sin dall’età di Omero si conoscevano gli inizi di un’apicoltura artificiale (Od. 13,103 sgg.) ; inoltre il miele era utilizzato non solo al posto dello zucchero, ma anche come alimento, nella medicina, nella preparazione di cosmetici e per la conservazione dei cibi. Omero stesso, inoltre, racconta della raccolta e conservazione del miele selvatico, mentre →Pitagora invita i suoi discepoli a cibarsi di pane e miele. Nonostante i riferimenti alle api siano presenti in poesia fin da Omero, una trattazione scientifica dell’apicoltura si ha solo con →Aristotele (GA 3,10, 759a-761b ; HA 5, 20-22, 553a-554f ) e poi in età ellenistica ; una sezione di apicoltura, a partire da un testo del punico Magone [→agronomi antichi], confluì nelle opere di →Varrone (r.r. 3,16), →Columella (9,2-15), →Plinio il Vecchio (nat. 11,4-23) e →Palladio. A Roma il miele doveva  











apicoltura essere un prodotto ampiamente utilizzato, come dimostrano le importazioni da Creta, da Cipro, dalla Spagna e da Malta, a causa di una richiesta sempre in aumento, che trova riscontro nelle parole, pronunciate secondo la tradizione da Augusto, «miele dentro e olio fuori». 2. Caratteristiche fisiche. – È necessario innanzitutto distinguere le varie specie di api : oggi, nella zona europea, distinguiamo in particolare l’ape nera, l’ape gialla italiana, l’ape carnica e l’ape caucasica ; nell’antichità, e specialmente a Roma, non si aveva cognizione di queste diversità (legate specialmente al territorio e alle catene montuose che le api non possono superare) ed era diffusa la sola ‘ape gialla italiana’ (cioè l’apis mellifica ligustica). Oltre alle differenze di specie, è importante distinguere le api secondo il ruolo svolto nell’alveare, dal momento che questo incide anche sulla struttura fisica dell’animale. Columella, riprendendo in parte Aristotele, distingueva tre tipi di api, in base alle loro dimensioni, una di grandi dimensioni, una di medie dimensioni, ma irsuta, una piccola : parlando con il linguaggio dell’apicoltura moderna potremmo dire l’ape regina, i fuchi, le api operaie. L’ape regina (basileuv~ in greco, rex in latino : per ovvia trasposizione delle gerarchie sessuali umane nel mondo animale) è unica nell’alveare, di grandi dimensioni e rotonda, difficilmente esce all’esterno : fa un unico volo nuziale e dopo questo resta fecondata per tutta le durata della sua vita che di solito si aggira intorno ai quattro/cinque anni ; i fuchi (khfh'ne~), cioè le api maschio, nascono tra la primavera e l’estate, sono di media grandezza, ma privi di pungiglione, il loro unico compito è di fecondare le regine : quelli che ci riescono, muoiono poco dopo, mentre gli altri, che non sono più nutriti dalle api operaie, muoiono durante l’inverno ; infine le api operarie di piccole dimensioni, che durante l’estate passano da nutrici a bottinatrici e vivono circa 2/3 mesi, mentre nel periodo invernale vivono 5/6 mesi e hanno il compito di proteggere la regina e di mantenere lo sciame nell’alveare. Oltre ad inquadrare la struttura della società delle api, è necessario capire quale sia il cibo che possa far produrre loro il miele migliore. Lunga è la lista di →erbe che gli antichi ritenevano essere un buon cibo per le api, tra cui sono ricordate soprattutto piante di piccola taglia, come il timo, l’origano, il timbro, il citiso e il rosma 















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rino [→piante aromatiche]. Altrettanto vale per le erbe che sono invece considerate nocive [→erbe velenose], di cui non solo si fornisce un elenco, ma si danno anche indicazioni sui rimedi da adottare (come, ad esempio, estirpare e bruciare le piante o preparare particolari infusi) per evitare che le api producano miele cattivo. 3. Caratteristiche tecniche. – Nell’antichità, in particolare in Grecia, si diffusero esempi di arnie che anticipavano le moderne arnie a favi mobili, tanto che nei →G eoponica si danno indicazioni precise sui favi creati intorno a travicelli : in questo modo l’apicoltore potrà estrarre dai favi i prodotti dell’alveare senza distruggerli. Questo tipo di arnia, che oggi ha sostituito i cosiddetti bugni o bugni villici, che presentavano invece favi fissi, nell’antichità sparì ben presto, tanto che si diffuse soprattutto il secondo tipo di arnia e rimase in uso fino alla metà del xix secolo. Il bugno villico è oggi utilizzato nel sistema rustico di allevamento, in cui l’ape costruisce i favi attaccati alle pareti dell’arnia rustica ; al contrario nell’apicoltura razionale si utilizzano arnie a favo mobile : in questo modo non sarà necessario distruggere i favi al momento della raccolta. In entrambi i casi, per la raccolta del miele è necessario asfissiare le api così da farle uscire dall’arnia e procedere poi alla smielatura. All’interno di un’arnia si distinguono una parte inferiore, chiamata covata, e una parte superiore, la soffitta, ricoperta da un tetto : durante il periodo del raccolto tra le due parti si mette il meliario. Per ottenere una ricca produzione di miele è necessario avere una colonia popolosa ed evitare quindi la sciamatura ; inoltre è importante porre le arnie ad una distanza massima di 3 km da piante nettifere. Proprio questo lascia evidenziare una caratteristica importante dell’apicoltura, cioè il suo essere rimasta immutata da circa 3000 anni : se infatti escludiamo i cambiamenti tecnici a cui sono andati incontro gli alveari, dipesi in gran parte da un maggior interesse nei confronti delle api, la tecnica di raccolta dei prodotti dell’alveare (e quindi oltre al miele anche della propoli, della pappa reale, della cera, del polline e del veleno) è rimasta immutata. 4. La nascita delle api. – Secondo gli studi moderni, un’ape operaia nasce dopo 21 giorni, mentre un’ape regina dopo 16 giorni : i medesimi dati si trovano nelle fonti antiche, che  













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apollinario

tuttavia ricordano anche un procedimento particolare per la nascita delle api, la bugonia (Varr. r.r. 3,6 ; Verg. georg. 4,218-314, 531-558 ; Ov. met. 15,364-367 ; Ael. NA 2,57) fondata sulla teoria secondo cui le api fossero asessuate. La bugonia è la nascita delle api dalla carcassa in decomposizione di un bue : stando alla notizia di Columella, la teoria sulla bugonia risale a Democrito e Magone, secondo cui le api nascevano in questo modo nel tempo della mietitura. Il primo poeta in cui sembra comparisse la descrizione è Eumelo, a cui probabilmente si rifà anche Varrone ; la spiegazione della bugonia si ritrova comunque in tutti gli autori che descrivono le api. Di particolare interesse risultano le Georgiche (iv), in cui il poeta distingue due tipi di bugonia : l’uccisione e putrefazione in clauso (4,281-314) ; l’uccisione e putrefazione in luco (4,531-558). Il primo caso sembra rifarsi ad una pratica egiziana, mentre per il secondo non ci sono riferimenti precisi. 5. Significati simbolici – La figura dell’ape è stata ampiamente utilizzata nell’antichità con significato simbolico : nel Basso Egitto era non solo simbolo dell’anima dell’uomo ma anche di regalità, così come in Cina dove la parola per ape (feng) e quella che indica ‘dignità di conte’ sono omofone ; in India e anche nella stessa Cina l’immagine dell’ape richiamava quella dell’innamorato che traeva nutrimento dall’amata, come l’ape dal fiore. L’ammirazione degli antichi per il modello di organizzazione della società delle api fece sì che venissero prese come modello di laboriosità, diligenza e precisione ; inoltre la definizione di melitovei~ e mellifluus fu spesso riferita ai grandi oratori (Il. 1,247-249, a proposito di Nestore ; ma fu detto dello stesso Omero da Boet. cons. 5 ; mus. 2,3 mellifluit canit oris Homerus) ; tradizione ampiamente ripresa dalla cultura cristiana, che non solo lega le api alla dolcezza dell’eloquenza, ma anche alla castità e alla verginità, visto che gli antichi pensavano che le api non si accoppiassero né avessero bisogno di partorire per moltiplicarsi. La stessa tradizione riveste però l’ape anche di una connotazione negativa, dovuta alla presenza del pungiglione, come simbolo di uomini malvagi che circuiscono per poi colpire a tradimento (a partire anche dall’interpretazione di Ps. 117,12, versetto messianico che ha fatto sì che l’ape venisse identificata anche con i persecutori di Cristo).  













Bibliografia. Albert 1992 ; Aravantinos 1985 ; Beretta 2009 ; Bortolin 2008 ; Jones 1976 ; Tétart 2004 ; Vasquez Hoys 1991.  











Carlotta Benedetti Apollinario. Vissuto da il i e il ii secolo d.C., pare fosse considerato un importante astronomo dell’antichità. La documentazione pervenuta permette di attribuire ad A. studi sul moto lunare di 248 giorni, basati su modelli babilonesi, come dimostra un ampio frammento conservato di quello che doveva essere originariamente un manuale . [1] Non si sa con certezza se abbia scritto qualcosa di contenuto astrometeorologico. [2]  



Note. [1] Ed. Ch. E. Ruelle, ccag viii 2, 132, 4 sgg. – [2] Cfr. Gundel-Gundel 1966, 159 n. 55. Bibliografia. Gundel-Gundel 1966, 159 ; Lehoux 2008, s.v. Apollinarios of Aizanoi, 105 ; Urso 2002, 112.  



Carmelo Lupini













Apollodoro di Damasco. Ingegnere e architetto di origini nabatee vissuto nel ii sec. d.C., è noto soprattutto per essere stato l’architetto di Traiano, del foro, della colonna, delle terme che portano il nome di questo imperatore. Fu anche autore di un originale compendio di poliorceti­ca (Poliorkhtikav) : l’opera consiste in disegni esecutivi e spie­gazioni tecniche con una lettera di accompa­gnamento indirizzata a un imperatore, indivi­duato in Adriano da Théodore Reinach [1] e da Ernest Lacoste. [2] In questa lettera, che apre il trattato, Apollodoro assicura l’invio di disegni autografi e di un suo assisten­te insieme a carpentieri capaci di costruire e manovra­re le macchine descritte e dise­gnate. Le macchine trattate sono : [→testuggini e altre protezioni], [→ariete], ponti, torri [→elepoli], osservatori per vedere oltre le mu­ra, scale, apparecchi per versare liquidi bollenti su bastioni [→fuochi e tecniche incendiarie], zattere, e combinazioni di esse. A differenza di altri autori che meraviglia­ no per il gigantismo delle costruzioni meccani­ che, i marchingegni ideati da Apollodoro sono agili e leggeri, dotati di più funzioni, co­struibili anche mediante piccoli elementi. Lo stesso Apollodoro esalta nella lettera la rapidità d’impiego dei suoi con­gegni e l’idoneità per guerre  





apollonio di perga ’

d invasione, carat­teristiche originali rispetto alle tecniche utilizzate dalla precedente po­ liorcetica. Note. [1] Vd. Reinach 1895. – [2] Vd. Lacoste 1890.

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zione che le proprietà delle curve non mutano se non intersecate in coni obliqui o retti, o il passaggio dal cono a una faglia al cono a doppia faglia. I Conica danno un contributo fondamentale anche al lessico tecnico della geometria : è a quest’opera che si deve l’uso di termini come ellissi, parabola, iperbole, nell’accezione precisa in cui li usiamo ancora oggi. Da fonti greche e arabe ci sono pervenuti titoli e notizie che ci permettono di ricostruire una parte della produzione di A. non tràdita : un De tactionibus, un De sectione spatii, un’opera di Inclinationes, una Sectio determinata, un’opera sui Loci plani. Gli sono attribuite le soluzioni di diversi problemi geometrici, tra cui uno conosciuto con il nome di ‘problema di Apollonio’, [7] che, secondo →Pappo, arrivava a contemplare ben dieci casi. A. formulò uno schema di tetradi per esprimere grandi numeri e studiò il rapporto tra circonferenza e diametro del cerchio, fino a giungere alla stima di un valore approssimativo di p migliore di quello proposto da →Archimede. A., inoltre, si occupò anche di fondamenti di geometria, di irrazionali non ordinati e dell’elica cilindrica.  

Bibliografia. La Regina 1999 ; Lacoste 1890 ; Reinach 1895.  



Lucio Benedetti Apollonio Cizio. Medico empirico, allievo di Zopiro, attivo a metà del i a.C., si dedicò all’interpretazione della medicina ippocratica : il suo commento in tre libri al de articulis scritto per Tolomeo di Cipro è fonte utile per la costituzione del testo ippocratico, nonostante sia tràdito da un mediocre codex unicus (Laur. plut. 74, 7, x sec.; ed. Kollesch, Kudlien, Nickel, 1965) ; avversò le interpretazioni di Ippocrate date da Eraclide (Contro le teorie del Tarantino, 18 libri) e da Baccheo (Contro Baccheo, 3 libri) ; si ricordano i suoi studi sull’epilessia, Therapeutika in 2 libri, citati da Celio Aureliano (tard. pass. 1, 4, 140), e sulla chirurgia (Cels. Praef. 7 Mudry).  





Bibliografia. Crismani 2002b, 328 ; Mazzini 1997, 38-39 ; Mudry 1982a.  



Daria Crismani





Note. [1] Vd. Papp. 7, 35 H. – [2] Vd. Eutoc. 1, 2, 168. – [3] Vd. Phot. Bibl. 3, 18-21. – [4] Vd. Halley 1706. – [5] Vd. Heiberg 1891-1893 ; Heath 1961 ; Toomer 1990 ; Fried-Unguru 2001. – [6] Vd. Apollon. Perg. Con. 1, 1. – [7] Vd. Boyer 1982, 168.  





Apollonio di Perga [ca. 260-190 a.C.]. 1. Dati biografici. – Nacque a Perga (o Perge), città della Panfilia in Asia Minore ; studiò ad Alessandria con i discepoli di Euclide[1] e visse sotto i regni di Tolomeo Evergete[2] e Tolomeo Filopatore. [3] 2. Opere e dottrina. – A. fu autore di numerose opere, la cui tradizione è abbastanza travagliata. Ci sono giunte, per via indiretta, soltanto due opere : 1) De sectione rationis, di cui leggiamo la traduzione di Halley (eseguita nel 1706) dalla versione araba di Tābit Ibn Qurras[4] ; 2) Conica, [5] in otto libri, di cui i primi quattro pervenutici nella redazione originale greca, i libri v, vi e vii giuntici nella versione latina dall’arabo, eseguita nel 1710 da Halley, e l’ultimo andato perduto. A quest’opera, che era, con tutta probabilità, la più importante tra quelle di A., va senz’altro riconosciuto il merito di essere ricca di elementi innovativi. Dal punto di vista contenutistico, in essa è enucleato per la prima volta il concetto di superficie conica, [6] e vi sono esposte conclusioni che rimarranno ancora attuali fino a Cartesio, come l’afferma 



Edizioni. Heath 1961 ; Heiberg 1981-1893 ; FriedUnguru 2001 ; Toomer 1990.  





Bibliografia. Boyer 1982 ; Boyer 1989 ; FriedUnguru 2001 ; Halley 1706 ; Heath 1921 ; Heath 1961 ; Heiberg 1891-1893 ; Mügler 1959 ; Toomer 1990.  















Livia Radici









3. Geometria – L’approccio seguito da A. si distingue per una visione più sistematica rispetto all’esposizione precedentemente prodotta da Menecmo e ripresa in modo fedele anche da studiosi del calibro di →Euclide ed →Archimede. Questi ultimi trattavano ciascuna sezione conica come sezione rispettivamente dei tre tipi del cono circolare retto, proprio come stabilito da Menecmo. Ad A. spetta invece il merito di aver fondato la teoria di tutte e tre le sezioni coniche in quanto sezioni di un unico cono circolare obliquo a doppia falda. Si trattava, in altre parole, di un decisivo passo in avanti che, seppure parzialmente intuito da Euclide

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apollonio mys

ed Archimede, conferiva uniformità allo studio delle sezioni coniche. Le prime definizioni contenute nell’opera di A. sono così volte a stabilire i procedimenti per costruire l’ellisse, l’iperbole e la parabola e per enuclearne le rispettive proprietà fondamentali. La strategia messa in atto da A. mirava ad una fondazione organica e coerente delle tre sezioni coniche a partire da un unico cono circolare. Al raffinato lavoro metodologico si accompagna anche il determinante contributo di A. nella precisazione del lessico matematico attinente alle sezioni coniche. Egli infatti adoperò i termini e[lleiyi~, uJperbolhv, parabolhv, già in uso nella lingua e nella matematica greca, sebbene con significati differenti, per indicare le tre coniche, sostituendo così le più generiche perifrasi adottate da Menecmo, il quale era solito denominare ciascuna curva rispettivamente come sezione di cono acutangolo, sezione di cono rettangolo e sezione di cono ottusangolo. Si tratta di una svolta a livello linguistico che documenta quanto durevole fu il lavoro monumentale di A. Egli compì una esaustiva disamina dell’argomento sotto l’aspetto puramente geometrico, precludendone così il completamento od anche la semplice revisione agli studiosi successivi, almeno fino a Descartes, che introdusse un sistema di coordinate per la rappresentazione grafica delle coniche. Piero Tarantino Apollonio Mys. 1. Dati biografici e opere. – Farmacologo e medico vissuto ad Alessandria nella seconda metà del i sec. a.C. Forse allievo di Crisermo, compagno di studi di Eraclide di Eritre, [1] fu erofileo [→Erofilo di Calcedonia] per formazione, orientamento ed interessi. Gli sono attribuiti almeno tre scritti di vario argomento, noti quasi esclusivamente per tradizione indiretta (almeno undici sono gli autori antichi che citano A. nei propri lavori [2]). Il corposo Peri; th`~ JHrofivlou aiJrevsew~, in almeno ventinove libri, è noto da riferimenti a luoghi dell’opera offerti da →Sorano di Efeso, →Galeno e →Celio Aureliano [3] e costituisce il culmine di una tradizione apologetica erofilea nei confronti delle scuole mediche concorrenti avviata dallo stesso Erofilo. [4] Gli Eujpovrista, di almeno due libri, [5] dovevano contenere dettagliate prescrizioni per la cura di vari mali comuni. Ascritto ad A. è anche un Peri; muvrwn, [6] riguardante profumi ed un 





guenti. Non si possono collocare in un’opera precisa alcuni consigli di A. relativi all’alimentazione riferiti da →Plutarco. [7] D’incerta attribuzione sono poi dei frammenti di un non meglio identificato ‘Apollonio’ riportati da Galeno in excerpta tratti da →Andromaco il Giovane, [8] nonché quello adespoto papiraceo conservato nel POxy. ii 234v (parte forse di un manuale) : relativo alla cura dell’otalgia, il testo del papiro (datato al ii sec. d.C.) è stato ricondotto agli Eujpovrista di A. per la parziale coincidenza con un luogo di Galeno. [9] Si ricordi, infine, la raffigurazione del noto farmacologo in una miniatura contenuta nel Codex Vindob. med. Gr. i, f. 3v, d’argomento scientifico e medico, realizzato intorno al 515 d.C. 2. Aree di competenza. – Tra gli interessi di A. emergono, com’è dato desumere dai riferimenti presenti negli autori che lo citano, la →Ginecologia, [10] la stessa sfigmologia (con la teoria della pulsazione), [11] la →Patologia[12] e la →Farmacologia (anche cosmetica, considerando il Peri; muvrwn [13]), campi d’indagine, questi, condivisi con gli altri seguaci della secta Herophili. Distintosi soprattutto nel campo della farmacologia, A. riscosse per le sue prescrizioni l’approvazione di Andromaco e di →Archigene di Apamea da un lato, dall’altro critiche mossegli da Galeno (cui pure si deve il merito di aver preservato vari excerpta di A.) [14] e da →Plinio il Vecchio. [15]  













Note. [1] Cfr. Str. 14, 1, 34. – [2] Un elenco di autori e luoghi è reperibile in von Staden 1989, 552-554. – [3] Cfr. Sor. Gyn. 3, 2 ; Gal. De puls. diff. 4, 10/8, 746 K. ; Cael. Aur. acut. 2, 13, 88, in cui si traduce il titolo dell’opera di A. con De secta Herophili. – [4] Cfr. von Staden 1999, 169-176. – [5] Cfr. Gal. Comp. med. sec. loc. 1, 8/12, 475-482 K e 2, 1/12, 502504 K. – [6] Cfr. Ath. Deipn. 15, 38, 688e-689b K, con accenno ad una classificazione kata; tovpou~ di alcune essenze offerta nell’opera di A. – [7] Cfr. Plu. aet. phys. 912 de. – [8] Cft. von Staden 1989, 546548. – [9] Cfr. Gal. Comp. med. sec. loc. 3/12, 598-679 K. Cfr. circa il testo tradito dal papiro Andorlini 1992. – [10] Cfr. Sor. Gyn. 3, 2. – [11] Uno degli ambiti di eccellenza della ricerca erofilea, su cui cfr. von Staden 1989, 447-448 per un’agile rassegna dossografica. Cfr. poi, riguardo ad A., Gal. De puls. diff. 4, 10/8, 744-746 K, in cui è attestata l’unanime posizione di Eraclide di Eritre e di A., correttiva di quella del comune maestro Crisermo, riguardo allo sfugmov~ : per i due allievi la zwtikh; kai; yucikh; duvnami~, responsabile del rilasciarsi e del contrarsi delle arterie, è fattore dominante (pleistoduna 





aratro mouvsh), ma non esclusivo (come per Crisermo), della pulsazione. – [12] Cfr. Cael. Aur. acut. 1, 13, 88 in cui si attestano le due definizioni (communiter la prima, l’altra proprie) date da A. della pleurite. – [13] Cfr. von Staden 1989, 542-543 ove, a proposito di A., si sottolinea come la farmacologia stricto sensu e la cosmetica fossero nell’antichità contigue e non difficilmente coltivate dalla stessa persona, data l’identità di vari ingredienti comuni ad entrambe. – [14] Queste riserve erano basate in un caso sulla non facile reperibilità di un ingrediente (il sangue di tartaruga per combattere la forfora), in altri casi sull’eccentricità di alcuni rimedi proposti (sempre contro la forfora, ad es., A. consigliava di inumidire il capo per diversi giorni con urina di toro o di cammello). Per questi ed altri esempi cfr. von Staden 1989, 543 sgg. – [15] Cfr. Plin. nat. 28, 7 iam vero vi interempti dente gingivas in dolore scariphari Apollonius efficacissimum scripsit, in un contesto fortemente critico.

Bibliografia. Andorlini 1992 ; von Staden 1989 ; von Staden 1999a.  



Vincenzo Russo Arato di Soli. Originario della Cilicia (iii sec. a.C.), poeta greco di formazione stoica appartenente al primo Ellenismo. A Pella, capitale del regno di Macedonia, accolto alla corte di Antigono Gonata, compose, dando inizio alla nuova corrente letteraria della poesia didascalica, un poema in esametri intitolato Fenomeni. In questo poema A. si cimentò a creare un connubio tra la materia scientifica di ardua comprensione che attingeva dagli scritti del matematico ed astronomo →Eudosso di Cnido, discepolo di Archita di Taranto e di Platone e la fine eleganza della versificazione esametrica, che alleggeriva la materia dandole la possibilità di accedere a fasce di pubblico dal gusto raffinato, ma desideroso di conoscere i progressi della scienza. Nonostante abbia dedicato buona parte della propria attività alla composizione di inni, epigrammi, elegie, epicedi sul solco della tradizione letteraria, le preferenze del poeta andarono soprattutto a temi di matrice scientifica : oltre ai Fenomeni, unica opera giuntaci, va ricordata una serie di opere andate perdute di cui conosciamo solo i titoli : un poema in esametri di argomento medico Iatrika, il carme Canone (Tavola), che trattava dell’armonia delle sfere celesti, e i cinque libri sulle stelle. Nei Fenomeni, dopo un proemio a Zeus, A. descrive le costellazioni della zona settentrionale e meridionale  



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coi loro moti e i circoli che dividono la sfera celeste. L’ultima parte del poema ha una ampia sezione in cui è spiegata la possibilità di lettura dei segni legati al mondo naturale o animale, al fine di ricavarne previsioni meteorologiche. Il poema godette nell’antichità di una notevole fortuna al punto tale che l’autore si guadagnò il titolo di ‘Esiodo ellenistico’; [1] infatti dall’opera traspare la grande capacità di mettere in pratica i principî di brevità e ricercatezza stilisticoformale evidenziati dalla poetica callimachea, messa in evidenza anche dall’epigrammatista alessandrino Leonida di Taranto. Ma A. non raccolse consensi solo nell’ambito dei propugnatori della nuova poesia dotta alessandrina, perché i suoi Fenomeni furono oggetto di un commento da parte di →Ipparco al pari del testo di Eudosso, che A. aveva versificato. [2] In ambito latino rappresentò il modello per il De rerum natura di Lucrezio e ancor più per le Georgiche di Virgilio. Anche gli autori di De re rustica considerarono A. un loro precursore. Traduzioni e riscritture partono dal i sec. a.C., con Varrone Atacino, per giungere, attraverso Cicerone, Ovidio e Germanico al iv sec. d.C., con Avieno .  



Note. [1] Così lo chiamò Callimaco in un suo epigramma (AP 9, 507) ; cfr. Fakas 2001. – [2] Ed. Manitius 1894.  

Bibliografia. Fakas 2001 ; Gundel-Gundel 1966, 94 e 294 ; Kidd 1997 ; Maas 1893 ; Martin 1998 ; Urso 2002, 112-113.  









Carmelo Lupini Aratro [a[rotron, aratrum]. 1. Origini ed evoluzione tecnica. – È il fondamentale attrezzo ‘complesso’ ideato dall’uomo – sembra in modo indipendente già nelle varie civiltà preistoriche – per eseguire uno dei primari →lavori agricoli : il dissodamento del terreno. Pitture rupestri del neolitico raffigurano uomini che si appoggiano ad uno strumento che può senz’altro costituire una prima forma di aratro : due pali congiunti, di cui uno appuntito che solca il →terreno e uno più lungo che viene trainato da buoi (‘perticara’). Il traino animale dovette rappresentare già un primo perfezionamento. Altro momento importante di evoluzione fu rappresentato dall’impiego di un unico ramo (di essenza dura) a forma di L uncinata (cosiddetto ‘aratro etrusco’) : l’estremità più lunga per il timone o bure (guvh~, bu 





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aratura

ris), l’altra per il dissodamento (vomere : u{ni~, vomis). Il vomere poteva anche essere costituito da un ulteriore taglio di →legno (ceppo : e[luma, stirps), incassato perpendicolarmente al timone, che per necessità poteva anche essere prolungato (iJstoboeuv~, temo) ; sempre al vomere potevano essere fissati uno o due manici (stegole : ejcevtlh, stiva) : è questo tipo di aratro ad essere attestato in →Esiodo (op. 427-436) e poi ripreso da →Virgilio (georg. 1,169-175)[1] ; viste le raccomandazioni degli autori a munirsi di almeno due aratri (da Esiodo agli →agronomi latini, ma anche in testi di ‘istruzioni’ agricole babilonesi), si deve inferire che la frequenza con cui →attrezzi agricoli del genere riportavano danni o rotture era piuttosto alta. Ulteriore sviluppo fu rappresentato dal rafforzamento del vomere, prima attraverso un rivestimento di bronzo, poi con una vera e propria punta o lama di ferro (‘aratro chiodo’ o ‘aratro siciliano’). Nel vicino oriente, già dal iii millennio a.C., è documentato un tipo particolare di ‘aratro-seminatore’, che attraverso un particolare imbuto fissato al vomere consentiva di evitare lo spreco della semina a spaglio [→lavori agricoli]. Forse intorno al primo secolo a.C., in area gallo-padana, furono attrezzati i primi aratri dotati di un’‘ala’ centrale (versoio o orecchio : aures ; aratra aurita), fissata al vomere, che aveva la funzione di sollevare le zolle rivoltate, di un puntale (dentalia) che irrobustiva il fronte del ceppo, nonché i primi aratri ‘a ruote’ [2] : questo tipo, tuttavia, riusciva funzionale solamente nelle zone pianeggianti. 2. Usi e funzioni. – L’aratro veniva trainato, abitualmente, da una coppia di buoi [→bovini], ma si poteva arrivare, per terreni difficili, anche a quattro coppie (Plin. nat. 18,170) ; in alcune zone si impiegavano anche altri animali da tiro [→equini]. Non è documentato, né sembra probabile, il tentativo di applicare elementi di meccanizzazione e →pnemautica (pure ben noti alla scienza ellenistica) allo strumento fondamentale del lavoro agricolo. Durante tutto il medioevo e fino all’età moderna la struttura base dell’aratro rimase la medesima sia in occidente sia in oriente. Ulteriori sviluppi, databili al xvii e Xviii sec., si ebbero con l’inserimento, sulla bure, di una lama verticale destinata ad isolare lateralmente la striscia di terra in lavorazione (coltro) e, finalmente, con la meccanizzazione dello strumento. Il dibattito sull’archeologia e l’evoluzione dell’aratro  



















tra xvii e xix secolo costituisce, d’altra parte, un importante capitolo nella storia europea delle teorie tecnologiche (vd. Coppini 2005). Metaforicamente l’immagine dell’aratro è impiegata in senso erotico (nell’ambito della frequente simbologia dell’aratura e della semina [→lavori agricoli]). Cfr. anche il proverbio : « a bure vecchia metti un manico nuovo », per chi, in età avanzata, cerca una moglie giovane.  





Note. [1] Con innovazioni : vd. Aikten 1956. – [2] Vd. Plin. nat. 18, 172-173 : plaumaratrum.  



Bibliografia. Aikten 1956 ; Amouretti 1976 ; Behlen 1904 ; Bruno 1969, 43-44 ; Coppini 2005 ; Deroy 1977 ; Forbes 1976 ; Forni 1999 ; Gennari 1944 ; Gennari 1978, 124-128 ; Gow 1914 ; Kolendo 1980, 66-83 ; Leser 1931 ; Liverani 2001, 449-450.  

























Emanuele Lelli Aratura. 1. Il fondamento dell’attività agricola. – « Che cosa vuol dire coltivare bene un terreno ? Arare bene. E in secondo luogo ? Arare. E in terzo ? Concimare ». Questo precetto catoniano (61), definito oraculum da Plinio (nat. 18,174), è ampiamente indicativo di quanto fosse considerata importante l’operazione dell’aratura, fondamentale per areare il suolo e renderlo più tenero (Theophr. HP 2,7,5). Indicazioni dettagliate sul metodo di aratura e, in generale, su tutte le operazioni concernenti il dissodamento del →terreno si trovano in Colum. 2,4 ; Plin. nat. 18,167-183 ; Geop. 2,23-24, ma già in →Esiodo (op. 458 sgg.) e →Virgilio (georg. 1,43-70) il primo dei →lavori agricoli ricordati è l’aratura. Il dissodamento di un terreno vergine è l’operazione preliminare per impiantare qualsiasi tipo di coltura, e rappresentava, nell’economia preindustriale, una vera e propria impresa con dispendi enormi di energie e forze umane ed economiche. A seconda della natura del suolo, le operazioni previste per un dissodamento radicale potevano essere : lo spietramento, il decespugliamento, il disboscamento, il prosciugamento, lo spianamento. L’impiego degli attrezzi a braccia, l’unico per l’età antica, era lungo e faticosissimo : è stato calcolato che per dissodare un ettaro di terreno di medio impasto a cm 45 circa di profondità occorrono da 1200 a 1500 ore di lavoro. Il fondamentale attrezzo ‘complesso’ ideato dall’uomo per il dissodamento del terreno è l’→aratro, prima a trazione umana, poi animale. 2. Il ‘rinnovo’ stagionale. – La terra doveva es 

















aratura sere lavorata, inizialmente, quando si presentava dura e friabile (il precetto agricolo popolare dice : « lavora quando è dura »). L’aratura autunnale, che va da fine agosto (con la relativa sarchiatura) a tutto ottobre, era indicata con il termine latino novare, che vale letteralmente « rinnovare » il terreno dopo un anno di riposo (cfr. novalis, « maggese » ; novatus ager « campo arato », « lavorato »), ricalcato nel greco ejnneovw. I terreni che non vanno arati sono quelli a colture estensive e prative : granaglie e foraggio. Nonostante la diversità dei linguaggi tecnici ricorrenti nella pratica agricola di diverse regioni e in diverse età, il termine « rinnovo » indica globalmente una serie di lavori intesi a rompere, quanto più possibile in profondità, il terreno, per rovesciarlo e renderlo sciolto, creando così le condizioni basilari per la restaurazione del livello di fertilità. Attraverso i secoli, il termine e il concetto di ‘rinnovo’ si sono venuti costituendo come un’efficace tecnica di preparazione del terreno, soprattutto per le specie erbacee a semina primaverile in ambienti a clima mediterraneo. Nella forma più completa il rinnovo si effettuava in due tempi : dopo la raccolta del frumento avveniva la rottura delle stoppie e l’eliminazione di tutte le piantine avventizie, quindi la semina di una specie foraggera (lupino o fave), al fine di ottenere un supporto di foraggi per la stalla ma anche di ricavare una massa di sostanza organica per il sovescio, che consiste nell’interrare radici e steli morbidi di fave o lupini per ottenere una concimazione verde del terreno in cui si pianteranno preferibilmente ortaggi, o della parte di campo lasciata a riposo nella rotazione biennale (il ciclo triennale costituisce, per l’antichità, un’alternativa che probabilmente non va enfatizzata : Cataudella 2002, 33 sg.). 3. Aratura a mano. – La coltivazione a mano della terra, probabilmente legata, in origine, a tenute agricole di modeste dimensioni, conservava un ruolo importantissimo sia nelle zone montane (vd. per es. Plin. nat. 18,179) o difficilmente praticabili con l’aratro, sia nell’ambito dell’economia ortofrutticola, o di altre colture specializzate. Anche i campi nelle immediate vicinanze delle città erano lavorati principalmente a mano (Kolendo 1980, 85-86). →Columella (12,2) sostiene la superiorità della zappatura della vite rispetto alla lavorazione con l’aratro. Nella coltivazione dei cereali [→cereale] le operazioni da compiere  

































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a mano erano : lo sminuzzamento delle zolle rimaste dopo l’aratura ; la copertura delle sementi ; la zappatura ; la sarchiatura. 4. Fasi dell’aratura. – L’aratura in tre tempi è stata per millenni una delle pratiche agricole più rispettate (quasi religiosamente) e diffuse (Forbes 1976). La prima aratura, eseguita subito dopo la mietitura del cereale, cadeva verso la fine di giugno o l’inizio di luglio ed era di tipo discontinuo ; il terreno, cioè, veniva solcato a strisce alternate e la fetta smossa era depositata, a ciglioni, su quella adiacente rimasta soda. A una quindicina di giorni di distanza la seconda rifenditura veniva a smuovere le strisce rimaste intatte al primo passaggio, e il ciglione risultava quindi rovesciato nel solco della prima. La terza aratura veniva eseguita nel corso dell’agosto, e assumeva anche la funzione di interramento del letame che, nel frattempo, veniva distribuito sul terreno già smosso. Una delle convinzioni di fondo sottese a tale pratica era che con lo smuovimento più energico possibile del terreno si potesse mirare al massimo immagazzinamento dell’acqua di precipitazione, che doveva trovare modo di infiltrarsi e saturare la capacità di ritenzione del terreno. Il riferimento a una doppia aggiogatura, che si trova in alcune fonti (Geop. 2,23,14) può essere senz’altro accostato alla pratica, ancora seguita nel secolo scorso, della cosiddetta ‘ravagliatura’, cui forse si allude anche supra, nel testo, quando si parla di lavoro umano commisto a lavoro dell’aratro a trazione animale. 5. Sarchiatura e erpicatura. – Le due operazioni tendevano da una parte a sminuzzare le zolle rimaste dopo l’aratura, per ricoprire la semente gettata con uno strato il più possibile uniforme (erpicaura), dall’altra ad estirpare le erbe spontanee e dannose per le colture (sarchiatura). La terminologia greca appare, in questo ambito, più precisa di quella latina, che impiega spesso il medesimo termine occatio per entrambe le operazioni, probabilmente perché si effettuavano con la occa, « zappa » (Kolendo 1980, 89-92). Anche con il sarculum (tipo di zappa più piccolo) si poteva completare lo sminuzzamento del terreno (sartio). A mano si estirpavano le erbe infestanti, durante il mese di maggio (runcatio). La sarchiatura e la scerbatura hanno avuto, fino all’età moderna, un ruolo di primaria importanza, soprattutto nelle colture cerealicole, ed è stato calcolato che richiedevano un ingente investimento di forza lavoro (fino a 18  













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arboricoltura

giornate lavorative ad ettaro) ; la lavorazione, dal punto di vista tecnico, non si spinge oltre i 3-4 cm di terreno ; rimuovendo la vegetazione avventizia ed esistente e creando una discontinuità fra strato superficiale smosso e corpo sottostante, ha in primo luogo un essenziale ruolo nel controllo delle perdite idriche del terreno per evaporazione ; rappresenta, in quest’ottica, una lavorazione tipica del periodo siccitoso. Lo sminuzzamento delle zolle smosse dall’aratro (erpicatura) si svolgeva con l’aiuto di strumenti vari, strutturalmente analoghi alla nostra ‘zappa’, che avevano nomi diversi : cfr. Varr. r.r. 1,29,2 ; Verg. georg. 1,94 ; Isid. etym. 17,2,4. Era operazione che esigeva accortezza e tempestività : se si erpica con terreno troppo asciutto, non si verifica sempre la perfetta frantumazione delle zolle ; se con terreno troppo umido, si comprime la terra anziché disgregarla. Questa operazione, pure molto complessa, sembra esser stata praticata, in ambito romano, già fin dai tempi arcaici, e per tutti i tipi di colture ; andò tuttavia progressivamente venendo meno con l’affermarsi del latifondo e delle colture estensive e con la graduale diminuzione dell’importanza del lavoro manuale nell’agricoltura. Abbiamo testimonianze dell’impiego di uno strumento complesso per la scerbatura dei campi dissodati solo in età imperiale : una glossa (Gloss. 5,617,49) parla di un cilindro con il quale i contadini appianavano le zolle, ma non sembra si tratti di un vero e proprio erpice (Kolendo 1980, 101). Sulle numerose erbe infestanti vd. Geop. 2,42-43.  



















Bibliografia. Amouretti 1976 ; Forbes 1976 ; Kolendo 1980, 57-154.  



Emanuele Lelli Arboricoltura. 1. – Secondo la →botanica teofrastea, quella degli alberi (devndra) è una delle quattro classi fondamentali in cui si divide il mondo vegetale : « albero è quello che sorge dalla radice con un sol tronco, ha molti rami, è nodoso né facilmente perisce : tali sono l’ulivo, il fico e la vite » (HP 1,3,1). Una differenza ‘traversale’ è quella fra maschi e femmine : queste ultime portano frutto, i maschi sono a volte sterili ; quelle hanno legno più morbido, questi più duro. Ma la distinzione fondamentale (comune anche alle altre classi vegetali) è tuttavia quella fra alberi domestici (vite, olivo, fico, …) e alberi selvatici. Alcuni elementi formali e so 











stanziali consentono di raggruppare tra loro le diverse specie di alberi. Innanzi tutto i nodi del tronco (o[zoi) : sono più nodosi gli alberi selvatici rispetto ai domestici, i maschili ai femminili, quelli di montagna rispetto a quelli di pianura (HP 1,8). Quindi il numero di rami e di radici (monoradicali o no). Ancora quelli con chioma sempreverde e quelli con foglie caduche, quelli fruttiferi o sterili, con →fiori o senza (HP 3,2,1 ; Plin. nat. 16,80-84 ; Geop. 11,1). 2. Alberi selvatici. – Si riproducono spontaneamente per seme o per radice, ma alcuni possono essere ‘addomesticati’ o propagati con metodo artificiale (per talea). Gli alberi cresciuti in luoghi montani sono tendenzialmente più rigogliosi e resistenti, forniscono →legno migliore ma sono per lo più selvatici ; quelli di pianura dànno →frutti migliori, benché siano più deboli (Theophr. HP 3,3,2-3 ; Plin. nat. 16,74 sgg.). Se il germogliamento degli alberi selvatici avviene sempre in primavera, il periodo di maturazione dei frutti è molto più lungo rispetto alle specie addomesticate (Theophr. HP 3,4). Nel periodo del germogliamento avviene anche la scorzatura : ed è questo il periodo migliore per il taglio del legno. Teofrasto osserva che alcune specie si accrescono di più nella chioma e nei rami, altre nel fusto ; che disparata è la varietà degli apparati radicali ; che in numerose specie il taglio del fusto rappresenta morte definitiva per l’individuo. Gli alberi selvatici si distinguono dai domestici anche per la varietà delle loro produzioni : viticci, follicoli, resina, bacche, lanuggine, pigne, vari tipi di umore, che hanno impieghi alimentari (limitati), zootecnici (cibo per animali), artigiani (stoppe e lucignoli), nonché officinali (Plin. nat. 24 ; Dios. 1) ; una breve rassegna in Verg. georg. 2,434-459. Nell’ottica della produzione e dell’uso è condotto il catalogo pliniano (nat. 16,7-72) : alberi glandiferi, resinosi, da legno. Fra tutti, per abbondanza di prodotti, si distingue la quercia (dru`~), regina degli alberi selvatici. Della quercia si distinguono tre o quattro specie, con numerose caratteristiche che le differenziano (Theophr. HP 3,7,4-3,8) e importanti produzioni di ghiande (Plin. nat. 16,9-25 ; Geop. 11,14). La specie selvatica del pino (peuvkh), nella tassonomia antica, è detta « pino dell’Ida » : rispetto alla specie ‘domestica’ (detta « marittima ») ha resina migliore, ma legno meno robusto (Theophr. HP 3,9 ; Geop. 11,10-11). Altri alberi selvatici impiegati nell’an 





































arboricoltura tichità per molteplici usi sono il faggio (ojxuvh, ornus), dal pregiato legname bianco (Theophr. HP 3,10,1 ; Plin. nat. 16,18) ; il carpine (o[stru~, carpinus), con il legno più duro (Theophr. HP 3,10,3) ; il tiglio (fivlura, tilia), con le foglie dal sapore dolce e gustoso (ib. 3,10,4 ; Plin. nat. 16,65) ; l’acero (sfendavmno~, acer) e il frassino (meliva, fraxinus), tipici del paesaggio montano (Theophr. HP 3,11 ; Plin. nat. 16,66-69) ; il salice (ijteva), ottimo per verghe e cordame (Theophr. HP 3,13,7 ; Cat. agr. 9 ; 33,5 ; Plin. nat. 16,174-177 ; 17,141-143 ; Geop. 2,7 ; 11,13) ; l’olmo (ptevlea, ulmus), impiegato per le porte e – come sostegno – nella →viticoltura (Plin. nat. 16,72) ; il leccio o ‘quercia spinosa’ (pri`no~) ; il cipresso, ammantato di una simbologia tutta particolare (Piacente 1978), dal resistente legname (Cat. agr. 151 ; Plin. nat. 16,139-140 ; Geop. 11,4-5) ; il platano (platanus), prediletto per ombreggiare ville e strade (Plin. nat. 12,6-13). Di altri devndra selvatici (o considerati tali) sono apprezzati i frutti, che hanno un loro ruolo nella dieta antica (Theophr. HP 3,12-15 ; Plin. nat. 15,84-94) : il corniolo (kraneiva, cornus), il cedro (kevdro~, citrus ; cfr. Plin. nat. 12,15-16 ; Ath. 3,83a-85c ; Geop. 10,7-10), il nespolo (mespivlh, mespolus), il sorbo (oi[h, sorbus), il ciliegio (kevraso~, prunus avium ; cfr. Plin. nat. 15,102-105 ; Ath. 2,50b-51b ; Geop. 10,41-42) , [1] il nocciolo (hJraklewtikh; karuva), che è addomesticabile e dà →frutti migliori ; il pistacchio (tevrminqo~ o terevbinqo~, pistacia ; Geop. 10,11-12) e il corbezzolo (kovmaro~), comunissimi come stuzzichini sia in Grecia sia a Roma. Alcuni alberi selvatici, pur ben noti per le loro qualità, sono esclusivi di alcune zone : il sughero (fellov~, suber) dell’Etruria, rinomato per la corteccia (Theophr. HP 3,17,1) ; il citiso (koluteva, cytisus) da Lipari, impiegato come foraggio per gli ovini (ib. 3,17,3 ; Colum. 5,12 ; arb. 28 ; Plin. nat. 13,130-135) ; l’alloro alessandrino (dal monte Alessandrino nel massiccio dell’Ida, in Troade, ove la leggenda voleva che Paride-Alessandro avesse giudicato le tre dèe)[2] ; dell’Egitto (Theophr. HP 4,2) sono propri il moro (sukavmino~), l’acacia del Nilo, la cosiddetta persea (perseva), forse da identificare con una qualità di pèsca, importata dall’oriente ad opera dei Persiani nel periodo del dominio sull’Egitto (cfr. Diod. Sic. 1,34,7 ; Plin. nat. 13,60-61 ; 15,44-46 ; Geop. 10,13-17 ; e vd. Amigues 1986). Dalla Libia (Theophr. HP 4,3 ; Plin. nat. 13,104-111) vengono il loto (lwvto~, ziziphus lotus), famoso già da Omero, e il pa 























































   

























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liuro (palivouro~). Dell’Asia (Theophr. HP 4,4) sono propri il ‘melo persiano’, da identificarsi nel cedrato, il fico bengalese, dalle radici aeree che scendono dai rami e formano una sorta di capanna abitabile (Plin. nat. 12,22-23), l’ebano dal pregiatissimo legno (Plin. nat. 12,17-20), e, come →suffrutice, il riso (o[ruzon). Tutto l’immaginario botanico ‘orientale’, del resto, è caratterizzato dalle grandi dimensioni e dalle forme superbe (Theophr. HP 4,2,12), da piante velenose o aromatiche (ib. 4,4,11-14 ; Plin. nat. 12,26 ss : pepe, chiodo di garofano, zucchero, costo, nardo, incenso e mirra e molti altri ; cfr. anche 13,56 sgg.), un mondo che, nelle fonti letterarie soprattutto romane, è fonte di lusso e di perdizione per l’occidente (vd. per es. Plin. nat. 12,82-84). Al contrario, l’orizzonte settentrionale è monotono, povero di flora e per nulla singolare : l’unica particolarità è costituita da alcune →piante aromatiche delle quali sono apprezzate le radici (Theophr. HP 4,5). 3. Alberi ‘domestici’. – Tra le specie arboree più note e già addomesticate dal primo millennio a.C. nel bacino del Mediterraneo orientale è la palma, nelle sue numerose varietà (Theophr. HP 2,6 ; Plin. nat. 13,28-50) : facile la sua propagazione artificiale (CP 1,2 ; Plin. nat. 13,31-38 ; Geop. 10,4-6), molteplici gli usi, da quello alimentare (i datteri, elemento importante nella produzione dolciaria) a quello manifatturiero (cordame, vimini, ceste e altro), a quello medicinale (Plin. nat. 23,97-99). Il pino marittimo (peuvkh paraliva), diffuso in climi temperati, era sfruttato soprattutto per il legno e per la pece. Il castagno (castanea) era coltivato per fornire appoggi alla vite, nella tecnica di vigna ‘ad alberata’ (Colum. 4,33 ; 5,7 ; Plin. nat. 17,147150), così come il salice (salix), più adatto, però, a luoghi caldo-umidi (Colum. 4,30), e l’olmo, privilegiato in Italia e in Gallia (Colum. 5,6). Il mandorlo era adatto a terreni caldi e secchi (Colum. 5,10,12-14 ; arb. 22 ; Plin. nat. 15,90 ; 23,144-145 ; Geop. 2,57-62). Il noce era apprezzato per diversi prodotti (Geop. 10,64-68). La più grande categoria di alberi ‘domestici’ dell’antichità è in ogni caso – ovviamente – quella degli alberi da frutto, distinti da quelli pur domestici che non danno frutta fresca (cfr. Geop. 10,74) ; più precisa la classificazione di Plin. nat. 15 : mala (mele, pesche, melagrane, prugne, pere), ficus, nuces (mandorle, noci, castagne), carnosi fructus (more, ciliegie, bacche). Il lento processo che dalla raccolta di frutti spontanei, con 































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arbusti

tesi tra l’uomo e le fiere, porta alla selezione e miglioramento delle specie fruttifere, è descritto da Plin. nat. 17,1. Nasce così il frutteto (pomarium), che all’inizio (ancora in →Varrone) ha carattere ausiliario rispetto sia alle colture estensive di granaglie sia a quelle della viticoltura e →olivicoltura (lo conferma la mancanza di una dislocazione precisa nella topografia della villa), ma che col tempo si guadagnerà un suo ruolo nel mercato, e nella trattatistica agronomica (da →Columella a →Palladio). Certo gli inconvenienti del fruttetto non sono pochi : la mancanza di raccolti per diversi anni dopo l’impianto ; la necessità di presidiare il terreno al momento della maturazione, per evitare furti. Di qui il frequente accostamento del frutteto all’hortus, cioè al →giardino cittadino o suburbano. Il frutteto va assicurato da danni e furti con un muro di cinta di una certa consistenza (Colum. arb. 18). Le piante vanno disposte secondo le specie, a intervalli regolari, privilegiando il metodo della riproduzione per talea (arb. 19-20) e la preparazione di un vivaio (seminarium : arb. 25). Fondamentale, nella frutticoltura, la tecnica dell’innesto (→riproduzione vegetale), con la quale si garantisce la effettiva selezione e riproduzione delle specie. Il melo era senz’altro l’albero più noto, dal frutto più comunemente commercializzato ; le qualità – tre le più famose : la cidonia, la scanziana, l’amerina – indicavano l’origine o le proprietà curative (Colum. 5,10,18-19 ; arb. 25 ; Plin. nat. 15,37-38 e 47-52 ; 23,100-104 ; Ath. 3,80e-82e ; Geop. 10,18-21 ; 2628). Il fico era una delle risorse principali della stagione tardo-estiva e autunnale ;[3] conosciuto in moltissime varietà, era apprezzato per la possibilità di essiccare i suoi frutti (Colum. 5,10,7-10 ; arb. 21 ; Plin. nat. 15,68-83 ; 23,117-130 ; Ath. 3,74c-80e ; Geop. 2,45-56) ; se ne ricavava anche un ‘aceto’ forte (Colum. 12,17 ; Geop. 8,34). Anche del pero erano note diverse qualità, che traevano nome dalle località di presunta origine (Colum. 5,10,17 ; arb. 24 ; Plin. nat. 15,53-61 ; 23,115-116 ; Geop. 10,22-25). È dall’età imperiale che compare sulle mense di Roma un frutto nuovo : la pesca (estraneo a →Catone e Varrone, ma menzionato già in →Teofrasto : vd. Amigues 1986), che inizia ad essere coltivato in Italia nel i sec. d.C. (Plin. nat. 15,44-45) e noto in diverse qualità : duracine, precoci, asiatiche. Dal costo inizialmente elevato, la pesca si afferma solo dopo il iii sec. (Garg. Mart. pom. 2,12).  

































Note. [1] Vd. De Angelis 2000. – [2] Così, convincentemente, Amigues 1988, 188-189, n.12 : cfr. Str. 13,1,51 ; contrariamente André 1961, § 68, n. 3. – [3] De Angelis 1995, 55-68. – [4] De Angelis 1995, 73-80.  



Bibliografia. Borgongino 2006 ; De Angelis 1995 ; Herzoff 1990 ; Littlewood 1967 ; White 1970b, 224-271.  







Emanuele Lelli































Le prugne sono apprezzate di più a Roma, diffuse in molte qualità (Plin. nat. 15,42-43). Il melograno (malum Punicum in latino, per l’origine cartaginese) era diffuso soprattutto a Roma (Colum. 5,10,15 ; arb. 23 ; Plin. nat. 13,112113 ; 15,39-40 ; 23,106-114 ; Geop. 10,29-38). 4. Folklore arboreo. – Gli alberi (soprattutto quelli selvatici) hanno un ruolo importante nella religione e nelle credenze : di legno montano erano costruiti i templi in età remote, e un albero veniva consacrato agli dèi da ogni contadino (Plin. nat. 12,1-5). La longevità di taluni esemplari aveva fornito spunto per leggende trattate anche dai mitologi (Theophr. HP 4,13,2 ; Plin. nat. 16,237-242) : un platano, a Delfi, si riteneva piantato da Agamennone. L’aspetto più folklorico dell’arboricoltura antica è tuttavia legato all’impiego di molte specie come piante officinali [→farmacologia] : in questo ambito, presso le fonti antiche, è dato rilevare una notevole quantità di credenze e superstizioni che, spesso, perdurano nell’imaginario popolare moderno.







[4]

Arbusti. Nella classificazione teofrastea, l’arbusto (qavmno~) costituisce uno dei quattro generi in cui è diviso il regno vegetale : « l’arbusto porta molti rami fin dalla radice, come il rovo e il paliuro ». Molte specie di arbusti si caratterizzano per la estrema varietà delle loro sottospecie : ad esempio il rovo (Theophr. HP 3,18,4-5 : Plin. nat. 16,179-180), o l’edera (Theophr. HP 3,18,6-9 ; Plin. nat. 16,144-155 ; Ath. 5,198201 ; Geop. 11,29-30). Tra gli arbusti più noti e conosciuti è il mirto, pianta sacra ad Afrodite : se ne apprezzano le bacche e le foglie (Arist. pr. 20 ; Plin. nat. 15,118-126 ; 23,159-166 ; Geop. 11,68). Del sambuco (ajkthv) sono impiegati i fiori e i frutti, dai quali si ricava un succo rossastro usato per tingersi durante i misteri (Theophr. HP 3,13,5). Quella della ginestra è una coltura strumentale alla vigna : dall’arbusto infatti si ricavano vimini per cordame e legature (Co 

























archeoastronomia lum. 4,31). L’alloro è di largo impiego sia a livello gastronomico, come spezia, sia a livello religioso (sacro ad Apollo), in riti e processioni (Plin. nat. 15,127-138 ; 23,152-158 ; Geop. 11,2-3). Vasto impiego di arbusti come piante officinali è oggetto delle trattazioni di →Dioscoride (34) e →Plinio (24-27). [1]







Note. [1] Vd. White 1975, 29-104, ove sono descritti – per il mondo romano – i manufatti di cordame e vimini più diffusi.

Emanuele Lelli Archeoastronomia. 1. Introduzione. – Negli ultimi decenni si è affermata una nuova scienza, l’Archeoastronomia. Scopo primo dell’A. è misurare gli (eventuali) allineamenti astronomici presenti negli antichi monumenti, cioè gli elementi architettonici (quali ad esempio finestre, condotti, assi di simmetria) che puntano ad eventi celesti significativi, quali il sorgere e il tramontare del sole ai solstizi – i giorni più lungo e più corto dell’anno – o il sorgere delle stelle brillanti subito prima dell’alba. Partendo da queste informazioni essa cerca poi di approfondire i legami tra →astronomia, potere e religione, e spesso accade che i ‘legami celesti’ risultano fondamentali per la comprensione di un monumento o, talvolta, di un intero insieme di monumenti. Naturalmente, questo approccio è particolarmente rilevante quando si ha a che fare con monumenti costruiti da civiltà che non avevano la scrittura, come ad esempio è il caso dei grandi monumenti megalitici del nord Europa, quali Stonehenge. Tuttavia, anche quando sono presenti testi scritti, spesso essi tacciono su scopo, funzione e simbolismo dei monumenti e l’A. si rivela una chiave di lettura importante e talvolta inaspettata. Questo accade anche nel caso di molti monumenti greci e romani, in particolare, come vedremo più avanti, nel caso del tempio greco di Apollo a Bassae e nel caso del Pantheon. A proposito della struttura ‘matematica’ del Pantheon, ragioni di spazio ci impediscono di entrare in maggiori dettagli oltre ai pochi che affronteremo in questa nota, che possono essere comunque facilmente ritrovati nelle numerose opere scritte su tale argomento ; giova inoltre ricordare l’opera fondamentale di →Vitruvio. 2. L’orientazione dei templi greci. – L’orientazione dei templi greci, cioè la direzione verso cui punta l’asse longitudinale del rettangolo di base del tempio, fu studiata per la prima vol 

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ta in modo sistematico alla fine dell’ottocento da Penrose (1893) e da Nissen (1896), e il problema è stato poi ripreso varie volte, anche di recente (Mickelson-Higbie 2005). Il tempio greco, tipicamente, ospitava una grande statua della divinità ed era accessibile solo ai sacerdoti, che officiavano i riti pubblici ponendosi all’esterno, sulla fronte. Di conseguenza, la scelta dell’orientazione era particolarmente importante perché da essa dipendeva, nelle varie ore del giorno, il modo in cui gli officianti erano illuminati dal Sole durante i riti. Poiché si sono conservati (almeno come basamento) molti templi, per farsi un’idea dell’andamento generale dei dati si parte dal c.d. diagramma di orientazione, un semplice grafico di uso comune in A. Si tratta di un cerchio nel quale viene riportato un raggio per ogni monumento. Posto il nord in alto, il raggio viene tracciato con un angolo rispetto al nord pari all’azimut dell’asse del tempio. In tali diagrammi è conveniente indicare anche i due diametri che corrispondono alla massima ampiezza solare, cioè agli azimut di levata e tramonto del sole ai solstizi. In questo modo si vede subito se un dato monumento è orientato nella ‘ampiezza solare permessa’, cioè se il sole sorge o tramonta in allineamento con l’asse due giorni all’anno, uno (nel caso di orientamento a un solstizio) oppure mai. Nelle Figg. 1 e 2 sono riportati i diagrammi di orientazione dei templi greci e dei templi della Magna Grecia, distinti fra Sicilia e Italia continentale (AveniRomano 2000). Nel caso dei templi greci la stragrande maggioranza degli assi cade all’interno dell’ampiezza del sole che sorge, con un ‘picco’ molto accentuato in corrispondenza al sorgere del sole agli equinozi. È stato proposto numerose volte che i giorni che corrispondono a questi azimut siano associabili, per ogni singolo tempio, alle feste delle singole divinità a cui i templi erano dedicati, ma non esiste una prova definitiva di questa affermazione. Per quanto riguarda i templi della Magna Grecia, è opportuno distinguere la Sicilia dall’Italia peninsulare. Infatti, i templi della Sicilia sono di regola orientati al sorgere del sole agli equinozi (ad esempio, il tempio di Eracle ad Agrigento). Invece nell’Italia peninsulare è presente anche un altro ‘picco’ in prossimità del sorgere del sole al solstizio d’inverno, forse originato da una ‘mediazione’ con una tradizione locale pre-greca. Osservando la Fig. 1 si vede che le

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Fig. 1. Diagramma di orientazione dei templi greci.

Fig. 2. Diagramma di orientazione dei templi della Magna Grecia (a sinistra) e della Sicilia (a destra).

eccezioni all’orientazione al sorgere del sole cadono soprattutto nel settore dove il sole tramonta, tranne alcuni casi in cui i templi tendono ad essere orientati a nord o a sud. L’interpretazione di queste eccezioni deve essere cercata in loco per ogni specifico tempio ; in alcuni casi fu senz’altro dettata da necessità locali dovute alla topografia o all’urbanistica ; in altri casi tuttavia rimane estremamente enigmatica, soprattutto quando è la disposizione stessa dei templi, costruiti talvolta in luoghi inaspettati, fuori dalle città, disposti in posizioni scenografiche a controllo, quasi a dominio, di spettacolari paesaggi naturali (Scully 1962). Discuteremo qui un caso particolarmente importante, quello del tempio di Apollo che si trova a Bassae, nel Peloponneso. Il tempio, costruito nella seconda metà del v secolo a.C., si trova presso la sommità del monte Kotilion ad oltre 1100 metri di altezza. Pausania riporta  



che era tra i templi più importanti del Peloponneso e che fu costruito come ex-voto ad Apollo in seguito ad una pestilenza avvenuta nel 430 a.C. La fronte di questo tempio è orientata con buona precisione verso il nord vero (devia di circa 2 gradi). Di conseguenza il sole non batte mai sulla facciata e la luce diretta entra nel tempio da una apertura, abbastanza inusuale, disposta sul lato est. Si tratta, come si è detto, di una orientazione piuttosto curiosa che non può essere spiegata con soli motivi topografici, visto che l’edificio sorge in mezzo al nulla, sulla sommità di una spianata. Recentemente (Liritzis and Vassiliou 2003) è stato proposto che il tempio sia orientato a nord perché rivolto verso la regione delle aurore boreali, le spettacolari bande luminose verde-azzurro che possono talvolta essere osservate a causa dell’interazione del vento solare con la ionosfera. A causa del campo magnetico terrestre questo fenomeno è osservabile solo in due regioni prossime ai poli magnetici (oggi lontane dalle latitudini temperate) che però in età classica si estendevano fino all’Egeo. Le aurore, forse manifestatesi in concomitanza con il cessare della pestilenza citata da Pausania, erano associate ad Apollo ed in particolare al suo carattere ‘iperboreo’. Si pensava infatti che il dio andasse a nord ogni inverno e ritornasse a Delfi, sua sede di elezione, in primavera. 3. Roma. – In generale, gli studi sulle conoscenze di astronomia a Roma sono piuttosto lacunosi, in particolare per ciò che riguarda la Roma regia e il primo periodo repubblicano, precedente dunque all’arrivo della cultura greca. Ad esempio, solo negli ultimi anni la storia del calendario di Roma antica è stata affrontata in modo sistematico e si è scoperto così che il calendario numano, introdotto dal re Numa Pompilio all’inizio del vii secolo e che fu in uso a Roma fino alla riforma voluta da Cesare nel 46 a.C., era molto più raffinato di quanto si fosse sempre pensato e teneva conto della commensurabilità tra i cicli del Sole, della Luna e di Venere (Magini 1997, 2001). Allo stesso modo, sono ancora agli inizi gli studi di A. Solo recentemente, ad esempio, è stato affrontato in modo sistematico il problema dei possibili legami tra l’astronomia e l’orientazione dei due assi viari ortogonali delle città romane (Magli 2007, 2008, cui si rimanda per maggiori dettagli). Per quanto riguarda i templi, sappiamo da Vitruvio che l’architetto doveva conoscere

archeoastronomia l’astronomia (1, 10-11) ma risulta dalla poca letteratura esistente che, a differenza di quelli greci ed etruschi, i templi romani erano orientati in modo sostanzialmente casuale, indipendente da riferimenti celesti (Aveni-Romano 1994). La cosa tuttavia non appare del tutto convincente e il problema dovrebbe senz’altro essere rianalizzato in modo sistematico. Infatti, almeno alcune delle orientazioni dei templi romani sono certamente non casuali. Inoltre, esiste proprio a Roma un monumento unico, di una bellezza e complessità straordinarie, che è sufficiente da solo a testimoniare della necessità, dell’urgenza quasi, di uno studio sistematico sui riferimenti astronomici presenti nei templi romani : il Pantheon. Molto brevemente, ricordiamo che il Pantheon è progettato come una gigantesca semisfera (una cupola del diametro di 21,72 metri) ‘appoggiata’ su un cilindro di altezza pari al raggio e circonferenza di base pari a quella della semisfera. Lo stato attuale in cui lo vediamo, quasi intatto, è dovuto ad un progetto elaborato sotto Adriano (attorno al 125 d.C.) nel luogo dove si trovava un precedente tempio, costruito da Agrippa (cui appartiene l’iscrizione dedicatoria ancora oggi visibile) distrutto per un incendio. L’edificio è disposto con la parte frontale a nord, e di conseguenza sul portico dell’ingresso non batte mai la luce del sole, motivo per il quale esso appare a prima vista ‘freddo’. Si tratta di una scelta abbastanza singolare, dovuta però, come vedremo tra un istante, a delle profonde motivazioni simboliche. Sappiamo ben poco sulle funzioni del Pantheon e sui riti che vi si svolgevano ;  



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tuttavia lo storico Dione Cassio (53, 27) scrive che ha questo nome, forse, perché tra le statue che lo abbellivano si trovavano quelle di molti dei, inclusi Marte e Venere ; ma la mia opinione sull’origine del nome è, piuttosto, che a causa del suo soffitto a volta, esso ricordi il cosmo stesso. Il Pantheon era dunque una sorta di icona del Cosmo, la cui volta sferica era probabilmente legata all’idea che l’universo fosse composto da sfere concentriche con la terra al centro. Alla base del cilindro si aprono otto esedre : l’esedra a nord ospita l’ingresso e le altre sette, con grande probabilità, erano dedicate alle cinque divinità planetarie (Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno), al Sole e alla Luna ; alla durata del mese lunare si riferiva forse la scelta di disporre all’interno della cupola file di ventotto cassettoni ciascuna. Il motivo per cui l’edificio fu orientato a nord è, infine, legato alla volontà di legare il potere e l’orgoglio di Roma ad una ierofania, cioè una manifestazione ciclica legata ai fenomeni astronomici avente carattere sacro. Curiosamente, come spesso accade alle ierofanie, anche quella del Pantheon era stata dimenticata (anche se forse Piranesi la conosceva ; cfr. Fig. 3) ed è stata riscoperta solo in tempi recenti, proprio grazie ai recenti studi di A. Il suo funzionamento, semplice in principio quanto raffinato nella realizzazione, è il seguente. La luce del Sole entra nel Pantheon solo attraverso l’occhio centrale della cupola. A mezzogiorno locale il Sole passa in meridiano e dunque la luce entra da sud, ad una certa altezza ogni giorno diversa nel corso di sei mesi dell’anno, tra due solstizi. Al solstizio d’inverno l’altezza del sole è la minima possibile e la luce batte sull’ingresso al di sopra della porta ; al solstizio d’estate essa è invece la massima possibile, e la luce batte sul pavimento, non lontano dal centro ; esiste dunque un giorno in cui il sole a mezzogiorno illumina ‘a pieno’ l’ingresso : è questo l’unico giorno in cui il Pantheon non è ‘freddo’ per chi sta all’esterno, anzi invita ad entrare. Si tratta del Natale di Roma, il 21 di aprile. La ierofania rende dunque esplicita l’idea che Roma era parte fondante del Cosmo di cui il Pantheon rappresentava una replica (Del Monti-Lanciano 1990 ; Belmonte-Hoskin 2002 ; Magli 2007). Noi confidiamo che questi pochi esempi concreti permettano di comprendere come l’A., disciplina di studio nata in tempi recenti, basandosi esplicitamente e scientificamente sui ‘legami celesti’, aiuti lo  















Fig. 3. L’interno del Pantheon in una incisione di Piranesi. L’artista, forse non a caso, scelse di ritrarre l’edificio a mezzogiorno di un giorno speciale, il 21 di aprile, quando il sole illumina a pieno l’esedra dell’ingresso.



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studioso moderno a ricostruire il bagaglio delle nostre conoscenze sulle motivazioni che hanno condotto gli antichi a costruire o ad orientare un monumento (o addirittura un intero insieme di monumenti) in un modo piuttosto che in un altro, evidenziando così precise e dettagliate conoscenze matematiche ed astronomiche, che l’assenza di testimonianze scritte ci ha spesso indotto a considerare come inesistenti al tempo stesso della loro costruzione. Bibliografia. Aveni-Romano 2000 ; BelmonteHoskin 2002 ; Del Monti-Lanciano 1990 ; Dinsmoor ; Liritzis-Vassiliou 2006 ; Magini 2001 ; Magini 1997 ; Magli 2005 ; Magli 2007 ; Magli 2008 ; Mickelson Higbie 2005 ; Nissen 1896 ; Penrose 1893 ; Scully 1962.  

























Mauro Francaviglia Marcella Giulia Lorenzi Giulio Magli Archeologia subacquea. 1. Le potenzialità. – Le scoperte dell’a. subacquea hanno contribuito in maniera fondamentale alla conoscenza delle navi e della marineria antica le quali, prima dell’avvento di questa disciplina, erano note solo dalle fonti scritte e iconografiche, ossia immagini di navi rappresentate su monumenti e manufatti antichi. Tali testimonianze presentano però dei limiti a cui l’archeologia può fare fronte. Le fonti scritte, ad esempio, sono estremamente avare di informazioni sulla tecnica costruttiva mentre quelle iconografiche sono molto importanti per la conoscenza dell’opera morta delle navi, ossia delle soprastrutture emergenti dall’acqua, ma non certo per quella dell’opera viva, che peraltro è la parte più interessante da un punto di vista tecnico. Va tenuto presente comunque che la conoscenza delle navi antiche deve moltissimo anche allo studio di imbarcazioni scoperte non sott’acqua bensì in aree interrate. Negli ultimi anni, ma non solo, si sono susseguite numerose scoperte di navi antiche all’interno di bacini portuali insabbiati quali quello fluviale di San Rossore a Pisa e quelli litoranei di Napoli, Olbia, Marsiglia e Istanbul. A differenza dei fondali marini, nei quali i relitti si conservano quasi sempre solo nell’opera viva, le terre umide delle aree portuali interatte o delle coste sopravanzate permettono spesso la conservazione anche dell’opera morta e quindi di buona parte degli scafi. Solo per fare degli esempi, dal porto

interrato di Olbia sono venuti alla luce alberi e remi-timone di navi romane ed altre attrezzature che costituiscono documenti quasi unici per la conoscenza delle parti sovrastrutturali degli scafi antichi. Dal porto di San Rossore, di Napoli e dai rami fluviali interrati di Mainz e Oberstimm in Germania sono venute alla luce le uniche imbarcazioni militari a remi romane. Prima di questi ritrovamenti la conoscenza della tecnica della voga in età romana e l’aspetto delle imbarcazioni a remi romane si erano basati solo su studi iconografici. L’unico ritrovamento marino di imbarcazione militare a remi antica proviene infatti dalla spiaggia di Marsala. Si tratta di uno spezzone di prua e di una sezione di poppa di imbarcazioni di età punica interpretate, non senza però fondati dubbi, come militari. Il resto dei rinvenimenti subacquei è costituito da naviglio mercantile. Rara eccezione, sia per il contesto di rinvenimento, un lago, sia per l’impiego, quale villagalleggiante dell’imperatore Caligola, sono le navi di Nemi. 2. La storia degli studi. – La storia dell’a. subacquea nasce proprio con i tentativi di recupero, già nel Rinascimento, dei due poderosi battelli di Nemi. Le esplorazioni delle navi sono proseguite nell’Ottocento, inizialmente per scopi antiquari poi scientifici, fino ad arrivare al faraonico progetto di recupero, ottenuto attraverso l’abbassamento del livello del lago, compiuto negli anni Trenta del secolo scorso, scandendo così le tappe fondamentali della nascita della disciplina. Ma è con l’invenzione dell’autorespiratore ad aria che le scoperte navali subacquee si sono moltiplicate esponenzialmente rispetto alle segnalazioni di pescatori di spugne e di palombari. Inizialmente le esplorazioni di relitti antichi vennero condotte da semplici sommozzatori che raccoglievano informazioni da trasmettere all’archeologo in superficie; poi, nel 1960, George Bass, un ricercatore della Pennsylvania University, consapevole dei limiti di una direzione dei lavori a distanza, scese sul fondale di Capo Chelidonia in Turchia per condurre le operazioni di documentazione di un relitto di nave dell’età del Bronzo divenendo il primo archeologo subacqueo. Da quel momento l’archeologo Bass, su segnalazione dei pescatori di spugne turchi, sarà autore di alcune tra le più importanti scoperte dell’archeologia subacquea scavando e studiando alcuni tra i più

archeologia subacquea interessanti relitti dell’antichità e del medioevo. Negli anni Sessanta e Settanta comunque si sono susseguite numerose scoperte di relitti antichi anche nel resto del Mediterraneo specialmente in Spagna, Francia ed Italia. A differenza delle scoperte di Bass, quelle spagnole ed italiane però hanno privilegiato lo studio del carico penalizzando quello dello scafo tanto che rari sono gli studi esaustivi di navi antiche nel nostro paese. Sicuramente meglio è andata in Francia, dove più consolidata è la tradizione di studi sulla costruzione navale e quindi anche dei resti di scafi che sono stati protetti per secoli dai carichi non deperibili di anfore, lingotti ed elementi litici. Lo studio del francese Patrice Pomey e dell’esperto navale del team di George Bass, Richard Steffy, ha permesso, in meno di trenta anni, di arrivare ad un buon livello di conoscenza della costruzione navale antica sia greca sia romana. Molto più indietro, specialmente per la scarsezza di dati archeologici, è invece la conoscenza della costruzione navale anteriore all’età arcaica e di quella posteriore alla caduta dell’Impero romano. 3. La questione dello sviluppo della tecnica costruttiva. – La costruzione navale antica, a differenza di quella medievale e moderna, è basata su una concezione a guscio in cui la forma della nave non veniva definita da progetti grafici bensì era ottenuta direttamente durante la messa in opera degli elementi strutturali. Infatti, una volta posata sul cantiere la chiglia e le ruote di prua e di poppa, ossia le prosecuzioni verticali curve delle due estremità della chiglia, si impostava l’involucro esterno del fasciame collegando una tavola con l’altra e disponendola ‘a paro’, ovvero bordo contro bordo, così da formare una sorta di guscio. Solo in un secondo momento all’interno del guscio venivano inchiodate le ordinate, ossia le costole. Strutturalmente quindi la nave presentava un guscio di fasciame ‘autoportante’, che le ordinate potevano andare solo a irrobustire. La forma era definita, oltre che dalla linea determinata dalla chiglia e dalle ruote, dalla posa delle tavole. Di recente si sta valutando la possibilità che la sequenza progressiva della posa delle tavole potesse essere guidata dall’impiego di sagome mobili predeterminate (Beltrame-Bondioli 2006). Successivamente, nel Mediterraneo, questa concezione lascerà il posto, anche se in maniera definitiva solo nel grande naviglio, alla concezione su scheletro

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che è poi quella moderna. Questa concezione prevede, in sequenza, la posa su chiglia e ruote delle ordinate complete sulle quali poi viene inchiodato il fasciame esterno. La struttura portante quindi non è più il fasciame, ma sono le ordinate su cui il fasciame va applicato. Dal punto di vista progettuale, ossia della definizione del profilo curvilineo dello scafo, questa concezione prevede la conoscenza esatta della forma della sezione maestra centrale prima dell’avvio della costruzione, la quale svolgerà la funzione di disegno ‘sorgente’ per permettere la tracciatura della maggior parte delle altre rimanenti ordinate. Mentre nella concezione pura su scheletro il fasciame non necessita di alcun collegamento tra le tavole, che anzi lasciano delle fessure che devono essere colmate con la tecnica del calafataggio, ossia del riempimento degli interstizi con stoppa impeciata, nella concezione su guscio le tavole devono essere unite solidamente tra loro per mezzo o della tecnica della cucitura o della tecnica delle mortase e dei tenoni. La cucitura consiste nell’unione del bordo di una tavola con l’altra per mezzo di sottili cime fatte passare attraverso fori praticati lungo i bordi. La tecnica ebbe largo impiego in età arcaica mentre in età romana è stata riconosciuta esclusivamente nell’area alto-adriatica. La tecnica a mortase e tenoni consiste nell’unione delle tavole per mezzo di tenoni, ossia linguette di legno, infilati dentro mortase, ossia fessure praticate lungo i bordi delle tavole. I tenoni sono poi bloccati nelle mortase mediante l’impiego di caviglie in legno. Entrambe le tecniche non prevedevano un calafataggio in quanto esso avrebbe danneggiato le giunzioni. I due sistemi erano noti nel Mediterraneo già agli Egizi. La tecnica a mortase e tenoni ebbe però il sopravvento in età classica a causa presumibilmente della maggiore robustezza e durata rispetto alla tecnica a cucitura. Per il collegamento delle ordinate al fasciame si utilizzavano sia chiodi in metallo, sia caviglie in legno, sia legature vegetali. La questione maggiormente dibattuta tra gli studiosi di costruzione navale antica è la cronologia, le cause e la modalità di transizione da una concezione all’altra. Quest’ultima è stata indubbiamente molto lenta e graduale ed è iniziata presumibilmente già nella prima età imperiale (Beltrame-Bondioli 2006) o comunque non più tardi dell’età altomedievale (Pomey-Rieth 2005) e si è conclusa solo nel

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xiii secolo (Beltrame-Bondioli 2006). Tracce evidenti di questo momento di passaggio dello sviluppo tecnico sugli scafi è l’allentamento progressivo dello spazio tra tenone e tenone, la perdita della caviglia di bloccaggio del tenone nella mortasa e l’immobilizzazione del madiere, ossia dell’elemento più basso dell’ordinata, sulla chiglia per mezzo di un grosso chiodo.

gio della ruota di prua e di poppa sulla chiglia. Il sistema, detto a palella a dente, presenta infatti numerose varianti. All’interno dello scafo, al centro, era appoggiato ed incastrato sopra i madieri il paramezzale, ossia una grossa trave in cui erano ricavate delle cavità per alloggiare i piedi degli alberi e i puntelli per il sostegno del ponte. A fianco del paramezzale erano posti gli elementi del fasciame interno che consistevano in tavole necessarie per permettere di posare il carico all’interno dello scafo. Il fasciame esterno poteva presentare tavole più spesse, chiamate cinte, che avevano la duplice funzione di irrobustimento dello scafo e di protezione dal contatto con le banchine portuali. La coperta era costituita da tavole posate su spesse travi, dette bagli ; questi erano incastrati sulle fiancate ed erano disposti trasversalmente all’asse longitudinale. Il baglio aveva anche la funzione di tenere assieme le murate dello scafo e ammortizzare così le spinte esterne esercitate dalla pressione dell’acqua. I carpentieri antichi utilizzavano moltissime essenze legnose mediterranee e molti relitti presentano una singolare estrema eterogeneità nell’impiego delle piante. Molto apprezzato, specialmente per la realizzazione delle ordinate, ossia degli elementi curvi, fu ovviamente la rovere. Per il fasciame esterno si utilizzava molto il pino e l’olmo mentre per quello interno poteva andare anche il meno nobile abete. Caviglie e tenoni erano spesso realizzati con legni più duri quale l’olivo. Lo studio delle essenze legnose e delle caratteristiche del legno (dendrocronologia) fornisce informazioni preziose all’archeologo per conoscere le ragioni delle scelte dei fabri navales, la data di costruzione della nave ed il luogo di costruzione. Quest’ultimo dato raramente è ottenibile attraverso lo studio del carico e sta permettendo di individuare delle tradizioni costruttive regionali. L’età ellenistica (relitto di Kyrenia) ci ha restituito la prima evidenza di rivestimento protettivo dello scafo dalla teredo navalis in metallo. Si trattava di lamine di piombo inchiodate sul fasciame che scomparirono improvvisamente nel ii secolo per ricomparire solo nel Rinascimento. Già in età greca comunque lo scafo veniva spalmato abbondantemente con pece sia all’interno sia all’esterno a scopo protettivo. 6. L’attrezzatura. – Il governo della nave era assicurato da due timoni laterali ben riconoscibili nelle raffigurazioni navali ma testimoniati  

Fig. 1. La giunzione, come praticata dalla carpenteria navale antica, fra le tavole (‘corsi’) del fasciame, e fra queste e le coste dello scafo: a destra il sistema a ‘mortasa e tenone’, a sinistra la giunzione mediante chiodature tra fasciame e coste.

4. Dimensioni e forme. – L’a. subacquea, oltre ad imbarcazioni lunghe tra i 15 e i 25 metri, ha restituito relitti di navi anche di notevoli dimensioni. Grazie ad esse, sappiamo infatti che onerarie lunghe 40 metri, di circa 300/400 tonnellate, circolavano in età tardo-repubblicana (relitti di Albenga e di Madrague de Giens) nel Mediterraneo ; il recente rinvenimento di una nave di circa 100 tonnellate nelle acque dell’isola di Alonessos in Grecia ha dimostrato comunque che, a differenza di quanto si credeva prima, navi di notevole stazza venivano costruite già in età classica. I profili di carena delle navi da carico erano prevalentemente tondeggianti ma già in età classica (relitti di Gela 2 e di Ma’agan Michael) compaiono raffinate sezioni stellate ossia a collo di bottiglia. 5. Elementi costruttivi. – Chiglia e ruote, come oggi, costituivano la spina dorsale della nave. I numerosi relitti analizzati hanno permesso di apprezzare l’abilità e la fantasia dei fabri navales antichi nell’intagliare le giunzioni di bloccag 

archimede anche dai rari reperti di Nemi e Olbia. Le vele erano movimentate da manovre fisse e mobili testimoniate da bigotte, borelli e bozzelli ad una o più vie che si rinvengono spesso nei relitti e nei fondali portuali. L’acqua accumulata nel fondo della sentina poteva essere espulsa per mezzo di una pompa a bindolo mossa da manovelle. Si trattava di una cima dotata di dischetti in legno che, scorrendo all’interno di un tubo sempre di legno, permetteva il recupero dell’acqua e il suo riversamento in una vaschetta in piombo collocata sulla coperta e dotata di ombrinali di scarico. Le numerose ancore rinvenute isolate oppure in associazione con i relitti ci hanno permesso di ricostruire l’evoluzione tecnologica di questo importante attrezzo. In età greca esse erano costruite in legno, erano dotate di una o due marre, ossia punte, e di un ceppo di appesantimento in pietra. In età romana il ceppo litico venne soppiantato da uno in piombo. In età imperiale poi l’ancora in legno e piombo venne sostituita da quella completamente in ferro con ceppo mobile simile all’ancora ‘ammiragliato’ moderna. Questo tipo di ancora, pur mutando la forma delle marre (prima a croce, poi tonde e poi a T e quindi, nel medioevo, ad Y), rimarrà in uso per secoli. Bibliografia. Beltrame 2002a ; Beltrame-Bondioli 2006 ; Gianfrotta-Pomey 1981 ; Mariscalco 1998 ; Pomey-Rieth 2005 ; Steffy 1994.  









Carlo Beltrame Archigene. 1. La vita. – Figlio del medico Filippo e discepolo di Agatino, Archigene proviene da Apamea, in Siria, ma in seguito vive e opera a Roma nell’età di Traiano (98-117 d.C.), dove diventa un medico famoso. [1] Condivide le posizioni della scuola pneumatica (che introduce rispetto ai quattro umori della medicina ippocratica lo pneu`ma) pur appartenendo alla scuola eclettica (→medicina); la base della sua terapeutica è il mantenimento dell’armonia, combattendo gli otto cattivi temperamenti (duskrasivai). 2. Le opere. – Da fonti indirette sappiamo che Archigene interviene in molti ambiti della medicina, come dimostrano alcuni titoli delle sue opere giunti a noi attraverso Galeno : Sull’utilità dell’olio di castoro, Dei medicamenti distribuiti secondo il genere, Della sintomatologia delle febbri, Sintesi degli interventi chirurgici, Sintomi delle  

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malattie acute e croniche, Strumenti terapeutici delle malattie acute e croniche. La pubblicazione dei frammenti di Archigene (Brescia 1955) scoperti in un testo di Paolo Egineta all’interno di un manoscritto Vaticano Palatino (Vat. Pal. gr. 199) hanno permesso di ampliare l’edizione di Archigene curata da Ilberg. Note. [1] Vd. Iuv. 6, 236 ; 13, 98 ; 14, 252. La fortuna di Archigene è vasta anche nei secoli successivi : Alessandro di Tralle ne tesse l’elogio definendolo ‘divino’.  





Bibliografia. Brescia 1955 ; Kudlien 1964b ; Mazzini 1997, 61-62 ; Nutton 1996l ; Wellmann 1895a ; Wellmann 1895b.  









Francesco Ragni Archimede [287-212 a.C.]. 1. Dati biografici. – A. è universalmente noto come il più grande matematico dell’antichità classica. Molte sono le notizie che le fonti ci tramandano sulla sua vita, ma non tutte si basano su un’effettiva veridicità storica ; è il caso dell’aneddoto riportato da Plutarco, [1] secondo cui A. sarebbe stato solito tracciare figure geometriche sugli unguenti spalmatigli addosso durante il bagno, o l’episodio riferito da Vitruvio, [2] relativo all’occasione in cui accidentalmente A. scoprì il principio sull’immersione dei corpi solidi nei liquidi che va tutt’oggi sotto il suo nome. Secondo le fonti, A. sarebbe stato ucciso all’età di settantacinque anni durante la conquista romana di Siracusa. [3] Sulle sue origini siracusane la tradizione è concorde, ma mentre Cicerone farebbe un velato riferimento alle origini umili dello scienziato, [4] secondo Plutarco[5] la sua famiglia sarebbe stata legata al re Gerone ii di Siracusa. Secondo la tradizione, A. soggiornò per un periodo ad Alessandria, [6] dove intrattenne rapporti con gli scienziati più importanti del suo tempo, in particolare con il geografo Eratostene di Cirene, a cui dedicò lo scritto che va sotto il titolo di Methodus, con l’astronomo Conone di Samo e con l’allievo di quest’ultimo, Dositeo di Pelusio, cui dedicò almeno tre delle sue opere (De sphaera et cylindro, De conoidibus et sphaeroidibus, De lineis spiralibus). Le fonti attribuiscono ad A. meriti nel campo dell’ingegneria meccanica ; avrebbe organizzato la costruzione della grande nave Syracusia[7] ordinata da Gerone. Ad A. è attribuita l’invenzione della coclea o vite archimedea, nota anche come vite idraulica o vite senza fine, un conge 













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gno che utilizza la rotazione di una superficie elicoidale per sollevare l’acqua attinta da un canale a un certo livello e riversarla in un canale situato a un livello superiore ; stando a quanto riporta Diodoro Siculo, [8] A. l’avrebbe inventata durante il suo soggiorno ad Alessandria e sarebbe stata impiegata in Egitto per irrigare i campi non direttamente inondati dalle acque del Nilo e in Spagna per estrarre l’acqua dalle miniere; secondo Ateneo [9] ne sarebbe stata installata una anche sulla nave Syracusia per evitare che le stive si riempissero d’acqua. Inoltre, A. avrebbe ideato anche l’argano idraulico e alcuni planetari dai meccanismi complessi. Le fonti sono abbastanza concordi nella narrazione di episodi relativi al ruolo attivo che A. avrebbe avuto in difesa della sua città durante l’assedio romano : [10] lo scienziato avrebbe congegnato imponenti macchine balistiche e gru capaci di ribaltare le navi nemiche non ancora attraccate. Nessuno degli storici menziona, invece, i più celebri specchi ustori, dei quali A. si sarebbe servito per dirigere i raggi solari sulle navi e appiccare il fuoco a bordo. Alla conquista di Siracusa, lo scienziato fu ucciso nonostante il console Marcello avesse ordinato di risparmiarlo. 2. Opere e dottrina. – Di A. ci restano diverse opere : [11] 1) un trattato De sphaera et cylindro, diviso in due libri : il primo di essi è dedicato alle caratteristiche e ai teoremi relativi alla superficie e al volume della sfera, mentre il secondo espone una serie di problemi relativi ai due solidi e ai rapporti tra loro. Il punto di partenza per la trattazione delle caratteristiche dei due solidi è costituito dalle conclusioni sui volumi di cono e piramide inizialmente postulate da →Democrito e, in seguito, riprese e dimostrate da →Eudosso ; A. sconfessa alcune affermazioni dei due studiosi attraverso ipotesi formulate per absurdum, arrivando a definire correttamente l’area e il volume della sfera, l’area di un segmento di parabola, il trattato del paraboloide di rivoluzione, oltre a giungere all’individuazione dei rispettivi centri di gravità. Uno dei postulati fondamentali enucleati nel trattato, inoltre, è quello relativo ai rapporti tra grandezze, più noto con il nome di ‘postulato di A.’. Questo trattato, straordinariamente apprezzato nell’antichità, costituisce occasione di approfondimento di tematiche di ricerca già esposte negli Elementi di →Euclide: vi si introducono concetti ori 





   







ginali, quale quello di concavità, e asserzioni geometriche fondamentali, quale quella che la retta rappresenta il segmento più breve tra due punti; 2) un’opera che ha come oggetto la Dimensio circoli, nella quale sono esposte le caratteristiche del cerchio e si indagano le modalità di misurazione delle sue dimensioni: è questo il trattato in cui si indica, con approssimazione minima, il valore di p, cioè del rapporto costante tra circonferenza, diametro e raggio del cerchio. Attraverso questa definizione, A. pone le basi per la risoluzione del tormentato problema della quadratura del cerchio e di quello della traduzione di una circonferenza in una linea retta; 3) un trattato De conoidibus et sphaeroidibus, relativo alla misurazione di solidi immaginari, formati con la rotazione di curve piane (parabole, iperboli ed ellissi) intorno ad assi fissi; 4) un’opera De lineis spiralibus, che affronta il problema della definizione di spirale e delle sue implicazioni meccaniche; 5) un trattato De planorum aequilibriis in due libri : nel primo di essi si trattano le figure rettilinee e l’individuazione dei centri di gravità di triangolo, trapezio e parallelogrammo, mentre oggetto del secondo è la determinazione del centro di gravità dei segmenti di parabola e dei poligoni in essi iscritti; 6) un’opera intitolata Arenarius, in cui si tenta la determinazione del numero di granelli di sabbia contenuti in una sfera che abbia come centro il sole e come superficie il cielo delle stelle fisse: per ottenere il risultato, A. si scontra con la necessità di stabilire parametri per il calcolo e l’esposizione di grandi numeri, problema che nell’antichità era particolarmente sentito; 7) una Quadratura parabolae, che tratta della questione delle curve descritte dall’intersezione di un cono con piani diversi e delle relative misurazioni; 8) un trattato De insidentibus aquae, in due libri, nel quale sono descritte le proprietà dei corpi galleggianti ; in esso si trovano dimostrazioni ed enunciati riguardanti il principio della spinta idrostatica; 9) un’opera intitolata Methodus, in cui si affrontano problemi metodologici relativi ai teoremi meccanici ed alla possibilità, attraverso il metodo meccanico, di giungere a dimostrazioni matematiche. Tra le opere minori di cui sono giunti fino a noi solo frammenti o citazioni di altri autori si ricordano : un’opera che va sotto il titolo di Problema dei buoi, nella quale si tratta la risoluzione di un’equazione indeterminata a otto incognite (vd. →alge 





archimede bra) ; un’opera intitolata Liber Assumptorum, nella quale A. tratta di elementi di geometria e della trisezione dell’angolo ; un’opera intitolata Stomachion, di cui ci resta solo qualche frammento, relativa alle diverse possibilità di creare figure geometriche con lo stomachion, un passatempo costituito da tasselli d’avorio di diverse forme geometriche a incastro ; un’opera Sui cerchi mutuamente tangenti, il cui contenuto ci è noto attraverso una traduzione araba[12] ; una Catottrica, relativa a rifrazione e riflessione degli specchi, oltre che alle loro potenzialità ustorie ; un’opera sulla denominazione dei grandi numeri ; un’opera intitolata Elementi di meccanica, probabilmente contenente anche il libro De planorum aequilibriis, pervenuto integralmente ; un trattato intitolato Equilibria, di cui abbiamo notizia grazie a citazioni interne all’opera archimedea ; un trattato Sulla bilancia e uno Sulla costruzione della sfera[13] ; un libro di Mechanica. [14] Da autori arabi, infine, ci giungono citazioni di una serie di testi : Sulle linee parallele, Sui triangoli, Sulle proprietà dei triangoli rettangoli, Sull’eptagono iscritto nel cerchio. [15] La fortuna delle opere di A. è vastissima : gran parte delle affermazioni e delle dimostrazioni geometriche esposte nei suoi scritti hanno attraversato i secoli restando valide almeno fino al Rinascimento, età in cui i postulati dello scienziato rivivono nei più importanti trattati su discipline geometriche e architettoniche ; è, forse, superfluo ricordare che alcune formulazioni di A. rimangono sostanzialmente valide a tutt’oggi e sono ancora associate al nome del matematico siracusano.  



























Livia Radici 3. Geometria. – In campo geometrico A. si distinse particolarmente nell’approfondimento del settore della sferica. In particolare egli scrisse un’opera Sulla Sfera e sul cilindro, contenente alla proposizione 34 il famoso corollario, successivamente inciso sulla tomba del Siracusano, secondo cui ogni cilindro avente come base il cerchio massimo di una sfera ed altezza uguale al diametro della medesima sfera è uguale a 3/2 del volume della sfera ed ha superficie pari a 3/2 della superficie della sfera. Significativo risulta poi il secondo libro dell’opera, dedicato alla trattazione dei segmenti di sfera, nel quale si pongono le basi per un nuovo approccio algebrico alla geometria. A. adotta uno stile

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espositivo tipicamente euclideo, approccio ormai consacrato dalla comunità scientifica ellenistica come strumento rigoroso dell’esposizione matematica. L’opera archimedea inizia così con una serie di definizioni ed assunzioni, adottate di volta in volta nella deduzione di ciascun teorema riguardante i perimetri dei poligono inscritti e circoscritti al cerchio ed i teoremi attinenti ai volumi dei coni. La dimostrazione delle proposizioni è conseguita mediante l’ausilio del metodo di esaustione, vale a dire adottando figure rettilinee sia inscritte sia circoscritte alla figura di cui si vuole misurare l’area o il volume, e mediante il ricorso al ragionamento per assurdo allo scopo di convalidare il ragionamento precedentemente proposto. Inoltre nel corso della dimostrazione egli si avvale di teoremi facilmente verificabili o provati in altre opere. Il trattato Sui conoidi e sugli sferoidi affronta l’esposizione delle proprietà dei solidi di rotazione generati da sezioni coniche. A. costruisce così il conoide rettangolo o paraboloide, il conoide ottusangolo o iperboloide e lo sferoide, generati rispettivamente dalla rotazione della parabola, della falda di un iperbole, e dell’ellisse. Il testo si propone di indagare i segmenti determinati dall’intersezione di un piano con ciascuno dei tre tipi di solidi. Tra i risultati principali dell’opera si possono citare la proposizione 21, la quale stabilisce che ogni segmento di un paraboloide è uguale alla metà del cono dotato della stessa base e dello stesso asse, e la proposizione 24, secondo cui due segmenti generati dall’intersezione tra un paraboloide ed alcuni piani sono in proporzione come i quadrati dei loro assi. Lo scritto di A., intitolato Metodo, si contraddistingue per alcune osservazioni metodologiche che gettano luce sulle fasi che strutturano il processo scientifico. Solitamente i trattati, in particolare quelli riguardanti la matematica, si limitano ad esporre semplicemente i risultati acquisiti dal ricercatore, tralasciando la ricostruzione del percorso seguito nell’investigare una nuova proprietà. I teoremi scoperti sono così formalizzati secondo criteri che rispondono ad una finalità organizzativa ed espositiva, del tutto estranea all’andamento preliminare della ricerca. Gli Elementi di →Euclide ad esempio presentano una costruzione sistematica, imponente per quanto riguarda la mole dei dati ed estremamente rigorosa per quanto

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attiene alla disposizione delle proposizioni. Nessuna riflessione a carattere epistemologico trova perciò spazio nella concatenazione tra principi e teoremi, dal momento che anche una semplice annotazione sul metodo rappresenterebbe una incrinatura rispetto al sobrio progetto generale. Il Metodo di A. differisce rispetto ai consueti trattati, in quanto si configura come lettera indirizzata al matematico Eratostene, quindi come scritto destinato ad una fruizione privata e non ad una pubblicazione. Il Metodo si divide in due parti : la prima è formata da un preambolo in cui il Siracusano espone per sommi capi i contenuti delle proposizioni ed illustra distesamente il metodo che ne ha permesso il reperimento ; la seconda è composta da 14 proposizioni e dalla relativa dimostrazione. Il reperimento dell’enunciato di alcuni teoremi fornisce ad A. lo stimolo per avviare la seconda fase della ricerca, la quale mira all’assiomatizzazione dei contenuti scoperti. Presumibilmente la dimostrazione, su cui A. sollecita l’attenzione di Erastostene, deve essere condotta secondo gli stessi criteri che avevano guidato Euclide nella compilazione degli Elementi, sui quali si registra l’unanime consenso della comunità matematica. A. sottopone ad Eratostene la validità di un metodo informale, di natura meccanica, utile per provare alcune proposizioni matematiche. Il procedimento non si pone come dimostrativo, e quindi alternativo rispetto alla teorizzazione euclidea, ma come euristico, in quanto permette di conseguire e accertare nuove proprietà geometriche. A. propone di adoperare la via meccanica come metodo per la giustificazione di proprietà, le quali, una volta accertatane la verità, saranno dimostrate in modo rigoroso per via geometrica. Il metodo adottato da A. non si pone come sostitutivo della dimostrazione, ma permette al ricercatore di acquisire certezza rispetto alle cognizioni da lui investigate e non ancora rigorosamente provate. I presupposti condivisi del lavoro matematico restano pertanto inalterati, in quanto il procedimento non mette in discussione il principio, applicato dai matematici riguardante l’omogeneità disciplinare tra le proposizioni coinvolte nella dimostrazione. La collaborazione tra meccanica e geometria è da respingere da un punto di vista formale, in quanto ciascuna scienza dovrebbe disporre di un apparato concettuale autonomo, di cui avvalersi nella dimostrazione. Il divieto di passa 



re da un genere all’altro tuttavia non si estende anche ad un ambito informale della ricerca e pertanto nulla vieta di adoperare principi appartenenti alla meccanica allo scopo di verificare enunciati di natura geometrica. Il teorema secondo cui l’area del segmento parabolico corrisponde ai 4/3 dell’area del triangolo in esso inscritto viene rigorosamente dimostrato da A. nell’opera intitolata Quadratura della parabola. Al momento della stesura del Metodo A. verosimilmente non è ancora giunto a formulare siffatta dimostrazione, poiché lo stesso teorema è stabilito in quest’opera mediante il ricorso a metodi meccanici. L’ingegnosa riduzione del segmento parabolico ad un insieme di bacchette o strisce e l’idea di pesarne gli elementi ricorrendo ad una bilancia ideale rappresentano espedienti euristici utili a giustificare il teorema. La prova di tipo meccanico non può trovare spazio in una trattazione scientifica, in quanto si discosta dai precisi canoni della dimostrazione, sanzionati dagli Elementi di Euclide. Lo studioso, prima di giungere a presentare i risultati della sua ricerca nella forma assiomatica, può però avvalersi di procedimenti ausiliari che, fornendo una cognizione preliminare della proprietà reperita, gli permettono di volgersi con maggiore sicurezza e in modo più spedito alla formulazione della corrispondente dimostrazione. A. ritrova in Democrito ed Eudosso gli antesignani da cui intende trarre sostegno e continuità nel legittimare la separazione tra procedimenti informali e dimostrazione. Secondo la testimonianza del Siracusano Democrito scoprì l’enunciato di alcuni teoremi del cono e della piramide non avvalendosi di una dimostrazione rigorosa, ma adottando alcuni espedienti di natura meccanica. Eudosso completò la ricerca, dimostrando gli enunciati attraverso il metodo di esaustione. La scoperta di alcune proprietà geometriche per via informale costituisce la fase preliminare del processo scientifico e quindi una parte del merito nella costruzione della dimostrazione va attribuita tanto ad Eudosso quanto a Democrito. Il riferimento da parte di A. alla tradizione permette l’ammissione di metodi meccanici, ai quali viene riconosciuta dignità sul piano teorico. Il trattato intitolato Sulla quadratura della parabola fornisce due differenti procedimenti per calcolare l’area di un segmento parabolico. Il primo rientra nella tipologia del ragionamen-

archita to fisico, esaminato nel Metodo, in quanto si pongono in equilibrio e si valutano alcune aree avvalendosi del principio della leva. Il secondo metodo, al contrario, se da una parte si caratterizza per un approccio matematicamente rigoroso sancito dall’enunciazione di una serie di teoremi, dall’altra si avvale dei risultati meccanicamente raggiunti, che trovano così riscontro e convalida in sede scientifica, in modo da essere inclusi nel patrimonio delle acquisizioni matematiche. A. procede così al calcolo del segmento parabolico, mostrando che esso può essere “esaurito” da una serie di triangoli, fino a giungere alla sua approssimazione mediante un poligono. Il ragionamento è infine completato con il ragionamento di riduzione all’assurdo. Un’originale applicazione del metodo di esaustione è esibita nell’opera Sulle spirali, trattato appositamente dedicato ad illustrare le proprietà della curva descritta da un punto che scorre a velocità uniforme da un estremo all’altro di una retta, che ruoti anch’essa a velocità costante intorno ad un estremo. A. dimostra ad esempio nella proposizione 24 che l’area delimitata dalla prima spira della spirale e dalla retta su cui inizialmente scorreva il punto corrisponde ad 1/3 dell’area del cerchio avente come raggio il segmento compreso tra l’estremo della retta e il punto di intersezione tra la prima spira e la retta. La verifica del teorema è condotta mediante introduzione, al posto dei poligoni, di settori circolari di grandezza progressivamente decrescente al fine di approssimare ciascuna area delimitata dall’arco di spirale e da due raggi vettori. Quantunque l’esaustione effettuata mediante poligoni inscritti e circoscritti sia differente rispetto al procedimento adottato da A. per approssimare l’area della prima spira, la convalida fornita dal ragionamento per assurdo permette di garantire validità ai risultati raggiunti. Note. [1] Vd. Plu. Marc. 17, 5-7. – [2] Vd. Vitr. 8, 5, 3. – [3] Vd. Plu. Marc. 17, 12 ; Liv. 25, 31. – [4] Vd. Cic. Tusc. 5, 5, 64. – [5] Vd. Plu. Marc. 14, 7. – [6] Vd. Diod. Sic. 1, 34 ; 5, 37. – [7] Vd. Ath. 5, 206d-209a ; Plu. Marc. 14, 13. – [8] Vd. Diod. Sic. 1, 34 ; 5, 37. – [9] Vd. Ath. 5, 206d-209a. – [10] Vd. Plb. 8, 5 ; Liv. 24, 34 ; Plu. Marc. 16, 1-2. – [11] Le opere di A. sono edite in Heiberg 1910-1915 ; notizie relative alla compilazione dell’opera e a vicende biografiche di A. in Dijksterhuis 1938 ; Geymonat 2006. – [12] Il  















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testo tradotto è edito in Dold Samplonius-Hermenlink-Schramm 1975. – [13] Vd. Papp. 8, 2, 1026 H. ; 8, 3, 1026 H. – [14] Vd. Her. 2, 1068. – [15] Ulteriori notizie su questi testi in Heiberg 1879, 29-30.  

Bibliografia.Cambiano2006 ; Dijksterhuis 1938 ; Dold Samplonius-Hermenlink-Schramm 1975 ; Dollo 1992 ; Frajese 1974 ; Geymonat 2006 ; Heiberg 1879 ; Heiberg 1910-1915 ; Heiberg-Stamatis 1969-1977 ; Knorr 1985-1986 ; Morelli 2009 ; Mortelli 2000 ; Mügler 1972 ; Netz 2004b ; Netz-Noel 2007 ; Pomey-Tchernia 2005 ; Pomey-Tchernia 2006 ; Rufini 1961 ; Russo 2005 ; Zevi 2005.  

   

































Piero Tarantino Archita. 1. Dati biografici. – Pitagorico, [1] fu capo della lega italica e stratego per ben sette volte, riuscendo a riscuotere sempre successi. [2] Che A. ricoprisse un ruolo di un certo rilievo si evince anche dalla notizia che, venuto in familiarità con Platone, durante il terzo viaggio del filosofo ateniese a Siracusa, riuscì a intercedere presso Dionigi per salvarlo dalla morte. [3] →Giamblico afferma che, durante una sollevazione antipitagorica a Crotone (avvenuta probabilmente prima del 387 a.C., in cui Dionigi assoggettò Crotone e Sibari), tutti i Pitagorici lasciarono l’Italia, eccetto A. La sua fama è confermata anche da più d’una citazione letteraria : Orazio, [4] non senza un accenno ironico, menziona A. ricordando la sua attività di mensore e astronomo, con versi che sembrano alludere all’acribia del suo metodo matematico ; Cicerone[5] lo cita come exemplum di rettitudine morale e fustigatore degli eccessi edonistici. 2. Opere e dottrina. – Dai titoli a lui attribuiti ricostruiamo il suo interesse per l’astronomia (peri; th`~ dekavdo~), [6] per la meccanica[7] per l’acustica [→acustica, 2] e per l’agronomia. [8] Il titolo dell’unica opera di A. pervenutaci in frammenti, varia da fonte a fonte (Armonica, Sulla musica, Sulla matematica) : l’oscillazione è giustificata dalla circostanza che, all’interno dell’opera, alla teoria armonica fanno da complemento necessario considerazioni sulla teoria dei numeri. Lo studioso, infatti, avrebbe dato il suo massimo apporto nel campo della speculazione musicale : sarebbe riuscito ad arrivare per primo alla definizione geometrica delle due medie proporzionali tra due rette date. Pare, inoltre, che A. per primo abbia posto mano ad una suddivisione ragionata delle discipline matematiche, individuandole nel numero di quattro :  





















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astronomia, geometria, aritmetica e musica[9] ; queste discipline sarebbero considerate ‘sorelle’ da A., in quanto partecipi della stessa somiglianza che interessa le due originarie forme dell’essere, cioè posovn o plh`qo~ (quantità dal punto di vista numerico) e phlivkon o mevgeqo~ (quantità dal punto di vista geometrico, estensione nello spazio). [10] Questa formulazione quadripartita è destinata ad avere grande fortuna, resistendo anche al tentativo platonico di integrazione della stereometria[11] : attraverso la metafora nicomachea delle tevssare~ mevqodoi, [12] infatti, la ripartizione architea giungerà fino a Boezio, [13] il quale ne sarà suggestionato e conierà l’utilizzo del fortunatissimo termine quadrivium in questa accezione.  









Note. [1] Fonti su A. e frammenti della sua opera in Diels-Kranz 1951-1952, i (47), 421-439 ; Timpanaro Cardini 1958-1964, ii, 28-73. – [2] Vd. Diog. Laert. 8, 79. – [3] Vd. Diog. Laert. 8, 79 ; Pl. Ep. 7, 338c. – [4] Vd. Hor. carm. 1, 28, 1-6. – [5] Vd. Cic. Cato 39. – [6] Vd. Theo Smy. 106, 7 H. – [7] Vd. Vitr. 1, 1, 17 ; Capparelli 1988 2, 639. – [8] Vd. Vitr. 7, 1, 14 ; Varr. r.r. 1, 1, 8. – [9] Vd. Iambl. In Nic. 1, 14-15. – [10] Vd. Iambl. In Nic. 1, 14-15. – [11] Vd. Pl. R. 7, 528 a-c. – [12] Vd. Nicom. Ar. 1, 4, 1. – [13] Vd. Boeth. arithm. 1, 1, 9-10 ; 28-30.  









Livia Radici 3. La matematica. – Gli interessi scientifici di A. spaziavano in tutti i settori della matematica antica. In particolare egli fu un precursore nel campo della geometria solida. Una ricostruzione completa ed esaustiva dell’opera di A. è ostacolata dalla scarsità delle notizie e dei frammenti pervenuti, i quali se da una parte permettono di delineare un quadro generico delle ricerche condotte dallo scienziato, dall’altra rendono difficile ogni tentativo di approfondire e precisare l’ampiezza dei risultati raggiunti e conseguentemente di valutarne l’impatto sui suoi successori. →Proclo attribuisce ad A., insieme a Leodamante di Taso e a →Teeteto di Atene, il merito di aver accresciuto il numero dei teoremi e di averli organizzati con maggiore rigore scientifico (Procl. in Eucl. prol. 2, 66, 14 = 47A6 D.-K.). Si può pertanto supporre che l’attività di A. in campo matematico fosse intensa e significativa sia per quanto riguarda i contenuti sia per quanto attiene alla forma espositiva. Le tracce capaci di documentare il fervore geometrico di A. si riducono purtroppo ad un resoconto compilato da →Eutocio

sulla scorta del racconto di →Eudemo. Il testo nella sua singolarità lascia però intuire la complessità e la genialità del lavoro scientifico di A. Si tratta infatti di una sofisticata costruzione tridimensionale, con la quale si esibisce l’intersezione in un punto di tre superfici di rivoluzione, un cono retto, un cilindro e un toro, allo scopo di reperire due medie proporzionali in proporzione continua tra due linee rette. A. avanzava così una soluzione al problema della duplicazione del cubo, noto anche come ‘problema di Delo’ a ragione della sua origine leggendaria, consistente nel compito di raddoppiare l’altare dotato di forma cubica, posto nell’isola di Delo. A. si avvaleva dell’intuizione di →Ippocrate di Chio, il quale aveva precedentemente mostrato che il problema della duplicazione del cubo poteva essere ridotto alla ricerca di due medie proporzionali da inserire tra due segmenti dati. La duplicazione del cubo era uno dei più famosi problemi della matematica greca classica e non a caso numerose soluzioni furono proposte da eminenti matematici dell’antichità. Tra di esse la proposta di A. si segnala soprattutto per l’adozione di un approccio che si avvale di figure tridimensionali e che risulta originale rispetto all’impostazione geometrica tradizionale fondata solo su un piano (Eutoc. in Archim. sphaer. et cyl. iii² 84 = 47A14 D.-K. ; Eratosth. Epigramma di dedica sul problema di Delo per il raddoppiamento del cubo [Eutoc. in Archim. sphaer. et cyl. iii² 112, 19] = 47A15 D.-K.). La geometria solida rappresentava all’epoca di Platone un’area di ricerca ancora poco esplorata. Le incursioni condotte in questo settore da parte di A. e di Teeteto, il quale definì i cinque solidi regolari, si pongono pertanto come premesse necessarie per il successivo lavoro di sistemazione condotto da Euclide. Il pressante invito di →Platone, contenuto nel libro vii della Repubblica (528b-d), a studiare non solo la geometria piana, ma anche la geometria solida è probabilmente un riflesso dell’influenza che il lavoro di A. ebbe sul filosofo ateniese. Ancor di più la concezione della matematica illustrata da Platone sempre nello stesso libro della Repubblica risente profondamente dell’impostazione adottata dall’intellettuale tarantino. La partizione del corso di studi di matematica abbozzato per i futuri filosofi è una fedele ed esplicita ripresa a fini didattici del quadrivio pitagorico, comprendente aritmetica, geometria, astronomia e musica, discipline  

archita definite da A. come ‘scienze sorelle’ a motivo della stretta connessione reciproca (Porph. in Ptolem. harm. 56 = 47B1 D.-K.). Platone fu introdotto da A. alle matematiche ed apprese alcune nozioni che trovarono immediata esposizione nel Menone, dialogo verosimilmente composto subito dopo il primo viaggio a Siracusa. È possibile inoltre ravvisare una stretta somiglianza tra A. e il personaggio Timeo di Locri, protagonista del dialogo omonimo, uomo di stato e di scienza, cui Platone delega l’esposizione della sua dottrina cosmologica. Al di là di alcune evidenti affinità restano tuttavia insuperabili punti di discontinuità che mettono in dubbio l’identificazione e lasciano al contrario supporre una ripresa da parte di Platone del modello cosmologico delineato da →Filolao. Un’idea abbastanza precisa della forma adottata da A. nell’esposizione dei contenuti matematici può essere ricavata dalla testimonianza di Boezio (inst. mus. 3, 11 = 47A19 D.-K.). Questi ha preservato il teorema, svolto da A., sull’indivisibilità in due parti uguali di un rapporto espresso nella forma n + 1 : n, denominato rapporto epimorio (ejpimovrion diavsthma) o superparticularis proportio. La dimostrazione è condotta secondo un metodo che richiama fedelmente il procedimento adottato da →Euclide nella verifica della proposizione 3 della Sectio Canonis, attinente alla medesima proprietà. L’analogia tra le due prove sembrerebbe suggerire l’esistenza già all’epoca di A. di una matura impostazione assiomatica e deduttiva della prova matematica, probabilmente concretizzatasi in un apparato di ‘elementi di aritmetica’, cui gli studiosi attingevano di volta in volta per la verifica di nuovi teoremi. Lo svolgimento della dimostrazione di A. presuppone infatti la conoscenza di proposizioni, logicamente concatenate, relative ai rapporti tra due numeri e tra i rispettivi multipli e sottomultipli, proposizioni che sarebbero successivamente confluite in gran parte nel libro vii degli Elementi. Euclide si sarebbe pertanto ampiamente avvalso del procedimento esibito da A., giudicandolo coerente con l’approccio organizzativo generale adottato per la stesura della Sectio Canonis. È probabile che la crescita della matematica da una parte e la necessità di generalizzazioni più ampie dall’altra abbiano sollecitato una organizzazione sistematica dei contenuti acquisiti, la quale però fu conseguita non in modo immediato, ma attraverso una  

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progressiva riscrittura dei risultati raggiunti ed una continua assimilazione dei teoremi scoperti dai matematici che operarono tra il v e il iv secolo. Si può allora ipotizzare che A. cominciasse a disporre di uno schema ben definito di ragionamento matematico e di dimostrazione rigorosa, sebbene a questa acquisizione teorica non corrispondesse una compiuta e scaltrita applicazione del metodo deduttivo. Non a caso la dimostrazione dell’indivisibilità in parti proporzionali del rapporto epimorio è un esempio isolato di rigore deduttivo, poiché mancano ulteriori tracce che depongano a favore di un più ampio livello di assiomatizzazione. L’articolazione e l’attuazione del procedimento deduttivo risultano pertanto conquiste raggiunte da Euclide, il quale certo si avvalse sia delle intuizioni metodologiche sia degli avanzamenti disciplinari dei suoi predecessori, A. compreso. 4. La musicologia matematica. – A prescindere dal modello espositivo adottato, il tentativo di interpretare i fenomeni musicali attraverso la definizione dei rapporti numerici e delle rispettive proprietà contraddistingue l’approccio prevalentemente teorico e spiccatamente aritmetico di A. in campo musicale. Un chiaro esempio è fornito dalla definizione dei tre generi musicali, denominati enarmonico, cromatico e diatonico, formulata sulla base di intervalli rigorosamente commensurabili, cioè espressi da numeri razionali (Ptol. harm. 1, 13 p. 30,9 [cfr. Boeth. inst. mus. 5, 17 sgg.] = 47A16 D.-K.). L’interesse verso le manifestazioni musicali empiriche era così subordinato alla ricerca della proporzione matematica che struttura la melodia. A. giunse in campo musicale a ragguardevoli conclusioni, alcune delle quali furono recepite nella Sectio Canonis di Euclide, nell’Enchiridion di →Nicomaco e nell’Harmonica di →Tolomeo, opere tutte collocate nel solco della tradizione musicale pitagorica, di cui Filolao fu l’iniziatore. Come conferma il caso della musica, particolarmente significativa ed originale risulta la riflessione di A. nei campi delle scienze matematiche applicate. Diogene Laerzio (8, 79 sgg. = 74A1 D.-K.) gli attribuisce la stesura del primo trattato sistematico di meccanica basata su principi matematici. Si tramanda inoltre che A. costruì due congegni meccanici, una colomba volante fatta di legno e un particolare sonaglio simile ad una raganella, mettendo in pratica le

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competenze raggiunte nello studio della fisica teorica (Arist. Pol. 8, 6, 1340b 26 = 47A10 D.K. ; Gell. 10, 12, 8 = 47A10a D.-K.). Egli elaborò inoltre una teoria ottica che spiegava la visione mediante raggi luminosi proiettati dagli occhi (Apul. apol. 15 = 47A25 D.-K.). A. si interessò di cosmologia e prese parte alla dibattuta questione sui limiti dell’universo. Con un singolare argomento, tramandato da →Eudemo, provò che l’universo è infinito. A. ipotizzava la possibilità di oltrepassare il limite rappresentato dal cielo delle stelle fisse, l’ultimo dei cieli, semplicemente protendendo ulteriormente al di là di esso il proprio braccio o qualsiasi altro oggetto. L’esistenza di un corpo o uno spazio interminato era poi confermata dalla successiva e valida reiterazione dell’argomento per un numero imprecisato di volte (Eudem. phys. fr. 30 [Simplic. Phys. 467, 26] = 47A24 D.-K.). Le differenti trattazioni afferenti alle molteplici discipline empiriche appaiono congiunte da una generale visione razionale della realtà, la quale si concretizza nella profonda fiducia in una struttura intimamente matematica della natura. In virtù di questa solida convinzione A. si spinse ad esempio a rintracciare nella proporzione aritmetica la ragione che determina la forma arrotondata delle parti di piante ed animali non destinate a svolgere una funzione organica ([Arist.] Pr. 16, 9, 915a25 = 47A23a D.-K.). A. contribuì anche a porre i fondamenti della fisica acustica mediante la formulazione di una teoria del suono, chiaramente delineata nel frammento 1, la più ampia citazione tratta dalla sua opera. Punto centrale della dottrina è la considerazione del suono come conseguenza dell’urto (plhghv) nell’aria tra due corpi in movimento. Impatti più forti tra corpi che si muovono a velocità elevata producono suoni acuti, impatti più deboli tra corpi che si muovono lentamente producono suoni bassi. L’orecchio umano tuttavia non percepisce gran parte dei suoni, poiché essi o sono troppo deboli o si trovano a elevata distanza o sono eccessivamente intensi. A., come egli stesso ammette, riprese nella elaborazione della teoria alcune valide intuizioni di altri Pitagorici e contribuì a darne una presentazione più esaustiva e convincente, corredandola di esempi e spiegazioni di proprio pugno (Porph. in Ptolem. harm. p. 56 = 47B1 D.-K.). Alcune imprecisioni e approssimazioni nella definizione degli elementi caratterizzanti il suono denotano  

nel complesso lo stadio piuttosto embrionale della teoria dell’urto, evidente soprattutto in confronto al livello di avanzamento raggiunto successivamente. Ad A. va comunque riconosciuto il merito di aver illustrato in termini puramente quantitativi l’origine del suono e di aver individuato una stretta correlazione causale tra tonalità e urto dei corpi. Bibliografia. Bowen 1982 ; Burkert 1962 ; Cambiano 2006 ; Capparelli 1988 ; Ciancaglini 1998 ; Diels-Kranz 1951-1952 ; Heath 1921 ; Huffman 2005 ; Kahn 2001 ; Timpanaro Cardini 1962.  

















Piero Tarantino Architetti. I nomi. L’elenco di a. greci e latini sottostante, desunto dalle fonti letterarie, è reso in ordine alfabetico. Apollodoro di Damasco. È l’unica figura emergente dal generale anonimato in cui versano tutti gli a. dell’antichità, grazie al profilo tratteggiato da Dione Cassio. Da questa fonte è possibile apprendere che A. fu al fianco dell’imperatore Traiano nelle campagne daciche con l’incarico ufficiale di a. militare.[1] Pare che la sua figura sia stata scolpita sulla Colonna Traiana [→edilizia commemorativa romana], alla destra dell’imperatore, nell’atto di compiere un sacrificio insieme ad altri due personaggi presso il ponte sul fiume Danubio. Fonti diverse attribuiscono il suo nome a ciascuno dei tre personaggi. Lo stesso ponte sul Danubio, lungo più di un chilometro e di tecnica estremamente innovativa, sarebbe stato una sua creazione, costruito tra la prima e la seconda campagna dacica (101/2-105/7). [2] Ne restano tracce nell’odierna Debrecen in Ungheria. A. non si occupò tuttavia soltanto di costruzioni militari. Un odeion sul monte Giordano di Roma, infatti, probabile rifacimento di un esemplare dell’età di Domiziano, fu verosimilmente realizzato su suo progetto ; [3] opera di A. fu anche il circus Hadriani della lunghezza di due stadi, realizzato a Roma, a nord della mola adriana, per le naumachie ; sue sono ancora una domus aurea e le terme costruite sull’Esquilino sopra le terme di Tito. [4] Tali lavori, ricordati dalle fonti per la loro magnificenza, attestano che A. si cimentò nella Roma della prima metà del ii sec. d.C. anche in importanti costruzioni civili, nelle quali si fusero esperienze ellenistiche e gusto propriamente romano. Nell’edificio termale sull’Esquilino,  



architetti in particolare, vennero enfatizzati per la prima volta in Roma gli ambienti annessi alle terme che fungevano da palestre, e ciò valse loro il nome di gymnasium.[5] Il suo capolavoro rimane però il Foro Traiano (107-113), nel quale i problemi urbanistici furono risolti mirabilmente, al punto che quest’opera costituì nell’antichità una delle meraviglie dell’Urbe. [6] Dell’arco trionfale di ingresso si conservano immagini su monete del 112: in esse compare, al centro del foro, la statua equestre dell’imperatore, e tutti gli edifici sono concepiti per esaltarne la figura, secondo suggestioni architettoniche più orientali che romane. Tra le altre costruzioni del Foro realizzato da A. è utile ricordare la Basilica Ulpia [→edilizia pubblica, 2,1] con absidi sui lati corti, le due biblioteche greca e latina,[7] il cortile sul quale sorgeva la colonna traiana e, in un secondo cortile, il tempio del divo Traiano, portato a termine da Adriano. Al di là delle mura settentrionali si apriva lo spazio commerciale, dove erano allocate oltre un centinaio di tabernae, a forma di grande emiciclo. A. fu probabilmente anche il progettista del porto [→infrastrutture e servizi, 5] di Ostia, poiché i motivi architettonici ellenisticosiriani in esso presenti e rilevanti riconducono allo stile di questo eclettico artista ; così come potrebbe essere l’autore del porto di Centocelle, unito alla soprastante villa di Traiano e realizzato con un’elegante disposizione degli ambienti ad emiciclo. L’eleganza particolare delle forme induce ad attribuire a lui anche gli archi di Benevento e di Ancona. In particolare, nell’arco di Benevento, l’uso sapiente dei bassorilievi induce a pensare che A. sia stato anche un sapiente scultore, la cui mano è apprezzabile nelle sculture che ornano il foro di Traiano e che segnano un cambiamento decisivo nel gusto decorativo e architettonico romano.[8] Il grande e famoso a. vide la sua fama eclissarsi dopo la morte di Traiano. Fu infatti esiliato e successivamente messo a morte dall’imperatore Adriano poiché osò criticare i suoi progetti architettonici, relativi, pare, al tempio di Venere a Roma.[9] Allo stesso Adriano A. avrebbe proposto la realizzazione di un colosso raffigurante Selene, che non fu mai eseguito. [10] La costruzione del tempio di Venere (121 d.C.) è attestata da Ateneo, [11] e costituisce il terminus ante quem per il suo esilio. Lo conferma la notizia riportata da Dione Cassio secondo la quale A. fece pervenire a Roma il suo progetto  

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del tempio di Venere, ma inutilmente, poiché la costruzione era già stata iniziata.[12] Dei suoi scritti rimangono un trattato sulla Poliorcetica, i cui disegni di macchine belliche fanno parte di un codice di età bizantina (ms. Mynas). Un altro codice rivela che tali disegni furono inviati, insieme ad un gruppo di maestranze che dovevano realizzarli, proprio all’imperatore Adriano, poiché nei testi si trovano chiari riferimenti alla campagna sul Danubio del 117-118.[13] Archimede. Architetto militare greco vissuto nel iv sec. a.C., rinomato nell’antichità per le sue macchine belliche. [14] Boupalos di Chio. Architetto e scultore, operò nel vi sec. a.C. in collaborazione con il fratello Athenis. [15] Callicrate. Vissuto alla metà del v sec. a.C. ad Atene, collaborò con Ictino e Fidia alla realizzazione del Partenone.[16] Chersifrone di Cnosso. Attivo ad Efeso nella prima metà del vi sec. a.C., vi costruì insieme al figlio Metagenes il tempio di Artemide, che però non riuscì a terminare. [17] Ne facevano parte le columnae caelatae realizzate per incarico del re Creso su basi decorate da rilievi. [18] Il tempio fu distrutto da un incendio nel 356. Cocceius Auctus, Lucius. Liberto di L. Cocceius e dell’architetto C. Postmius Pollio, era di origine greca, naturalizzato romano. È autore, poiché ne è stata rinvenuta la ‘firma’ sulle mura, sia di un tempio di Augusto a Pozzuoli, [19] sia della Grotta della Pace di Cuma. [20] Quest’ultima gli fu commissionata da Agrippa, per mettere in comunicazione il lago d’Averno con il mare. [21] A lui è attribuita anche la Grotta Vecchia tra Napoli e Pozzuoli.[22] Cossutius. A. romano vissuto nella seconda metà del ii sec. a.C., fu attivo ad Antiochia e Atene. Progettò infatti, per incarico di Antioco iv di Siria, la ricostruzione dell’Olympieion di Atene, di cui rimangono 15 colonne con diametro inferiore a 2 m e di altezza pari a 17,25 m. [23] Nelle vicinanze del tempio si trovava una statua dedicata a lui, di cui rimane la base. [24] Fu probabilmente anche il progettista di uno dei primi acquedotti di Antiochia, realizzato al tempo di Antioco iii il Grande. Diphilos. Esplicò la sua attività alla metà del i sec. a.C. a Minturno e ad Arpino, nei dintorni di Roma, lavorando per la famiglia di Cicerone. [25] Erginos. Mitico architetto, padre di Agamedes e Trophonios, costruttori del quarto tempio di Apollo a Delfi. [26]

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Eupalinos di Megara. Vissuto in Grecia nella seconda metà del vi sec., costruì l’acquedotto di Samo, che fu utilizzato per tutta l’antichità. [27] Esso consentiva di portare l’acqua alla città attraverso un condotto, lungo circa 1 km e largo circa 2 m, che attraversava la montagna di Kastro. La sua tecnica fu imitata al tempo di Pisistrato anche per la costruzione degli acquedotti di Siracusa e di Atene. Hyponomos. Probabile architetto greco (o sua personificazione leggendaria), il quale avrebbe lavorato alla fondazione di Alessandria. [28] Ictino. Originario probabilmente dell’Elide e vissuto ad Atene nella seconda metà del v secolo, partecipò alla ristrutturazione dell’Acropoli e in particolare, insieme a Callicrate, alla costruzione del Partenone, decorato dalle sculture di Fidia. [29] In questo che diventerà il più rinomato dei templi ateniesi, la cui costruzione fu iniziata nel 447, I. interpretò in modo personale i tradizionali schemi dell’ordine dorico. La perfezione geometrica dell’edificio, che divenne l’emblema della città nel momento del suo massimo splendore, fu ottenuta grazie ad una serie di accorgimenti e correzioni ottiche, nonché di compromessi costruttivi, che fondevano architetture e sculture in un’immagine complessiva di armonia ed eleganza. I. era allievo di Libon, il quale aveva a sua volta realizzato il tempio di Zeus ad Olimpia. Le influenze del maestro sicuramente giocarono un ruolo importante quando iniziò, già intorno al 450, una proficua collaborazione con Fidia per modificare la disposizione del tempio di Zeus I. realizzò, probabilmente, anche il Telesterion di Eleusi, per accogliere gli iniziati al culto di Demetra e Persefone, e progettò il tempio di Apollo Epikourios a Bassae di Figalia. [30] Quest’ultimo tempio è ritenuto anteriore allo stesso Partenone, collocabile intorno al 450 a.C., cioè all’epoca dell’inizio della sua collaborazione con Fidia. [31] Grazie al sapiente utilizzo degli spazi interni, I. fu anche incaricato di realizzare sul lato meridionale dell’Acropoli l’Odeion di Pericle. Menesthes. A. greco di epoca ellenistica, autore di un tempio di Apollo, realizzato forse in Magnesia o in Alabanda di Caria. [32] Mucius, Gaius. Definito da Vitruvio magna scientia confisus, operò alla fine del ii sec. a.C. a Roma, dove progettò il tempio lapideo di Honos e Virtus, [33] costruito materialmente con il bottino delle vittorie di Mario sui Cimbri e Teutoni. L’edificio, realizzato con mirabile simmetria di forme e perfetta armonia tra le

diverse parti architettoniche, era ubicato ai piedi del Campidoglio ed accoglieva spesso le riunioni del Senato. [34] Philon. A. di Eleusi, visse in Attica nella seconda metà del iv sec. a.C. Fu l’autore dell’Arsenale del Pireo e del portico del Telesterion di Eleusi. [35] Vitruvio gli attribuisce un trattato de medium sacrarum symmetriis et de armamentario. [36] Pteras. Mitico a. greco, probabile autore del secondo tempio di Apollo a Delfi. [37] Pytheos. Attivo intorno alla metà del iv sec. a.C. in Asia Minore, collaborò con Satyros di Paro alla costruzione del Mausoleo di Alicarnasso. [38] Fu anche l’a. progettista del tempio di Atena Poliade di Priene, dedicato ad Alessandro Magno nel 334 a.C.[39]. È ricordato anche per aver redatto due trattati sulle opere architettoniche da lui progettate ed il suo nome si associa alla realizzazione della quadriga sulla sommità del Mausoleo. [40] Satyros. A. e scultore, nativo di Paros, visse alla metà del iv sec. a.C. Realizzò insieme a Pytheos il Mausoleo di Alicarnasso, di cui scrisse in un trattato.[41] Sostratos. Pienamente inserito nella temperie culturale ellenistica, di famiglia agiata, visse e operò nel iii sec. a.C. a Cnido, sua città natale, dove si dedicò all’architettura per pura passione, investendo anche i propri capitali per la realizzazione di magnificenti opere architettoniche. Ne sono esempi i giardini pensili apprezzati dai contemporanei per le forme ardite e grandiose. Fu anche l’ideatore del Faro di Alessandria [→edilizia pubblica 1.1.5], considerato dai contemporanei una delle sette meraviglie del mondo. Alla corte egiziana di Tolomeo Filadelfo egli seppe distinguersi non soltanto come a., ma anche come consigliere e ambasciatore del sovrano.[42] Spintharos. Originario di Corinto, fu attivo nel iv sec. a.C. Fu probabilmente il progettista del più recente tempio di Apollo a Delfi, che fu iniziato nel 377 a.C., ma di cui, per il protrarsi dei lavori a causa delle contingenze belliche, non arrivò a vedere il completamento. [43] Tympanis. A. greco vissuto nel iv sec. a.C., sarebbe il progettista della ‘pira’ funebre di Dionisio I di Siracusa, intendendo con questo termine, non solo il rogo nel quale bruciarono le sue spoglie, bensì un vero e proprio monumento funerario. [44] Vitruvius Cerdo L. A. romano vissuto in età flavia e ricordato come liberto di Vitruvio Pollione. Fu autore, alla metà del i sec. d.C.,

architetto dell’arco dei Gavii a Verona, sul quale pose la sua ‘firma’. In esso si fondono suggestioni ellenistiche e romane. [45] Xenodoros. Originario della Grecia settentrionale, operò a Delfi nel iv sec. a.C., lavorando alla ricostruzione del tempio di Apollo, distrutto nel 373. Di esso rimane il basamento che vi attribuisce una forma esastilo-periptera con un adyton e 15 colonne. [46] Xenokles. A. greco della seconda metà del v sec. a.C., è ricordato da Plutarco come continuatore del Telesterion di Eleusi, progettato da Ictino su incarico di Pericle, insieme agli architetti Koroibos e Metagenes. [47] Note. [1] D.C., 69, 42, 2. – [2] D.C., 68, 13, 1. – [3] D.C., 69, 4, 1. – [4] D.C., 68, 16, 2. – [5] D.C., 69, 4, 1. – [6] Bianchi Bandinelli 1958. – [7] D.C., 68, 16, 3. – [8] A meno di ipotizzare uno scultore omonimo vissuto nello stesso periodo e negli stessi luoghi; vd. Bianchi Bandinelli 1958. – [9] D.C., 69, 4, 1-6. – [10] Hist. Aug. Hadr., 19, 13. – [11] Ath. 8, 361f. – [12] D.C., 69, 4, 3-6. – [13] Bianchi Bandinelli 1958. – [14] Auson. Mos. 303-304. – [15] Paus., 4, 30, 6 ; 9, 35, 6 ; Plin. nat. 36, 11. – [16] Plut. Per. 13, 7. – [17] Plin. nat. 36, 95-97 ; 7, 125. – [18] Plin. nat. 36, 96. – [19] cil, x 1614. – [20] cil, x 3707. – [21] Str. 5, 4, 5. – [22] Str. 5, 4, 5. – [23] Vitr. 7 praef., 15-17. – [24] Giuliano 1959. – [25] Cic. ad Q. fr. 3, 1, 1-2. – [26] Paus. 9, 37, 4-5. – [27] Hdt. 3, 60. Cfr. Mansuelli 1960. – [28] Ps.- Callisth. 1, 30, 20 ; 31, 4. – [29] Plu. Per. 13, 7 ; Str. 9, 1, 12 ; 9, 1, 16. – [30] Paus. 8, 41, 9. – [31] Cfr. Becatti 1961. – [32] Vitr. 3, 2, 6-7 ; cfr. Pesce 1961. – [33] Vitr. 3, 2, 5 ; 7, praef. 17. – [34] Cic. Sest. 116 ; Planc. 78 ; div. 1, 59. – [35] Guerrini 1965. – [36] Vitr. 7, praef. 12. – [37] Paus. 10, 5, 10. – [38] Vitr. 7, praef. 12. – [39] Vitr. 1, 1, 12. – [40] Plin. nat. 36, 31. – [41] Vitr. 7, praef. 13. – [42] EAA vii 1966, 416. – [43] Paus. 10, 5, 13. – [44] Sul rogo funebre stabilito da Dionisio ii per il padre, cfr. Plu. Pel. 34, 2. – [45] cil 5, 3402 ; 5, 3464. – [46] Moreno 1966. – [47] Plu. Per. 13, 7. Altri nomi di architetti possono desumersi dalle iscrizioni funerarie riportate da Calabi Limentani 1958, 576.  





















Bibliografia. Becatti 1961 ; Bianchi Bandinelli 1950 ; Bianchi Bandinelli 1958 ; Calabi Limentani 1958 ; Dinsmoore 1932-1933 ; Dinsmoore 1975 ; Drerup 1954 ; Ducati 1920 ; EAA vii 1966, 416 ; Fabricius 1894 ; Fabricius-Stein 1900 ; Giuliano 1959; Gros 1893 ; Guerrini 1965 ; Mansuelli 1960 ; Moreno 1966 ; Pesce 1961 ; Portoghesi 1968-1969 ; Robert 1897 ; Romano 2002 ; Toynbee 1951 ; Traina 1994.  







































Shara Pirrotti Architetto [ajrcitevctwn, architectus, arcitectus o harcitectus]. Generalità. – Con il termine ‘archi-

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tetto’, attestato per la prima volta in Erodoto (3,60; 4,87) per il mondo greco e in Plauto (Truc. 3) per il mondo latino, si designa nell’antichità un costruttore professionista, il quale esplica diversi compiti, oggi svolti da altre figure professionali (ingegneri militari, ingegneri civili, ingegneri idraulici, ingegneri meccanici, urbanisti, matematici, fisici, etc.). La professione di a. presenta nelle diverse civiltà peculiarità sue proprie. 1. Egitto e Oriente. – Nell’Egitto dei faraoni, l’a. è un importante funzionario statale, deputato alla progettazione di edifici pubblici. Il suo ruolo e la sua dignità sono di molto superiori a quelli di altre maestranze specializzate, come pittori e scultori, i quali sono invece considerati semplici operai e artigiani. Nell’Antico Regno l’ambito titolo di ‘capo di tutte le fabbriche del re’ è infatti conferito allo stesso visir, il quale esercita poteri amministrativi e giudiziari. Più tardi i titoli di visir e capo delle fabbriche si differenziano, ma rimangono ugualmente cariche di altissimo rango riservate alla ristretta élite di devoti al faraone. L’a., sciolto da incombenze amministrative e giudiziarie, diventa allora a tutti gli effetti il funzionario pubblico sovrintendente ai lavori delle piramidi e delle fabbriche reali, nonché l’urbanista al quale il faraone affida la costruzione di città. L’a. al servizio di privati, è invece, più propriamente, un capomastro e un semplice artigiano. Gli a. del mondo orientale, invece, possiedono una sacralità sacerdotale, specie nelle società sumerica e mesopotamica, nella quale essi sono esponenti della casta colta detentrice del sapere esclusivo, gli unici in grado di effettuare complessi calcoli matematici ed astronomici. 2. Grecia classica. – Nella Grecia classica, l’a. è il capocantiere e l’imprenditore, l’ideatore della forma e il calcolatore delle superfici : cioè il libero professionista, non più alle dipendenze dell’autorità centrale e non più vestito di sacralità, incline alla sua professione non per discendenza o genealogia, bensì per disposizione naturale. La sua équipe è costituita da una ristretta manodopera specializzata. La sua stessa professione diventa con il passare del tempo sempre più tecnica, poiché si fonda su conoscenze specifiche nell’ambito della scelta delle proporzioni, dei materiali e di quant’altro occorra per realizzare un prodotto edilizio che sia il migliore possibile sul piano della forma e della funzionalità. Il suo lavoro procede in stretta collaborazione con altri professionisti, come scalpellini o scultori. Per questo motivo, spesso il titolo di  

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architetto

a. è riportato accanto al nome di uno scultore, come per es. Fidia, o un pittore, come Boupalos, o di un filosofo (Ippodamo da Mileto), etc. Come sostiene Pytheus, autore del tempio di Atena a Priene, l’a. deve avere una conoscenza di base talmente vasta da superare in ciascuna disciplina gli stessi specialisti del settore. 3. Età ellenistica. – L’a. di età ellenistica sviluppa competenze sempre più vaste, che spaziano dal disegno alla geometria, dalla filosofia alla musica, dalla medicina all’astronomia, dalla giurisprudenza alla filosofia. 4. Roma. – La medesima professionalità caratterizza anche l’a. romano, il quale appartiene ai ceti inferiori della società (è spesso uno schiavo), talvolta è straniero o provinciale romanizzato. La disciplina da lui praticata non rientra quindi all’interno delle arti ‘liberali’, cioè di quelle proprie degli uomini liberi, ma è annoverata tra i lavori considerati servili da Quintiliano (inst. 2, 21, 8) e implicitamente spregiati da Seneca (epist. 90, 9), in posizione intermedia tra l’agricoltura e altri mestieri, come puntualizza Cicerone (off. 1, 150 sgg.). Pur riconoscendo all’a. la capacità di risolvere problemi logistici, strutturali e propriamente architettonici, tuttavia, fino al i secolo a.C., la considerazione sociale non andava al di là di quella di un semplice artigiano, sia pure con mansioni superiori al semplice tevktwn. Il fatto, poi, che i termini opposti ad ajrcitevktwn siano ceirotevcnh~ (Arist. Metaph. 981a 30) ed ejrgatikov~, ‘operaio’ (Pl. Plt. 259e) conferma il prestigio dell’a. rispetto alle manovalanze presenti nel cantiere. Cicerone (off. 1, 151), non potendo considerare l’architettura come arte liberale, soprattutto in virtù del fatto che è retribuita e procura un guadagno, la considera tuttavia tra le professioni honestae, sia perché i professionisti che se ne occupano possiedono vaste conoscenze, sia perché il lavoro che essi svolgono è di pubblica utilità. Per tutto il mondo romano l’a. rimane comunque una figura ambigua e poco determinata, così come rimane poco determinata la differenza tra direzione di un’opera edilizia e sua esecuzione. La categoria degli a., dunque, nella Roma repubblicana e imperiale, indica indifferentemente tanto giovani cives educati alle liberales litterae, che ingenui, liberti, schiavi e semplici artifices, cioè operai incaricati della realizzazione di un’opera edile. Le differenze sostanziali riguardano l’esecuzione delle opere pubbliche che, in età repubblicana, si aggiu-

dicano per appalto o, al più, per imposizione di prestazione d’opera. La locatio operum, cioè l’autorità di conferire l’appalto, e la tuitio, cioè l’ordine di manutenzione per gli edifici e le strutture esistenti, spettano a censori e consoli. I lavori sono materialmente eseguiti da società private dotate di propri a. In età imperiale, come è facile intuire, tutte le disposizioni, comprese quelle in materia edilizia, vengono impartite dall’imperatore, il quale istituisce la magistratura dei curatores operum publicorum, responsabili della manutenzione ordinaria e straordinaria degli edifici esistenti. Per le nuove costruzioni, Augusto generalmente conferisce personalmente gli incarichi, affidando a procuratores, detti anche exactores o redemptores (per lo più cavalieri o liberti) il controllo e la supervisione dei lavori eseguiti nell’Urbe e a ufficiali provinciali quelli compiuti fuori città. Questi ultimi appongono la propria firma sugli edifici preceduta dalla parola curante. Tutte le opere pubbliche di Roma presentano infatti il nome dell’auctor (l’imperatore o il funzionario delegato promotori dell’opera) e il nome del finanziatore. Il nome degli a., invece, compare di rado nelle iscrizioni urbane poiché, d’altronde, il loro ruolo è confinato alle mere competenze tecniche. Più spazio, creatività e autorità ha invece l’a. che opera nelle aree extraurbane, soprattutto in Italia meridionale e Spagna. Parrebbero dimostrarlo le numerose iscrizioni su opere pubbliche rinvenute, per esempio, a Pompei, Ercolano, Pozzuoli. A prescindere o meno dalla presenza del nome dell’a. in iscrizioni murarie, fino al tardo antico l’a. rimase una figura ambigua, destinata a svolgere una molteplicità di ruoli : progettazione di edifici pubblici e privati, strade, monumenti, macchine da guerra e da trasporto (scriba armamentarius), infrastrutture come ponti, mura e terme, macchinari per misurare il tempo ; appalto di opere pubbliche ; coordinamento e supervisione dei lavori realizzati da un‘efficiente organizzazione di tecnici ; consulenza nella stipula dei contratti ai dirigenti dell’amministrazione centrale e ai magistrati (apparitor) ; pianificazione urbanistica ; imprenditoria (redemptor) ; recluta nelle formazioni militari più diverse (legione, flotta, coorte pretoria, cavalleria) come tecnico addetto alla sistemazione degli accampamenti, delle fortificazioni, degli arsenali (immunis), ma anche come operaio per la costruzione di opere civili. Il suo contributo  













architettura rispecchia quella complessità indivisa di saperi, tipica dell’antichità, che in età più recente sarà smembrata dalla specializzazione delle competenze. Per quanto concerne il suo onorario, si apprende dall’editto di Diocleziano che il maestro d’architettura doveva ricevere 100 denari al mese per ciascun discepolo : vale a dire, la metà di un maestro di grammatica e il doppio di un maestro elementare (cil iii, 831). Alessandro Severo, dal canto suo, provvide a che l’insegnamento dell’architettura fosse retribuito dallo Stato (Hist. Aug. Alex. 68, 4). L’a. vero e proprio, invece, non percepisce uno stipendio prefissato, al punto che Vitruvio stesso (10, praef.) depreca la facilità con cui i suoi colleghi riescono a depauperare l’erario. Marziale (5, 56, 11), dal canto suo, accomuna l’a. al praeco, per la facilità con cui entrambi possono accumulare capitali senza pagare le tasse. Colpita dal pregiudizio di essere una professione ‘tecnica’, cioè pratica, l’architettura non ha restituito nessun trattato teorico che ne illustrasse le regole e definisse in modo meno evanescente e ambiguo la figura dell’a. dell’antichità, ad eccezione del De architectura di →Vitruvio, da cui Cezio Faventino trasse nel ii sec. d.C. un’epitome. Vitruvio è stato il primo a. a pretendere che la propria professione perseguisse una dignità e un’autonomia pari a quella di altre artes, e per rivendicarne il diritto si impegnò a trasformare la materia indistinta e frammentaria nella quale fino a quel momento si presentavano le nozioni di architettura (trasmesse per lo più oralmente come qualunque altro mestiere artigiano), in un trattato organico e ordinato che presentasse in modo sistematico, ordinato e completo (in una parola ‘scientifico’), tutti i procedimenti e le tecniche costruttive che sono alla base del lavoro e della formazione di un a. Nella sua opera Vitruvio si propone di tracciare anche una storia della grande tradizione architettonica romana e di creare un linguaggio ‘tecnico’ nuovo, consono alle esigenze della sua professione. Il fatto che nel i sec. si avvertisse l’esigenza di predisporre in forma scritta e sistematica la teoria dell’architettura, al di là delle velleità personali dell’autore, è chiaramente espressione di una mutata temperie culturale, che a Roma nel momento di maggiore splendore, tendeva a rivalutare quelle figure professionali che potessero eternarne il volto, stupire i visitatori, far sentire i suoi abitanti privilegiati. Una città

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che la magnificenza dei suoi monumenti aveva e avrebbe reso per sempre caput mundi. Bibliografia. Dinsmoore 1975 ; Ducati 1920 ; Gros 1983 ; Portoghesi 1968-69 ; Romano 2002, 63-85 ; Toynbee 1951, 11 ; Traina 1994, 64-66.  











Shara Pirrotti



Architettura [ajrcitektoniva, architectura, fabrica]. 1. Monumento o documento ? – « Se la città dei Lacedemoni venisse devastata e rimanessero i templi e le fondamenta degli edifici, credo che dopo il passaggio di molto tempo i posteri avrebbero gravi dubbi sulla potenza dei Lacedemoni in rapporto alla loro fama. Eppure essi governano due quinti del Peloponneso e hanno l’egemonia sull’intera regione nonché su molti alleati esterni : ma, malgrado questo, poiché la città non è costruita in modo compatto né ha templi e edifici sontuosi, ma è costituita da villaggi, secondo l’usanza antica della Grecia, la loro potenza apparirebbe inferiore. Se invece la stessa cosa succedesse agli Ateniesi, dall’aspetto visibile della città si dedurrebbe una potenza doppia di quella reale. Dunque non è ragionevole essere increduli né è il caso di considerare l’aspetto delle città piuttosto che la loro potenza… ». [1] L’affermazione di Tucidide è molto importante perché evidenzia l’esistenza, all’interno del mondo greco, di due diversi modi di intendere l’aspetto ‘materiale’ della città : o come mera espressione urbanistica dei bisogni abitativi primari (‘documento’), o come deliberato progetto di ‘monumentalizzazione’, con la funzione di rappresentare visibilmente attraverso lo splendore, la grandiosità e la bellezza dei monumenti ai visitatori la potenza della città (‘monumento’). Ha inizio infatti proprio nell’Atene del v secolo a.C., all’interno di quel laboratorio di cervelli definito felicemente da Amato1992 [2] “brain trust”, di cui facevano parte, oltre ai filosofi Anassagora di Clazomene e Protagora di Abdera, lo storico Erodoto, il tragediografo Sofocle, l’architetto-urbanista-filosofo →Ippodamo di Mileto, lo scultore ateniese Fidia e, negli ultimi anni, anche il tragediografo Euripide e lo storico Tucidide, il progetto che sostenne la lunga leadership di Pericle. 2. Rappresentazione della città e potere. – L’elaborazione del lucido disegno strategico di costruzione dell’immagine vincente del leader, definito ‘il re senza corona’, fu sostenuta da  











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una intelligente propaganda politica che passò anche attraverso la monumentalizzazione della città : sotto il suo governo, Atene si adornò di monumenti, templi, palazzi, teatri, mentre lo splendore dei marmi, delle sculture, dei fregi, delle statue crisoelefantine rifulgeva sotto il sole da lontano, messaggio di grandezza ed opulenza ai naviganti che si avvicinavano al porto del Pireo. Da allora, l’ideologia della rappresentazione della città elaborata nell’Atene periclea è diventata il modello di una politica di grandeur culturale di cui il potere occidentale non seppe più fare a meno nel corso dei secoli avvenire, affiancando la realizzazione politica con la costruzione di imponenti opere architettoniche cui era affidata una doppia funzione, sia di consolidare il primato agli occhi dei contemporanei sia di proiettarlo nella ‘lunga durata’ della storia grazie alla permanenza dei grandiosi progetti architettonici.  

Note. [1] Th. 1, 10, 2-3. La traduzione è di Donini 1982, 107. – [2] Amato 1992, 15-16. Bibliografia. Amato 1992 ; Donini 1982.  

Paola Radici Colace Architettura funeraria. 1. Generalità. – L’a. funeraria si propone di offrire un’ultima dimora al defunto, in accordo con gli usi e le credenze dell’epoca in cui si sviluppa. Le costruzioni funerarie, destinate al seppellimento dei defunti o al compimento dei riti che vi sono collegati, hanno avuto notevole importanza, tanto da costituire una delle manifestazioni artisticoculturali più cospicue, in cui spesso si integrano forme espressive diverse come l’architettura, la scultura, la pittura. 2. Grecia. – L’a. funeraria greca presenta vari aspetti, a seconda dei tempi, dei luoghi e dei riti della sepoltura (inumazione o cremazione) : si possono, infatti, trovare tombe (tavfo~, sepulcrum) destinate alla sepoltura individuale, più o meno semplici, oppure monumenti funerari (mnh`ma, mnhmei`on, monumentum), costruzioni particolarmente sviluppate e articolate che presentano forme diverse. 2.1. Civiltà cretese e micenea. – L’a. funeraria di questo periodo può essere ricondotta a tre tipi distinti : le tombe a grotta, scavate nel vivo della roccia ; quelle caratterizzate da camera rettangolare in muratura di blocchi e copertura a volta ; quelle a tholos (qovlo~, tholus), costruzione a pianta circolare [1] con copertura  







conica, [2] monumento tipico dell’architettura micenea. La tholos micenea, il cui esempio più famoso è il cosiddetto ‘tesoro di Atreo’ a Micene, [3] si presenta come una vasta camera circolare, racchiusa in un grande tumulo artificiale e delimitata da una muratura a secco di grossi blocchi di pietra perfettamente squadrata e levigata : aggettando progressivamente verso l’interno, i blocchi formano, dopo un iniziale tratto cilindrico, la copertura a pseudocupola che costituisce l’elemento tecnico e spaziale caratterizzante. Alla camera, interamente ipogea, si accede attraverso un corridoio (drovmo~) ; talvolta è presente un secondo ambiente. 2.2. Grecia arcaica e classica. – Nella Grecia continentale l’a. funeraria non ebbe manifestazioni originali ; molto ridotto appare il carattere monumentale delle tombe che tendono ad essere concentrate in necropoli collocate all’esterno delle aree abitate dai vivi. Il termine necropoli (nekrovpoli~), composto di nekrov~ «morto» e povli~ «città», designa appunto «la città dei morti», divisa e separata, ma quasi un ‘doppio’ della ‘città dei vivi’. Si trattava di un agglomerato di tombe disposte per lo più disordinatamente, ma talvolta integrate in un complesso di tipo urbanistico, con strade e strutture monumentali. In origine il termine nekrovpoli~ veniva adoperato in Grecia per indicare propriamente i sepolcri sotterranei di Alessandria d’Egitto, [4] in seguito è passato a designare un sistema complesso di sepolture appartenenti al periodo precristiano (Portoghesi 1968-1969, iv, 183). Degna di rilievo è la vasta necropoli risalente al periodo miceneo rinvenuta presso l’acropoli di Micene, nella quale la distribuzione delle tombe risulta influenzata dalla configurazione del suolo roccioso. In età storica alle dimore dei morti vengono destinate aree apposite, poste in stretta connessione con l’abitato, ma da esso distinte. Ne è un esempio la necropoli che sorge presso il Dipylon di Atene, la cui origine si colloca nel xii sec. a.C., importante dal punto di vista storico poiché conserva le spoglie dei caduti per la patria e quelle dei cittadini benemeriti (Portoghesi 1968-1969, iv, 184). Le costruzioni funerarie sono costituite in questo periodo da ipogei (uJpovgeion, hypogaeum), sepolcri sotterranei composti di uno o più ambienti, destinati, per lo più, a deposizioni multiple di inumati  











architettura funeraria o cremati. Si tratta, in genere, di vani scavati nel →terreno, talvolta rivestiti di muratura o decorati con stucchi e pitture [→decorative, tecniche], che tendono ad essere segnalati in superficie mediante segnacoli di vario tipo, tra i quali in età arcaica e classica presenta notevole diffusione il tumulo (tuvmbo~, tumulus). Dal latino tumeo ‘esser gonfio’ letteralmente il termine va riferito a qualunque prominenza del terreno e, per estensione, a quelle prodotte artificialmente per l’inumazione dei cadaveri [→cadavere]. In tal senso il tumulo rappresenta, dunque, la parte epigea del sepolcro, cumulo di terra ammonticchiata che sovrasta una sepoltura, distinto dagli altri elementi architettonici del sepolcro stesso (Frisone 1990, 189). Si tratta di una delle prime forme di a. funeraria, diffusa ampiamente nelle culture preistoriche e protostoriche dell’Europa e del bacino del Mediterraneo, fino alle civiltà greca, etrusca e romana. Il tumulo poteva presentare caratteristiche diverse : semplice ammasso di terra che ricopriva approssimativamente il corpo o monumento di dimensioni impressionanti ; di forma circolare oppure ovale con un profilo piatto, arrotondato o appuntito. Anche la tipologia del materiale d’accumulo poteva variare : materiali grezzi, terra e pietre ammassate senz’ordine, o, al contrario, disposte in modo da assicurare solidità all’insieme architettonico. Celebri sono, per il mondo greco, i tumuli che ricoprivano le tombe macedoni, tra i quali emerge, per le eccezionali dimensioni (12 m. di altezza per un diametro approssimativo di 110 m.) quello di Verghina. Costruito intorno al 350 a.C. ed ampliato nel corso del tempo, esso ingloba molteplici tombe tra le quali una sicuramente reale appartenente, probabilmente, a Filippo ii il Macedone. In alcuni casi il tumulo era delimitato alla base da uno zoccolo, costituito da un cerchio di pietre che tratteneva la terra e dava all’insieme valore architetturale. Gli ipogei possono essere evidenziati all’esterno oltre che dal tumulo anche attraverso un semplice cippo, una stele (sthvlh, stela, cippus), lastra di pietra o di marmo, incisa o scolpita, oppure una colonna (kivwn, columna). La sepoltura sotterranea poteva, inoltre, essere accompagnata da elementi tipici del culto funerario presso gli antichi quali la fossa per le offerte, la tavola funeraria (travpeza, mensa, tabula funebris) o un altare (bwmov~, ara), posti all’entrata  





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dell’ipogeo. A questi potevano accompagnarsi vasi funerarii, solitamente louthvrion, lhvkuqo~ e loutrofovro~, che presentavano un chiaro valore simbolico. [5] L’uso di porre i vasi come segnacoli di tombe continuò nel mondo greco molto a lungo, fino all’età imperiale romana. In alcuni casi gli ipogei erano lasciati intenzionalmente senza segnacolo. Il terreno sul quale sorgeva il monumento funerario poteva essere racchiuso da un recinto funerario e costituire un temenos (tevmeno~). Molto presto si diffuse l’uso di piantare alberi e fiori accanto alle tombe, tanto da creare veri giardini [→giardino] funerari (khpotavfion, hortus o cepotaphium), nei quali potevano trovare posto anche costruzioni per i visitatori. [6] Diffuso in Grecia era l’uso di costruire cenotafi (kenotavfion, cenotaphium), monumenti funebri vuoti (kenov~ = ‘vuoto’) eretti in memoria di defunti dei quali non sia stato possibile recuperare il corpo o che si trovino sepolti altrove. Presso i cenotafi si svolgevano gli stessi riti funebri celebrati presso le tombe propriamente dette, quali, ad esempio, le periodiche offerte di libagioni. L’uso va ricollegato alla credenza, molto diffusa presso i popoli antichi, che l’anima del morto insepolto non potesse trovare pace e vagasse errabonda, trasformandosi in un cattivo genio (Floriani Squarciapino 1959, 467). Cenotafi vennero eretti in onore di eroi e personaggi illustri. Pausania ricorda quello di Achille in Elide[7] e quello di Tiresia a Tebe. [8] L’uso di erigere cenotafi in onore dei defunti, molto diffuso in Grecia sin dall’epoca di Omero, passò nel mondo romano dove il cenotaphium[9] venne definito anche inanis (vuoto) tumulus[10] o tumulus honorarius. [11] Una certa monumentalità presentavano in alcuni casi anche costruzioni non propriamente architettoniche come i sarcofagi (sarkofavgo~, [12] sarcophagus), contenitori, solitamente di pietra, muniti di coperchio e variamente decorati, destinati a custodire una bara o il corpo di un defunto. 2.3. Grecia ellenistica. – Nella Grecia di età ellenistico-romana continuano a sussistere, insieme col doppio uso dell’inumazione e della cremazione, anche i tipi dei monumenti che erano stati propri dell’età più antica. In questa età le regioni del mondo greco in cui i monumenti sepolcrali presentano maggiore varietà sono quelle orientali, in cui si realizza anche la tendenza ad eroizzare il defunto, elevandolo  









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dalla sfera umana a quella sovrumana. Molto diffusi in questo periodo sono infatti gli heroa, che raggiungeranno espressioni di suprema eleganza e il cui sviluppo influenzerà anche alcune esperienze dei primi secoli del Cristianesimo. [13] Propriamente ‘abitazione’, ‘santuario dell’eroe’, [14] il termine heroon (hJrw/`on, heroum) designa il monumento funebre dedicato al defunto eroizzato in riferimento a costruzioni funerarie di vario genere ed importanza : tombe o monumenti che si presentano sotto forma di tempio, semplici recinti consacrati, per lo più l’heroon è caratterizzato da una camera sepolcrale, spesso a tholos, ed un’ara racchiuse da un temenos, [15] recinto funerario con un peribolo che limita il terreno. Numerosi sono gli esempi nel mondo classico, dove, molto spesso, gli heroa, poiché erano dedicati agli eroi fondatori della città, sorgevano nell’agorà ; [16] alcuni, invece, erano costruiti in prossimità di un tempio. [17] A partire dal I secolo a.C. gli heroa vennero elevati all’interno dei cimiteri o lungo le vie che conducevano ad essi. Dall’incontro tra l’heroon e il tempio ionico deriva il Mausoleo (mauswlei`on, mausoleum), termine riferito originariamente al sepolcro monumentale eretto ad Alicarnasso in onore di Mausolo, satrapo della Caria (377 a.C.-353 a.C.) e passato in seguito ad indicare i sepolcri innalzati alla memoria di personaggi illustri o, più genericamente, monumentali. Iniziata durante la vita del monarca, la costruzione del Mausoleo fu patrocinata dalla sorella e moglie Artemisia e portata a compimento dai suoi successori. Situato al centro della città, in prossimità del porto, fu distrutto probabilmente da un terremoto e riutilizzato dai cavalieri di Rodi per la costruzione del castello di San Pietro a partire dal 1402. Considerato dagli antichi una delle sette meraviglie del mondo, [18] il Mausoleo, opera degli →architetti Satyros e Pytheos, presentava un dado di base con un perimetro di 440 piedi (m. 40 × 50 circa) il quale sosteneva la tomba vera e propria, circondata da 36 colonne ioniche. La copertura, formata da una piramide a gradini regolari, era sormontata da un gruppo scultoreo raffigurante una quadriga guidata da Mausolo e dalla moglie, di cui fu autore lo stesso Pytheos o un certo Pythis, se si accetta la testimonianza di →Plinio. [19] La costruzione, eseguita tutta in marmo pario, aveva un’altezza complessiva di 25 cubiti (46 m.) ed era deco 















rata da fregi, rilievi e statue, opera dei migliori artisti dell’epoca : Skopas o Prassitele secondo →Vitruvio [20] per il lato est, Leochares ad ovest, Timotheos a sud e Bryaxis a nord. 3. Roma. – L’a. funeraria a Roma presenta un’estrema varietà sia in epoca classica che repubblicana e imperiale : sono, infatti, rappresentati tutti i tipi di costruzioni dalle camere funerarie alle costruzioni monumentali ai semplici tumuli. La tipologia delle tombe romane ha, per lo più, intenti monumentali, mirando a perpetuare la memoria di un singolo individuo o di una famiglia. Il tipo più diffuso è costituito da una torre (puvrgo~, turris) cilindrica al cui interno si sviluppa una galleria anulare che dà accesso a una o più celle. A partire dalla fine della repubblica, inoltre, i Romani cominciano ad imitare i Greci nella costruzione di heroa. Si può considerare un heroon quello che Cicerone progetta per l’amata figlia Tullia, morta nel 45 a.C., e che descrive nelle lunghe discussioni con Attico. [21] Nel clima di restaurazione della Roma del tardo i sec. a.C., invece, trova un particolare favore e una diffusione che travalica i confini della capitale e dilaga in tutta Italia l’utilizzo dei mausolei ellenistici. Uno degli esempi più noti tra i moltissimi mausolei romani è il sepolcro di Cecilia Metella, figlia del console del 69 a.C. e sposa di un Crasso. Si tratta di una costruzione grandiosa costituita da una struttura cilindrica su basamento quadrato, che verrà superata solo dai sepolcri imperiali di Augusto e di Adriano. Il mausoleo di Augusto fu innalzato a Roma nel 28 a.C. nel Campo Marzio. Aveva un diametro di 87 m. ed era formato da un pilone centrale che reggeva in cima la statua dell’imperatore e da cinque muri anulari fra i quali si aprivano vani trapezoidali. Ispirato al mausoleo di Augusto fu il mausoleo di Adriano, iniziato dall’imperatore nel 125 e ultimato da Antonino Pio nel 139. L’edificio sorse sulla riva destra del Tevere di fronte al Campo Marzio, cui fu congiunto da un ponte appositamente costruito, il Ponte Elio, e consisteva in un tamburo posato su un grande dado di base, rivestito di marmo lunense con lesene angolari e fregio a bucrani, sul quale si leggevano i tituli dei membri della famiglia imperiale ivi sepolti. [22] Il tamburo cilindrico era sormontato da un tumulo di terra alberato : ai margini erano statue marmoree decorative mentre alla sommità era una statua di bronzo  









architettura funeraria dell’imperatore, stante o su quadriga. Tutto il monumento era recintato da un muro con cancellata bronzea ornata da statue pure bronzee di pavoni, chiaro simbolo funerario. Attraverso un corridoio ed una galleria elicoidale si accedeva alla camera sepolcrale quadrata con grandi nicchie laterali per le deposizioni, posta al centro del tumulo e rivestita di marmi policromi. Il mausoleo, trasformato già nel v sec. in fortilizio, è noto oggi come Castel S. Angelo o Mole Adriana. Tra i monumenti funerari romani acquista notevole importanza anche la colonna funebre (kivwn, columna), che trova l’esempio più rappresentativo nella colonna Traiana, la quale custodisce all’interno di una camera ricavata nella base la tomba dell’imperatore. Poca fortuna incontra il concetto di necropoli nell’ambito della cultura romana, dove esso si perde quasi del tutto per essere sostituito da quello del monumento isolato, disposto liberamente sul territorio. Anche nelle poche necropoli romane, tuttavia, si continua a riproporre il mondo dei vivi attraverso le tombe a fronte architettonico, costruite ad imitazione delle abitazioni. Un particolare sviluppo hanno in ambiente romano i colombari che rispecchiano la densità degli inurbati nelle insulae. È un tipo di costruzione funeraria molto diffusa come forma di sepoltura collettiva. Si tratta di un tipo di tomba ipogea o semiipogea, consistente in un ambiente o un edificio caratterizzato all’interno da serie regolari di loculi, di solito a nicchia, incavati nelle pareti, ciascuno dei quali atto a contenere un feretro o le urne con le ceneri dei defunti. Deriva il suo nome dal fatto che le nicchie erano ricavate nella muratura con un’apertura anteriore che ricorda le costruzioni per il ricovero e l’allevamento dei colombi. Le nicchie occupavano interamente le pareti della camera sepolcrale caratterizzata da una copertura a volta con aperture che garantivano una flebile illuminazione. La tecnica muraria dei colombari era solitamente l’opus reticulatum. In alcuni casi sotto le nicchie, in genere di forma semicircolare, quadrata o rettangolare, si sono trovate iscrizioni recanti il nome del defunto, l’età, la sua condizione o altre informazioni. I colombari romani erano spesso rivestiti all’interno con lastre di marmo ed ornati con stucchi e pitture [→decorative, tecniche] ; alcuni presentavano esternamente abbellimenti costituiti da colonnine o timpani. I colombari, come tutti gli edifici funebri roma 

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ni, erano situati sulle strade fuori porta. A Roma i primi colombari apparvero verso la metà del i sec. a.C. Ebbero la massima diffusione tra il i secolo a.C. e il i secolo d.C., periodo durante il quale era molto diffusa la cremazione dei defunti, spesso effettuata in un ustrino (kauvstra, ustrinum) ricavato nello stesso ambiente. Ritrovamenti archeologici nella necropoli esquilina ne testimoniano, tuttavia, l’uso anche nel corso dell’età repubblicana e, successivamente, per tutto il ii secolo d.C. Quando, nell’età degli Antonini, alla cremazione si sostituì la tumulazione, i colombari furono piegati al nuovo uso, con la costruzione al loro interno di tombe a fossa ricavate nel pavimento. Nel medio e tardo impero con la ripresa dell’inumazione si diffonde particolarmente l’uso del sarcofago, che può trovare luogo all’interno di un edificio tombale o costituire esso stesso un monumento funerario collocato sul territorio. Note. [1] Cfr. Suid. q 403, 1 Adler ; Hsch. q 634 Latte ; EM 453, 30 ; Harp. 156, 10 ; Vitr. 7, 5, 5 ; Varr. r.r. 3, 5, 12. – [2] Hsch. q 635 Latte. – [3] Cfr. Dinsmoor 1950, 28-34. – [4] Str. 17, 1, 10 e 14. – [5] Cfr. Cahen 1919b, 1219-1221 ; Ginouvès-Martin 1985, 61, n. 101. – [6] Cfr. Toynbee 1971, 94-100. – [7] Paus. 6, 23, 3 ( keno;n mnh`ma). – [8] Paus. 9, 18, 4 ( keno;n mnh`ma). – [9] Cfr. Hyg. Fab. 273 ; Ulp. dig. 1, 8, 6, 5; 11, 7, 6, 1 ; Serv. Aen. 3, 304 ; 6, 152 ; 6, 325 ; 6, 378 ; 9, 213. Cenotafium in Script. Hist. Aug. Alex. Sev. 63, 3 (Lampridius). – [10] Cfr. Verg. Aen. 3, 304; 6, 505. – [11] Svet. Claud. 1, 3. – [12] Vd. anche i termini:  























skeu`o~, sorov~, swmatoqhvkh, qhvkh, ajggei`on, pualiv~, kibwtov~, mavkra. Cfr. Kubińska 1968, 32-56.

– [13] Portoghesi 1968-1969, II, 401. – [14] LSJ, p. 778 s. v. hJrw/`on. – [15] Th. 1, 134 ; Paus. 3, 15, 8; 8, 9, 4 ; Poll. 9, 15. – [16] Th. 5, 11 ; Hdt. 5, 67 ; Paus. 10, 33, 6 ; 6, 24, 7. – [17] Hdt. 8, 39 ; Paus. 10, 8, 7 ; 1, 18, 8 ; 1, 41, 1. – [18] Plin. nat. 36, 30 ; Vitr. 7, praef. 13. – [19] Plin. nat. 36, 30-31. – [20] Vitr. 7, praef. 13; Plin. nat. 36, 30-31. – [21] Cic. Att. 12, 18, 19, 35, 36, 37. – [22] cil vi, 985-995.  

















Bibliografia. Andronikos 1984 ; Cahen 1919a, 532-534 ; Cahen 1919b ; Chapot 1887, 269-278 ; Dinsmoor 1950, 28-34, 113, 257-261 ; Dorigny 1919, 220-225 ; Ebert 1930, cc. 2411-2414 ; Fiechter 1936, cc. 307-315 ; Floriani Squarciapino 1959, 467-468 ; Frisone 1990, 185-210 ; GinouvèsMartin 1985, 54-66 ; Guerrini 1966, 828 ; von Hesberg 1994 ; Hild 1900, 148-150 ; Hug 1921, cc. 171-172 ; Kees 1935, cc. 2233-2234 ; Kubińska 1968, 32-56 ; Kurtz-Boardman 1971 ; Mansuelli 1963, 170-202 ; Mansuelli 1966a, 833-836 ; Mansuelli 1966b, 909-916 ; Pevsner 1992, 156, 453, 656 ;  











































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architettura minoico-micenea

Picard 1965, 178-179 ; Portoghesi 1968-1969, t. ii, 399-402 ; t. iii, 98, 202-203, 517-518 ; t. iv, 183-185 ; t. vi, 186, 195-196, 218-221, 268; Saglio 1887a, 13331338 ; Samter 1900, cc. 593-693 ; Smith 1870, 260, 323, 1127-1129 ; Toynbee 1971, 94-100 ; Vlad Borrelli 1961, 934-937 ; Weiss 1930a, cc. 2408-2409 ; Weiss 1930b, cc. 2409-2411 ; Ziehen 1936, cc. 1-7.  





















Nadia Cacopardo Architettura minoico-micenea [xxi-xiii sec. a.C.]. L’architettura greca classica degli albori subisce l’influenza delle forme costruttive dei primi palazzi di Cnosso, Festo, Hagia Triada e Mallia del minoico medio (2000-1860 a.C.) e recente (1700-1400), che sono espressione di una organizzazione politica accentrata nel regime della città-stato. Ciò che caratterizza questi modelli architettonici sono i numerosi passaggi e corridoi (aperti all’esterno continuamente da portici e logge), le sale ipostile e i colonnati disposti intorno a cortili rettangolari centrali ; questi ultimi costituiscono il principio unificatore dei vari ambienti e livelli, dei volumi pieni e delle superfici cieche, di uno stile complessivo agglutinante privo di simmetria. Altre fondamentali caratteristiche dell’architettura minoica sono le decorazioni pittoriche, che prediligono i contrasti, la policromia (forse sotto l’influsso della pittura egiziana), e, a partire dal 1600 a.C., l’affresco, in un rapporto in cui pittura e architettura condividono la medesima concezione dello spazio, che non intendono limitare, ma anzi variare e illuminare, assecondando il movimento continuo della vita. Entrambe, pittura e architettura, si rivelano specchio di una società pacifica e felice, padrona dell’ambiente in cui vive. Una società che, pur esprimendo la posizione di privilegio dei palazzi e dei loro immediati dintorni, non manca di sottolineare anche l’importanza e l’autonomia della piazza [→edilizia pubblica, 1, 4] e dei suoi annessi (cripte, magazzini ed altri edifici pubblici), in cui si svolge probabilmente una vita sociale vivace e indipendente dal palazzo stesso. Pare affermarlo la stessa concezione della rete viaria [→Infrastrutture e servizi, 6] che dal palazzo si irradia in direzione del mare e della pianura, verso le necropoli, mediante un tracciato non geometrico ma topografico e funzionale. Verso il 1400 a.C. la società minoica viene parzialmente assimilata da una civiltà continentale greca fiorente nel Peloponneso e nell’Argolide, il cui fulcro  

è Micene. L’architettura micenea, espressione di una casta reale militare conquistatrice e dominatrice, sostituisce alla dispersione e all’estensione ondulante e multipiana dei palazzi cretesi (da cui pure mutua la disposizione degli ambienti minori del palazzo e l’uso di colonne lisce) la concentrazione e delimitazione degli spazi mediante possenti recinti, muraglie di grossi blocchi ciclopici appena squadrati, bastioni difensivi, cortine a protezione delle vie, porte urbiche [→Infrastrutture e servizi, 7] fortificate e palazzi muniti come quelli di Tirinto, Micene, Pilo. I materiali utilizzati sono l’argilla, la pietra e il legno [→materiali edili]. Elemento essenziale e caratteristico di tutte le costruzioni è il mevgaron, un ambiente rettangolare con l’ingresso al centro di uno dei due lati corti e un portico tra le pareti lunghe, di fronte a un cortile. Per quanto scomparsa dopo il xiii sec. a.C. (a seguito delle invasioni di popolazioni ellenistiche, i Dori, e di numerose rivolte), la civiltà micenea influisce su quella greca arcaica per la potenza e il dinamismo che hanno caratterizzato la propria architettura. Bibliografia. Adam 1994 ; Argan 1936 ; Knell 1988 ; Lloyd-Müller-Martin 1972 ; Martin 1967 ; Porphyrios 1991.  









Shara Pirrotti Architettura sacra. 1. Il tempio greco. Caratteristiche generali. – L’edificio classico per eccellenza è il tempio. Realizzato in pietra a partire dal vi sec. e incluso in uno spazio sacro (tevmeno~), in gran parte a cielo aperto, il suo altare è collocato, almeno dal vii secolo a.C. in poi, di fronte a quello che oggi noi chiamiamo ‘tempio’ e che per i Greci era invece la cella, detta naov~, o la casa del dio, detta oi\ko~ corrispondente all’aedes con focolare dei Romani. A differenza delle chiese cristiane, in cui l’altare si trova all’interno della cella ed è rivolto a est verso il sole nascente a simboleggiare la resurrezione di Cristo, la cella del tempio greco ospita la statua del dio ma non vi si possono compiere riti sacrificali, che invece si svolgono nel tevmeno~. L’ingresso può essere evidenziato da propilei, e gli spazi sacri sono separati da quelli profani generalmente da semplici cippi lapidei (o{roi). All’interno del tevmeno~ trovano posto diversi edifici, sia votivi (ad es. i qhsauroiv per i donativi delle diverse povlei~) che funzionali (hestiatoria o andrones = sale da banchetti e

architettura sacra stoaiv = portici). L’immagine generale che ne deriva è un’immagine di equilibrio e dinamismo, di chiarezza, regolarità e concentrazione della composizione architettonica, perfettamente integrata nell’ambiente circostante. L’edificio, o qualsiasi parte di esso, presenta il naos per il dio e un colonnato coperto per i fedeli. Da tevmeno~ (temno=tagliare) deriveranno i termini latini templum, che era o il terreno dedicato a una divinità o il suo santuario, e tempus, il tempo finito della vita terrena opposto a quello infinito (aijwvn, aeternitas). Circa le planimetrie, l’evoluzione del tempio-base, un semplice oi\ko~ sviluppatosi dalla casa primitiva con eventuali colonne interne, è costituita dal tempio in antis, con gli stu`loi (colonne) poste tra le ante (testate) dei muri laterali della cella che si prolungano da un lato del pronao (il vano di accesso). Il tempio diventa periptero, circondato cioè tutto da un colonnato che costituisce la peristasi o pterovn ; o pseudodiptero, con il colonnato posto a doppia distanza dalla cella ; o hypaetros, talmente ampio da rendere impossibile la copertura del tempio, che quindi rimane a cielo aperto. 1.1. Stili e complessi monumentali. – Nel vii sec. a.C. nel Peloponneso nasce lo stile ‘dorico’, che si caratterizza per le colonne scanalate appoggiate direttamente sullo stilobate senza base, con il capitello schiacciato e abaco quadrato, come si vede nel tempio di Atena a Delfi, edificato intorno al 600 con colonne non più in legno ma in pietra locale (povro~). Lo stile dorico, possente e severo, è il più adatto ad esprimere l’energia e il dinamismo delle colonie greche : ne troviamo numerose testimonianze, infatti, a Siracusa, Paestum, Agrigento e Selinunte, dove la disponibilità di materiali incoraggia il desiderio di esprimere architettonicamente il forte spirito politico e religioso che le anima : da tali obiettivi derivano, per esempio, l’Apollonion di Siracusa e quello di Selinunte. Per tutto il vi e v sec. gli architetti della Magna Grecia utilizzano lo stile dorico, ma con una naturalezza, libertà e gusto per il rilievo plastico maggiori rispetto alle realizzazioni della madrepatria, come è evidente a Paestum in cui lo stile dorico si coniuga con influssi ionici. Nella Grecia continentale bisogna attendere l’inizio del v sec. per vedere realizzati i capolavori dell’ordine dorico, di cui il più noto esempio è il Partenone sull’acropoli di Atene, realizzato dagli →architetti Ictino e Callicrate.  







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1.2. Acropoli di Atene. – Il ‘Partenone’, che, nella complessa struttura architettonica precorre le profonde trasformazioni che introdurranno gli altri ordini, ionico e corinzio, è frutto di una serie di compromessi tra esigenze diverse : quella dello scultore Fidia di utilizzare spazi ampi per la sua statua crisoelefantina, quella dello statista Pericle, che vuole rappresentare nel Partenone la grandezza ateniese e le ambizioni panelleniche e, infine, quella del reale stato dei lavori, poiché il tempio di cui è già stata iniziata la costruzione è esastilo e allungato, con doppia cella. Gli architetti ampliano il numero delle colonne da 6 a 8 sulla facciata e da 16 a 17 sui lati lunghi ; vengono ingranditi la cella e il basamento a nord ; la facciata principale è sottolineata da una seconda fila di colonne. Il valore architettonico del Partenone è arricchito dall’ornamento plastico, i cui temi sono tratti dalla storia leggendaria di Atene e dalle vicende della sua dea protettrice. Nelle metope e nel frontone sono infatti scolpiti gli episodi salienti relativi alla nascita di Atena che diventano metafore degli ideali precipui della città : la vittoria dell’intelligenza sulla forza bruta e della bellezza e della luce sulle forze oscure del male. Sul lato opposto è rappresentata la vittoria di Atena su Poseidone per il possesso dell’Attica e l’alleanza dei due antichi rivali, che mettono a servizio della gloria di Atene i loro due doni, l’ulivo e il mare. All’interno della duplice fila di colonne Fidia scolpisce la processione delle Panatenee, composta dai diversi esponenti della società ateniese, perfettamente riconoscibili, in una perfetta simbiosi di intenti tra architettura e scultura. Intorno al 450 a.C. l’architetto Callicrate idea il tempio di ‘Atena Nivkh’ all’ingresso dell’acropoli di Atene, adattando le tradizioni insulari e asiatiche allo schema attico ; questo tempio, realizzato solo un trentennio più tardi, al termine dei grandi cantieri di Pericle, presenta colonne monolitiche fortemente scanalate, dotate di capitelli ionici che contrastano con la nudità dei muri di marmo pentelico, e pilastri al posto delle colonne tra le ante. Sui pannelli della balaustra, lungo il bastione, le Ni`kai alate rappresentano i diversi momenti della processione e dei sacrifici in onore di Atena Nivkh. All’interno dell’acropoli si erge anche l’‘Eretteo’ che esprime le varie soluzioni di libertà e fantasia dello stile ionico introdotto nell’armonia e nella semplicità classiche. Come il  









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architettura sacra

tempio di Atena Nivkh, è dotato di portico, con quattro colonne sulla facciata e due ad angolo. A sud un baldacchino nasconde la scala da cui si accede alla tomba di Cecrope, leggendario re di Atene : è questo il famoso ‘Portico delle Cariatidi’, le cui figure con i capelli ondulati sostengono una trabeazione ionica a dentelli. La realizzazione dell’Eretteo rappresenta tutti gli sforzi degli architetti del v sec. di introdurre innovazioni che saranno ampiamente adoperate nel iv sec. e nel periodo ellenistico. I ‘Propilei’ di Mnesicle, con le loro 5 porte, stabiliscono un collegamento tra tutti gli edifici dell’acropoli, pur rispettando l’individualità e la cronologia di ciascuno (costruito a circa 10 anni di intervallo dall’altro), e si raccordano con i propilei arcaici mediante un basamento di 5 gradini che supera il dislivello su cui sono edificati, che si interrompe per lasciare libero il passaggio al carro della dea. Gli edifici all’interno sono dunque compresi in rapporti incerti che li evidenziano senza chiuderli in rigidi schemi geometrici. Il visitatore che avesse varcato l’ingresso dei Propilei, avrebbe potuto scorgere i volumi del Partenone verso sud e dell’Eretteo verso nord. All’esterno, al termine della via Sacra, si ergono 6 colonne doriche. 2. Architettura sacra ellenistica. – L’edilizia templare continua ad essere un settore centrale dell’edilizia, privilegiando maggiormente, dopo il iii sec., i culti alle divinità protettrici della sfera privata (Artemide, Asclepiade, Afrodite, Dioniso, Tuvch). 3. Architettura sacra romana. – Allo stesso modo di quella greca, l’architettura romana si sviluppa a sua volta dalla fusione di elementi diversi, alcuni derivati dalla tradizione greca ellenistica (forme, stili e decorazioni), altri nati da strutture italiche autoctone e tendenze ‘mediterranee’ che erano state escluse dagli ellenici per il pregiudizio di una loro labile consapevolezza rispetto alla ‘chiarezza storica ellenica’. 3.1. Influenze etrusche. – Il tempio, una delle strutture architettoniche più antiche, è mutuato inizialmente dagli Etruschi, i cui architetti, maestranze ed artisti lavorano a Roma nell’ultimo periodo della monarchia dei Tarquini. Le caratteristiche del tempio etrusco (es. il Tempio Capitolino edificato intorno al 600 a.C.) sono la struttura tozza, bassa e larga, con gronde molto sporgenti. Il passaggio dalla monarchia alla repubblica segna il declino dell’influenza  

etrusca nel campo specifico dell’architettura religiosa, benché, come afferma Plin. nat. 35, 154, la costruzione dei templi continui a essere affidata ad architetti etruschi fino al 496 a.C. 3.2. Influenze greche. – A partire da quell’anno, in concomitanza con la penetrazione dei primi culti ellenici a Roma e con la presenza nell’Urbe di artisti greci, il tempio diviene gradatamente una creazione greca che si afferma a Roma fino a tutto il periodo imperiale. La sua costruzione avviene quasi per arte magica, sacerdotale, preceduta da formule di cui la più tipica è : « Questo luogo sarà consacrato al culto ed a null’altro ; sarà quadrato ; questi e quelli saranno i suoi confini ; qualunque cosa sarà detta o fatta in questo spazio sacro gli dei la sapranno ; qualunque cosa giunga dall’alto in questo sacro spazio, sarà un segno degli dei ! ». Dopo l’espulsione dei re etruschi da Roma, gli architetti greci cercano di dare una forma agli spazi a misura d’uomo, che abbia un proprio repertorio edilizio e decorativo e una propria fisionomia. I materiali utilizzati sono quelli reperibili localmente : la pietra squadrata (saxum quadratum), il travertino, il legno, la terracotta, il mattone crudo, l’argilla, il tufo. Dal vi sec. in avanti il rito del pubblico culto ha luogo alla presenza dell’immagine del dio racchiusa all’interno. Il vero e proprio tempio è costituito, come per i greci, da uno spazio aperto delimitato dalla statua del dio, intorno al cui altare viene eseguito l’atto di offerta e di preghiera. Il tempio è issato in alto su un podio accessibile soltanto dalla facciata. 3.3. Originalità dell’architettura sacra. – A differenza del tempio greco, che è un prisma isolato nello spazio libero, a Roma la dimora del dio è parte organica dello spazio da essa generato. I templi, come gli alloggi privati, sono incorniciati da un sistema organico di strade, rigorosamente rettilinee, che completano la definizione architettonica dello spazio umano. Quando, nel iii sec., Roma viene a contatto con l’ambiente ellenistico, la sua concezione spaziale si dilata fino a comprendere i territori conquistati, modellandosi sull’esempio di eleganza e di libertà sperimentata dalla cultura ellenistica. Il colonnato, che i greci usavano come sfondo, schermo e riferimento, è dai romani reinterpretato estendendolo rigidamente intorno allo spazio del tempio e distaccando ulteriormente lo spazio sacro mediante un’alta struttura di archi e volte. La visione frontale  











   



architettura teatrale del tempio e la sua elevazione su un podio sono ereditati da modelli italici. Nel ii secolo, dopo le campagne d’Asia e di Grecia, ai capitelli dorico e ionico si aggiungono il capitello corinzio e il composito (uguale al corinzio nella parte superiore e allo ionico in quella inferiore). Quando l’impero crolla e l’architettura con il suo disordine avulso dal contesto vuole esprimere la chiusura nei confronti di un mondo in frantumi, è la nuova religione a raccogliere e riunire i romani in luoghi di culto tanto differenti dagli antichi, quanto differente è il nuovo dio rispetto ai precedenti. I fedeli infatti si raccolgono intorno ad un altare centrale su cui si catalizza l’attenzione per il mistero che vi si rappresenta, e, sul modello della basilica e della sala d’udienza del palatium, l’adunanza prende posto, non più laica, ma religiosa, nelle navate centrali e laterali della ecclesia. I fedeli guarderanno da ora in poi verso un’unica direzione, cui tutti rivolgono lo sguardo, perché è qui che si celebra il mistero del nuovo dio, incarnato, morto e risorto. Bibliografia. Adam 1994 ; Argan 1936 ; Berve 1978 ; Bozzoni-Franchetti Pardo-OrtolaniViscogliosi 2006 ; Burns 1976 ; Carpenter 1979 ; Dinsmoor 1975 ; Hellmann 2002 ; Knell 1988 ; Lauther 1999 ; Lawrence 1996 ; Martin 1967 ; Martin 1980 ; Martin 1989 ; Mussche 1968 ; Porphyrios 1991 ; Ruggieri Tricoli 1979 ; Scranton 1965 ; Slavazzi 1995 ; Summerson 1970 ; Tomlinson 1995 ; Zevi 1964.  









































Paola Radici Colace Architettura teatrale. 1. Il teatro in età classica (qevatron, theatrum). – I teatri assumono una forma definitiva solo alla fine del v secolo. In precedenza le rappresentazioni si svolgevano su uno spazio aperto, spesso in pendenza, di fronte al luogo dove avveniva quello che inizialmente era un semplice rito religioso. Alla metà del v sec. si costruisce in materiale semipermanente la skenè (skhnhv, scaena), cioè la facciata di fronte alla quale si svolge l’azione, ma anche il magazzino dove depositare gli attrezzi necessari. Dalla fine del v sec. in poi, per il grande rilievo assunto nella cultura e nella società greca classica dal teatro, l’edilizia teatrale si perfeziona. La struttura del teatro classico prevede tre parti distinte : - il koi`lon (cavea), costituito da gradinate in pietra per gli spettatori a cui si accede dal basso mediante passaggi laterali (pavrodoi) ;  



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- l’ojrchvstra, spazio compreso tra koi`lon ed edificio scenico dove si muove il coro nelle tragedie ; - la skhnhv, l’edificio scenico. Sia in età classica che ellenistica il koi`lon è addossato ad un pendio e non è quindi oggetto di costruzione stricto sensu, anzi è realizzato per sottrazione di materiale ; fanno eccezione le parti adiacenti agli ingressi laterali e all’edificio scenico, che sono realizzate infatti con i muri di sostegno dei settori di gradinate (detti ajnalhvmmata) che completano quelli scavati nel pendio. In basso, allo stesso livello dell’orchestra, c’è una prima fila per le personalità pubbliche (proedriva), cui seguono tre zone ripartite ciascuna da scale di accesso ai posti in un certo numero di settori. Il koi`lon di Epidauro verrà adottato a modello degli altri per la sua configurazione armonica soddisfacente sia sotto il profilo del rapporto tra gli attori e gli spettatori (qevatron), sia sotto quello acustico, per la posizione strutturale dell’edificio che sfruttava le risonanze naturali dell’eco. In alternativa, Vitruvio [acustica, 4] suggerisce di adottare come espediente per l’amplificazione dei suoni risuonatori bronzei disposti in alcune parti della cavea. 2. L’Odeion. – Data l’importanza della cultura musicale e letteraria nel mondo greco, già nell’età di Pericle si realizzano edifici coperti destinati alle audizioni musicali detti w/jdei`a dotati di elevata ricezione e diffusione acustica, utilizzati anche per le prove degli spettacoli teatrali. Secondo le descrizioni di Vitr. (5, 9, 1) e Paus. (1, 8.6 ; 1, 14, 1), il primo wj/dei`on, distrutto durante l’assedio di Silla, era un edificio a pianta quadrata con sala ipostila a doppio giro di colonne lignee, dotata di gradinate per gli spettatori che delimitavano uno spazio quadrangolare. Altri wj/dei`a sullo stesso modello si realizzano a Pompei ed Epidauro. 3. Architettura teatrale ellenistica. – In epoca ellenistica, accanto all’edilizia religiosa riveste una notevole importanza anche l’architettura destinata agli spettacoli teatrali e alle costruzioni di carattere celebrativo connesse con l’attività teatrale, che ancora costituisce nel mondo ellenistico un momento culturale centrale dell’intera società cittadina. E se per l’età classica numerosi sono i testi di letteratura teatrale e poche le notizie sugli edifici dove avvenivano le rappresentazioni, adesso avviene il contrario. [1] Le innovazioni significative dal punto di  







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architettura teatrale

vista letterario sono le seguenti : 1) l’affievolirsi dell’interesse per la tragedia, i drammi satireschi, e per i valori politico-culturali ad essi connessi ; 2) la nascita della cosiddetta ‘commedia nuova’ che privilegia scene di vita quotidiana ; 3) la diminuzione della funzione del coro, ridotto a puro intermezzo tra gli atti; 4) l’affermazione in ambito magno greco e siceliota, a partire dal 285, della hilarotragedia, parodia spesso rappresentata da attori ambulanti (fliaci) su palchi lignei provvisori; 5) la rappresentazione, in ambito italico, delle ‘atellane’ di matrice autoctona. Queste novità culturali favoriscono il sorgere di nuove costruzioni : sono databili alla fine del iii-inizi del ii sec. i teatri di Priene, Delos, Dodona, Efeso, Segesta, Siracusa, Solunto, Tindari, Monte Jato, Locri, Metaponto, Mytilene etc. ; al pieno ii sec. i teatri di Delfi, Oropos, Pergamo, Teos, Thasos, Pompei ; al i sec., infine, i teatri di Termessos e il teatro piccolo di Pompei (in realtà un w/jdei`on). Il teatro alessandrino mantiene nell’orchestra la qumevlh, l’altare dedicato a Dioniso, ma prevede anche alcune caratteristiche novità : 1) già a partire dal iv sec. l’andamento a ferro di cavallo del koi`lon, che in età classica comprendeva anche l’area circolare dell’orchestra, diventa un cerchio regolare intorno all’area circolare dell’orchestra ; l’orchestra diminuisce di ampiezza già a partire dal iv sec. ; 2) il cerchio che delimita lo spazio orchestrale diventa tangente all’edificio scenico. In ambito italico (e poi romano) lo spazio dell’orchestra si configurerà con forme prossime al semicerchio : tale configurazione è adottata ad Epidauro, Delos, Eretria, Oropos. In ambito italico vi saranno gradinate disposte a U ; 3) cambia il rapporto con l’edificio scenico e la disposizione degli accessi scoperti (pavrodoi), che nel teatro di Epidauro presentano una elegante doppia porta inquadrata da una trabeazione in ordine ionico ; 4) l’edificio scenico, da skhnhv, (tenda) a servizio degli attori e delle loro attrezzature, si trasforma in un apparato architettonico più complesso, in ragione dell’aumento del numero degli attori e dei loro collaboratori ; 5) gli attori si muovono sia a livello dell’orchestra, sia, in modo innovativo, su un pulpito (logei`on, pulpitum) situato a un livello più elevato dell’orchestra ; lo spettacolo si svolge dunque su due piani, forse con distinta funzione scenica ; 6) si costruisce uno speciale corpo di fabbrica, la cui parte sottostante (proskhvnion/ uJposkhvnion, proscaenium)  





























presenta file di colonne e pilastri o semicolonne addossate a pilastri, nei cui intercolumni si aprono passaggi per collegare l’orchestra all’edificio scenico o per trasportare elementi scenici mobili decorativi o funzionali (pivnake~, tabulae). Si realizzano tre tipi di proskhvnion : il tipo ‘a rampe’ situate alle due estremità dell’edificio (come ad Epidauro), mediante le quali si accede dall’orchestra, che si afferma in ambito greco continentale ; il tipo con parete dritta e proskhvnion privo di chiusure laterali che, come a Priene e Delos, si estende talvolta a contornare l’intero corpo dell’edificio scenico o i suoi lati corti, preferito in ambito orientale ; il tipo in cui il proskenion diviene un colonnato vero e proprio, che prevale a Thasos e al Pireo; 7) si realizza una nuova parete con aperture al di sopra del proskhvnion (ejpiskhvnion, episcaenium) come fondale dell’azione degli attori sul logei`on ; 8) per gli spettacoli al coperto, le audizioni e le prove degli spettacoli viene adottato un secondo tipo di w/jdei`on di dimensioni più ridotte, in cui le gradinate degli spettatori hanno una configurazione semicircolare sullo schema del koi`lon, mentre la parte destinata all’esecuzione musicale ha per fondale una sorta di scena architettonica fissa. 4. Architettura teatrale romana. – I teatri dapprima sono semplici impalcature, poi edifici in legno, e successivamente in pietra, costruiti appositamente in occasione di pubbliche rappresenta­zioni e poi distrutti. Il primo teatro stabile in pietra viene eretto da Pompeo nel 55 a.C., secondo il modello del teatro di Mitilene, benché nelle colonie dell’Italia meridionale (Pompei in particolare) esistessero già da un ventennio. Anche i primi anfiteatri in origine erano mobili e in legno ; il primo anfiteatro parzialmente in pietra fu costruito nel 29 a.C. da Statilio Tauro nel Campo Marzio, cioè molti anni dopo, anche nel caso di questo tipo di costruzione, del primo anfiteatro in pietra di Pompei. Tale ritardo nella capitale deriva dalle correnti conservatrici che a lungo si oppongono perché gli edifici destinati al divertimento siano realizzati in pianta stabile. Occorre attendere il 71-80 d.C. per avere a Roma un anfiteatro permanente : il Colosseo.  











Note. [1] Courtois 1989, 11-13. Bibliografia. Adam 1994 ; Argan 1936 ; Berve 1978 ; Bettini 1978 ; Billot 1982 ; Bozzoni-Franchetti Pardo-Ortolani-Viscogliosi 2006 ; Burns  











ariete 1976 ; Cahill 2002 ; Calderini 1940 ; Carpenter 1979 ; Castagnoli 1956 ; Ciancio Rossetto-Pisani Sartorio 1994 ; Courtois 1989; Crema 1959 ; Delorme 1960 ; Dinsmoor 1975 ; Doxiadis 1972 ; Falciai 1982 ; Franchetti Pardo 2006 ; Fyfe 1965 ; Giuliano 1966 ; Gullini 1959 ; Hellmann 2002 ; Karadedos 2005 ; Knell 1988 ; Lauther 1999 ; Lawrence 1996 ; Lippolis-Livadiotti, Rocco 2007 ; Lloyd-Müller, Martin 1972 ; Martin 1967 ; Martin 1980 ; Martin 1989 ; Mussche 1968 ; Ortolani, 1999 ; Porphyrios 1991 ; RobinsonGraham 1938 ; Ruggieri Tricoli 1979 ; Scranton, 1965 ; Slavazzi 1995 ; Summerson 1970 ; Tomlinson 1995 ; Ward Perkins 1974 ; Wilson J. M. 2000 ; Wycherley 1962 ; Zevi 1964.  









































































Paola Radici Colace Areteo di Cappadocia [150-200 d.C.]. 1. Dati biografici. – Medico la cui collocazione cronologica è dibattuta, generalmente ritenuto contemporaneo di Galeno, autore di trattati di argomento medico composti in ionico su modello dei trattati ippocratici; [1] si ispirò ai principi della scuola pneumatica già tracciati da →Archigene, riconoscendo nel concetto di pneuma, che gli derivava dalla Stoa, un principio operante nel quadro delle tradizionali teorie umorali. [2] 2. Opere. – Non tutte le opere di A. ci sono pervenute, e alcune di quelle superstiti non sono integre ; [3] si interessò di diagnostica, di descrizione di quadri clinici e di prevenzione ; scrisse un’opera Sulle cause e sui sintomi delle malattie acute e croniche, una Sulla cura delle malattie acute e croniche, nelle quali tratta di patologie diverse, tra le quali sono dettagliatamente descritti l’elefantiasi [4] e il diabete, [5] e una Sulla profilassi ; ci restano anche scritti di argomento ginecologico (Sui disturbi femminili), e chirurgico (Sulle operazioni), dai quali si evince grande competenza anatomica ; un’opera Sulle febbri non ci è pervenuta. [6]  





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sedio. Secondo gli studiosi moderni (Garlan 1974), le prime rappresentazioni di questa macchina si troverebbero già sulle pitture di alcune tombe egizie, mentre, secondo →Vitruvio (10, 19, 60), tale macchina sarebbe stata ideata dai Cartaginesi per porre l’assedio alla città di Gades. I Greci, dal canto loro, ne attribuivano la paternità ad Artemone di Clazomene, ingegnere di Pericle, che la utilizzò nell’assedio di Samo del 440 a.C. [1] 2. Funzionamento ed evoluzioni tecniche. – Può essere considerata la più semplice e versatile macchina da guerra e come tale poteva assumere diverse forme, ricavata solamente da un grosso tronco e terminante con punta conica o affilata, oppure più elaborata e integrata in macchine più complesse come la torre d’assedio [→ elepoli] o la testuggine [→testuggini ed altre protezioni]. Normalmente, comunque, era costituita da una trave che terminava con un’estremità in metallo, spesso lavorata a forma di testa di ariete (da cui il nome della macchina), o con una serie di denti che la rendevano più efficace nell’assalto alle mura. Azionata a mano da diversi uomini, veniva fatta oscillare e scaraventata contro il bersaglio a gran velocità, in modo da poterlo danneggiare con efficacia e aprirvi delle brecce. Il crescente spessore delle mura, dovuto al bisogno di proteggersi da simili macchine, rese necessario fissare l’ariete ad un telaio in legno mediante delle funi, in modo da aumentarne  









Note. [1] Vd. Ross 1996, 152. – [2] Vd. Leven 2005e, 81. – [3] Vd. Hude 1958. – [4] Vd. Aret. 8, 13. – [5] Vd. Aret. 4, 2. – [6] Vd. Ross 1996, 153. Bibliografia. Hude 1958 ; Leven 2005e ; Ross 1996.  



Livia Radici Ariete [kriov~, aries]. 1. Generalità. – Utilizzato per sfondare le porte e le mura delle città, l’ariete costituisce il più antico strumento d’as-

Fig. 1. Ariete-tortuga (da Connoly 1998).

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aristarco di samo

la manovrabilità e l’efficacia. Tale miglioria sarebbe opera, sempre secondo Vitruvio (10, 19, 62), di tale Pesafemo, ingegnere tirio, e la macchina prendeva così il nome di aries prensilis. L’aggiunta di uno chassis in legno a protezione degli uomini incaricati di manovrare la macchina dal tiro nemico si dovrebbe invece, ancora secondo Vitruvio (10, 19, 63), a Cetras di Calcedonia e, a seconda che fosse dotato di ruote o di ruotine, il mezzo prendeva il nome di aries subrotatus o aries versatilis. [2] Il formato di queste macchine era molto variabile : ve ne erano alcune che non necessitavano più di 20 uomini per essere azionate, mentre l’impiego di altre, come racconta Appiano (Pun. 8, 3, 16), utilizzate per l’assedio che Scipione pose a Utica nel 204 a.C., richiese lo sforzo di più di 5000 soldati. Le tecniche adottate a difesa di questi congegni erano le più disparate, come riferiscono autori come Polieno [→Stratagemmi, Frontino e Polieno] e →Enea tattico. Oltre all’ispessimento delle mura, infatti, si cercava soprattutto di impedire l’impatto dell’ariete con le fortificazioni o la porta, lasciando cadere dall’alto pietre, tronchi o qualunque altro materiale, anche di tipo infiammabile [→Fuochi e tecniche incendiarie] (che costituiva la contromisura più efficace), capace di distruggere parzialmente o totalmente la macchina. [3]  





Note. [1] Vd. Brizzi 1983, 47; per il termine greco vd. Xen. Cyr. 7, 4, 1; Plb. 9, 4, 1, etc. [2] Sáez Abad 2005a, 151. [3] Sáez Abad 2005b, 84. Bibliografia. Brizzi 1983 ; Garlan 1974 ; Sáez Abad 2005a ; Sáez Abad 2005b.  





Lucio Benedetti Aristarco di Samo [ca. 320-230 a.C.]. 1. Dati biografici. – L’attività scientifica di A. è databile sia sulla base dell’osservazione del solstizio d’estate del 280 a.C. che sulla notizia che il libro in cui formulò la sua ipotesi eliocentrica fu pubblicato prima dell’Arenarius di →Archimede, opera anteriore al 216 a.C. Scienziato e astronomo, discepolo del filosofo peripatetico Stratone di Lampsaco, [1] aderì all’orientamento scientifico-naturalistico indicato dal suo maestro, il quale aveva spiegato fenomeni come la propagazione della luce, dell’elettricità e del magnetismo, e del calore nell’ambito di un’ipotesi corpuscolare della materia che ammetteva la presenza del vuoto tra un corpusco 

lo e l’altro. →Vitruvio (1, 1, 17) lo annovera, insieme a Filolao e →Archita, →Apollonio di Perga, →Eratostene di Cirene, Archimede, tra i pochi scienziati a possedere conoscenze approfondite in tutte le branche della scienza e ad aver contribuito notevolmente alla spiegazione di principi matematici, geometrici e naturali e all’applicazione pratica delle conoscenze acquisite. La fama di A. è legata soprattutto alla formulazione dell’ipotesi eliocentrica, secondo la quale il sole e le stelle fisse sono immobili, [2] mentre la terra compie la sua rivoluzione in un’orbita circolare attorno al sole e una costante rotazione attorno al proprio asse. [3] 2. Opere e dottrina. – L’unica opera superstite di A., il trattato Sulle grandezze e sulle distanze del Sole e della Luna[4] redatto intorno al 260 a.C., ha come presupposto il sistema geocentrico :[5] in esso A. arriva a determinare limiti minimi e massimi delle distanze tra gli astri attraverso procedimenti geometrici e aritmetici, partendo dalla formulazione di sei ‘ipotesi’ spiegate in diciotto proposizioni. [6] Degno di particolare attenzione è il metodo adottato dallo studioso, che si giova di calcoli trigonometrici e applica teoremi geometrici già noti alle diverse posizioni del sole e della luna. In realtà, i risultati a cui A. perviene sono fallaci, ma a necessitare di correzioni non è tanto il metodo utilizzato, che pure si fonda su basi matematiche definite, quanto piuttosto le ipotesi da cui il ragionamento trae spunto[7] . A partire da queste riflessioni, sembra probabile che il trattato sia stato composto come esercizio matematico piuttosto che come manuale di astronomia applicata. Secondo Vitruvio, [8] A. avrebbe inventato un tipo particolare di meridiana chiamato skavfh, la cui caratteristica era quella di avere una superficie emisferica non piana ma concava, con un puntale centrale a proiettare l’ombra del sole, così da permettere di ricostruire sia la direzione che l’altezza del sole; secondo la tradizione, inoltre, avrebbe calcolato correttamente la durata dell’anno con un’approssimazione minima, stima che probabilmente gli derivava dai babilonesi. Stando ad Aezio, [9] A. si sarebbe occupato anche dell’elaborazione di una teoria della visione che doveva comprendere lo studio del ruolo della luce e dei colori.  











Note. [1] Vd. Aet. plac. 1, 15, 5 e 5, 5. – [2] Vd. Archim. Aren. 4-5. – [3] Vd. Plu. De fac. 6, 923a. – [4] L’opera di A., corredata da notizie biografiche,

aristotele riferimenti alle fonti e una disamina dei rapporti con l’astronomia greca a lui precedente, in Heath 1913. – [5] Vd. Noack 1992. – [6] Vd. Hultsch 1895. – [7] Vd. Toomer 1996, 159. – [8] Vd. Vitr. 9, 8-9. – [9] Vd. Aet. Dox. plac. 4, 13, 8. Bibliografia. Heath 1913 ; Hultsch 1895 ; Noack 1992 ; Toomer 1996.  





Livia Radici Aristotele [384-322]. 1. Generalità. – Una recente definizione – “Aristotle is the most influential observer and recorder, philosopher and systematizer of antiquity” [1] – ha il merito di porre in primo piano l’enorme investimento fatto da A. nell’osservazione diretta dei fenomeni più diversi e nella raccolta ordinata delle informazioni nei vari campi, oltre che nell’assestamento di dati e teorie e nella costruzione di un articolato sistema di ambiti del sapere. Sarà il caso di aggiungere subito che A. si è distinto tra i contemporanei anche per la quantità delle tessere di conoscenza alle quali ha saputo aprire la sua mente e per la qualità, mediamente alta, degli apparati concettuali introdotti per assestare e dare un senso a un così immenso sapere e organizzare il sistematico ‘immagazzinamento’ dei dati in opportuni contenitori. A fronte di un così straordinario investimento fa impressione apprendere che proprio le pragmateiai, cioè le opere alle quali venne consegnata la gran parte di un così vasto e multiforme sapere, vennero sostanzialmente sequestrate, portate fuori Atene e tenute, per così dire, accuratamente sotto chiave per ben due secoli, fino a quando questo patrimonio librario unico al mondo tornò ad Atene per effetto di compravendite e passò quindi a Roma per volere di Silla che, evidentemente, ebbe idea del valore di quei libri ormai sconosciuti. A. era nato a Stagira, in Macedonia, nel 384 e, a diciassette anni, si era trasferito ad Atene, dove rimase come allievo e collaboratore di →Platone fino alla morte del maestro (347), dunque per circa venti anni. È probabile che, all’interno dell’→Accademia, egli si sia ben presto affermato come uno degli allievi più prestigiosi ed è possibile che, alla morte del maestro, abbia aspirato a succedergli. Sta di fatto che la designazione di Speusippo come scolarca coincise con il suo definitivo allontanamento dall’Accademia. Trasferitosi nella Troade, quindi sull’isola di Lesbo, nel 343 diven-

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ne precettore di Alessandro ; poi, intorno al 335, ritornò ad Atene e vi fondò una sua scuola, il Liceo, che si presume potesse giovarsi di risorse economiche messe a disposizione dalla corte macedone. La morte di Alessandro fu ben presto seguita dalla sua fuga, di nuovo in Asia minore, dove si spense nel 322. La vorticosa attività del maestro spiega come mai solo alcuni dei suoi trattati abbiano trovato una sistemazione definitiva o quasi definitiva, mentre altri (in primis la Metafisica) sono con ogni evidenza opere composite e documento di una ricerca che deve ancora approdare a un assestamento definitivo. Va anzi subito aggiunto che l’impressione di compiutezza deve probabilmente non poco all’opera del primo editore di A., Andronico di Rodi (i sec. a.C.), se è vero che questi fu animato dal comprensibile desiderio di accentuare l’impressione di ordine e avvenuto assestamento delle varie trattazioni. La multiforme opera di A. deve moltissimo dapprima all’opera di una intera schiera di allievi chiamati a farsi carico della raccolta e assestamento dei dati in stretta collaborazione col maestro o anche da soli (es. la →botanica nel caso di →Teofrasto) e poi, dopo la riscoperta di quello che tuttora per noi è il Corpus Aristotelicum, a schiere di commentatori : intellettuali che in molti casi dedicarono l’intera loro carriera al commento di singole opere di A. Di tali commentatori c’è stata una successione ininterrotta ad Atene dai tempi di Andronico di Rodi fino ai tempi di Giustiniano e oltre, per poi proseguire in ambiente islamico per un buon mezzo millennio e ricominciare a Parigi e, più in generale, nell’area latina intorno al 1200. La varietà delle aree disciplinari prese in considerazione, la qualità mediamente alta delle trattazioni e l’immensa mole dei dati raccolti in alcuni gruppi di opere ha reso virtualmente impossibile al singolo commentatore – e oggi al singolo studioso – di raggiungere livelli alti di familiarità con ciascuna trattazione e reso inevitabile che almeno a qualche opera si finisse per dare non più di uno sguardo superficiale. Per questo la domanda di un aiuto a ben interpretare le opere di A. ha raggiunto proporzioni inusitate. Per un orientamento su edizioni, traduzioni, lessici e altri strumenti di consultazione, monografie specifiche, si rinvia a Barnes 1984, Flashar 1983 e Berti 20042008. Uno dei grandi meriti di A. fu di aver deli 



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neato per primo una disposizione seriale degli ambiti disciplinari, in modo che dove finisce l’uno potesse cominciare l’altro ambito, senza soluzione di continuità. Ciò spiega come mai tante volte, nelle sue trattazioni specialistiche, egli abbia occasione di rinviare a ciò che è stato esposto in altre opere (vd. ad es. Cael. 1, 6, 273a 14-18; GC 2, 10, 336a 12-20; Metaph. 13, 8, 1073a 32). Questa impostazione è nelle cose, ma non risulta essere stata anche esplicitamente teorizzata (egli parla semmai di scienze teoretiche, pratiche e poietiche ; pur sapendo e pretendendo di aver scritto per primo un’ampia trattazione di logica, non si dedica a stabilire quale posto le spetti tra le altre scienze). Sintomatica si direbbe però la distinzione tra Physica, De caelo e Meteorologica, e così pure la distinzione tra i trattati De anima e i cosiddetti Parva Naturalia dedicati a fenomeni « comuni a anima e corpo » (Sens. 1, 436a 6-8), quindi in primis agli organi di senso. Se cercassimo un precedente, non potremmo che frugare tra i titoli delle opere di →Democrito, scoprendo che questi ha fatto oggetto di trattazione una gamma vastissima di fenomeni, ma con molto più limitati indizi di disposizione seriale. La portata di tale innovazione emerge nitidamente quando si consideri che gli scolastici appresero dalle traduzioni di A. a identificare un gran numero di ambiti disciplinari. Il procedimento risultò nuovo per loro e venne altamente apprezzato, tanto da comportare la rapida obsolescenza delle trattazioni enciclopediche ‘disordinate’ che fino ad allora avevano avuto fortuna, come ad es. il Liber Sententiarum e il Policraticus. Non è meno significativo che un simile impianto venga sostanzialmente mantenuto anche ai nostri giorni. Ha senso chiedersi se ci sia stato un settore al quale A. si è dedicato in modo particolarissimo, e può sorprendere che la risposta non sia per nulla ovvia. Se effettuiamo un conteggio in termini di libri, che siano o non siano pervenuti fino a noi, e se teniamo conto anche delle opere dovute al suo più diretto e più prolifico collaboratore, Teofrasto, la palma spetterebbe senza ombra di dubbio al →diritto (potremmo anche dire : al diritto comparato), in quanto tutto lascia credere che il Liceo sia stato anche un primario centro di irradiazione della cultura giuridica. Infatti la serie delle trattazioni di argomento giuridico dovette essere tale da raggiungere e forse superare il centinaio di libri. [2]  









Non per nulla, in EN 10, 9, 1181b 6-9, si parla di « raccolte (sunagwgaiv) di leggi e costituzioni », dichiarando che esse sono certamente utili (eu[crhsta) per chi è capace di studiarle e di discernere pregi e difetti, ma molto meno utili se chi le esamina è ajnepisthvmwn, privo cioè di una specifica cultura di settore. Significativamente solo appena più avanti egli inserisce un cenno alle “costituzioni” da lui descritte e fatte descrivere in apposite opere avendo cura di mantenerle distinte dalle raccolte di cui sopra. In effetti, ai tempi di A. – e probabilmente per merito di A. – Atene assistette a una imponente espansione dell’offerta di testi giuridici culminata in due compilazioni monumentali : la serie delle Politeiai coordinata e in parte redatta dallo stesso scolarca e i Nomoi kata stoicheion teofrastei. Può sorprendere constatare che di questa imponente produzione, moltissimo è andato perduto, ma il dato editoriale rimane fuori discussione (cfr. →diritto, 2.4). A seguire è poi la volta dei trattati biologici, con opere dedicate a vari aspetti della fisiologia umana e comparata, alla →zoologia e, ad opera di Teofrasto, alla botanica. Nel loro insieme, queste opere costituiscono uno straordinario complemento dell’offerta di trattati medici, perché allargano enormemente il campo di osservazione sul mondo della vita. Abbiamo poi un vasto apparato di trattati sul mondo fisico, a partire dai concetti generalissimi della fisica per arrivare allo studio di singoli fenomeni e, in particolare, allo studio del cielo (vd. →astronomia, →cosmologia e →fisica). Imponente è anche la trattazione di logica confluita nell’Organon, tanto più che, come lo stesso A. segnala, si tratta di una ricerca che semplicemente non ha precedenti. Lo studio di A. costituisce tuttora – ripetiamo – un compito impervio per la materiale impossibilità che un solo studioso possa sviluppare adeguate competenze per l’intera gamma dei settori di competenza del maestro di Stagira. Va anche detto che, proprio per questo, la formazione di base del singolo studioso di A. – e così pure l’orizzonte di attesa del pubblico al quale si rivolge il singolo libro su A. – difficilmente manca di incidere sul modo che poi si sceglie per rappresentarsi l’insieme. Si può capire, ad es., che i filosofi siano propensi a privilegiare la dimensione filosofica di un’opera così sfaccettata anche quando si cimentano in una rappresentazione dell’insieme, specialmente se prevedono di rivolgersi  





aristotele soprattutto a dei cultori di studi filosofici, perché in tal caso si delinea una convergenza degli interessi prevalenti, e tale convergenza finisce immancabilmente per darci un’immagine già condizionata da opzioni, come quella appena indicata, che prendono forma a monte, già nella fase di studio dell’argomento, tra i metafisici come tra i giuristi, tra i logici come tra gli storici dell’astronomia, tra gli storici della medicina come tra i cultori di retorica. Anche ai nostri giorni A. costituisce una sfida intellettuale di prim’ordine per tutti anche soltanto da questo particolare punto di vista. 2. Cosmologia. – A. occupa un posto di rilievo nella cosmologia greca anzitutto per il fatto di essere fonte primaria e pressoché unica delle speculazioni avviate con →Eudosso e sottoposte ad ulteriore assestamento da Callippo e dallo stesso A. È infatti nel xii libro della Metafisica che, dopo aver esplicitamente richiamato la tesi, svolta nella Fisica, della perfezione ed eternità del moto circolare, A. ha modo di introdurre la fondamentale idea secondo cui il numero dei movimenti di traslazione supera quello dei corpi che si spostano localmente e ogni pianeta ne ha più d’uno. Questa, aggiunge A., è una cosa evidente anche a chi abbia una modesta competenza in materia. Su tali premesse egli annuncia di voler fare riferimento alle tesi di alcuni matematici e in parte contribuire lui stesso a questa particolare indagine (12, 8, 1073b 7-15). Egli passa quindi a riferire l’essenziale della teoria di Eudosso e di Callippo (12, 8, 1073b 17-36) per poi argomentare che « affinché si possa dare veramente il conto preciso dei fenomeni mediante la combinazione di tutte le sfere, ci devono essere, per ciascuno dei pianeti, ancora altre sfere che, rispetto a quelle sopra accennate, siano di ugual numero meno uno, e devono girare in senso inverso rispetto a quelle e riportare alla medesima posizione la prima sfera dell’astro che, in ogni caso, è disposto in ordine al di sotto di un altro… Poiché, pertanto, le sfere in cui si compiono queste traslazioni sono otto per Zeus e Cronos e venticinque per gli altri pianeti … le sfere saranno in tutto quarantasette » (12, 8, 1073b 37-1074a 13, trad. A. Russo). Con questa dichiarazione A. mostra di recepire appieno il ragionamento impostato dai due astronomi e si limita a completarlo. Se queste sfere sono degli oggetti fisici, invisibili a occhio nudo solo perché trasparenti, se la loro funzione è di trasportare i corpi astrali che noi  



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vediamo e di rendere conto della specificità del loro moto in base a una combinazione di moti semplici (ogni moto complesso viene infatti analizzato e scomposto in una molteplicità di moti semplici), è inevitabile pensare che il moto delle sfere più interne sia la risultante del moto di tutte le altre, ma ciò comporterebbe un disordine non solo impossibile da analizzare, ma anche smentito dai dati di osservazione. Di conseguenza, argomenta A., occorre postulare l’introduzione di sfere aventi la funzione di neutralizzare con precisione il moto di altre sfere ad esse esterne. Questo memorabile passaggio ha il potere di creare un nuovo mito, data la comprensibile difficoltà di credere a tutte queste sfere fisiche e, dettaglio non marginale, agli assi, anch’essi non meno fisici, che dovrebbero talvolta attraversare distanze di rilievo, se è vero che alcuni corpi celesti sono di dimensioni particolarmente cospicue, ruotare eternamente su due punti della sfera contigua senza usurarli e mantenere per sempre la perfetta concentricità di decine e decine di sfere. Si tratta di problemi che non vengono nemmeno sfiorati, così come non viene chiarito se sia almeno immaginabile di passare dallo schema teorico alla messa a punto di una ipotesi di combinazione di più moti semplici che siano in grado di rendere conto della specificità del moto complesso che si presume ne debba scaturire. A sostegno di una così pacifica accettazione di cotanto mito non ci fu soltanto la religione astrale rilanciata con grande enfasi da un altro allievo dell’Accademia platonica, Filippo di Opunte, e da A. accolta in modo del tutto pacifico (cfr. Metaph. 12, 8, 1974a 38-b 14). Ci fu anche e soprattutto un’altra teoria di A., quella secondo cui la concezione della materia è scandita in cinque ‘essenze’, ossia i quattro elementi empedoclei più un etere (la ‘quintessenza’) pensato come radicalmente diverso dagli altri quattro : mentre i quattro elementi sono corruttibili, il quinto sarebbe incorruttibile (‘sensibile ma eterno’) ; mentre i quattro elementi sono caratterizzati da un moto eminentemente rettilineo che deve per forza conoscere dei limiti, il quinto sarebbe caratterizzato dal moto circolare, quindi da un moto regolare e costante, per sua natura idoneo a continuare indefinitamente nel tempo, senza conoscere perturbazioni di sorta. Una simile teoria poté offrire un supporto di prim’ordine alla teoria delle quarantasette sfere proprio perché il  



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quinto elemento, con la sua intangibile perfezione, risolveva in partenza ogni problema. La tendenza a mettere in luce i fattori di perfezione del sistema trova, del resto, ulteriori riscontri nella caratterizzazione dell’universo come pieno (donde la nozione di horror vacui), ingenerato e incorruttibile, che è sempre stato e sempre sarà, che come telos ha il proprio bene, e al di fuori del quale non si danno né spazio né tempo. Questi ed altri significativi elementi della cosmologia aristotelica vengono svolti in particolare nel De caelo. A titolo di esempio riferiamo che l’eclisse di luna viene interpretata, con estrema sicurezza, come effetto dell’interposizione della terra ; che la forma circolare dell’ombra che va ad oscurare per breve tempo la luna viene interpretata come prova certa della sfericità della terra ; che vengono riferite stime sulle dimensioni della terra (una circonferenza pari a 400.000 stadi, cioè circa 720.000 km : quasi il doppio delle dimensioni reali). Nel De generatione et corruptione, invece, si parla delle sostanze terrestri ed ha luogo la caratterizzazione dei quattro elementi in base a calore e umidità : la terra è fredda e secca, l’acqua fredda e umida, l’aria calda e umida, il fuoco caldo e asciutto. Ciò non impedisce ad A. di riconoscere che, in determinate condizioni, ai quattro elementi accade anche di tramutarsi l’uno nell’altro (es. l’acqua evapora e diventa aria). Allo scopo di fondare la possibilità di tali trasformazioni A. teorizza la sostanza prima che fa da denominatore comune e che, d’altronde, non si presenta mai nella sua purezza, ma sempre sotto forma dell’uno o dell’altro elemento. 3. Diritto. – La produzione giuridica di A. e dei suoi principali collaboratori è poco conosciuta perché a suo tempo si è interrotta la tradizione manoscritta, verosimilmente a causa della insanabile asimmetria con il diritto romano. Si tratta peraltro di una produzione imponente per quantità e, per quanto è dato capire, pregevole per qualità, al cui allestimento diede un contributo di prim’ordine anche Teofrasto. Il sopravvissuto si riduce, invero, all’Athenaion politeia fortunosamente emersa dai papiri di Ossirinco nel 1892, opera che, oltre a proporre un significativo sottotitolo (katastasis tes politeias, « ordinamento dello stato »), offre un panorama delle funzioni pubbliche e delle procedure relative all’esercizio della maggior parte di queste, panorama che può ben dirsi esemplare  











quanto a ordine e nitidezza della trattazione. [3] Ma l’opera faceva parte di una collezione di ben 158 trattazioni analoghe, relative a altrettante poleis, alcune delle quali non greche (è il caso di Cartagine) di cui abbiamo solo tracce sparute e non rappresentative. Questo gruppo di opere non poté non occupare molte decine di libri, ai quali vanno aggiunti svariati altri titoli rilevanti, tutti perduti. C’è poi l’opera di Teofrasto, incentrata nei Nomoi kata stoicheion in 24 libri che diedero luogo a una epitome in dieci libri. Di taglio giuridico sono, peraltro, anche altre opere di Teofrasto e di altri allievi diretti. Un così vasto corpus di testi lato sensu giuridici ebbe una vita oltremodo effimera. Infatti la tradizione manoscritta si è interrotta in età imperiale e ha riguardato la totalità di questa produzione. È pur vero che Cicerone ebbe occasione di affermare che ab Aristotele mores, instituta, disciplinas, a Theophrasto leges etiam cognovimus e che uterque eorum pluribus … conscripsisset qui esset optimus rei publicae status, hoc amplius Theophrastus (fin. 5, 11 = fr. 590 Fortenbaugh). Ma questi fu tra i più assidui frequentatori (e tra i non molti veri conoscitori) della biblioteca che proprio gli eredi di Teofrasto ritirarono dal Liceo alla sua morte (nel 287/6), e che, una volta portata a Roma, fu affidata alle cure di Tirannione. [4] La dispersione dei testi giuridici non dovrebbe meravigliare più di tanto, poiché la radicale differenza del sistema giuridico rese quel sapere sostanzialmente inutilizzabile a Roma, e, tutt’al più, interessante a titolo di informazione, non certo per esercitare la professione di giurista imperiale. Ciò costituisce una convincente spiegazione della mancata produzione di sempre nuove copie, fino alla perdita della tradizione manoscritta diretta per tutte queste opere, malgrado l’alta reputazione dei loro autori. Rimane che fu pressoché soltanto il Liceo a proporsi come fervidissimo centro di produzione di testi lato sensu giuridici, testi verosimilmente pensati per circolare in tutta l’ecumene ellenica. Il mero dato quantitativo ci impone di pensare che essi siano stati concepiti come risorsa per la formazione degli addetti ai lavori di molte poleis e come risposta a una domanda di sapere di cui essi poterono prendere tempestiva coscienza. D’altra parte, se la domanda venne soddisfatta da Aristotele e allievi, e con successo, ciò implica che in precedenza non era soddisfatta. Che a tale compito si siano dedicati degli intellettuali che forse  



aristotele mai si considerarono giuristi, mentre nulla di comparabile venne prodotto, a quanto è dato sapere, dai grandi retori e logografi o dai più qualificati grammateis, non può non sorprendere. Si può capire invece che questo sapere sulle leggi e le istituzioni politiche sia stato caratterizzato da un approccio descrittivo e informativo (quindi ipomnematico), non normativo e non in direzione di una dettagliata casistica. Ciò dovrebbe dipendere infatti dalla vocazione ‘panellenica’ di queste opere e dalla specificità del sistema giuridico e giudiziario delle poleis greche. Ad Atene e altrove, infatti, il collegio giudicante era eminentemente laico, non interrogava le parti, non conduceva indagini né utilizzava risultanze di tipo investigativo, non discuteva prima di arrivare all’emissione del verdetto, si limitava a pronunciarsi con un sì o con un no, non era in condizione di motivare il verdetto, e nemmeno avrebbe potuto essere fatto responsabile di un verdetto che risultasse in contrasto con il verdetto precedente. In queste condizioni, ciò che aveva senso offrire era una cultura giuridica di orientamento, molto più che un sapere puntuale, finalizzato alla costruzione di un apparato normativo solidale e alla casistica. Perfino l’universo delle sentenze precedenti, infatti, in quel sistema giudiziario aveva una scarsa o scarsissima pregnanza. Livio Rossetti 4. Logica. – Sul versante della logica A. occupa una posizione di particolare prestigio. Prima di lui erano diffusi ed utilizzati procedimenti e tecniche logiche che si confacevano ad un certo spontaneismo, lungi da un controllo consapevole e formalizzato [→logica, 2]. A. sente l'esigenza di individuare un ambito disciplinare nuovo e circoscritto, sebbene non chiarisca mai cosa intenda per ‘logica’: piuttosto allude in maniera duplice allo studio del discorso (ovvero una tecnica, APr. 1, 1, 24a 16-25b 18) e allo studio del pensiero (dunque sostenuto dallo studio della metafisica, Metaph. 4, 3). Non è possibile rispondere se questa duplicità si dovesse risolvere in una continuità o se invece il rapporto tra le due dimensioni accennate fosse in qualche modo lasciato irrisolto nelle intenzioni stesse dello Stagirita: sta di fatto che nella raccolta di trattati dedicata a problematiche di tipo logico, quale è l’Organon, A. sviluppa regole e contenuti di un intero settore disciplinare,

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precisando quelle tematiche che resteranno per secoli oggetto dell’interesse degli studiosi [→logica, 3]. L’Organon si compone nell’ordine del libro delle Categorie, che mirano a classificare i termini, negli aspetti più metafisici che logici; il De interpretatione e gli Analitici Primi, che trattano la logica come teoria generale della deduzione; gli Analitici Secondi, che trattano di teoria dei sistemi di scienza; i Topici, inerenti l’argomentazione dialettica; le Confutazioni sofistiche, che esaminano e rifiutano gli argomenti capziosi. In particolare A. sviluppò una logica dei termini, laddove per termine si intende la base di ogni rapporto predicativo in quanto capace di esprimere nel concetto quanto segue ad una prima apprensione dell’oggetto. Questa logica dei termini fu capace di accogliere lo studio e lo sviluppo sistematico di uno strumento logico particolare, il →sillogismo, le cui regole presiedono all'organizzazione di un vero e proprio sistema assiomatico [→assiomatica]. 5. Matematica. – A. non fu matematico e non si ha notizia di trattati aristotelici ad hoc, ma questa rischia di rivelarsi una osservazione ingannevole poiché, in quanto filosofo, egli fu fortemente interessato alla matematica. Svolgendo una ricognizione dell’opera aristotelica è possibile constatare un sistematico riferimento a nozioni di matematica e in particolare di geometria : il concetto di punto (Top. 6, 4 141b 19, APo. 1, 27, 87a 35-37, Metaph. 5, 6, 1016b 24-28, de An. 1, 409a 4-6 e 3, 6, 430b 20-21, Ph. 212b 24, 215b 18, 220a 10, 227a 28, 231a 25, 231b 9, 241a 10), di linea (Top. 6, 6, 143b 11, 6, 11, 148b 23-32 e 6, 12, 149a 33-36, Metaph. 5, 13 1020a 10-13 e 12, 9, 1085a 9-12), di superficie (Metaph. 5, 13, 1020a 13-14), di cerchio (Cael. 2, 4, 286b 13-15, Rh. 3, 6, 1407b 26-8, Ph. 1, 1, 184b 12, Cael. 2, 3, 287a 1617) ; alcuni assiomi, come quello sulle parallele (APr. 2, 16, 65a 4-7 e 2, 17, 66a 12-15, APo. 1, 12, 77b 22-24) ; alcuni teoremi come quello sull’uguaglianza tra gli angoli alla base di un triangolo isoscele (APr. 1, 25, 41b 13-22) e sull’uguaglianza degli angoli opposti determinati da due rette che si intersecano (Pr. 15, 5, 911a 29-30) ; e così via. Sono questi soltanto pochissimi esempi di un repertorio cospicuo dal quale emerge che A. aveva presente discussioni che sono state eclissate da →Euclide, il quale sceglie alcune vie dimostrative ed alcune opzioni definitorie senza esporre i problemi ai quali queste davano luogo. A. percorre il tragitto inverso,  







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coerentemente alla sua vocazione filosofica, e dibatte di matematica quando ha necessità di chiarire alcuni passaggi fondamentali per le scienze in generale e per la matematica in particolare. Questa disciplina, infatti, si configura secondo una modalità quanto mai adatta ad essere un esempio di scienza intesa come ‘sistema’, e soprattutto come ‘sistema aperto’. I lavori di logica assiomatica di A., svolti principalmente in Analitica Posteriora, testimoniano la propensione dello Stagirita ad indicare nella matematica un vero e proprio modello di ‘scienza deduttiva’ : per avere dimostrazione, infatti, è necessario costruire un sistema entro il quale essa valga, appoggiandosi a principi di riferimento dai quali poter far discendere la dimostrazione di una proposizione (→assiomatica). La necessità della scienza di configurarsi come ‘sistema aperto’ poggia sul presupposto filosofico per cui il rimando tra realtà concreta e astratta è continuo ; di più, tale rimando è costitutivo per quei principi sui quali il sistema deve basarsi. Ciò è evidente nel lavoro del geometra, che disegna rette (e non può di fatto rappresentarne la mancanza di spessore) senza che necessariamente siano rette e che stabilisce i principi del suo sistema lavorando sulla realtà esistente. L’indagine sulla matematica si fa ancora più interessante per A. quando si tratta di approfondire l’essenza dell’ente matematico. Questo è perfettamente presente nella realtà ma totalmente contenuto nel pensiero e viene ad essere connotato mediante : universalità, essenzialità (perseità), necessità, incorruttibilità. Queste caratteristiche vengono desunte per ‘sottrazione’ dalla realtà, ma alla realtà si vuol tornare, tanto che la matematica viene ad essere parte della sapienza (Metaph. 11, 4, 1061b 32-33). La finalità della matematica è, cioè, sapienziale. Il discorso fin qui svolto è suffragato dall’ulteriore considerazione di passaggi non-euclidei nell’opera aristotelica. Doverosa la considerazione che circolavano già nell’Accademia proposizioni non-euclidee : ad esempio è celebre il passo « (è falso che) la somma degli angoli del triangolo sia maggiore di due retti e che l’angolo interno risulti maggiore di quello esterno, per cui due rette parallele si incontrano » (APr. 2, 17, 66a 10-14). Particolarmente interessante il passo « è impossibile ad esempio che il triangolo abbia due angoli retti, se valgono certe premesse, e la diagonale commensurabile se valgono certe premesse » (Cael.  















281b 5-6) che conferma quanto si diceva poco fa : per A. è la scelta di ‘opportune premesse’ che consente di costruire alcune proposizioni (e dunque figure geometriche) anziché altre. In geometria A. è intenzionato a decidere tra le prospettive che oggi indicheremmo come ‘euclidea’ e ‘non euclidea’, poiché è consapevole che, per iniziare a fare scienza apodittica delle quantità, occorre assumere uno solo dei due contraddittori. A. sembra propendere per un mondo geometrico in cui assiomi e proposizioni siano constatabili nella realtà (→assiomatica, 4). Ciò si collega alla vocazione sapienziale della sua idea di scienza e al fatto che in essa l’ejmpeiriva precede il cogitum, per cui ciò che non è utile a comprendere il reale non può che perdere la sua legittimità.  

Flavia Marcacci 6. Biologia, zoologia, anatomo-fisiologia. – Gli scritti di argomento biologico (o, in senso stretto, zoologico) costituiscono circa un terzo dell’intero corpus aristotelico. Si tratta delle opere seguenti : Historia animalium, in dieci libri (ma gli ultimi due sono probabilmente compilazioni di scuola), un’imponente raccolta di informazioni sia anatomo-fisiologiche sia etologiche relativa a circa 500 specie animali ; De partibus animalium, in quattro libri, trattato in cui vengono poste le basi dell’anatomo-fisiologia comparata ; De generatione animalium, in cinque libri, sulla natura e i modi della riproduzione animale (De partibus e De generatione vanno annoverate fra le più importanti opere teoriche scritte da A.) ; una serie di piccoli trattati su problemi di fisiologia, come il De incessu e il De motu sulla locomozione, e altri, come il De respiratione e il De sensu, che sono inclusi nella raccolta di scritti naturalistici che va sotto il titolo di Parva naturalia. Non è solo in senso quantitativo che le ricerche sulla natura vivente occupano un ruolo centrale nell’ambito dell’impresa teorica e scientifica di A. Si tratta in effetti di un settore privilegiato per la formazione e l’applicazione di alcuni dei suoi temi filosofici fondamentali, come la teoria delle cause, la teleologia, la dottrina dell’atto e della potenza, tanto che si è a ragione potuta individuare una ‘ontologia biologica’ come la struttura soggiacente all’intero pensiero aristotelico. Nel De partibus (i 5), A. polemizza vivacemente contro coloro (si trat 







aristotele ta probabilmente dei platonici) che « nutrono un infantile disgusto » verso lo studio dei corpi viventi, contrapponendogli i più nobili e asettici saperi astronomici e matematici. Ma, egli replica, questo studio presenta due vantaggi, uno epistemologico e l’altro assiologico. Il primo consiste nella disponibilità di una grande quantità di informazioni e di conoscenze osservative, al contrario di quanto accade per la ricerca sui cieli. Il secondo consiste invece nella manifesta finalizzazione di tutti i processi della natura vivente, e laddove vi è finalismo (cioè un principio di ordine e di senso) vi è anche, secondo A., « bellezza » intellettuale. Per quanto riguarda informazione e osservazione, A. manifestò un’apertura intellettuale del tutto senza precedenti che gli permise di interpellare direttamente il mondo degli umili esperti degli animali (allevatori, pescatori, cacciatori, macellai), dai quali ottenne una massa certo disordinata ma ingente di conoscenze zoologiche fino ad allora disperse e inespresse. Ma fece di più. Convinto che non fosse possibile conoscere davvero gli animali senza ispezionarne la struttura e gli organi interni, A. integrò l’esperienza dei macellai dirigendo personalmente (per la prima volta nella storia della cultura greca) l’uccisione e la dissezione degli animali a scopi di conoscenza scientifica. Questo gli consentì straordinari progressi nel campo dell’anatomo-fisiologia, di cui si dirà fra poco ; ma determinò anche una svolta decisiva nella medicina, che nell’epoca ippocratica aveva quasi del tutto ignorato la ricerca anatomica, e che invece dopo A. (con i grandi anatomisti alessandrini come →Erofilo ed →Erasistrato) l’avrebbe posta al centro delle sue conoscenze. Per quanto riguarda invece l’assunto teorico del finalismo naturale, esso opera come un assioma d’ordine, che impone di spiegare ogni processo e struttura corporea in base alle funzioni vitali dell’organismo ; questo a sua volta deve venire pensato come perfettamente adattato alla sopravvivenza della specie cui appartiene (almeno in sede zoologica, A. non teorizza invece alcun finalismo infraspecifico). La spiegazione degli organi sulla base della rispettiva funzione consente ad A. straordinarie acquisizioni scientifiche nel campo dell’anatomo-fisiologia comparata : ad esempio la funzione respiratoria delle branchie, che costituiscono nei pesci l’organo analogo ai polmoni dei mammiferi ; oppure l’assegna 















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zione – sulla base dell’apparato riproduttivo – dei cetacei alla classe dei mammiferi anziché a quella dei pesci. Benché la classificazione degli animali non sia l’obiettivo primario di A., che mira invece alla comprensione della struttura funzionale di ogni singola specie, come si vede da questo esempio egli produsse sviluppi tassonomici in zoologia destinati a restare insuperati fino a Linneo e Buffon. Da un punto di vista propriamente biologico, A. riteneva che il fattore fondamentale di tutti i processi vitali, dalla nutrizione alla riproduzione, fosse costituito dal ‘calore innato’ collocato nell’organo cardiaco, il ‘focolare del corpo’. Il primato del calore comportava dunque quello del cuore, che A. considerò l’organo principale non solo delle funzioni vitali, ma anche (contro la tradizione ippocratica e lo stesso →Platone) della percezione e del pensiero ; il cervello veniva così declassato a mero organo refrigerante del calore cardiaco. Il calore svolge un ruolo centrale anche nella spiegazione della riproduzione, nella quale A. conferiva forma scientifica a radicati pregiudizi ideologici. Il maschio, per il suo maggior calore, svolge il ruolo attivo nella generazione perché è in grado di trasformare il sangue in sperma, che è a sua volta il veicolo della forma specifica e delle funzioni vitali dell’anima. La femmina, che per la sua freddezza non è in grado di elaborare il seme (la prova ne è, secondo A., che, se non fecondata, essa evacua il sangue in eccesso con le secrezioni mestruali), offre solo la materia generativa, cioè lo stesso sangue mestruale che nell’atto della fecondazione viene ‘informato’ dal seme paterno e quindi trasformato progressivamente in embrione. Nella percezione, nella generazione, e inoltre nel movimento volontario, un ruolo importante è svolto dal ‘pneuma innato’, una sorta di vapore caldo (ad opera del cuore), che funge da fluido di trasmissione degli impulsi sensoriali dagli organi di senso al cuore, e delle decisioni di movimento dal cuore a tendini e muscoli ; il pneuma è inoltre quella componente volatile del seme maschile che trasmette all’embrione la forma della specie. L’impossibilità di osservare il pneuma consente di attribuire a questo fluido misterioso una pluralità di funzioni che la fisiologia aristotelica non era in grado di spiegare altrimenti (tra l’altro A. ignorava il sistema nervoso, che egli identificava con i tendini, e quindi attribuiva alle vene e al pneuma in esse contenuto l’addu 



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aritmetica

zione al cuore delle sensazioni). Anche dopo A., il pneuma avrebbe goduto di grande fortuna nella fisiologia antica, da →Erofilo ad →Erasistrato fino a →Galeno. Note. [1] Così Wilson in eans 2008, 142. – [2] Un repertorio dei testi giuridici prodotti nell’ambito del Liceo figura in Rossetti 2002. – [3] Fondamentale su quest’opera rimane Rhodes 1981. – [4] Due sporadici echi dei Nomoi teofrastei affiorano anche dal Digesto. Bibliografia. Althoff 1992a ; Althoff 1992b ; Althoff 1999, 57-94 ; Balme 1980 ; Barnes 1984 ; Barnes 1995 ; Barnes 2009 ; Berti 1968 ; Berti 1984 ; Berti 2001-2002 ; Berti 2006 ; Berti 20042008 ; Berti 2007 ; Bologni-Ciampi 2005 ; Cattanei 1996 ; Flashar 1983 ; Gracia 1978 ; Heath 1949 ; eans 2008 ; Kudlien 1985 ; Kullmann 1997 ; Kullmann-Föllinger 1997 ; Lanza-Vegetti 1971 ; Lasserre 1964 ; Lee 1935 ; Lennox 2001 ; LopezSalva 1996, 203-215 ; Marcacci 2008 ; Mignucci 1965 ; Mignucci 1969 ; Mignucci 1975 ; Mignucci 2007 ; Oser-Grote 2004 ; Pellegrin 1996, 183-198 ; Rhodes 1981 ; Rossetti 2002 ; Shields 2008 ; Toth 1997 ; Van der Eijk 1995 ; Vegetti 1996b.  













































































Mario Vegetti Aritmetica. L’a. appare nelle sue origini strettamente connessa alla →geometria e trova fondamento nelle primordiali funzioni pratiche cui la →matematica era deputata. Presso gli Egiziani le operazioni di calcolo consistevano nella misurazione dei terreni, resa necessaria dalle continue piene del Nilo che cancellavano i confini di ciascuna proprietà. La geometria in Egitto era puramente metrica e si basava su considerazioni esclusivamente empiriche : essa si occupava di perimetri, di aree e di volumi, di similitudini, rapporti e altre proprietà delle figure (Procl. in Eucl. 64-65). Stesso discorso vale per la civiltà babilonese, nella quale la →geometria rivestiva un ruolo insignificante : problemi che richiedevano il calcolo della dimensione di un campo o del formato dei mattoni da adoperare per una costruzione venivano facilmente risolti mediante l’applicazione di regole o formule di a. ed algebra. Il compito principale della matematica in queste civiltà era rintracciare regole di misura, spesso generiche, per applicarle a situazioni concrete. L’a., pur non essendo distinta dalla geometria, aveva un ruolo più rilevante e non trascurabili furono i progressi compiuti nello studio dei numeri interi e delle frazioni. In entrambe  



queste popolazioni mancava tuttavia una riflessione circa i processi di astrazione : gli enti geometrici erano saldamente ancorati alla materia sensibile e venivano rappresentati mediante essa. Una retta non era altro che una corda tesa o il lato di un campo, un rettangolo identificava il confine di un campo o la forma di una tavola, un cerchio corrispondeva alla forma di una vasca circolare. Non fu formulata una metodologia generale, o almeno qualche argomento, per la dimostrazione della correttezza dei procedimenti e delle formule impiegate nella soluzione di problemi concreti. La matematica presso gli Egiziani e i Babilonesi, in conclusione, non era una disciplina distinta e studiata di per sé, ma uno strumento, costituito da un insieme di semplici regole senza alcuna connessione, per dare risposta alle esigenze che si presentavano nella vita quotidiana. Proclo considera →Talete di Mileto l’iniziatore della geometria in Grecia : la sua riflessione rappresentava il punto di congiunzione tra la geometria materiale ed empirica degli Egiziani e la geometria immateriale e razionale dei posteriori matematici greci. Questo aspetto era dimostrato dal carattere oscillante della geometria di Talete tra il ‘livello sensibile’, proprio delle civiltà pre-elleniche, e il ‘livello generale’ proprio della Grecia classica. Secondo Proclo →Pitagora contribuì all’organizzazione sistematica e deduttiva della matematica, elevata al rango di scienza teoretica : i principi primi della scienza venivano ricercati dall’alto e i teoremi erano indagati razionalmente. È difficile tuttavia stabilire con certezza quali scoperte e intuizioni debbano essere attribuite a Pitagora : non esistono sue opere scritte e quanto sappiamo proviene da fonti indirette ; i suoi allievi erano tenuti alla segretezza circa gli insegnamenti impartiti ; i Pitagorici attribuivano il merito della maggior parte delle loro scoperte al maestro, e, già dall’età in cui operò Platone, non si distingueva più tra l’opera personale di Pitagora e quella degli appartenenti alla scuola. →Aristotele in diversi luoghi della sua opera (spec. in Metaph. 1, 5, 985b 23 = 58B4 D.-K.) sostiene che i Pitagorici individuavano il principio primo (ajrchv) nel numero (ajriqmov~), che era considerato un’entità concreta e reale, in quanto costituisce l’elemento fondamentale di cui erano composti e da cui derivavano gli enti naturali. Tutte le cose e tutte le relazioni tra le cose potevano essere con 











aritmetica cepite mediante i numeri e le loro determinazioni. Considerare la natura composta da numeri significava dire che essa è misurabile attraverso la matematica. La fisica qualititativa degli Ionici si era dimostrata incapace di dare conto della varietà dell’essere. Ponendo i numeri come principi invece si conciliava sia l’esigenza di dare una spiegazione unitaria della realtà, particolarmente avvertita dagli Ionici, sia quella di rendere ragione della molteplicità dei fenomeni naturali. Il numero svolgeva una funzione gnoseologicamente rilevante, in quanto rendeva intellegibile la realtà, mostrando la struttura quantitativa e geometrica che caratterizzava la diversità e la variabilità dell’esperienza. I numeri erano grandezze spaziali, in quanto possedevano un’estensione e una forma (Arist. Metaph. 13, 6, 1080b 16 = 58B9 D.-K.) : essi venivano rappresentati geometricamente attraverso configurazioni ordinate di punti, avvalendosi materialmente anche di sassolini. I Pitagorici non distinguevano i numeri dai punti geometrici. L’unità era rappresentata come punto e i numeri successivi erano classificati simbolicamente a seconda delle figure geometriche che si ottenevano dalla disposizione dell’insieme di punti. In tal modo i numeri 3, 6, 10… erano chiamati ‘triangolari’, perché i corrispondenti punti potevano essere disposti a formare un triangolo. I numeri 4, 9, 16… erano detti ‘quadrati’, perché i rispettivi punti potevano essere posizionati in maniera da rappresentare un quadrato. Stesso discorso vale per i ‘numeri poligonali’, la cui disposizione dei punti rappresentava graficamente pentagoni, esagoni e così via. La concezione figurata dell’a., permetteva di intuire alcune proprietà dei numeri a partire dalla loro disposizione geometrica (Pl. Euthyphr. 12d) : la somma di due numeri triangolari consecutivi ad esempio è un numero quadrato ; il passaggio da un numero quadrato al successivo si effettua aggiungendo dei punti a destra e al di sotto del primo quadrato, formando una orlatura che veniva chiamata gnomone. Un’eco di questo modo di intendere il numero la si ritrova anche in un passo del Teeteto platonico (147e sgg.) in relazione alla distinzione tra numeri ‘quadrati’ ed ‘equilateri’, che risultano dal prodotto di un numero per se stesso, e ‘numeri rettangolari’, che risultano dal prodotto di due numeri diversi e sono pertanto assimilati alla figura rettangolare, la quale è identificata da  





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lati di lunghezza diversa. Sulla base delle testimonianze pervenute è possibile delineare schematicamente due assunzioni teoriche che caratterizzavano la matematica nella prima fase del pitagorismo : 1) il punto geometrico coincide con l’unità numerica ed è dotato di dimensione ; 2) tra A., e geometria sussiste una corrispondenza che riceve la sua fondazione nella rappresentazione figurata del numero. Una concezione del punto dotato di dimensione implica che una linea sia costituita da un numero finito di punti posti l’uno accanto all’altro. Se prendiamo una retta ab, formata da un numero definito di punti, e consideriamo am lungo la metà di ab, ne consegue che am deve necessariamente contenere un numero di punti pari alla metà del numero di punti contenuti da ab. Tutte le linee quindi dovrebbero essere commensurabili tra loro : due linee di qualsiasi lunghezza ammetterebbero sempre un sottomultiplo comune, cioè un segmento che, per quanto piccolo, sia contenuto esattamente un numero intero di volte in entrambe. Due linee avrebbero sempre come sottomultiplo comune minimo il punto, che è l’unità di misura a partire da cui si determina la lunghezza della linea, la quale contiene un numero intero di volte tale punto. Ad ogni segmento di retta è possibile associare un numero intero che indica da quanti punti essa è costituita, in conformità a quella coincidenza tra A., e geometria. Alla luce dell’impostazione aritmogeometrica elaborata dai Pitagorici, confrontando il lato con la diagonale, dovrebbe esistere un segmento che misuri entrambi un numero esatto di volte. Ma lato e diagonale di un qualunque quadrato sono tra loro incommensurabili : non esiste un’unità minima che, per quanto piccola, fino a coincidere con il punto stesso, sia contenuta esattamente numeri interi di volte sia nel lato sia nella diagonale di un quadrato. Come affermerà →Euclide, riprendendo probabilmente i risultati delle ricerche condotte dai matematici Teodoro e →Teeteto, « si dicono grandezze commensurabili quelle che sono misurate da una stessa misura, ed incommensurabili quelle di cui non può esistere nessuna misura comune » (Elementi, libro x, def. i, trad. L. Maccioni). Il confronto dell’ipotenusa di un triangolo rettangolo isoscele con uno dei cateti, della diagonale di un quadrato o di un cubo o di un pentagono con il rispettivo lato, dimostrano che non  











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arpocrazione

è possibile trovare nessuna unità di lunghezza che, per quanto piccola, misure entrambe le linee. In →Platone e in Aristotele la trattazione dell’incommensurabilità è sempre legata all’a., e alla geometria, come nell’episodio dello schiavo di Menone. I rapporti incommensurabili sono rappresentati da numeri irrazionali, ma la matematica classica non avrebbe mai potuto accettare tali grandezze. Esse erano noti già presso gli Egiziani e i Babilonesi e venivano prese in considerazione mediante approssimazione, sebbene mancasse la consapevolezza che queste approssimazioni non potevano esser rese esatte. In Grecia e per i Pitagorici soprattutto il termine numero indicava solamente numeri interi. Una frazione non costituiva un’entità unica, come nella matematica contemporanea, ma un rapporto o relazione tra due numeri interi. L’idea di rapporto tra linee incommensurabili non era esprimibile all’interno dell’impostazione della matematica pitagorica che, fondata su numeri interi o sui loro rapporti, non riconosceva nemmeno l’esistenza di tali entità. Non a caso i greci per denominare il concetto di ‘incommensurabile’ adoperavano la parola a[logo~, la quale non va intesa con il significato di ‘irrazionale’, ma di ‘inesprimibile’, nel senso che non c’è nessun lovgo~ che sia capace di esprimere tali grandezze. I numeri irrazionali sono ajriqmoi; a[logoi, cioè numeri inesprimibili e non pensabili. La matematica, almeno quella parte che trattava nozioni metriche e concetti di rapporto e proporzione, aveva difficoltà nel trattare gli irrazionali. La concezione del punto dotato di dimensione era incompatibile con il concetto di incommensurabilità. L’unico modo per superare la contraddizione consisteva nel ridurre il punto a zero, in altri termini nel considerare il punto senza dimensioni. La scoperta dell’incommensurabilità della diagonale e del lato comportò pertanto la distruzione della corrispondenza tra a., dei numeri interi e geometria. La geometria divenne di conseguenza una scienza teoretica e l’oggetto della sua ricerca assunse uno statuto epistemico ben preciso, esprimibile in due aspetti strettamente connessi : a) la considerazione razionale degli enti geometrici : punto senza dimensioni, linea senza larghezza, superficie senza spessore ; b) l’idealizzazione degli enti geometrici : punti, linee, triangoli, poligoni, cerchi sono enti immateriali. La scoperta dei rapporti incommensurabili costituì una conferma dell’opposizione tra il  







discreto e il continuo, la quale era una caratteristica già presente nella matematica greca. In epoca classica pertanto si compì la frattura tra a., e geometria : ciascuna disciplina iniziò a procedere in modo autonomo. I matematici operanti ad Atene, non riconoscendo tra i numeri anche le grandezze irrazionali, produssero una geometria puramente qualitativa. Essi respinsero qualsiasi riferimento di tipo materiale, espungendo dal rango delle scienze le discipline più pratiche come la logistica. Quest’ultima pur ponendosi come branca della matematica inerente allo studio dei numeri, si distingueva dall’a., per una esclusiva attenzione al calcolo. La sua funzione era prevalentemente pratica, in quanto indirizzata alla soluzione di problemi inerenti soprattutto alle attività commerciali. La svolta a livello teorico fu invece attuata dai matematici alessandrini, i quali inaugurarono una nuova tradizione nel pensiero matematico che per molti aspetti si riallacciava alle modalità seguite dagli Egiziani e dai Babilonesi. L’approccio verso le entità numeriche tuttavia non aveva una valenza esclusivamente tecnica ed empirica, ma si caratterizzava per una marcato indirizzo teorico. I numeri erano ormai considerati in quanto entità astratte dotate di specifiche proprietà che occorreva investigare e non si presentavano più vincolate ad un determinato contesto empirico e contingente. Studiosi del calibro di →Archimede e →Diofanto non esitarono ad usare gli irrazionali e ad introdurre i numeri per misurare lunghezze, aree e volumi. Specifiche branche della matematica come l’a., e l’algebra beneficiarono di un notevole lavoro sistematico di approfondimento ed organizzazione teorica. Il complesso dei problemi suscitati dagli irrazionali, posto in ombra dalla scienza classica, fu così oggetto di uno studio che produsse un incremento notevole nei settori della matematica riguardanti il calcolo.  

Edizioni. Diels-Kranz 1951-1952; Frajese-Maccioni 1970; Acerbi 2007b; Thomas 1967. Bibliografia. Heath 1921 ; Mugler 1958 ; Szabó 1978 ; Szabó 1994 ; Toth 1998.  







Piero Tarantino Arpocrazione. Scrittore di astrologia e delle virtù terapeutiche di piante, animali e pietre, autore, assai verosimilmente non prima del tardo sec. iv d.C., di un primo nucleo della reda-

artemidoro di daldi [1]

zione greca dei Ciranidi, in seguito tradotta in latino, nel 1169, e poi edita da Ruelle 1898-1899, che il dotto alessandrino avrebbe ritrovato in fantasiose circostanze iscritta su una stele siriaca tra le rovine della torre di Belturmes di Babilonia, sede dei re persiani, e avrebbe trascritto per la propria figlia, cui Harpocration dedica l’opera, in 4 libri. L’opera fu probabilmente elaborata da un originario Biblos apò Syrias therapeutiké, confluito nel primo libro dei 4 attuali, che elenca in ordine alfabetico una pianta, un uccello, un pesce e una pietra, dei quali vengono svelati i poteri terapeutici e magici ; ogni capitolo insegna anche la fabbricazione di un talismano. Gli altri 3 libri, che sono stati attribuiti a →Ermete Trismegisto (da qui la confusione tra i due nell’attribuzione dei Ciranidi), trattano, sempre in ordine alfabetico, delle virtù di quadrupedi, uccelli e pesci. Pietro Ispano, autore del Thesaurus Pauperum (1270), vi attinse copiosamente, e attraverso la sua opera i Cyranides influenzarono la medicina popolare europea. Pur liberamente rielaborate, molte tracce nell’opera lasciano presupporre l’uso di fonti comuni a Plinio e a Dioscuride.  

Note. [1] I problemi legati a quest’opera e ad Arpocrazione sono molteplici. Sembra esaustivo e convincente lo studio condotto recentemente da Bain 2006, con Premessa ; Trasmissione del testo ; Titolo ; Struttura, autore e composizione ; Caratteri e intensione dell’opera ; Fonti e tradizione parallela ; Compendium aureum ; Conclusioni e Bibliografia. Lo studio data i Ciranidi – e Arpocrazione – al tardo iv sec. d.C.  













Bibliografia. Bain 2006 ; Crismani 2002a, 92 e n. 168 ; Kaimakis 1976.

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da una fonte comune, ma tale opinione non è condivisa da tutti. [1] Arriano mostra grande dimestichezza con l’esercizio del comando e ciò sembra collimare con quanto sappiamo della sua personalità. È lui stesso infatti ad informarci che gli affari militari, insieme alla →filosofia e alla →caccia (cui dedicò un trattato), rappresentano uno dei suoi principali interessi (Cyn. 1, 4) ; inoltre la carica di legato della Cappadocia prevedeva anche il comando delle truppe di stanza nella regione. [2] Nel trattato vengono descritte le tattiche macedoni ed ellenistiche, ma anche gli esercizi della cavalleria romana, con una sezione di carattere storico ed un’altra in cui si accentua l’interesse per le pratiche militari contemporanee. In quest’ultima soprattutto emerge l’esperienza personale del comandante Arriano. Naturalmente la prospettiva dello scritto mira ad esaltare l’eccellenza dell’apparato bellico di Roma. La produzione letteraria arrianea nell’ambito militare comprendeva anche altri libri. Nella Ars tactica (32, 3) viene infatti menzionata un’opera incentrata sulla fanteria, di cui però non possediamo altre notizie, mentre ci è giunta in parte la Acies contra Alanos («La battaglia contro gli Alani»), in cui l’autore narra le proprie azioni contro il popolo degli Alani, colpevole di aver invaso il territorio imperiale nel 135.  





Note. [1] Vd. Dain 1946 ; Stadter 1978 ; Wheeler 1978. – [2] Vd. Pelham 1911.  

Bibliografia. Dain 1946 ; Kiechle 1964 ; Pelham 1911 ; Stadter 1978 ; Stadter 1980 ; Wheeler 1978.  





Daria Crismani Arriano. Flavio Arriano, nato a Nicomedia in Bitinia verso l’89 d.C., fu allievo del filosofo stoico Epittèto a Nicopolis e governatore della Cappadocia. Scrisse opere storiche, soprattutto la nota Anabasi di Alessandro, incentrata sull’ascesa e le conquiste del grande condottiero macedone. Ci interessa nell’ambito della letteratura militare come autore di una Ars tactica (tevcnh taktikhv), completata verso il 136/137, come è possibile ricavare dalla menzione dei vicennalia di Adriano, cioè il ventesimo anno di regno dell’imperatore (Tact. 44, 3). L’Ars tactica presenta molti punti in comune con l’opera di →Eliano (e con un’altra, le Definitiones), tanto che alcuni ne sostengono la derivazione





Francesco Fiorucci







Artemidoro di Daldi. 1. Cenni biografici. – Sono poche e, in gran parte, occasionalmente tramandate da lui stesso le notizie circa questo oniromante e scrittore vissuto nel secolo ii d.C. che, pur originario di Efeso, volle definirsi daldiano per glorificare, a suo modo, la piccola città della Lidia che aveva dato i natali alla madre. [1] Compì numerosi viaggi in Grecia, Asia e Italia, [2] allo scopo di apprendere conoscenze ulteriori rispetto a quelle offerte dalle fonti tecniche (di cui vantava perfetta padronanza), [3] dialogando con gli indovini che si esibivano nei mercati e nelle piazze, [4] ma anche per esercitare in prima persona (verosimilmente a beneficio di un pubblico selezionato) la particolare tipologia di →mantica fondata sull’interpretazione dei sogni. Non di rado descrisse vicende oniriche di atleti, dimostrando confidenza con l’ambiente  







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artemidoro di daldi

che orbitava attorno ai giochi ; ma dovette frequentare anche personalità di alto rango, quali il retore e precettore imperiale Marco Cornelio Frontone di cui riportò un sogno. [5] 2. Opere. – Di Artemidoro ci è giunto il trattato jOneirokritikav, «Libro dei sogni», le cui parti furono elaborate in tempi diversi. All’impianto originario, articolato in due libri (l’uno contenente le nozioni dottrinali, l’altro la casistica), ne fu ben presto aggiunto un terzo, più breve, per abbracciare profili fenomenologici dapprima trascurati. Anche a questo, come ai precedenti, l’autore appose una dedica a tale Cassio Massimo, da identificare con il filosofo Massimo di Tiro, che lo avrebbe incoraggiato e sostenuto. A seguito di nuovi rilievi di mancanze e lacune, [6] Artemidoro decise di aggiungere un quarto libro, rivolto al figlio suo omonimo per orientarlo verso la medesima attività professionale, dal carattere squisitamente esemplificativo e manualistico ; peculiarità anche del quinto e ultimo libro dove, raccontando novantacinque sogni, tracciò un pratico sistema di corrispondenze fra eventi e valori simbolici. Ma nel testo si fa vago cenno anche ad altri suoi scritti, riguardanti la stessa materia[7] o temi diversi. [8] La Suda (a 4025) gliene attribuisce uno sull’arte di divinare osservando il volo degli uccelli (Oijwnoskopikav) e uno sulla chiromanzia (Ceiroskopikav). Poiché quest’ultima appare inclusa tra le pratiche infondate e menzognere, [9] sono stati avanzati dubbi circa l’esattezza di tale asserzione[10] ; non si può, d’altro canto, escludere che fosse proprio una sorta di libello dai contenuti polemici. 3. Aspetti teorici. – In bilico fra l’antico solco della trascendenza e l’apertura a nuovi fermenti di spirito razionale Artemidoro, applicando forse un espediente letterario, narra che ripetute esortazioni a fare patrimonio scritto di quanto ricavato dall’esperienza gli sarebbero giunte, naturalmente nel →sonno, da Apollo Muvsth~ (così il dio era appellato a Daldi) ; [11] nel contempo non manca di sottolineare i vantaggi pratici che l’opera avrebbe comportato, a beneficio delle generazioni successive ma anche a difesa della bontà della divinazione in sé verso le critiche mosse dagli epicurei. [12] Sono quindi proposti vari criteri classificatori dei sogni, a partire dalla differenza tra ejnuvpnion, ‘visione’, e o[neiro~, ‘sogno’. Il primo non ha connotati mantici e risulta plasmato dalla realtà e dalle sensazioni da questa scaturite. Il secondo, definito « movimento o invenzione multi 



















forme dell’anima, che segnala i beni o i mali futuri », [13] ha invece significato profetico[14] e a sua volta può essere qewrhmatikov~ («conforme a ciò che si vede»), se offre una rappresentazione immediata e diretta di quel che sta per accadere, o ajllhgorikov~ («allegorico», «figurato»), qualora il presagio si manifesti tramite velami simbolici, ovvero enigmi da sciogliere[15] (proprio in tal caso necessiterà, dunque, di interpretazione). In termini tutt’altro che assoluti, anzi suscettibili di numerose eccezioni, può essere altresì qualificato come personale, impersonale o comune (se il protagonista è il sognante, una persona da lui conosciuta o un terzo ignoto), pubblico (se ambientato in luoghi della città) o universale (se vi appaiono corpi celesti o catastrofi di terra e mare). Presenta, inoltre, una caratterizzazione di massima positiva o negativa a seconda che sia concordante o discordante con sei elementi (natura, legge, uso, professione, nomi e tempo)[16] e in rapporto al numero e alla grandezza di quanto percepito durante l’avventura onirica. [17] Altri canoni distintivi concernono le relazioni fra i significati intrinseci e i segni che ne rappresentano il mezzo, ma anche fra le immagini e gli esiti della visione. [18] Nessun credito è prestato al →sogno incubatico, a proposito del quale i toni diventano sferzanti. [19] 4. Aspetti metodologici. – Sebbene Artemidoro manifesti il desiderio che la sua opera risulti di facile comprensione per chiunque, [20] fulcro della tecnica prospettata – che, con limiti non evitabili, a tratti mostra barlumi di preludio al metodo scientifico – è la figura dell’interprete. Questi non deve procedere in forza di conoscenze astratte e avulse dalla realtà[21] ma, viceversa, contestualizzare il sogno in funzione dei requisiti di colui che lo ha vissuto (dal ceto economico e sociale all’età e allo stato di salute) ; ciò in quanto il medesimo simbolo tende ad assumere significati variabili a seconda di chi ne è il destinatario. [22] Anzi può recare un messaggio diverso perfino allo stesso individuo, in virtù della mutata situazione in cui egli venga a trovarsi. [23] La trama va considerata nella sua esatta interezza, senza omissioni o aggiunte[24] (ma con l’avvertenza che talune immagini rivestono mera funzione decorativa), [25] procedendo dal principio alla fine o in senso inverso. [26] Occorre talvolta servirsi di analogie, antitesi, etimologie[27] o parole isopsefiche (nelle quali i valori numerologici corrispondenti alle lettere, addizionati, danno la stessa somma)[28] ; ma,  























asclepiade di mirlea nella sua essenza, « l’interpretazione dei sogni non è altro che accostamento di simili ». [29] In tale maniera Artemidoro giunge a non poche illuminazioni, empiriche e frammentarie ma pregevoli, circa le pur ignote e insospettate dinamiche dell’inconscio, specie a proposito dei sogni incestuosi[30] o dell’identificazione di figure autorevoli e divinità con i genitori. [31] Le sue pagine dipingono, inoltre, un vivace affresco della dimensione quotidiana e dell’immaginario collettivo durante l’ellenismo. 5. Fortuna. – Artemidoro subì un lungo periodo di oblio, cagionato dalla decadenza economica e culturale della grecità, sebbene i suoi insegnamenti permanessero di riflesso in schematizzazioni oniromantiche, sotto forma di prontuario, popolari ma prive di apparato concettuale e attribuite di volta in volta a personaggi improbabili come Daniele il Profeta, Niceforo e Germano patriarchi, il mago →Astrampsico o l’imperatore Manuele ii Paleologo. [32] Nel secolo ix Hunayn ibn Ishaq tradusse in arabo i primi tre libri di ’Oneirokritikav, che ottennero così notevole diffusione in seno al mondo islamico. Grazie al Codex Laurentianus (risalente al secolo xi e acquistato a Creta, con altri testi, da Iano Lascaris su incarico di Lorenzo il Magnifico) e al Codex Marcianus (trascritto da Michele Apostolio) l’Europa lo riscoprì, sull’onda dell’interesse per l’occultismo che rappresentò una significativa sfaccettatura della temperie rinascimentale. Fu pubblicato per la prima volta nel 1518, a Venezia, da A. Manuzio ; presto seguirono versioni in italiano, latino e altre lingue. In epoca più recente il pensiero artemidoriano è stato apprezzato, fra gli altri, da A. Schopenhauer, [33] S. Freud (che riconobbe e valorizzò l’intuizione del metodo associativo, sottolineando come differisse dal proprio essenzialmente perché applicato da un interprete anziché dal sognante guidato dall’analista)[34] e C. Musatti (che rimarcò i meriti pionieristici di alcune conclusioni, simili a quelle cui sarebbe approdata la moderna psicanalisi). [35]  















Note. [1] Artem. 3, 66 (vd. la traduzione di D. Del Corno, Artemidoro. Il libro dei sogni, Milano, 1975). – [2] Artem. 1 Prohoem. e 5 Prohoem. – [3] Artem. 1 Prohoem. – [4] Artem. 1 Prohoem. e 5 Prohoem. – [5] Artem. 4, 22. – [6] Artem. 4 Prohoem. – [7] Artem. 1, 1. – [8] Artem. 3, 66. – [9] Artem. 2, 69. – [10] Del Corno 1988, 148. – [11] Artem. 2, 70. – [12] Artem. 1 Prohoem. – [13] Artem. 1, 2. – [14] Artem. 1, 1. – [15]

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Artem. 1, 2. – [16] Artem. 1, 3. – [17] Artem. 4, 55. – [18] Artem. 1, 4. – [19] Artem. 4, 22. – [20] Artem. 3, 66. – [21] Artem. 1,9. – [22] Artem. 1, 12. – [23] Artem. 4, 27. – [24] Artem. 1, 9. – [25] Artem. 4, 42. – [26] Artem. 1, 11. – [27] Artem. 4, 80. – [28] Artem. 1, 11. – [29] Artem. 2, 25. – [30] Artem. 1, 79. – [31] Artem. 4, 69. – [32] De Sanctis Ricciardone 1987, 89. – [33] Schopenhauer 1993, 43. – [34] Freud 1988, 97-98. – [35] Russo 2003, 250-255. Bibliografia. Bender 1988 ; De Sanctis Ricciardone 1987 ; Del Corno 1988 ; Foucault 2001 ; Freud 1988 ; Guidorizzi 1995 ; Russo 2003 ; Schopenhauer 1993.  













Francesco Cuzari Asclazione. Astrologo vissuto intorno al I sec. d.C.. [1] Non senza qualche riserva, A. può essere identificato con un tale Ascletario che fu astrologo di Domiziano, del quale avrebbe previsto le modalità della morte. [2] Nonostante la fama, nulla è rimasto della sua produzione, tranne qualche giudizio.  



Note. [1] Gundel-Gundel 1966, 158-159. – [2] Svet. Dom. 15, 3. Bibliografia. Gundel-Gundel 1966, 158-159 ; Irby-Massie 2008, s.v. Asklatiōn, 169 ; Urso 2002, 113.  



Carmelo Lupini Asclepiade di Mirlea. Grammatico greco nato in Bitinia, visse tra il ii e il i secolo a.C. Si conoscono frammenti dei suoi scritti, riguardanti commenti ad opere poetiche (tra questi un commento all’Odissea e forse uno all’Iliade), trattati di grammatica, testi sulla storia locale della Bitinia e della Turdetania, della Galizia e della Catalogna, e un testo di natura antiquaria Sulla coppa di Nestore citato da Ateneo [1] Si sarebbe inoltre occupato anche di Pindaro, di Teocrito, di Apollonio Rodio e di Arato, sulla cui opera compose un commentario. Si interessò anche di astrologia, rivolgendo i suoi studi alle costellazioni (scrisse infatti un testo sulle Pleiadi) e pare che alla sua produzione astrologicoastronomica [2] abbia attinto Nigidio Figulo per la sua Sphaera barbarica. Note. [1] Ath. 11, 489 cd. – [2] Edd. Boll 1903, 543 sgg. ; F. Cumont, ccag V 1, 188, 11-23 ;  



Bibliografia. Gundel-Gundel 1966, 114 sg. ; Keyser 2008, s.v. Asklēpiadēs of Murleia, 171 ; Urso 2002, 113.  



Carmelo Lupini

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asclepiade di prusa

Asclepiade di Prusa. Asclepiade (Prusa, 130 ca. – 40 ca. a.C.) fu originario della Bitinia, in Asia Minore ; visse ad Atene e dal 91 a.C. a Roma, dove svolse la sua attività di oratore e di medico. Seguace della teoria atomistica di Democrito, si oppose alla teoria ippocratica dell’origine delle malattie che le voleva causate da un disequilibrio degli ‘umori’. Ritenendo il corpo composto di atomi separati da spazi vuoti (pori), dove si sarebbero mossi altri atomi, teorizzò che la malattia fosse causata dal disequilibrio tra atomi e pori : una eccessiva larghezza dei pori causerebbe pallore e mancanza di forze, mentre una loro ristrettezza rossore e calore. L’impostazione terapeutica si basava su massaggi, bagni termali, passeggiate e musica, con il ricorso raramente e in casi estremi a farmaci o al salasso (Sconocchia 2002c, 326-327). Fondò la scuola medica detta ‘metodica’ (→metodici), [1] le cui teorie furono poi elaborate da →Temisone di Laodicea. [2] Fu il primo a classificare le malattie in acute e croniche. Furono suoi pazienti anche Cicerone, Crasso e Marco Antonio. Della sua opera, scritta in lingua greca, ci sono pervenuti soltanto passi frammentari : sappiamo comunque dell’esistenza di 17 scritti, tra cui il Peri; ojxevwn paqw`n (Sulle malattie acute), il Peri; th`~ ajnatomh`~ kai; tw`n sfugmw`n (Sulla dissezione e sui polsi) oppure trattati di farmacologia come il Peri; stoiceivwn (Sui medicamenti semplici).  









Note. [1] Secondo diversi studiosi Asclepiade avrebbe anticipato alcune direttive fondamentali della scuola, il cui vero fondatore sarebbe tuttavia Temisone di Laodicea : cfr. Cels. med. Prooem. 11 / 18-19 M : […] donec Asclepiades medendi rationem ex magna parte mutauit. Ex cuius successoribus Themison nuper ipse quoque quaedam in senectute deflexit. Pare in effetti che Temisone si allontani da Asclepiade proprio per il superamento delle ‘cause nascoste’ e della teoria dei poroi e delle particelle (gr. onkoi). – [2] Vd. ancora Cels., med. Prooem. 54 /26 M : et quidam medici saeculi nostri sub auctore, ut ipsi videri volunt, Themisone, contendunt nullius causae notitiam quicquam ad curationes pertinere.

Asclepiodoto. Un’opera dedicata all’esercito è quella di Asclepiodoto, intitolata Tevcnh taktikhv. Dell’autore non sappiamo nulla e anche la sua collocazione cronologica è discussa. Soprattutto resta problematico il rapporto con →Eliano, il quale secondo alcuni [1] si sarebbe servito dello scritto di Asclepiodoto, secondo altri, invece, ne costituirebbe un modello. [2] Pertanto rimane dubbia l’identificazione del nostro personaggio con l’allievo di →Posidonio menzionato da →Seneca. [3] Asclepiodoto delinea nel suo trattato l’organizzazione interna delle truppe, distinguendo i vari tipi di corpi che compongono gli schieramenti, come per esempio gli opliti, i peltasti, la fanteria leggera, e indicando al contempo i differenti armamenti che caratterizzano ogni unità. Vengono anche trattate le formazioni da assumere sul campo o durante la marcia e le manovre da compiere, il ricorso a particolari strumenti bellici, come carri ed elefanti, sebbene entrambi considerati di impiego assai limitato. Di grande interesse risulta anche la discussione di termini tecnici utilizzati nel registro militare. L’opera si dimostra semplice e lineare: potremmo dire impostata sullo stesso ordine di quei reparti militari che si propone di descrivere.  



Note. [1] Oldfather-Oldfather-Pease-Titchener 1923. – [2] Loreto 1995. – [3] Vd. Sen. nat. 2, 26, 6 ; 2, 30, 1 ; 6, 17, 3.  



Bibliografia. Burckhardt 1997 ; Helly 1996 ; Loreto 1995 ; Oldfather-Oldfather-PeaseTitchener 1923.  





Francesco Fiorucci







Bibliografia. Green 1955 ; Gumpert 1794 ; Ihm 2005, 107-108 ; Mazzini 1997, 35-37 ; Nutton 1997l ; Rawson 1982 ; Sconocchia 2002c, 326-327 e 335 ; Vallance 1990 ; Vallance 1993.  















Fabio Cavalli

Assiomatica. 1. Le origini del pensiero dimostrativo. – Si intende per ‘sistema assiomatico’ un sistema di proposizioni, alcune delle quali hanno valore di principio ed altre di conseguenza, in modo tale che si possa discendere dalle prime alle seconde mediante dimostrazione. Con ‘assiomatica’ si intende l’insieme delle regole che costituiscono il sistema assiomatico. Per questo motivo al centro di un sistema assiomatico c’è l’idea stessa di ‘dimostrazione’. Almeno fin da →Aristotele la scienza greca aveva compreso distintamente come una dimostrazione possa esistere soltanto all’interno di un sistema, adeguatamente organizzato. Prima di Aristotele si assiste ad un progressivo confor-

assiomatica marsi dell’esigenza assiomatica nelle scienze, in particolare all’interno delle ricerche sulla matematica, lasciando che l’anima pratica e l’anima astratta si intreccino [→matematica, 2], tra loro e con il pensiero filosofico. Un posto di merito è occupato, in questo senso, dagli Eleati [→Parmenide, Melisso, Zenone], i quali hanno contribuito alla determinazione di una coscienza dimostrativa, e dagli Accademici [→accademia], i quali non esitarono a confrontarsi su questioni quali la distinzione da porre tra un principio e un teorema o tra un teorema e un problema. 2. Aristotele, l’assiomatica, la conoscenza scientifica. – Di certo un contributo insostituibile alla teoria assiomatica (o teoria della dimostrazione) si deve ad Aristotele. Negli Analitici Primi Aristotele si limita a esaminare la logica del ragionamento sillogistico [→sillogismo] e, pertanto, elabora una logica dei termini. L’opera in cui invece si preoccupa di comprendere come costruire un ‘sistema scientifico’ e, dunque, come sviluppare una qualche teoria della dimostrazione è gli Analitici Secondi : è qui che Aristotele si chiede come deve costituirsi ed organizzarsi un sapere capace di produrre dimostrazioni che diano certezza del dato acquisito mediante esse. Aristotele intende per ‘dimostrazione’ proprio il sillogismo scientifico (APo. 1, 2, 71b 18-19) [→sillogismo]. Esso è lo strumento che va utilizzato ed eventualmente adeguato all’indagine che si sceglie di compiere. Notoriamente i quattro tipi di indagine sono « to; o{ti, [1] to; diovti, [2] eij e[sti, [3] tiv ejsti[4] » (APo. 2, 1, 89b 24-25). Questi quattro tipi di problemi corrispondono in linea di massima a due tipi di oggetti di indagine : da una parte quelli che rimandano ad una pluralità di termini, dall’altra quelli rispetto ai quali si indaga semplicemente l’essere dell’oggetto (APo. 2, 1, 89b 28 sgg.). In altre parole risulta che il problema eij e[sti è riducibile al problema o{ti, e il problema tiv ejsti è riducibile al problema diovti : di certe cose si potrà sapere scientificamente che esistono e non altro (ad esempio, il Motore Immobile o i principi primi) ; di altre si potrà sapere anche il perché esistono (come ad esempio le eclissi o i terremoti). L’oggetto di scienza deve essere universale (APo. 1, 30, 87b 38-39) e al contempo deve costituirsi sul singolo oggetto concreto : il passaggio singolare-universale avviene mediante la dimostrazione (kaq’ e{kasta pleiovnwn). In altre parole, bisogna intendere  



















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l’universale, il kaqovlou, come ciò che si predica di più oggetti, diversamente dal singolare, il kaq’ e{kaston, senza intendere tale differenza come contrapposizione. Questo perché l’universale aristotelico va sempre riferito agli oggetti singoli (cfr. APo. 2, 13, 96a 20-96b 3), cogliendo in essi l’essenza : infatti la scienza, costruita su predicazioni, si muove necessariamente da ciò che permette la predicazione stessa, ovvero l’universalità dell’essenza. [5] Gli universali logici usati negli Analitici hanno il loro fondamento nelle essenze : l’universalità che va a costituire l’oggetto della scienza è l’universalità tipica delle essenze o sostanze seconde e che dunque è interpretabile sia intensivamente (nella unità specifica dell’essenza) che estensivamente (nella sua riferibilità ai molti), secondo una distinzione che Aristotele non possedeva. [6] La conoscenza scientifica impegna dunque un tipo di sapere che si risolve solo nella conoscenza di uJpavrcein mediati : è una conoscenza mediata poiché studia oggetti che non sono immediatamente intelligibili. Ma « ogni dottrina ed ogni apprendimento, che siano fondati sul pensiero dimostrativo, si sviluppano da una conoscenza preesistente » (APo. 1, 1, 71a 1-2). Per questo sono le premesse del sillogismo dimostrativo ad assumere un particolare interesse : esse devono essere « vere (ajlhqw`n), prime (prwvtwn), immediate (ajmevswn), più note (gnwrimwvtera), anteriori (protevrwn) e causa (aijtivwn) della conclusione » (APo. 1, 2, 71b 19-23). Non si può dare dimostrazione dell’essenza, ma, assumendo soltanto aspetti parziali di essa, la si può fare emergere mediante la dimostrazione. In particolare, nella dimostrazione emergeranno le cause dell’oggetto. Ciascuna delle quattro cause (formale, materiale, efficiente, finale) può essere assunta come medio dimostrativo, poiché ciascuna di esse può entrare in qualche modo in una relazione predicativa con il soggetto. [7] 3. Aristotele, la dimostrazione, il sistema e i suoi elementi. – Per garantire l’attendibilità delle dimostrazioni, Aristotele pensa ad un sistema entro il quale ogni dimostrazione deve svolgersi ; proprio perché ogni conoscenza muove da conoscenze preesistenti, occorre definire le premesse alla dimostrazione, i principi della scienza (propri e comuni), gli assiomi, ed anche le ipotesi, i postulati e le definizioni. I principi della scienza servono a distinguere il grado di generalità di una scienza, e sarà più rigorosa  























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assiomatica

la scienza che fa riferimento al minor numero di elementi. All’interno della singola scienza, vanno ulteriormente distinti principi propri e principi comuni (APo. 1, 10, 76a 37-38). I principi propri sono quelli di una singola scienza (APo. 1, 9, 76a 14-15) ; principi comuni sono quelli comuni a più scienze (APo. 1, 10, 76a 37-76b 2). Per quanto riguarda gli assiomi, il termine ajxivwma non è sempre usato in un senso tecnico rigoroso ; spesso ajxiwvmata ricorre semplicemente nel senso di ‘proposizioni’, come nell’espressione ta; koina; legovmena ajxiwvmata (APo. 1, 10, 76b 14) o ajxiwvmata d’ ejsti;n ejx w|n (APo. 1, 7, 75a 42). Il senso di questo uso degli ajxiwvmata si chiarisce quando in APo. 1, 10, 76b 14-16, viene esplicitamente detto che « gli assiomi che si dicono comuni » sono le « proposizioni prime » ; così anche in 75a 42, viene loro attribuita la possibilità di entrare in gioco nella dimostrazione poiché è da essi che la dimostrazione discende. Non è fatta menzione esplicita di quei principi che godono di così tanta evidenza da essere irrinunciabili : si tratterebbe dei principi primi di non contraddizione, identità e terzo escluso. Questi ultimi non potranno mai esprimere l’appartenenza di un predicato ad un soggetto di un genere specifico, poiché sono comuni a tutti i generi ; d’altronde questi non vanno esplicitati, perché « utili » alla dimostrazione sono solo quei principi che si possono applicare « al genere subordinato ad una data scienza » (APo. 1, 10, 76a 39-40). In APo. 1, 10 Aristotele definisce l’ipotesi come una premessa assunta senza dimostrazione ma comunque dimostrabile ; il postulato, di contro, è sempre assunto senza dimostrazione pur essendo indimostrabile, ma senza o addirittura contro l’opinione di chi impara (76b 27-34). La definizione è un’espressione che in modo immediato esprime l’essenza dell’oggetto in un rapporto convertibile di predicazione (Top. 1, 8, 103b 9-10) : ogni buona definizione si dice solo del suo definito, e per essere convertibile dovrà tenere in conto solo gli aspetti formali (universali) delle cose, e di certo non le cose nella loro singolarità. 4. Aristotele, l’induzione, la costituzione degli assiomi, il nou`~. – Da molti luoghi aristotelici sull’induzione risulta che essa è un processo tramite il quale si passa dal particolare all’universale, quasi una forma debole di intuizione ; nell’unico brano che Aristotele dedica precipuamente all’induzione (APr. 2, 23) questa è invece presentata come un sullogismo;ı ejx  































ejpagwgh`~ (APr. 2, 23, 68b 15), quasi che l’indu-

zione fosse un metodo per trarre conclusioni, contrapposto o in ogni caso in una qualche relazione con il sillogismo. Se dunque l’ejpagwghv debba situarsi al di fuori dell’ambito della scienza e in relazione con il nou`~, o possa essere ridotta a un ragionamento dimostrativo, è questione articolata. Uno snodo centrale del problema è sembrato vertere sulla questione se, in APr. 2, 23, l’enumerazione sia o non sia completa. Senza entrare nei dilemmi interpretativi che hanno attanagliato autorevoli studiosi, ci basti qui riferire che sembra potersi escludere l’enumerazione completa : Aristotele fa continuo riferimento ai singolari (nella predicazione) e ai singoli oggetti concreti (nella realtà), come se il processo conoscitivo sia certamente possibile ma solo fino ad un certo punto (APo. 1, 1, 71b 1-11) ; il sapere è per sua intrinseca natura qualcosa di continuamente ridefinibile. [8] L’enumerazione completa sarebbe impensabile anche perché mai si potrà disporre di un’infinità attuale di casi esperiti, e l’autore degli Analitici deve saperlo. Risultato dell’induzione sono i principi comuni della scienza, così come le definizioni degli oggetti complessi ed in genere ciò che è universale ; da qui si potrà procedere alle conseguenze in virtù della deduzione dimostrativa. Per questo possiamo dire che l’origine degli assiomi è riduttiva, ovvero ottenuta mediante il metodo analitico, che è un metodo di ricerca e dunque di riduzione di un problema ad un’ipotesi. L’induzione precede anche la costituzione di e[ndoxa, e colui che fa scienza lo sa bene, diversamente da chi invece non è sapiente e può però fondare la sua opinione su un innato senso comune. Gli e[ndoxa che forniscono le premesse alla scienza sono allora il risultato di un’induzione operata sui casi singoli ed osservata dallo scienziato (cfr. Top. 1, 2, 100b 21-23). In questo modo il nou`~ aristotelico coinvolto nella costituzione del sistema assiomatico della scienza (cfr. APo. 1, 23 e 2, 19) non è intuizione psicologica, non una facoltà innata, bensì una e{xi~, un habitus ottenuto mano a mano che si acquisisce e produce scienza. 5. Aristotele e la scienza come sistema aperto. – Il sistema assiomatico così come delineato da Aristotele si configura come analitico-deduttivo, assai vicino all’idea di un sistema ‘aperto’. Gli assiomi non vanno fissati una volta per tutte, sebbene ogni singola scienza debba  







assiomatica momentaneamente farlo per poter svolgere le deduzioni : ciò che è fissato sono in realtà soltanto i principi sommi (identità, non contraddizione, terzo escluso), mentre gli assiomi vanno ridefiniti sulla realtà stessa. In un sistema siffatto il rimando tra induzione e deduzione e tra intuizione e riflessione è continuo : così come in Aristotele non c’è astratto senza concreto, non c’è sistema senza realtà. Esempio supremo di scienza sistematica è la matematica [→Aristotele, 5]. 6. Euclide e l’assiomatica. – L’attuazione probabilmente più compiuta del sistema dimostrativo di Aristotele è riscontrabile negli Elementi di →Euclide. Il titolo stesso dell’opera sta ad indicare un sistema correlato di singoli componenti : « Il termine ‘elemento’ si può usare in due sensi, come dice Menecmo : secondo il primo, ciò che dimostra è elemento di ciò che è dimostrato, così come in Euclide la prima proposizione è elemento della seconda, e la quarta della quinta. Allo stesso modo molte proposizioni possono esser dette elementi le une delle altre, perché si dimostrano fra loro reciprocamente. […] Ma in un altro senso si dice ‘elemento’ la parte più semplice nella quale si risolve il composto. Peraltro non ogni cosa potrà esser detta elemento di un tutto, ma solo le più originarie fra le cose ordinate in ragione di un risultato, come per esempio i postulati sono elementi dei teoremi. È questo il significato di ‘elemento’ secondo cui Euclide ha coordinato gli Elementi, alcuni relativi alla geometria del piano, altri alla stereometria» (Procl. Comm. Eucl. 72, trad. Timpanaro Cardini). In senso moderno, ‘Elementi’ allude a un sistema di proposizioni legate e che si richiamano l’una all’altra. I tredici libri degli Elementi sono organizzati secondo modalità affini, mostrando innanzitutto il carattere rigorosamente deduttivo delle catene dimostrative. Il principio metodologico di fondo è quello di stabilire la validità di determinati enunciati sulla base di altri enunciati, mediante derivazione e deduzione. Proprio su questo versante va però specificato che Euclide è distante dallo Stagirita quando decide di tagliar fuori ogni riflessione epistemologica : Euclide è un matematico, e non è interessato alla comprensione filosofica dei principi su cui costruisce il suo sistema. Il sistema degli Elementi si articola secondo un ritmo affine a quello aristotelico : termini, postulati, nozioni comuni, problemi,  













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teoremi, quadrati logici. I termini (o{roi) sono in qualche modo l’equivalente delle definizioni aristoteliche : vengono esposti all’inizio di ogni libro o gruppo di libri ed hanno valore ‘descrittivo’, riferendosi agli oggetti sui quali verte la ricerca geometrica. Tali termini, cioè, non vanno ‘costruiti’ ma semplicemente ‘riferiti’, poiché già esistenti al di fuori dell’intelletto che li coglie. Talvolta, però, le scelte linguistiche di Euclide tradiscono scelte in qualche modo ontologiche : ne è esempio emblematico l’uso del termine shmei`on per indicare il ‘punto’ (def. 1, 1), quasi ad epurare l’ente da ogni connotato materialistico. Inoltre i termini a volte aiutano Euclide ad evitare di esplicitare situazioni non facilmente gestibili : ne sono un esempio le definizioni inerenti situazioni di tangenza (es. 3,2 e 3, 3), che consentono di evitare di chiarire il significato della continuità. [9] I postulati (aijthvmata) sono i principi propri di una singola scienza. I famosi cinque postulati di Euclide, dati nel i libro degli Elementi, sono (trad. Frajese-Maccioni 1970) : «- [Risulti postulato :] che si possa condurre una linea retta da un qualsiasi punto ad ogni altro punto ; - e che una linea retta terminata (= finita) si possa prolungare continuamente in linea retta ; - e che si possa descrivere un cerchio con qualsiasi centro ed ogni distanza (= raggio) ; - e che tutti gli angoli retti siano uguali tra loro ; - e che, se una retta, venendo a cadere su due rette, forma gli angoli interni e dalla stessa parte minori di due retti ( = tali che la loro somma sia minore di due retti), le due rette prolungate illimitatamente verranno ad incontrarsi da quella parte in cui sono gli angoli minori di due retti ( = la cui somma è minore di due retti)». Si tratta di proposizioni di carattere principalmente ostensivo e costruttivo. Il postulato più famoso è il quinto, detto anche postulato delle parallele [→geometria, 6]. A lungo Euclide evita il suo impiego : nel i libro viene utilizzato soltanto dopo la prop. 29 e comunque all’interno di un quadrato logico, come si dirà tra breve. Le nozioni comuni (koinai; e[nnoiai) corrispondono a quelli che Aristotele chiamava principi comuni a tutte le scienze o assiomi. Queste regolano solo l’uso e le proprietà delle grandezze geometriche. Di particolare importanza è la nozione vii (= cose che coincidono fra loro sono fra loro uguali), poiché enuncia  





















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assiomatica

la proprietà riflessiva, andando a giustificare il movimento rigido a cui spesso Euclide ricorre in sede dimostrativa. Negli Elementi, infine, non compaiono mai termini come qewvrhma e provblhma. Eppure sono le modalità dimostrative che il matematico utilizza che fanno pensare ad una consapevolezza di fondo tra enunciati che servono a risolvere (problema) ed enunciati di scoperta (teoremi). Molto diffusa, inoltre, è la dimostrazione per assurdo. Particolarmente interessante, come si accennava, è l’uso di quadrati logici [→logica, 3] per connettere proposizioni : laddove Euclide non può, o non vuole, avventurarsi con gli strumenti della geometria, ricorre alla logica proposizionale per sopperire alla mancanza di dimostrazione. È celebre proprio il caso del v postulato, utilizzato non prima della proposizione 29 nel primo libro degli Elementi, e giustificato solo all’interno delle relazioni logiche che legano alcune proposizioni del primo libro : ammettendo tale postulato come proposizione diretta, la prop. 1, 17 (che precisa che in ogni triangolo due angoli hanno somma minore di due angoli retti) è l’inversa, le proposizioni 27 e 28 (che deducono il parallelismo tra rette se queste, tagliate da una trasversale, formano due angoli la somma dei quali è due retti) sono le contrarie, la proposizione 29 (che assume il parallelismo tra rette e deduce la complementarietà degli angoli ottenuti tagliando con una trasversale le rette parallele) è la contronominale. [10] 7. Dopo Euclide. – La sistemazione assiomatica del sapere divenne patrimonio comune ai Greci : la veste dimostrativa deduttiva sarà utilizzata, almeno come termine di confronto, dalla quasi totalità della trattatistica scientifica (dalla logica stoica agli scritti di Apollonio o Archimede ed in generale di tutti i matematici, fino agli scritti di medicina e fisiologia di →Galeno). Ciò non significa che l’atteggiamento di fronte al sistema assiomatico non si sia evoluto o interrogato. Archimede nel Metodo approfondisce una modalità dimostrativa meccanica e non assiomatica che ottiene comunque una valenza euristica [→geometria, 7]. Anche modalità non assiomatiche, dunque, continuarono ad essere esercitate ed indagate. Ne è esempio la produzione di →Erone, che a fianco delle Definitiones compone opere di matematica non strettamente assiomatizzata (ad esempio i Metrica) o di meccanica ; Erone di norma non bada alla struttura dimostrativa ed astratta delle singo 









le proposizioni bensì scende nei dettagli delle applicazioni numeriche. Solo dopo aver risolto alcuni casi particolari e aver lavorato principalmente con le misure delle grandezze (e non con le grandezze stesse), il ‘meccanico’ procede alla dimostrazione generale, che viene data solo per poter essere poi utilizzata in qualsiasi calcolo particolare (cfr. la dimostrazione della cosiddetta ‘formula di Erone’, utile al calcolo dell’area di un triangolo qualsiasi date le lunghezze dei lati, Metrica 1, 4-8).[11] Note. [1] Che un oggetto è qualcosa, come ad esempio se il sole si eclissa o no. Significa stabilire se una certa cosa abbia o non abbia una certa determinazione predicabile. – [2] Perché un oggetto è qualcosa. Questo problema si può porre una volta che si sia stabilito che un oggetto si predica di una qualche determinazione, motivo per cui se ne chiede il perché della predicabilità (dia; tiv). Significa cioè chiedere la ragione di quel fatto. – [3] Se un oggetto è qualcosa, ad esempio se il centauro c’è. – [4] Che cos’è un oggetto, dal momento in cui so che c’è. Il problema può cioè ambire ad essere posto una volta risolto il problema eij e[sti. La domanda formulata nel problema tiv ejsti si riferisce non ad una determinazione qualsiasi dell’oggetto indagato, ma in relazione a quella serie di determinazioni che lo vanno a definire. – [5] Per comprendere in che modo tale riferimento all’essenza possa avvenire, va debitamente considerata la distinzione tra sostanza prima e sostanza seconda. La sostanza prima è il tovde ti, « questo qualcosa (determinato) », un sostrato cui ineriscono delle qualità, capace di sussistere in sé e per sé. Le essenze o sostanze seconde non autosussistono per sé anche se sussistono negli individui molteplici : nella nozione di essenza coesiste un aspetto intensivo (l’essenza può indicare una qualità) e un aspetto estensivo (l’essenza può indicare la classe a cui appartengono tutti gli oggetti che hanno quella qualità). – [6] In questo senso le essenze sono distinte dagli universali del pensiero, ma ne fondano la realtà : ciò è reso possibile solo da un ulteriore passaggio compiuto da Aristotele, che è quello della dottrina della materia e della forma (quindi della potenza e dell’atto) come dei costitutivi di ogni ente fisico, mentre l’ente logico e matematico è costituito dal solo essere in potenza. La necessità indagata dalla scienza è dunque di tipo essenziale, connessa all’essenza che rappresenta l’universale insito nei singolari, la loro perseità. Cfr. nota seguente. – [7] Aristotele esemplifica la causa materiale ricorrendo ad un esempio di geometria, relativo all’indagine per cui l’angolo inscritto in un semicerchio è retto (APo. 2, 11, 94a  







astrazione 28-34) : l’ente matematico, infatti, ha la sua materia nel suo essere ‘potenziale’, ovvero contenuto nelle premesse e dimostrato all’atto (Metaph. 9, 9, 1051a 29-30), per cui solo alla fine della dimostrazione emerge che l’angolo alla circonferenza è retto sebbene lo sia sempre stato – ovvero anche prima della dimostrazione stessa (cfr. Marcacci 2009, 199-201, 248-251). – [8] Cfr. le critiche aristoteliche alla reminescenza platonica in Arist. APo. 1, 2, 71a 29-71b 8. – [9] Il cosidetto ‘sesto postulato di Euclide’, non esplicitato ma utilizzato di fatto dal matematico. Cfr. Frajese 1968. – [10] Si cita anche il quadrato tra le proposizioni 7, 8, 9, 10 nel v libro e nel x libro la proposizione 5, che pone già in sé un quadrato logico, e il quadrato tra le proposizioni 5, 6, 7 e 8. – [11] Per maggiori dettagli Marcacci 2006.

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Bibliografia. Acerbi 2007a ; Acerbi 2007b; Agazzi-Palladino 1978 ; Barnes 2009 ; Basti 2002 ; Berti 1968 ; Berti 1984 ; Berti 2001-2002 ; Blanche 1968 ; Bochenski 1968 ; Bonola 1975 ; Cambiano 1967 ; Cattanei 1996 ; Cellucci 1967 ; Cellucci 2000 ; Dilgan 1960 ; Enriques 1919 ; Enriques 1925-1935 ; Frajese 1958 ; Frajese-Maccioni 1970 ; Franciosi 1979 ; Giustini 1974 ; Giustini 1982 ; Heath 1956 ; Heiberg 1969-1977 ; Knorr 1996 ; Knorr 1975 ; Lloyd 2007 ; Lolli 2005 ; Malatesta 1988 ; Marcacci 2006 ; Marcacci 2009 ; Mignucci 1965 ; Mignucci 1969 ; Mignucci 1975 ; Mignucci 2007 ; Mugler 1967 ; Netz 2003 ; Pagli 2000 ; Polya 1957 ; Revel 1999 ; Richard 1991 ; Russo 1992 ; Russo 1998 ; Sjöstedt 1968b ; Szabó 1964 ; Taisbak 1980 ; Toth 1997.  



























































































Flavia Marcacci Astrampsico. Noto mago persiano avvolto in un alone leggendario, il suo nome appare in una lista fornita da Diogene Laerzio. [1] Sotto il suo nome circolavano diversi scritti di natura esoterica, noti nell’antichità sotto il nome di Sortes Astrampsychi[2] collocati nel iii secolo a.C. Il testo, che spazia dalla numerologia all’astrologia, è costituito da una serie di domande, sistemate numericamente, con relative risposte (anche false) e rintracciabili attraverso un sistema di corrispondenze. L’opera è dedicata ad uno sconosciuto Tolomeo. [3]  



Note. [1] Diog. Laert. prohoem. 2. – [2] Edd. Browne 1983 e Stewart 2001. – [3] Stewart 2001, viii. Bibliografia. Browne 1983 ; Gundel-Gundel 1966, 157 ; Mac Cabe 2008, s.v. Astrampsykhos,174 ; Stewart 2001 ; Urso 2002, 113.  







Carmelo Lupini

Astrazione [ajfaivresi~]. Nozione che allude allo statuto ontologico e alla genesi degli enti matematici. In →Proclo si trova una distinzione che attribuisce a →Platone la dottrina per cui essi sarebbero separati nella sostanza, ad →Aristotele quella per cui sarebbero separati nella mente (kat’ ejpivnoian movnhn cwrivzesqai), agli stoici l’idea secondo la quale gli oggetti matematici esisterebbero solo nella mente (kat’ ejpivnoian […] uJfestavnai). [1] La classificazione procliana, pur nella sua sinteticità, riesce a cogliere la distanza tra il modello platonico di separazione e l’ajfaivresi~ aristotelico-stoica. Lo Stagirita respinge l’idea dell’autonomia ontologica degli enti matematici, ma sembra ammettere che tali oggetti risultino da una separazione gnoseologica e funzionale di determinati attributi dell’ente sensibile, che nella realtà concorrono a formare l’ente stesso e non sono, pertanto, realmente separati e separabili. Si tratterebbe, in altri termini, di un processo «per astrazione» (ejx ajfairevsew~), in virtù del quale il matematico prescinde da certe caratteristiche di un oggetto fisico e ne prende in considerazione altre. [2] Una radicalizzazione della dottrina dell’ajfaivresi~ sembra si ritrovi negli Stoici. Gli argomenti di quanti sostengono che, secondo Crisippo, gli enti matematici (ta; maqhmatikav) sarebbero puri entia mentis, fanno leva su una assimilazione dello statuto dei maqhmatikav a quello delle forme platoniche. Crisippo negherebbe statuto ontologico ai termini generali, pur non respingendo il loro valore gnoseologico : come concetti (ejnnohvmata), essi sarebbero gli oggetti che sovrintendono al pensiero ; ciò che è comune non è, tuttavia, dotato di esistenza, né come corporeo, né come incorporeo, ma rientra fra i «non-qualcosa» (ou[tina). [3] Non è mancato chi ha proposto di operare una distinzione, all’interno dell’ontologia matematica crisippea, fra lo statuto degli enti aritmetici e quello degli enti geometrici : linee e superfici sarebbero proprietà dei corpi, privi della sola esistenza per se, mentre i numeri sarebbero meri concetti. È, tuttavia, soprattutto in alcuni commentatori di Aristotele che la dottrina dell’ajfaivresi~ è presentata con una accentuazione della matrice ‘psicologica’ dell’origine degli enti matematici – dottrina, questa, che si avvicina più alla psicologia stoica che alla ge 











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astrolatria

nuina teoria aristotelica –, con il risultato che l’idea della selezione delle proprietà del sensibile è trasformata in un vero e proprio modello della produzione, da parte della mente, di ciò che nel sensibile non esiste se non in potenza. Mentre in Alessandro di Afrodisia l’astrazione continuerebbe a presentare, il più delle volte, i caratteri ‘deboli’ propri della visione aristotelica, è nello →Pseudo-Alessandro di Afrodisia, ma ancor di più in Siriano – autori di commenti ai libri xiii e xiv della Metafisica –, che l’ajfaivresi~ risulta decisamente orientata a esprimere una dottrina per cui gli enti matematici sarebbero prodotti dal solo pensiero. →Plotino offre una particolare interpretazione della dottrina dell’astrazione in relazione alla natura dei numeri. Accogliendo la distinzione fra numeri eidetici e numeri aritmetici [→numeri ideali e numeri aritmetici], egli ammette che questi ultimi, in quanto associati alle operazioni del contare da parte dell’anima, producono delle quantità e godono di proprietà, come la distinzione in pari e dispari, che non riguardano l’essenza degli enti a cui vengono applicati. [4] Il numero enunciato esteriormente sull’ente non è, però, il ‘vero’ numero : quando nel mondo sensibile si colgono degli oggetti in successione e si pronuncia il numero relativo a essi, il numero in questione non indica, diversamente dal numero eidetico, la loro sostanza (oujsiva) ; in tal senso la quantità e il numero aritmetico identificano il numero nel suo essere ‘astratto’ dall’essenza. La nozione di ajfaivresi~ conosce così in Plotino una singolare riformulazione nel rispetto dello spirito platonico : mentre per Aristotele l’astrazione comporta un riferimento a ciò che nel sensibile c’è già in modo mescolato, per Plotino, invece, essa è concepibile come un ‘prescindere’ dall’essenza dell’ente stesso. Riferimenti all’ajfaivresi~ non mancano in →Giamblico, allorché egli salda la difesa dell’autonomia ontologica dei ta; maqhmatikav alla critica della dottrina che afferma che gli enti matematici si ricavano per astrazione (kata; ajfaivresin) dai sensibili. [5] Ugualmente critico nei confronti della dottrina dell’astrazione è Proclo nel suo commento a Euclide.  





Bibliografia. Annas 1992 ; Barnes 1985 ; Cattanei 2003a ; Cleary 1995 ; Flannery 2003 ; Giardina 2000 ; Lear 1982 ; Mansfeld 1978 ; Mansfeld 1983 ; Mignucci 1987 ; Moukanos 1981 ; Müller 1990 ; Robertson 2004 ; White 1993.  

























Claudia Maggi Astrolatria. 1. Generalità. – L’a. è il culto degli astri intesi come manifestazioni divine. Questo culto si ritrova in quasi tutte le culture, ed è rivolto soprattutto all’adorazione del Sole e della Luna. Probabilmente sono stati gli sconosciuti autori dei disegni delle grotte di Lascaux, in Francia, a lasciare ai posteri la prima testimonianza antica, di oltre 16.000 anni, di mappe del cielo. Gli animali ivi rappresentati sarebbero, secondo recenti interpretazioni, le visualizzazioni pittoriche delle costellazioni, e lo stesso complesso delle grotte una specie di planetario preistorico. Ogni popolo sin dalla sua preistoria ha guardato al cielo affascinato da tutti quei fenomeni che non poteva spiegare razionalmente e vi vedeva significati differenti da epoca ad epoca, da civiltà a civiltà, proiettandovi i propri miti [→catasterismo] e spesso modificando concettualmente la struttura dei cieli per adattarla alla propria concezione cosmologica. Nell’antica India, per esempio, gli astronomi aggiungevano ai corpi celesti già noti un misterioso astro demoniaco chiamato Ketu e Saimhikeya, un pianeta invisibile





Note. [1] Procl. In Eucl. 89, 15-22 ; 91, 19-24. – [2] Arist. Metaph. 13, 2-3, 1076a 38-1078b 6. – [3] svf ii 278 ; 360-362. – [4] Plot. Enn. 6, 3, 13, 3-8. – [5] Iambl. Comm. math. 32, 8-40, 6.  



Fig. 1. Il faraone Amenofi IV (Akhenaton) in adorazione di Aton, il disco solare (Hornung 1998, 40, fig. 1).

astrolatria che è all’origine delle comete (Schleberger 1999, 155). I Cinesi vedevano nei cieli degli itinerarî stabiliti che ogni corpo celeste doveva percorrere, e così la Via Lattea era la ‘strada azzurra’, l’itinerario del sole ‘la strada gialla’, il movimento delle stelle nella volta celeste, invece, seguiva la ‘strada rossa’. Tra i miti e le credenze di alcuni popoli primitivi dell’Africa (pigmei) è suggestiva l’idea che le stelle non siano altro che frammenti di Sole derivanti dallo scontro dell’astro con le tenebre, ma questi frammenti finiscono sempre per ricongiungersi formando nuovamente il disco solare e vincendo, così, le tenebre. Questa idea della lotta tra l’oscurità della notte e il Sole, che ogni giorno rinasce vincitore, è tipica anche della religione astrologica degli antichi Egizî ; essi vedono nel Sole il principio fecondatore che, calando all’orizzonte, feconda il cielo e si autogenera. In Egitto il Sole rivestiva un’importanza tale che esso veniva chiamato in varî modi a seconda della sua posizione nel cielo : Kheper è il sole al mattino, Ra’ a mezzogiorno e Atum alla sera e l’Ovest, dove si vede calare l’astro, verrà successivamente assimilato al regno dei morti: tale è infatti il valore della parola copta nei testi gnostici. I popoli che celebravano il solstizio d’inverno condividevano la medesima idea del Sole sempre vincitore sulle tenebre ; tale prospettiva, invece, viene rovesciata dalle culture del Mesoamerica antico : secondo la visione pessimistica dei Maya, infatti, il Sole non è inteso sempre vincitore sulle tenebre, ma continuamente sconfitto e ingoiato dalle fauci di Xibalba, l’oltretomba governato dagli spiriti della malattia e della morte che si trovava all’orizzonte occidentale, dove sorge, in pieno territorio azteco, la grande piramide del Sole a Teotihuacan verso la quale si estendeva il lungo viale dei morti. Il movimento regolare delle stelle, il sorgere e tramontare del sole, le fasi lunari, le eclissi, il movimento dei pianeti e di altri oggetti celesti affascinava e ad un tempo intimoriva gli antichi osservatori del cielo. Ogni civiltà, dunque, ha proiettato nella volta celeste le proprie convinzioni, le proprie aspirazioni e vi ha visto le proprie divinità : la contemplazione del firmamento provocò nell’uomo la sensazione che, oltre al suo piccolo mondo limitato sulla Terra, ne esistesse un altro, infinito e inafferrabile : l’eternità. In seguito intuì che egli insieme alla Terra facesse parte integrante di quell’universo che pareva  











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esistere al di fuori di lui. Questa esperienza, in seguito, portò l’uomo a concepire la Terra come il centro dell’universo, e se stesso come il vertice della creazione in molte religioni. Fra i fenomeni osservati dall’essere umano ai primordi della sua evoluzione spirituale, scientifica e filosofica, fu soprattutto l’alternarsi del giorno e della notte. Questo grande potere dei cieli che alternava luce ed oscurità, calore e freddo, diede luogo a quel timore reverenziale che portò inevitabilmente alla divinizzazione del Sole (che persino nel Cristianesimo è considerato simbolo di Cristo), della Luna e dei pianeti. È dunque importante precisare che gli astri non sono oggetto di culto in quanto tali, ma in quanto manifestazioni di potenze divine. Questa natura divina degli astri (unita all’affascinante apparente regolarità dei moti celesti) portò gli uomini a concludere che negli oggetti celesti fosse scritto il destino umano e che fosse possibile leggerlo esaminando il loro corso, le loro qualità e il loro cambiamento. Fu così che dall’a. derivò l’→astrologia. 2. Il Vicino Oriente. – Le culture mediterranee e vicino-orientali in cui è maggiormente presente l’a. sono quella mesopotamica (sumerica e assiro-babilonese) ed egizia. I Sumeri, che precedettero, adorarono il Sole, la Luna, Venere e qualche altra stella. Quando i →Caldei, provenienti dall’Asia Anteriore, invasero la valle dell’Eufrate, si fusero con gli Sciti che vi dimoravano e quindi si stabilirono nella parte meridionale della Mesopotamia che da essi prese il nome (Caldea) ; fu nel corso di questo periodo, detto anche neo-babilonese, che la religione locale divenne astrolatrica dando, in seguito, luogo all’astralismo, come concezione del mondo, e all’astrologia, scienza mantica strettamente dipendente dallo studio del cielo. Generalmente, in queste culture orientali non solo le principali divinità finirono con l’identificarsi con i vari pianeti e costellazioni, ma l’idea stessa di ‘dio’ venne associata all’immagine della stella, come in(an, fatti testimonia il segno cuneiforme dingir in sumerico, ilu in accadico), derivante da un più antico segno ; in maniera analoga l’immagine della stella ricorre come determinativo nella scrittura egizia nelle parole che indicano quella parte del cielo che ha una stretta connessione con le convinzioni degli antichi Egizi riguardo al concetto di divinità e  



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astrolatria

di immortalità, come ad esempio il Dwat, oppure e anche , indiscritto cante l’oltretomba, la cui collocazione nel cielo corrispondeva grossomodo alla zona centrale delle costellazioni circumpolari, simbolo dell’eternità in quando non tramontano mai. Presso gli Egizi, inoltre, si consolida l’idea di uno stretto legame tra →microcosmo e macrocosmo, tra il cielo e la terra: ne deriva così un politeismo in cui gli astri sono manifestazioni di esseri onnipotenti che stabiliscono il destino degli uomini e delle cose terrene. Tuttavia il destino stabilito dalle divinità astrali non è del tutto immutabile; infatti è possibile all’uomo persuadere queste divinità a mutare i loro disegni mediante sacrifici, riti e incantesimi. A volte, invece, il ‘disegno’ dei cieli viene ribadito sulla Terra, e questo sembra essere il caso delle piramidi della piana di Giza, risalenti alla iv dinastia, la cui disposizione, con il Nilo a raffigurare la Via Lattea, sembra riprodurre quella delle tre stelle che costituiscono la ‘cintura’ della costellazione di Orione dove gli Egizî credevano risiedesse Osiride. 3. I Greci. – La cultura greca risente dell’influenza babilonese, penetrata in Grecia nel iv secolo a.C., cui conferisce però un maggior rigore logico attraverso la speculazione filosofica. Per esempio, la mistica del pensiero pitagorico cerca l’armonia del mondo rendendone partecipi gli astri, Platone attribuisce natura divina alle stelle, il mondo ellenistico vede il proliferare di una vasta letteratura magico-ermetica imbevuta di dottrine astrali che spaziano ampiamente anche nel campo dell’→alchimia. I Greci, che avevano mutuato dai Babilonesi una nomenclatura secondo la quale attribuivano ai pianeti nomi divini, originariamente si servirono di perifrasi con cui veniva sottolineato il fatto che un determinato pianeta era consacrato, ma non si identificava, col dio da cui prendeva il nome. Questa terminologia, del tipo oJ tou' Krovnou ajsthvr o più semplicemente oJ tou' Krovnou, andò gradualmente scomparendo e cedette il posto ad una forma abbreviata del tipo Krovno~, oJ Krovno~. L’identificazione di un pianeta con un dio reca con sé tutto l’apparato epitetico che accompagna il dio stesso ; già presso gli astrologi alessandrini la nomenclatura dei pianeti si accompagnava ad una descrizione del loro aspetto fisico, e così Urano-Saturno è  

il ‘luminoso’ (faivnwn), Zeus/Giove il ‘risplendente’ (faevqwn), Ares/Marte il ‘rosseggiante’ (purovei~), Afrodite/Venere la ‘portatrice di luce’ (fwsfovro~), Ares/Mercurio lo ‘scintillante’ (stivlbwn), ma il processo di attribuzione di determinate caratteristiche ad un astro si è snodato nel tempo attraverso procedimenti molto articolati. →Doroteo è l’autore astrologico in cui tale progressivo ampliamento epitetico si è realizzato più compiutamente.[1] La divinizzazione dei corpi celesti deve essere stata, nell’Egitto greco-romano, relativamente immediata e la repentina evoluzione della terminologia greca ne è una conseguenza ; un’ulteriore testimonianza viene da un papiro risalente all’81 d.C.[2] che contiene una breve introduzione alle conoscenze degli antichi Egizi e che definisce i sette pianeti come eJpta; qeoiv. Franz Cumont in uno studio ;[3] cerca di mostrare che tale trasformazione della terminologia non è semplicemente una semplificazione linguistica, ma la conseguenza di una evoluzione della concezione stessa dei pianeti che, in seguito all’affermarsi della dottrina stoica, sono ormai concepiti come divinità cosmiche. Nel mondo romano il poeta →Manilio, nel suo poema Astronomica, scritto tra il 9 e il 15 d.C., continuava a celebrare gli astri come divinità, contribuendo a fondere sempre più la mitologia con l’astrologia e le rappresentazioni degli dei con le immagini dello zodiaco. Similmente a quanto accadeva nel mondo greco, già in età repubblicana cominciavano ad essere usate le espressioni abbreviate Saturnus o Juppiter al posto di sidus Saturni e sidus Jovis. In età augustea venne introdotta la ‘settimana planetaria’ : una corrispondenza tra calendario e zodiaco, che riguardava non solo i giorni ma anche i mesi e le ore. Anche alle ore, infatti, viene attribuita una divinità diversa a seconda del giorno della settimana : il pianeta che governa un dato giorno amministra anche la prima ora dopo l’alba, mentre le ore successive sono governate dai vari pianeti che si susseguono sempre nell’ordine : Sole, Venere, Mercurio, Luna, Saturno, Giove e Marte. Macrobio fa alcuni cenni a queste corrispondenze ; ad esempio il dio/pianeta Marte, che in latino condivide la medesima radice mars col nome del mese di marzo, corrisponde all’Ariete che è appunto il segno zodiacale di marzo. Così anche aprilis, connesso con la parola greca ajfrov~ ‘spuma’,  









astrologia è difatti corrispondente a Venere che a sua volta è in associazione con il segno del Toro. Maggio, cioè maius, che ricorda il nome di Maia, madre di Hermes, è collegato al pianeta Mercurio che corrisponde al segno dei Gemelli, mentre giugno si riferisce al segno del Cancro, domicilio della Luna, perché associato a Giunone Lucina o lunare. Ianuarius ‘gennaio’, infine, deriverebbe da uno degli dèi più antichi e importanti dell’antichità romana : Giano (Ianus), divinità bifronte che guardava contemporaneamente al passato e al futuro e quindi simbolo di passaggio o cambiamento ; il suo nome, infatti, deriverebbe dalla radice indoeuropea *ei-, ampliata in *y-aa- con il significato di ‘passaggio’ (cfr. ianua). [4] Il tardo paganesimo concepisce addirittura una complessa teologia astrale che vede il Sole al suo apice, ipostasi dell’Essere Supremo. Nonostante la denominazione divina dei pianeti, nello Zoroastrismo e nel Mandeismo viceversa veniva attribuita loro una natura demoniaca e malefica ; giacché il loro movimento appariva irregolare se confrontato a quello delle stelle che si muovono all’unisono nella volta celeste, i pianeti finirono per incarnare il disordine cosmico in contrapposizione all’ordine rappresentato dalle stelle fisse. Tale concezione ricalca quella presente nell’Avesta nella lotta tra pianeti e stelle. [5] Lo Gnosticismo, infine, riprenderà molte di queste concezioni per inserirle in una visione astrologica basata su una concezione geocentrica dell’universo strutturato in cieli sovrapposti (sfere), ognuno dei quali è governato da una potenza soprannaturale identificata col pianeta di quel cielo ; per unirsi al corpo lo spirito (pneu`ma) deve arrivare sulla Terra e attraversare, una dopo l’altra, le sfere dei pianeti. In questa ‘caduta’ nel mondo sublunare, prima di penetrare nel corpo materiale, lo spirito riceve una specie d’involucro, il ‘corpo astrale’, che cresce al passaggio attraverso ogni sfera planetaria. Alla fine lo spirito risulta rivestito o, per meglio dire, ‘occultato’ da queste stratificazioni, che sono il presupposto delle corrispondenze cosmiche e delle influenze astrali riguardo al destino di ogni uomo.  











Note. [1] Radici Colace 1992a, 193-203. – [2] PLond. i 130. – [3] Cfr. Cumont 1938, 5-43. – [4] Dumézil 2001, 291. – [5] Raffaelli 2001, 20. Bibliografia. Bouché Leclercq 1899 ; Cumont  

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1937 ; Cumont 1938 ; Dumézil 2001 ; Festugière 1949 ; Hornung 1998 ; Radici Colace 1992a ; Radici Colace 1995 ; Raffaelli 2001 ; Schleberger 1999.  















Carmelo Lupini Astrologia. 1. Linguaggio e letteratura. – In un volume apparso qualche anno fa, dal titolo Il linguaggio dell’astrologia, Ugo Volli fa un’affermazione importante : è la definizione dell’astrologia come “macchina per produrre testi divinatori”, [1] un dispositivo linguistico che finisce per generare senso, e nel quale ogni epoca, ogni cultura ha lasciato il suo sedimento : la teurgia caldea, la dottrina egizia, il grande sforzo sistematico greco, l’elaborazione del mondo romano. Se un recupero in sede scientifica è pensabile per spiegare il segreto del successo e della fortuna di quella che non è una scienza, ma si è dimostrata nei secoli più longeva e resistente di una scienza, esso va cercato a mio avviso soprattutto nell’intendere l’astrologia come ‘testo’, come sistema di brandelli e frammenti di senso combinabili secondo gli schemi di una geometria accuratamente elaborata, ma in cui il gioco e la sfida sono costituiti soprattutto dalla possibilità di decodificare il percorso delle infinite analogie ed associazioni lungo le quali si è resa possibile una praticabilità del discorso astrologico. Questa dimensione ‘retorica’ investe tutti gli aspetti – composizione letteraria, creazione di una lingua speciale, tradizione/trasmissione – di quella letteratura che va sotto il nome di Astrologumena e richiede che sia posta attenzione particolare alla pratica della riscrittura, un concetto abbastanza studiato per quanto riguarda la parola letteraria ‘alta’, ma non riconosciuto nell’ambito della letteratura ‘altra’. [2] Riletti alla luce di questa categoria critica unificante, una specie di giustificazione metatestuale, si spiegano sia la continua e convulsa necessità di riciclaggio formale della materia astrologica, sia l’aspetto compilativo, irrinunciabile anche nei prodotti più ‘alti’, in cui lo statuto di manuale di lusso non poteva ignorare l’esigenza del pubblico di trovarvi dentro conglomerate tutte le dottrine, supremo pregio di ogni scrittura. 2. Gli albori della letteratura astrologica. – Che la materia astrologica avesse già una sua testualità prima ancora di formalizzarsi in una letteratura con statuto definito, è dimostrato dal fatto che le dottrine astrologiche fissate per  







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iscritto sono spesso attribuite ad un autore ‘divino’ o mitico, destinatario di una rivelazione, e che la culla di questo sapere viene collocata geograficamente in Egitto, patria ‘storica’ di molti autori, ma nell’immaginario ‘patria dello spirito’ di questo sapere. Non è un caso che gli Astrologumena ermetici, nei quali confluì un’imponente letteratura dai confini contenutistici e cronologici difficilmente definibili, giunta a noi in excerpta e riscritture, si riconoscano sotto un nome ambiguamente riconducibile a quello del dio greco Hermes a sua volta assimilato al dio egiziano Thoth, inventore della scrittura e di tutte le branche delle scienze e delle arti da essa dipendenti e simbolicamente collegate al tempio : una raccolta, probabilmente messa insieme da diversi sacerdoti egiziani ellenizzati o da Greci stabilitisi in Egitto, in un ambiente attraversato da un sincretismo culturale che assume sia la concezione orientale dell’identificazione dell’anonimo sacerdotescrittore (iJerogrammateuv~) con il dio stesso, sia la concezione mistico-salvifica dell’astrologia, intesa come sapere divino e segreto con cui conoscere il mondo, sapere occulto e settario, da tenere lontano da orecchie profane. A ciò si associerà nel tempo il topos della trasmissione da padre in figlio della letteratura ermetica [3] e la destinazione della manualistica ad astrologi di professione o praticanti astrologi. Al nome del dio della medicina, Asclepios, veniva collegata la letteratura iatromatematica, una branca applicativa dell’astrologia alla medicina ; ad Asclepios Hermes avrebbe dettato il libro sacro, cioè il catalogo dei decani e il libro con le sacre erbe siderali, che lo stesso avrebbe a sua volta dettato al medico →Tessalo in un tempio di Tebe in Egitto, alle origini della iatromatematica botanica. Il processo di identificazione degli archegeti delle varie specializzazioni dell’astrologia con un’autorità divina o regale cui ricondurre la paternità degli scritti è stato virtualmente infinito. L’→astrologo del 379 fa menzione di diversi re egizi che si occuparono di questioni astronomiche e astrologiche, a partire dalla creazione di una coppia re-sacerdote, →Nechepso (nome del leggendario faraone del vii secolo a.C.) e Petosiride, ‘dono di Osiride’, autori di un manuale di astrologia composto nel ii secolo a.C. secondo i modi e i canoni della letteratura rivelata che sfumano nella leggenda delle varie attribuzioni storiche. Ma la loro autorità dichiarata o implici 



ta (oiJ palaioiv, oiJ Aijguvptioi) di depositari dei segreti dell’interpretazione astrale comunicati loro direttamente da Ermes-Thoth [→Ermete Trismegisto] in una rivelazione epifanica, col motivo topico dell’ascesa al cielo nel corso di un’estasi, ha rappresentato un punto essenziale per dare credibilità a tutta la materia. A questo momento fondante della letteratura astrologica fanno riferimento con particolare insistenza autori d’età imperiale alla ricerca di una legittimazione forte, da →Manilio, che parla di « regales animi » cui sarebbero subentrati eletti sacerdoti (« delecti [...] sacerdotes ») a →Firmico Materno, per il quale Nechepso è l’imperator giustissimo e ottimo astrologo a →Manetone, secondo cui Petosiride avrebbe assommato su di sé la sapienza di Hermes e di Asclepios. Ancora nel i secolo d.C. a →Tessalo, autore di un erbario iatromatematico, reduce da insuccessi che lo avrebbero costretto a trasmigrare nell’Alto Egitto, sarebbe apparso il dio Asclepios per trasmettergli la verità sui pianeti e sui segni zodiacali. La medesima necessità di legittimazione e autorevolezza, che è responsabile anche dell’attribuzione di Astrologumena, chiaramente spuri, ad autorevoli filosofi quali Pitagora, Platone ed Aristotele ampiamente legittimanti, ha cercato alle sue origini, e non ha mai smesso di ricercare, per questa nuova materia che veniva dall’Oriente e che aveva profondamente cambiato il rapporto dell’uomo occidentale con il cielo, il prestigio della scienza regale e sacerdotale, depositaria degli arcani misteri dei destini degli uomini, custoditi negli scrigni siderali. Niente di sorprendente : per un popolo che ha immaginato il sommo dei suoi dèi scrivere nel cielo quasi in un rotolo di papiro senza fine e ha usato per le stelle gli stessi nomi delle lettere dell’alfabeto, lo ‘scrittore’ deve essere almeno un dio !  











Note. [1] Volli 1988, 18. – [2] Radici Colace 1997a, 9. – [3] Festugière 1950, 332.

Paola Radici Colace Astrologica, letteratura (Grecia). 1.→Doroteo di Sidone. – Autore che si colloca come ‘cerniera’ tra due periodi, nella fase di passaggio da una letteratura anonima, sentita ancora come rivelazione ed ammantata di autorità religiosa, a una vera letteratura astrologica, chiude l’epoca della letteratura apocrifa e ‘apocalittica’ delle prime generazioni

astrologica, letteratura (grecia) ellenistiche e dà inizio ad una vera ‘letteratura astrologica’, i cui autori sono ben individuati e danno il nome alle opere e alle dottrine. Pietra miliare nella storia dell’astrologia, →Firmico Materno (2, 29, 29) nel lodarne gli Apotelesmata scritti « verissimis ac disertissimis verbis » lo fregia del complimento di « vir prudentissimus » ed →efestione Tebano, oggi principale fonte dei suoi frammenti (ci ha conservato ben 365 dei 398 versi sopravvissuti), più volte, nel citarlo, sottolinea la fattura assai pregevole dei versi, tanto da ritenerli degni di essere citati integralmente a perpetuo ricordo. Si deve a lui un’opera che nell’antichità fu autorevole, indiscussa, preziosa, citata, riassunta e commentata nella tradizione greca (→Manetone, →Anubio, →Massimo, →Efestione, →Balbillo, →Retorio), romana (→Firmico Materno), bizantina (Iohannes Tzetzes e Michele Italico) ed araba, come dimostra il “textus Arabicus e fonte Pahlavico derivatus”, pubblicato da Pingree. [1] Il poema dal titolo Pentateuchos o Pentabiblos (destinato a divenire un cliché poi ripreso, pare, da →Tolomeo, autore di un’opera tramandata tra l’altro col titolo di Tetrabiblos), si presentava come una compilazione generale del sapere astrologico onnicomprensiva e completa. Di questo trattato in esametri, molto citato ed usato dagli astrologi di professione, rimangono oggi solo versi di tradizione indiretta, sopravvissuti in parafrasi senza fantasia e senza stile, oggetto di riusi frammentari e parziali : un testo la cui tradizione, ancorché perdente e rimasta fuori dai percorsi culturali tradizionali, è un classico esempio di come la materia astrologica si sia sempre prestata, ad onta della maggiore o minore autorialità dei testi, ad essere manipolata, sezionata, scomposta e rimontata, in un sistema governato da regole eminentemente retoriche, estremamente sensibili all’interesse e al livello del fruitore. Lungo il percorso della storia del genere che sarà permeato e intriso di associazioni, assimilazioni, conglobamenti, va dato sicuramente atto a Doroteo, unico poeta astrologico dello Späthellenismus, [2] di aver promosso l’operazione culturale di raccolta e sistemazione della materia astrologica in quello che quasi sicuramente è il primo manuale di astrologia, impreziosendo la materia con la nobilitazione poetica. I rudimentali canovacci ellenistici in prosa che raccoglievano pronostici e previsioni dovevano presentarsi in una  













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veste non dissimile da quella che, a partire da →Efestione in poi, assumeranno le varie parafrasi in prosa che ricicleranno camaleonticamente i contenuti espressi in forma poetica in una veste più adatta alla nuova utenza e nei quali il messaggio sopravvive grazie e a scapito della distruzione della forma, trasformata e piegata di volta in volta alle esigenze di un pubblico differente. [3] Nel raccogliere, sistemare e trasmettere il materiale preesistente, dovendo anche affrontare il problema dell’organizzazione in una forma poetica, Doroteo mette in piedi un sistema linguistico che costituisce idealmente insieme un punto di arrivo ed un punto di partenza. Il fatto che molti degli ejpivqhta ojnovmata da lui impiegati per la prima volta e di cui si ritrovano ossute e sintetiche liste messe in piedi da anonimi redattori, si ritrovino poi in autori successivi, fa sì che Doroteo, la cui influenza sulle generazioni posteriori è tanto acclarata a parole quanto poco indagata di fatto, vada indicato anche come il creatore o il sistematizzatore di un lessico astrologico che ha dato l’avvio, nei suoi inequivocabili messaggi sincretistici, a operazioni sempre più complesse e raffinate. La presenza in Doroteo dei nomi di Ares, Hermes, Cronos, Afrodite, Zeus accanto alla terminologia scientifica alessandrina e con gli attributi caratteristici del tipo epico, trasferisce nel cielo e nelle stelle tutto il patrimonio culturale del popolo greco, stringendo uno stretto rapporto tra macrocosmo e microcosmo, ma soprattutto dando origine al processo di divinizzazione degli astri che preluderà alla →astrolatria. 2. Efestione. – Un manoscritto della fine del secolo xiv, il Marc. Gr. 324, è il più antico dei famosi codici venuti fuori dall’atelier di Giovanni Abramio che contengono una compilazione di scritti efestionei frammisti a quelli di altri palaioiv. [4] Tali manoscritti sono molto interessanti perché costituiscono il più recente tentativo di antologizzazione e selezione combinatoria di un manuale, quello efestioneo, aduso nel tempo a tali trattamenti. Infatti già nel secolo ix Efestione era entrato a far parte di un’altra compilazione, quella che Boll [5] definì Syntagma Laurentianum, redatta a Bisanzio all’epoca della rinascita degli studi scientifici e pseudoscientifici. Un autore, Efestione, particolarmente esemplare per gli aspetti della composizione e della trasmissione dei testi astrologici, che fu in varie epoche non solo antologizzato,  



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astrologica, letteratura (grecia)

ma anche parafrasato ed epitomato, come mostra chiaramente il ii volume dell’edizione del Pingree [6] che raccoglie le Epitomae quattuor a loro volta destinate ad essere compendiate e ridotte – ultime testimoni di un lavorío di riscrittura che ha tallonato il testo sottoponendolo a continui rimaneggiamenti con la creazione di autonomi accorpamenti tematici e di sottoantologie – in un percorso ininterrotto di riusi. Il fenomeno non sarebbe in sé molto sorprendente, se lo stesso Efestione non si collocasse già, come compendiatore, rifacitore e parafrasta, in un punto della dottrina astrologica, dal quale assolve la funzione di conservazione a futura memoria (frequentemente infatti identifica uno degli scopi del suo manuale nella mnhvmh~ cavrin) di contenuti che ricicla nella sua nuova opera, salvandoli da sicuro naufragio. Infatti all’inizio del v secolo d.C., ancora nel clima di quella che Gundel [7] chiama “das Wiederauf blühen der Astrologie” e quindi sotto lo stesso stimolo culturale che nelle epoche a venire avrebbe prodotto la “Blütezeit” dei manuali di astrologia a Bisanzio (sec. ix) e nell’Umanesimo e Rinascimento (secc. xiv-xv), Efestione risponde alle esigenze di conoscenza del suo pubblico con un manuale astrologico, un ejgceirivdion, come egli lo chiama a dispetto del suo spessore, che costituisce il bacino di raccolta della dottrina astrologica precedente. Manuale di compilazione, dunque, ma diverso da altri testi consimili per la forte componente metatestuale che lo contraddistingue e che porta l’autore a soffermarsi più volte sulle finalità e sulle caratteristiche della sua opera. Nelle tre parti proemiali e in numerose puntate disseminate qua e là nel corso della trattazione, Efestione fornisce esplicitamente indicazioni precise sul suo sistema di lavoro : un autore prezioso, che ci consente di precisare alcuni punti della storia, tutta ancora da scrivere, della manualistica astrologica. Accanto al taglio e alla selezione, si registra la presenza di molti composti con sun-, quali ad esempio suvnqeta ed ejpisunavyai, verbo quest’ultimo che ricorre più volte e in varie forme a ribadire il concetto del ‘mettere insieme’, dell’‘aggiungere’, della ‘connessione’, e a ricordare costantemente al lettore questa volontà di farsi collettore di una dottrina vasta ed articolata, da cui è stato necessario sfrondare il troppo e il vano. Spia dell’intenzionale programma di adottare un sistema cumulativo è la chiusa del proemio del libro i, 8-9, dove la tassonomia dei  

composti con sun- è abbastanza elevata : ricorrono infatti uno dopo l’altro sunh`yan, suntavxewn, suntagmavtwn, suntomiva~. Un Leitmotiv che determina la presenza di tali termini in punti strategici e di cerniera del trattato, a ricordare che il campo dottrinario è polumerev~, cioè multipartito e quindi dusqewvrhton difficile da abbracciare in una visione d’insieme, raccontare e riassumere, e di conseguenza spiazzante per il lettore-destinatario, sempre presente all’attenzione dell’autore, che tenta in più punti tecniche di rassicurazione (kata; to; dunatovn, kata; to; ejndecovmenon). Che tipo di pubblico dobbiamo immaginare per questi prodotti ? Innanzitutto un pubblico interessato alla materia astrologica, presentata però in sintesi, in compendi. La trattazione è scandita dalla ricorrenza di termini quali suntomiva, suntevmnonte~, suntovmw~ che tranquillizzano il lettore fin dalle prime battute circa le caratteristiche di quella che viene definita una sunagwgh; tw`n para; toi`~ ajrcaivoi~ eijrhmevnwn. Una necessità di sintesi che fa apprezzare l’essenziale, punta a cose ojlivga kai; eujsuvnopta, cioè privilegia un ‘poco’ che coincide con un ideale di facilità di comprensione, velocità di visione d’insieme, e contemporaneamente aborrisce dal makrovn, cioè dal ‘troppo lungo’ : un timore sempre presente, che fa troncare all’autore un’esposizione per non fare troppo lungo l’uJpomnhmatismov~ e che alla fine del i libro fa concludere la trattazione con una frase che denuncia chiaramente la maggiore complessità nella dottrina degli ajrcai`oi, sulla quale però si è abbattuta la scure dei tagli dettata dalla consapevolezza che quanto detto « basta » (ajrkei`). Una tecnica dell’essenziale, che è responsabile anche di affermazioni quali ejpi; tosou`ton, che indica il punto in cui si è deciso di arrestare la compilazione, e kata; to; kefalaiw`de~, capitulatim, « per sommi capi », completate dal verbo uJpotupovw, che indica non l’esposizione completa ed esaustiva, ma l’« abbozzo ». Taglio, dunque, ed abbozzo, e rimessa in ordine (kata; tavxin), per capitoli (kefalaiw`de~). Ma quale tavxi~ e quale sistemazione in capitoli ? E come si costruisce lo statuto dello scrittore-compilatore ? Senza considerare altre fonti del manuale efestioneo di cui conosciamo poco (penso ai distici di →Anubio o alla fumosa dottrina dei palaioiv egiziani, sempre citati ovunque ma dei cui testi sopravvivono solo testimonianze frammentarie), per ricostruire le ragioni di questa riscrittura concentriamo la nostra at 





















astrologica, letteratura (grecia) tenzione sul modo in cui Efestione ha lavorato su due autori di cui conosciamo per altre vie abbastanza : →Tolomeo e →Doroteo. In altra sede ho dimostrato con analisi puntuali [8] che Efestione ha proceduto ad una soggettazione capillare delle fonti utilizzate, che risultano spezzettate e frantumate in ‘schede’ : il processo di riscrittura ha scardinato dunque prepotentemente l’impalcatura delle fonti, secondo una tecnica a volte ad incastro, a volte a salti, come si può vedere da numerose sequenze in cui lo spostamento dei ‘pezzi’ ha distrutto completamente l’ordine interno dell’opera utilizzata. Questo dimostra che la suntomiva, ossessione palese o nascosta di tutti i compilatori (adusi ad attingere a fonti differenti, pure in contraddizione tra di loro e destinati a loro volta ad essere disossati e riutilizzati), è davvero una tecnica scardinante della fisicità del testo e delle sue strutture originarie profonde, non solo della sua veste formale. Indagini sul sistema di lavoro dei compilatori sono dunque assolutamente necessarie per valutare in sede ecdotica i dati che essi possono fornire sulla sequenza delle opere da loro conservate per frammenti ed evitano il rischio di giurare acriticamente sul compilatore per ripristinare l’originaria collocazione di ogni singola citazione. A questo pubblico che il redattore del manuale cerca di agevolare quanto più può (kata; to; dunatovn, kata; to; ejndecovmenon), un pubblico difficile, che può sconvolgersi e disorientarsi (mh; tarattevtw mhdevna) per l’oscurità della materia, ma che può anche decidere di prendere le distanze da essa, ritenendo inutile (a[crhston) qualsiasi tecnica di previsione in un mondo governato dall’eiJmarmevnh, Efestione si rivolge, rassicurandolo fin dal secondo rigo del proemio del libro I, che il manuale ha come fine un’esposizione che faciliti al massimo l’intellegibilità della materia (pro;~ to; eujparakolouqhtovteron) e la conservazione della memoria (uJpovmnhsivn tina) del pensiero astrologico degli ajrcai`oi. La martellante presenza di espressioni quali oiJ pala 



ioiv, oiJ palaioi; Aijguvptioi, oiJ palaigenei`~ sofoi; Aijguvptioi, ta; palaia; suntavgmata, hJ tw`n palaiw`n mevqodo~, che si ritrovano continua-

mente in tutta l’opera, scandisce costantemente il ruolo di mediatore temporale, di raccordo culturale e di conservatore che Efestione si propone rispetto alla tradizione precedente, ma anche il ruolo di motore e di stimolo che le fonti antiche possono ancora assumere per la crescita della

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disciplina. Un recupero del passato, dunque, dal quale ci si può spingere (oJrmwvmeno~) verso il futuro, e che sublima lo sforzo del compilatore indicandolo come quell’importante cerniera che egli rappresentò per la conservazione di autori altrimenti perduti : →Doroteo, →Apollinario, →Nechepso e Petosiride, →Anubio, ma anche di autori, quali →Tolomeo, che non debbono ad Efestione la loro sopravvivenza, ma che evidentemente nel iv secolo erano di difficile lettura e comprensione e ai quali Efestione offre il carrello passe-partout di una più fruibile antologizzazione. Con le sue fonti il compilatore imbastisce un rapporto mantenuto sempre teso. Anche in questo caso, la lingua è molto significativa. La presenza via via di hJmi`n, hJma`~, oi\mai, nonché l’uso della prima persona plurale sono la spia linguistica di questa necessità di ritagliare per il compilatore uno spazio che non lo confonda con le fonti, che delimiti e definisca il suo intervento : un ruolo che non è solo quello del trascrittore, come qualche volta pure Efestione si definisce (prosgravfomen) o del semplice espositore (frequentissimo l’uso di ejktivqhmi e dei suoi composti), ma è anche il ruolo di creatore di dottrina nuova. Accanto alla diligenza di chi si propone di scrivere e riferire ejfexh`~, kata; tavxin e kata; to; kefalaiw`de~, fedele custode di una memoria importante, affiora la personalità di chi aggiunge la sua pei`ra, la sua esperienza diretta spesso espressa dal verbo prostivqhmi, che indica l’apporto personale di rincalzo e di completamento della tradizione o ribadisce il suo ruolo di agglomeratore e giustappositore di dottrine, ora riassunte (kata; Ptolemai`on, un autore che a sua volta aveva ordinato, rettificato, innovato l’ampia e contraddittoria tradizione precedente), ora citate integralmente, come nel caso di →doroteo, un autore che Efestione cita ad verbum, riassume o spiega (eJrmhneuvonta) o parafrasa (metafravsanta), ma che, guarda caso, aveva fatto anche lui il compilatore di dottrine altrui, e come Efestione aveva accostato fisicamente, materialmente (come indica il frequente uso del verbo e[kkeimai) il pensiero di una fonte a quello di un’altra. Lo dimostra la numerosa presenza negli esametri di Doroteo di a[lloi e a[llw~ – quasi un vezzo che accomuna questa letteratura alla scoliastica – frequenti nell’autore del i secolo come nei codici astrologici medievali e umanistici, il cui maggiore pregio era lo stesso dell’opera d’autore : l’accumu 





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astrologica, letteratura (roma)

lo di dottrine e di ricette prognostiche. Ma soprattutto si coglie in tutto il manuale la coscienza della distanza temporale, della responsabilità di una tradizione imponente ed autorevole, ma già stratificata e complessa, che va risistemata. Alla sunagwghv di Efestione fanno da sfondo, come in tutte le opere-contenitore prodotti di questa età tardoantica, [9] i vari suntavgmata dei palaioiv, cioè le varie raccolte preesistenti che si collocano lungo la scia di una tradizione che ha sempre conglomerato, antologizzato, ma che soprattutto ha spesso sentito l’esigenza di cambiare pelle, cioè di cercare, trovare, per i suoi contenuti, sempre nuove forme di aggregazione ed agglutinamento, adeguate ai nuovi sistemi di comunicazione. La ‘macchina per produrre testi divinatori’ è sempre stata in movimento : ad una stazione del v secolo Efestione vi monta sopra, con una valigia di dottrine che si fa carico di consegnare, a futura memoria, attraverso la composizione di un nuovo testo, ma anche attraverso gli epitomatori, compilatori e rifacitori che il suo stesso testo avrebbe avuto dal ix al xiv-xv secolo, alle generazioni successive: le quali, ogni tanto, hanno provveduto a cambiare la valigia, un po’ logora e forse anche fuori moda, salvando il contenuto in un nuovo contenitore, in una serie virtualmente infinita di riciclaggi testuali.  



Note. [1] Pingree 1976. – [2] Gundel-Gundel 1966, 117. – [3] Radici Colace 1988b, 22-23 ; 27-28 ; 128-131 e passim ; 1990, 50. – [4] Pingree 1971. – [5] Boll 1899. – [6] Pingree 1974a. – [7] GundelGundel 1966, 241. – [8] Radici Colace 1995. – [9] Radici Colace 1997d.  





Paola Radici Colace Astrologica, letteratura (Roma). Come quasi tutti i generi letterari, anche la letteratura astrologica a Roma si riconosce in modelli di scrittura greci : →Manilio ha ricevuto gli stimoli essenziali da →Trasillo ; i numeri Trasylli sono secondo Giovenale (4, 576) fondamentali per le decisioni astrologiche delle signore romane del ii secolo d.C., gli scritti di Trasillo sono sempre stati consultati nella tarda antichità a partire da Plinio che li cita nell’elenco delle fonti della Naturalis historia sotto la paternità dell’autore considerato un’autorità indiscussa. Ma se una valutazione complessiva va fatta, essa non può non condurre alla considerazione che l’impatto dell’astrologia a  



Roma fu più forte nell’ambito della vita quotidiana e della cultura in generale, che non nella produzione di opere strutturate importanti. Elencheremo qui alcuni dati che consentono di quantificare la penetrazione dell’astrologia nella vita di corte imperiale. →Balbillo, figlio di →Trasillo, godette dei favori di vari imperatori, che si avvalsero dei suoi consigli : fu al seguito di Claudio (41-54) e partecipò alla campagna in Britannia ; sotto Nerone (54-68), cui aveva predetto l’ascesa al trono (Tac. ann. 6, 22, 4 ; 14, 9, 2) divenne addirittura praefectus Aegypti (55-59) ; rimase presso la corte imperiale anche quando fu dichiarata l’espulsione degli astrologi nel 52 [1] ed infine Vespasiano accordò agli abitanti di Efeso di organizzare dei giochi che divennero famosi in suo onore. →Cheremone, iJerogrammateuv~ della somma classe sacerdotale ed autore di Astrologumena, fu chiamato a Roma da Claudio dopo il 49 per curare l’educazione di Nerone. →Asclazione, vissuto sotto Domiziano (81-96), è forse l’astrologo che ha predetto all’imperatore giorno e ora della morte prima del suo assassinio. →Antigono di Nicea è autore dell’oroscopo De principe dedicato all’imperatore Adriano. E non sono poche le opere dedicate ad imperatori, da →Manetone a →Massimo e a →Tessalo, autore quest’ultimo di un erbario iatromatematico, tramandato anche in una versione latina di Raimondo Lullo del xiii secolo in Spagna, indirizzato a Germanus Claudius o a Cesare Augusto. Per quanto riguarda le opere, l’ancoraggio ai modelli greci (cfr. la traduzione catulliana della Chioma di Berenice di Callimaco e i Catasterismi metrici di Calpurnio Pisone) spiegano ampiamente le caratteristiche rivestite dal genere a Roma. Di esse può essere rappresentativa l’opera di →Firmico Materno, autore di un manuale astrologico in un secolo, il iv d.C., che vede il rifiorire della scrittura astrologica, quasi assente nel iii, dominato dall’auctoritas indiscussa di →Tolomeo e dall’invasione dell’astrologia in tutti gli aspetti della vita sociale, politica, religiosa ed intellettuale dell’impero. Come peraltro per tanta parte dell’astrologia greca, l’importanza della produzione del iv secolo a Roma non consiste in creazioni originali, ma nella conservazione della tradizione preesistente. L’opera è dedicata all’amico e protettore Lolliano, cui Firmico promette che scriverà in un manuale intitolato Libri della Sapienza « quello  









astrologiche, metafore che gli antichi Egizi, uomini sapienti e divini, e i sagaci Babilonesi » hanno trasmesso sulle dottrine ispirate sulla potenza e gli influssi astrali. Il repertorio delle fonti, mescolato in differenti dosaggi, è sempre lo stesso, →Nechepso e Petosiride, →Tolomeo. Riprendendo il PrimusMotiv, topico di una letteratura latina che si era sempre costruita sullo schema dei corrispondenti modelli greci, Firmico si vanta di essere stato il primo a trattare la materia astrologica in lingua latina, in una scrittura che congloba e mette insieme trattazione e polemica contro gli avversari, filosofia e astrologia, e risolve sincretisticamente, in senso stoico e neoplatonico, il problema del determinismo e della libera volontà, senza entrare in contraddizione con il cristianesimo. Ad un punto ben avanzato della parabola, è però sorprendente constatare come sopravvivano e siano ancora efficaci i tabù delle origini ellenistiche : al principio del libro vii, Firmico non dimentica di impegnare, come un vecchio sacerdote egizio, il destinatario alla segretezza dell’opera, che non deve essere partecipata ai non iniziati, e di ribadire la funzione sacerdotale dell’astrologo. Segno che l’orologio cosmico, pur attraversando lo spazio e il tempo, non si è fermato solo per le stelle, ma anche per chi dei loro misteri scrive !  





Note. [1] Cramer 1950.

Paola Radici Colace Astrologiche, metafore. 1. Presenza in cielo. – In quella macrometafora che vede il cielo come un ‘doppio’ della terra, un verbo proprio dei rapporti sociali dell’uomo, suggivgnomai (‘conversare’, ‘essere in amicizia’, ‘avere frequentazione con qualcuno’) viene assunto come vox technica nel lessico astronomico-astrologico. Ma è importante vedere come intorno a questo verbo si sia andata costruendo una word family in cui l’appartenenza alla lingua comune è stata disambiguata mediante l’uso di uno o più prefissi, che non solo hanno marcato l’ingresso del radicale nella lingua speciale, ma hanno consentito un rapporto più stretto tra parola e cosa, contribuendo ad illustrare i momenti della ‘presenza’ (paragivgnomai), della ‘precedenza’ (progivgnomai), della ‘presenza con avvicinamento’ (prosgivgnomai), della ‘compresenza’ (sumparagivgnomai), della ‘compresenza con avvicinamento’ (sumprosgivgnomai). 2. Levata. – In relazione ad un altro momen-

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to di ‘lettura’, importante nella pratica predittiva, la lingua tecnica, pur partita dalla base della lingua comune, in cui tevllw e ajnatevllw erano usati, tra l’altro, per indicare il sorgere di un astro o del sole o della luna, si appropria del radicale tecnicizzandolo attraverso una serie di prefissi e suffissi. Vengono così fuori, sul generico ajnatevllw, i termini tecnici ajnatolhv e ajnatolikov~, ejpitevllw ed ejpitolhv (‘levarsi’, ‘levata’), ejpanatevllw ed ejpanatolhv (‘levarsi’, ‘levata’ del sole), paranatevllw e paranatolhv (‘levarsi’, ‘levata’ simultaneamente), proanatolhv (‘sorgere prima’ di un astro), sunanatevllw, sunanatolhv (‘sorgere insieme’, ‘levata insieme’), uJpertevllw (‘sorgere su’, ‘emergere su’, detto a proposito del sole). 3. Avanzamento, salita. – Anche il generico bavsi~, che indica il ‘camminare’, l’‘andatura’, l’‘incedere’, il ‘passo’, riguadagnato al lessico astronomico-astrologico con un significato equivalente ad wJrovskopo~, trova un’ulteriore ridefinizione nei composti che descrivono il passaggio degli astri come ‘salita’ di un solo astro (ajnavbasi~) o di più astri insieme (sunanabaivnw) o come ‘entrata’ (e[mbasi~), fino a raggiungere il suo trionfo barocco nella creazione dei doppiamente composti ejpevmbasi~ ed ejpembaivnw, molto frequente il primo, misconosciuto nel suo tecnicismo il secondo. Questi ultimi, pur nelle differenti sfumature semantiche (‘tempo di transito di un pianeta in un segno’, o ‘entrata della luna in una costellazione’) descrivono immaginificamente, pur nella loro estremizzata tecnicità, il levarsi di una stella con la bella metafora della ‘salita su un carro’. Ma il grado massimo di presa diretta è raggiunto dal radicale di baivnw nei participi ormai antonomastici Katabibavzwn e ’Anabibavzwn (sott. suvndesmo~), che designano il ‘nodo discendente’ e il ‘nodo ascendente’ dell’orbita lunare. 4. Levata e tramonto, orbita e posizioni. – Ad un’altra esplosione di prefissi è affidato il compito di tecnicizzare, descrivendolo analiticamente nelle sue varie differenze (levata e tramonto, orbita e posizioni) e scandendo la differenza in stelle maggiori da una parte e sole e luna dall’altra, quell’aspetto che nella lingua comune era il semplice ‘portarsi’ delle stelle, affidato al radicale del verbo fevrw : ajnafevrw e ajnaforav (‘levarsi’, ‘levata’), katafevrw e kataforav (‘tramonto delle due stelle maggiori’), ejpanafevrw ed ejpanaforav (‘occupare la posizione seguente un kevntron’), metaforav (‘fase luna 

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astrologiche, previsioni

re’), ejpikataforav (‘inclinazione al tramonto’), proanaforav (‘xii luogo del circolo della Natività), periforav (‘orbita’, ‘moto di rivoluzione’), sunepifevrw (‘proiettare raggi benefici’). A que-

sti composti con prefissi vanno aggiunti altri tipi di neoformazioni quali fwsforevw, fwsforiva, doruforiva (e il suo opposto concettuale, se non grammaticale, ajdorufovrhto~), diavforo~, ijsanavforo~, zwovforo~, qanathvforo~, descrittivi di varie specificità dei corpi celesti. Essi puntellano le tappe di un processo linguistico generale che, attraverso l’applicazione a radicali comuni di diversificatori, trasforma a poco a poco il movimento astronomico in uno specifico messaggio di predizione astrologica, quasi un ‘portarsi’ che diventa un ‘portare’, e rappresentano il lento e penetrante processo con cui la materia astrologica ha costruito, oltre ad una sua propria formalizzazione letteraria, anche un suo proprio linguaggio. Paola Radici Colace Astrologiche, previsioni. 1. Astrologia catarchica. – L’a. c. ribaltava il principio generale dell’astrologia genetliaca (vd. infra, 2), per la quale l’uomo è soggetto agli influssi astrali. Grazie alla teoria delle electiones (katarcaiv), l’astrologo indicava il momento più favorevole per compiere un’azione, sottraendosi all’egemonia degli astri e intervenendo sul destino dell’individuo. 2. Astrologia genetliaca. – Praticamente sovrapponibile all’astrologia individuale (vd. infra, 3) essa è uno dei tre rami dell’astrologia secondo una classificazione introdotta dai Greci che comprende anche l’astrologia oraria e l’astrologia medica (vd. infra, 4). L’a. g. si basa sull’osservazione delle posizioni dei pianeti nel momento e nel luogo di nascita. Questa forma di astrologia ha origine presso i →Caldei intorno al ii millennio a.C. Lo spazio zodiacale entro il quale si muovono gli astri è diviso in dodici parti, suddivisione questa che deriva dal numero di plenilunî che è possibile inserire in un anno stagionale. In questa suddivisione spazio-temporale l’esistenza di ciascun essere vivente, in particolar modo al momento della nascita, sotto l’effetto di una data influenza o dominio, diviene soggetta al tipo di natura caratterizzante quel determinato corpo celeste[1] spesso inteso come una vera e propria divinità con caratteri

proprî [→astrolatria]. La natura e la virtù di ciascun pianeta e il modo in cui gli esseri umani ne sono influenzati è materia di un vasto compendio di astrologia compilato da →Retorio, astrologo greco del vi secolo d.C. Si tratta di una visione che è giunta fino ai nostri giorni e che già in passato ebbe una grande fortuna presso gli Gnostici, in quanto essi scorgevano in tale dottrina il modo in cui le potenze soprannaturali che governano i varî cieli (a[rconte~) condizionano l’esistenza degli esseri umani soggiogandoli e costringendo la loro essenza spirituale (pneu`ma) a rimanere invischiata nella materia. 3. Astrologia individuale. – L’a. i. si basa sull’osservazione delle posizioni planetarie, del Sole e della Luna al momento della nascita o del concepimento ed è presumibilmente stata originata da una concezione deterministica del Cosmo. Anche se si ritiene comunemente che l’astrologia abbia avuto origine in Mesopotamia, probabilmente l’a. i. oroscopica si è sviluppata in Egitto, in età ellenistica. Partendo dall’analisi di testi ellenistici, W. e H. G. Gundel hanno raccolto diversi indizî relativi al fatto che tale forma di astrologia sia nata in Egitto, e tra questi testi v’è un’ampia raccolta dal titolo Hermetica, un manuale redatto dallo stesso faraone Nechepso [→Nechepso e Petosiride] (che ha governato l’Egitto dal 677 al 672 a.C. circa) con la collaborazione del suo Gran Sacerdote Petosiride. [2] L’osservazione dei movimenti celesti rapportati al destino dell’uomo conduceva all’idea che la sorte di ciascun individuo sia tutta già scritta al momento della nascita. Niente illustra questa tesi meglio di alcuni versi degli Astronomica di Manilio : Fata regunt orbem, certa stant omnia lege/, longaque per certos signantur tempora casus : [3] una radicata e diffusa visione fatalistica che verrà contestata dal filosofo umanista Marsilio Ficino. 4. Astrologia medica. – Nota anche come ‘iatromatematica’, l’a. m. è una disciplina astrologica secondo la cui dottrina gli astri del sistema solare avrebbero un’influenza diretta sullo stato di salute dell’essere umano e creerebbero delle predisposizioni verso determinate malattie. Gli astri hanno poi influenza diretta sulle varie parti del corpo [→melotesia zodiacale] e questo è un aspetto che riveste un’importanza fondamentale nell’ambito della medicina legata all’astrologia. Questo sapere astrologico ha  





astrologiche, previsioni origini antichissime. Già in passato era noto che questa scienza era di totale dominio degli Egizî ; nell’ambito della mitologia egizia si fanno ampî riferimenti al dio Thoth [→Ermete Trismegisto], cui si fa risalire la paternità delle arti e delle scienze, compresa quella di curare e guarire gli ammalati con l’aiuto dell’Astrologia, e gli stessi astrologi erano considerati pari ai medici. →Tolomeo, che ebbe il merito di aver integrato la cultura ellenistica con quella orientale del suo tempo, conferma queste notizie dichiarando nel Tetrabiblos che solo gli Egizî potevano praticare la medicina astrologica, poiché solo loro ne conoscevano tutti i segreti. Il fine di questa disciplina consisteva nello scoprire e prevenire malattie e disordini : il medico studiava l’oroscopo del nativo per valutarne potenziali aree di malattia. L’oroscopo però non produce diagnosi, bensì favorisce delle intuizioni sulla costituzione e la reattività del soggetto in cura; inoltre veniva inteso come valido strumento per cercare di capire la psicologia generale della persona. 5. Astrologia universale. – L’a. u., a differenza dell’astrologia genetliaca o individuale (vd. supra, 2, 3), che indaga il destino di ogni singolo individuo, si occupa del destino collettivo di intere nazioni o popoli. La suddivisione tra astrologia individuale e universale trova una solida base teorica nel Tetrabiblos, in cui viene costruito un complesso sistema di corrispondenze tra moti celesti ed eventi terrestri in ogni ambito della vita individuale e collettiva. Relativamente a quest’ultima, si evince che gli influssi celesti possono interagire con qualunque aspetto della collettività : eventi naturali, politica, navigazione, agricoltura, scoperte, salute pubblica, etc. Interessante a tal proposito è il ii libro dell’opera di →Tolomeo dedicato alla corrispondenza tra grandi epidemie e posizioni degli astri : si ribadisce che un determinato influsso celeste si combina in terra con le condizioni particolari di un certo luogo, per cui potrebbe essere in qualche modo agevolato, limitato o in parte modificato nel suo effetto : «ci sono eventi che coinvolgono gli uomini in virtù di circostanze generali indipendenti dalle loro particolari caratteristiche : come quando muoiono in massa per incendi, pestilenze, inondazioni, provocate da complesse inevitabili modificazioni dell’ambiente ; la causa minore soccombe sempre a quella maggiore e più potente […]. È evidente che quando  













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la causa prima di un evento, generale o particolare, è predominante e superiore ad ogni forza contrastante, l’evento necessariamente si verificherà». [4] In questo modo si riesce a dare un’agevole spiegazione a diverse obiezioni quali, per esempio, quelle di Cicerone riguardo alla medesima sorte che hanno avuto tutti coloro che sono morti nella battaglia di Canne, pur avendo certamente oroscopi individuali diversi ; [5] tuttavia, ricordando la questione sollevata da Carneade nella sua polemica contro l’astrologia, rimaneva indimostrabile il fatto che due gemelli avessero destini differenti pur nascendo nello stesso giorno e ora. Accade spesso, poi, che l’effetto di un influsso celeste sia favorito da situazioni terrestri : per esempio doveva apparire ovvio che in seguito ad una guerra, quando i corpi insepolti dei morti rilasciano nell’aria le esalazioni nocive della →putrefazione, l’ambiente era predisposto allo sviluppo di una →pestilenza o altre infezioni. Tale conseguenza poteva essere amplificata in concomitanza della congiunzione di astri come Marte e Saturno, considerati a partire dal Tetrabiblos, come ‘pianeti malefici’, e ancora peggio se alla congiunzione di questi due si aggiungeva Giove che, col suo influsso caldo-umido, favoriva il diffondersi dei miasmi. Altro tipico tema di a. u. è la visione di un mirabile segno celeste, che avrebbe annunziato la nascita o il pronunciamento di un personaggio il quale avrebbe modificato le sorti di un popolo o addirittura di una intera civiltà, per esempio la venuta di un Messia in Israele annunciato dall’apparizione di una stella. È probabilmente quest’ultimo il caso in cui siano state vaste fasce popolari, munite di fervida immaginazione e animate da grandi speranze, e non elevate caste di astrologi e sacerdoti, a trasfigurare un rarissimo e per certi versi inquietante fenomeno naturale, anche se segnalato con buon anticipo dagli astronomi, nel clamoroso annuncio del Regno di Cristo che avrebbe guidato le sorti del mondo nei secoli avvenire. 6. Astrologia zodiacale. – L’a. z. si basa sull’osservazione dei moti degli astri e i loro rapporti lungo lo zodiaco, la fascia della sfera celeste che contiene i percorsi apparenti di Sole, Luna e dei principali pianeti, suddivisa in dodici parti uguali (segni zodiacali). Secondo l’a. z. l’anno inizia nel punto in cui il piano dell’eclittica interseca il piano equatoriale terrestre nell’equinozio di primavera, quando il Sole si sposta  





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astrologici, compendi e compilazioni

nell’emisfero settentrionale della Terra. Tutti gli elementi ‘fissi’ del cielo, come le stelle, rivestono scarsa importanza, infatti l’a. z. si concentra solo sugli elementi mobili, i pianeti, e dunque non vi è corrispondenza tra le costellazioni realmente osservabili in cielo e i segni zodiacali, per cui l’entrata del Sole in un segno ha molto spesso una valenza teorica o simbolica e non scientifica. Già presso i Babilonesi tale sistema era un metodo per osservare il passaggio del tempo, un calendario suddiviso in dodici parti, suggerito molto probabilmente dal ripetersi ciclico di dodici cicli lunari in un anno, da cui deriva la suddivisione della sfera celeste in dodicesimi. L’a. z. fa largo uso di concetti simbolici. Per esempio l’ariete corrisponde all’inizio dell’anno all’equinozio di primavera ; il gambero che indietreggia, raffigurazione del segno del cancro, rappresenta la ‘ritirata’ del sole dal suo punto più settentrionale nel solstizio d’estate ; il leone, con la sua criniera dorata che simboleggia il fuoco, rappresenta il caldo estivo ; la bilancia corrisponde all’equilibrio (uguale durata) tra notte e giorno nell’equinozio d’autunno ; lo scorpione, simbolo di oscurità, allude al declino del Sole ; l’acquario portatore d’acqua corrisponde alla stagione piovosa o all’inondazione stagionale dei fiumi, come nel caso del Nilo in Egitto ; i pesci simbolizzano il ritorno della vita e il nuovo inizio dell’agricoltura. Oltre a questi significati i simboli zodiacali hanno anche delle strette corrispondenze con le parti del corpo umano [→melotesia zodiacale] e per questo esercitano uno specifico influsso su ognuna di esse.  











Note. [1] Cfr. Aveni 1994, 164-165. – [2] GundelGundel 1996, 40. – [3] Manil. 4, 14-15. – [4] Feraboli 1995, 25. – [5] Cic. div. 2, 97 sgg. ; 2, 95 sgg.  

Bibliografia. Aveni 1994 ; Bezza 1995 ; Bouché Leclercq 1899 ; Faracovi 1996 ; Feraboli 1995 ; Festugière 1949 ; Gundel-Gundel 1996 ; Pingree 1997 ; Rampino Cavadini 1989 ; Veneziano 2005.  

















Carmelo Lupini Astrologici, compendi e compilazioni. 1. Le trasformazioni del testo : riassunti, excerpta, parafrasi, riciclaggio testuale. – È sorprendente constatare come, nella produzione di testi astrologici, le stesse regole sostengono la ‘scrittura d’autore’ e i ‘palinsesti’ anonimi che nel tempo hanno riciclato il materiale nelle varie forme assunte dalla letteratura strumentale d’uso : ri 



assunti, parafrasi, metafrasi, commenti. Vero e proprio strumento di penetrazione in ambienti diversi da quello originario, queste forme di scrittura testimoniano l’esistenza di una tradizione varia ed articolata, permettono di rilevare direttrici e qualità di fruizione delle opere e consentono di cogliere, nei vari momenti, differenti livelli e fasce di utenza, che vanno dalla veste poetica a quella prosastica, a più gradi espressivi, in un percorso che nella via della tradizione/trasmissione ha sacrificato l’autorialità della scrittura all’interesse per i contenuti, validi per la loro autonoma efficacia. Quasi tutti i maggiori autori di opere astrologiche, in versi e in prosa, hanno avuto le loro riscritture, che si lasciano catalogare in un ampio ventaglio di categorie, qui senza alcuna pretesa di esaustività rappresentate per specimina. 2. Da versi in prosa. – →Doroteo (i d.C.) fu ampiamente citato ed escerptato da →Efestione (v d.C.) e dai suoi epitomatori. →Anubio (ii-iii d.C.), autore di un poema astrologico in distici elegiaci, pervenuti in frammenti tràditi anche nell’opera in poesia di →Manetone, riusato da autori più tardi, fu parafrasato in prosa. →Ammone (iv d.C.), autore di Katarcaiv in esametri, fu parzialmente riportato in prosa, per quanto riguarda la dottrina dei nodi lunari, da un anonimo bizantino. 3. Compilazioni in poesia. – Tra le compilazioni in poesia figurano gli Apotelesmatiká di Manetone (ii-iv d.C.), manuale astrologico in sei libri per più di tremila esametri (tra cui sono inglobati anche distici elegiaci di Anubio), dei quali sono incerti la cronologia, la struttura, la composizione e la stessa identità dell’autore. Il nucleo originario apparterrebbe all’età di Adriano, la redazione conclusiva al iv secolo, sebbene il fenomeno di destrutturazione e ristrutturazione dei contenuti in nuovi raggruppamenti abbia precocemente interessato la trasmissione del testo. [1] →Antioco di Atene (ii sec. d.C.) attinse a →Ermete, →Nechepso e Petosiride, fu a sua volta utilizzato da Efestione e dal cosiddetto Palco, ed infine trascritto e parafrasato da →Retorio e →Porfirio. →Tolomeo (ii d.C.), autore di un testo considerato sacro, citato e usato da tutti gli autori successivi, per limitarci alle riscritture dirette, fu commentato da →Porfirio, filosofo neoplatonico del iii secolo d.C., autore della Introduzione alla Tetrabiblos, in cui si limita a spiegare, integrandole, le parti dell’opera troppo  

astrologici, compendi e compilazioni sintetiche o comunque oscure ; riassunto, epitomato e parafrasato da Efestione (v d.C.) e dai suoi epitomatori ; parafrasato da →Proclo (v d.C.). →Paolo di Alessandria (iv d.C.), che nella sua Introduzione all’astrologia cita come fonti i ‘sapienti egiziani’, Ermete Trismegisto, →Apollinario, Apollonio di Laodicea, Tolomeo (forse ha anche utilizzato Antioco), fu commentato nel vi sec, d.C. dal cosiddetto →Eliodoro. Retorio (vi d.C.) autore di un’ampia compilazione tràdita col significativo titolo di Tesori, per cui ha attinto ad un vasto repertorio per lo più mediato da compilatori precedenti (Paolo Alessandrino, →Giuliano), fonte di →Teucro di Babilonia, Antioco di Atene, →Critodemo ed Anubio, fu a sua volta escerptato ed epitomato in età bizantina. Per quanto riguarda le riscritture →Vettio Valente (ii d.C.), autore molto prezioso per la sua attitudine a citare letteralmente le fonti, è stato a sua volta oggetto di riscritture : Additamenta antiqua e Appendices medievali del x-xii secolo sono pubblicate da Pingree, [2] ampie parti sono state riscritte da Saumaise. [3] 4. Rielaborazioni. – Dell’opera di Apollonio di Tiana (i sec. d.C.) è pervenuta solo una rielaborazione in senso cristiano. [4] Nell’ampio manuale di astrologia, collettore di materiali probabilmente attinti indirettamente da compendi, attribuito al cosiddetto Palco, si conservano frammenti e rielaborazioni di molti testi precedenti, greci e arabi, tra cui anche excerpta da Teofilo di Edessa. 5. Traduzioni. – Doroteo fu tradotto in arabo. Di →Ipparco di Nicea è conservata in arabo un’opera, ancora inedita, dal titolo I misteri delle stelle. Un ramo della tradizione di Vettio Valente è presente in codici arabi. Frammenti della tradizione di Antioco si ritrovano in ambito arabo. 6. Riciclaggio testuale. – Può essere esemplificativa di questo intenso riciclaggio la vicenda del poema Sulle iniziative di →Massimo, [5] rielaborazione nel iv secolo, nella forma nobilitante dell’epica didascalica, di contenuti relativi a previsioni spicciole di fruizione popolare già circolanti in prosa. Di questo testo sono stati rintracciati ben quattro diversi momenti parafrastici, che hanno attraversato secoli e culture. Nel ix secolo, in piena rinascenza degli studi scientifici e pseudoscientifici a Bisanzio, e nell’ambito del vivace interesse per la letteratura astronomica e astrologica sorto attorno  













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alla personalità di Leone il Filosofo, oltre alla trascrizione del manoscritto contenente il testo, L (Laur. Gr. 28.27), è stata messa in piedi una parafrasi in prosa, Paraphr.1 [6] compresa nel Syntagma Laurentianum e pervenuta in M (Laur. Gr. 28.34) e in una serie nutrita di altri manoscritti (28) : a volte sotto il nome dell’autore, più spesso in sezioni anonime, anche ristrutturate in altre antologie (ad esempio la compilazione della scuola di Giovanni Abramio, xiv-xv secc., intitolata jEk tw`n ÔHfaistivwno~ tou` Qhbaivou ajpotelesmatikw`n kai; eJtevrwn palaiw`n). Oltre a questa riduzione, il testo è stato riassunto anche in Paraphr. 2, una riscrittura particolarmente importante perché presuppone un testo di Massimo più ampio di quello a noi pervenuto tramite L, nel quale originariamente erano comprese tutte le descrizioni relative alla posizione degli astri e ai calcoli astronomici. [7] Al n. 30 dei testi di Michele Italico editi da Gautier [8] figura una lettera – prima attribuita ad un anonimo grammatico bizantino vissuto ai tempi dell’imperatore Alessio Comneno – contenente una parafrasi della sezione V (Matrimonio) di Massimo, realizzata con l’intento di sciogliere le difficoltà della metrica che caratterizzava l’originale (i{na dialuvsw to; mevtron eij~ lovgon pezovn), Paraphr. 3. Nel xii secolo, in una Introduzione all’astronomia e all’astrologia in versi politici dedicata all’imperatore Manuele Comneno (1143-1180) Giovanni Camatero mette in piedi un compendio di astronomia, astrologia, etnografia ; qui sono riciclati, assieme agli autori maximi dell’enciclopedia astrologica (Efestione, →Lido, Giovanni, Retorio, Tolomeo, →Eratostene e Clodio Tusco), anche gli esametri di Massimo, [9] ennesima camaleontica trasformazione di un testo che, considerati i materiali di partenza e le due redazioni (maior e minor), con questa giunge, almeno per quanto ci è attestato, al numero di sette riscritture. 7. Aspetti sociali delle riscritture. – Fenomeno non meno interessante è l’esistenza, frequente, di più di una redazione parafrastica, realizzata in momenti cronologicamente distanti e per destinatari diversi per cultura e ambiente sociale. Questo proliferare di riscritture non è senza significato, ma fa intravedere una differente articolazione di interessi, la creazione di sempre nuovi ed autonomi accorpamenti tematici, di sottoantologie che vanno studiate, oltre e prima che dal punto di vista filologico, da quello della storia della cultura, al cui inter 







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astrologici, manoscritti

no, soprattutto per il contenuto spicciolo delle

katarcaiv, possono diventare un test piutto-

sto importante per individuare orientamenti, esigenze di assoluto, necessità di certezze di un’epoca che, benché in parte all’ombra della Chiesa, si rivolgeva all’astrologia della specie più popolare con un interesse notevole. 8. Nuove soluzioni ecdotiche. – La serie di riusi e riscritture, l’esistenza di più momenti parafrastici, il travaso del testo in vari codici e la presenza di un brulicare di varianti in morceaux anonimi disseminati in manoscritti antologici e miscellanei, non servono solo per descrivere e definire i connotati di questa letteratura : restituendo i testi alla dinamica dell’uso, queste specificità impongono anche di rivedere gli schemi ecdotici, costruiti su una letteratura più autoriale e adatti per risolvere i problemi di una trasmissione ‘verticale’, inadeguati pertanto, nella loro ingessata staticità, a gestire la produzione, anche in rami molto alti della tradizione, di massicce varianti di trasmissione orizzontale e la coesistenza di una pluralità di redazioni parallele, difficilmente rendicontabili nella gerarchia degli apparati. Si impone dunque la necessità di cercare nuove soluzioni editoriali e di sperimentare l’unico sistema ecdotico che ci sembra idoneo a formalizzare i rapporti complessi e complicati che si intrecciano tra questi tipi di testi ad incastro, di volta in volta contenitori e fonti : un’edizione informatica, che consenta di attivare e visualizzare immediatamente nella pagina virtuale la varietà di rapporti che ogni singolo segmento intreccia con questa specie di macrotesto che, al di là delle singole opere e dei singoli autori, è stata l’astrologia.  



Note. [1] Radici Colace 1990, 1993b. – [2] Pingree 1986. – [3] Salmasius 1648. – [4] Ccag vii, 175-181. – [5] Radici Colace 1986, 1988b, 23-30 ; 127131. – [6] Radici Colace 1988b, 60-125. – [7] Radici Colace 1988b, 27-28. – [8] Gautier 1972. – [9] Weigl 1908.  

Paola Radici Colace Astrologici, manoscritti. Chi ha pratica di manoscritti astrologici, soprattutto di epoca umanistica e rinascimentale, sa che la caratteristica fondamentale di tali prodotti librari è costituita da una direi quasi esasperata antologizzazione, da una volontà, cioè, di riunire, agglomerare, conglutinare quanta più materia

è possibile, in una scansione della dottrina secondo schemi che tengono conto, in maniera brutalmente sintetica, di un ordine interno al compilatore della raccolta che ha completamente polverizzato, ridotto in pillole essenziali, il testo originario. Un fenomeno di riscrittura che, quand’anche non fosse responsabile della nuova formalizzazione del testo antologizzato, è tuttavia responsabile, per ogni singolo codice, di un sistema di accorpamento che ha sminuzzato e tagliato in maniera assolutamente unica, sì da fare di ogni singolo manufatto un prodotto globalmente a sé stante. [1] Anche se alla fine, con molto sforzo, si possono individuare alcune antologie originarie, da considerare alla base della tradizione di questo tipo di ‘prodotti’, è pur vero che per scelte di autori e dottrine, per la sequenza differente in cui repertori anche simili sono disposti, per quantità di testi tramandati, ogni manoscritto astrologico medievale ha, come prodotto librario, una sua incontrovertibile unicità : l’amanuense ha riscritto l’enciclopedia del sapere astrologico con interventi massicci e pesanti, non si è cioè limitato a ‘trascrivere’, ma ha messo in piedi una silloge una tantum. A questa estrema vivacità compilativa corrisponde anche una impressionante quantità di prodotti immessi, per così dire, sul mercato. Nel 1898, a Bruxelles, F. Cumont dette inizio alla pubblicazione del Catalogus Codicum Astrologorum Graecorum, completata nel 1953 : sono dodici volumi, molti dei quali in più tomi, che biblioteca per biblioteca, nazione per nazione, presentano il censimento dei codici astrologici oggi esistenti : una massa notevole di materiali che si collocano strategicamente (anche questi sono dati rilevanti per una riscrittura che è anche pubblico di lettori, richiesta di mercato) in alcuni momenti nodali della ‘fortuna’ dell’astrologia, determinanti, per la legge della domanda e dell’offerta, nello sviluppo della produzione di testi di questo tipo. Un mercato vivace ed interessato, ma che andava anche soddisfatto con la preparazione di un prodotto estremamente duttile e sempre rinnovato, al passo coi tempi, che ha garantito, per la sua parte, quello che può essere definito il primo paradosso, cioè il fatto che l’astrologia esista ancora oggi. “Nei duemila e cinquecento anni della sua storia documentata sono sorte e tramontate civiltà, lingue, religioni, modi di vita [...]. Non parliamo più le lingue dei babilonesi e dei greci, non ci sediamo più  







astrologico, lessico allo stesso modo dei romani, non percepiamo i colori come Omero, non condividiamo le credenze dei primi cristiani, non dormiamo, amiamo, giochiamo come gli antichi. In mezzo a tanto divenire, l’astrologia è continua, statica, permanente, tanto da essersi dimenticata di aggiornare il suo orologio cosmico sulle trasformazioni che i millenni hanno determinato nella sfera celeste [...]. È un paradosso che deve essere preso tanto più seriamente, quanto meno si creda alla “verità” dell’astrologia”. [2]  

Note. [1] Boll 1899. – [2] Volli 1988, 20.

Paola Radici Colace Astrologico, lessico. 1. Generalità. – Nella complessa trama culturale confluita a diversi strati nell’astrologia, un collettore che raccoglie nel suo seno sapienza popolare e cultura scientifica, elementi magico-superstiziosi e motivazioni religiose, macrocosmo e microcosmo, una chiave di lettura finora poco praticata è costituita dallo studio del lessico tecnico, tanto più importante quanto più è accentuato l’aspetto eminentemente retorico della pratica astrologica. 2. Epiteti. – Quello epicletico è un repertorio che racchiude nella sua storia la storia stessa dell’astrologia, e nella cui complessa stratificazione ogni prestito, ogni soluzione linguistica, ogni uso/riuso divengono spia di una fase del rapporto tra l’Oriente e la Grecia prima, e tra la Grecia e Roma poi, simboli ed emblemi del cammino di penetrazione delle dottrine astrologiche e del loro secolare viaggio nella cultura occidentale. Come ha dimostrato Cumont 1938 in un dottissimo articolo, [1] la terminologia dei pianeti trova la sua origine nella lingua tecnica degli astronomi ed astrologi alessandrini, discepoli dei Caldei. In essa la nomenclatura dei pianeti è descrittiva del loro aspetto fisico : Saturno il luminoso (Faivnwn), Giove il risplendente (Faevqwn), Marte il rosseggiante (Purovei~), Venere la portatrice di luce (Fwsfovro~), Hermes lo scintillante (Stivlbwn). Ma è anche una terminologia che, se soppianta a poco a poco le perifrasi che mettono in relazione l’astro con la divinità in una prospettiva laica e scientificamente razionalista, è però destinata a sua volta ad essere messa da parte dalla crescente →astrolatria, che sostituisce gradualmente ed insensibilmente la vecchia perifrasi con il semplice nome del dio, in un  



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processo di assimilazione linguistica che è spia di un’identificazione ideologica e religiosa. L’assimilazione del tipo astrale al tipo divino non è ininfluente sul piano epicletico, ma provoca una fusione ed una coabitazione degli epiteti scientifici con il più tradizionale apparato mitologico, in un avvicendamento di termini che appartengono a strati diversi della storia della lingua e della lingua tecnica. Il lessico si compone quindi assemblando e stratificando, accanto agli epiteti ormai consolidati da una lunga e resistente tradizione cultuale e culturale, quelli derivanti dall’osservazione astronomica e dalle caratteristiche fisiche frutto del fervore scientifico alessandrino, per finire, nell’inquieta età imperiale percorsa da tensioni mistiche ed attratta dalle religioni siderali dell’Oriente, coll’affondare le mani nell’enorme serbatoio epitetico delle varie divinità, in una vasta manovra sincretistica, di cui proprio gli attributi divengono la cifra. 3. Epiteti lunari. – La punta più evidente si coglie con l’incremento degli epiteti lunari, vera cartina di lettura dell’intero procedimento. Infatti è soprattutto con questo astro, che nella sua perenne mobilità e nei suoi multiformi aspetti diviene l’elemento chiave della dottrina delle katarcaiv, che il discorso epicletico si fa interessante e storicamente rilevabile. Comincia infatti proprio con →Doroteo, la cui dottrina delle katarcaiv ha rappresentato per il suo risalto un passaporto importante del Pentabiblos all’interno del mondo arabo, un processo di arricchimento della figura lunare, che si muove su una duplice direttiva : a) creazione di un culto lunare parallelo al culto solare, realizzato attraverso l’attribuzione di epiteti collegati all’oro, consueto appannaggio del Sole, quale crusavmpux, alla Luna da parte di Doroteo. Tale associazione costituirà il binario per la creazione di un culto lunare parallelo al culto solare in →Massimo attraverso la massiccia ‘rilettura’ della Luna con aggettivi che hanno a che fare con l’oro e col rosso – crusaughv~, crushvnio~, crusofahv~, etc. – prima esclusiva prerogativa del Sole; [2] b) concentrazione nell’astro lunare di attributi e caratteristiche propri di altre divinità. È il caso di triodi`ti~, attestazione doroteiana che precede cronologicamente quella plutarchea attestata in lsj (che non cita Doroteo) e che esalta la triplicità della Luna nelle sue tre ipostasi celeste, terrena ed infera, ripresa nella litania di una tarda preghiera alla Luna: in essa,  



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astrologo dell ’ anno 379

l’astro è invocato come triplice, con tre teste, con tre voci, con tre nomi, con tre facce, con tre colli ed anche, infine, come triodi`ti~ (prec. ad Lunam, vv. 24-28 Abel). È ancora il caso di selasfovro~, attestato in Pausania come epiteto di Artemide (1, 31, 4), ma per il quale è interessante la presenza in un oroscopo dell’anno 80 d.C. (P. Brit. Mus. 1, cx, p. 130), di poco posteriore a Doroteo, come attributo della Luna : un attributo che sarà ripreso solo molto più tardi da Tzetzes (proem. in Il. 1, 209). [3] Tale apparato epicletico, dunque, crea associazioni implicite ed esplicite : con altre divinità femminili del pantheon greco, in particolare con Ecate, Artemide (attestati tout court come nomi per la Luna), Iside, Semele e Persefone, giungendo a 26 epiteti nei circa 3.000 versi di →Manetone ed a 56 nei soli 604 versi superstiti di Massimo ; con divinità dalla duplice, ambigua natura, Dioniso, troneggiando nelle sezioni astrologiche dei Dionysiaká di Nonno di Panopoli ; col Sole, in un tentativo supremo di ingrandire l’importanza dell’astro minore, che non ebbe mai, ad onta del proliferare di epiteti, uno sbocco in culti organizzati, quasi a volerlo sovrapporre alla figura dell’astro maggiore, la cui importanza in sede religiosa culmina con il culto giulianeo di Helios-Re. [4] 4. Verbi e sostantivi. – Il processo di lettura sempre più raffinata della posizione degli astri nel cielo ha i suoi risvolti anche sul piano strettamente linguistico, con la costruzione di una lingua tecnica e settoriale che, ritagliata dal seno neutro della lingua comune, si specializza attraverso dei marcatori [→Astrologiche, metafore]. Nel caso del lessico astronomicoastrologico, verbi e sostantivi si ‘costruiscono’ in senso tecnico con l’impiego di uno o più prefissi, che non solo sanciscono l’ingresso del radicale nella lingua speciale, ma consentono un più stretto rapporto tra ‘parola’ e ‘cosa’ nella misura in cui rendono analiticamente possibile la distinzione tra i vari modi degli astri di essere presenti nel cielo e quella definizione dei reciproci rapporti che è alla base di ogni ‘sintassi’ prognostica. [5]  









Note. [1] Cumont 1938. – [2] Radici Colace 1986 ; 1992a, 15-16. – [3] Radici Colace 1992a, 17. – [4] Radici Colace 1986. – [5] Radici Colace 1983 ; 1986 ; 1988a ; 1992a ; 1992b ; 1993a ; 1997c ; OrlandoTorre 1991.  















Paola Radici Colace

Astrologo dell’anno 379. – Noto anche come anonimo del 379, è autore, forse di origine egiziana, di un’opera della quale ci sono pervenuti solo tre frammenti. Il riferimento cronologico è fornito dallo stesso autore. [1] I tre frammenti riguardano argomenti diversi : un catalogo delle stelle luminose e una descrizione delle loro influenze, [2] le influenze esercitate da alcuni segni sulle passioni dell’uomo, i luoghi che nuocciono alla vista. L’opera riscosse un notevole successo, se si considerano le varie riprese ed adattamenti (anche in senso cristiano) operate da autori tardi, quali Retorio, [3] Teofilo di Edessa, [4] un anonimo bizantino [5] e Camatero. [6]  













Note. [1] F. Cumont, ccag v 1, 194-211. – [2] Feraboli-Matton 1994, xv. – [3] ccag viii 4, 174-182. – [4] ccag v 1, 214-217. – [5] Excerpta Parisina, ccag v 1, 217-226. – [6] Vd. vv. 2430-2503 ; cfr. Feraboli 1993.  

Bibliografia. Gundel-Gundel 1966, 239 sgg. ; Jones 2008, s.v. Astrologos of 379, in EANS 174-175 ; Urso 2002, 113-114.    

Carmelo Lupini Astronomia [ajstronomiva, astronomia]. 1. Complementarità tra cielo e terra. – Esordio obbligato di ogni storia dell’astronomia potrebbe essere quello stesso argomento, suggerito a Giacomo Leopardi appena quindicenne (1813) dalla sublime nobiltà di una scienza che permette all’uomo di innalzarsi al di sopra di se medesimo per conoscere la causa dei fenomeni dell’universo. Tali considerazioni, che aprono la sua Storia dell’astronomia, riecheggiano a loro volta il pensiero di →Platone, laddove nel Timeo pensa che il più nobile scopo, per il quale la divinità ci abbia concesso la vista, sia l’osservazione del moto degli astri « perché, avendo contemplato i movimenti periodici della Ragione in cielo, noi ce ne servissimo per comprendere i movimenti circolari del pensiero che è in noi, che, pur essendo dello stesso genere di quelli del cielo, sono perturbati, mentre quelli sono imperturbabili » (47b). →Aristotele, a sua volta, nella Metafisica (i 2, 983a), associa la nascita della filosofia alla ricerca astronomica sulla base della meraviglia (ajpo; tou' qaumavzein) per i fenomeni celesti alla cui spiegazione l’uomo rivolse l’ingegno. Rispetto alle considerazioni platoniche, forgiate sul criterio della perfezione, si pone in forma sostan 



astronomia zialmente antitetica il pensiero evoluzionista rappresentato soprattutto da →Democrito e dall’epicureismo, che propone un quadro ben diverso della condizione originaria, quando, come scrive →Lucrezio, l’uomo conviveva con i fenomeni del cielo, oscillando tra inconsapevolezza (5, 931-932 multaque per caelum solis volventia lustra / vulgivago vitam tractabant more ferarum) e assuefazione al primo e più evidente ciclo astronomico : (5, 977-978 a parvis quod enim consuerant cernere semper / alterno tenebras et lucem tempore gigni) ; non c’è quindi da credere, osserva ancora il poeta latino, che l’umanità primitiva combattesse con la paura quotidiana che la notte durasse eterna, anche se proprio dai fenomeni meteorologici (fulmine, tuono) derivò ad essa quel terrore degli dei che ha generato l’empietà del sacrificio umano. Ma se si vuole ricercare l’elemento comune che sta alle origini di ogni storia della a., e all’interno del quale ogni lettura della disciplina trova il suo posto, questo non può essere altro del principio che ne modella il corso in virtù della complementarietà tra umanità e stelle, con la quale è significata la dipendenza della vita umana dai fenomeni celesti. Il ciclo diurno, nel momento stesso in cui promuove l’osservazione permanente della rotazione del sole su se stesso, è contestualmente un ciclo binario, perché articolato nei momenti alternativi e polari che scandiscono l’esistenza umana (mezzogiorno o mezzanotte ; veglia o sonno ; vita o morte). Del resto anche altre forme di ciclicità interagiscono con la vita umana, come il rapporto che lega il moto lunare al ciclo mestruale ed ad altre forme di periodi biologici, oppure quello che collega la rivoluzione del sole al trapasso delle stagioni. Tutto ciò ha indotto il pensiero antico all’idea che esista un ‘ordine’ (kosmos), che, per via di traslato, ha finito per applicarsi all’universo, suggerendo altresì che questo insieme armonioso e ordinato da principi determinati fosse parimenti valido tanto per la dimensione dell’organismo umano (microcosmo), quanto per quella dell’universo stesso (macrocosmo). E così →Asclepiade di Mirlea, erudito e filologo del i secolo a.C., produce un saggio di interpretazione allegorica relativo alla coppa di Nestore che Omero descrive nell’Iliade (11, 632-637). Tale saggio, che viene appunto intitolato Nestoris, è andato perduto, ma ne possediamo un’ampia redazione nei Sofisti a banchetto di Ateneo (488a-494b). Asclepia 







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de interpreta le due colombe (peleiavde~) collocate dallo scultore sulla coppa in prossimità dei manici, come una trasposizione simbolica del gruppo stellare delle Pleiadi, che segnano con la loro levata e il loro tramonto lo spuntare delle messi e la mietitura, vale a dire l’inizio e la conclusione dei lavori agricoli almeno per quanto riguarda la cerealicoltura. Del resto – prosegue Asclepiade – la coppa è rotonda perché gli antichi che per primi hanno dato forma agli utensili domestici erano convinti che l’universo fosse rotondo, così come per imitazione della forma circolare del sole e della luna gli oggetti di culto (tavola, tripodi, focacce) hanno anche essi forma rotonda. Queste considerazioni rappresentano un prezioso frammento di storia della mentalità, che lascia intravedere un rapporto di familiarità tra la vita quotidiana dell’uomo antico (nella fattispecie, qui, greco e romano) e la volta celeste e i suoi fenomeni. Ancora nel xix secolo un nome della cultura come il francese Camille Flammarion (18421925) riusciva a praticare la scienza astronomica e a comporre, al tempo stesso, saggi divulgativi e romanzi fantascientifici che godettero di grande successo e furono tradotti in molte lingue. Attualmente tale familiarità appare incommensurabile con le conquiste scientifiche dell’a. contemporanea anche in quei momenti, per la verità già lontani (1969), in cui essa è riuscita a comunicare un messaggio globale portando in tutte la case le immagini dei primi passi di un uomo sul suolo lunare. 2. Astrometeorologia. – La recente (2007) pubblicazione di Daryn Lehoux propone nel titolo stesso Astronomy, Weather, and Calendars le ragioni di tale convissuta quotidianità alla quale nel presente la nostra civiltà globale sembra essere venuta meno ; l’opera mette in luce come e con l’ausilio di quali tecniche di conservazione dei dati venne percepita l’interazione tra a., meteorologia, fisica e computo del tempo (calendaristica) presso le civiltà del Vicino Oriente, di Grecia e Roma. La previsione meteorologica rappresenta infatti il primo determinante contributo sapienziale dell’a. alla vita dell’uomo ; questo aggettivo sta ad indicare conoscenze tradizionali, tramandate di generazione in generazione, più che il risultato dell’a. teorica. L’astrometeorologia reca infatti con sé tutto il suo portato di ambiguità scientifica, perché, se da un lato, i movimenti delle stelle fisse valgono indiscutibil 



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mente come ‘segnali’ del tempo (ingl. ‘time’ ; ted. ‘Zeit’) per individuare ricorrenze cicliche, che fungono da limite a periodi, che potremmo anche definire stagioni, il discorso diviene molto più aleatorio se si passa al tempo meteorologico (ingl. ‘weather’ ; ted. ‘Wetter’) e si pretende di collegare a tali date le predizioni meteorologiche, che sarebbero poste in atto, cioè ‘create’, dalle stelle stesse. Il sistema che emerge dalla confluenza di singoli episodi (poi vedremo quali siano) in un quadro generale è pertanto un sistema di previsioni meteorologiche a lungo termine, che concerne cioè un intero anno, e del quale si ammette l’indiscussa validità nella misura in cui è creduto ripetersi da ciclo annuale a ciclo annuale. E tuttavia non sembra inutile sottolineare quanto i segnali del tempo fossero vitali per l’agricoltore ed il marinaio, indicando loro come agire nei vari periodi dell’anno, cioè le stagioni della semina, della mietitura, oppure dell’apertura e della chiusura del mare alla navigazione ; è verosimile che la stessa attività bellica non potesse fare a meno di tali informazioni, come stanno a ricordare la parole di Polibio (1, 37, 4-5) che, dinnanzi al naufragio per una tempesta marittima, e alla conseguente perdita dell’intera flotta romana nel 255 a.C., critica il comportamento dei comandanti che non tennero conto dell’ammonimento dei piloti, che sconsigliavano la navigazione nel periodo intermedio tra la levata di Orione e quella del Cane. Le date alle quali si è fatto riferimento sono le indicazioni astronomiche relative al movimento delle costellazioni, movimento in realtà determinato dalla rotazione del sole da Est ad Ovest e dalla sua rivoluzione da Ovest ad Est ; esse consistono nelle quattro fasi delle stelle fisse, intendendosi con questo termine l’arco di tempo in cui è possibile constatare la visibilità oppure la scomparsa (parziale e poi totale) delle costellazioni, quando tramontano o sorgono in concomitanza con il tramontare o sorgere del sole (tramonto e levata eliaci) oppure quando sorgono ad Est mentre il sole tramonta ad Ovest (levata serale), o tramontano ad Ovest mentre il sole sorge ad Est (tramonto mattutino). Questi dati erano di comune accesso all’uomo greco e romano e come tali trovano menzione nelle opere di un vasto gruppo di autori (Omero, →Esiodo, →Democrito, il Corpus ippocratico, →Aristotele, →Teofrasto, →Arato, →Varrone, Cicerone, →Virgilio,  







Ovidio, →Germanico, →Manilio, →Columella, →Plinio il Vecchio, →Tolomeo), ma a partire dal iii secolo a.C., e forse già prima, alle nozioni dell’empirismo mnemonico si ovvia con l’uso di uno strumento chiamato parapēgma (paravphgma da paraphvggnumi «conficco») con il quale si dà conto di diversi computi ciclici (le fasi delle costellazioni, in prima istanza, il ciclo settimanale e quello delle nundinae, ovvero degli otto giorni che intercorrono tra un giorno di mercato e l’altro) tramite un piolo mobile, che viene conficcato di volta in volta nel corso dei giorni in fori diversi. È importante notare al riguardo come, proprio nel caso della astrometeorologia, non si verifichi la diffusione delle conoscenze da società culturalmente più attrezzate, come quelle del Vicino Oriente (Egitto e Babilonia), al mondo greco e romano, proprio per le oggettive differenze climatiche e ambientali di ognuna di queste aree. L’Egitto considera in particolare le fasi di una sola stella, Sirio della costellazione del Cane, la cui levata eliaca indicava l’inizio della piena del Nilo e che quindi segnalava il più importante evento agricolo della regione, annunziato come tale sin dai testi più antichi ; al contrario le civiltà greca e romana tennero conto di una moltitudine di stelle fisse, le cui levate e tramonti erano connesse con i lavori agricoli e anche con le previsioni meteorologiche. Tali dati presenti in un poema sapienziale come le Opere e Giorni di →Esiodo, erano recepiti nei testi di ‘astrologia nautica’ variamente citati, uno di quali è attribuito a →Talete, così come dovevano verisimilmente risultare oggetto di riscontro nelle elaborazioni teoriche degli astronomi a venire come Metone, →Eudosso e Callippo. 3. L’eredità babilonese. – Ben diverso è il discorso per l’a. teorica, dove l’eredità babilonese è considerevole, anche se in questo caso più esatto sarebbe parlare di eredità sumero-accadica, vista la continuità con la quale per tre millenni questa civiltà si dedicò all’osservazione e all’analisi dei fenomeni celesti. L’affermazione di Diodoro Siculo (2, 30, 2) sul possesso di nozioni della massima esattezza (ajkribevstata) del moto dei corpi celesti da parte delle popolazioni della Mesopotamia, da lui chiamate con il nome vulgato di ‘Caldei’ (Caldai`oi, Chaldaei), ha una sua motivazione nella durata e nella continuità delle osservazioni praticate da questa civiltà, che hanno contribuito alla  

astronomia migliore determinazione dei dati, come anche nel sistema di apprendimento della disciplina, tramandato per via familiare (2, 29, 4). Corrispettiva di tale primato è l’affermazione della riconosciuta capacità di prevedere molti eventi futuri, che, espressa in questa forma, attiene evidentemente alla →astrologia, ma che, come abbiamo visto sopra, è anche lo scopo originario della astrometeorologia in Grecia e a Roma. In realtà, come osserva Pettinato, [1] in primo tempo i testi cuneiformi decifrati erano prevalentemente astrologici e solo a partire dal 1955 cominciò la pubblicazione di testi di esclusivo contenuto astronomico, che rivelavano l’interesse per questo tipo di ricerca scientifica e il contributo di conoscenze fornito dalla civiltà mesopotamica. Se i testi mitologici tanto sumerici quanto accadici concordano nell’attribuire a Enki, il dio della saggezza, il ruolo di classificatore del tempo (« Sei tu che numeri i giorni, poni in ordine i mesi, completi gli anni »), ai popoli stanziati nell’area tra il Tigri e l’Eufrate si devono alcune tra le prime fondamentali nozioni astronomiche quali la nozione dei quattro punti cardinali, come elemento di suddivisione dello spazio e di orientamento, e la misurazione del tempo attraverso il movimento del sole e della luna, con la determinazione della durata del ‘giorno’ (tempo diurno e notturno), del mese (prevalentemente lunare, di 28 giorni) e dell’anno basato su un calendario luni-solare. Il movimento della luna determinava, con l’osservazione delle fasi, quattro momenti del ciclo mensile, mentre quello del sole articolava l’anno in quattro stagioni ; anche il pianeta Venere era stato individuato sin da età remota come manifestazione della dea Inanna / Ištar. Il fatto che gli altri quattro pianeti principali, Mercurio, Marte, Giove e Saturno, e gran parte delle stelle e delle costellazioni, siano state denominate con un termine sumerico sta a dimostrare l’antichità (iii millennio a.C.) della osservazione e della conseguente mappatura dello spazio celeste, e il trasferimento di detti termini in eredità agli Accadi. L’ideazione del sistema zodiacale, così come è conosciuto dalla cultura greca, giunge invece alla completa sistemazione in età neobabilonese, sotto il regno di Nabucodonosor ii (605-562 a.C.), quando viene formalizzato il rapporto tra i dodici archi uguali di 30 gradi del cerchio e la ripartizione dell’anno in dodici mesi di 30 giorni, il che implica il trasferimento di nozio 







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ni geometriche alla disciplina. Risulta rilevante l’apporto dei Caldei anche sotto il profilo pratico : la misurazione delle distanze tra i vari corpi stellari si realizza tramite il computo del palmo e delle dita, mentre i primi strumenti atti alla misurazione del tempo si basano sulla definizione della lunghezza dell’ombra in un determinato momento del giorno (meridiana e gnomone) o della quantità di acqua che scorre per un determinato periodo (clessidra) ; in tavolette neoassire si parla della consegna di lenti per ‘ingrandire la pupilla’ con il supporto di tubi d’oro, espressione che è stata interpretata come un possibile riferimento al cannocchiale. [2] I testi astronomici veri e propri risalgono all’ultimo periodo della dinastia babilonese e, successivamente, all’età seleucide, che coincide con il processo di ellenizzazione della Mesopotamia conseguente alla conquista di Alessandro Magno. Queste opere possono essere in sintesi classificate nelle seguenti categorie : - le effemeridi, che registrano le osservazioni astronomiche relative al mese ed all’anno e sono impostate su colonne di numeri separati l’uno dall’altro da una differenza costante ; - i testi del cosiddetto ‘anno prescelto’ che raccolgono, in sua funzione, i dati degli anni precedenti ; - gli almanacchi, che predicono quale sarà la lunghezza di ogni mese dell’anno a venire ; - i testi astronomici propriamente detti, che segnalano quali sono i procedimenti matematici necessari per calcolare il movimento del Sole, della Luna e degli altri cinque pianeti in base al sistema sessagesimale babilonese ; - il manuale Mul-apin, cioè ‘stella-aratro’, che costituisce il testo più completo delle conoscenze astronomiche babilonesi ; l’opera, databile nella sua redazione finale intorno al 1000 a.C., espone e discute sei liste di costellazioni, distribuite nei tre ‘sentieri’ in cui era diviso il cielo dai Babilonesi, con riferimento alle loro fasi. Ben diversa appare, nonostante sia assai diffusa a livello di tradizione popolare l’idea del possesso da parte della casta sacerdotale dell’Egitto di saperi tanto occulti quanto profondi, la situazione del contributo della scienza egiziana, per la quale non esistono tuttora testimonianze convincenti dell’esistenza di un sistema astronomico complesso fondato su basi matematiche, anche se probabilmente l’accusa, se di accusa si tratta, è anacronistica e  

















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antistorica, essendo tale sviluppo della scienza del cielo posteriore alle grandi epoche della civiltà egiziana. [3] 4. La scuola ionica. – Sebbene la cultura astronomica greca debba molto agli influssi provenienti dall’Oriente, il principale elemento di discontinuità è costituito dalla polis, dove l’appartenenza di ogni individuo maschio e di condizione libera alla comunità cittadina rappresenta una condizione socialmente ben diversa rispetto alle caste sacerdotali dell’Egitto e di Babilonia, che dipendono dal sovrano ed ad esso esclusivamente fanno riferimento. Tale differenza eserciterà la sua influenza anche sul processo di evoluzione delle conoscenze astronomiche: nessuno potrebbe immaginare nel mondo orientale che siano portate sulla scena le lagnanze della luna nei confronti della comunità ateniese per la riforma del calendario posta in atto da Metone, come avviene nelle Nuvole di Aristofane (vv. 605-626). In questo contesto, il tema della conoscenza scientifica si pone come il problema di conoscere ‘l’altro da sé’, cioè quell’insieme di fenomeni (fainovmena ‘entità che appaiono alla nostra vista’) identificato sotto il nome di ‘natura’ (physis), che, proprio perché dotata di una propria vitalità ed inesauribile produttività, necessita, per essere conosciuta e utilizzata a vantaggio dell’uomo, di essere ordinata secondo un processo che prescinda dal dato mitico e ricorra a valutazioni di natura razionale, o comunque argomentativa. Più che di scienza astronomica l’apporto dei filosofi presocratici concerne il discorso cosmologico [→cosmologia]. Nel tentativo di ricondurre la mutevolezza ad un dato unitario, il filosofo Talete, capostipite della scuola ionica, ricorre alla individuazione di un principio (ajrchv), nella fattispecie l’acqua, perché lo stesso orbe terrestre sarebbe sorretto dall’acqua. Sebbene il pensiero di Talete non entri ancora in contrasto con la religiosità tradizionale, in quanto sostiene che il mondo è pieno di dei, le sue affermazioni gettano tuttavia le basi per quel processo di desacralizzazione della natura che giungerà a completo sviluppo con →Anassagora, il quale procede a sostituire il principio unico immanente e materiale con una sovrastruttura teorica, che sia virtualmente capace di spiegare la varietà delle manifestazioni dei fenomeni naturali. Nonostante Talete non abbia lasciato nulla di scritto, molte informazioni ci sono pervenute  

attraverso fonti indirette, tra cui Callimaco, che ricorda come Talete abbia « misurato le piccole stelle » (Ia. fr. 191, 53-54 Pf.) dell’Orsa Minore che indica la rotta alle navi dei Fenici ; Erodoto (1, 74, 2-3) riferisce che il filosofo avrebbe predetto l’eclissi di sole del 585 a.C., che interruppe la battaglia tra Lidi e Medi sul fiume Halys [→eclisse, 2] ; Diogene Laerzio (1, 24) aggiunge, inoltre, che avrebbe notato il movimento ciclico del sole, che intercorre da solstizio a solstizio, e calcolato la grandezza del sole e della luna come la settecentoventesima parte delle rispettive orbite, dati che hanno come presupposto una concezione geometrica dell’universo (cfr. cosmologia, 2, 1). All’interno della scuola ionica meritano di essere menzionati per le loro ricerche in ambito astronomico →Anassimandro ed →Anassimene. Il primo è ricordato per il fatto di aver sostenuto che la terra è a forma di cilindro e che la luce della luna non è propria, ma proviene dal sole ; a lui è anche attribuita la scoperta dello gnomone. Anassimene, a sua volta, in linea con la teoria che l’aria è il principio immanente alla realtà, ritiene che la terra (avente una forma equivalente alla sezione concava di un cilindro) al pari del sole, della luna e degli altri astri, sia sostenuta dall’aria stessa a causa della sua forma piatta. Questo ultimo inoltre avrebbe spiegato l’alternarsi di giorno e notte con il fatto che l’orbita del Sole, incontrando a Nord le montagne, si sarebbe nascosta dietro queste, mentre l’origine degli astri sarebbe dovuta a un succo sollevatosi dalla terra e poi attenuatosi fino a diventare fuoco. 5. La scuola eleatica. – Alle tesi dei filosofi milesii pare si sia opposto →Senofane, il quale avrebbe sostenuto che la terra si estende all’infinito, mentre il sole sarebbe prodotto dalla raccolta quotidiana di scintille. Molto più rilevante sarebbe il contributo di →Parmenide all’indagine astronomica ; convinto della sfericità della terra e che la luna sia priva di luce propria, avrebbe proposto un modello dell’universo che implica la presenza avvolgente dell’etere situato nel punto più alto, sotto il quale starebbe una zona infuocata denominata cielo e, ancora sotto, la regione terrestre (cfr. cosmologia, 3, 1). 6. La seconda generazione dei fisiologi. – Come era prevedibile, con la seconda generazione dei filosofi della natura (fisiologi) si acutizza il conflitto con la religione ufficiale dal momento  











astronomia che ad un unico principio primario, identificabile in qualche misura con una divinità, si sostituisce una struttura teorica generale, capace di dar ragione delle molteplici apparenze del reale, identificata negli ‘atomi’ da Leucippo, che secondo Diogene Laerzio (9, 30) fu il primo a immaginare come principio originario di ogni cosa, poi ripreso da →Democrito, mentre Anassagora la individuerà nei ‘semi’, ovvero ‘omeomerie’, cioè ‘particelle similari’, corrispondenti alla tante specie che costituiscono le cose stesse. Autore di una Grande e di una Piccola Cosmologia (ma →Teofrasto attribuisce la Grande a Leucippo), Democrito ammette come principi esclusivi del suo sistema cosmologico gli atomi e il vuoto, sicché tutto l’universo, inteso come una serie infinita di mondi, è formato dall’aggregazione in forma di vortice degli atomi, aggregazione sancita dalla legge eterna dell’equilibrio (‘isonomia’), che impone altresì il successivo processo di disgregazione. Procedendo oltre il profilo cosmologico del suo pensiero, il contributo di Democrito alla a. concerne alcune osservazioni di notevole significato, come la spiegazione della Via Lattea come una banda di luce prodotta da stelle piccole e fitte, la teoria che la Luna si appropri della luce solare e l’ipotesi dell’esistenza di pianeti per noi ancora sconosciuti ; a Democrito, che, come scrive Plinio, primus intellexit ostenditque caeli cum terris societatem (nat. 18, 273), si deve anche la redazione di studi sui fenomeni atmosferici considerati nell’ambito di cicli pluriennali, come dimostrerebbe l’elaborazione di un trattato astronomico dal titolo Grande anno o Astronomia, mentre rimane aperta la questione se il parapēgma incluso nel titolo sia la raccolta di vario materiale di meteorologia astrale, oppure un vero e proprio manufatto. Da →Plinio (nat. 18, 231) apprendiamo anche qualche cosa sul tipo di predizioni meteorologiche da lui formulate: Democritus talem futuram hiemem arbitratur qualis fuerit brumae dies et circa eum terni, item solstitio aestatem. Nei frammenti del testo greco sono state altresì rilevate a proposito delle fasi delle costellazioni alcune espressioni come ‘in genere’ (kaqovlou) e similari che sembrano attenuare la cogenza del rapporto di causalità per ridurlo a quello di ‘tendenza’. Intorno ad →Anassagora, che secondo la tradizione, avrebbe dichiarato di preferire all’impegno politico, dovere del cittadino, la ricerca astronomica, dal momento che « la no 



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stra patria è il cielo », è fiorita un’aneddotica che ne rileva l’empietà. In particolare le fonti riferiscono della sua condanna a morte, pena dalla quale sarà poi salvato da Pericle, per l’accusa di aver affermato che il Sole « è una grande massa incandescente, rovente, di grandezza maggiore di quella del Peloponneso ». Tale accusa verrà poi riesumata alcuni decenni dopo contro Socrate nel processo che si concluse con la sua condanna a morte; ma già, venti anni prima Aristofane nelle Nuvole lo introduce in scena mentre, sospeso in un cesto a mezz’aria, dichiara solennemente «muovo per l’aere e squadro il sole». Secondo Diogene Laerzio, infine, sarebbe da attribuire ad →Anassagora un accenno al principio di pensare l’universo secondo uno schema geometrico, visto che lo immagina come una cupola all’interno della quale si muovono le stelle. Un altro contributo rilevante all’indagine astronomica è offerto da →Empedocle, che interpreta le eclissi solari come fenomeni provocati dal passaggio della Luna davanti al Sole e differenzia all’interno del cielo gli astri fissi, connessi al cristallo della volta celeste, dai pianeti, liberi invece di muoversi (31A54 D.-K., da Aezio). 7. Pitagora e la scuola pitagorica. – La scuola pitagorica non segue i tradizionali canali di comunicazione pubblica della polis, ma trasmette i suoi insegnamenti solo ad un’élite ristretta tramite un processo di iniziazione, organizzandosi in una setta che ricorda le caste sacerdotali orientali, motivo per cui ha dovuto rinunciare ad una tradizione scritta. La fine nel sangue della scuola (i cui adepti furono sterminati a Crotone) lascia supporre che la polis non abbia tollerato lo sviluppo al suo interno di questa struttura, che si dava istituzioni alternative a quelle proprie. Alla base del pensiero pitagorico vi è il concetto di ‘numero’ che non è semplicemente un parametro funzionale ad individuare le relazioni di quantità, ma costituisce il principio primo (ogni numero pari si trasforma in dispari con l’aggiunta di un’unità e viceversa) e la causa di tutti i fenomeni della natura. Scopo dunque della scuola è individuare e predicare i rapporti matematici insiti nelle varie manifestazioni dell’esistenza, e quindi, in particolare, nel campo dell’a. e della →musica. Stretto è il rapporto di queste due discipline con la →matematica e la →geometria. L’universo è, infatti, governato dall’armonia ed ogni corpo celeste, nel corso delle sue ri 





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voluzioni, produce una nota musicale che le orecchie umane non sono in grado di percepire. →Pitagora è considerato dunque il primo ad aver attribuito il termine kosmos al mondo, mentre si discute se la forma sferica sia teoria sua oppure vada attribuita a Parmenide. La tradizione inoltre conferisce a Pitagora il merito di aver scoperto l’identità tra la stella del mattino (Fosforo) e quella della sera (Espero) come apparizioni del pianeta Venere e riporta in particolare due sue intuizioni a proposito dei moti celesti : che il movimento dei pianeti è opposto a quello delle stelle fisse ; che il Sole ha due movimenti : la rotazione diurna e la rivoluzione annuale. Interessante, all’interno della scuola è anche l’apporto di →Filolao, primo ideatore di un sistema teorico che presuppone un fuoco centrale attorno al quale ruotano nove corpi, ovvero la terra, il sole, la luna, i cinque pianeti allora conosciuti, il cielo delle stelle fisse ; per arrivare al numero dieci, considerato sacro dai Pitagorici, viene ideato un altro corpo, detto Antiterra, secondo la tendenza pitagorica di riempire qualsiasi lacuna si palesi nei rapporti numerici per completare il sistema. 8. Metone di Atene. – Fondamentalmente di natura tecnica rispetto alla speculazione teorica ed anche immaginifica dei filosofi naturalisti è considerata l’opera dell’ateniese Metone, a cui è attribuita l’individuazione di un ciclo lunisolare, decisamente più preciso dei precedenti, che fungesse da supporto agli almanacchi in cui erano annotate le date delle levate e dei tramonti delle stelle, nonché quelle degli equinozi e dei solstizi. L’organizzazione della tabella secondo il calendario zodiacale babilonese implica la suddivisione in dodici segni di uguale lunghezza. 9. Platone ed Aristotele. – Il pensiero dei due maggiori filosofi della grecità finirà per influenzare in modo indelebile il percorso dell’astronomia antica e condizionarne l’evoluzione per quasi due millenni. →Platone demanda al mito la funzione di enunciare un discorso sul quale le leggi della dialettica non abbiano effetto e che quindi possa essere considerato vero senza dimostrazione. Le opere in cui Platone espone il mito cosmologico dell’intelligenza divina che costruisce l’ordinamento celeste sono il Fedone, dove espone nella parte finale il destino celeste delle anime che hanno vissuto senza lasciarsi contaminare dalla corporeità, e poi il Timeo, quest’ultimo  







composto sicuramente dopo la fondazione dell’→accademia (385 a.C. circa) e appartenente quindi all’ultima fase degli scritti, con un tono « molto meno visionario » e un andamento che richiama, nella sua articolazione per sezioni, quello di « un’esposizione scientifica » [4] rispetto all’altra opera della prima maturità. Il Timeo si apre con un prologo, in cui Crizia riferisce il racconto, che un suo antenato apprese da un sacerdote egiziano, sulle grandi catastrofi, sui diluvi ciclici del passato e sulla potenza dell’Isola Atlantide, che venne poi sommersa in un giorno solo ; questo prologo prelude al quadro cosmologico successivo, quando Timeo espone a sua volta in un lungo discorso come l’artefice divino abbia plasmato il nostro mondo, che è soggetto alla mutazione rispetto al principio alternativo di ciò che sempre è. Il Padre Generatore determina quindi, accanto al Tempo, il Cielo, entrambi conoscibili tramite il Numero ; crea, quindi, la Luna, il Sole e gli altri cinque pianeti che sono strumenti del tempo, assegnando loro le orbite nelle quali si muovono « per la distinzione e la conservazione dei numeri del tempo » (38c) ; ad essi aggiunge poi « quegli astri che non sono erranti, viventi, divini ed eterni, i quali allo stesso modo e nello stesso luogo ruotando stanno sempre immobili » (40b) cioè le stelle fisse. Mito e dialettica entrano in sinergia nel Timeo in modo che alla premessa sulla Intelligenza divina tenga dietro la necessità umana. Per via di antitesi al disordine e all’opacità del mondo si oppone l’ordine ideale e intelligibile, apparentemente invisibile, del cielo ; questo rapporto si riflette nel dualismo tra corpo e anima, che non può non avere in cielo la sua sede : “così il cerchio si chiude : l’anima muovendo da campo della sensibilità in cui si trova, allorché la sua vista si libera dagli ostacoli della terrosità informe e manipolabile, vede il cielo, la sua regolarità che rinvia ad un’anima cosmica, quindi a un’intelligenza divina e a un ordine delle idee”. [5] Il contenuto del Timeo, che appare alla lettura come un discorso di orientamento scientifico, costituisce al tempo stesso sul piano delle opinioni correnti la base per la costruzione di una religione astrale ; tale possibilità è realizzata nell’Epinomide, che fu dagli antichi considerata come il tredicesimo libro delle Leggi, di cui si presenta nel titolo stesso come un’appendice, ma che ora è in genere attribuita a Filippo di Opunte, discepolo e segretario di Platone  































astronomia vissuto alla metà del iv secolo ; nell’opera si espongono i termini di questa religione celeste, della quale sono fondamenta le otto potenze celesti : sole e luna, i cinque pianeti e il cielo delle stelle fisse. Anche in questo scritto non manca un richiamo alla tradizione delle civiltà orientali, che avrebbe educato i primi uomini a riflettere su questi fenomeni celesti « grazie alla bellezza del clima estivo di cui Egitto e Siria godono per buona parte dell’anno » (987a). L’importanza della →cosmologia del Timeo oltrepassa la fortuna di quest’opera che pure fu grande nelle età a venire ; Cicerone lo traduce in latino e poi ancora nel iv secolo d.C. Calcidio redige una traduzione parziale che fu tuttavia la base della conoscenza di Platone nel medioevo occidentale. Il mito platonico evidenzia infatti la necessità di trovare una spiegazione che serva a giustificare il movimento irregolare con stazioni e retrogradazioni dei pianeti, ‘gli (astri) erranti’ ; l’assenza di una giustificazione produrrebbe infatti una carenza di ordine tale da mettere a repentaglio il carattere divino del cielo. Le soluzioni proposte partono dal presupposto cosmologico della Terra, sferica, al centro del cielo delle stelle fisse, e implicano una teoria del movimento, nella quale si esaurisce gran parte del portato teoretico dell’a. antica ; di questo movimento restano tuttavia fissati i due parametri irrinunciabili, che il moto sia circolare (la circolarità del movimento, che non ha inizio né fine è infatti una prerogativa dei corpi celesti rispetto al movimento rettilineo dei corpi terrestri) e che sia uniforme, come compete all’anima celeste che possiede un perfetto controllo del proprio corpo. Il trattato Sul cielo di →Aristotele, che costituisce il completamento della sua Fisica, non è solo un’esposizione scientifica sul cielo (la parte del trattato che ha maggior attinenza con l’a. è rappresentata dal libro secondo), ma è anche “una polemica complessiva attorno alla cosmologia del Timeo”. [6] L’opera riflette il più generale sistema fisico del filosofo con la dottrina delle quattro cause (formale, naturale, motrice e finale), ma la distanza di Aristotele da Platone non riguarda tuttavia l’assetto cosmologico nel suo complesso, quanto piuttosto il mito dell’anima divina che modella l’ordine celeste. Aristotele separa il cielo dalla terra in virtù della loro differente natura : se i quattro elementi del mondo sublunare sono soggetti al moto rettilineo, un ‘quinto’ elemen 

















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to è proprio del cielo e segue invece il moto circolare. Il cielo non soggetto a generazione né a corruzione è sferico, così come tutti gli astri sono sferici, e si muove senza cessa con moto circolare. Le sfere e i cerchi, che nelle formulazioni precedenti (Platone, Eudosso) hanno un valore teorico, in Aristotele “acquistano una consistenza corporea”. [7] Va anche messo in evidenza il fatto che Aristotele vuole evitare che le teorie astronomiche possano in qualche modo entrare in conflitto con le concezioni religiose tradizionali, quelle che egli chiama a 284a « le concezioni antiche, che per eccellenza furono quelle dei nostri avi », concezioni che ammettono l’immortalità e la divinità del cielo e dei suoi componenti ; in alcuni passaggi l’esposizione ha un andamento oratorio con richiami al consensus gentium, alla tradizione e agli antichi miti. Un riferimento emblematico concerne →Anassagora che era stato sottoposto all’accusa di ‘empietà’ per le sue dichiarazioni sulla sostanza costitutiva degli astri ; a chi ritiene che gli astri fossero costituiti di fuoco e di pietre incandescenti Aristotele contrappone la tesi dello sfregamento delle sfere celesti sull’aria come causa della luminosità e del calore solare, teoria che viene tuttavia successivamente negata per controbattere la teoria dell’armonia celeste dei Pitagorici, sicché è probabile che Aristotele riferisca modelli di pensiero diversi. A 270b, laddove tratta della natura divina del cielo, Aristotele considera causa materiale degli astri l’etere, cioè il quinto elemento, diverso dagli altri quattro che costituiscono la terra, e per sua natura incorruttibile. 10. Eudosso di Cnido. – Collaboratore sia di Platone che di Aristotele, viene considerato il primo grande studioso di a. dell’antichità per il fatto di aver introdotto nella sua opera una base teorica geometrica in grado di associare le singole unità astronomiche ad elementi della matematica o della geometria. Con →Eudosso dunque, per la prima volta, la disciplina astronomica viene considerata una scienza, nonostante mancasse di quella omogeneità e compattezza proprie delle letterature matematiche. Le opere di carattere astronomico, infatti, al tempo di Eudosso, vengono divulgate contemporaneamente sia per la categoria degli scienziati, sia per un vasto pubblico, essendo ritenute indispensabili per attività pratiche quali la marineria e l’agricoltura. Nell’ope 









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ra I fenomeni (andata perduta come l’altra, Le velocità) Eudosso descrive, sotto forma di trattato in prosa, la volta celeste, identificando e catalogando le principali stelle e costellazioni. L’utilizzo di una terminologia semplice, quale risulta dai frammenti, con l’impiego di nozioni d’uso comune (‘sopra’, ‘sotto’, ‘a destra’, a sinistra’), lascia supporre che, in linea con la tendenza dell’epoca, l’opera fosse diretta anche ad un pubblico non specializzato, sebbene l’autore non rinunci a fornire alcuni elementi geometrici della sfera celeste. Molto più tecnica e rivolta solo ad un pubblico competente doveva essere invece la trattazione sulle velocità, in cui si cercavano di spiegare i movimenti dei pianeti attraverso il modello detto delle sfere omocentriche. Tale modello pone la terra al centro dell’universo, e colloca intorno ad essa le sfere ruotanti, aventi stesso centro (la terra appunto), ma poli ed assi diversi. Il movimento, secondo l’astronomo, si trasmetterebbe da una sfera all’altra finendo col produrre un’apparente irregolarità nelle orbite dei pianeti. Il sistema di Eudosso, che comprende in tutto 27 sfere di cui 3 per il sole e per la luna, 4 per i cinque pianeti e 1 per le stelle fisse, sebbene incorporato successivamente nella fisica di Aristotele, e perfezionato dall’astronomo Callippo di Cnido, che accrescerà il numero delle sfere, viene sostituito nel corso del iii-ii sec. dal modello ideato dal matematico →Apollonio di Perge. Questi, infatti, al contrario di Eudosso, non pone più la terra al centro dell’orbita dei pianeti, ma sostiene che questi si muovano uniformemente lungo un piccolo cerchio (epiciclo), il cui centro si muove uniformemente lungo un secondo cerchio (deferente) a cui è vincolato ed al cui centro risiede la Terra. 11. Arato di Soli. – Secondo l’aneddotica sorta intorno alla figura del poeta →Arato, a cui si deve la nascita del poemetto didascalico come genere letterario, questi sarebbe stato incaricato dal sovrano di Macedonia, Antigono Gonata, di trasporre in esametri il trattato astronomico I fenomeni di Eudosso. La richiesta mette in luce tanto l’importanza del legame che in età ellenistica si è andato stringendo tra il potere e l’intellettuale, quanto l’arbitrarietà dell’argomento (secondo una tradizione Arato sarebbe stato un medico, e non un cultore di astronomia) e soprattutto la nascita del poemetto didascalico. La dipendenza dell’opera di Arato da quella di Eudosso, dalla quale

mutua il titolo I fenomeni lasciandolo invariato, presenta due principali questioni di natura filologica e scientifica : quale sia effettivamente il testo di Eudosso a cui il poeta attinge e quale grado di dipendenza intercorra tra le due opere per quanto riguarda gli argomenti, il loro ordine di trattazione e le eventuali omissioni. Quest’ultimo problema sembra per altro il più complesso a risolversi, visto che dell’opera di Eudosso ci sono giunti solo frammenti ; non è da escludersi tuttavia che Arato correggesse il suo modello in base a informazioni e dati successivi. Un esempio che avvalora questa ipotesi è l’omissione al v. 24 da parte di Arato di una stella, che Eudosso sostiene essere collocata al Polo Nord. Ciò è presumibilmente dovuto a quanto aveva scritto il navigatore delle coste dell’Europa settentrionale, Pitea di Marsiglia, che nel suo trattato Sull’oceano sostiene, per esperienza autoscopica, come tale luogo sia invece vuoto. Possediamo in ogni modo integralmente il poemetto di Arato, e siamo quindi in grado di affermare che l’autore evita l’esposizione sistematica da trattato per ricorrere ad un’impostazione di progressivi allargamenti, dove quanto segue chiarisce quanto è stato esposto in precedenza. Tale impostazione, che ha voluto ricorrere all’impiego del verso, conferma la tendenza a divulgare le conoscenze astronomiche anche ad un vasto pubblico non specializzato. Il fine dell’autore, infatti, non è soltanto quello di comporre un manuale di a. elementare (anche se a questo scopo fu utilizzato), quanto di far ‘trasparire’ attraverso la trattazione di questa disciplina il ruolo della provvidenza (pronoia) di Zeus, che, secondo il pensiero stoico dell’autore, governa l’universo. Al centro dell’opera sta, dunque, il programma benefico del dio, il quale avrebbe fissato le costellazioni (a[stra) come segni celesti, composte a loro volta dalle stelle vere e proprie (ajstevre~), che segnalano con maggior precisione i limiti tra le stagioni ed indicano quindi il tempo migliore per ciascuna attività umana. L’opera è articolata secondo la stessa struttura a dittico delle Opere e giorni di Esiodo ; la prima parte dell’opera tratta dei fenomeni veri e propri, ovvero “le cose che appaiono (in cielo)” ed è di argomento specificatamente astronomico, mentre la seconda riguarda la meteorologia ed è altrimenti nota con il titolo di Previsioni attraverso i segni (Prognwvsei~ dia; shmeivwn) o Segni di Zeus (Dioshmivai). La descri 





astronomia zione del cielo è realizzata utilizzando un metodo empirico che obbedisce al criterio della ‘pezzatura’ della volta celeste (che parrebbe richiamare, almeno in linea di principio, i ‘sentieri’ del Mul-apin babilonese), partendo dalle costellazioni boreali per passare a quelle australi, con un breve cenno ai pianeti che, a causa del loro moto variabile, non rientrano nelle competenze del sistema previsto dall’autore. Fondamentale per una migliore comprensione dei significati impliciti e della qualità poetica dell’opera è la definizione della struttura nella quale si articolano i 1154 versi del poema ; ciò è tanto più importante perché tale indagine consente di evidenziare una serie complessa di corrispondenze e sigilli che occupano posizioni strategiche e fanno da cerniera tra le varie sezioni. Inoltre è stato notato che Arato procede intenzionalmente per informazioni incomplete, il cui significato si allarga e si chiarisce solo progressivamente ; così solo al v. 370 accenna al programma attuato dalle generazioni del passato di dare una forma compiuta ed un nome ai gruppi di stelle, raggruppando quelle prossime per disegnare le costellazioni, e ancora solo al v. 740 il movimento di levata e tramonto delle costellazioni viene chiarito non solo nella sua dinamica diurna, ma in quella eliaca che concerne cioè l’anno, ovvero il movimento annuale del sole lungo l’eclittica attraverso i dodici segni dello Zodiaco. In questo senso si può dire (vd. Martin 1998) che la parte propriamente astronomica del poema si presenta come una rivelazione progressiva dello Zodiaco e delle sue funzioni. Arato descrive dunque nella parte propriamente astronomica la mappa della sfera celeste ai sensi della geometria sferica, prendendo le mosse dal movimento diurno della sfera che implica la nozione di asse del mondo e delle costellazioni circumpolari (le Orse e il Dragone) per poi passare alle costellazioni boreali (vv. 26-318), cioè quelle a Nord dell’eclittica con inclusione degli stessi segni dello Zodiaco, e a quelle australi. Conclusa la parte relativa alle stelle fisse, definite «ornamenti della notte che passa» (v. 453) e dopo un brevissimo accenno ai pianeti, che vengono nominati come cinque stelle dal movimento indipendente, ma sempre all’interno della fascia del cammino del sole, Arato si augura di avere le forze per descrivere i quattro circoli che assomigliano ai cerchi prodotti dalla mano dell’uomo, la Via Lattea, il Tropico del  



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Cancro e quello del Capricorno, e l’Equatore ; quindi, lungamente preparata, abbiamo la trattazione dello Zodiaco, che introduce al tema della disuguaglianza del periodo notturno, che è a sua volta il presupposto per la dottrina dei synanatellonta e dei synkatadyonta astra, ovvero delle levate e tramonti delle costellazioni non zodiacali concomitanti con le levate dei segni zodiacali, che rappresenta il sistema per conoscere tramite l’osservazione l’ora notturna in ogni momento dell’anno (vv. 559-732). Sempre al fine del calcolo del tempo segue poi una breve trattazione relativa alle fasi lunari che insegnano la collocazione del singolo giorno all’interno del mese, e un nuovo richiamo all’evidenza e alla infallibile esattezza dei segni astronomici voluti dalla provvidenza di Zeus che conclude la prima parte dell’opera. I pronostici meteorologici sono invece meno certi, ma rappresentano pur sempre un patrimonio sapienziale del quale il marinaio, la cui figura emerge decisamente nella seconda parte come destinatario dell’insegnamento di Arato, farà bene a tenere debito conto. Il poeta espone prima i pronostici desunti dall’esame della luna, e poi quelli che provengono dall’esame del sole, per soffermarsi su un complesso di previsioni (vento, tempesta, bonaccia) ricavate da una trama assai minuta di osservazioni che concernono il mondo animale e vegetale. 12. Eratostene di Cirene. – È attivo durante la seconda metà del iii sec. ad Alessandria, dove si reca per invito del sovrano Tolemeo iii Evergete, continuatore della politica culturale di Tolemeo ii Filadelfo. Come intellettuale poliedrico, →Eratostene risulta infatti essere perfettamente aderente all’ideale ellenistico della versatilità e della erudizione, fondendo organicamente nei suoi scritti gli interessi letterari con quelli scientifici. Il contributo più rilevante fornito da Eratostene alla storia dell’a. è il metodo usato per misurare la circonferenza della terra sulla base della diversa altezza del Sole in due località dell’Egitto situate sullo stesso meridiano, ma collocate ad una latitudine apprezzabilmente distante, Alessandria e Siene (Assuan), che giace esattamente sul Tropico del Cancro. Ma il vero paradigma della sua erudizione eziologica ed antiquaria, e dei suoi interessi filologici è il libro in prosa intitolato Catasterismi (Katasterismoiv), dove ad ogni costellazione corrisponde il racconto del mito della sua metamorfosi. La sequenza delle co 

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stellazioni viene ordinata secondo una serie di circonferenze concentriche in rapporto all’Orsa Maggiore e quindi secondo un criterio di accuratezza scientifica superiore rispetto a quello dell’opera di Arato. Il processo di formazione del →catasterismo è assai antico ; esso inizia con l’attribuzione di nomi mitologici ad alcune costellazioni ; intorno ad esso stanno alcune idee correlate, ma non coincidenti, come il culto dei corpi celesti, che però fu abbastanza estraneo alla religione greca tradizionale, e il destino astrale delle anime ; fondamentale è in ogni modo il processo di metamorfosi. Precursori di Eratostene sono Ferecide di Atene, che fu il primo a raccontare un mito che si conclude con il passaggio a stella (quello delle Iadi), e Callimaco, suo conterraneo e maestro, autore del componimento La chioma di Berenice, che chiude il quarto ed ultimo libro degli Aitia (Cause). Callimaco racconta, infatti, come sia stato trasformato in costellazione un ricciolo della chioma della regina d’Egitto Berenice, offerto da lei nel tempio della regina-madre Arsinoe, come voto affinché il marito Tolemeo iii Evergete potesse tornare incolume dalla campagna contro la Siria. L’astronomo che avrebbe individuato questa nuova costellazione nell’area di quella del Leone sarebbe Conone di Samo, di cui non è pervenuto nulla di scritto, ma che è ben noto, per le testimonianze di →Archimede, che lo cita in modo elogiativo, e di →Virgilio, che lo considera il prototipo dell’astronomo. Di argomento affine a quello dei Catasterismi risultano essere i due poemetti (sulla base delle citazioni pervenute) Ermete (in esametri) ed Erigone (in distici elegiaci), i cui protagonisti ascendono entrambi in cielo. Nel primo vengono narrate la nascita di Hermes e le sue principali imprese, tra cui l’invenzione della lira, episodio su cui l’autore incentra una riflessione filosofica di stampo platonico intorno alla consonanza tra le note dello strumento musicale ed il moto delle sfere celesti, con la conclusione che Hermes, raggiunte le più alte delle sfere, descrive quelle dei pianeti e le cinque zone del globo terrestre. L’Erigone invece espone un episodio tratto dal ciclo mitico di Dioniso : viene infatti narrata la vicenda della giovinetta Erigone, trasformata nella costellazione della Vergine dopo essersi impiccata, alla vista del padre morto ucciso da alcuni contadini ai quali aveva insegnato l’uso del vino. La scelta stilistica dei ‘catasterismi’ ha anche una funzione  







politica e propagandistica : le stelle costituiscono infatti un punto di riferimento per ampi strati della popolazione, che ricorre ad esse nelle varie necessità della vita pratica. Narrare la trasformazione in astro di un sovrano o della sua sposa, ne accresce il prestigio divino e ne legittima il potere, come vedremo trattando del rapporto tra astronomia e politica. 13. Astronomia e letteratura astronomica nei secoli iii-ii a.C. – Nonostante la ricerca astronomica avesse cominciato ad assumere un indirizzo più specificatamente matematico, il metodo espositivo è sempre quello ‘naturale’, sicché sarà necessario arrivare all’Almagesto di Claudio →Tolomeo nel ii sec. d.C. per trovare una trattazione di questa disciplina tanto sistematica quanto quella che leggiamo per la geometria con gli Elementi di →Euclide. In questo periodo sono di notevole importanza i due opuscoli di Autolico di Pitane : Sulla sfera rotante e Sul sorgere e tramontare degli astri, che conducono l’analisi di tali fenomeni attraverso l’ausilio della sferica, cioè lo studio, applicato all’a., delle figure geometriche disegnate sulla sfera. Anche lo stesso Euclide si dedica alla sferica nel trattato Fenomeni, ma tutti questi testi sono di carattere sostanzialmente divulgativo piuttosto che miranti all’approfondimento teorico. La sferica viene ben presto, poi, superata dall’opera di →Ipparco di Nicea, nella quale confluiscono la teoria degli elementi conici, sviluppata da →Apollonio di Perge, ed alcune nozioni di base della trigonometria, che studia i rapporti tra gli angoli del triangolo. Tra i primi ad avvalersi di criteri geometrici citiamo →Aristarco di Samo, che nella sua opera Sulla grandezza e la distanza del Sole e della Luna afferma come i due astri siano all’incirca di grandezza corrispondente (20 :18) e come il sole sia più lontano dalla terra rispetto alla luna. L’apporto più interessante, però, fornito da questo studioso è la proposta di un sistema eliocentrico, praticamente respinta dai suoi contemporanei, in cui Aristarco afferma che la terra, al pari degli altri astri, ruoti intorno al Sole, centro dell’universo, e che compia inoltre un moto giornaliero intorno al proprio asse. 14. Ipparco di Nicea. – Punto di trapasso tra la catalogazione dei fenomeni effettuata ancora in modo empirico e quella sistematica, presente nell’Almagesto di Tolomeo, è la figura di →Ipparco di Nicea, astronomo vissuto nel ii sec. a.C. Questi si avvale, infatti, di principi tri 





astronomia gonometrici in modo da calcolare i valori corrispondenti dell’arco e della corda per un’intera serie di angoli al fine di individuare un metodo di proiezione stereografica per rappresentare la mappa della sfera celeste, in Eudosso ancora descritta autopticamente costellazione per costellazione, dalle boreali alle australi. Ipparco, nel suo Catalogo delle stelle (gli astri catalogati sono circa 850), opera dunque mediante una serie di circonferenze graduate, individuando punti visibili e non costellazioni. Ad Ipparco si devono inoltre alcuni rilevanti contributi scientifici quali : il perfezionamento dei dati relativi ad alcune costanti astronomiche, come la durata del mese e dell’anno (con un errore di soli 6,5 minuti) e la scoperta del movimento di precessione degli equinozi. L’opera di Ipparco era rivolta ad un pubblico di scienziati per la complessità del livello espositivo, ma l’unico suo scritto superstite, proprio in virtù dell’uso scolastico che ne fu fatto e del suo lessico meno specifico, è il trattato di rettifica ai Fenomeni di →Arato ed →Eudosso (Interpretazioni dei Fenomeni di Arato e Eudosso, Tw'n ∆Aravtou kai; Eujdovxou Fainomevnwn ejxhghvsei~). La scelta di Ipparco di dedicarsi all’emendazione di queste due opere risiede nel fatto che esse, all’epoca, fossero testi di divulgazione troppo conosciuti perchè potessero venire ignorati da un astronomo del suo calibro. Lo stesso autore, però, nel corso della trattazione, non sembra certo che l’opera di Eudosso, in base alla quale Arato ha ordinato il suo poemetto, sia effettivamente I fenomeni, tanto che questo suo dubbio paralizzerà tutta la critica successiva. Ipparco, infatti, inizialmente nega la dipendenza, ma poi rettifica ed utilizza il verbo katakolouqei'n, che è proprio di chi segue un testo autoriale, per qualificare il rapporto di Arato con i Fenomeni di Eudosso. Ipparco, nel complesso, giudica il testo positivamente, ritenendolo adatto per avere una conoscenza di base e non specializzata della disciplina. Inoltre gli eventuali errori riscontrabili nel corso dell’opera, alla cui emendazione procede un astronomo professionista quale è Ipparco, non sono imputabili ad Arato, quanto alla sua fonte scientifica, Eudosso. Tuttavia, la scelta di affrontare alcune complesse questioni, quale quella relativa ad un errore di calcolo dell’ora notturna, nel secondo e terzo libro, tradisce la vera intenzione dell’autore di correggere un testo destinato ad un pubblico che ha avuto accesso ad un più alto livello di studi.  

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15. Gemino da Rodi. – Il trattato Introduzione ai fenomeni (Eijsagwgh; eij~ ta; fainovmena) di →Gemino da Rodi (vissuto presumibilmente nel i sec. a.C.) costituisce una delle poche opere astronomiche che possono essere comprese anche dai non specialisti e che tuttavia offrono un quadro sufficientemente completo della disciplina. Di grande significato è la presenza nella Introduzione di metodi e modelli di pensiero della civiltà mesopotamica, che Gemino identifica con il termine generico di Caldei ; tale integrazione dell’astronomia babilonese non trova parallelo negli altri astronomi greci, che preferiscono lavorare su modelli geometrici, piuttosto che aritmetici. Gemino invece dimostra di conoscere la teoria planetaria babilonese basata sulla progressione aritmetica e i dati numerici corrispondono esattamente a quelli delle fonti cuneiformi. L’Introduzione propone un profilo divulgativo delle conoscenze astronomiche dell’età ellenistica a partire da nozioni elementari come lo zodiaco, le costellazioni e la sfera celeste, alle quali seguono le fasi della Luna, le eclissi, le fasi delle stelle fisse, le zone geografiche e i segni del tempo, mentre il movimento dei pianeti è rimandato altrove, secondo una dichiarazione topica che risale ad Eudosso, ma che potrebbe dipendere dalla perdita della parte finale del testo. Il livello della trattazione diviene decisamente specialistico nell’ultimo capitolo dedicato al tema dell’exeligmos lunare, cioè il periodo di 669 mesi interi, al termine del quale la luna ed il sole si trovano nella stessa posizione iniziale, tanto da prevedere il fenomeno dell’eclissi. 16. Claudio Tolomeo. – Il primo grande trattato istituzionale di astronomia, che si distingue dai precedenti per accuratezza, spessore scientifico e lunghezza (tredici libri), è, come sopra accennato, l’Almagesto di Claudio →Tolomeo, astronomo vissuto ad Alessandria d’Egitto nel ii sec. d.C., e attivo al tempo degli imperatori Adriano e Antonino Pio, come risulta dalle date dell’osservazioni menzionate nel testo. Il titolo originario dell’opera è Collezione matematica (Maqhmatikh; suvntaxi~), poi definita nel Medioevo ‘la più grande’ (megivsth), voce che in seguito alla traslitterazione araba al-maĵstī darà luogo al titolo di Almagesto, corrente in italiano da prima del 1367. In base ai richiami alle date delle osservazioni effettuate la Syntaxis è collocabile tra il 127 e il 151 d.C. Il proemio che apre l’opera la colloca, secondo l’intenzio 

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ne dell’autore, nello spirito classificatorio della filosofia aristotelica ; vengono infatti esposte le principali tesi del patrimonio cosmologico dell’antichità, quali la sfericità del cielo e la centralità ed immobilità della terra, alle quali sono affiancate le nozioni geometriche di Euclide integrate con il contributo della trigonometria. La presentazione di alcuni problemi della topica tradizionale dell’astronomia matematica al tempo di Tolomeo non rivestivano più alcun interesse scientifico, ma avevano lo scopo di convalidare questo quadro complessivo della storia della disciplina. Il libro primo si conclude con la determinazione dell’inclinazione dell’eclittica e dell’equatore, tema ulteriormente sviluppato nel libro successivo ; vengono quindi esposti i principi del movimento del sole (iii), della luna (iv-v), delle stelle fisse (viiviii) e dei cinque pianeti (ix-xiii). Siffatta struttura non è, per altro, casuale, ma si presenta funzionale alle ragioni dell’apprendimento, dal momento che ogni sezione del testo prevede un bagaglio di conoscenze acquisite in quelle precedenti. Tale intenzione didattica era alimentata dalla convinzione di Tolomeo che qualsiasi persona colta, che si fosse impegnata nella lettura dell’opera, avrebbe potuto acquisire conoscenze degne di un astronomo professionista. Scopo primario dell’opera è però quello di fornire una teoria matematica che consenta di predire la posizione di ogni corpo celeste in un determinato momento al fine di risolvere il problema primario dell’a. antica che concerneva il moto dei pianeti che con il loro percorso ‘errabondo’ mettevano in crisi il sistema del moto circolare e uniforme. Al fine appunto di ‘salvare i fenomeni’ Tolomeo accolse gli strumenti geometrici inventati dagli astronomi che lo avevano preceduto come i deferenti e gli epicicli, aggiungendo da parte sua un terzo elemento, quello del ‘punto equante,’ rispetto al quale il moto del cerchio dell’epiciclo diviene uniforme. I calcoli relativi a tali movimenti astrali si articolano in una sequenza metodologica di sette passaggi : 1) i valori numerici delle principali periodicità dei sette astri, assunti come punto di partenza ; 2) le tavole dei moti medi per tutti i periodi ; 3) i modelli geometrici-cinematici di riferimento ; 4) la quantificazione dei valori numerici di tali modelli con l’ausilio della trigonometria ;  













5) i controlli e l’introduzione di eventuali complicazioni ; 6) le tavole di passaggio dai moti medi a quelli veri ; 7) le istruzioni di calcolo sulla base delle tavole presentate. Riveste particolare importanza all’interno dell’opera il catalogo delle stelle fisse, ripreso da quello di Ipparco, il quale ne aveva censite circa ottocento. Tolomeo ricorre alle coordinate eclittiche e non equatoriali, dal momento che prende in considerazione il movimento di precessione degli equinozi. Il catalogo, dove ora le stelle sono divenute quasi 1300, parte, come già in Arato, dalle stelle della costellazioni boreali per passare a quelle zodiacali ed arrivare, infine, a quelle australi ed è articolato in quattro colonne : nella prima la stella è identificata in base alla sua collocazione nella costellazione ; nella seconda e nella terza è indicato il grado relativo al segno zodiacale ; nell’ultima è riportata la magnitudine per la quale Tolomeo ha fissato sei categorie. 17. Profilo di storia dell’astronomia a Roma. – La letteratura romana non ha portato nessun contributo di particolare significanza dal punto di vista scientifico alla storia dell’astronomia, apparendo nel complesso debitrice nei confronti delle scoperte greche. Alle sue spalle c’è tuttavia l’influenza della civiltà etrusca, presso la quale è attestata tramite le notizie riferite da Censorino (17, 5-6) la nozione che un periodo di tempo è stato assegnato dalla divinità a questo popolo ; si tratterebbe di dieci saecula ‘naturali’ vale a dire quel periodo di anni che finisce nel giorno della morte di colui che sarebbe vissuto più a lungo tra i nati nel giorno stesso della fondazione, cosi come era esposto nei libri fatales in lingua etrusca. L’interesse per il computo del tempo nel mondo etrusco emerge dal testo più lungo in lingua etrusca giunto fino a noi, il Liber linteus (iii-ii sec. a.C.), conservato ora a Zagabria, che è un calendario rituale in cui viene ripetuta la formula tinsi tiurim avils ‘giorno e mese dell’anno’, mentre alcune date parrebbero riferirsi all’equinozio di primavera e di autunno ed al solstizio d’estate . [8] Si discute se anche l’articolazione triplice dell’originario mese lunare latino non sia anche essa un retaggio etrusco, visto che le fonti attribuiscono alla lingua di questo popolo la forma itus sulla quale sarebbero state modellate le Idi. A Roma l’osservazione del cielo ha pertanto ori 













astronomia ginariamente finalità religiose, quali la pratica dell’auspicium e dell’augurium, come nella cerimonia della divinatio tra Romolo e Remo di un frammento degli Annales di Ennio (interessante ai fini astronomici la distinzione tra sol albus e sol aureus) oppure la determinazione del templum, area di spazio tra cielo e terra, dove ogni volo di uccello ha significato ominoso. L’osservazione del ciclo ha altresì finalità pratiche, mirate al computo del tempo in cicli (annuali, mensili, settimanali, nundinum) per motivazioni agricole, amministrative e economiche. Le informazioni astronomiche sembra pertanto fossero appannaggio della classe pontificale e in particolare del pontifex maximus che ogni anno curava la redazione della tabula dealbata dove, sotto il nome dei consoli eponimi, compariva una sintesi degli eventi principali, tra cui anche le eclissi, le apparizioni delle comete ed altri fenomeni astronomici e meteorologici eccezionali censiti come prodigia. Le date del kalendarium erano annunziate pubblicamente dal kalator per la loro rilevanza politica e giudiziaria, e un retaggio dell’importanza delle stelle ai fini della determinazione del tempo nei lavori agricoli è quello attestato dai verbi come considerari e desiderari, la cui sfera semantica è passata dall’osservazione celeste ad un ambito ideologico ben più vasto. Un interlocutore del De re publica di Cicerone parla della celebre sfera che riproduceva i movimenti di quella celeste, opera dell’ingegno di Archimede, portata a Roma come bottino di guerra ed esposta nella dimora gentilizia di Sulpicio Gallo, console nel 166 a.C., attestando l’eccezionalità della frequentazione di questo aristocratico con l’astronomia greca. Questi fu per altro il primo romano ad aver esposto in pubblico la teoria delle eclissi, parlandone davanti alle sue truppe il giorno prima della battaglia allo scopo di evitare che si spaventassero. 18. I testi scientifici latini. – Dei trattati scientifici ed enciclopedici che si occupano di questa disciplina, l’unico a noi pervenuto completo è il De Astronomia di C. Giulio Igino, bibliotecario di Augusto. Il testo ha lo scopo di rendere funzionale il modello applicativo di universo costituito dalla sphaera e si articola in quattro libri. Il primo di questi ha per oggetto argomenti cosmografici, il secondo i catasterismi, il terzo la disposizione delle stelle nelle costellazioni ed il quarto gli aspetti più specifici della materia astronomica come le circonferenze celesti ed il

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moto della sfera con i sincronismi delle levate e dei tramonti. L’opera si interrompe bruscamente appena l’esposizione aveva affrontato il tema del calendario ; l’autore si dimostra sicuramente un compilatore che tratta frettolosamente temi astronomici bene o male assimilati, ma non sussistono ragioni inconfutabili per negare la paternità dell’opera a questo erudito vicino all’entourage di Augusto, tanto più che la raccolta di Fabulae o Genealogiae, che gli viene attribuita, ne farebbe un epigono in tono minore di →Eratostene. Altre opere propongono argomenti e tematiche astronomiche come una parte del testo, dove compaiono per vari motivi. Tra la fine della repubblica e la prima età imperiale altri autori latini che inseriscono nei loro testi tematiche astronomiche sono →Varrone, che dedica alle scienze degli astri il sesto libro dell’enciclopedia Disciplinarum libri ; →Vitruvio, che nel libro nono del De Architectura espone quali siano le nozioni di astronomia indispensabili alla formazione del buon architetto. In →Manilio, attivo tra il i sec. a.C. e i sec. d.C., l’a. costituisce la base teorica per l’esposizione della dottrina astrologica, in modo che risulti l’intima connessione tra queste due branche del sapere antico, nella consapevolezza che un rapporto di sympatheia intercorre tra il microcosmo e macrocosmo, sicché può conoscere il cielo solo chi è parte di esso. Manilio riserva all’a. il libro iniziale degli Astronomica, un poema didascalico in esametri di cinque libri dedicato all’imperatore Tiberio, dove analizza i segni dello Zodiaco, per trattare quindi della tecnica degli oroscopi e degli influssi delle costellazioni zodiacali ed extrazodiacali sull’esistenza ed il destino dell’uomo. L’esposizione del primo libro è inizialmente simile a quella di →Arato, nella misura in cui l’autore descrive il cielo delle stelle fisse (vv. 255-531), accenna ai pianeti (vv. 532-538 ; 805808), tratta dei circoli della sfera celeste (vv. 539-683) e della Via Lattea (vv. 684-804) ; questo libro prettamente astronomico viene poi arricchito da un’introduzione cosmologica sull’origine dell’universo (vv. 118-254) e da un excursus finale sulle comete (vv. 809-926). Nel i secolo d.C. →Columella include nel trattato di agronomia intitolato De re rustica il calendario astronomico e meteorologico che gli agricoltori debbono tenere presente. In età flavia →Plinio il Vecchio apre la sua enciclopedia Naturalis Historia con una trattazione di a. che  







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occupa buona parte del libro secondo, per poi tornare sui prognostica a sole, luna, stellis nel xviii. Nel quinto secolo d.C. Marziano Capella si occupa di a. nel libro viii della sua opera De nuptiis Philologiae et Mercurii, dove questa si presenta sotto forma di personaggio femminile, dotata di una solida conoscenza della propria materia, pronta a discutere dei fenomeni osservati nell’emisfero Nord e memore delle teorie formulate dai sacerdoti dell’antico Egitto. All’interno di questa allegoria l’a. è rappresentata come una delle sette arti liberali, offerta in dono, nelle vesti di ancella, dal dio Apollo alla Filologia in occasione, appunto, delle sue nozze con Mercurio. Un discorso a parte merita la presenza di sezioni astronomiche nel contesto del quinto libro del poema De rerum natura di →Lucrezio, dove la esposizione della teoria fisica di Epicuro ha lo scopo di vincere la paura degli dei, che non hanno parte alcuna nei fenomeni astronomici e meteorologici. Scrive dunque →Epicuro nella Lettera a Erodoto (ep. 2, 76-77) queste considerazioni che riporto nella traduzione di Arrighetti 1960 : « Per quanto riguarda i moti, e le rivoluzioni, e il sorgere e il tramontare, e gli altri fenomeni simili dei corpi celesti, non bisogna credere che ci sia qualche essere che a ciò è preposto e dia, o abbia dato, ordine ad essi, e nello stesso tempo goda della più completa beatitudine e dell’immortalità – poiché occupazioni e preoccupazioni e ire e benevolenze sono inconciliabili con la beatitudine : sono cose che provengono da debolezza e timore, e bisogno degli altri – né, essendo un po’ di fuoco conglobato, dotati di beatitudine, assumano questi moti per spontaneo atto di volontà ». Alla luce di questo testo viene quindi confermata l’importanza del retto sentire per quanto concerne l’astronomia, sentire che escluderà sia l’intervento divino nei movimenti celesti, come vuole Aristotele, sia l’idea che gli astri stessi siano divinità che gestiscano ordinatamente i loro movimenti, teoria questa assai prossima al panteismo degli Stoici. E tuttavia, se sul punto ritenuto basilare della felicità, che nasce dall’espulsione di timori infondati e false credenze, Epicuro appare irremovibile, per quanto concerne la necessità di conoscere la natura dei fenomeni, il filosofo, e con lui Lucrezio, appaiono assai più possibilisti nella misura in cui ritengono si debba accedere al metodo della ‘spiegazione plurima’ (pleonachos tropos) che accetta la potenziale pluralità delle cause.  







Accogliere una sola spiegazione, quando invece ne sono disponibili altre, che pure appaiono anche esse in accordo con i dati dell’esperienza, significa allontanarsi dalla scienza della natura per cadere nel mito. Siffatto ossequio per il dato offerto dai sensi ha finito tuttavia per produrre affermazioni che riportano l’a. epicurea indietro di cinquecento anni, all’età dei →Presocratici, come appare dalla dichiarazione di Lucrezio sulla grandezza del Sole (5, 564-565 : Nec nimio solis maior rota nec minor ardor / esse potest, nostris quam sensibus esse videtur). Di a. si occupa Seneca, nel vii libro delle sue Naturales Quaestiones trattando della natura e del movimento delle comete e dei pronostici meteorologici ad esse tradizionalmente connessi. Seneca ritiene utile catalogare le apparizioni del passato alle quali si sono dedicati solo da poco gli astronomi Epigene e Apollonio di Mindo, che hanno fatto i loro studi presso i Babilonesi (3, 1-4, 1) ; a prescindere dalle interpretazioni del fenomeno l’aspetto più interessante del trattato su un fenomeno suscettibile di incrinare la regolarità delle leggi che governano il moto degli astri sembra essere la dichiarazione sul futuro che attende l’a. come disciplina dai tempi lunghi (25, 4 : Veniet tempus quo ista quae nunc latent in lucem dies extrahat et longioris aevi diligentia). Nel ii secolo d.C. Apuleio adatta in lingua latina col titolo De mundo un trattato redatto in greco, in ambito peripatetico, da un autore che si lascia passare per Aristotele. La traduzione, in genere abbastanza puntuale, solo in pochi casi viene modellata secondo i gusti del pubblico romano. L’opera si divide in due sezioni : la prima è un compendio cosmologico che tratta dell’etere, degli astri, dell’aria e della regione sublunare, a cui è integrata una parte riguardante la meteorologia e le sismologia ; la seconda si dedica all’identificazione della divinità come origine della vita e ne ribadisce l’unicità, nonostante la molteplicità dei nomi ad essa attribuiti. 19. L’astronomia letteraria. – Cum sole et luna semper Aratus erit : con questa dichiarazione di Am. 1, 15, 16, collocata da Ovidio all’interno del catalogo di poeti la cui fama resterà imperitura, il poeta dei Phainomena appare contemporaneamente l’emblema dell’a. ed una delle voci più significative della poesia, astronomica in particolare, che si sta diffondendo a Roma nell’ultimo secolo della repubblica. Ovidio per altro non fa che riecheggiare un principio edu 











astronomia cativo assai diffuso e del quale era stato reso ben consapevole nel suo tirocinio presso le scuole di retorica : la presenza dell’a. tra le disciplinae che presiedono all’istruzione del giovane romano appare sostanzialmente avulsa dalla funzione epistemologica e tecnica per conferire invece, con il richiamo alla bellezza e all’ordine del ‘cosmo’, dignità e sublimità al testo. Come ricorda appunto Quintiliano (inst. 1, 4, 4), il grammaticus che ignorasse la ratio siderum mancherebbe del possesso di un rilevante strumento interpretativo giacché non sarebbe in grado di comprendere i poeti qui totiens ortu occasuque signorum in declarandis temporibus utuntur. L’a. come tale è pertanto considerata un argomento di gran moda, al quale ogni autore si preoccupa di accennare nel corso delle sue poesie ; ancora maggiore è la passione per l’a. nella sua versione astrologica, strumento di potere temuto e praticato nella reggia e nei palazzi della Roma imperiale, tema ricorrente nei pensieri relativamente al destino futuro e alla data della morte presso ogni donna romana come dimostrano le ansie della Leuconoe oraziana (carm. 1, 11) e quelle ricordate da Properzio (2, 27), argomento di conversazione à la page come lascia intendere la battuta di Giovenale quid Romae faciam ? …motus astrorum ignoro (3, 41-43). Catullo con la sua traduzione della Chioma di Berenice di Callimaco (carme 66) apre la letteratura latina al genere alessandrino dei →catasterismi ; a lui tengono dietro altri tra cui anche Ovidio, che nei Fasti sostiene l’opportunità di accompagnare le eziologie delle feste del calendario romano con i dati della astrometeorologia relativi alle levate e ai tramonti delle costellazioni (1, 295-296: Quid vetat et stellas, ut quaeque oriturque caditque, / dicere ? promissi pars sit et ista mei). Ovidio traduce in latino il poemetto di Arato sui fenomeni celesti ; ci sono rimasti di questo lavoro soltanto due frammenti e il suo è solo uno dei numerosi scrittori latini che si dedicarono a tale impresa : Varrone di Atax e Cicerone, e poi →Germanico e Avieno, dei quali ultimi due ci sono giunti in redazione integrale i testi. Le ragioni di tanto duraturo successo, se da un lato circoscrivono un’area di quella letteratura ‘apprendista’ che fu la letteratura latina, rivelando al tempo stesso “the tremendous potential of Latin language for poetic composition”, [9] vanno dall’altro rapportate alle età dei singoli autori. Il contesto culturale entro il quale si realizza la  















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versione di Cicerone non può essere quello del classicismo augusteo che vale invece per Ovidio e Germanico. Sappiamo per esplicita dichiarazione di Cicerone stesso che la sua versione di Arato fu da lui realizzata quando era admodum adulescentulus, ma già dopo la redazione di quei carmi minori, che rappresentano il primissimo frutto della sua attività poetica ; ha quindi ragione Antonio Traglia a considerare gli Aratea “un punto intermedio”[10] tra due diversi modi di fare poesia, quello alessandrino e sostanzialmente preneoterico, incentrato sull’esposizione di miti eruditi, e quello epico ed enniano del De consulatu suo. Traducendo Arato, Cicerone sceglie di trattare infatti un tema alto e solenne : l’erudizione non è fine a se stessa, un puro lusus, ma la trasmissione di un sapere destinato all’utilità della vita umana, al quale non mancherà di fare riferimento in vari passaggi della sua produzione filosofica. Sarà per altro uno dei personaggi del De natura deorum, Quinto Lucilio Balbo, incaricato di esporre la teologia stoica, a procedere a quella che è una autocitazione da parte di Cicerone, recitando in sequenza vari passaggi degli Aratea, che dichiara di ricordarli a memoria in quanto ita me delectant quia Latina sunt (2, 105). Il successo di questa operazione di dare veste latina ad un testo per altro celebre e celebrato dovette indurre Cicerone a tradurre anche la seconda parte dei Fenomeni così come possiamo dedurre dalla lettera ad Attico del 60 a.C. Prognostica mea … propediem expecta e dai frammenti giuntici nei quali “può scorgersi … una certa evoluzione formale”, [11] che li accosta per metro e stile ai frammenti epici della maturità. Le scelte stilistiche poste in atto da Cicerone sono comunque chiaramente definibili per il discreto numero di versi degli Aratea giunti fino a noi, e corrispondono al consueto parametro espressionistico del traduttore latino, consistente nell’accentuazione del pondus e dei colores rispetto alla sottigliezza di disegno del modello greco ; basterà ricordare ad esempio il verso relativo alla costellazione della Lepre ictus horrificos metuens rostri tremibundus acuti del segugio che la insegue, quando nessuno dei tre aggettivi è presente nel testo greco, in modo tale da configurare in cielo la dimensione tutta terrestre di una scena di caccia. Basterà leggere i primi due versi degli Arati Phaenomena di Germanico per rendersi conto della novità di impostazione in questa nuova versione del poe 







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astronomia

metto didascalico greco. Lo scrittore ricorda infatti che, se il suo modello ha esordito nel nome di Zeus, nel suo caso l’auctor che ‘garantisce’ la realizzazione del progetto letterario è il genitor. In questo modo si entra subito nella dimensione politica dello scrittore, che è nipote di Tiberio e poi suo figlio adottivo, così come viene imposto da Augusto. Germanico è un raffinato letterato ed un poeta che entra in competizione con il suo modello, sostenendo che sì, è vero, i certissima signa dei due tropici stanno a segnare le stagioni, ma che tali conoscenze non potrebbero espletare fruttuosamente il loro messaggio, se proprio per il benefico governo del sovrano la pace non si fosse istallata dappertutto nell’impero : si non tanta quies …puppibus aequor cultorique daret terras, procul arma silerent. L’opera di Germanico è una significativa testimonianza della straordinaria fortuna di Arato attestata addirittura negli Atti degli Apostoli (17, 28), vista la citazione letterale del v. 5 del poema fatta da S. Paolo dinnanzi agli Ateniesi ; Germanico per altro impiega vocaboli e strutture sintattiche che, pur non comparendo in Arato nello stesso punto, o non comparendo affatto, sono di pretta marca aratea, e dimostra una sofisticata padronanza dell’arte allusiva, mettendo a frutto lo spessore della tradizione che sta tra Arato e gli auctores da cui dipende (Omero, Esiodo) o che lo hanno preso a modello (Virgilio, Ovidio). Tale capacità di ‘guadagnare traducendo’ emerge con chiarezza in non poche occasioni nel testo del poemetto ; un passo esemplare è quello della costellazione del Centauro, che Germanico, a differenza di Arato (che tralascia l’affondo mitografico), identifica con Chirone, il maestro di Achille (vv. 421-422: hic erit ille pius Chiron, iustissimus omnis, / inter nubigenas et magni doctor Achillis) ; qui Germanico cita Omero, che aveva definito Chirone «il più giusto tra i Centauri» (Il. 11, 832 dikaiovtato~ Kentauvrwn), e l’espressione si ritrova anche in Ovidio, che ricorda come questo personaggio del mito fu premiato con il catasterismo, rivolgendosi a lui come iustissime Chiron (Fast. 5, 413) ; in aggiunta nubigenas quale epiteto mitologico della stirpe dei centauri è citazione di un inno ad Ercole rimodellato da Virgilio (Aen. 8, 293: Tu nubigenas, invicte, … mactas), mentre l’osservazione di Arato che il braccio destro del Centauro si protende verso la costellazione dell’Altare vale a spiegare l’altro epiteto pius presente nel testo  









di Germanico. Per quanto riguarda poi la parte propriamente scientifica dell’esposizione, appare chiaro che Germanico ha tenuto conto delle correzioni che erano state segnalate da Ipparco ai Fenomeni di Eudosso e di Arato. Germanico per altro opera con una certa autonomia all’interno di ciascuna sezione di un catalogo delle costellazioni che vengono accostate l’una all’altra in base alla posizione oppure alla luminosità delle singole stelle, né mancano notazioni di meteorologia marina, come la nozione del mare clausum a v. 308, che si intensificheranno nella parte finale quando la sfera è presentata in movimento. Il proemio degli Aratea di Avieno, con il quale scendiamo già in età tardo-antica (iv sec. d.C.), introduce ad un’ulteriore rivisitazione del poema di Arato, del quale il poeta di Volsinii rimodella l’esordio in forma di formule laudative, che ricordano la litania. Il ricorso a ben sei poliptoti incentrati sul nome di Giove nei primi quattro versi riflette il testo di Arato dove un’analoga retorica del segno aveva ribadito il dovere di non dimenticare mai la divinità suprema della quale sono piene le vie, le piazze, il mare e i porti. Avieno accompagna tuttavia tali considerazioni con una trama densa di valori filosofici che fanno del dio il principio del movimento (Platone, Aristotele), dell’armonia (Pitagora), della simmetria tra i due emisferi del mondo (stoicismo). Il trapasso dalla periferia al centro, dove sta la Terra, determina un bilanciamento tra i valori intellettuali che governano lo studio della astronomia e le ragioni pratiche della navigazione e della agricoltura che hanno influenzato la scienza degli astri (vv. 41-42: hoc duce tumidi ferimur freta gurgitis, isto / praeceptore solum gravibus versamus aratris), ma poi Avieno allestisce un’ulteriore affabulazione sull’origine dell’astronomia, che sarebbe opera della divinità suprema intenzionata ad evitare che l’intelletto umano marcisse in un lungo torpore o concepisse immagini inadeguate alla maestà dell’universo. 20. Astronomia e politica. – Nella Rudens, la commedia di Plauto che si apre con il prologo ‘marinaresco’ della stella Arturo, il ‘guardiano dell’Orsa’, l’astro dipinge se stesso come un moderno satellite-spia che di notte riferisce agli dei le malefatte degli uomini e interviene a punire gli scellerati facendo far loro naufragio – si tratterà nel comico latino e nel suo modello greco, Difilo, di una rappresentazione

astronomia che riflette tanto la dimensione meteorologica del potere degli astri quanto la capacità di sancire i valori del comportamento etico che sarebbe la divinità suprema a garantire. Se si procede oltre queste affabulazioni (folkloriche o meno) sulle stelle che giudicano e puniscono (e prescindendo qui da ogni riferimento all’astrologia), appare chiaro come, con il riconoscimento della natura divina degli astri, la promozione della disciplina astronomica sia strettamente legata al potere politico, poiché, secondo i sovrani ellenistici, la conoscenza del cielo, ovvero della ‘zona divina’, avrebbe come diretta conseguenza una legittimazione ed un aumento del loro potere. Il catasterismo del ricciolo della regina Berenice, trasformato dalla volontà divina in costellazione a gloria della dinastia lagide e a vantaggio del prestigio scientifico di Conone, l’astronomo di corte che la ha scoperta in cielo; il sogno di Scipione che conclude il De re publica di Cicerone illustrando il destino astrale sulla Via Lattea (16 : erat autem is splendidissimo candore inter flammas circus elucens), che attende le anime di quanti hanno bene meritato dalla propria patria, l’annuncio promosso da Ottaviano (Plin. nat. 2, 94) che la cometa resasi visibile durante i ludi di Venere Genitrice del 44 a.C. rappresenta l’anima del padre (adottivo) Giulio Cesare, che sta ascendendo nelle regioni celesti fino a scomparire in uno spazio della volta celeste, poi detto Thronus Caesaris: sono esempi emblematici che attestano non solo, in differente modo, le connessioni tra politica e a., divenuta instrumentum regni, ma gettano luce su un processo di comunicazione mediatica che l’a. è incaricata dal potere politico di assolvere. Si tratta infatti di trasmettere un messaggio (di massa) utilizzando le costellazioni, punto di riferimento per l’intera popolazione, in quanto regolatrici delle attività pratiche ; tale messaggio risulterà tanto più incisivo quanto più il racconto sarà dotato di particolari suggestivi atti a promuovere una giustificazione, tanto accattivante nella sua consequenzialità quanto oggetto di abile manipolazione della mentalità e destituita pertanto di ogni valore ai sensi del pensiero scientifico.Secondo un frammento del testo dei Commentarii de vita sua che viene riportato da Plinio il Vecchio nel passo citato, Ottaviano dichiara che fu la folla, che assisteva, a credere che la stella indicasse che l’anima di  



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Cesare venisse accolta tra gli dei immortali (eo sidere significari vulgus credidit Caesaris animam inter deorum immortalium numina receptam) : il meccanismo della manipolazione propagandistica non potrebbe risultare più scoperto. L’a. da ‘letteraria’ si fa ‘cortigiana’ : Virgilio che accenna all’evento del sidus Iulium in un verso delle Bucoliche (9, 47: ecce Dionaei processit Caesaris astrum) immagina un analogo destino astrale anche per Augusto vivente nel proemio delle Georgiche come nuovo astro che occuperà lo spazio tra la costellazione della Vergine e le Chele dello Scorpione (1, 32-34). La stretta connessione intuita dagli antichi tra cielo e terra non si articola soltanto nel tentativo di trasferire in cielo le vicende terrene, ma anche nel suo contrario, tentando di far scendere il cielo stesso in terra. È questo il caso della domus aurea di Nerone, che si propone di riprodurre con la costruzione della sala del banchetto il movimento di rotazione della sfera celeste (Svet. Ner. 31, 3: praecipua caenationum rotunda, quae perpetuo diebus ac noctibus vice mundi circumageretur) : in questo modo il palazzo imperiale si propone come riproduzione della volta celeste.  





Note. [1] Pettinato 1998, 73. – [2] Pettinato 1998, 103-104. – [3] Lehoux 2007, 117. – [4] Franco Repellini 1980, 31. – [5] Franco Repellini 1980, 31. – [6] Franco Repellini 1980, 36. – [7] Franco Repellini 1980, 37. – [8] Van der Meer 2007, 2930. – [9] Possanza 2004, xv. – [10] Traglia 1967, 15. – [11] Traglia 1967, 16. Bibliografia. Abetti 1963 ; Aujac 1975 ; Aujac 1979 ; Aujac 1993 ; Bakhouche 1996 ; Bakhouche-Moreau-Turpin 1996 ; Bianchetti 1998 ; Bianchetti 2001 ; Bonamente-Segoloni 1987 ; Bowen-Goldstein 1998 ; Brisson-Meyerstein 1991 ; Brugnoli 1989 ; Ceragioli 1992 ; Cornell 1983 ; Domenicucci 1996 ; Dreyer 1906 ; Di Pilla 2002 ; Esposito 1998 ; Evans-Berggren 2006 ; Feeney 2007 ; Franciosi 1990 ; Franco Repellini 1980 ; Franco Repellini 1993 ; Franco Repellini 1998 ; Gee 2000 ; Giorgetti 2004 ; Gribbin 2003 ; Hoskin 1999 ; Hübner 1990 ; Hübner 2005 ; Kidd 1997 ; Kirsopp Michels 1967 ; Kienast 2005 ; Klepešta-Rükl 1976 ; Le Boeuffle 1977 ; Le Boeuffle 1987 ; Le Boeuffle 1989 ; Lehoux 2007 ; Leopardi-Hack 2002 ; Lunais 1979 ; Magini 2003 ; Marinone 1997 ; Mastrorosa 2002a ; Nicás Montoto 2004 ; Neugebauer 1975 ; Pámias-Geus 2007 ; Pettinato 1998 ; Possanza 2004 ; Samburski 1987 ; Santini 1977 ; Santini 1990 ; Santini 1996 ; Santini 2002 ; Scarcia 1993 ; Soubiran 1979 ;  









































































































   

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ateneo meccanico

Stok 2000 ; Traglia 1967 ; Valerio 2005 ; Van der Meer 2007 ; Van der Waerden 1988 ; Wright 2005 ; Zellini 1999.  











Carlo Santini

dalle raccomandazioni degli agronomi sull’opportunità di non acquistare tutti quegli attrezzi e strumenti che sia possibile realizzare in loco, con materia prima del fondo e →manodopera agricola schiavile : oggetti di vimini, ceste, panieri, trebbie, pali, sarchielli, funi, cordami, stuoie (Varr. r.r. 1,22,1). Il resto va acquistato nei mercati specializzati (una rassegna singolare in Cat. agr. 135). Un catalogo ‘poetico’ delle ‘armi’ agricole offre Verg. georg. 1,160-203. 2. Attrezzi semplici. Per la fondamentale operazione dello scasso del terreno a mano erano impiegati numerosi attrezzi fendenti, quali zappe e vanghe. La pala (gr. makele ; lat. pala, rutrum, diffusamente negli agronomi romani, poi vanga, di origine forse germanica) è uno dei più semplici, ma al tempo stesso diffusi e impiegati ; poteva essere anche interamente in legno, o rinforzata in metallo. Un tipo particolare di pala dotata di denti è il ventilabrum (Varr. r.r. 1,52,2 ; Colum. 2,10,14), impiegato anche per il vaglio delle granaglie. Una numerosissima varietà morfologica e terminologica è offerta dal tipo ‘zappa’ (gr. skafìon, dikella ; lat. ligo, marra, sarculum, bidens, rastrum, occa), l’attrezzo fendente finalizzato allo scasso puntuale. Impiegate non solo in falegnameria, vista la necessità del disboscamento per l’attività agricola anche medio-piccola, sono i vari tipi di asce (gr. pelekys, axìne ; lat. securis, dolabra, dolabella, poi ascia). Indispensabile alla mietitura e al diserbo in genere è la falce o falcetto (gr. drepanon, zankle ; lat. falx, serrula), in metallo con manico in legno : è l’attrezzo che presenta sicuramente la maggiore varietà morfologica, pur nella sostanziale canonicità della linea. Realizzati prevalentemente in legno sono i tipi ‘forca’ e ‘rastrello’ (gr. dikranon ; lat. furca, pastinum, pecten), dei quali abbiamo rare documentazioni materiali. 3. Attrezzi ‘complessi’. L’erpice. – Accanto all’→aratro, uno degli strumenti fondamentali nell’agricoltura antica è l’erpice. La sua invenzione è attribuibile all’Italia centrale tirrenica. La prima menzione di un irpex compare nell’elenco di attrezzi necessari all’→olivicoltura del trattato catoniano (10,2). →Varrone (l.l. 5,136 ; cfr. anche Fest. 93,23 L.) descrive l’attrezzo come un’asta (regula) fornita di molti denti, trainata dai buoi come un carro, simile a un rastellus. Era funzionale all’eliminazione delle erbe infestanti, e può essere paragonato all’erpice-rastrello a  

Ateneo Meccanico. Autore di un’opera sulle macchine [→meccanica] da guerra, il peri; mhcanhmavtwn, di lui sappiamo pochissimo ed anche la datazione è incerta, sebbene la critica sia ormai propensa a collocarlo nel i sec. a.C., identificandolo con quell’Ateneo di Seleucia menzionato da →Strabone (14, 5, 4). [1] Il trattato espone la costruzione di potenti macchine utilizzate negli assedi delle città, come torri [→elepoli], →testuggini ed altre protezioni e arieti [→ariete]. L’organizzazione della materia presenta notevoli affinità col x libro di →Vitruvio (de architectura), dedicato proprio alle macchine, civili e militari. Si pensa quindi che entrambi abbiano attinto da una fonte comune. [2] Ateneo doveva essere senz’altro un uomo di cultura, come dimostrato dalle citazioni di Omero e Isocrate (4, 3-7 ; 6, 6-7).  





Note. [1] Vd. Whitehead-Blyth 2004, 15 sgg. – [2] Cfr. Callebat 1998 ; Whitehead-Blyth 2004.  

Bibliografia. Baatz 1997 ; Callebat 1998 ; Marsden 1969 ; Marsden 1971 ; Whitehead-Blyth 2004.  







Attrezzi agricoli. 1. – Lo studio degli attrezzi impiegati nell’agricoltura antica presenta – come del resto per altri settori del lavoro antico – notevoli difficoltà, legate essenzialmente al fatto che tali manufatti erano realizzati spesso interamente in legno. Anche il ferro, d’altra parte, è materiale soggetto a deperimento. L’iconografia viene limitatamente in aiuto, ed anche dal punto di vista linguistico sussistono numerosi problemi, visto che un medesimo attrezzo è spesso identificato, nelle fonti, con termini diversi, o un medesimo termine è impiegato per definire differenti manufatti (White 1975, 213-222). La comparazione con la cultura materiale moderna può giocare, infine, un ruolo importante. Famosa è la distinzione varroniana (tuttavia attribuita ad « altri » agronomi) fra tre tipi di attrezzi : vocale, semivocale e muto, ovvero schiavi, buoi e carri (r.r. 1,17,1). Lo spirito di autosufficienza a cui è improntata l’economia agricola antica emerge  









Francesco Fiorucci















attrezzi agricoli trazione animale noto presso diverse civiltà europee ed asiatiche. L’etimologia dello strumento è stata interpretata in modo diverso : da hirpus « lupo » o « caprone » (come hircus), in riferimento, rispettivamente, ai denti dell’erpice o alla sua forma bidente ; in ogni caso l’ambiente d’origine dovrebbe essere, con probabilità, l’Italia centro-meridionale, in particolare il Sannio. L’erpice-rastrello scomparve forse già intorno al i sec. a.C. (nessuna menzione da →Virgilio in poi), sostituito dalla nuova forma ‘a graticcio’, definita crates (termine polisemico), costituita con rami di vimini e arbusti spinosi attaccati a una tavola : cfr. Verg. georg. 1,94 e 165. Di questo strumento l’indagine comparativa etnografica ha consentito di ricostruire bene forme e impieghi : →Plinio parla di « pettinatura » del terreno (nat. 18,50), nonché di un erpice ‘dentato’. Oltre che nella olivicoltura abbinata ai cereali [→cereale], per lo sminuzzamento delle zolle e la ripulitura del →terreno, l’erpice era impiegato anche per la coltivazione dell’erba medica, per ricoprire i seminati dopo l’→aratura. Si può affermare, in sostanza, che l’erpice ebbe un ruolo importante nell’agricoltura antica già dal ii sec. a.C., nonostante fosse un attrezzo sicuramente meno diffuso dell’aratro : la trazione a cavalli, più efficace e veloce di quella a buoi, lo rendeva meno fruibile (Kolendo 1980, 129-154). 4. La mietitrice. – Sulle norme di lavoro della mietitura le fonti antiche forniscono dati scarsi e assai divergenti : ciò testimonia dei differenti modi di eseguire questa operazione, e delle differenti produzioni che si volevano ottenere : grano, paglia, fieno (Varr. r.r. 1,50 ; Colum. 2,20 ; Geop. 2,25). I diversi sistemi potevano dipendere dalle condizioni naturali, ma anche dalla tecnologia. Una mietitrice ‘complessa’, che sostituiva il faticoso lavoro dell’uomo, era in uso nei latifondi pianeggianti della Gallia settentrionale, come testimoniano Plinio (nat. 18,30) e →Palladio (7,2,2-4), nonché alcuni bassorilievi tardoantichi : si trattava di un carro a cassone spinto da animali e munito sul fronte di denti ; il suo impiego comportava la perdita della paglia (e di una parte del raccolto, vista l’imprecisione), ed era privilegiato allorché si doveva procedere rapidamente alla mietitura, dunque in una logica estensiva propria del latifondo (Kolendo 1980, 155-177). 5. Il torchio. Torchi per la spremitura delle uve sono descritti già in Omero (Od. 7,123-125)  

































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e →Esiodo (op. 612-614). La terminologia delle diverse parti dello strumento è complessa e spesso differente per autori e periodi (White 1975, 107-204 ; Sparkes 1976). La pigiatura con i piedi era la più diffusa, e tutta l’apparecchiatura del torchio, almeno per l’antica Grecia, per una produzione a consumo interno, non necessitava di ampi locali. →Catone descrive invece minuziosamente la tecnica di realizzazione di un torcularium a cinque vasi, munito di contrappesi e meccanismi a ruote e pulegge (agr. 12-13 ; 18-19). Ma un sistema più vantaggioso, basato sul sistema della leva, è descritto da Erone Alessandrino (e da Plinio nat. 18,317) : quest’ultimo si è affermato nell’occidente medioevale e moderno (White 1984, 67-70). 6. Il frantoio. Nessuna menzione del frantoio (trapetum ; cfr. gr. trevpw) è rinvenibile nelle fonti letterarie greche, benché questo attrezzo ci sia noto da alcune testimonianze iconografiche e da documentazione archeologica (Isager-Skydsgaard 1992, 57-66). Le macine rinvenute nei siti rurali sono composte da due ruote parallele che girano perpendicolarmente su una vasca in pietra. Questo strumento, tuttavia, non sembra così diffuso in area greca, dove è attestata anche la pigiatura delle olive con i piedi (ovvero con scarpe pesanti) : in tale ottica vanno lette le indicazioni per far maturare il più possibile le olive e renderle più lavorabili. Il processo della produzione di olio, infatti, passa inevitabilmente per tre momenti distinti e indispensabili : frangitura, torchiatura e decantazione. Nel mondo romano il frantoio è uno degli attrezzi agricoli complessi più importanti. La descrizione più dettagliata per realizzare un trapetum è nel trattato catoniano (agr. 20-22) : si tratta di una pressa a leva ed argano, che poteva arrivare alla pressione di una o più tonnellate con la forza di uno o due uomini. La pressa pliniana (nat. 18,317) costituisce un’evoluzione di quella catoniana : si tratta di un sistema che abbina il principio della leva a quello del piano inclinato, evitando così oscillazioni della trave pressoria (posta tra due colonne) ; una vite consentiva di imprimere forza maggiore rispetto a quella dell’argano. La pressa pliniana è una delle macchine agricole più potenti della cultura materiale preindustriale, e non ha conosciuto declino fino al xx sec. (Mannoni 2004). I vari elementi che compongono l’attrezzo sono realizzati in legno, metallo e pietra, e sono indicati nelle fonti  

















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azienda agricola

con diversa e complessa terminologia (White 1975, 107-204). Bibliografia. Andrei 1981, 41-58 ; Bruno 1969, 45-54 ; Bryer 1986 ; Caramico 2002 ; Frayn 1979, 130-146 ; Isager-Skydsgaard 1992, 44-66 ; Mattingly 1996 ; White 1967 ; White 1975 ; White 1984, 58-72.  

















Emanuele Lelli Azienda agricola. 1. Realtà economica e immaginario. – Nel panorama generalmente ‘primitivistico’ dell’agricoltura antica c’è un dato che si distanzia fortemente : l’economia imprenditoriale e avanzata rappresentata dalle villae romane di ii sec. a.C.-iii sec. d.C., vere e proprie manifatture rurali, su base lavorativa fondamentalmente schiavistica. “È di fronte a questi luoghi di produzione, al carattere in serie dei loro prodotti, che vien meno la visione tutta e solo qualitativa della tecnologia antica, e affiora al contrario l’aspetto della fatica, dell’utilitarismo, dell’antiesteticità, della standardizzazione, della ricerca di valori di scambio e di conseguenza anche quello della educazione professionale degli schiavi, della divisione del lavoro e della loro specializzazione” (Carandini 1980, xxiii). Il piacere di passare il tempo, soprattutto estivo, nelle tenute di campagna, è già un tema dell’Economico senofonteo (5,8-11). L’evidenza archeologica, tuttavia, ci mette di fronte a un dato : nessuna fattoria più che ‘autosufficiente’, paragonabile alle villae della Roma tardorepubblicana ed imperiale, è mai stata ritrovata in ambito greco. [1] Anche dal punto di vista terminologico, del resto, non esiste in greco l’equivalente del latino villa. Quella della Grecia antica è, per molti versi, un’economia agricola di sussistenza, fondata su un ciclo di lavoro (e di vita) della piccola fattoria che dipende dalla capacità della conduzione umana nel calcolo tra rischi e vantaggi (Gallant 1991). Nel mondo romano, invece, il centro dell’azienda agricola è il fabbricato rustico, dimora della famiglia del fattore e della servitù, sede dei laboratori di trasformazione dei prodotti agricoli (torchio, frantoio) e dei depositi di conservazione delle derrate. In molti trattati agronomici antichi (→Catone, →Varrone, →Columella, →Geoponica, ma anche →Plinio) è riservata una sezione importante proprio alla scelta del sito e alle tecniche di costruzione della villa con tutti gli annessi magazzini  





e laboratori. Principio fondamentale dell’organizzazione dell’azienda agricola è l’ordine, cioè la razionalità (e insieme l’armonia) nella disposizione di tutti gli elementi, dalla concezione urbanistica alla sistemazione di utensili e attrezzi (così fin da Xen. Oec. 8-9). Già da Catone (agr. 1-4) sono presi in considerazione, per il sito : le vie di accesso, la posizione climatica, la prossimità di rifornimenti idrici, ma anche i proprietari confinanti. Indicazioni tecniche precise sono fornite per la realizzazione delle stalle (mangiatoie che non siano rovesciate dal bestiame, sbarre di misura consona : Cat. agr. 4) ; delle fondamenta e delle muraglie (14-16, con relativo contratto) ; dell’aia (91, 129 ; cfr. anche Verg. georg. 1,177-186 ; Geop. 2,26). Varrone insiste sulla scelta della posizione della villa e sull’approvigionamento idrico (r.r. 1,11), nonché sulla presenza, nelle vicinanze, di pericoli, città, mercati, vie di comunicazione (r.r. 1,16) ; la topografia della fattoria varroniana prevede cisterne, depositi per gli attrezzi, vasche per abbeveratoi, due cortili, due letamai, un’aia, cantine in piano e in solaio, stalle distinte per →bovini e →ovini, locali per la schiavitù e ambienti padronali (ib. 1,13) ; importanti sono le recinzioni della tenuta, di quattro tipi (vd. anche Colum. 11,3,4-7) : naturale (siepi), rustico (palizzate), militare (fossato), murario (opere a secco). [2] Analoghe indicazioni si trovano in Columella (1,3-6), che raccomanda di attenersi al precetto della misura sia nell’acquisto del fondo sia nella costruzione della villa, facendo proprio il virgiliano « ammira le vaste campagne,/ coltiva un podere piccino » (georg. 2,412 s : laudato ingentia rura/ exiguum colito). Plinio fonda le sue riflessioni sui precetti catoniani, e menziona diversi esempi di villae appartenute a personalità rilevanti di Roma (18,28-43). Sintetica la trattazione in Geop. 2,3. 2. Il ‘massaro’. – Un ruolo fondamentale, nell’azienda agricola incentrata sulla piantagione schiavistica monocolturale, soprattutto nel periodo tardo-repubblicano e proto-imperiale, ha la figura del vilicus, il fattore libero a cui sono demandate la vigilanza e l’organizzazione del lavoro sia degli schiavi residenti sia dei braccianti stagionali per le colture specializzate (vite e olivo), e molte altre attività che non può svolgere, in loco, il padrone residente in città (Xen. Oec. 12 ; Cat. agr. 5 ; Colum. 1,8,4 ss. ; 11,1) : questi, tuttavia, deve recarsi il più possibile a ‘visitare’ la sua villa, e a chiedere conto  

































azienda agricola delle attività ai competenti (anch’esso un topos della tradizione agronomica : Xen. Oec. 11,14 sgg. ; Cat. agr. 2 ; Colum. 1,7 ; Geop. 2,1 e 44-45). La descrizione del vilicus catoniano (5,1) rimane a fondamento della tradizione agronomica romano-bizantina : « Sia di retti principi ; sia osservante delle festività ; tenga la mano lontana dalla proprietà altrui, vegli con diligenza sulla propria ; impedisca liti fra gli schiavi ; se qualcuno avrà commesso un errore, lo punisca secondo la gravità della colpa, ma in modo ragionevole […]. Tenga occupati gli schiavi, badi che siano fatte le cose che ha comandato. Il massaro non ritenga di saperne di più del padrone ». Columella (11,1) elenca numerosi e dettagliati consigli sull’età, sulla formazione, sui precetti di vita, e soprattutto aggiunge interessanti considerazioni di psicologia del lavoro, inerenti al rapporto fra il vilicus e gli schiavi lavoratori. Un ruolo notevole è assegnato nei trattati agronomici anche alla vilica (già in Xen. Oec. 7,35-37 ; 9,11-19 ; Cat. agr. 143 ; Columella vi dedica una cospicua sezione all’inizio del libro xii, seguita da un’ampia rassegna di ricette ; e vd. anche  

























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1,8,5 sg.), moglie del massaro, che deve avere le medesime qualità morali e fisiche del vilicus, e deve occuparsi principalmente della conservazione dei prodotti, della manutenzione delle suppellettili domestiche, della preparazione della lana e dell’organizzazione del lavoro di tessitura, delle cure mediche agli schiavi, della cucina (Carlsen 1993). Diversa la situazione in Grecia, ove la figura dell’epitropos/oikonomos (nota da →Senofonte) non sembra avere compiti precisi e codificati (Carlsen 2002). Note. [1] Le indagini archeologiche testimoniano invece agglomerati di fabbricati rustici residenziali, come garantiscono iscrizioni funerarie nelle vicinanze : vd. Lohmann 1992. – [2] Sulle recinzioni vd. White 1975, 24-28.  

Bibliografia. Bruno 1969, 159-214 ; Carandini 1989 ; Corbier 1981 ; Frayn 1979, 115-129 ; Gallant 1991, 11-141 ; Isager-Skydsgaard 1992, 67-82 ; Maroti 1976 ; Steiner 1969 ; Teitler 1993 ; Torelli 1990 ; White 1970b, 415-445.  























Emanuele Lelli

B Bagno [balanei`on, loutrovn, balineum o balneum]. Come elemento della →dietetica e della →terapeutica, il bagno, aveva funzioni varie : di purificazione cultuale, [1] di ricreazione e anche di luogo di incontro sociale. Bagni terapeutici con acque termali erano spesso connessi con il culto di Asclepio (ad es. a Pergamo). Dagli scavi archeologici sono documentati fin da età micenea e sono anche attestati da fonti letterarie fin dai tempi di Omero bagni privati in dimore o palazzi, sia per igiene personale che per ricreazione o ristoro. I primi edifici di bagno pubblico sono documentati in Grecia a partire dal sec. v a.C., da strutture di grandezza varia. Le sale da bagno più importanti erano rappresentate per lo più da una sala rotonda, con struttura a qovlo~, in cui erano posizionate più vasche : ci si lavava con acqua calda. In realtà sistemi di riscaldamento per i bagni sono stati ritrovati solo in qualche località, come a Gortina (Arcadia), Gela etc. Nella tradizione ippocratica il bagno rappresenta, come è noto, parte della →dietetica. [2] Le funzioni erano molteplici : preventiva, terapeutica [3] e ricreativa. Nel Corpus Hippograticum si rinvengono per il bagno alcuni principi che resteranno saldi per tutta l’età antica : i bagni hanno alto valore terapeutico, restituiscono la salute e sono benefici per svariate malattie, naturalmente se praticati in condizioni ambientali adeguate e con uso adeguatamente rapportato alla complessione fisica degli individui e alle stagioni. [4] Così leggiamo : « I bagni possono essere utili per tutta una serie di malattie, in certi casi se praticati con continuità, in altri no [vengono poi fornite modalità dei bagni stessi ; si discute di frizioni etc.] ; il bagno fa bene nelle ‘peripneumonie’, più che nelle febbri […] fa maturare e poi eliminare quanto si espettora, asseconda la respirazione ed elimina la stanchezza, poiché ammorbidisce gli arti e la superficie della pelle […] ». [5] Leggiamo ancora : « È opportuno effettuare molti bagni in estate, meno numerosi in inverno ; gli individui magri devono effettuare bagni più frequenti degli individui grassi ». [6] Nei tempi più antichi ai bagni è collegata un’opinione negativa : non sono adatti per uomini, ma solo per donne, persone anziane e malati. [7] Agli uomini sono invece destinati i ginnasi, in cui gli esercizi fisici si concludono con un ‘bagno di sudore’  





































in una sorta di ‘bagno a vapore’ (puriathvrion) e con bagni di acqua calda. Dall’età ellenistica viene confermata la funzione terapeutica dei bagni. A partire dal iv sec. a.C. i bagni si diffondono in tutto il mondo ellenistico, inclusa Magna Grecia e Sicilia. Nello stesso periodo la pratica di bagni pubblici e terme si diffonde anche a Roma : vengono create grandi strutture (thermae), che, accanto ai bagni veri e propri, comprendono anche impianti sportivi, biblioteche e sale per assemblee ; le thermae restano tuttavia prerogativa delle città. I bagni romani, influenzati certo nelle strutture dai bagni greci, mostrano nell’architettura, favorita dal nuovo materiale da costruzione, opus caementicium, predecessore del moderno ‘cemento armato’, e nell’arredamento il loro particolare sviluppo. Assommano, come i bagni greci, funzioni di balaneion e di gymnasion in complessi strutturali in cui sono combinati insieme igiene, attività fisica e vita sociale. Dopo lo spogliatoio (apodyterium, gr. apodyterion) si compie una breve sosta nel tepidarium, sala da bagno tiepida, e si entra nel cal(i)darium, dove è praticata la vera e propria cura ‘igienica’ ; concludono il bagno una successiva sosta nel frigidarium, con immersione in acqua fredda, e una unzione con olio. Può essere opzionalmente utilizzato anche il laconicum o sudatorium, che si trova normalmente presso il frigidarium. La sequenza delle sale da bagno calde è basata su un aumento progressivo della temperatura, ottenuto attraverso il riscaldamento del pavimento (lat. hypocaustum), più tardi anche delle pareti e delle volte. Attraverso →Celso, →Galeno e autori tardo-antichi le teorie sul bagno del Corpus Hippocraticum vengono compartecipate al mondo romano. Abbondano ad es. resoconti sul bagno di persone malate. [8] Celso parla a lungo del sudore e del bagno : « Il sudore è provocato in due modi, o dal calore secco o dal bagno. Il calore secco è quello della sabbia calda e del laconicum e del ‘forno’ e di certe sudate naturali, in cui il vapore caldo, salendo da terra, è racchiuso nell’edificio, come ne abbiamo sopra Baia, nelle coltivazioni di mirto […] Ma l’attività del bagno [in caso di febbre] è duplice. Infatti talora, eliminate le febbri, comporta la possibilità di assunzione di un cibo più abbondante e di un vino più robusto, talora elimina la stessa febbre ; per lo più viene utilizzato quando è opportuno far rilassare la superficie della pelle, far espellere gli  













balista/ballista umori corrotti e modificare lo stato del corpo. Gli antichi ne facevano un uso più circospetto, Asclepiade invece ne fa uso con maggiore determinazione e audacia. Né quell’attività, se fatta al momento opportuno, deve procurare timore. È nociva se praticata prima del tempo giusto […] ». [9] A valenze terapeutiche particolari dei bagni accenna Plinio. [10]. Galeno sottolinea che, dal momento che i bagni svuotano il corpo e dissolvono le scorie di fumo e fuliggine in esso contenute, « moltissimo sono danneggiati dal bagno gli individui che hanno nel corpo qualche residuo, qualora siano deboli il fegato o lo stomaco, o i polmoni, o il petto o qualcuno degli organi principali ». [11] Galeno discute anche ampiamente dei bagni, di quelli caldi in acqua dolce, di quelli freddi, di quelli in acqua sorgiva, di temperatura media, bollente, tepida, fredda. [12]  













Note. [1] Hom. Il. 1, 314 ; Hdt. 2, 37, 2. – [2] Hp. Vict. 2, 57 / 6, 570, L ; De arte 5 / 6, 8 L. – [3] Hp. Acut. 18 / 2, 364-370 L. – [4] Cfr. Mazzini 1997, 359-360. – [5] Hp. Acut. 18 / 2, 364-370 L ; cfr. anche Mazzini 1997, 360. – [6] Hp. Salubr. 3 / 6, 76 L. – [7] Ar. Nu. 991 e 1044-1054 ; Ath. 1, 18c ; Pl. Lg. 761 c-d. – [8] Cels. 1, 5 e 7 / 39-40 M ; Gal. Meth. Med. 11, 10 / 10, 762-64 K. – [9] Cels. 2, 17, 1-3 / 86-87 M. La descrizione dell’attività termale prosegue fino a 2, 17, 7 / 88 M e poi, con una trattazione su unzioni e fomenti, fino 2, 17, 10 / 88 M. – [10] nat. 31, 59-60. – [11] Gal. Meth. med. 11, 20 / 10, 804 K. – [12] San. tu. 3, 4 / 6, 182-189 K.

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numeri Balbilli, un metodo messo in piedi da B. per conoscere la durata della vita e Dione Cassio (65, 9, 2) ci informa dell’istituzione di giochi in suo onore ad Efeso da parte dell’imperatore Vespasiano, chiamati appunto Balbilleia o Barbilleia. Della sua opera, nota come Astrologumena, rimangono soltanto dei frammenti[1] e un riassunto. [2] Significative sono invece le citazioni di autori romani quali Seneca, [3] Tacito, [4] Svetonio. [5]  







Note. [1] Ed. F. Cumont, ccag viii 4, 233-238 e 240244. – [2] Ed. F. Cumont, ccag viii 3, 103-104. – [3] Sen. nat. 4, 2, 12. – [4] Tac. ann. 13, 22. – [5] Svet. Nero 36. Bibliografia. Gundel-Gundel 1966, 151 sgg. ; Rochberg 2008a, s.v. Balbillos (Barbillos), 188 ; Urso 2002, 114.    

Carmelo Lupini













Fonti. Hom. Il. 1, 314 ; Hdt. 2, 37, 2 ; Hp. Vict. 2, 57 / 6, 570 L; De arte 5 / 6, 8 L ; Acut. 18 / 2, 364-376 L ; Salubr. 3 / 6, 76 L ; Ar. Nu. 991 e 1044-1054 ; Ath. 1, 18c ; Pl. Lg. 761 c-d ; Cels. 1, 5 e 7 / 39-40 M ; 2, 17, 1-10 / 86-88 M ; Plin. nat. 31, 59-60 ; Gal. San. tu. 3, 4 / 6, 182-189 K; Meth. med. 11, 20 / 10, 804 K.  















Balista/Ballista [ballivstra, ballista]. 1. Origini. – Tra le macchine da getto d’età ellenistica, la balista è una di quelle che sono state maggiormente utilizzate tanto dai Greci come dai Romani, soppiantata solo in epoca tarda dall’→onager. Conosciuta principalmente attraverso le opere di →Filone di Bisanzio e di →Erone, venne inventata probabilmente intorno al iv sec. a.C. e si trattava di un congegno complesso e di grandi dimensioni, simile alla catapulta dal punto di vista del funzionamento balistico ma diversa da quest’ultima per alcune particolarità tecniche (i perni congiunti dalla corda di lancio non erano infissi nella ma-







Bibliografia. Fontanille 1985 ; Ginouvés 1962 ; Heinz 1996 ; Mazzini 1997, 359-361 ; Melillo-Corleto 2004 ; Nielsen 1993 ; Nielsen 2002 ; NielsenStruss Höcker 1997 ; Weber 1996 ; Yegül 1992.  

















Sergio Sconocchia Balbillo (o Barbillo) di Efeso. Astrologo di corte attivo a Roma dove offrì i suoi servigi agli imperatori Claudio, Nerone e Vespasiano; nominato praefectus Aegypti negli anni 55-59 d.C. a seguito delle benemerenze che il suo lavoro di astrologo gli aveva procurato presso Nerone, è stato identificato con il figlio di Trasillo, che era stato astrologo di Tiberio e Claudio. Molto frequentata a Roma era l’abitudine di consultare i

Fig. 1. Balista secondo Vitruvio (da Russo 2004).

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tassa di corda ritorta, ma bensì al telaio ed erano formati da lamine metalliche elastiche) e per essere destinata prevalentemente al lancio di proiettili sferici in pietra o metallo, singolarmente o per piccoli gruppi, secondo il tipo di modello. 2. Funzionamento ed evoluzioni tecniche. – Originariamente e per lungo tempo la balista funzionò sfruttando il meccanismo della ‘tensione’, con l’utilizzo di materiali sempre più resistenti, ma dopo essere entrata a far parte degli equipaggiamenti dell’esercito romano subì diverse modifiche e adottò quello della ‘torsione’ [1] [→torsione], che assicurava un’efficacia e una mira ancora maggiore, come ci informa →Vitruvio nella celebre descrizione che fa di questa macchina nel x libro del De architectura (10, 11, 1). Usata soprattutto per danneggiare e distruggere le difese leggere in legno presenti sugli spalti e le artiglierie nemiche, e quindi principalmente come mezzo d’offesa, era in grado di scagliare proiettili con una notevole violenza da una certa distanza, come mostrano le impronte documentate sulle mura di Pompei. [2] Macchine lancia frecce erano invece le baliste descritteci da →Vegezio (4, 22) e →Ammiano Marcellino (23, 4, 1-3), ma tra i prodigi dell’artiglieria tardoantica va ricordata soprattutto la cosiddetta ballista fulminalis. Si trattava di un’arma presumibilmente di grandi dimensioni e dalla potenza formidabile, come attesta la sua stessa denominazione (dal lat. fulmen, «fulmine»), in grado di colpire gli avversari da notevole distanza senza che questi potessero in alcun modo rispondere al fuoco, come per esempio dall’opposta riva di un grande fiume come il Danubio (Anon. de reb. bell. 18). Alcuni tipi di balliste potevano essere posizionate anche sulle mura, operando quindi come armi difensive, per colpire gli eserciti assedianti e le loro macchine, grazie all’uso di proiettili incendiari [→fuochi e tecniche incendiarie] (Amm. 20, 7, 10 e Veg. 4, 18), oppure essere montate su carri (denominate in questo caso carroballistae), coniugando così l’agilità dei reparti di arcieri con una maggior potenza e gittata (Anon. de reb. bell. 7). Sotto il nome di manuballista (o cheiroballistra) deve essere invece identificata una macchina attribuita ad→Erone di Alessandria e che consiste, in pratica, nella ‘miniaturizzazione’ della più nota catapulta in modo da renderla portatile ; progenitrice della balestra e nota anche nella variante denominata scorpio (diffusa soprat 



Fig. 2. Carrobalista (da Russo 2004).

tutto nella Spagna romana), era in grado di scagliare dardi di medie dimensioni e, in alcuni casi, mediante opportune modifiche, anche →ghiande missili. [3] Col termine ballistarii, infine, si indicano i legionari addetti ai pezzi d’artiglieria, armati alla leggera come i colleghi arcieri e frombolieri [→ghiande missili] (Veg. 2, 2). L’importanza del loro ruolo all’interno dell’ordinamento militare romano, dovuto alla loro specializzazione nell’uso di certe macchine, ci risulta dal fatto che fossero esonerati da alcuni doveri che invece spettavano ai soldati semplici, come i turni di guardia. Nel tardo Impero i ballistarii vennero raggruppati a formare dei veri e propri reparti speciali di supporto alle truppe, che stazionavano nelle varie regioni pronti all’azione, come quello cui il neo Cesare Giuliano affidò la propria difesa nel suo trasferimento verso Autosudorum (odierna Auxerre), durante le campagne contro gli Alamanni del 356 d.C. (Amm. Marc. 16, 2, 5).  

Note. [1] Cfr. il termine eujquvtono~ e il suo opposto palivntono~ («con tensione diritta» e «con tensione a rovescio»); la seconda arma è più potente della prima: vd. Ath. Mech. 14, 6; Her. Bel. 74, 5. – [2] Vd. Russo 2004, 186-187. – [3] Rihill 2007, 66. Bibliografia. Marsden 1969 ; Marsden 1971 ; Campbell, D. B. 2003a ; Russo 2004 ; Rihill 2007.  







Lucio Benedetti · Francesco Fiorucci Biblioteche antiche. 1. Definizione. – Con il termine biblioteca (biblioqhvkh, bibliotheca [→ Edilizia Pubblica, 1.3]) gli antichi intendevano sia la raccolta libraria in quanto tale, che l’edificio o il locale in cui essa era conservata :  

biblioteche antiche Bibliothecae et apud Graecos et apud nos tam librorum magnus per se numerus, quam locus ipse in quo libri conlocati sunt, appellatur (Fest. s.v.). [1] Le prime testimonianze di biblioteche sono, come nel caso delle prime testimonianze relative all’uso del rotolo, immagini vascolari : è dell’inizio del v secolo il vaso di Onesimo, in cui è raffigurato un lettore che ha dinanzi a sé una capsa piena di libri, da cui ne ha estratto uno : il vaso documenta l’esistenza di una piccola biblioqhvkh, cioè di una piccola raccolta di libri. E tra le più antiche attestazioni del termine ricordiamo un passo della commedia di Cratino il Giovane intitolata UJ pobolimai`o~ (Poll. 7, 211). 2. Biblioteche nel mondo greco. – Sgombrato facilmente il campo dall’idea che vi furono biblioteche pubbliche in età arcaica – la falsa biblioteca di Pisistrato di cui favoleggiavano già gli antichi altro non sarà stato che la raccolta di poemi omerici, cioè la raccolta libraria per antonomasia all’epoca del tiranno –, [2] le prime biblioteche documentate per il mondo greco sono raccolte private, spesso legate al collezionismo di gente facoltosa, o all’attività di dotti e intellettuali per i quali il libro era strumento di lavoro, [3] Tra queste raccolte, le quali lasciano intravvedere anche l’esistenza di forme di commercio librario (a tal proposito ricordiamo biblioqhvkh è per Eupoli il luogo dove si acquistano i libri : ou| ta; bibliv j w[nia (Poll. 9, 47 = fr. 11 K.-A. [pcg iv 344]), nel tempo sempre più evoluto e organizzato, ricordiamo quelle di Euripide, Eutidemo, Euclide, Platone, Speusippo, Aristotele, Isocrate : la biblioteca per questi uomini di lettere e intellettuali è necessario e imprescindibile strumento di lavoro. [4] E questo al di là di esplicite menzioni che si possono eventualmente cogliere all’interno delle loro opere ; altrettanto significativi in tal senso sono quei passi in cui gli autori citano, discutono, riprendono, o confutano il pensiero di altri autori. La nascita di raccolte librarie nel più antico mondo greco, infatti, è strettamente collegata all’aumento di usi e funzioni del libro che, nel iv secolo a.C., è ormai diventato consapevole strumento di conservazione, circolazione e diffusione delle idee. [5] Non a caso tra le più antiche (e meglio documentate) biblioteche annoveriamo quella di Aristotele, fondatore e scolarca del Peripato, la cui storia – ben nota (anche se non priva di punti oscuri) dai racconti di Strabone (13, 1, 54), Plutarco (Sull. 26,  



















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2), Ateneo (1, 3a e 5, 214e) – intreccia quella di tre cruciali biblioteche antiche : la biblioteca di Alessandria, la biblioteca di Pergamo e la biblioteca privata di Silla, cui si approvvigionerà anche Cicerone (fin. 3, 7 e sgg.). La celebre pagina di Strabone mette in stretta correlazione la figura di Aristotele e le sue competenze in materia di ars bibliothecaria con la nascita di quella che sarà la più importante biblioteca nel mondo antico, ancora oggi considerata l’idealtipo di biblioteca universale : prw`to~ w|n i[smen  



sunagagw;n bibliva kai; didavxa~ tou;~ ejn Aijguvptw/ basileva~ biblioqhvkh~ suvntaxin (13, 1,

54). [6] Ad Alessandria, peraltro, si inaugura una nuova funzione per la biblioteca : la biblioteca come luogo di raccolta e di studio dei testi. Qui per circa cinque secoli una comunità di studiosi lavorò alacremente e contribuì a censimento, organizzazione e trasmissione del sapere : i filologi alessandrini, utenti privilegiati di questa biblioteca raccolsero, classificarono, studiarono, tradussero, interpretarono e commentarono il sapere noto fino ad allora. [7] È alla biblioteca del Museo di Alessandria e al lavoro critico che ivi si svolse per opera dei filologi/ bibliotecari (tra gli altri Zenodoto, Apollonio Rodio, Eratostene, Aristofane di Bisanzio, Apollonio Eidografo e Aristarco). [8] che infatti dobbiamo la sopravvivenza di tanta letteratura greca : essa si è conservata in migliaia di frammenti papiracei che, pur non provenendo direttamente da Alessandria, ma da piccoli centri della chora greco-egizia, costituiscono per noi la sua emanazione diretta e quasi tangibile. Il patrimonio della biblioteca, che stando alle fonti ammontava a 490.000 rotoli (Tz. Proll. Com. p. 32 Koster), andò disperso a causa di un incendio nel 272 d.C., nel corso della guerra tra l’imperatore Aureliano con Zenobia di Palmira. Ma ad Alessandria, per almeno un altro secolo, filologi e studiosi in generale poterono giovarsi ancora della biblioteca del Serapeo, il cui patrimonio, benché notevolemente inferiore a quello della biblioteca del Museo (42.800 rotoli, secondo lo stesso Tzetzes), sopravvisse fino quasi alla fine del iv secolo d.C. La biblioteca di Alessandria, peraltro, dové costituire un modello per le fondazioni palaziali di età ellenistica, a partire da quella di Pergamo, la cui biblioteca – fondata dai re Attalidi tra la fine del iii sec. a.C. (Attalo I) e gli inizi del II a.C. (Eumene II) – fu sempre considerata, già nella letteratura antica, la rivale, il model 











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lo antagonista rispetto a quello alessandrino. Stando a quel che leggiamo in Vitruvio (7, praef. 4), fu creata ad communem delectationem, anch’essa ospitava un ricco fondo librario, e al suo interno si praticavano gli studi filologici, la cui eco è oggi riconoscibile in alcuni scoli e commentari antichi. Tra i nomi dei bibliotecari che, come ad Alessandria, svolsero attività filologica si è conservato quello di Atenodoro (Diog. Laert. 7, 34). Tra gli studiosi pergameni ricordiamo Cratete di Mallo, Antigono di Caristo, Polemone di Ilio, Apollonio di Perge. Sulla ricchezza di questa biblioteca non disponiamo di fonti, se non della notizia – riferita da Plutarco (Ant. 58, 9) – secondo cui Antonio fece dono a Cleopatra di 200.000 rotoli di papiro di provenienza pergamena. Diversamente che per la biblioteca di Alessandria, di cui non si sono conservati resti archeologici, i resti della biblioteca di Pergamo sono venuti alla luce nel corso di scavi condotti nel xix secolo : essa era costituita da una grande sala rettangolare, direttamente accessibile dalla stoa, lungo la quale correva un podio ; di fianco alla grande sala sono stati individuati tre ambienti, forse usati come magazzini per i libri. Tra le altre fondazioni palaziali di cui si è conservata evidenza archeologica ricordiamo quella di Aï Khanoum (in Afghanistan), che risale al re greco-battriano Eucratide (ii sec. a.C.), della quale si sono conservati, peraltro, impressi a mo’ di decalcomania, resti (ancorché scarsi) del suo patrimonio librario (testi filosofici e versi di commedie), [9] e forse quella di Antiochia che, secondo quel che leggiamo nel lessico di Suida, dové avere carattere pubblico : di questa biblioteca è noto anche il nome di uno dei suoi direttori, il poeta Euforione di Calcide, nominato dal re Antioco il Grande (s.v. Eujforivwn). Il modello della biblioteca legata all’istituzione scolastica, inaugurato da Platone e Aristotele, e subito preso di mira dai commediografi (cfr. il frammento della commedia Lino di Alessi in Ath. 164 b-d), fu anche alla base delle biblioteche dei ginnasi, la cui esistenza è documentata in Grecia, ma anche in Magna Grecia, da epigrafi che registrano acquisizioni di libri ad opera di munificenti donatori : [10] talora esse conservano solo la notizia di donazioni più o meno cospicue (si veda e.g. ig ii/iii2 1009, ig ii2 1029-1030, ig2 ii/iii 1040-1043) ; talaltra addirittura l’elenco in dettaglio delle opere donate : è il  







   





caso di tre celebri epigrafi provenienti da Rodi (Nuova Silloge Epigrafica di Rodi e Cos, 14, nr. 11 e 7, nr. 4), Cos (« BCH » 59, 1935, 421-425) e Tauromenion (ig ii/iii 2 2363). [11] 3. Biblioteche private dei Romani. – Le fonti documentano l’esistenza di altre biblioteche ellenistiche, alcune delle quali costituiranno – nel segno di una continuità che è bensì cronologica, ma soprattutto culturale – i nuclei delle prime biblioteche romane, che furono private, frutto del bottino delle guerre di conquista : oltre alla già menzionata biblioteca di Apellicone ad Atene, scelta da Silla nell’86 a.C. come bottino di conquista e da lui trasportata a Roma, ricordiamo la biblioteca del re macedone Perseo che, a seguito della vittoria a Pidna nel 168 a.C., Lucio Emilio Paolo scelse di portare a Roma, anch’essa come bottino di guerra e infine la biblioteca di Mitridate, re del Ponto, portata a Roma da Lucullo nel 66 a.C. [12] Le prime biblioteche a Roma sono dunque private, costituite per lo più da testi greci, bottino delle guerre di conquista condotte in Oriente tra ii e i sec. a.C. [13] Ed è proprio a partire dal ii secolo a.C. che – stando alle fonti – le biblioteche entrano pian piano nelle domus dei Romani, siano essi eruditi e letterati, o indocti : ricordiamo le biblioteche di Tito Pomponio Attico, amico e editore di Cicerone, e le varie biblioteche dello stesso Cicerone, disseminate nelle numerose ville che possedeva : [14] all’ordinamento del suo patrimonio librario, implementato anche grazie all’impegno di Attico e ad acquisizioni come quella derivante dal lascito dell’amico Lucio Papirio Peto, uomo d’affari e epicureo (Att. 1, 20, 7 e 2, 1, 12), erano preposti schiavi di provenienza greca, talvolta procuratigli dallo stesso Attico (Att. 4, 4a, 1 ; 4, 5, 3 ; 4, 8, 2). Oltre alle ricche biblioteche dell’Arpinate, direttamente testimoniate in vari luoghi della produzione ciceroniana, le fonti ricordano molte biblioteche di uomini di lettere : Virgilio, Persio, Silio Italico, Sereno Sammonico, Plinio il Giovane, Erennio Severo. Anche l’erudito Varrone possedeva una biblioteca (Cic. fam. 9, 4) che gli fu espropriata, insieme agli altri suoi beni, alla morte di Cesare (Gell. 3, 10, 17). In generale, dovremo presumere che possedessero più o meno ricchi fondi librari uomini di lettere, eruditi e intellettuali ; in alcuni casi – pur riconoscendo il debito verso la finzione letteraria – sembrano suggerircelo proprio le allusioni che si colgono nelle loro opere.  













   









biblioteche antiche A Roma la raccolta libraria per così dire domestica diviene talmente di moda da spingere autori quali Seneca, Petronio (e successivamente Ausonio) a prendere a bersaglio quanti possiedono una biblioteca e tuttavia non hanno gli strumenti per goderne : collezionatori tanto zelanti quanto ignoranti, indocti fiduciosi che i libri possano portar loro visibilità o produrre un avanzamento dello status sociale, o ancora li rendano automaticamente acculturati (Sen. dial. 9, 9, 6 ; epist. 27 ; Petron. 39 e 48, 4). [15] D’altro canto, che le biblioteche ad un certo punto siano diventate una realtà per così dire comune all’interno delle abitazioni romane sembra potersi dedurre, oltre che dalle diverse disposizioni testamentarie aventi ad oggetto libri e biblioteche, [16] anche dalle parole che Vitruvio dedica nel De architectura all’orientamento che questi ambienti devono assumere nelle domus (6, 4, 1) : egli suggerisce di rivolgere le stanze destinate ad ospitare raccolte librarie ad oriente, affinché non manchi mai la luce e non ci sia umidità. [17] Un esempio di biblioteca privata di età repubblicana è dato dalla biblioteca della cosiddetta Villa dei Papiri a Ercolano, i cui resti hanno cominciato a venire alla luce alla metà del xviii secolo : al suo interno è stato riconosciuto un piccolo magazzino in cui sono stati ritrovati diverse centinaia di rotoli (carbonizzati). Tale ritrovamento riveste carattere di unicità ed eccezionalità per il mondo antico, visto che al contempo ha restituito resti della biblioteca e del suo patrimonio librario (circa 1.800 papiri). Tuttavia è necessario precisare che si tratta di una biblioteca alquanto particolare, visto che, a quanto pare, era connessa con la scuola filosofica di Filodemo di Gadara (di cui anzi rappresenterebbe la personale biblioteca di lavoro) : essa contiene, infatti, quasi esclusivamente scritti filosofici, in larghissima parte greci e in piccola parte anche latini. [18] 4. Biblioteche pubbliche a Roma e nell’Impero. [19] – Quando le biblioteche erano già entrate nelle case dei Romani, e d’altro canto si era consolidata la consapevolezza dell’originalità della propria produzione letteraria, nacque – non a caso sotto Giulio Cesare – il progetto di fondazione della prima biblioteca pubblica : secondo la fonte che tramanda questa notizia (Svet. Iul. 44, 2), essa avrebbe dovuto presentare due sezioni, una Graeca, l’altra Latina : fu incaricato di curarla Marco Terenzio Varrone, a sua volta possessore di una raccolta libraria nota anche a  

























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Cicerone (fam. 9, 4) e autore di un trattato non conservato dal titolo De bibliothecis in tre libri, forse uno scritto tecnico su organizzazione e allestimento delle biblioteche (grf , i, T 23 ; F 53 e F 54), simile a quelli – ugualmente non conservati – dei grammatici Artemone di Cassandria (Peri; sunagwgh`~ biblivwn [Ath. 12, 515e] e Biblivwn crh`si~ [Ath. 15, 694a]), Telefo di Pergamo (Bibliakh; ejmpeiriva [Suid. s.v. Thvlefo~]) e Erennio Filone (Peri; kthvsew~ kai; ejklogh`~ biblivwn [Suid. s.v. Fivlwn]). [20] Il progetto di Cesare non ebbe seguito a causa della sua morte e a Roma la prima biblioteca pubblica sarà edificata solo nel 39 a.C. da Gaio Asinio Pollione che si avvalse del denaro riveniente dal trionfo sulla popolazione illirica dei Partini : di essa sappiamo che si trovava nell’Atrium Libertatis ed era ornata con le statue dei più grandi letterati del passato e con la statua di Varrone, ancora vivente : un tributo di Pollione, forse, all’uomo che avrebbe dovuto passare alla storia come il fondatore della prima biblioteca pubblica a Roma. Come già abbiamo visto per il mondo greco, la biblioteca diviene anche uno dei luoghi simbolo della regalità, espressione del potere non solo culturale, ed è forse per questo che molti imperatori ne vollero fondare di nuove in diverse zone della città, preferibilmente all’interno o nelle vicinanze dei Fori. Augusto realizzò una biblioteca sul colle Palatino, nell’ambito di un complesso edilizio di grande rilievo, nei pressi del tempio di Apollo (Svet., Aug. 29, 3). Sulla biblioteca del Tempio di Apollo siamo molto ben informati sia dalle fonti letterarie che da fonti epigrafiche (e.g. cil vi, 5188, 5189, 5191) : la direzione fu affidata al grammatico Gaio Giulio Igino (Svet. gramm. 20), il patrimonio greco e latino era collocato in sale separate (i cui resti sono stati riportati alla luce). Fu distrutta da un incendio nel 64 d.C. e fu riedificata da Domiziano, che tentò anche di risarcirne il patrimonio librario organizzando una missione presso la biblioteca di Alessandria (Svet. Dom. 20). La biblioteca, pur danneggiata, sopravvisse ad un altro incendio divampato nel 191, sotto l’imperatore Commodo, e pare che sia andata definitivamente distrutta nel 363 d.C. (Amm. 23, 3, 3). Ad Augusto risale anche la fondazione di un’altra biblioteca, quella cosiddetta del Portico di Ottavia, intitolata alla sorella dell’imperatore : fu edificata nel 23 a.C. (con il bottino della guerra contro i Dalmati : Cass. D. 49, 43, 8) e la direzione fu affidata a  













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Gaio Melisso (Svet. gramm. 21) : anche questa biblioteca era divisa in due ambienti, uno per la sezione greca e uno per quella latina (cil vi, 2347 ; 2348 ; 4431 ; 4433 ; 4435). Plutarco riferisce che la biblioteca fu fondata da Ottavia in memoria del figlio Marcello, morto in quell’anno (Plu. Marc. 30). Subì un incendio nell’80 d.C. (Cass. D. 66, 24, 2) e forse fu restaurata sotto Domiziano. Anche Tiberio fondò una biblioteca, precisamente vicino al tempio di Augusto e fu per questo nominata Bibliotheca Templi Augusti (Plin. nat. 34, 43) o Templi Novi (Svet. Tib. 74) ; a Tiberio si ascrive la fondazione anche di un’altra biblioteca, la bibliotheca domus Tiberianae (Gell. 13, 20), ma non si sa se essa sia da identificarsi con quella del tempio di Augusto : Flavio Vopisco, nella Historia Augusta (Prob. 2, 1) dice di aver trovato e consultato lì alcuni libri che cercava. A Vespasiano si deve la fondazione della biblioteca del Templum Pacis, inaugurato nel 75 d.C. : anch’essa constava di due ambienti separati e tra i suoi utenti annoveriamo Aulo Gellio, che riferisce di avervi trovato scritti rari di grammatica (5, 21, 9 ; 16, 8, 2). Nel corso di un incendio nel 191 d.C., sotto Commodo, furono bruciati gli scritti di Galeno (De comp. med. 1, 1), ma evidentemente la biblioteca fu ricostruita visto che viene menzionata ancora nell’Historia Augusta (Tyr. trig. 31, 10). L’ultima grande fondazione bibliotecaria imperiale fu la Bibliotheca Templi Traiani o Ulpia, fondata da Traiano nel Foro a lui intitolato e progettata da Apollodoro di Damasco : anch’essa presentava l’architettura tipica e distintiva delle biblioteche della città di Roma, cioè due diversi ambienti che ospitavano le sezioni greca e latina. Fu frequentata da Gellio (11, 17, 1), e da Flavio Vopisco (Historia Augusta, Aur. 1, 7 ; 1, 10, 8, 1 ; Tac. 8, 1), che vi consultò alcune delle fonti dei suoi lavori biografici. L’ultima menzione risale a Sidonio Apollinare (epist. 9, 16, 3, 25-28). Di una non meglio conosciuta biblioteca nei paraggi del Pantheon, infine, fatta edificare da Alessandro Severo, parla Giulio Africano in un frammento dei Cesti (P.Oxy. iii, 412). Dall’esame delle fonti (letterarie, epigrafiche e papirologiche) ricaviamo che Roma era una città ricca di biblioteche pubbliche : nel iv secolo – stando a quanto si legge nella Notitia regionum urbis xiv che data al 334 – esse ammontavano a 28, [21] anche se si tende a credere che in tale alto numero siano incluse anche le biblioteche annesse ai grandi impianti termali :  





























tra queste ricordiamo quella annessa alle terme di Traiano, alle terme di Caracalla e alle terme di Diocleziano. Se a Roma lo sviluppo delle biblioteche conoscerà massimo impulso proprio in età imperiale, con la fondazione di istituzioni pubbliche, nelle province dell’impero esso sarà legato per lo più alla munificenza di privati (e ricchi) cittadini. Le fonti menzionano le biblioteche di Thamugadi (in Algeria) donata da un Marco Giunio Quinziano Flavio Rogaziano (ils 9362), di Dyrrachion, alla quale contribuì L. Flavio Emiliano con 170.000 sesterzi (cil iii, 607), di Atene, edificata grazie alla generosa donazione di Tito Flavio Pantaino (Agora Inscriptions I, 848), di Cos, donata da Gaio Stertinio Senofonte (« jdai » 18, 1903, 13-194 ; « BCH » 59, 1935, 421-425), di Epidauro (annessa al santuario di Asclepio, ig iv 2, 456), di Pergamo (anch’essa annessa al santuario), fondata da Flavia Melitine (Altertümer von Pergamon, viii 3, 84-85), di Celso ad Efeso, edificata nel ii sec. d.C. grazie alla generosa donazione di Tiberio Giulio Aquila Polemeano (Forschungen in Ephesos, v 1, 75, nr. 13). Oltre ad esse in Italia e nelle province dell’Impero altre biblioteche sono documentate da fonti letterarie ed epigrafiche : a Tivoli (Gell. 9, 14, 3 e 19, 5, 4), a Como, dove il fondatore della biblioteca pubblica fu Plinio il Giovane (epist. 1, 8, 2 ; cil v, 5262), a Bolsena (cil xi, 2704b), a Tortona (cil v, 7376), a Sessa Aurunca (cil x, 4760). A Prusa, in Bitinia, una biblioteca fu fondata da Dione Crisostomo (Plin. epist. x, 81, 7), e ancora, ad Atene, una biblioteca fu voluta da Adriano, e sempre in Grecia, a Patrasso, Gellio attesta di aver rintracciato, nella locale biblioteca, una copia antica dell’Odusia (18, 9, 5) di Livio Andronico. 5. Amministrazione e funzionamento delle biblioteche. – Fonti letterarie ed epigrafiche informano anche sul personale di biblioteca : di sicuro esistevano figure preposte alla distribuzione dei libri (Gell. 11 17, 1 e 13, 20, 1 e Front. Ad M. Caes. 4, 5), anche se di esse non sappiamo molto. Nell’iscrizione della biblioteca di Celso ad Efeso sono menzionati i prosmenontes (Forschungen in Ephesos, v 1, 75, nr. 13, ll. 10-11), mentre altre epigrafi – per lo più provenienti da Roma – menzionano schiavi (servi a bibliotheca) impiegati rispettivamente nelle sezioni greche o latine di diverse biblioteche pubbliche (cil vi 2347, 2348, 4431, 4433, 4435, 5288, 5189, 5191, 8679) : tra il personale di biblioteca le fonti  

















biblioteche antiche menzionano anche un medicus a bybliothecis (cil vi, 8907). Il direttore di biblioteca, in genere un grammatico o comunque un uomo di lettere, si occupava della direzione scientifica : conosciamo i nomi di Gneo Pompeo Macro (Iul. 56, 7) e Gaio Giulio Igino (Svet. gramm. 20, 1), direttori della biblioteca Palatina, e di Gaio Melisso, direttore della biblioteca del Portico di Ottavia (gramm. 21, 3). Era questo il compito che Cesare, in vista della fondazione della prima biblioteca pubblica, aveva affidato a Varrone, anche se, come sappiamo, l’impresa non fu mai portata a termine a causa della morte di Cesare. È nota inoltre, sempre da epigrafi, la figura del procurator bibliothecarum o a bibliothecis, le cui mansioni dovevano forse essere, come per tutti i procuratores, di tipo burocratico-amministrativo. [22] Non sappiamo molto dell’ordinamento interno delle biblioteche. Per il mondo greco è facile imbattersi nella notizia che i Pinakes callimachei abbiano rappresentato il catalogo della biblioteca di Alessandria, anche se sappiamo che questo non fu, anche perché – tra le altre cose – Callimaco non fu mai bibliotecario di Alessandria (P.Oxy. x, 1241). I Pinakes – per come li possiamo ricostruire dalle scarse testimonianze che si sono conservate – sono piuttosto da considerarsi tra le espressioni più raffinate della filologia alessandrina e dei suoi metodi. Qualcosa di simile a quello che dovevano essere i cataloghi di biblioteca si è conservato tra le sabbie dell’Egitto greco-romano : si tratta di liste di libri su papiro, alcune delle quali lasciano intravvedere frammenti di collezioni librarie molto ricche, che potrebbero essere interpretate come pivnake~ di antiche biblioteche : è quanto sembrano suggerire le liste tramandate dai P.Oxy. xxvii, 2462, P.Oxy. xxxv, 2739 e P.Oxy. xxxiii, 2659, tutte contenenti elenchi di opere tematicamente affini (cataloghi di opere dei poeti comici Menandro, Cratino, Aristofane e di numerosi altri commediografi della ajrcai`a), e P.Oxy. xxvii, 2456, che riporta un elenco di titoli euripidei. [23] Quasi sempre i titoli sono presentati in un ordine alfabetico che non supera la prima lettera. E se, effettivamente, non si sono conservate tracce (neanche archeologiche) di biblioteche pubbliche per la chora greco-egizia, le liste qui menzionate, insieme ad altre tipologicamente un po’ diverse, sicuramente ci conducono sulle tracce di raccolte domestiche o scolastiche, biblioteche generalmente private, in cui tuttavia avevano  









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luogo anche scambi e prestiti di libri. Lo notava già Rostovtzeff : “L’esistenza di biblioteche, ben nota per le città greche, è attestata per la chora da vari elenchi frammentari di libri rinvenuti in Egitto”. [24] Una tale ricchezza di fonti, letterarie ed epigrafiche, sospinse Giorgio Pasquali a scrivere nel celebre articolo dedicato alle biblioteche per l’Enciclopedia Italiana : “Biblioteche pubbliche vi furono pure nell’età imperiale, in un buon numero di centri minori : le menzioni abbondano talmente nella nostra tradizione, pure prevalentemente epigrafica e, come tale, sporadica, che si sarebbe tentati di supporre che non vi fosse città anche piccola che ne fosse priva”. [25] 6. Declino delle biblioteche pubbliche. – Stando alle fonti, come si è detto, all’epoca di Costantino le biblioteche pubbliche nella città di Roma, erano 28 : insieme ad esse, va almeno menzionata la biblioteca di Costantinopoli, fondata da Costanzo II nel 357 (Tem. or. 4, 59d-60c) e destinata a diventare ben presto nuovo polo cruciale per la raccolta e la trasmissione del sapere antico : tanto più per il fatto di rappresentare un punto di riferimento sia per Roma che per l’Oriente, almeno fino a quando, nel 475, fu colpita da un incendio (Zonar. epit. hist. 14, 2) : non bisogna trascurare, tuttavia, che il patrimonio librario della biblioteca di Costantinopoli, la ‘Nuova Roma’ – in cui, secondo alcuni esegeti del passo di Temistio, si realizzò un’operazione sistematica di copiatura della letteratura posseduta dai rotoli di papiro ai codici di pergamena -, accanto alla letteratura greca e romana di età classica poteva allora sicuramente annoverare una buona quantità di opere dei cristiani, nuovi protagonisti della scena culturale, letteraria e politica a Roma così come nell’Oriente greco. Con il cristianesimo, infatti, gli orizzonti politici, culturali e geografici sono cambiati e sono forse percorribili anche attraverso la storia delle biblioteche, da sempre una delle espressioni più significative del potere, una storia fatta di fondazioni e distruzioni. Osservava Luciano Canfora alcuni anni orsono : “Vista nel suo insieme, la storia delle biblioteche antiche è una catena di fondazioni, rifondazioni e catastrofi. Un filo sottile collega i vari, e in parte vani, sforzi del mondo ellenistico-romano di mettere in salvo i propri libri. Tutto comincia con Alessandria : Pergamo, Antiochia, Roma, Atene non sono che delle repliche. Distruzioni, saccheggi, incendi  



















bipalium

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colpirono immancabilmente i grandi addensamenti di libri. Neanche le biblioteche di Bisanzio fecero eccezione. Perciò quello che alla fine è rimasto non proviene se non mediatamente dai grandi centri (in genere i più colpiti), bensì piuttosto dai luoghi marginali”. [26]  

Note. [1] Casanova 2001, 219-241. – [2] Nicolai 2000, 213-227. – [3] Platthy 1968. – [4] Pinto 2006, 51-70. – [5] Nieddu 1984, 213-261. – [6] Canfora 1999, 11-21. – [7] Müller-Graupa 1933, 797-821 ; Parsons 1952 ; Fraser 1972, I, 305-335 ; Canfora 1990 [1986] ; Canfora 1993, 11-29. – [8] Fraser 1972, I, 330-333 ; Perrotta 1928, 125-156. – [9] Rapin 1987, 225-266. – [10] Nicolai 1987, 17-48. – [11] Blanck 1997, 241255 ; Blanck 1997, 507-511. – [12] Dix 2000, 441-464. – [13] Canfora 1993, 25-38 ; Otranto 1996, 57-65 ; Dix 1986. – [14] Pütz 1925. – [15] Fedeli 1989, 2964 ; 46-48. – [16] Spallone 2008. – [17] Raeder 1988, 316-368. – [18] Dorandi 1995, 168-182 ; Sider 2005. – [19] Dix-Houston 2006, 671-717 ; Hanoune 1997, 109-117 ; Cagnat 1906, 5-30. – [20] Otranto 2000, xi-xvii. – [21] Richter 1901, 376-377. – [22] Blanck 2008, 300-301. – [23] Otranto 2000, testimonianze nrr. 9, 8, 6 e 10. – [24] Rostovtzeff 1980, iii, 142, n. 27. – [25] Pasquali 1930, 945. – [26] Canfora 1995, 18.  





   















Bibliografia. Blanck 1997 ; Blanck 2008 ; Burzachechi 1963 ; Burzachechi 1984 ; Cagnat 1906 ; Callmer 1944 ; Callmer 1985 ; Canfora 1989 ; Canfora 1990 [1986] ; Canfora 1993 ; Canfora 1993 ; Canfora 1995 ; Canfora 1999 ; Casanova, 2001 ; Dix 1986 ; Dix 2000 ; Dix-Houston 2006 ; Dorandi 1995 ; Dziatzko, 1897  ; Fedeli 1984 ; Fedeli, 1989 ; Fehrle, 1986 ; Fraser 1972 ; Froschauer-Römer 2008 ; Gamble 2006 ; Götze 1937 ; Hanoune 1997 ; Hoepfner 1996 ; Houston 1996 ; Houston 2002 ; Johnson 1978 (1984) ; Langie 1908 ; Makowiecka 1978 ; Müller-Graupa 1933 ; Nicolai 1987 ; Nicolai 1988 ; Nicolai 2000 ; Nieddu 1984 ; Otranto 1996 ; Otranto 2000 ; Parsons 1952 Pasquali 1930 ; Perrotta 1928 ; Piacente 1988 ; Pinto 2006 ; Platthy 1968 ; Pütz 1925 ; Raeder 1988 ; Rapin 1987 ; Richter 1901 ; Rostovtzeff 1953 ; Sève 1990 ; Sider 2005 ; Spallone 2008 ; Staikos 2000 ; Staikos 2004 ; Strocka 1981 ; Strocka 1994 ; Vössing 1997 ; Vössing 2005 ; Wendel 1943 ; Wendel 1949 ; Wendel 1954 ; Wendel-Göber 1951.  



























































































































Rosa Otranto Bipalium. Termine appartenente al lessico agricolo latino, designa una misura standard di profondità della pastinatio, lo scasso del suolo preliminare all’impianto delle colture, compresa tra i 2-2½ piedi (60-75 cm ca.) a seconda delle modalità di esecuzione e delle caratteristiche del suolo ; di questa esistono le meno usuali va 

rianti del bipalium altum e del non altum bipalium, equivalenti rispettivamente a 3 piedi (90 cm ca.) e meno di 2 piedi (50 cm ca., comunque inferiore a 60 cm, in cui viene compresa anche la denominazione sestertium, nonostante significhi letteralmente ‘2½’, quale misura di profondità maggiore di 45 cm ma minore di 60). Tali misure sono in ogni caso coerenti con quelle indicate dagli agronomi per il tipo di scavo prescelto, anche in base all’esposizione dei terreni : di norma i fossati o sulci oscillano tra i 2½-3 piedi, le buche o scrobes arrivano a 3 piedi mentre lo scasso totale è compreso tra 2½-3 piedi ; un terreno pianeggiante si lavora fino a 2 piedi, uno collinoso fino a 3, uno molto scosceso fino a 4, uno paludoso solo fino ad 1½. [1] 1. Testimonianze. – Il sostantivo è attestato in ventidue passi letterari, la maggior parte dei quali concernenti proprio la lavorazione del suolo, ed in una glossa di età tarda. [2] Sedici di queste testimonianze appartengono a testi agronomici e sono quelle di Cat. agr. 6,3; 45,1; 46,1; 48,1; 151,2; Varr. r.r. 1,24,4; 1,37,5; Colum. arb. 1,5; 29,1; Colum. 3,5,3; 4,1,3; 4,30,3; 4,32,1; 5,6,6; 11,2,17-18; 11,3,11. Le restanti sei sono rappresentate da Plin. nat. 16,173; 17,69; 17,125; 17,159; 18,230; 18,236. A parte si pone, come già accennato, Gloss. vi, 25,60. 2. Interpretazione. – Fino a tempi recenti si è visto nel b. una sorta di badile, in tutto simile alla vanga introdotta in età tardoantica, da utilizzare per lo scavo ed il riporto della terra analogamente alla pala (dotata di lama metallica triangolare, quadrata od arrotondata) ed al rutrum (attrezzo particolare pure dalla lama arrotondata). Tale identificazione troverebbe fondamento, per quanto si è potuto appurare, in un’epigrafe funeraria cristiana (ora icur iii 8988) nella quale il Fabretti, suo primo editore, descrive il presunto bipalium ivi rappresentato come una pala dalla lama tondeggiante con doppia staffa sul manico. [3] Attraverso il parziale fraintendimento di questa indicazione ed ulteriori passaggi non ricostruibili, il termine, nelle opere di consultazione e nelle note di commento ai testi tecnici, ha poi finito per designare un tipo di pala antesignano della moderna vanga – un modello particolare del quale è chiamato sestertium – impiegato per scavare in profondità : l’etimologia bis+pala indicherebbe infatti che si tratta di una ‘doppia pala’, uno strumento composto dall’unione di due lame triangolari, ovvero a forma di scudo, con  











bipalium il quale penetrare il terreno per una profondità doppia (ca. 2 piedi) rispetto a quella usuale della pala premendo col piede sulla staffa e variando l’altezza di quest’ultima rispetto alla lama (per cui si distinguono tre modelli dell’attrezzo : medio, altum e non altum) ; per estensione logica la parola arriva a designare anche il lavoro svolto con l’utensile stesso. [4] In realtà, a prescindere da alcune isolate quanto parziali intuizioni, [5] il riesame delle fonti letterarie porta ad assegnare un valore radicalmente differente al sostantivo, dal momento che in quasi tutti i passi viene impiegato in riferimento alla profondità dello scasso ed è talora accompagnato dalla precisazione che si tratta proprio di una misura. [6] In effetti specifiche equipollenze con misure lineari sono segnalate da Colum. arb. 1,5 : sat erit bipalio vertere quod vocant rustici sestertium. Ea repastinatio altitudinis habet plus sesquipedem, minus tamen quam duos pedes (oltre 45 cm., meno di 60) ; Colum. 3,5,3 : isque [scil. ager] bipalio prius subigi debet, quae est altitudo pastinationis, cum in duos pedes et semissem convertitur humus (75 cm ca.) ; ibid. 4,30,3 : is [scil. ager] debet converti bipalio. Ita enim praecipiunt veteres in duos ‹pedes› et semissem pastinare salicto destinatum solum (75 cm ca.) ; ibid. 11,2,17-18 : pastinatur ... vel ad bipalium, quae est altitudo duorum pedum, ... (60 cm ca.). Haec ... minima pastinationis mensura est ; ibid. 11,3,11 : satis erit non alto bipalio, id est minus quam duos pedes ... novale converti (meno di 60 cm) ; Plin. nat. 17,159 : solum apricum et quam amplissimum ... bidente pastinari debet, ternos pedes bipalio alto (90 cm ca.). Accanto a questi passi vanno inoltre considerati Varr. r.r. 1,37,5 ad quaedam bipalio vertenda terra plus aut minus (60 cm ca.) e Colum. 4,1,3 si ager bipalio moveatur, et deprimatur scrobis in regesto, quod est fermentatum plus dipondio semisse (75-80 cm ca.) : il primo, pur non riportando la corrispondenza del bipalium in pedes, evidenzia con l’indicazione plus aut minus una profondità incerta tra il non altum bipalium di Colum. arb. 1,5 o Colum. 11,3,11 ed il bipalium standard di Colum. 11,2,17 ; il secondo specifica il significato di regestum, il terreno smosso ad una profondità di poco superiore a 2½ piedi che rientra perciò nella misura compresa tra l’altum bipalium di Plin. nat. 17,159 ed il bipalium di Colum. 3,5,3 o 4,30,3. Il confronto tra queste diverse indicazioni evidenzia un’oscillazione tra la misura normale dello scavo, che nel rispetto dell’etimologia del sostantivo corrisponde a 2 piedi (Colum. 11,2,17), ed il non al 



































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tum bipalium (Colum. arb. 1,5 e Colum. 11,3,11, probabilmente coincidenti poiché nella lavorazione del suolo non è possibile il preciso rispetto della misura di profondità) od il bipalium altum (Plin. nat. 17,159). Tali differenze, in origine occasionali, hanno poi corrisposto a precise esigenze tecniche, tanto che Colum. 3,5,3 ; 4,1,3 ; 4,30,3 ; 11,2,17 ; 11,3,11 ed arb. 1,5 traduce in pedes la profondità del dissodamento ritenuto necessario. Inoltre, onde agevolare la lettura del suo trattato, lo stesso Columella inserisce in ciascuno dei libri dedicati all’arboricoltura – tranne 5,6,6 – una specificazione relativa all’altezza dello scasso, forse perché già ai suoi tempi bipalium è una parola ormai desueta nel lessico tecnico e dopo di lui nessun autore la utilizza più : in 3,5,3 bipalium compare per la prima volta ed è quindi assai opportuna una sua spiegazione, così come in arb. 1,5 dove si riporta anche la denominazione gergale sestertium per chiarire il senso di un vocabolo forse di uso locale e quindi di difficile comprensione ; in 4,30,3 viene riportato un precetto degli antichi autori ed è quindi necessario spiegarlo con l’equivalenza convertere bipalio = in duos et semissem pastinare ; in 11,2,17 si specifica di nuovo la profondità in quanto il termine, ultimo parametro in una sequenza di decrescenti misure dello scasso, ricorre dopo ben cinque libri rispetto alla precedente menzione e soprattutto è inserito nel contesto del menologio dei lavori agricoli, che può essere consultato indipendentemente dal resto del manuale. Colum. 11,3,11 e Plin. nat. 17,159, relativi rispettivamente al non altum bipalium preferito per i terreni piuttosto secchi ed al bipalium altum, contengono delle indicazioni di profondità unicamente perché si tratta, nei casi specifici, di misure poco usate. Di non minor rilievo ancora Colum. 4,1,3 che discute l’altezza delle fosse per vitigni prescrivendo di aprire le buche nel regestum che, come spiega immediatamente dopo, est fermentatum plus dupondio semisse, è cioè il suolo smosso che ha subito uno scasso per più di 2½ piedi. L’effettiva conclusione cui conduce la revisione di recente condotta sulle testimonianze letterarie è che la pastinatio si esegue principalmente con la pala, la cui lama penetra nel suolo per 20-25 cm, e che si devono rimuovere ‘due palate’ di terra per ottenere una profondità di 2 piedi di altezza, il bipalium appunto, salvo poi smuovere un terzo strato di ca. ½ od 1 piede per raggiungere i 3 piedi talvolta richiesti ; se quindi bipalium designa la misura  















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birra

canonica dello scasso, per metonimia il termine indica la terra scavata con questa modalità, come suggerisce indirettamente Colum. 4,32,1 ; ne consegue inoltre che la glossa (bipallum ferramentum resicum) si rivela di fatto fuorviante. Nonostante persistano alcune voci discordanti o non aggiornate, [7] questa nuova interpretazione del termine comincia ad essere recepita nei testi e nelle note di commento agli autori tecnici. [8]  





Note. [1] Cfr. in particolare Colum. 3.13 (soprattutto §§ 1 e 8) ; Pallad. 2.10.1-4 e 2.13.7. – [2] Cfr. ThlL 2 col. 1999 s.v. – [3] Fabretti 1702, 574 (nr. lx). – [4] Rich 1859 ; Saglio 1877 ; Olck 1899b ; Billiard 1913, 259-260 ; soprattutto White 1967, 109-110 ; Hatto 1979. Posizione sostenuta anche da Pellegrini 1966, 617 s.v. badile o vanga ; Bruno 1969, 46-47 (nr. 165-166) e 264 ; Andrei 1981, 42 s.v. bipalum ; White 1970b, 373 ; Flach 1990, 259 (e nota 139), 275-276. – [5] Schneider 1794, 674 (comm. a Colum. arb. 1,5, in contraddizione con le sue stesse osservazioni a Colum. 3,5,3 e 4,1,3) e Furlanetto 1827. – [6] Kolendo 1980, 206-212 e, forse indipendentemente da quest’ultimo, Ahrens 1972, 413-414 (comm. a Colum. 3,5,3) ; più approfondito De Angelis 1997, 205-230. – [7] Aderenti all’interpretazione tradizionale Goujard 1975, 141, n. 12 (comm. a Cat. agr. 6,3) ; Goujard 1984, 217-218 ; Goujard 1986, 94, nota 12 (comm. a Colum. arb. 1.5) ; il presunto attrezzo viene identificato con un erpice a trazione animale da Traina 1994, 134. – [8] Cfr. Dumont 1993, 28 n. 4 (comm. a Colum. 3,5,3), Cugusi 2001, 46 (comm. a Cat. agr. 6,3) e 124 (comm. a Cat. agr. 45,1).  



























Bibliografia. Billiard 1913, 259-260 ; De Angelis 1997 ; Fabretti 1702, 574 ; Kolendo 1980, 206212 ; Olck 1899b ; Rich 1859 ; Saglio 1877 ; White 1967, 109-110.  













Alberto De Angelis Birra [zu`qo~ o zu`to~, cervesia o cervisia]. 1. Origini. – Le origini di una bevanda prodotta dalla fermentazione di certi tipi di →cereali sono antichissime e provengono dall’Oriente. La birra era infatti conosciuta in Mesopotamia e tra gli Egizi già nel 3000 a.C., come sappiamo grazie ai ritrovamenti archeologici nei templi e nelle tombe, dove la birra appare nelle decorazioni accanto al →pane e ad altri prodotti. I popoli orientali la ottenevano soprattutto dall’orzo, ma anche dal sesamo, dai datteri e dai papaveri. Già i Greci erano ben consapevoli delle origini orientali della birra, tanto che Ecateo,

secondo la testimonianza di Ateneo (10, 418e), notava come in Egitto si usasse produrre una bevanda del genere. Il suo ruolo nella cultura alimentare di certe regioni rimase sempre predominante rispetto al vino. In Egitto si preparava una poltiglia di farina d’orzo e acqua, cui si aggiungevano datteri triturati, si pressava il tutto ed il liquido si lasciava poi fermentare, per essere successivamente stoccato. La birra giocava un ruolo di primo piano anche durante le feste e le occasioni cultuali, in cui era molto apprezzata dalle donne. L’importanza che la bevanda rivestì nell’immaginario degli Egizi e di altri popoli orientali è dimostrata dal fatto che nel loro pantheon figurava anche una dea della birra. In Mesopotamia la cultura della birra ha radici ugualmente profonde, comparendo quest’ultima già nella saga di Gilgamesch e nel famoso codice di Hammurabi (circa 1728-1685 a.C.). Esattamente come oggi, il colore rappresentava un elemento discriminante tra le varie qualità, per cui sappiamo della produzione di una birra chiara e di una scura, come anche di una dolce e di una amara. [1] 2. In Grecia e a Roma. – I Greci e i Romani non ebbero mai una grande considerazione della birra, preferendole di gran lunga il vino [→viticoltura]. Quest’ultima rimase quindi sempre un prodotto tipico di alcune zone periferiche, diffuso soprattutto tra le popolazioni barbare e le classi povere, anche per via del suo prezzo estremamente conveniente (Diocl. 2,11 ; Geop. 7,34,1 ; Marcell. med. 28,13). Le due province in cui il consumo di birra era maggiore erano la Gallia e la Spagna, dove si producevano varietà locali e la bevanda era nota ben prima della conquista romana. Quella che infatti noi identifichiamo sotto la generale definizione di birra aveva in realtà tra gli Antichi vari nomi, a seconda della regione di provenienza. Conosciamo grazie a →Plinio il Vecchio lo zythum in Egitto (traslitterazione del gr. zu`qo~), la caelia e la cerea in Spagna, la cervesia in Gallia (nat. 22,164). Nonostante la diversa nomenclatura, la tecnica di produzione doveva essere molto simile, come suggerisce Plinio (nat. 14, 149), accomunando Galli, Ispanici ed Egizi tra i popoli che cercavano l’ebbrezza da una bevanda ricavata dai cereali. Anche nel mondo gallico, dove la birra, come detto, era piuttosto diffusa, il consumo di certi prodotti evidenziava delle differenze sociali. Sappiamo infatti che anche oltralpe le classi abbienti preferivano il  





bitone vino, importato dall’Italia, mentre i più poveri bevevano un tipo di birra chiamata kovrma, la quale doveva essere particolarmente amara, dato che veniva a volte addolcita con del miele (Ath. 4, 152c). Forse si tratta dello stesso tipo denominato kou`rmi da →Dioscoride (2, 88), ottenuto dall’orzo. Sugli usi della Gallia tardoantica abbiamo poi la testimonianza di Giulio Africano (iii sec. d.C.), il quale ci parla del consumo di kerbhsiva (corrispondente al lat. cervesia). Dallo stesso passo apprendiamo che anche in Pannonia era bevuta una birra chiamata kavmon (Cest. 25). Un’altra tipologia locale, conosciuta attraverso autori greci, è il bru`ton, che pare fosse tipico della Tracia e della Frigia (Ath. 10, 447b). Tra le classi povere dell’Illiria era invece in uso la sabaia (Amm. 26,8,2). Per quanto riguarda la penisola iberica, anche i Lusitani preferivano la birra al vino (Str. 3,3,7), mentre in Italia era nota tra i Liguri (Str. 4,6,2). Anche nel mondo greco-romano, sulla base delle esperienze del vicino Oriente, le piante più idonee per ottenere la birra erano l’orzo ed il miglio (Diosc. 2,87-88 ; Ulp. dig. 33,6,9 ; Ath. 10, 447d). Plinio spiega come questa fosse un derivato dei cereali (nat. 22,164). Non tutti sono invece d’accordo nel ravvisare nel panicum (una specie di biada) o in una sorta di →pane un altro prodotto da cui si ricavava la birra. [2] Come si è accennato, l’atteggiamento dei Greci e dei Romani nei confronti della bevanda, riflesso nelle parole degli autori che la menzionano, fu sostanzialmente quello di osservatori interessati ma esterni, a volte anche polemici, perché questa era frutto di una cultura a loro estranea. La poca familiarità dei Greci con la birra è dimostrata per esempio dalle notazioni dello storico Erodoto, che descrive quella egizia con la perifrasi «vino fatto dall’orzo», con l’intento di indicare una bevanda alcolica e la sua natura (2,77). La stessa definizione (oi\no~ krivqino~, cioè «vino d’orzo») leggiamo anche in →Senofonte (An. 4,5,26). Il vocabolo zu`qo~, infatti, comparirà nella prosa greca solo con →Teofrasto (CP 6,11,2), che non a caso ha un approccio di tipo scientifico nei confronti della materia, ed indicherà essenzialmente la qualità egizia. [3] Seguendo la medesima tradizione, un autore latino come →Columella ricorda lo zythum Pelusiacum, la «birra di Pelusio», città situata sul delta del Nilo (10,116). Nonostante la grande distanza temporale che li separa dai precedenti greci,  







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ancora Tacito (Germ. 23,1) e lo stesso Plinio parlano genericamente di una bevanda o di un liquido (lat. humor e potus) ed il secondo poi si serve dei già citati vocaboli regionali, non avendo a disposizione un termine comune appropriato. Ancora, il poeta →Virgilio (georg. 3,376), parlando della bevanda fermentata degli Sciti, ce la descrive come un’imitazione del vino. [4] Dunque è sempre quest’ultimo il punto di riferimento dei Greci e dei Romani per giudicare ogni altra bevanda alcolica delle società con cui entrarono in contatto. 3. Aspetti secondari. – Anche la birra, secondo gli Antichi, possedeva qualità salutifere per l’uomo, sebbene in forma minore rispetto ad altri prodotti alimentari, per cui la troviamo menzionata in varie occasioni dagli autori di →medicina. Per esempio Antimo (15) spiega che la buona birra è benefica, mentre in →Marcello Empirico (med. 28,13 ; 16,33) la cervesia è preferita all’acqua per assumere pillole o per sciogliere del sale come rimedio contro la tosse. In tutt’altra ottica Plinio attesta l’utilità della schiuma della birra come cosmetico per il viso delle donne (nat. 22, 164).  



Note. [1] Vd. Röllig 1992. – [2] Vd. André 1981a, 177. – [3] Vd. Hehn 1894, 142 ; Olck 1899a. – [4] Vd. anche Amm. 15,12,4.  

Bibliografia. André 1981a ; Dalby 2003 ; Haslauer 1992 ; Olck 1899a ; Röllig 1992 ; Ruprechtsberger 1992.  









Francesco Fiorucci Bitone. Di quest’autore greco sappiamo che scrisse un’opera sulle catapulte [→catapulta] e le grandi macchine poliorcetiche [→polemologia] dedicata ad uno dei re Attalo di Pergamo, ma non è certo quale. I più ritengono si tratti di Attalo I (241-197 a.C.) e lo scritto andrebbe datato verso il 240 a.C., cioè all’inizio del regno del sovrano, ma altre opinioni ne pongono la stesura qualche decennio più tardi, nel 156-155. [1] Il manuale di Bitone tratta esclusivamente di congegni senza →torsione, tra cui piccole e grandi macchine lanciapietre e un tipo di →sambuca, tutti strumenti bellici che conosciamo proprio grazie alla sua opera, oltre che ad alcune menzioni in →Erone di Alessandria. L’andamento dell’esposizione è prettamente tecnico e non sempre di facile interpretazione, fattore che indica come l’opera fosse probabilmente indi 

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rizzata ai militari. Lo scopo del trattato è quello di fornire tutte le necessarie istruzioni per una corretta costruzione dell’artiglieria, per cui Bitone si sofferma sui particolari, corredando la descrizione con precise misurazioni da eseguire, spiegazioni sui materiali da usare e suoi metodi di assemblaggio. I mezzi illustrati ebbero tutti una loro reale utilizzazione in guerra, tanto che l’autore ne ricorda l’ingegnere costruttore e l’occasione in cui furono impiegati, come nel caso della grande torre per gli assedi [→elepoli] disegnata da Posidonio di Macedonia per Alessandro Magno (Bit. Mech. 52). Note. [1] Lewis, M. J. T. 1999 ; Marsden 1969.  

Bibliografia. Drachmann 1977 ; Lewis, M. J. T. 1999 ; Marsden 1969 ; Marsden 1971 ; Schwerteck 1997a.  







Francesco Fiorucci Botanica. 1. La scienza della natura. – Il mondo vegetale, nell’immaginario antico, si snoda tra due piani distinti ma interrelati : quello della tecnica (umana : tevcnh, qerapeiva) e quello della natura (fuvsi~). Il primo è costituito dai saperi dell’→agricoltura, cioè da tutte le attività attraverso le quali l’uomo modifica l’ambiente circostante. Il secondo è materia di studio della botanica, e comprende tutti gli sviluppi naturali degli individui vegetali, nei loro rapporti con l’ambiente circostante : posizione, terreno, nutrimento, clima. Questa visione è già chiara nell’impostazione aristotelico-teofrastea delle scienze naturali (Theophr. CP 2,1,1), e costituisce un filo rosso che attraversa tutta la produzione agronomica antica (French 1994). La Grecia antica offrì ai suoi abitanti un paesaggio ricchissimo nella flora, dovuto alla variegata situazione geomorfologica della penisola e delle isole. Nonostante la grande familiarità dei Greci con il mondo vegetale, tuttavia, non risulta essere stato realizzato alcun inventario sistematico della flora antica. Per la ricostruzione di quest’ultima, quindi, dipendiamo dalle informazioni contenute in opere di altro taglio, dalla poesia all’agricoltura, alla medicina. L’interesse fondamentale, infatti, almeno fino al periodo ellenistico, si appuntò sull’utilizzo pratico di una specie, a livello quotidiano o terapeutico. Già nelle tavolette micenee è dato riscontrare nomi di →piante aromatiche, o da tintura o da profumo. Nei poemi omerici sono parimenti menzionate diverse specie di  





vegetali, a volte con le loro proprietà. In età classica greca è nel Corpus Hippocraticum che si rinvengono numerose attestazioni di piante con analisi degli effetti terapeutici. Ma è solo con le ricerche peripatetiche, prima con alcune sezioni delle opere naturalistiche di →Aristotele, e in modo determinante con gli scritti di →Teofrasto, che si può parlare di nascita di una disciplina botanica nell’antichità. [1] 2. Principi di classificazione botanica. – L’approccio scientifico di Teofrasto al mondo vegetale, di chiara derivazione aristotelica (cfr. per es. Arist. HA 487 a 11-12), comprende una classificazione basata su quattro parametri ben definiti : le parti di cui ogni pianta è composta (mevrh), le qualità (pavqh), il modo in cui si riproduce (gevnesi~), i regimi di vita (bivoi). Il primo di questi parametri è il più difficilmente applicabile, in quanto « è incerto, per molti casi, che cosa si debba nominare ‘parte’ e che cosa no » (Theophr. HP 1,1,1) : ciò perché nel mondo vegetale, al contrario che nel mondo animale, alcune ‘parti’, pur costitutive di un individuo, non ne rappresentano elementi duraturi, ma solo annuali o stagionali. La pianta, del resto, « è un essere molteplice e vario, ed è malagevole definirlo in modo assoluto » (ibid. 1,1,10). Il procedimento di analisi per la classificazione teofrastea è basato, anch’esso, su un’epistemologia di matrice aristotelica : l’evidenziamento delle analogie (ajnalogivai) e differenze (diaforaiv) tra gruppi di piante e tra pianta e pianta ; i parametri su cui si delineano queste differenze e analogie appartengono nuovamente alle categorie aristoteliche : figura, colore, densità, asprezza, levigatezza, sapore, numero, misura e altro (ibid. 1,1,5-6). Si arriva così ad individuare le quattro parti fondamentali di ogni essere vegetale : la radice (rJivza : ibid. 1,6,3-1,7), il caule (kaulov~), i rami (ajkremwvn) e i sarmenti (klavdo~). Questa classificazione è fondata anche sulle funzioni di tali elementi costitutivi : così la radice « è quella parte che assorbe il nutrimento », e « il caule quella per cui passa » (ib. 1,1,9). Se questi parametri riguardano l’aspetto formale, altri elementi sono propri delle distinzioni a livello materiale : si tratta cioè della sostanza di cui sono composti gli organismi vegetali, che Teofrasto divide in : corteccia (floiov~ : ibid. 1,5,2), legno (xuvlon : 1,5,3) e midollo (mhvtra : 1,6,1-2).[2] Queste sostanze (oujsiva) sono composte a loro volta dai principi vitali propri anche degli esseri animati : umore, fibre,  











































botanica vene e carne (Theophr. HP 1,2 ; Plin. nat. 16,184187). Altri criteri, ancora, sono di guida in questo quadro : si tratta di ulteriori divisioni preliminari basate sulla logica oppositiva. La prima opposizione fondamentale è infatti quella tra piante annue (ejpevteia) o no. La seconda quella tra piante selvatiche (a[griai) e domestiche (h[merai).[3] In base dunque a parametri formali e sostanziali, nonché alle suddette opposizioni preliminari, si opera la classificazione del mondo vegetale, dal generale al particolare. « Primi e principali generi (ei[dh) che abbracciano quasi tutti i vegetali sono : albero (devndron), frutice (qavmno~), suffrutice (fruvganon), erba (pova) ». La classificazione generale della botanica antica è dunque questa. Ma lo stesso Teofrasto avverte, in diversi luoghi, « tali definizioni non sono da prendere in modo rigoroso, ma più in generale » : perché il regno vegetale presenta un carattere di varietà e modificabilità molto spiccato (HP 1,3,5 ; 1,4,3). La terminologia botanica teofrastea, inoltre, non è univoca : con ei\do~ vengono infatti indicate sia le quattro « classi » generali, sia le « specie » di ogni « famiglia » (gevno~ : termine a sua volta polisemico). Altro termine impiegato per « specie » è ijdeva. Di grande importanza è l’habitat naturale di una pianta ; e a questo parametro va rincondotta un’altra basilare distinzione : quella tra piante acquatiche e terrestri. L’habitat, già secondo Teofrasto (HP 2,2,7-10), è costituito dal luogo (tovpo~, cioè dal terreno) e dal clima (ajhvr). Queste due coordinate causano, nelle specie trapiantate o importate da una regione all’altra, mutamenti non sempre positivi, anche se una delle convinzioni della botanica antica è che il cambiamento di habitat giova alle colture (Plin. nat. 16,135-144). Al contrario, quando una mutazione (metabolh;) avviene spontaneamente, nell’immaginario antico si parla di prodigi (tevrata, qauvmata) : qui la botanica lascia il posto alla mantica e alla teratologia. Sia per gli alberi domestici, sia per quelli selvatici la posizione e il rapporto con il luogo naturale è di primaria importanza, e determina alcune caratteristiche : altezza e solidità degli alberi [→arboricoltura], produttività di →suffrutici ed →erbe. Alberi, →arbusti e suffrutici si distinguono e si raggruppano anche in base all’aspetto di un altro fondamentale elemento costitutivo, la foglia (fuvllon), in base alla forma, alla carnosità, al numero, alle spine e al picciolo di questa (Theophr. HP 1,10 ; Plin. nat. 16,85-92). Elementi sta 















































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gionali propri di quasi tutti gli esseri vegetali sono poi i →fiori, e i relativi →frutti. Elemento anch’esso stagionale, ma di più lunga (anche se variabile) durata, nonché di possibile conservazione, è il seme, che si può trovare direttamente nel frutto o in una siliqua, o può essere ‘nudo’ (ibid. 1,11). 3. Le opposizioni classificatorie nel sistema botanico. – Come si è detto, l’approccio scientifico al mondo vegetale è condotto, sulla base delle categorie aristoteliche, in modo fondamentalmente binario, attraverso opposizioni determinanti, di natura formale e sostanziale, o mista. La prima e fondamentale è quella tra specie domestiche (h{mero~, sativus) e specie selvatiche (a[grio~, silvestris). Ogni specie domestica può divenire, per incuria, selvatica ; ma non è possibile addomesticare tutte le specie selvatiche (così Teofrasto, contrario Ippone : HP 3,2,3). Le specie selvatiche differiscono dalle domestiche perché producono →frutti meno o per nulla commestibili, sviluppano parti più dure e crespe, hanno diffusamente vita più longeva rispetto alla diversificazione delle domestiche. Nell’immaginario collettivo greco pre-ellenistico, d’altra parte, le piante selvatiche appartengono alla sfera montana, diversamente dalle colture domestiche sviluppate in pianura o sulla costa. Come riassume significativamente →Columella (arb. 1 ; cfr. anche Verg. georg. 2,10-16) : « le piante si distinguono in due generi, il primo dei quali nasce sontaneamente, il secondo proviene dalla coltivazione ; quello, che non deriva dall’opera umana, più adatto a fornire il legno ; questo, che si coltiva con la nostra fatica, adatto a dar frutti ». Alle piante selvatiche, tuttavia, in particolare alle →erbe, è assegnato un posto di rilievo nell’integrazione della dieta antica, soprattutto fra gli strati sociali medio-bassi (Frayn 1975). Divisione fondamentale è quella tra esemplari maschili e esemplari femminili (su cui vd. Tortzen 1991 ; Foxhall 1998), che ha valore non di genere ma di ‘carattere’, ed è fondata essenzialmente sui criteri della fertilità (l’esemplare femminile è fertile, il maschile no ; il femminile produce →frutti migliori del maschile ; il femminile produce semi) e dell’aspetto esteriore (il maschile è più robusto, il femminile più appariscente). Una opposizione binaria è anche quella, a livello di immaginario collettivo degli antichi, fra le specie vegetali dell’oriente e quelle del settentrione, i due poli geografici meno noti  





















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(e in parte sconosciuti) ai Greci e ai Romani : se l’immaginario botanico ‘orientale’ è caratterizzato dalle grandi dimensioni e dalle forme superbe (Theophr. HP 4,2,12 ; Plin. nat. 12 e 13), da piante velenose o →piante aromatiche (Theophr. HP 4,4,11-14), l’orizzonte settentrionale è monotono, povero di flora e per nulla singolare : l’unica particolarità è costituita da alcune →piante aromatiche delle quali sono apprezzate le radici (Theophr. HP 4,5 ; Plin. nat. 16,2-4 ; cfr. anche il quadro ‘settentrionale’ di Verg. georg. 3,349-383). Un approccio classificatorio binario, benché formulato in modo non sistematico, si ritrova nei Problemi pseudoaristotelici (20,7) : prendendo come parametro la produzione del seme, propria di ogni pianta, il mondo vegetale si può dividere in piante che hanno un solo ciclo di →riproduzione vegetale (per es. gli →ortaggi) e piante che ne hanno molti (gli alberi). Una distinzione importantissima (megivsth diaforav) è quella tra piante terrestri (e[ggaia) e →piante acquatiche (e[nudra), genere in cui rientrano non solo gli organismi vegetali che vivono completamente nell’acqua (di fiumi, laghi, o del mare), ma anche quelli che hanno come habitat le rive o le sponde di distese d’acqua (Theophr. HP 4,6-12). I primi sono poco conosciuti, al di là di qualche specie di alga (fuvko~) raccolta dai cercatori di spugne, e di alcuni esemplari singolari portati a riva dalle tempeste o da pescatori spintisi al largo, inquadrati nella categoria dei qauvmata. Il mondo acquatico, come uno specchio, riproduce quello terrestre nella terminologia : il noto è strumento per definire l’ignoto rapportandolo a ciò che si conosce, così nella →zoologia come nella →botanica. Così si hanno, ad esempio, la ‘quercia di mare’ e la ‘vite di mare’, l’‘alloro’ e l’‘ulivo’ del Mar Rosso. Nella visione degli antichi le →piante acquatiche sono meno longeve delle terrestri, di minor dimensione e meno commestibili. Un binomio oppositivo trasversale agli erbacei è la differenza del caule : dritto e resistente in alcune, morbido in altre, ramificato in alcune, liscio in altre. Ancora una opposizione binaria : alcune specie hanno fogliame basilare, altre lungo il fusto (Theophr. HP 7,8). 4. La descrizione botanica. – Al di là delle categorie e dei parametri classificatori definiti principalmente da Teofrasto e dalle ricerche botaniche di scuola aristotelica, il momento descrittivo negli autori antichi rimane legato  

















ad un ragionare per somiglianze e differenze dal noto all’ignoto. Così una pianta o una specie ignota o meno nota è ‘simile’ o ‘diversa’ da una nota o più nota, in un processo di avvicinamento cognitivo tipico della cultura classica, attraverso un vocabolario dell’analogia e della differenza. Si veda, ad esempio, un passo teofrasteo (HP 4,2,5) in cui è descritta la persea (probabilmente una qualità di pèsca, non una specie di prugna : vd. Amigues 1986) e i suoi frutti, allora poco conosciuti in occidente : « In Egitto vi è un altro albero, chiamato persea, grande e bello a vedersi, assai simile (paraplhvsion) al pero nelle foglie, nei fiori, nei rami e in tutta la forma esterna. Per grandezza il frutto somiglia (hJlivko~) a una pera, ma è allungato in forma di mandorla (ajmugdalwvdh~) e di color d’erba. Ha dentro un nocciolo come (w{sper) quello di una prugna, molto più piccolo per altro e più molle. L’albero ha molte radici, lunghe e grosse ; robusto è il legno, bello, nero come (w{sper) il loto ». Dal punto di vista terminologico, del resto, la maggior parte del lessico vegetale era di origine popolare, non dotta, e ciò comportava la presenza di numerosissime varianti, dialettali e regionali : le lunghe liste di Dioscoride che elencano i sinonimi di una specie ne sono testimonianza. Frequente era l’uso di epiteti, che specificavano meglio una specie, in relazione alla sua (presunta) origine, al suo habitat, alla taglia, al coloro, all’odore, alla forma delle foglie, alle proprietà, o anche al suo impiego. Oltre alla morfologia generale di una specie, tuttavia, è un elemento insolito o particolare a determinare, in molti casi, il fitonimo (vd. Amigues 1984, 151-173, con numerosi esempi). Accanto a questa modalità, va sottolineata parimenti una tendenza (presente già in Omero) alla determinazione binominale di una specie, operazione dotta per cui si aggiunge un aggettivo di specificazione ad un termine vegetale – di origine popolare o comune – ormai insufficiente a determinare le varietà di una specie (Louis 1971). L’identificazione di un vegetale descritto dalle fonti antiche, tuttavia, rimane uno dei problemi più importanti per gli studiosi moderni. L’imprecisione terminologica, spesso legata alla derivazione delle notizie da informatori occasionali, l’insufficienza nella descrizione, che in moltissimi autori non tende a criteri di rigore come in Teofrasto, hanno spesso suggerito una prudenza notevole nelle identificazioni moderne. Singolare il metodo,  











botanica riferito da Plinio (nat. 25,8), seguito da alcuni autori antichi (altrimenti ignoti), di abbinare al testo descrittivo un disegno colorato del singolo esemplare : metodo, tuttavia, per ammissione dello stesso Plinio, di facile deperibilità e di difficile riproduzione (Ducourthial 2003, 26-35). 5. Gli estratti vegetali. – La caratteristica principale dei vegetali è di essere ricchi di umore (uJgrovn), di avere quindi un succo (ojpov~) con colore, densità, odore e proprietà diversi da specie a specie (Theophr. HP 9,1 ; Plin. nat. 15,106-110). Il succo può sgorgare da sé o per incisione, procedimento che richiede una tecnica sapiente e particolare. Gli estratti più noti e impiegati da vegetale sono numerosi. Primo fra tutti è sicuramente la resina, estratta da pino e conifere in genere, anche per combustione, impiegata in disparati ambiti, fra i quali l’aromatizzazione del vino e la sua conservazione (Theophr. HP 9,2). Poi la pece, importantissima nell’industria manifatturiera e nella →nautica. L’incenso (libanwtov~, tus), la mirra (smuvrnh, murra) e il balsamo (bavlsamo~, balsamum) sono le tre essenze più diffuse provenienti dalle →piante aromatiche d’origine orientale (Theophr. HP 4 ; Plin. nat. 12,51-72 e 111-123). Molti succhi vegetali hanno proprietà medicinale (duvnami~ farmakwvdh~), in particolare quelli estratti dalle radici. Una vera e propria arte, la rizotomica, si occupa della classificazione di queste ultime e dell’estrazione, da esse, di succhi benefici. Raccolta ed estrazione si eseguono tendenzialmente d’estate, quando la pianta è al massimo vigore. Non mancano, spesso, precauzioni superstiziose che si ispirano a principi simpatetici ; nel mondo delle erbe e degli estratti vegetali, soprattutto, si confondono folklore e scienza : di ciò sono già coscienti gli autori antichi (Theophr. HP 9,8,5-8), come anche del livello progredito raggiunto da questa tecnica rispetto alle età più antiche (Theophr. HP 9,16,9). Quasi a tutte le essenze e a tutti gli estratti, in fondo, viene attribuita una qualche proprietà curativa : è il variegato mondo delle piante officinali, che conosciamo fondamentalmente dai repertori di →Dioscoride (libri i, iii-iv) e →Plinio (libri xx-xxvii). I procedimenti – ancora oggi impiegati – sono due : l’infuso, che consiste in una soluzione ottenuta sottoponendo alcuni minuti una pianta all’azione dell’acqua bollente ; il decotto, particolarmente adatto per cortecce, radici, semi, steli, che si ottiene fa 















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cendo macerare la pianta in acqua fredda per alcuni minuti, portandola successivamente a ebollizione in un recipiente chiuso. Le specie più comunemente impiegate, nelle parti verdi, per queste estrazioni sono : l’elleboro, il cocomero selvatico, il camedrio, il panace, i vari tipi di stricno, il cameleone, il papavero (Theophr. HP 9,8-11 ; Plin. nat. 26-27). Per quanto riguarda le radici : l’aristolochia, la robbia, l’elleboro, il dittamo, l’aconito (Theophr. HP 9,12-16 ; Plin. nat. 26-27). Un campo (e una tradizione di sapere) ancora distinto dalla rizotomica è la preparazione di →veleni, che ha uno spazio ben preciso sia in ambito militare sia in ambito civile e agronomico (disinfestazione da →insetti nocivi e piccoli animali dannosi). Un impiego civile e commerciale degli estratti vegetali è infine costituito dalla realizzazione dei profumi [→cosmetica], un uso fatto risalire ai Persiani e importato da Alessandro Magno in occidente (Plin. nat. 13,1-26 : la più cospicua fonte antica sui profumi ; cfr. anche Ath. 15,686c-692f ) : molte essenze prendono nome dalle regioni di provenienza, o dal nome del (presunto) inventore ; i più comuni erano l’olio di mirto, il calamo, il cipresso, la scorza di melagranata, lo zafferano, la mela cotogna. 6. L’uomo e le piante. – « Le piante, oltre al poter produrre nei nostri corpi salute, malattie e morte (uJgiveia, novso~, qavnato~) valgono pure ad altri effetti che non solo si riferiscono al corpo, ma all’animo (yuchv) ». In questa frase di Teofrasto (HP 9,18,3) è sintetizzato il rapporto che l’uomo antico ebbe con il mondo vegetale a lui circostante : come lo percepì, come vi interagì, come se ne servì. Al di là dello scopo fondamentale dell’alimentazione, infatti, il regno vegetale fu visto, da sempre, come un serbatorio quasi inesauribile di elementi naturali (fusikav) di cui servirsi nelle più diverse occasioni della vita. Infusi e decotti rilassanti o eccitanti (anche sessualmente : HP 9,18), terapeutici o sofisticanti (piante officinali, →piante aromatiche), ebbero un ruolo ben preciso nell’immaginario e nella vita quotidiana dei Greci e dei Romani, accanto, d’altra parte, alle piante intese come ornamento mirante al piacere della vista e dell’olfatto (→giardini, fiori). In un passo fondamentale del De causis plantarum (1,16,10-13), Teofrasto si chiede se il vero sviluppo dei vegetali sia soltanto quello «naturale», senza intervento umano, in opposizione alla ‘coltivazione’, cioè la modificazione del mon 























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do vegetale da parte dell’uomo. La risposta è a prima vista paradossale : la natura, se lasciata incolta, può produrre individui «innaturali» (para; fuvsin) e peggiori. L’interazione dell’uomo con l’ambiente che lo circonda, quindi, è non solo naturale, ma necessaria e positiva : in tal modo le specie selvatiche e le domestiche appaiono due facce della stessa medaglia : il binomio tecnica/natura, dunque, va inteso in senso compensativo, non oppositivo. 7. Mondo vegetale, folklore, magia. –Alle piante furono attribuite, fin da Omero e dai presocratici (ad esempio →Empedocle), proprietà vitali direttamente connesse con gli elementi primordiali della natura : nel mondo vegetale si riscontrarono le opposizioni tipiche del cosmo : caldo/freddo, secco/umido. Numerose piante ‘virtuose’ furono assegnate ad altrettanti pianeti o stelle, in una visione cosmica totale che legava botanica e →astrologia sul binario dell’immaginario mitico. Accanto, e spesso insieme, all’indagine – più ‘scientifica’ – sulle tecniche e i modi di riproduzione, sulla fisiologia e la classificazione delle piante, si sviluppò nel mondo greco-romano, anche per evidenti influssi orientali, un filone di studio relativo alle proprietà e alle virtù dei vegetali. In questo campo non vi fu mai una vera e propria separazione dell’aspetto terapeutico da quello magico-folklorico, e il riconoscimento di proprietà effettivamente curative in alcune specie convisse, nell’immaginario popolare così come nella trattatistica scientifica, con le credenze di virtù miracolose e proprietà magiche. Già i due libri del Peri; futw`n dello Pseudo-Aristotele contengono osservazioni sulle qualità magiche di alcune piante ; nelle opere perdute di autori quasi misteriosi, quali Panfilo e Bolo di Mende, erano raccolte numerosissime indicazioni magico-terapeutiche ; ma è nella Materia medica di →Dioscoride che si riscontra il maggiore affastellamento di dati più o meno provati scientificamente e suggerimenti teratologici. Nei santuari, d’altra parte, si diffondevano (e commercializzavano) erbe ‘magiche’ di ogni tipo, sacre a questo o a quel dio o eroe. I pharmakopolai, venditori di preparati medicinali, così come i rizhotomoi, raccoglitori di radici, erano considerati tra i maggiori esperti di erbe, spesso canzonati come ciarlatani, ma pur sempre avvolti da un certo rispetto. Anche figure mitiche quali Ecate, Medea o Circe, del resto, contribuivano ad ammantare di un alo 













ne di mistero e magia tali personaggi (spesso donne). Un rituale ben preciso doveva precedere alla raccolta delle piante ‘magiche’ : l’astinenza sessuale, a volte il digiuno, un particolare vestito. La raccolta doveva essere compiuta in determinati tempi (importante la posizione della luna) e modi (strumenti particolari, singolari posizioni del corpo, silenzio, solitudine). Indispensabile era il momento della preghiera o della formula di scongiuro/invocazione. Analoghi rituali erano condotti durante la preparazione degli infusi vegetali ‘magicoterapeutici’, nonché nell’applicazione di essi. L’enorme bagaglio di credenze astrobotaniche e magicobotaniche antiche, anche una volta separatosi definitivamente da una botanica ormai definita scientificamente, continuò ad essere tramandato (non solo oralmente) nella tradizione culturale occidentale, e vive ancora oggi, seppur limitatamente, nell’immaginario folklorico europeo (Ducourthial 2003).  

Note. [1] Non solo negli scritti tecnici, com’è ovvio, si incontrano riferimenti alla realtà botanica, in particolare alla flora. Un filone di studi notevole è costituito dalle ricerche sulla terminologia del mondo vegetale in diversi autori greci e latini : importanti, in questo settore, i saggi di Forster 1936, 1942 e 1952 (dedicati rispettivamente a Omero, Erodoto e i Tragici) e, più recentemente, di Moisan 1990 (Ippocrate), Boulogne 2001 (Plutarco) e Maggiulli 1995 e 2007 (Virgilio e Seneca), con ricca bibliografia. – [2] Per la corteccia (cortex) e le radici (radix) cfr. anche Plin. nat. 16,126-130. – [3] Si hanno così le coppie fico/caprifico, olivo/ oleastro, pero/peruggine. Significativa l’affermazione di Teofrasto, secondo il quale « delle piante selvatiche molte non hanno un nome, e sono pochi coloro che le conoscono » (HP 1,14,4).  





Bibliografia. Amigues 1994 ; Amouretti-Comet 1993 ; André 1985 ; Andrei 1981, 59-98 ; Borgongino 2006 ; Bruno 1969, 62-95, 221-234 ; Desautels 1988 ; Ducourthial 2003 ; Singer 1922 ; Stannard 1971 ; Stirling 1997 ; Zumbo 2002a.  





















Emanuele Lelli Bovini. 1. Terminologia. – Nelle fonti antiche si rinviene una terminologia variegata e talora incerta relativamente ai bovini. A fronte dei termini generali, boûs e bos, designanti indifferentemente esemplari maschi e femmine, i primi venivano chiamati anche taûroi e, a seconda dell’età, assumevano la designazione di taurus, vitulus, iuvencus, i secondi théleia o

bovini thêlus boûs e ancora, a seconda dell’età, vitula, iuvenca, vacca, ma anche, soprattutto in poesia, dámalis, damále, póris, pórtis in riferimento a giovenche non ancora accoppiate, mentre in età tarda compare anche la designazione bouthéleia (Paus. 7,22,11 ; Varr. r.r. 2,5,6 ; Geop. 17,2). Ma tali designazioni risultano impiegate in maniera tutt’altro che rigorosa : se infatti damále e pórtis indicano generalmente esemplari molto giovani, non mancano casi in cui il termine si riferisce invece a vacche adulte e già madri (cfr. Opp. C. 1,134-135 ; Eur. Ba. 737). 2. Specie, classificazione e caratteristiche. – Dalle fonti antiche sembrano potersi individuare due diverse specie bovine sulla base della particolare forma delle corna, semicircolare (ben attestata ad es. in Mosc. Eur. 87-88) o allungata (testimoniata invece, ad es., in AP 6,74). La forma semicircolare delle corna sembrerebbe infatti consentire un’identificazione con la specie bos brachyceros, quella allungata con la specie bos macroceros. Gli antichi, tuttavia, classificavano i bovini sulla base del colore, che consideravano strettamente legato alla forza o alla debolezza dell’animale. Una prima distinzione si effettuava tra bovini dalla pelle monocroma (holóchroi) e bovini dalla pelle policroma (poikíloi) (cfr. Arist. GA 5,6,785 b 16-25). All’interno della categoria dei bovini monocromi si distinguevano poi quattro sottocategorie basate sul colore nero, rosso, biondo o bianco dei bovini (cfr. Varr. r.r. 2,5,8). Tra queste la migliore era considerata quella dei bovini di colore nero, in quanto ritenuti i più resistenti (cfr. ancora Varr. r.r. 2,5,8), ma veniva apprezzata anche quella dei bovini di colore biondo (Geop. 17,2). Nella classificazione dei bovini, inoltre, si seguiva nell’antichità anche un criterio ‘territoriale’ : molto apprezzati erano i bovini della Grecia e dell’Italia, e in particolare, tra questi, i bovini compacti dell’Etruria e del Latium (Colum. 6,12). Particolarmente fieri erano considerati i bovini di Siria (Opp. C. 2,43,100 sgg.), particolarmente docili quelli d’Egitto (ibid. 2,83-89). Ma i bovini ritenuti di gran lunga i migliori erano quelli dell’Epiro per la loro eccezionale grandezza (Arist. HA 3,21,522 b,15-19 ; Varr. r.r. 2,5,10). Tra le qualità fisiche dei bovini, specialmente apprezzate erano la grandezza, la levigatezza e la forma, semicircolare o allungata, delle corna (cfr. ad es. Colum. 6,21,1 ; Geop. 17,2), la fronte e il collo ampi, particolarmente atti ad accogliere il giogo (Varr. r.r. 2,5,7 ; Colum. 4,1,3 ; 21,1 ;  



















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Plin. nat. 8,177 ; Geop. 17,2), gli occhi scuri (Colum. 6,1,3 ; Geop. 17,2), le mascelle proporzionate che agevolino l’alimentazione (Varr. r.r. 2,5,7 ; Colum. 6,21,1 ; Geop. 17,2), il naso camuso e il petto ampio che favoriscano la respirazione (Colum. 6,1,3 ; Geop. 17,2), il dorso non ricurvo che non ostacoli la resistenza nel lavoro (Varr 2,5,7 ; Colum. 6,1,3 ; Geop. 17,2), le mucose scure della bocca (Varr. r.r. 2,5,8 ; Colum. 6,1,3 ; Geop. 17,2), la coda lunga e flessibile per allontanare gli insetti (Varr. r.r. 2,5,8 ; Verg. georg. 3,59 ; Geop. 17,2), le unghie liscie e uniformi (Varr. r.r. 2,5,8 ; Geop. 17,2), il dorso ampio e la pelle morbida, da potersi destinare rispettivamente agli usi alimentari e vestiari (Varr. r.r. 2,5,8 ; Colum. 6,1,3 ; Geop. 17,2). Tutte queste caratteristiche erano apprezzate non solo negli esemplari maschi, ma anche nelle vacche. Negli esemplari femmine, invece, particolarmente ricercati erano gli occhi grandi (Varr. r.r. 2,5,7 ; Colum. 6,21,2 ; Pallad. 4,11,5) e i fianchi allungati per le necessità della gestazione (Verg. georg. 3,54 ; Colum. 6,1,3 ; Geop. 17,2). 3. Allevamento. – La predilezione per il genere grammaticale femminile nella designazione degli animali componenti le mandrie (cfr. Scholia in Hom. Iliadem, 7,474 ; Scholia in Eurip. Phoenissas, 3 ; Hom. Il. 11,170 sgg. ; 15,630 sgg. ; 17,61 sgg. ; Od. 14,100 sgg. ; 20,208 sgg. ; Paus. 4,4,5) è indice del fatto che queste, per le evidenti necessità della riproduzione, si componevano di un gran numero di esemplari femmine e di pochi esemplari maschi (cfr. ad es. H. Hom. Merc. 68 sgg., 190 sgg. ; Theoc. 25,88 sgg.) : dalle fonti tecniche apprendiamo che la proporzione media era di due esemplari maschi ogni sessanta o settanta esemplari femmine (Varr. r.r. 2,5,18). La selezione degli animali che avrebbero costituito la mandria doveva essere molto accurata : nelle fonti antiche e tardo-antiche si rinvengono le caratteristiche di quello che doveva essere considerato il bovino ‘ideale’, forte, sano, robusto e atto alla riproduzione, caratteristiche vertenti soprattutto intorno alla grandezza, alla corporatura e al colore dell’animale (cfr. Varr. r.r. 2,5,4-5 ; Colum. 6,1,12 ; 6,20-21). È significativo che nelle fonti siano soprattutto gli esemplari femmine a dover sottostare ad un’accurata selezione, per la necessità di assicurare una prole numerosa (cfr. Varr. r.r. 2,5,7 ; Verg. georg. 3,50 sgg. ; Geop. 17,2) e per le necessità dell’allattamento (Pallad. 4,11,5). Differente, e più rigoroso, era anche il regime  































































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cui erano sottoposti gli esemplari femmine rispetto agli esemplari maschi : mentre infatti le vacche venivano addomesticate a pascolare e spostarsi in gruppo, i buoi erano lasciati più liberi di allontanarsi dalla mandria (cfr. Colum. 6,23,3). Un ruolo non trascurabile nell’allevamento dei bovini giocava la voce del bovaro, cui gli animali, ad essa assuefatti, obbedivano (cfr. Colum. 6,2,5-7 ; Geop. 17,2). Dall’età micenea (vd. Lejeune 1963) fino all’età tardo-antica (vd. Geop. 17,2) è attestata anche la prassi consistente nell’assegnare un nome a ciascun bovino, soprattutto sulla base del colore della pelle dell’animale (cfr. ad es. Theoc. 4,45-46 ; 25,139), e che ciascun bovino sembra riconoscesse. Entro l’età di due anni si sceglievano i bovini destinati a perpetuare la razza, quelli da lavoro e quelli votati al sacrificio (Verg. georg. 3,157-161). Per queste due ultime categorie di bovini si procedeva alla castrazione non oltre i due anni di età (cfr. Hes. op. 790-791 ; Arist. HA 9,50,632 a 8 sgg. ; Varr. r.r. 2,5,17 ; Colum. 6,26 ; Geop. 17,8). Le fonti attestano inoltre l’esistenza di due diversi procedimenti di castrazione, l’uno consistente nel distruggere i testicoli comprimendoli, l’altro consistente nel reciderli, a seconda che il bovino fosse più o meno giovane (cfr. Arist. HA 3,1,510 b 1-4 ; Colum. 6,26). Numerose erano le precauzioni per evitare che i bovini si ammalassero e le cure per i bovini malati o feriti, rese difficoltose dall’afasia degli animali che richiedeva un’esperta osservazione dei sintomi, e applicate principalmente sotto forma di somministrazione regolare di particolari tipi di nutrimento o di erbe medicinali (CHG 2,90,18 sgg. ; Cat. agr. 5,7 ; 37,2 ; 70-73 ; Varr. r.r. 2,5,12 ; Colum. 6,2-15 ; 17,19 ; 26,3-4 ; Geop. 17,4 ; 7-9 ; 11-29). Alle precauzioni e alle cure ‘scientifiche’ si affiancavano altrettanto numerose pratiche religiose volte a propiziare la salute dei bovini, come ad esempio quella consistente nell’appendere alla mangiatoia una coda di lupo (Geop. 17,13). Sull’alimentazione dei bovini in generale, e in particolare volta a irrobustirli per le finalità dei lavori agricoli, o a ingrassarli ai fini alimentari, vd. Hes. op. 452 ; Arist. HA 8,7,595 b 5-11 ; Colum. 6,3,1 sgg. ; 11,2,98 sgg.; Geop. 17,12. Sull’alimentazione delle madri durante il periodo dell’allattamento, finalizzata a rendere abbondante la quantità di latte prodotto, vd. Varr. r.r. 2,1,17 ; Colum. 5,12,1-2 ; 6,24,5 ; Geop. 17,8. Sull’allevamento e l’alimentazione dei vitelli, consistente principalmente nell’assunzione del latte materno e di erbe accura 















































tamente selezionate, vd. Varr. r.r. 2,5,16 ; Verg. georg. 3,176-178 ; Colum. 6,2,1 sgg. ; Geop. 17,8. 4. Accoppiamento e riproduzione. – Se gli esemplari femmine sottostavano ad un’accurata selezione per le necessità della riproduzione, anche gli esemplari maschi venivano accuratamente selezionati per le medesime finalità : in particolare, ad essere scelti erano soprattutto bovini dalle membra robuste, dal collo ampio, dal ventre asciutto e dalle corna corte (Colum. 6,20), sulla base dell’osservazione che le corna dei bovini castrati, e dunque non più fertili, tendono a divenire più lunghe (Arist. Pr. 10,57,897 b 27-29). Quanto al numero di vacche che ciascun esemplare maschio poteva fecondare nel corso di un anno, le testimonianze variano da un numero di dieci (Plin. nat. 8,176), a un numero di quindici (Colum. 6,24,3), fino a un massimo di trenta-trentacinque (Varr. r.r. 2,5,12 e 18). Per agevolare la riproduzione, le fonti antiche prescrivevano di nutrire abbondantemente i bovini adulti per renderli vigorosi e atti alla riproduzione (Varr. r.r. 2,5,12 ; Geop. 17,3), e di tenerli separati dalle femmine nei due mesi precedenti il periodo adatto per l’accoppiamento, al fine di sfruttare successivamente il beneficio derivato dall’astinenza sessuale (Arist. HA 6,18,571 b 21-23 e 572 b 16-23 ; Varr. r.r. 2,1,18 ; Geop. 17,3). Del tutto diverso il regime alimentare degli esemplari femmine, che i trattati antichi prescrivono di non nutrire eccessivamente nel mese precedente il periodo dell’accoppiamento, in quanto una corporatura snella avrebbe favorito il concepimento e la riproduzione ; diversamente, l’obesità avrebbe potuto rendere le vacche sterili (Varr. r.r. 2,5,12 ; Colum. 6,24,3 ; Geop. 17,1). Quanto all’età adatta per l’accoppiamento, le fonti antiche riportano diverse opinioni tanto per gli esemplari maschi quanto per gli esemplari femmine. Per quanto riguarda i primi, l’età adatta per l’accoppiamento sarebbe secondo alcuni attorno ai quattro anni (Colum. 6,24,1), secondo altri attorno all’età di tre anni (Geop. 17,10), secondo i più attorno ai due anni (Arist. HA 6,21,575 a 22-25 ; Varr. r.r. 2,5,12). Per le vacche, essa sarebbe invece attorno ai due anni secondo la maggior parte delle fonti (Varr. r.r. 2,5,13 ; Colum. 6,21,1-2 ; Pallad. 4,11 ; Geop. 17,10), ma non mancano testimonianze sull’opportunità dell’accoppiamento di vacche di un solo anno (Arist. HA 6,21,575 a 23-24) o addirittura di quattro anni di età (Verg. georg.  



























bovini 3,60-61). Le vacche erano considerate fertili fino a dieci anni (Varr. r.r. 2,5,13 ; Verg. georg. 3,61 ; Colum. 6,21,1 ; Geop. 17,10), i tori fino a dodici (Colum. 6,24,1 ; Geop. 17,3), ma si riteneva che la prole di bovini in età avanzata sarebbe risultata gracile e debole, pertanto le vacche considerate troppo vecchie per assicurare una buona discendenza venivano allontanate dalla mandria (Varr. r.r. 2,5,17 ; Verg. georg. 3,69-71 ; Colum. 6,22,1 ; Pallad. 4,11,6 ; Geop. 17,10). Diverse sono anche le opinioni attestate relativamente al periodo migliore dell’anno per l’accoppiamento dei bovini, tutte più o meno legate al periodo di gestazione della vacca di dieci mesi, e volte a far sì che i piccoli nascessero con un clima temperato. Nelle fonti, infatti, il periodo migliore per l’accoppiamento dei bovini oscilla tra metà primavera (Geop. 17,5), primavera avanzata, in concomitanza con il sorgere della costellazione chiamata Lyra dai Greci, Fides dai Romani (Varr. r.r. 2,5,12-13), e inizio-metà estate, a partire dal sorgere della costellazione del Delfino (Colum. 6,24,1 ; Geop. 17,10). Sui rimedi volti ad agevolare gli accoppiamenti, nel caso in cui gli animali vi si mostrassero riottosi, vd. Colum. 6,24,2 ; 27,10 ; Geop. 17,5. Sui metodi adottati nell’antichità per prevedere, o anche per determinare, il sesso del bovino nascituro, consistenti principalmente nell’osservazione del rigonfiamento del ventre materno i primi, nel legare il testicolo destro o sinistro del bovino e nell’osservazione dei venti i secondi, vd. Colum. 6,28 e 7,3,12 ; Pallad. 4,11,6 ; Geop. 17,6. 5. Usi agricoli. – Dalle fonti apprendiamo che i bovini erano considerati nell’antichità animali molto docili e facilmente addomesticabili (cfr. Arist. HA 1,1,488 b 13-15 ; Aelian. NA 7,4) : tre giorni erano ritenuti sufficienti per sottomettere al giogo i buoi da lavoro (Colum. 6,2,7). L’età migliore per aggiogare i bovini era quella in cui essi si trovavano nel pieno delle forze, attorno ai tre anni (Varr. r.r. 1,20,1 ; Colum. 6,2,1). Essi tuttavia venivano scelti per il lavoro nei campi attorno ai due anni, età in cui probabilmente venivano anche castrati. Nei lavori agricoli erano impiegate anche le vacche sterili, considerate resistenti come i bovini maschi proprio per l’infecondità del loro ventre (Colum. 6,22,1). Abbiamo testimonianza di tre diverse modalità di attacco del giogo dell’aratro agli animali : le due più comuni consistevano nell’attaccare l’attrezzo alle spalle o al collo del  

































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bovino (vd. Hes. op. 465-469 ; Et. Magn. p. 173,27 ; Schol. Ap. Rhod. 3,232 ; Verg. georg. 1,171-175), ma esisteva anche una terza modalità consistente nell’attaccare il giogo alle corna, modalità fortemente sconsigliata dalle fonti tecniche antiche, in quanto fastidiosa per i buoi e meno proficua per le finalità dell’aratura (cfr. Colum. 2,22-23 ; Plin. nat. 8,179 ; Pallad. 2,3,1). Oltre che essere adibiti al lavoro nei campi, i bovini castrati conoscevano anche altri impieghi utili : ad esempio, potevano essere addestrati a condurre le mandrie (Arist. HA 6,21,575 b 1-4). 6. Usi sacrificali. – Tra gli animali atti all’uso sacrificale, i bovini erano considerati nell’antichità ‘vittime opime’ (Plin. nat. 8,183). Prima di essere votati al sacrificio, essi dovevano passare attraverso un’accurata selezione, operata da appositi esaminatori attraverso determinate ‘prove’ : secondo le prescrizioni rituali, infatti, ad essere sacrificati erano esclusivamente esemplari incontaminati, integri e sani (Poll. 1,29 ; Arist. fr. 101 Rose, ap. Ath. 15,674f ), ed inoltre dotati di particolari caratteristiche fisiche, tra le quali ad esempio veniva prediletto il colore bianco della pelle (cfr. Varr. r.r. 2,5,10 ; Verg. georg. 2,145-148). Alle bestie sacrificali si richiedeva una sanità non solo fisica, ma anche mentale, da appurare anch’essa attraverso specifici esami (cfr. Plu. mor. 437AB). L’attenta osservazione cui si sottoponevano gli animali da destinare al sacrificio era volta anche ad appurare la giusta età delle vittime scelte, affinché esse non fossero eccessivamente giovani, cosa ritenuta non gradita alle divinità : in particolare, si osservava che la coda delle bestie in questione non fosse ancora troppo corta, ma che avesse raggiunto già una determinata lunghezza (cfr. Plin. nat. 8,183). 7. Metafore ed epiteti letterari. In poesia la giovenca, soprattutto nelle designazioni di dámalis o damále, è frequentemente impiegata come metafora per designare giovani fanciulle ancora ignare di nozze (cfr. ad es. Aesch. Suppl. 350). L’associazione della grandezza degli occhi bovini con la bellezza femminile sembra invece testimoniata dall’epiteto epico boôpis, detto di Era, originariamente derivato dagli stretti legami intrattenuti da questa divinità con la razza bovina in una fase ancora naturalistica della religione greca.  



















Bibliografia. Anassis 1965 ; Bodson 1983a ; Brunaux-Meniel 1983 ; Delgado Linacero 1996 ; Fo 







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brisone di eraclea

raboschi 1984 ; Georgoudi 1990 ; Lejeune 1963 ; Lepetz 1995 ; Marmet 1970 ; Renard 1995 ; Touwaide 1979 ; Van Windekens 1958 ; Vincke 1931 ; Zeissig 1934.  

















Giorgia Parlato Brisone di Eraclea. Brisone di Eraclea, figlio di Stilpone (Diog. Laert. 9, 61 = 72A2 D.-K.), fu attivo nel iv sec. a.C. Fu contemporaneo di Platone (cfr. Ep. 13, 360 c) e maestro di Pirrone di Elide (Suid. s.v. Puvrrwn = 70A1 D.-K.). Le informazioni che possediamo sul suo conto sono legate alla sua dimostrazione della quadratura del cerchio (le fonti sono Alex. Aphrod. Soph. El. 90, 10-21 ; Philop. 211 b 30-40 Brandis). B. utilizzò un poligono inscritto e un poligono circoscritto al cerchio : raddoppiando i lati dei poligoni, per la quantità di volte necessaria –  



ma non specificata – questi si sarebbero tanto approssimati da ottenere un terzo poligono la cui area, risultante dalla media delle aree dei due poligoni, avrebbe coinciso con il cerchio ottenendo così la quadratura (→esaustione). L’argomento di Brisone è spesso accostato a quello di →Antifonte Sofista : entrambe le dimostrazioni non vennero considerate valide né da →Aristotele (SE 11, 171 b 15 e ss e 172a) né da →Archimede. La sua quadratura fu ritenuta un sofisma ed egli è, forse per questo, conosciuto anche come Brisone Sofista.  

Bibliografia. Bretschneider 1870 ; Heath 1921 ; Loria 1914 ; Maracchia 2005a ; Thomas 1939-1941 ; Untersteiner 1967.  





Stefania Giombini

   

C Caccia [qhvra, kunhgiva, kunhgesiva, venatio]. 1. Una teoria aristotelica della cultura. – Dell’ampia disamina dedicata da Aristotele nei primi capitoli della Politica alle forme di appropriazione economica, e al rapporto intercorrente fra questa e la crematistica, considereremo qui la sezione che concerne l’individuazione e la descrizione dei vari bioi, o « generi di vita », [1] praticati dalle comunità umane ai fini del sostentamento e più precisamente dell’alimentazione (trofhv). L’eccezionale importanza di questa analisi antropologica dei modi di appropriazione/produzione è fin qui sfuggita pressoché totalmente alla filologia tradizionale e a quanti si sono occupati della Politica. L’attenzione di Aristotele è interamente concentrata sulle forme di produzione, o appropriazione, primaria, e lascia fuori ogni ipotesi di integrazioni dipendenti da processi di scambio. Non meraviglierà constatare che, ricondotto com’è alle forme di alimentazione e acquisizione del cibo, il discorso aristotelico prende le mosse dalla descrizione dei vari « generi di vita », o bioi, animali, passando solo in un secondo momento, e quasi per via analogica, alla considerazione dei bioi umani. La varietà delle forme di vita praticate dalle diverse specie animali è dedotta, conformemente agli assunti, dai differenti tipi di alimentazione : « Ci sono molte specie di alimentazione, per cui ci sono pure molte forme di esistenza, sia tra gli animali, sia tra gli uomini : non si può infatti vivere senza alimenti, e quindi, la diversità della nutrizione ha prodotto le diverse forme di vita degli animali ». [2] Sono dunque le forme di alimentazione che determinano i tipi di aggregazione delle specie animali ; queste possono vivere in branchi, oppure in stato di dispersione, in quanto alcune sono carnivore, altre erbivore, altre onnivore. [3] Esiste, per gli animali come per gli uomini, una comune base biologica e comportamentale, costituita dai bisogni alimentari e dalle forme della loro soddisfazione. Le varie forme di aggregazione animale, strettamente condizionate dalla « natura » (è infatti la physis a determinare il genere di bios), si ripropongono, anche se ad un livello più elevato, nelle comunità umane. Ciò che costituisce il tratto distintivo dell’aggregazione umana, dunque della ‘cultura’, è per Aristotele il fatto che l’uomo ha una possibilità di opzione di cui  



























l’animale non dispone, o non dispone nella stessa misura. Benché condizionate da ciò che noi chiamiamo la pressione ambientale, le culture umane si organizzano lasciando un certo spazio alla scelta (ai{resi~), al gradimento (hJduv), e al principio dell’economia dello sforzo (rJa/ stwvnh). Vediamo dunque quali sono i « generi di vita » secondo i quali Aristotele inquadra le varie culture. Si distinguono, ad una prima approssimazione, tre grandi tipi di cultura: →pastorizia, caccia e →agricoltura. Per ciò che riguarda quest’ultima il filosofo si limita ad osservare che « la maggior parte degli uomini vive della terra e dei frutti del suolo »[4] : evidentemente, quella agricola era una forma di vita troppo nota per richiedere ulteriori illustrazioni. La pastorizia è invece definita in riferimento all’allevamento transumante, ed è caratterizzata come « vita nomade » (nomadikov~) : la necessità di reperire la pastura obbliga gli allevatori a spostarsi nel corso dell’anno al seguito delle loro mandrie, o greggi, praticando quella che Aristotele chiama una specie di « agricoltura vivente ». Osserveremo che agricoltura e allevamento (in quanto allevamento transumante) sono tenute ben separate in questa classificazione, se non per mera analogia esteriore ; come tipo di alimentazione, la pastorizia estrae il proprio sostentamento da animali mansueti, e come modo di vita, è vita nomade. Infine, la caccia. Ma in realtà il termine greco corrispondente (qhvra) occupa un’area semantica notevolmente più estesa del termine italiano, e viene di fatto a comprendere ogni forma di predazione : « Altri vivono di caccia, e ciascuno di un particolare genere di caccia, p. es. quelli di scorrerie, questi di pesca, quanti cioè abitano presso i laghi, le paludi, i fiumi o il mare pescoso, quest’altri di uccelli o di animali selvatici ». Dunque, razziatori-predoni, pescatori, uccellatori, e cacciatori. Raccogliere nell’unica classe della qhvra attività che a noi appaiono fortemente diversificate è d’altronde eredità platonica : in sph. 222 sgg. Platone aveva seguito questa tassonomia nel descrivere le varie forme di « predazione ». Poco più innanzi tuttavia, riassumendo la precedente esposizione, Aristotele ci fornisce una diversa classificazione dei « generi di vita », elencando vita di nomade (nomadikov~), di agricoltore (gewrgikov~), di predone (lh/strikov~), di pescatore (aJlieutikov~), di cacciatore (qhreuti 





































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kov~). In questa seconda classificazione, la pre-

doneria è distinta dalla caccia, e la caccia dalla pesca, mentre nella stessa classe della « caccia » vengono fatte rientrare attività precedentemente distinte in « caccia » e « uccellagione » (o caccia ai volatili). L’uso aristotelico di qhvra appare così di volta in volta più specifico o più generico, il che ben si adatta alla fondamentale elasticità semantica del lessema. È comunque abbastanza evidente che in questa tipologia culturale Aristotele viene ad individuare le forme fondamentali di appropriazione/produzione primaria, secondo un modello che corrisponde quasi perfettamente a quelli seguiti nelle moderne classificazioni etnologiche e preistoriche. Dal suo inventario il filosofo lascia fuori, rispetto a queste ultime, solo la raccolta : ma la definizione dell’agricoltura come genere di vita basato sul consumo di « frutti domesticati » (hJmevrwn karpw`n), rinviava implicitamentre alla raccolta di « frutti selvatici » come alternativa ; l’opposizione domestico/selvatico funziona in effetti anche in rapporto a pastorizia e caccia (vd. hJmevrwn zw/vwn/qhrivwn ajgrivwn). D’altronde, lo stadio culturale della ‘raccolta’, o ‘colletta’, era largamente rappresentato nelle varie formulazioni della teoria dell’incivilimento umano, a partire almeno da Democrito : Aristotele poteva dunque darlo per conosciuto. In Democrito come altrove, lo stadio della raccolta era quello proprio dell’umanità più primitiva (B 5 D.-K. : vi ritorneremo più avanti) ; e altrettanto vale per un discepolo dello stesso Aristotele, Dicearco (frr. 48 e 49 Wehrli), che situava la caccia e l’allevamento al secondo stadio (gradus) del progresso umano. I primi uomini non erano ancora, per Dicearco, cacciatori, ma semplici « raccoglitori » di vegetali. Ma il silenzio aristotelico sulla ‘raccolta’ ha ragioni più profonde. Quella che il filosofo tratteggia in queste pagine è infatti un’autentica tipologia delle forme culturali (appropriativo-produttive), in una prospettiva descrittiva sincronica, che non si propone affatto di delineare un ordine di successione fra i differenti bioi, come accadeva invece nelle varie ‘storie evolutive’ dell’umanità (da Democrito fino a Lucrezio). Il referente attuale della classificazione aristotelica sono le forme culturali esistenti all’epoca del filosofo, e, per ciò che riguarda le forme meno ‘evolute’, egli avrà in mente culture marginali, prevalentemente barbariche, non ancora conquistate ai modi di  

































produzione delle civiltà urbane, della Grecia in primo luogo. Alla descrizione del ‘modo di vita’ delle popolazioni barbariche Aristotele aveva dedicato i perduti Novmima barbavrwn, che dovevano costituire il presupposto descrittivo della tipologia della Politica. [5] Ora, è più che plausibile che il filosofo non avesse notizia di popolazioni umane, per barbariche e marginali che fossero, che traessero il loro sostentamento esclusivamente dalla raccolta vegetale. Siamo anche autorizzati a pensare che la tipologia culturale di cui si è appena detto, nella sua pur controversa formulazione, abbia fornito i quadri concettuali e gli schemi di classificazione di cui si servì l’etnografia dell’età di Alessandro e dei diadochi nelle sue descrizioni delle popolazioni esotiche, ‘primitive’, con cui viaggiatori e geografi greci entrarono in contatto a quell’epoca. Per non fare che un esempio, un quadro analogo a quello aristotelico si lascia rintracciare in ciò che ci è rimasto, attraverso la mediazione di Diodoro Siculo e di Fozio, dell’opera di Agatarchide di Cnido, soprattutto riguardo alle varie popolazioni di raccoglitori, cacciatori ed allevatori del Sudan e dell’Etiopia, o ai pescatori (e ‘mangiatori di pesci’) delle coste del Mar Rosso e dell’Oceano Indiano. [6] Abbiamo qui dei rapporti etnografici di prima qualità, che meriterebbero una considerazione ben più attenta di quella ad essi finora riservata. Il dilatarsi dello spazio, e delle conoscenze geografiche dopo la conquista di Alessandro, portò anche ad un allargamento della tipologia aristotelica, in particolare con la ‘riscoperta’ di popolazioni di semplici raccoglitori, di cui Aristotele stesso non aveva notizia. Il solo salto di qualità nella descrizione tipologica della Politica lo abbiamo con l’inclusione della razzia, o predoneria (comprensiva di pirateria e guerra vera e propria) fra i « generi di vita », o forme di appropriazione. A differenza degli altri bioi, infatti, la predoneria comporta l’appropriazione di risorse alimentari già prodotte o acquisite da altri, e configura pertanto una ‘produzione alimentare’ indiretta, di secondo grado. Si segnala in proposito l’osservazione di Senofonte (Eq. mag. 8, 8) : la pratica della predoneria (lh/steiva) si addice non a quelli che fruiscono dei prodotti propri (toi`~ karpoumevnoi~ ta; eJautw`n), ma a chi non dispone di cibo in proprio (toi`~ steriskomevnoi~ th`~ trofh`~). Esistono così due forme di sussistenza : quella fondata sul lavoro produttivo pro 











caccia prio (ejrgastevon), e quella che sfrutta il prodotto degli altri (ajpo; tw`n eijrgasmevnwn). Ma il brano della Politica ci riserva altre sorprese. Nelle linee (1256 b 1-7) che seguono al passo da noi appena esaminato, si fa largo una concezione quanto mai aperta ed attuale. Ben lungi dal considerare i « generi di vita » da lui testé enumerati come quadri rigidamente differenziati e fra di loro incompatibili, Aristotele, con un colpo d’ala che fa piazza pulita ante litteram di molti schematismi e determinismi proliferati in tempi assai più recenti, [7] osserva che alcuni vivono combinando questi modi di vita e colmando così le mancanze dei beni, là dove non permettono loro di raggiungere un’autosufficienza : p. es. alcuni vivono la vita del nomade e del predone, altri quella del contadino e del cacciatore. E ugualmente per gli altri : essi menano quel genere di vita a cui il bisogno li costringe. Non esiste pertanto una rigida delimitazione, ad es., fra agricoltura e caccia (che non sono intese come forme culturali totalizzanti e autoescludentisi, secondo gli schemi più rigidi del moderno evoluzionismo culturale), ma sono possibili, e anzi reali, integrazioni di vario tipo e combinazioni diverse. Ciò che abbiamo qui è un modello di ‘ bricolage culturale’, il cui interesse è tutt’altro che trascurabile. Le varie popolazioni umane mostrano di disporre di notevoli capacità di adattamento alle pressioni ambientali, passando con relativa facilità da un modo d’appropriazione (da un regime culturale) all’altro, o combinando insieme modi differenti. [8] Aristotele non accenna che, alquanto sbrigativamente, a due soli casi di questo ‘bricolage culturale’ : il primo, quello della combinazione vita di allevatori nomadi/vita di predoni, è fin troppo ovvio ; l’associazione fra pastorizia transumante, itinerante e razzia (soprattutto, ma non solo, razzia di bestiame), è un dato etnografico e storico ben conosciuto. Quanto al secondo caso, combinazione agricoltura/caccia, non siamo in grado di sapere a quali popolazioni Aristotele si riferisse, almeno qualora alla componente venatoria si voglia assegnare un profilo rilevante, e non semplicemente un ruolo d’integrazione alimentare dell’agricoltura (quest’ultima situazione poteva essere diffusa, anche nel mondo greco). [9] Ma, a illustrazione di questo schema di combinazione culturale, possiamo addurre almeno alcuni esempi da fonti non aristoteliche. In Arriano (Ind. 11, 11)  



















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abbiamo notizia di tribù montanare dell’India che praticano al tempo stesso l’allevamento e la caccia : nomadi, quegli Indiani sono insieme allevatori di pecore e di bestiame bovino, e cacciatori d’uccelli e animali selvaggi. [10] In Diodoro (5, 39), i Liguri sono descritti come una popolazione che, per la povertà delle risorse ambientali (se si fa eccezione per il manto forestale), combinano attività di boscaioli, di agricoltori (ma su terreni estremamente poveri, dove non vi è luogo né per la cerealicoltura né per la viticoltura), e di cacciatori : « e conducono continue battute di caccia (sunecei`~ ... kunhgiva~), nelle quali catturano abbondante selvaggina, con cui compensano la penuria dei prodotti della coltivazione ». Dunque, qualcosa di più che una caccia meramente complementare all’agricoltura, perché è piuttosto dalla prima, come pare, che i Liguri ricavano la massima parte del loro nutrimento. [11] Infine, a illustrazione della facilità con cui può aver luogo il passaggio da una forma d’appropriazione all’altra, e dunque dell’adattabilità alle pressioni ambientali, addurremo l’esempio descritto da Dione di Prusa nell’Euboico (7,7). Qui una piccola comunità montana, che si riduce di fatto ad un unico nucleo familiare, è stata obbligata dalle circostanze a passare, dalla primitiva occupazione di pastori, a quella di cacciatori (con limitatissima integrazione di produzione agricola), nel momento in cui il bestiame che essi possedevano è stato loro sottratto senza possibilità di rimpiazzarlo. Abbiamo qui, come si diceva, non tanto una combinazione di « generi di vita » diversi, quanto una transizione, e forse una regressione (che tuttavia, vista com’essa è in una prospettiva nostalgica, edenica, non è del tutto tale), da un genere di vita (allevamento) all’altro (caccia). [12] Si noterà che questa metamorfosi da allevatori a cacciatori interessa, nel racconto di Dione, non solo i padroni ma anche i cani : i cani che, da cani da pastore che erano, si adattano, anche se con qualche difficoltà iniziale, al loro nuovo ruolo di cani da caccia. Sull’altro versante, in opposizione con la tipologia sincronica aristotelica, e col modello d’integrazione culturale ivi proposto, abbiamo lo schema evolutivo, cui si ispirano, come si è accennato, le diverse redazioni dell’antica teoria del progresso umano : una teoria che, a partire almeno da Anassagora, [13] e passando attraverso Protagora, Democrito, Platone, Dicearco, fino ad Epicuro e a Lucre 























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zio, ebbe nel mondo greco, e poi romano, una tale risonanza, da potersi definire come uno dei modelli concettuali più saldamente affermati nell’antichità. La teoria del progresso delinea la storia dell’umanità, e del suo sviluppo tecnologico, dalle più lontane origini fino all’età presente, come una successione di stadi culturali differenti, dal più rudimentale verso il più complesso e avanzato, fino a quella forma pressoché perfetta di organizzazione che è la società greca di età classica. Ci limiteremo a prendere in considerazione due esempi di questa teoria ‘evolutiva’ : quelli di Democrito e di Dicearco (vi si è già accennato in precedenza). Nel Mikro;~ diavkosmo~ di Democrito gli uomini dei primordi si sostentavano con la semplice colletta di vegetali selvatici, frutti o erbe spontanee ; praticavano la caccia, ma non a scopo alimentare, bensì come difesa dall’aggressione delle fiere. Erano insomma dei semplici ‘raccoglitori’ (di vegetali), e nel senso più rudimentale del termine, quello che oggi gli antropologi anglosassoni esprimono col termine foragers in opposizione a collectors. Di questa condizione di foragers dell’umanità più primitiva Democrito ci fornisce una descrizione di impareggiabile efficacia, trasmessaci in due redazioni parallele, quella di Diodoro e quella di Tzetzes: i ‘primi uomini’ si limitavano a « raccogliere » vegetali che consumavano sul luogo e sul momento, vivendo «alla giornata» (kaq∆ hJmevran : caratteristica dei foragers è secondo l’antropologia attuale la raccolta di cibo “on a daily base” !). [14] Incapaci perfino di riconoscere quali alimenti erano passibili di conservazione, questi ‘protoantropi’, proprio per effetto di questa inettitudine a programmare nel tempo, con l’accumulo di scorte, la propria sopravvivenza, erano vittime indifese dell’asprezza delle stagioni e delle carestie. Solo in una seconda fase essi pervennero a trasformare la semplice colletta in una raccolta sistematica, con un accumulo di riserve cui attingere nei periodi di penuria alimentare : si fanno, insomma, collectors da foragers che erano. Ancora più avanti, con la scoperta del fuoco (o meglio, delle tecniche di produzione e conservazione del fuoco), e con l’acquisizione delle tecniche da questo rese possibili, questi foragers-collectors diventeranno dei veri e propri farmers. Nella redazione di Dicearco, scolaro, come si è detto, dello stesso Aristotele (Bivo~ JEllavdo~, di cui abbiamo qualche notizia attraverso il De re rustica di Varro 















ne), [15] si distinguono, nella storia dell’umanità primordiale e arcaica, tre stadi (gradus). Il primo stadio corrisponde a quello di Democrito, e gli uomini vivono della raccolta dei prodotti spontanei della terra. Col secondo stadio, alla raccolta si aggiunge la caccia, e altresì la domesticazione animale, con l’allevamento ovino. Abbiamo dunque qui una combinazione raccolta-caccia-allevamento, con una sovrapposizione di stadi culturali diversi, piuttosto che una transizione dall’uno all’altro (dalla cacciaraccolta alla pastorizia) ; la domesticazione animale è anteriore, in questo schema, a quella vegetale, dato che il passaggio all’agricoltura costituisce a sua volta il terzo e ultimo gradus dell’evoluzione. Il secondo stadio di Dicearco ci presenta dunque uno schema d’integrazione fra forme diverse di appropriazione/produzione (raccolta, caccia, allevamento), che ci ripropone – e la cosa non può meravigliare – la teorizzazione aristotelica della combinazione di diversi bioi, questa volta tuttavia in una prospettiva diacronica, o se si preferisce, ‘preistorica’. Si potrebbe ovviamente estendere l’indagine ad altre formulazioni della teoria dell’incivilimento umano ; ma quello che si è visto è già sufficiente a focalizzare la presenza, nella riflessione greca sulle forme culturali, di due diversi modelli di concettualizzazione. Il primo, che abbiamo definito come ‘sincronico’, o ‘descrittivo’, e che si applica alla considerazione delle culture contemporanee, è quello sintetizzato nella Politica aristotelica, in cui reperiamo un inventario tipologico delle varie forme di appropriazione/produzione, senza che queste vengano inserite in uno schema di trasformazioni evolutive, e contemplandosi la possibilità di compresenze, combinazioni, integrazioni. Il secondo modello, che abbiamo colto in Democrito (e che si ritrova nella maggior parte delle formulazioni della teoria del progresso), configura invece uno schema diacronico, evolutivo, nel quale preistoria e storia sono concepite come una successione più o meno regolare di stadi culturali che si susseguono lungo una linea continua e temporalmente orientata, procedendo dal semplice al complesso, dal rudimentale all’evoluto. In Dicearco, lo schema evolutivo mostra i segni di un suo adattamento alla prospettiva descrittiva propria della teoria aristotelica. Una dicotomia per molti aspetti paragonabile a quella da noi appena descritta si ritrova nelle teorie culturali  





caccia contemporanee, dove schema evolutivo e schema sincronico sono state le due griglie principali di lettura sia nel campo etnologico che in quello preistorico. Gli orizzonti concettuali dell’etnologia occidentale sono stati a lungo dominati dall’evoluzionismo culturale (cultural evolutionism), una prospettiva che imponeva fino a poco tempo addietro le nozioni di evoluzione progressiva dalla raccolta alla produzione del cibo, dal nomadismo al sedentarismo, dall’organizzazione semplice a quella complessa, [16] secondo una linea di sviluppo continuo, e con una distinzione perentoria e rigida di stadi culturali reciprocamente incompatibili. [17] Non è certo il caso di proporre qui riduttivi e semplicistici parallelismi, perché non c’è chi non veda le macroscopiche differenze, a tutti i livelli, fra teorie antiche e moderne (l’enormità del divario sta soprattutto nella diversa scala e qualità delle informazioni disponibili nei due casi) ; e tuttavia, non si può negare che il moderno evoluzionismo culturale ha le sue più remote radici concettuali, pur filtrate attraverso ulteriori mediazioni e determinazioni, nella teoria classica dell’incivilimento umano, uno di quei ‘paradigmi’, nel senso kuhniano della parola, che si è dimostrato di un’incredibile vitalità. Non è certo un caso se Lewis Morgan, che dell’indirizzo evoluzionistico fu il primo e più autorevole propugnatore, si richiama più volte, nella sua opera, alle antiche teorie sull’evoluzione umana, e in primo luogo a Lucrezio. Attualmente, nelle prospettive e nei metodi di ricerca più avanzati, nel campo dell’archeologia preistorica (soprattutto di indirizzo statunitense, ma non soltanto), si tende a togliere ogni enfasi alla nozione stessa di ‘progresso’, sottoponendo ad una revisione critica di fondo “concezioni venerabili come quella dell’evoluzione delle culture dal semplice al complesso”. [18] Il nuovo paradigma, che va rimpiazzando sempre più decisamente i vecchi schemi dell’evoluzionismo culturale, e che costituisce indubbiamente uno sviluppo di teorie funzionaliste, si incardina sul concetto di adattamento (adaptation) ; esso si applica in primo luogo a quelle culture di cacciatori-raccoglitori, preistoriche o etnologiche che siano, che vengono qualificate come « complesse ». I due concetti di « adattamento » e di « complessità culturale » (cultural complexity) appaiono strettamente correlati, anche se si riscontra altresì la tendenza ad ap 



















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plicare il modello ‘adattivo’ a culture che non si possono definire come ‘complesse’. Di fatto, nell’uso linguistico (e nell’impianto concettuale) di questo indirizzo antropologico, si osserva una marcata propensione all’impiego di adaptation come equivalente di culture ; si parla pertanto non più di “hunter-gatherers cultures”, ma di “hunter-gatherers adaptations”, o semplicemente di “pre-agricultural adaptation”. [19] In questo paradigma (al quale ci sentiremmo di accostare quello aristotelico di una ‘integrazione’ fra bioi diversi), è scontato il rifiuto degli schemi dell’evoluzionismo culturale ; non si postula più una transizione meccanica, secondo un ordine predeterminato e in una dimensione ‘progressiva’, dall’una forma di appropriazione all’altra, bensì una molteplice gamma di adattamenti culturali (adattamenti a challenge ambientali o sociali quali la quantità di risorse, la disponibilità di spazio, la densità demografica, etc.), [20] che possono comportare senza alcuna difficoltà la compresenza di ‘stadi’ tradizionalmente considerati incompatibili. Le considerazioni fin qui svolte invitano dunque ad una rilettura delle teorie (e delle ‘storie’) antropologiche dell’antichità attraverso le problematiche dell’indagine culturale contemporanea. In particolare, e pur fatte salve tutte le specificità e le differenze, ci sembra di poter affermare che il passo della Politica da noi esaminato possa ben rappresentare una prefigurazione delle più recenti teorie ‘adattive’ ; il percorso che conduce, dall’‘anatomia dell’uomo’, alla comprensione dell’‘anatomia della scimmia’ (una scimmia, in verità, piuttosto complicata !) , [21] sembra prometterci tuttora qualche sorpresa. Ancora una volta, ci troviamo ad interrogarci se ciò che noi riteniamo un’invenzione della nostra epoca, non sia già stato ‘pensato’, duemilacinquecento anni fa, e una volta per tutte, da questi incredibili Greci. 2. La caccia status symbol. – Nell’Atene del tempo andato, oggetto della nostalgica celebrazione dell’Areopagitico isocrateo, la paideia somministrata ai giovani, ben lungi da avere carattere egualitario (« non era possibile avviarli tutti alle medesime pratiche, data l’ineguaglianza dei patrimoni »), prevedeva due tipi di educazione, per due distinte classi o categorie sociali : i meno agiati venivano avviati alle attività produttive, agricoltura e mercanzia, mentre chi disponeva di un patrimonio adeguato occupava il suo tempo « con l’equitazione, il  





















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ginnasio, la caccia (ta; kunhgevsia), la filosofia » (Isoc. 7,44 sg.). Qui importa rilevare, entro il quadro delle due diverse forme di paideia, la contrapposizione significativa agricoltura/ caccia (attività produttiva/attività ludica), e in genere la solidarietà che lega ta; kunhgevsia alla paideia aristocratica. Anche la tardiva paideia impartita nelle Vespe aristofanee da Bdelicleone al padre filodemocratico e recalcitrante, intesa a fornirgli almeno un’infarinatura di sfarzo (trufhv) e magnificenza (megaloprevpeia, vv. 1169 e 1186), prevede la ricostruzione di un’immaginaria carriera aristocratica per l’adolescenza di Filocleone : un catalogo di exploit (e[rga ajndrikwvtata) con cui intrattenere al momento debito gli ospiti nel simposio. Il vecchio racconterà dunque al nobile uditorio « come un giorno inseguì un cinghiale, o una lepre, o come prese parte alla corsa con le fiaccole » (vv. 1202 sgg.). Il modello proposto, o imposto, dall’aristocratizzante Bdelicleone al riluttante padre, è quello di una « caccia alla corsa » posta sullo stesso piano della lampadedromia, e intesa come exploit atletico (vi sono tuttavia, come si vedrà, altri e più specifici sottintesi). La scena delle Vespe introduce nel contesto comico una nota volutamente dissonante, e il richiamo a questo tipo di caccia ‘atletica’ è indiretta parodia tragica. Come osserva Classen, nella commedia in genere si ha una scarsa presenza di metafore venatorie (oppure, quando esse ricorrono, si tratta di parodia dello stile tragico : così Lys. 781 sgg., Ran. 1359 sgg., etc.). “Di solito, le immagini vengono tratte dall’uccellagione e dalla pesca, evidentemente perché queste sfere sono più vicine all’interesse del pubblico” ; “non la ‘caccia’, ma uccellagione e pesca sono gli ambiti venatori pertinenti alla commedia”. [22] Un significativo riscontro, per la « corsa » al cinghiale, si ha in Senofonte (Cyn. 10,20), dove il suino, inseguito dai cani e dal cacciatore, soccombe perché spossato dalla calura e dalla fatica. Ma ben più elevati sono i paradigmi eroici, come quello di Achille, che caccia i cervi « senza bisogno di cani né dell’insidia delle reti : li vinceva alla corsa » (Pind. N. 3,50 sg.). Qui la caccia « alla corsa » esclude esplicitamente non solo l’uso di reti o insidie, ma anche quello, già più nobile, dei cani. Fra le varie tecniche di caccia che le varianti mitografiche attribuiscono ad Eracle per la cattura della cerva cerinitide dalle corna d’oro, una consiste nel fiaccare l’animale con un inseguimento che non gli  































concede tregua (Diod. Sic. 4,13,1) : un inseguimento che, in armonia con il carattere smisurato delle imprese dell’eroe, sarebbe durato addirittura un anno intero (Apoll. 2,5,3). Anche nella caccia alla lepre è prevista la tecnica di stremare l’animale con l’inseguimento da parte di cani e cacciatori, così da poterlo catturare quasi senza colpo ferire : una lepre ‘à bout de souffle’, che rinuncia oramai alla fuga, è raffigurata nell’affresco della Tomba della Caccia e della Pesca di Tarquinia. La caccia ‘alla corsa’ ha precisi riscontri etnologici, ad es. per i Boscimani del Kalahari, che catturano in questo modo le antilopi, inseguendole a turno finché esse cadano sfinite. [23] Per trattatisti medievali come Gaston Phébus o Henn de Ferrières, la caccia “nobile, alla lepre, praticata dagli aristocratici, è quella alla corsa, con i levrieri”. [24] Più in generale, anche al di fuori del caso specifico della ‘caccia alla corsa’, l’attività cinegetica ci viene sempre di nuovo presentata come esclusività aristocratica, in particolare della gioventù nobile, come vediamo nelle Leggi platoniche (824 A), che concedono la più ampia libertà di cacciare ai giovani « atleti », o « sacri cacciatori », i quali praticano la caccia a cavallo ai mammiferi, con l’ausilio dei cani, ma servendosi soprattutto « dei propri corpi ». La stessa caccia alla lepre, malgrado la modesta rilevanza della preda se paragonata alla caccia ai grandi ungulati, è vista come attività « di lusso » ; in Dafni e Cloe, il giovane proprietario latifondista cittadino, Astilo, si reca sui suoi fondi per la caccia alla lepre, « come si conviene a un giovane ricco e abituato al lusso, venuto in campagna per godersi un piacere inconsueto » (Long. 4,11,1). Ma anche l’allegra brigata di giovani ricchi di Metimna si dedica alle attività venatorie per puro diletto (ib. 2,12). Una delle più complete e significative valutazioni della caccia (alla lepre) come attività nobile, aristocratica, ci è fornita dal Cinegetico di Arriano. Oggetto del trattatello è la caccia alla lepre praticata dai Celti, dove l’autore distingue due tipi di caccia : una caccia ‘povera’, a bassa connotazione sociale, praticata da quei Celti che « dalla caccia ricavano il proprio sostentamento » (3,1), e che operano come aujtourgoi; kunhgesivwn. [25] Costoro cacciano la lepre a piedi col sussidio delle reti ; uno solo dei cacciatori è montato a cavallo, quello che insegue la lepre insieme con la muta dei cani, evidentemente per spingerla nelle reti tese e sorvegliate dagli altri. Si tratta dunque di una  







































caccia caccia collettiva, e soprattutto finalizzata al consumo alimentare. Ben diversa la caccia alla lepre condotta, sempre a cavallo (ma qui i cacciatori sono tutti montati), dai Celti benestanti e dediti ad una vita lussuosa : è una caccia senza reti, e fine a se stessa. I veri cacciatori, argomenta Arriano, « non vanno a caccia coi cani per catturare la lepre, ma come ad una prova e gara di corsa ». Ne discende un codice cinegetico che prevede un comportamento ‘cavalleresco’ del cacciatore verso la preda, al punto da richiamare i cani quando la lepre sia stremata e non più in grado di fuggire, o addirittura, qualora la lepre abbia dato di sé buona prova nell’inseguimento, da lasciarla libera dopo averla catturata. Questa prova di ‘valentía’ coinvolge, al di là del ‘nobile’ cacciatore, gli stessi cani, che cercano un riconoscimento della loro prodezza da parte del padrone (17,1 ; 18,1), e perfino la lepre. Sono le lepri di prateria quelle che si dimostrano le più valorose antagoniste dei cani ; esse, anziché nascondersi, « sfidano » la muta e, inseguite, non si rintanano in anfratti o boscaglie, ma gareggiano coi cani alla corsa (16,1-2). Sventurate quelle lepri che, pur « generose », si lasciano prendere perché atterrite dal frastuono della battuta, « senza aver compiuto alcuna impresa memorabile ». Scoprendo significativamente l’ideologia intorno a cui si organizza la sua teoria cinegetica, Arriano ci descrive ancora la « nobile » caccia alla corsa praticata dai giovani libici per la cattura degli onagri : essi li cacciano « con cani e cavalli, e non con trappole, reti o lacci ; insomma, non con strumenti fallaci, con artifici atti ad ingannare la preda, ma affrontandoli in una gara a viso aperto » (24,4-5). Ne deriva che questa caccia libica non ha nulla in comune con le cacce con insidie, che sono paragonabili al brigantaggio e alla ruberia, ma è in tutto simile alla guerra, e ad una guerra combattuta come prova di forza e a viso aperto, non diversamente da come combatterono gli Ateniesi all’Artemisio e a Salamina. Senza arrivare a questi estremi, già il predecessore di Arriano, Senofonte, aveva impostato il proprio trattato di arte cinegetica su assunti tipicamente aristocratici, quali il valore etico e sociale della caccia, forma di paideia e insieme « passione » fine a se stessa, che peraltro richiede in chi la pratica un patrimonio adeguato (2,1). Il proemio del Cinegetico senofonteo è addirittura un catalogo dei precedenti mitici ed eroici, un inventario dei « discepoli di Chirone » che con le  









































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attività venatorie acquistarono a sé virtù e gloria. Accanto a questa istanza aristocratica è tuttavia presente in Senofonte, e ciò costituisce l’attrattiva non ultima del trattatello, una specifica attenzione alle tecniche venatorie e al sapere cinegetico, che tradisce la competenza e l’esperienza dell’autore in materia. Il carattere forse più peculiare del Cinegetico (e che ne fonda la singolare struttura), va ravvisato nel suo essere ad un tempo una techne ed un protreptikòn, un corpo di regole su come praticare l’« arte » venatoria, e un discorso volto ad evidenziarne i pregi ed a raccomandarne la pratica. L’aspetto paideutico del trattato risulta così duplice : didascalico, nel suo proporsi come un insieme coerente di nozioni e di tecniche da porre in atto al momento opportuno, ed edificante, nella celebrazione mitica, tradizionale della caccia, nell’esaltazione delle virtù che ad essa si accompagnano. [26] A voler meglio caratterizzare questa particolare ‘etica venatoria’ (aristocratica), in contrapposizione con concezioni e pratiche ben diverse di appropriazione cinegetica, converrà fissare alcuni tratti distintivi fra le due sfere, quella della caccia ‘aristocratica’ (o ‘eroica’), e quella delle pratiche venatorie di basso profilo sociale che alla prima si contrappongono. Si può dire, in sintesi, che la caccia ‘nobile’ si distingue: (1) per non essere finalizzata al consumo alimentare, alla sussistenza ; (2) per l’escludere, in linea di principio, le tecniche di cattura mediante ‘insidie’, privilegiando la cattura delle prede con ‘armi’ (in esse vanno compresi, ergonomicamente, anche i cani) e prove di bravura atletica ; (3) per selezionare come proprio oggetto alcune specie animali (grandi ungulati o fissipedi, come il cervo e il cinghiale ; ma anche la lepre, che resta la selvaggina più comune), escludendo altre specie (in particolare gli uccelli). L’impresa cinegetica si connota così essenzialmente come una prova di valentìa, all’interno di un quadro ideologico che privilegia l’exploit personale di tipo agonistico, atletico, se non guerresco. Si tratta di un tratto non specificamente greco, e che anzi la civiltà greca condivide con altre culture, le più remote nello spazio e nel tempo. Riporteremo solo alcuni esempi. Nell’aristocrazia macedone, il perfetto possesso dello status sociale richiedeva una ‘prova’ venatoria : nel banchetto non era consentito prendere posto alla pari con gli altri convitati a chi non avesse cacciato un cinghiale senza ricorrere alle reti  















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(e[xw livnwn : Heges. ap. Ath. 1,18 a). Nella civiltà villanoviana le testimonianze figurate (caccia solitaria al cervo e al cinghiale, con armi) rivelano che la rappresentazione corrente della caccia mirava ad evidenziare il protagonista, ignorando il reale carattere collettivo di quelle cacce, che appaiono come attività agonali proprie della classe aristocratica, senza alcun riferimento a bisogni primari. [27] Nell’alto Medioevo francese (ix-xi secolo) la caccia è considerata attività di tipo guerresco, di cui detengono il monopolio i nobili, e che si rivolge solo alla selvaggina grossa, nelle forme della caccia a cavallo con cani o con falcone ; la caccia senza falcone, alla selvaggina minuta, è lasciata ai contadini e ai chierici. [28] Ai chierici il diritto vigente nel regno di Catalogna (secolo xiv) proibiva egualmente la caccia, mentre era loro consentito tendere insidie con reti, lacci e simili. [29] Questa fondamentale valenza ‘aristocratica’ della caccia è alla radice dei grandi miti eroici di caccia collettiva, ma al tempo stesso essa fonda l’affermarsi delle figure mitiche di ‘cacciatori solitari’. Fra i miti collettivi, che si caratterizzano come intervento dei protagonisti eroici in difesa del mondo agricolo minacciato dall’offesa di ‘belve’ nocive ed aggressive, spicca quello del cinghiale calidonio, celebrato da poeti ed artisti. Accanto ad esso si pone la leggenda del cinghiale d’Erimanto, oggetto della settima fatica di Eracle, che riporta vivo l’animale ad Euristeo, e quella del cinghiale di Krommyon ucciso da Teseo. Il mito calidonio è particolarmente significativo in quanto esso colloca l’impresa eroica di caccia al cinghiale in un preciso contesto culturale, quello del trapasso da una cultura di caccia ad una agricola : o meglio, in una situazione culturale in cui l’agricoltura ha relegato ai margini le antiche tradizioni e i rituali di caccia, che hanno perso il loro originario significato nel nuovo contesto economico. Eneo, re degli Etoli, omette di sacrificare ad Artemide, mentre offre ecatombi agli altri dèi (Il. 9,533 sgg.) : significativa la giustificazione che viene fornita di questa omissione : « se ne scordò, o non vi pensò » (h] lavqet j, h] oujk ejnovhsen). Omettendo di tributare il dovuto culto alla dea « cacciatrice » e signora del mondo « selvaggio » e delle fiere, Eneo, l’instauratore di una cultura agricola come la →viticoltura, incorre in una trasgressione che provoca l’ira della dea, e la sua vendetta : questa si concreta nella devastazione e messa a repentaglio delle colture ad  





























opera di un immane cinghiale che devasta le vigne di Eneo, sradicando anche le piante da frutto (ibidem). Stando ad Apollodoro (1,82) il cinghiale « rendeva infeconda la terra e aggrediva il bestiame e gli stessi uomini ». In Bacchilide (5,104 sgg.) il covlo~ della dea scatena il cinghiale che devasta i frutteti, sgozza le greggi e gli uomini che lo affrontano. In Filostrato (Im. 1,28,1) abbiamo un’altra descrizione dei danni arrecati da un cinghiale (non si tratta di quello calidonio) alle colture : la belva sradica gli olivi, tronca le viti, non risparmia gli alberi da frutto, e tutto spianta o calpesta. Particolarmente ricca di informazioni la versione ovidiana (met. 8,290 sgg.) ; il cinghiale ora calpesta le messi che sono ancora in erba, ora devasta quelle già prossime alla maturazione ; abbatte i tralci delle viti carichi di grappoli, i rami degli olivi appesantiti dai frutti. Non a caso, era precisamente a Cerere, Lieo e Minerva che Eneo aveva offerto le primitiae frugum, lasciando invece senza offerte gli altari di Artemide. Sarà Meleagro, il figlio di Eneo, che, radunata una schiera di valenti cacciatori, reclutati in varie città, riuscirà alfine col loro aiuto a uccidere la fiera. Il mito calidonio si afferma in età arcaica come il prototipo di un’impresa eroica collettiva, che si colloca sullo stesso piano della guerra di Troia o della spedizione degli Argonauti ; lo vediamo, a parte le fonti letterarie (in primis Bacchilide cit.), raffigurato in varie scene di pittura vascolare, come sul vaso François e sulla coppa da Vulci della Antikensammlung di Monaco. [30] Le didascalie quivi apposte individuano i protagonisti eroici dell’impresa, non diversamente dai cataloghi che leggiamo in Bacchilide e in Ovidio. Il carattere ‘eroico’ della caccia calidonia è ribadito dalla scelta delle armi (lance, giavellotti, tridenti) impiegate nello scontro col cinghiale. Come osserva Anderson, [31] nelle raffigurazioni pittoriche non compaiono mai le reti, che dovevano essere assenti anche nel perduto poema originario che narrava la vicenda. Nel mito calidonio, paradigmatico di analoghe leggende, abbiamo dunque la convergenza di due motivi : contrapposizione fra sfera del selvaggio (cultura di caccia) e sfera del coltivato (cultura agricola, con la triade cereali-vite-olivo) ; carattere eroico della ‘caccia’, vista come una forma di difesa collettiva del mondo agrario (= civile) contro l’intrusione del selvaggio. I ‘cacciatori’ calidonî, che si servono di tecniche, e di armi da combattimento, non da caccia, sono gli opliti  



















caccia che difendono la città in ciò che essa ha di più peculiare : la sua base produttiva, fondata sulle colture della triade mediterranea. Il ruolo di difensore dello spazio ‘civile’, vincitore di belve – eroe culturale – è assegnato in particolare, dalla leggenda greca, ad Eracle. Imprese di speciale livello ‘eroico’ sono la già ricordata cattura del cinghiale erimanzio, ma soprattutto l’impresa contro il leone nemeo, che marca caratteristicamente e definitivamente la figura di Eracle (la pelle del leone, o leontevh, diventa l’attributo più tipico, il simbolo stesso dell’eroe tebano), o quella contro il leone del Citerone. L’uccisione del leone nemeo è paradigmatica per le modalità tipicamente ‘eroiche’ con cui ha luogo. Eracle strangola la fiera dopo un corpo a corpo in cui egli non fa uso di armi (una variante vuole che Eracle uccida il leone spaccandogli il cranio con un colpo di mazza, cfr. Theoc. 25, 255 sgg.). Come concordemente attestano Diodoro (4,11,4) e Apollodoro (2,5,1), il figlio di Zeus, ostruita una delle due uscite di cui la tana del leone disponeva, così da precludergli la fuga, lo affronta in un corpo a corpo (aujtw`/ ... suneplavkh, Diodoro), [32] in cui, avvinghiato col braccio il collo del leone, lo tiene stretto fino a soffocarlo (katevscen a[gcwn e{w~ e[pnixe, Apollodoro). Una nota raffigurazione della scena si aveva nelle metope del tempio di Olimpia. [33] La connotazione eroica di questa uccisione in una lotta ‘atletica’, corpo a corpo, risalta per antifrasi dalla rhesis denigratoria con cui Lico (Eur. HF 153 sg.) cerca di squalificare l’impresa dell’eroe, rinfacciandogli di avere in realtà catturato il leone con reti o cappi, e non con la forza delle braccia . [34] Strettamente affine è il mito del leone del Citerone, che ci fornisce in Apollodoro (2,4,9-10) altri interessanti particolari. Raggiunta l’efebia, Eracle viene inviato da Anfitrione a custodire le mandrie bovine, ed è come bovaro che egli uccide il leone, in difesa delle mandrie paterne e di quelle di Tespio, re di Tespie, che il leone depredava. Ucciso il leone, Eracle ne indossa la pelle e usa il cranio con le fauci spalancate come casco : dunque, non più che una variante locale del mito nemeo, ma posta in rapporto specifico con la protezione del bestiame. In questo, come in analoghi miti di ‘caccia eroica’ (e come avviene nelle ‘battute’ al leone delle similitudini omeriche), la funzione della caccia ai grandi predatori è quella di assicurare una protezione dell’allevamento : si tratta di reinterpretazioni di veri e propri miti di caccia  









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ai predatori nel quadro dell’economia e della mentalità agropastorale. Uno stringente parallelo ci è offerto da Pindaro (P. 9,18 sgg.) col mito della vergine Cirene, futura sposa di Apollo. La giovane, figlia di Ipseo e della ninfa Creusa, cacciava sul Pelio le fiere selvagge (ajgrivou~ qhvra~) combattendo con tecniche (con armi) ‘eroiche’, giavellotti e spada a protezione delle mandrie paterne, quando addirittura non scendeva in campo senz’armi, come nella lotta col leone, da essa condotta da sola e in corpo a corpo, di cui Apollo si trova ad essere spettatore. Condotta alle estreme conseguenze, la contrapposizione fra economia agropastorale e sfera del selvatico (caccia), con la connessa concezione della caccia ‘protettiva’, produce miti come quello, fin troppo trasparente, di Eracle « colonizzatore » della Libia (Diod. Sic. 4,17,4) : l’eroe rende « mansueta », « domesticata » una terra precedentemente « disabitata » a causa del gran numero di animali selvaggi che la popolavano. Abbiamo dunque una situazione in cui la massiccia presenza di fauna selvatica non lascia spazi all’insediamento umano : è qui del tutto assente l’idea di una compatibilità fra presenza umana e dominio del selvatico, quale si avrebbe in culture di cacciatori. La caccia a sua volta è concepita qui come distruzione radicale della fauna, [35] simultanea ad un trapasso pressoché istantaneo dallo stadio ‘selvaggio’ (senza presenza umana) alla cultura agraria, e specificamente nella forma di associazione colture cereali/viticoltura/ olivicoltura, la ‘triade mediterranea’ di cui si è detto più volte. Un caso opposto ci prospetta la descrizione straboniana (17,3,15) delle popolazioni dei Numidi (o Nomavde~) di Tunisia, che non annientano la fauna selvatica, non instaurano l’agricoltura, ma praticano la pastoriziarazzia : « questa popolazione ha un comportamento peculiare ; essi abitano una terra felice, se non fosse per la sua contiguità con le zone infestate dalle fiere, ma, invece di sterminare queste, e di dedicarsi senza timore all’agricoltura, essi si rivolsero gli uni contro gli altri, abbandonando la terra alle fiere. Ne consegue per essi un genere di vita errabondo e dedito a continui spostamenti, e perciò son detti Nomadi : un genere di vita inevitabilmente miserevole, e infatti si nutrono più di radici che di carne ». Ad un’analoga impresa di ‘purificazione’ della fauna selvaggia condotta da Eracle, si attribuiva la totale assenza di essa sull’isola di Creta (« perciò in epoca successiva non vi erano nell’isola ani 

































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mali selvaggi, come orsi, lupi, serpenti e simili », Diod. Sic. 4,17,3). Un’altra isola dell’Egeo, la fertilissima Chio, era stata a suo tempo ‘purificata’ da un altro ‘grande cacciatore’, Orione. Questi frequentò anche Creta, anteriormente alla ‘purificazione’ erculea, per cacciarvi le fiere « in presenza di Artemide e Leto » ; « e si dice che minacciasse di uccidere tutti gli animali selvaggi che vi sono sulla terra ». Indignata, è la Terra stessa a mandargli contro lo scorpione che lo uccide. [36] Orione progettava dunque, sulla stessa isola di Creta, quella distruzione totale della fauna selvaggia che verrà portata a compimento da Eracle, cui andrà a titolo di merito. I due miti, di Orione e di Eracle a Creta, ci forniscono una testimonianza preziosa dell’evolversi di una mentalità, da una concezione in cui sfera del selvatico e presenza umana sono compatibili, nella convivenza con una fauna tuttora ‘protetta’ (Artemide e Leto cacciano al fianco di Orione, ma al tempo stesso tutelano la fauna da un’eccessiva distruzione), ad una in cui il ‘selvatico’ è visto come elemento estraneo, nocivo, da distruggere radicalmente, e da soppiantare (Eracle in Libia) con una terra interamente antropizzata. 3. Caccia, agricoltura, proprietà. – L’esame di alcuni nuclei e personaggi mitici ha già evidenziato il carattere problematico, alternativo dell’attività venatoria in rapporto alla sfera produttiva (agropastorale) su cui si fonda l’economia e la società cittadina : in sintesi, si può affermare che la caccia, nelle sue diverse forme, si presenta, a livello di codificazione ideologica, o come una scelta contrappositiva verso la sfera della produzione (e in questo caso l’‘eroe’ cacciatore opera al di fuori dello spazio agricolo), o come un’attività subalterna, intesa a proteggere l’area agropastorale dall’aggressione del ‘selvatico’. Ciò comporta, per la caccia stessa, un possibile duplice atteggiamento verso la sfera del selvatico : integrazione nel primo caso (il cacciatore appartiene a quella sfera, e la sua attività non solo non ha carattere distruttivo, ma si integra perfettamente con essa), antagonismo e conflittualità nel secondo caso (la sfera del selvatico è vista come negativa, oggetto di distruzione, e il cacciatore, che se ne è separato, opera esclusivamente al servizio dell’allevamento e dell’agricoltura). Nella geniale intuizione aristofanea (Av. 1061 sgg.), è la natura stessa che provvede, attraverso gli uccelli, alla protezione delle messi e dei frutti dall’insidia  

















dei parassiti [→insetti nocivi] e di altri animali nocivi. In ciò gli uccelli sono alleati all’uomo : « tutta la terra infatti io sorveglio, / e salvo i raccolti in fiore / annientando le varie razze / delle bestie, che in terra / e posate sugli alberi con fameliche mascelle / divorano il frutto che cresce dal bocciolo. / Gli animali che guastano odiosamente i giardini / profumati distruggendoli, io li uccido : / strisciano e rodono, ma tutti raggiunge / la mia ala, e di mala morte periscono ». [37] È questo, da parte del coro, un mettere le mani avanti contro l’uccellagione, cui si allude insistentemente nella commedia. Una terza, e meno forte eventualità, è che l’attività venatoria, intesa questa volta essa stessa come attività produttiva, o per lo meno acquisitiva, funzioni come supporto e integrazione rispetto alle attività di base, agricola e pastorale. Abbiamo dunque a che fare con un rapporto fra le due sfere quanto mai complesso, e per certi aspetti contraddittorio, anche solo a livello ideologico (soprattutto nelle codificazioni a noi trasmesse dalla letteratura e dalle arti figurative). Un dato strutturale, profondo, con radici che si perdono nell’epoca delle origini della società greca (si deve risalire al ii millennio, a monte della civiltà palaziale micenea), è invece il problematico rapporto fra appropriazione venatoria e proprietà individuale (soprattutto fondiaria). Dando del problema una prima, sintetica formulazione, diremo che la pratica venatoria è intrinsecamente aliena ai rapporti di proprietà dei suoli, e in particolare alla proprietà individuale, privata. Per definizione, lo spazio venatorio è esterno, ed estraneo allo spazio ‘cittadino’ (la polis è impensabile al di fuori dei rapporti di proprietà), e si estende invece a occupare le aree, montuose, boscose o simili, che non sono sottoposte a coltura né ai vincoli di una proprietà privata che è in primo luogo proprietà fondiaria (e cioè di fondi sottoposti a colture agricole). È su queste aree – e anche su quelle, comunitarie, tenute a pascolo – che la caccia può liberamente svolgersi ; sui territori sottoposti al regime di proprietà individuale questa libertà, benché consuetudinariamente riconosciuta, non è altrettanto ampia. In effetti, se condotta su aree in attualità di coltivazione, la caccia (almeno in certe forme) può configurarsi come una minaccia verso l’agricoltura, in quanto essa arrechi danno ai coltivi (e anche in quanto appropriazione di animali insistenti sul terreno soggetto a proprietà). La contrapposi 











caccia zione rilevabile a livello mitologico, fra cacciatore solidale all’area selvatica, ed estraneo, o estraniato a quella ‘domesticata’, si ripropone pertanto, in termini più realistici, e meno ideologici, nel contrasto fra il cacciatore che invade gli spazi coltivati e l’agricoltore che questi spazi, sui quali egli esercita il suo diritto di proprietario, vorrebbe difesi da questa ‘invasione’. Nel mondo romano appare assolutamente centrale la definizione e sistemazione giuridica che l’attività venatoria ha ricevuto nell’elaborazione giurisprudenziale. Si affrontano qui le due opposte istanze della libertà di caccia (ius venandi) intesa come « diritto naturale » (ius hominis), e della tutela della proprietà privata (ius domini). Due istanze che corrispondono a due distinti momenti dello sviluppo produttivo e dell’organizzazione socioeconomica della civitas e poi dello stato romano. La giurisprudenza d’età imperiale, ben lungi dal sanare alle radici il conflitto fra ius venandi del cacciatore e ius prohibendi del proprietario terriero, giunse ad una soluzione di compromesso, che si sforzava di far salvo così il principio irrinunciabile della libertà di caccia come quello, non meno inviolabile, del rispetto dei diritti del proprietario. [38] A seconda delle circostanze e delle modalità della pratica venatoria, si può dire che il contrasto cacciatore/agricoltore può nascondere un vero e proprio scontro di classe, soprattutto per quelle forme di caccia (con cani, cavalli, etc.) che sono correntemente percepite come espressione della classe benestante, aristocratica. La complessità del rapporto caccia/agricoltura si ripropone ad es. nella legislazione dei Comuni italiani del Medioevo, dove si mira a tutelare le colture sia dagli animali selvatici nocivi, come gru ed oche (oltre che, naturalmente, orsi, lupi, etc.), e in questo caso la caccia è tollerata, quando non premiata, sia dai danni arrecati, a sua volta, dai cacciatori. L’attività venatoria è vista così in una duplice ottica, nel primo caso come strumento al servizio della protezione dell’agricoltura, nel secondo come oggetto di questa protezione. [39] All’intento di proteggere i seminati risponde del pari il permesso, vigente nella stessa epoca in Catalogna, di cacciare tordi durante tutto l’anno. [40] Di un duplice registro di lettura della pratica venatoria ci è testimone significativo Senofonte. Nel Cinegetico, finalizzato alla celebrazione della caccia (a lepre, cervo e cinghiale : ma soprattutto alla prima) come attività aristocrati 











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ca, se non eroica, è interamente assente il motivo della difesa delle colture dalla fauna selvatica nociva. [41] La caccia è presentata come una pratica agonistica, edificante, che non appare mai rapportata a finalità economiche, né in positivo (appropriazione alimentare), né in negativo (protezione dagli animali nocivi). Nell’Economico, [42] anche se del tutto occasionalmente, si rileva invece un atteggiamento diverso e più legato a istanze realistiche : i cani infatti « tengono lontane le bestie selvatiche (qhriva) dal recar danno ai prodotti del suolo e alle greggi », e garantiscono inoltre la « sicurezza » alle aree disabitate (5,6). In una prospettiva ‘produttiva’, il mondo cinegetico è visto in rapporto all’agricoltura, nel contesto dell’elogio della gewrgiva e delle sue varie connessioni. Oltre che luogo specifico della produzione agricola, la terra (hJ gh`) appare in questo contorno come l’entità che provvede i necessari alimenti sia per i cani che per la selvaggina : [43] col risultato, e questa volta nello stesso spirito del Cinegetico, di stimolare l’uomo a dedicarsi alla nobile attività venatoria. Di una sotterranea incompatibilità fra caccia e agricoltura, e del suo emergere sotto forma di intolleranza verso i cacciatori, ci è testimone ancora il Senofonte del Cinegetico (5,34). Uno dei consigli che egli fornisce a chi va a cacciare in terreni coltivati (vi è infatti una varietà di lepri che preferisce questi ai terreni incolti), è quello di astenersi dal manomettere, danneggiando o asportando, i prodotti di stagione, e di non servirsi abusivamente delle acque correnti, né inquinarle. Il passo, oltre a provare che in Grecia esisteva una generale libertà di caccia, anche su terreni in proprietà privata (e in attualità di coltivazione), dimostra che restrizioni a questa libertà potevano imporsi solo come regola etica. [44] Inoltre, l’astenersi dal recar pregiudizio a coltivi ed acque era inteso a prevenire l’insorgere di quegli atteggiamenti anti-cinegetici cui si accennava (kai; i{na mh; tw`/ novmw/ ejnantivoi w\sin oiJ ijdovnte~ : chi fosse testimonio di quelle malversazioni si « opporrebbe alla consuetudine », s’intenda, di cacciare liberamente sui coltivi). Ad una vera e propria legge regolante le attività venatorie, anziché ad una semplice ‘consuetudine’, pensa Kränzlein : Senofonte “temeva che testimoni di un comportamento senza scrupoli da parte di cacciatori si facessero promotori di una riforma della legge, mettendo così in pericolo la libertà dell’esercizio della caccia”. [45] Siffatti at 



















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teggiamenti anti-cinegetici, oltre ad essere un’efficace spia della contrapposizione, a livello di mentalità, fra sfera dell’agricoltura (produzione) e sfera della caccia (predazione), va ricondotta, come si è accennato, ad una situazione di classe : l’ostilità è quella del piccolo e medio agricoltore verso il grande proprietario che va a cacciare, con accompagnamento di cani, cavalli e inservienti, sul terreno lavorato dal primo, arrecandovi danni e depredandolo della selvaggina che vi dimora. Nello stesso Cinegetico senofonteo (12,6) abbiamo un indicativo richiamo alla pretesa « aristocratica » di libertà di caccia, con la legittimazione di questo principio sulla base della ‘tradizione’. Furono infatti gli « antenati » (provgonoi) a stabilire « che non si dovesse vietare ai cacciatori di cacciare in alcun terreno coltivato», [46] né su alcun tipo di coltura ; e questo benché a quell’epoca vi fosse scarsità di prodotti agricoli. Questa ‘norma’ è fermamente ribadita nelle Leggi platoniche (824 a), che conferiscono, se così si può dire, licenza incondizionata di cacciare ovunque loro aggradi ai giovani « atleti » aristocratici praticanti una caccia di tipo agonistico, con cavalli e cani, ma contando soprattutto sui loro stessi corpi : si tratta dunque della caccia alla corsa, mirante a fiaccare la selvaggina inseguita. A questi giovani cacciatori-atleti, provenienti dalle casate in grado di allevare cavalli e cani, Platone conferisce un alone di sacralità che li rende appunto ‘intoccabili’ e ne legittima qualsiasi arbitrio. Nel romanzo di Longo Sofista (2,12 sgg.) il racconto della spedizione di caccia dei giovani aristocratici metimnesi [47] lungo la paralia del territorio di Mitilene, ci mostra dal vivo (o comunque nella realistica codificazione letteraria del romanzo) quale veemenza potesse raggiungere lo scontro fra i ricchi ed invadenti cacciatori e i poveri agricoltori-pastori sul cui territorio la caccia viene condotta : l’episodio scatena addirittura una piccola guerra locale ‘non dichiarata’ fra Metimnei e Mitilenesi, che si concreterà nelle abituali forme di razzia sul territorio « nemico » (20,3). L’occasione di questa Operettenkrieg è fornita dall’invasione del territorio agropastorale ad opera di quella spensierata brigata di giovani cittadini, che percorre a bordo di una lussuosa imbarcazione, fornita di tutte le attrezzature necessarie, la costa dell’isola, sbarcandovi di tanto in tanto, o gettando l’ancora in qualche insenatura, per dilettarsi in attività di pesca e caccia da diporto  

























(12, 3) : « Costeggiavano dunque e approdavano qua e là, senza far nulla di male, ma divertendosi in vari modi : ora pescando da una sporgenza rocciosa pesci di scoglio a mezzo di lenze legate a canne, ora cacciando con cani e con reti le lepri... Si dedicavano, inoltre, all’uccellagione e per mezzo di laccioli catturavano oche selvatiche, anatre e ottarde, di modo che il passatempo approvvigionava loro anche la mensa » (tr. Monteleone). Come si può notare, si tratta di una caccia tutt’altro che ‘eroica’ (e neppure ‘atletica’), sia nelle forme (caccia con reti, pesca, uccellagione), che nella, pur accessoria, destinazione alimentare. Una caccia, dunque, assai più ‘concreta’, com’è nel codice letterario del romanzo, e più vicina alle pratiche effettive, che non le idealizzate cacce platoniche (o senofontee). Lo scontro che drammatizza l’episodio avviene appunto nel contesto della caccia alla lepre (con reti e cani). Di buon mattino, i giovani di Metimna (13,2) « approdano alle spiagge in cui abitavano Dafni e Cloe : quella pianura parve loro adatta per cacciarvi le lepri ... Poi, lanciati i cani a braccheggiare, si diedero a collocare reti nei punti dei sentieri che sembravano opportuni. I cani, correndo qua e là, e abbaiando, spaventarono le capre che, abbandonate le alture, ... si spinsero verso il mare ». Qui esse, spinte dalla fame, rosicchiano la gomena di vincastro che assicurava alla riva la nave dei Metimnei, e questa va di conseguenza alla deriva, lasciando a terra i passeggeri (di qui la loro reazione, col seguito della guerricciola di cui si è detto). L’intervento della battuta di caccia alla lepre sull’area agropastorale (che è pure l’habitat di quei lagomorfi ), si traduce così in uno ‘scompenso’, in una rottura delle regole, che ha per effetto l’abbandono da parte delle capre del loro habitat, con l’invasione di un’area, quella rivierasca, che non è di loro pertinenza (il capraio viene pertanto ripreso, in 15,3, come « un pastore inetto, che pascola le capre al mare, come se fosse un marinaio »). Nella sua perorazione di difesa, Dafni sosterrà al contrario che all’origine di tutto vi è stato il comportamento scorretto dei cacciatori e dei loro cani (16,2) : « Costoro, invece, sono cacciatori inetti, e hanno cani male addestrati, che, correndo disordinatamente dappertutto e abbaiando furiosamente come se fossero lupi, spinsero le mie capre giù dalla montagna e dalla pianura al mare ». All’origine di questo generale scompaginamento dello spazio organizzato del terri 























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torio, con tutte le conseguenze che ne derivano, c’è dunque il cattivo comportamento dei cacciatori, che non controllano i cani come di dovere ; questi ultimi, anziché operare come cani ‘domesticati’ (da caccia), si comportano come la varietà selvatica e predatoria del genere canis, come lupi, mettendo in fuga quelle capre che nulla avevano a che fare con lo spazio venatorio. Come nell’Euboico di Dione di Prusa i cani da pastore regredivano per stato di necessità a cani da caccia, qui i ‘cattivi’ cani da caccia regrediscono a ‘lupi’ : il confine fra ‘mansueto’ e ‘selvaggio’ rimane, qui come altrove, un confine tutt’altro che continuo e permanente.[49] La partita di caccia (e pesca) dei giovani aristocratici del romanzo di Longo si colloca, quanto mai opportunamente, a metà strada fra due opposti poli : quello della caccia ‘aristocratica’ fine a se stessa, propugnata da Platone, Senofonte e Arriano, e quello di una caccia ‘plebea’, finalizzata alla sussistenza, e condotta con pratiche (come l’uso di reti, l’uccellagione e la stessa pesca) antitetiche al modello ‘aristocratico’ (Platone vieta appunto, Lg. 824 a, uccellagione e caccia con reti e lacci). I giovani metimnei ricorrono bensì, per diletto, alla pesca con la lenza, alla cattura di oche, anatre e ottarde con laccioli, e di lepri con le reti ; essi utilizzano inoltre il prodotto di queste attività per approvvigionare la mensa, ma tutto questo in un contesto di diporto e intrattenimento, non di necessità alimentare ed economica. Naturalmente, come osserva Anderson, [50] “c’era anche chi cacciava non for sport, ma per vivere” : ad es., il vecchio Leucippo di A.P. 7,717, pastore e apicultore, che muore, un po’ di freddo e un po’ di stenti, in una notte d’inverno, mentre predispone insidie per catturare qualche lepre. Da un punto di vista economico (ma anche più generalmente antropologico), la finalità prima della caccia (e naturalmente della pesca) è di natura alimentare : essa fornisce o la totalità (in culture di cacciatori-raccoglitori) delle proteine e grassi animali, o una quota aggiuntiva (in culture di allevatori) che integra quelle ricavate dalla consumazione di carni di animali domestici o di derivati come latte, latticini, etc. In Grecia la caccia, l’uccellagione e soprattutto, in regioni costiere, la pesca, forniscono una più o meno rilevante integrazione ad una dieta povera di proteine animali (come sappiamo, l’80% circa dell’apporto calorico era coperto dai cereali, seguiti da proteine vegetali, etc.).  











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Di questa ‘vocazione alimentare’ delle attività venatorie, al di qua di ogni loro ideologizzazione, abbiamo una chiara, anche se estemporanea, dichiarazione nella Politica aristotelica (1324b 29 sg.) : « ... così come non si va a caccia, per banchetti o sacrifici, di uomini, ma di ciò che è propriamente l’oggetto della caccia. E oggetto della caccia sono gli animali selvatici commestibili ». [51] In apertura della Politica del resto Aristotele ci espone una classificazione di alto profilo delle varie ‘culture’ umane in rapporto ai tipi di alimentazione, e dunque delle forme di appropriazione o produzione. Si è già estesamente trattato di questo brano (1256 a 19 sgg.: vd. par. 1) ; basterà qui richiamare che la tipologia aristotelica contempla, come forme di appropriazione o produzione in rapporto ai bisogni primari, tre grandi classi di operatori, pastori, cacciatori e agricoltori : una suddivisione che viene subito dopo riformulata distinguendo ulteriormente, all’interno della categoria dei ‘cacciatori’, cacciatori veri e propri (di uccelli o animali selvatici), pescatori e razziatori. La classificazione aristotelica è rilevante anche in quanto, una volta individuati questi tipi fondamentali di produzione/predazione, lungi dal dichiararli reciprocamente incompatibili, ne prevede varie possibili combinazioni, ad es. associazione fra attività del nomade e del predone, o fra quella del contadino e del cacciatore. Ora, è precisamente l’associazione caccia-agricoltura (anche se di essa Aristotele tratta verosimilmente in prevalente riferimento ad etnie marginali e barbariche), a condurci ad una forma di ‘caccia’ finalizzata all’acquisizione alimentare, e integrativa, come si diceva più sopra, della fondamentale attività agricola. In altri termini : l’agricoltore (o l’agricoltoreallevatore) greco pratica, all’occasione, forme ‘povere’ (ma non perciò poco remunerative) di caccia, che non richiedono costose attrezzature, mute di cani, etc., ma dove ciascuno è in grado, solo che conosca la pratica, di apprestarsi da sé reti, lacci, trappole, tagliole, panie, dunque ‘insidie’ che vengono tese a piccoli mammiferi, ma soprattutto a volatili. Ed è in particolare l’aucupio che dobbiamo considerare la pratica più diffusa, e più remunerativa, di caccia integrativa dell’agricoltura. Esiste dunque in Grecia, al di là di ogni rigido rapporto ‘alternativo’ fra agricoltura e caccia, sfera produttiva e sfera venatoria (alternativa che vediamo codificata soprattutto a livello mitico e ideologico),  











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un’elasticità di rapporti e reciproca integrabilità fra le due forme produttive. Sotto questo profilo, disponiamo ora, dopo i recenti scavi condotti a Kassope (Epiro), di una rara e preziosa testimonianza materiale che, ben al di là delle formulazioni tramandateci dalla tradizione letteraria, ci offre, per un’area evidentemente ricca di fauna selvatica, dati estremamente importanti, nel senso di un’effettiva integrazione alimentare fra agricoltura e caccia di cui si diceva. In questa città di fondazione ellenistica un’indagine sistematica condotta sui reperti ossei residui dell’alimentazione carnea di quella popolazione ha infatti messo in luce come, di contro ad un abbondante consumo di carni bovine e ovine nei secoli iv-iii (reso evidentemente possibile dall’abbondanza dei pascoli), si assiste, nel corso dei secoli ii-i, ad un notevole aumento del consumo di cacciagione (soprattutto cervidi : il 10% del totale di consumi carnei) ; il fenomeno è probabilmente da imputarsi ad una crisi economica che aveva colpito le forme di produzione tradizionali, determinando un ‘ritorno alla caccia’ come forma non irrilevante di integrazione alimentare. [52] Come non richiamare a questo punto la vicenda, pur proiettata in una dimensione fantastica, se non edenica, del ‘cacciatore’ di Dione di Prusa, che alla caccia si dedica come ad attività surrogatoria, una volta rimasto privo delle mandrie che assicuravano la sussistenza del suo nucleo familiare ? Nell’uno come nell’altro caso, pur nella diversità del tipo di testimonianza, ci troviamo a dover prendere atto di una notevole capacità adattiva, di una ‘elasticità’ acquisitiva che consente senza troppe difficoltà il passaggio dall’una all’altra forma di appropriazione, o la coesistenza delle due. È appunto, quello della combinazione agricoltura (qui dovremmo dire meglio allevamento)/caccia, uno dei casi di ‘complessità culturale’ (il termine è ovviamente moderno, anzi recentissimo) previsti da Aristotele.  





Note. [1] Usiamo qui questo termine anche in ossequio a Vidal de la Blache 1911 ; per una discussione del concetto di ‘genres de vie’ si rinvia a Febvre 1980, 276 sgg. Con termini più attuali, bioi potrebbe tradursi con « culture » o « forme culturali », nel senso antropologico ed etnologico della parola. – [2] La traduzione da noi seguita, qui e più avanti, è quella di R. Laurenti, in Aristotele, Opere, vol. 9, Bari, 1973. – [3] Cfr. su ciò Cambiano-Repici 1990. – [4] La traduzione del Laurenti (« frutti del  











suolo ») è qui inadeguata : l’espressione greca (hJmevrwn karpw`n) comporta infatti il concetto di domesticazione vegetale. – [5] L’opera, come ritiene Weil 1960, 119, doveva comprendere, non solo una trattazione dei « diritti consuetudinari » (novmima), ma altresì dei « generi di vita » (« civilisations ») dei popoli barbarici. – [6] Su ciò cfr. Longo 1987c. – [7] A questi ci appare oggi eccessivamente legato il nostro studio Fra Ciclopi e leoni, « Belfagor », 38, 1983, 211-222 (poi riproposto con alcuni aggiustamenti in Longo 1987a, 63-77). Vi si contrapponevano troppo rigidamente caccia e allevamento, con le relative regole alimentari e culturali, come due realtà incompatibili e compresenti, nel Ciclope euripideo, solo come ‘paradosso culturale’. – [8] Questa problematica aristotelica si ripropone in Vidal de la Blache 1911, 194, che sconsiglia di vedere troppo rigidamente delle “catégories tranchées” come quelle “état pastoral” / “état agricole” e simili : tali opposizioni sono in realtà il prodotto storico di una differenziazione. Tuttavia lo stesso Vidal osserva (198) : “Que les mêmes hommes soient tour à tour, suivant les saisons, chasseurs et agriculteurs, agriculteurs et pasteurs, c’est un fait qui, même dans les civilisations rudimentaires, est rare. Ils coexistent sans se mêler” (l’esempio è quello di Pigmei e Negri). – [9] Per un parallelo etnologico cfr. Febvre 1980, 294, che segnala il caso dei Negri coltivatori dell’Africa equatoriale ; la caccia ha qui carattere stagionale (solo nella stagione secca ben inoltrata), concomitante alla debbiatura che funge quindi nel contempo come battuta di caccia. – [10] Cfr. Febvre 1980, 314, che osserva come i pastori Tuareg, Peuhi o Mauri, che evitano di mangiare la carne dei loro greggi, siano costretti a cacciare per procurarsi di che vivere. Tra i nomadi sudanesi, Tuareg o Mauri, si può dire che tutti cacciano, ad eccezione dei servi guardiani dei greggi. Quanto ai Negri coltivatori dell’Africa equatoriale, Febvre 1980, 294, scrive : “questi cacciatori occasionali possono essere anche pastori seminomadi ; non esistono di quelli che non si diano, camminando lentamente dietro al gregge, al passatempo e al profitto accessorio della caccia...”. Infine, combinazioni diverse di forme di appropriazione e produzione sono segnalate per l’Africa centro-meridionale in Poirier 19721978, i, 837 sgg. (pastori-cacciatori, pastori-guerrieri, pastori-coltivatori, pastori-raccoglitori-cacciatori). – [11] Il bios dei Liguri è caratterizzato da Diodoro come « al modo antico e sprovveduto » (ajrcai`on kai; ajkatavskeuon) ; fra l’altro, le loro dimore, più ancora che tende o capanne, sono cavità e grotte naturali, veramente al modo dei Paleolitici dei Bauxi Rouxi o della Grotta Romanelli ! – [12] Registriamo qui un interessante parallelo etnologico, relativo ad alcune tribù della Nuova Guinea, che,  





































caccia benché dedite normalmente all’agricoltura, ‘regrediscono’ ad attività di raccolta in periodi di carestia. Questa possibilità di adattamento è supportata, a livello ideologico, dalla memoria tradizionale, mitica, che evoca un’epoca in cui l’agricoltura non esisteva ancora, e caccia e raccolta erano le principali risorse degli abitanti (vd. Poirier 1972-1978, ii, 1074). – [13] La paternità anassagorea della « teoria del progresso » fu a suo tempo insistentemente affermata da Diano 1973, 57 sgg., 189 sgg. Ai nostri fini non è tuttavia essenziale decidere chi di questa teoria sia stato il primus inventor. – [14] Cfr. Price e Brown, in Price-Brown 1985, 5 sg. : caratteristico dei collectors è il food storage, che consente la delayed consumption. I passi di Diodoro e Tzetzes in Democr. 68B5, 1.3 D.-K. – [15] Dicaearch. fr. 49 Wehrli. – [16] Cfr. Marquardt, in Price-Brown 1985, 83. – [17] Febvre 1980, 280 sg., sottolinea il persistere nell’antropologia ottocentesca della teoria antica dei ‘tre stadi’ culturali (caccia-pesca, allevamento, agricoltura). Questa teoria implicava un ordine gerarchico di successione : “tre fasi cronologiche, ma tre livelli, anche ; e nessuno era giunto fino al terzo senza aver salito i primi due ; l’ordine era irreversibile, come quello delle tre età tradizionali, della pietra, del bronzo e del ferro”. All’inizio del Novecento si avvia una revisione di questi schematismi, e ad es. lo Steinmetz individuava non più tre, ma ben 7 stadi : 1) raccoglitori, 2) cacciatori, 3) pescatori, 4) agricoltori nomadi o cacciatori agricoltori, 5) agricoltori sedentari, 6) agricoltori a livello superiore, 7) pastori nomadi. – [18] Marquardt, in Price-Brown 1985, 59 sgg. – [19] Per tutto ciò si rinvia complessivamente a Price-Brown 1985. – [20] Price-Brown 1985, 16. Aggiungeremo, per dovere di completezza, che uno degli aspetti rilevanti dell’indirizzo della cultural complexity, su cui non ci siamo soffermati, perché esulava dal nostro discorso, è quello relativo alla complessità ‘sociale’, e precisamente all’emergere, nelle comunità di foragers (preistorici o etnologici) di complessità strutturali quali differenziazione, stratificazione sociale, etc., che la concezione tradizionale riteneva incompatibili col livello culturale del foraging. Su questi aspetti, coinvolgenti non solo i modi dell’appropriazione e della sussistenza, ma la strutturazione, anche gerarchica, di classe, della società, non ci soffermiamo qui ; va da sé che questa emergenza di ‘complessità sociali’ è correlata a fattori quali l’intensificazione della raccolta di cibo in situazioni di affluenza di risorse, la crescita demografica, lo sfruttamento di nuove nicchie ecologiche e di nuove specie vegetali ed animali, l’innovazione tecnologica, etc., tutti fattori che promuovono forme di organizzazione più ‘complesse’, e che in queste trovano più adatta collocazione. – [21] Lanza 1981, 55-77. – [22] Clas 















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sen 1960, 20 sg.; cfr. Longo 1989b, 51. – [23] Poirier 1972-1978, ii, 702. – [24] Ménard, in La chasse 1980, 175. – [25] Aujtourgov~, usato di solito per l’agricoltore che lavora il proprio campo, per il « coltivatore diretto », descrive qui una pratica cinegetica condotta in proprio, senza apparato di gregari. – [26] Sul Cinegetico senofonteo cfr. Tessier 1989. – [27] Camporeale 1984, 20 e 28 sg. – [28] Palaut, in La chasse 1980, 63. – [29] Pelaez Albendea, in La chasse 1980, 69 sgg. – [30] Cfr. Daltrop 1966. – [31] Anderson 1985, 54. – [32] Scene figurate di corpo a corpo con animali in Camporeale 1984, tav. xxxi B (placchetta ossea da Orvieto, ii metà del vi sec.), e 97 s. : due cacciatori in corpo a corpo col cervo. Uno ha afferrato l’animale da tergo per una zampa posteriore e per le corna, l’altro lo abbranca al collo e impugna un giavellotto, che non usa. Paralleli greci in Schauenburg 1969, tav. 8, nonché corpo a corpo di Eracle col leone nemeo (Brommer 1953, 20 sgg.), o col toro cretese. – [33] Cfr. Brommer 1953. – [34] h] to;n Nevmeion qh`r j, o}n ejn brovcoi~ eJlw;n / bracivonov~ fhs j ajgcovnaisin ejxelei`n. – [35] In A.P. 6,121, il cretese Echemma, cacciatore con l’arco, ha spopolato delle capre selvatiche il monte Kynthos ; ora ha dedicato arco e frecce ad Artemide, e la strage è finita. – [36] Hes. fr. 148 (a) M.-W. – [37] Trad. di D. Del Corno. – [38] Abbiamo svolto più ampiamente queste considerazioni in Longo 1987b, 85 sgg. – [39] Cfr. quanto scrive Zug Tucci in La chasse 1980, 100 sgg. – [40] Ladero Quesada, in La chasse 1980, 238 sg. – [41] Vd. ora Tessier 1989. – [42] Vedilo ora in Natali 1988. – [43] Kusi;n  







eujpevteian trofh`~ parevcei, qhriva sumparatrevfei

(P. Chantraine, ad l., non manca di osservare che sumparatrevfei “se dit... en parlant de parasites”). – [44] To; ga;r a{ptesqai touvtwn aijscro;n kai; kakovn. Dunque in forte contrasto con la ‘nobiltà’ della caccia. – [45] Kränzlein 1963, 62 sgg. ; e cfr. Longo 1987b, 66 sgg., per la distinzione fra ‘norme culturali’ e ‘norme giuridiche’. – [46] Tou;~  

kunhgevta~ mh; kwluvein dia; mhdeno;~ tw`n ejpi; th/` gh/` fuomevnwn ajgreuvein. – [47] Caratterizzati come nevoi plouvsioi (12,1), neanivskoi tw`n prwvtwn par j aujtoi`~

(19,3). – [48] Cfr. Longo 1987a, 53 sgg. – [49] Su cani e lupi in Grecia antica cfr. Mainoldi 1984. – [50] Anderson 1985, 48. – [51] Non entriamo qui nel merito della possibile destinazione sacrificale di animali catturati con la caccia, che il passo aristotelico dà per scontata (ejpi; qoivnhn h] qusivan) : ci limiteremo a rilevare come essa restringa la perentorietà di affermazioni ritenute scontate che limitano il consumo alimentare, nel contesto sacrificale della polis, ai soli animali domesticati. – [52] Höpfner-Schwandner 1986, 136 sgg.  

Oddone Longo

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cadavere

Cadavere [nekrov~, sw`ma, ptw`ma, cadaver]. 1. Generalità. – È il corpo di un essere umano – o, secondo un’accezione meno rigorosa, di un animale – dopo che ne è sopravvenuta la →morte. Un termine greco e quello latino (l’uno che rivela la radice di pivptw, l’altro quella di cadere) evocano l’idea esplicita del cadere ; ciò nel senso letterale connesso all’ovvia instabilità della salma (Nam cadaver nominatum a cadendo, quia iam stare non potest), [1] ma anche, plausibilmente, in quello figurato che rimanda al degrado materiale e simbolico nel quale consiste la →putrefazione. Risale, invece, al medioevo l’interpretazione del latino cadaver quale presunto acrostico funerario di impronta cristiana della frase caro data vermibus. [2] La sua rilevanza antropologica è, dunque, caratterizzata quanto meno da ambivalenza, essendo potenzialmente negativa con riferimento allo spirito inquieto ma anche positiva se, invece, rinvia all’antenato protettore. 2. Cenni storici. – Già in epoca remotissima si riscontrano particolari forme di trattamento del cadavere, praticate per motivi di ordine sociale e igienico-sanitario (allo scopo di allontanare o evitare lo scatenarsi trasfigurante e malsano della →putrefazione) nonché magico-cerimoniale (in chiave preparatoria e propiziatoria di continuazioni ultraterrene dell’esistenza e, dunque, anche per proteggere la comunità da eventuali inquietudini del disincarnato →pseudo-scienza e credenze). Fra queste non sarebbero mancate forme di cannibalismo rituale. [3] Particolare importanza in tal senso era stata attribuita alla scoperta, avvenuta nel 1939 in quella che fu denominata Grotta Guattari (sul versante orientale del Promontorio del Circeo), di un teschio ben conservato di Homo neanderthalensis che presentava vistose tracce di mutilazione e appariva posto all’interno di un cerchio di pietre. A. C. Blanc e S. Sergi sostennero dunque che l’allargamento del foro occipitale fosse stato provocato da altri individui al fine di estrarre e mangiare il cervello di quel soggetto, nell’ambito di un’attività dai consapevoli risvolti simbolici e allo scopo di acquisirne le virtù. Ma in seguito, considerate le caratteristiche etologiche dell’animale e i segni di denti e non di utensili che si osservano sul reperto, ha prevalso la convinzione che sia stata una jena a portare il cranio all’interno della cavità e, quindi, a spolparlo. [4] Non manca, tuttavia, chi reputa la tesi rituale ancora so 









stenibile, pur attribuendole un minor grado di probabilità rispetto ad altri casi come quello delle grotte di Krapina, in Jugoslavia[5] ; anche questo a sua volta discusso poiché, pur essendoci stata un’intenzionale manipolazione delle ossa, secondo altri ebbe il solo scopo di effettuarne la pulizia prima di interrarle. [6] Atteggiamenti più evoluti e complessi caratterizzarono il Neolitico [→morte, concezione della, →putrefazione]. Gli Egizi erano consapevoli che ogni corpo vivente sarebbe diventato cadavere, anche quello delle divinità destinate a morire ; per fronteggiarne il degrado era dunque necessario che diventasse mummia. Nelle scritture geroglifiche i due concetti – rispettivamente khat[7] e sakhu[8] – appaiono talvolta accostati e sovrapposti, forse a voler specificare che la seconda è l’effigie del primo. [9] Sono, inoltre, attestate manifestazioni di lutto che si perpetueranno, quali il cospargersi il capo di terra e altri comportamenti parossistici, [10] nonché l’intervento di prefiche alle cerimonie funebri. Ma, al di là di ciò che era permesso entro una cornice rituale, il cadavere era fortemente tabuizzato e protetto da un’aura di spiccata intangibilità ; da qui, fra l’altro, l’assoluto divieto di procedere alla →dissezione. Il mito vuole che Seth, fatto uccidere Osiride, ne abbia tagliato la salma in pezzi poi sparsi lungo il delta del Nilo ; ma, trovati e ricomposti da Iside, in una variante affiancata da Neftis, [11] sarebbero tornati a nuova →vita ultraterrena per il magico intervento di Anubi . [12] Nella cultura ebraica, il contatto con il cadavere era ritenuto causa di impurità [→miasma], ma ciò non ostacolava l’eventuale svolgimento delle veglie funebri e la resa di altri onori alle spoglie mortali, nonché l’instaurazione di forme di culto per i defunti praticate presso le tombe, anche a scopo divinatorio [→mantica, →sogno incubatico]. Ma il trattamento variava in rapporto al personaggio. Così, ad esempio, Aronne[13] e Mosè[14] furono pianti per trenta giorni, mentre Gezabele, dopo una profezia, uccisa in modo cruento, fu calpestata da Ieu, e, quindi, straziata dai cani e ridotta alla stregua di letame. [15] In Grecia antica, secondo costumanze in linea di massima comuni a Roma, l’approccio tipico al cadavere prevedeva che fosse sottoposto a lavacro rituale (loutrovn), quindi vestito con abiti di solito bianchi, cosparso di oli e unguenti profumati e ornato con fiori e monili. Demostene afferma che tali  



















cadavere offici dovevano essere adempiuti solo da donne che avevano superato i sessant’anni o che erano parenti del defunto ; ma colui che, consapevolmente, si approssimava al trapasso, poteva effettuarli da solo. [16] Così, dopo aver dato disposizione circa il suo funerale e la sepoltura, [17] Socrate si lava, appunto per evitare che debbano farlo le donne ; [18] è quindi Critone a compiere i fondamentali gesti di chiusura degli occhi e della bocca. [19] Allo stesso modo Alcesti fa il →bagno con acqua di fiume, indossa una veste e si adorna con armille. [20] In bocca al cadavere era posto un obolo, che sarebbe servito a pagare Caronte, e in mano una focaccia, per placare Cerbero. La salma veniva quindi composta nel vestibolo della casa (mentre a lato del catafalco era messa una ciotola d’acqua con funzione purificatrice), avvolto in un sudario e con i piedi orientati verso l’ingresso ; usanza spiegata da →Plinio il vecchio in quanto tale postura era contraria a quella tipica della nascita (nat. 7, 46). Il pianto funebre, ampiamente attestato già in Omero (e comune a moltissime culture, sebbene si abbia notizia di forme antropologicamente rilevanti di inversione rituale come quella descritta da Erodoto presso i Traci, che piangevano in occasione delle nascite, per le disgrazie cui il bambino sarebbe andato incontro, e in modo simmetrico gioivano per i lutti[21]), era ricondotto a ordine tramite la ritualità funeraria e le lamentazioni che, dapprima comuni a uomini e donne, furono a queste proibite da Solone durante il corteo e circoscritte alla casa ; ciò nell’ambito di disposizioni finalizzate a limitare comportamenti eccessivi (culminanti in percosse rituali e altra gestualità autolesionistica) che, afferma Cicerone, furono poi incluse nella decima delle Dodici Tavole. [22] Queste consuetudini erano, tuttavia, suscettibili di numerose e rilevanti eccezioni, a seconda della personalità del defunto. Così, ad esempio, i corpi dei giustiziati, specie se per tradimento, erano non di rado esclusi dalla sepoltura nel territorio cittadino e gettati in voragini, come avveniva ad Atene, o in fiumi, come a Roma, o talvolta inumati, ma senza bagno rituale né cerimonie funebri, in una fossa comune (poluavndrion) ; il Cristianesimo attenuò, ma con estrema lentezza, tali pregiudizi. [23] Trattamenti simili erano riservati ai suicidi. Tuttavia, a Roma, per gli impiccati era possibile procedere ugualmente al sacrificio annuale (Parentalia), ma a condizione di ap 





















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pendere bambole a un albero, ritenendosi che i simulacri del corpo avrebbero placato le divinità. [24] Ma in particolari contesti, cioè tra filosofi ed eruditi, il suicidio era invece percepito come gesto nobile e illustre, sull’esempio di Catone . [25] Un ulteriore aspetto rilevante concerneva le spoglie degli eroi, che erano oggetto di contese e di processioni trionfali ; così, per esempio, i Lacedemoni, dietro suggerimento oracolare [→mantica], si convinsero che sarebbero stati sconfitti finché non fosse stato recuperato il corpo di Oreste. [26] Molto significativo il diverso trattamento delle spoglie di colui che aveva trovato la →morte in guerra, a seconda che fosse o no un nemico. Paradigmatica, ancorché estrema, la vicenda di Achille, che a Patroclo tributa onori e per lui organizza giochi funebri, mentre infierisce a lungo sulla salma di Ettore prima di restituirla a Priamo ; di un certo interesse, fra l’altro, l’episodio del trascinamento nella polvere attorno al sepolcro di Patroclo, [27] variante della peridromhv (decursio funebris) attestata anche da Apollonio Rodio. [28] Procedimenti particolari riguardavano il cadavere del gladiatore ucciso nell’arena : dopo che un addetto ne aveva verificato il decesso, toccandolo con un ferro rovente, era trascinato da uomini con la maschera di Caronte o Mercurio attraverso la porta libitina nello spoliarium, in cui gli venivano tolti indumenti e armatura e gli era eventualmente inflitto il colpo di grazia. [29] Le spoglie di Romolo, per tradizione, scomparvero dopo un temporale ; sarebbero state miracolosamente assunte in cielo o smembrate dai senatori. [30] La →morte di personaggi d’alto rango suscitava inoltre disordini sociali, come è noto ad esempio per Cesare [31] e, soprattutto, per Germanico [→Germanico Giulio Cesare] ; [32] sul corpo dell’uno il medico Antistio contò ventitré ferite e riconobbe la seconda come mortale, [33] l’altro fu esposto in piazza ad Antiochia per mostrare le tracce del veneficio. [34] L’avvento del Cristianesimo segnò una svolta anche nella percezione del cadavere. Se, in primo luogo, lo stesso Gesù manifestò la sua sofferenza tramite il pianto, [35] i Vangeli [36] contengono tuttavia un episodio in cui egli sembrerebbe invitare a non prendersi cura dei resti del defunto, alla luce della maggiore importanza del destino ultraterreno ; assai discusso tra gli esegeti, è probabilmente da interpretare con riferimento a un equilibrio fra la  































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necessità pratica e spirituale degli onori ai morti e il temuto pericolo di regresso a consuetudini pagane. [37] Gli eccessi saranno infatti biasimati, per esempio da San Giovanni Crisostomo. [38] Comunque, sull’onda della prospettiva escatologica cristiana, il martire prese gradualmente il posto dell’eroe, in forza della spavalda gioia con la quale affrontava il supplizio, non temendo la morte fisica nella prospettiva della vita eterna [→morte]. Così Ignazio di Antiochia definì il proprio corpo frumento di Dio, che doveva essere macinato dalle fiere per diventare pane di Cristo [39] e le sue reliquie divennero oggetto di venerazione, come quelle di Policarpo di Smirne. Tali forme di culto, dapprima contrastate dalle autorità, si diffusero ampiamente, fino a essere rese obbligatorie nelle chiese dal secondo concilio di Nicea.  



Note. [1] Isid. orig. 11, 2, 35. – [2] Reynolds 1996, 84. – [3] White 2006. – [4] Arsuaga 2001, 273-279. – [5] Barbaza 2004, 69-70. – [6] Spedini 2005, 178. – [7] de Rachewiltz 1983, 106. – [8] de Rachewiltz 1983, 168. – [9] Dunand-Zivie Coche 2003, 189. – [10] Hdt. 2, 85. – [11] de Rachewiltz 1983, 136. – [12] Cinti 1961, 50. – [13] Nu. 20, 29. – [14] De. 34, 8. –[15] 2 Ki. 9, 33-37. – [16] Di Nola 1995a, 233. – [17] Pl. Phd. 115c-116a. – [18] Pl. Phd. 115a. – [19] Pl. Phd. 118a. – [20] E. Alc. 158-162. – [21] Hdt. 5, 4. – [22] Di Nola 1995a, 123-124. – [23] Di Nola 1995b, 124. – [24] Di Nola 1995b, 134. – [25] Di Nola 1995b, 138. – [26] Hdt. 1, 67. – [27] Hom. Il. 24, 9-21. – [28] A. R. 4, 1532-1535. – [29] Augenti 2001, 20. – [30] Mora 1995, 219-222. – [31] Svet. Iul. 84. – [32] Tac. ann. 2, 82. – [33] Svet. Iul. 82. – [34] Zecchini 1999, 319. – [35] Ev. Jo. 11, 33. – [36] Ev. Matt. 8, 21-22 e Ev. Luc. 9, 59-60. – [37] Di Nola 1995a, 70. – [38] Di Nola 1995a, 125. – [39] Ignat. ad Rom. 4, 1. Bibliografia. Arsuaga 2001 ; Augenti 2001 ; Barbaza 2004 ; Bentley 1988 ; Cinti 1901 ; Di Nola 1995a ; Di Nola 1995b ; Dunand-Zivie Coche 2003 ; Guilaine 2004 ; Mora 1995 ; de Rachewiltz 1983 ; Reynolds 1996 ; Spedini 2005 ; White 2006 ; Zecchini 1999.  



























Francesco Cuzari Caldei [Caldai`oi, Chaldaei]. 1. Generalità. – Per ‘Caldei’ (accadico Kaldû, ebraico Kašdîm) si intendono generalmente i popoli della Mesopotamia o ‘Caldea’, come è stata definita dagli scrittori classici, che per primi ce ne hanno dato notizia in riferimento alla nascita dell’astrologia. Le uniche informazioni che si posseggono sull’astrologia mesopotamica sono infatti

Fig. 1. Frammento di effemeridi risalente al periodo neoassiro proveniente da Ninive. Contiene valori calcolati, nel corso di un particolare intervallo di tempo, di diverse grandezze astronomiche variabili (Pettinato 1998, tav. 15).

dovute agli scrittori classici greci e latini che hanno identificato nei Caldei gli astrologi tout court : infatti per il grande impulso dato dai Caldei all’astronomia e all’astrologia, il loro nome divenne nell’antichità sinonimo di astronomo ed astrologo. Più precisamente con ‘Caldei’ si indica il nome di un popolo di lingua aramaica spesso scambiato per i Babilonesi, mentre ne furono acerrimi nemici. L’ascesa al trono di Babilonia di Nabopolassar (626 a.C.) segnò l’inizio di una dinastia neo-babilonese (o caldea). Assediarono e distrussero la città di Ninive, la grande capitale degli Assiri (612 a.C.) e ancora insieme, a Karkemiš, respinsero anche gli Egiziani (605 a.C.) ed estesero la loro influenza in Siria e nella Palestina. Si estinsero con l’arrivo di Ciro il Grande re dei Persiani che espugnò Babilonia nel 538 a.C. Coloro che praticavano la divinazione erano uomini influenti e tenuti in alta considerazione nella stessa società in cui vivevano, al punto che venivano consultati in ogni occasione importante. L’esercito era sempre accompagnato da un indovino che nel primo periodo babilonese sembra abbia avuto anche le funzioni di comandante. [1] Il primo compendio babilonese di astronomia, una serie di 3 tavolette denominata “mul-apin” (‘stella dell’aratro’), elenca 18 costellazioni situate su tre ‘sentieri’ paralleli (la ‘strada di Enlil, la strada di Anu e la strada di Ea’, ovvero il cielo settentrionale, la fascia equatoriale e il cielo meridionale) e descrive i moti della Luna e dei pianeti. Queste tavolette risalivano ad un periodo imprecisato anteriore al 1000 a.C. ed  



caldei erano conservate nella biblioteca di Assurbanipal. Una grande serie lessicale chiamata ur5-ra = hubullu, che risale all’incirca al 1800 a.C., registra solo 20 nomi di stelle, rispetto alle 4.000 del periodo neo-babilonese, e sembra quindi attestare che i Sumeri avessero dedicato poca attenzione all’astronomia. Ma l’astrologia era probabilmente già praticata attorno al 2200 a.C., all’epoca di Gudea di Lagaš. [2] I più antichi riferimenti alle costellazioni zodiacali si possono rintracciare già nel poema di Gilgameš che, nella forma conservata, è composto da 12 canti : lo Zodiaco in esso menzionato allude alle costellazioni del Toro, dei Gemelli, del Leone, alle ‘Chele’ (ossia l’odierna Bilancia), allo Scorpione, ai Pesci, alla stella più luminosa della Vergine (Spiga), al ‘Pesce-Cinghiale’ (il Capricorno dei Greci), e infine ad un segno chiamato ‘Il Mercenario’ (forse l’Ariete). Il vero progresso dell’astrologia babilonese si ebbe nel corso del primo millennio. Evidenza di questo aspetto dell’attività scribale è reperibile soprattutto in un gran numero di testi conservati nella biblioteca che Assurbanipal (668-627 a.C.) aveva creato a Ninive. Tutti i documenti astrologici reperiti nella biblioteca di Assurbanipal risalgono ad un’unica opera di almeno 70 tavole, chiamata convenzionalmente Enûma Anu Enlil ‘Quando Anu ed Enlil’, dalle prime parole che vi si leggono. Riguardo ai luoghi in cui nasce e si sviluppa la scienza astrologica Strabone dà notizia di tre grandi ‘studiosi delle stelle’ che provenivano da tre località della Mesopotamia centro-meridionale, Sippar, Borsippa e l’antica Uruk, le quali intorno al i millennio a.C. svolsero un ruolo fondamentale nell’ambito degli studi matematici, astronomici e quindi anche astrologici ; proprio da Uruk proviene il più recente testo astrologico in cuneiforme risalente al 75 d.C. 2. La concezione astrologica. – È importante sottolineare il profondo legame che l’astrologia e la stessa astronomia hanno con gli esseri divini e soprannaturali nei quali i popoli della Mesopotamia credevano fermamente fino a giungere ad una vera e propria →astrolatria. Come leggiamo nel poema Enûma Elîš, gli astri e i pianeti non sono solo creazione del grande dio Marduk, ma immagine stessa degli dèi : la terra e il cielo sono immobili, mentre gli astri si muovono secondo tracciati prestabiliti, la maggior parte dei quali è sorvegliata da Marduk  







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(situato al polo) o da Ea (che troneggia a sud, sul mare). Gli astri rimanenti sono sorvegliati da Anu. Marduk crea Šamaš (il Sole), Sin (la Luna) e i pianeti : Giove (sotto la tutela dello stesso Marduk), Venere (affidata a Ištar), Saturno (affidato a Ninib), Marte (l’astro di Nergal) e Mercurio (l’astro di Nabu). [3] In precedenza la civiltà sumerica ha sviluppato una concezione secondo la quale la divinità interviene costantemente nel loro mondo e ne regola i ritmi e l’uomo stesso è stato creato per continuare l’opera di organizzazione del mondo intrapresa dagli dèi. La loro visione si concentra prevalentemente su due divinità : Enki e Enlil ; il primo, capo supremo del pantheon sumerico, è il dio poliade di Nippur, l’altro, considerato depositario indiscusso della saggezza, è il dio poliade di Eridu. Entrambe queste divinità hanno come padre il dio An, o dio Cielo, indicato nella scrittura cuneiforme con l’immagine stilizzata di una stella. Non è dunque un caso che anche la visione astronomica dei Babilonesi sia basata su queste tre divinità, anzi essi, una volta giunti in Mesopotamia, trascrivono tutto lo scibile del mondo sumerico in modo che non vada perduto e ne acquisiscono le conoscenze. Il Sole, uno dei due ‘luminari’, era l’astro diurno dispensatore di luce e vita, ma era anche un corpo igneo che bruciava e inaridiva. Del Sole si osservavano il moto apparente lungo l’eclittica, le variazioni del punto in cui lo si vedeva sorgere nel corso dell’anno e la sua luce che variava all’alba e al tramondo. L’altro ‘luminare’ era la Luna, simbolo della notte per antonomasia, protagonista di continue metamorfosi e principale regolatore del calendario babilonese. I Babilonesi traevano presagi dai suoi molteplici aspetti : dalla forma dei corni della falce lunare, dalla luminosità dell’astro, dalle asimmetrie della sua mutevole forma, dalla sua altezza in cielo, dal colore della sua luce, dalla presenza di aloni, dalle eclissi (eventi infausti tra i quali erano annoverati anche semplici oscuramenti da parte di nubi). Giacché le tavolette in cuneiforme registravano, assieme alle eclissi, anche gli annuvolamenti notturni del cielo, esse generarono confusione in chi le consultò, non a caso sia i Greci che i Romani si mostrarono scettici riguardo agli elenchi caldei delle eclissi. Giove, il pianeta del dio Marduk, il creatore del mondo, occupò nell’astrologia babilonese un posto a sé : esso era menzionato tra le stelle fisse a nord  











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dell’equatore, mentre gli altri pianeti erano menzionati tra le stelle equatoriali. Di Giove si osservavano la levata nei vari mesi, e in particolare nel primo giorno del mese e l’ultimo dell’anno ; la posizione rispetto all’equatore e all’eclittica ; la scomparsa in cielo occidentale e la ricomparsa in quello orientale ; l’invisibilità di circa un mese in occasione della congiunzione con il Sole ; la luminosità ed il colore (bianco o giallo) ; la sua posizione rispetto ad altri corpi celesti. Giove, infatti, poteva essere circondato da una corte di stelle o in rapporto con altri pianeti che potevano alterarne l’influsso, inoltre era chiamato diversamente a seconda che il suo moto fosse diretto o retrogrado o stazionario. Fra i pianeti, spiccano per ricchezza e varietà le osservazioni di Venere. Questo pianeta, associato alla dea Ištar, era l’astro dell’amore, della procreazione e delle guarigioni. Dal momento che questo astro al mattino veniva considerato di sesso maschile e alla sera di sesso femminile, aveva finito per essere immaginato bisessuale. Di Venere, che assumeva ogni mese un nome diverso, avevano un particolare significato astrologico la levata al primo e al quindicesimo giorno del mese, il variare della declinazione, la sua ascesa fin quasi allo zenit, la congiunzione inferiore con il Sole e la sua invisibilità per circa uno-due mesi, il ‘rinnovo’ (ossia la sua riapparizione nel cielo), la luminosità e il colore, la sua visibilità di giorno (che era spesso registrata), la presenza di nubi, di vento o di aloni lunari, la sua posizione in rapporto agli altri pianeti ; infatti, poiché Venere è il pianeta più luminoso, si diceva che ‘dominava’ gli altri pianeti. Inoltre Venere poteva svolgere a fini astrologici le funzioni di stelle bianche come Spica nella Vergine o anche di intere costellazioni come la Corona Boreale o la Lira. A tal proposito vale la pena ricordare che un elemento ricorrente nell’astrologia babilonese (e prassi in quella greca) era il cosiddetto ‘principio di rappresentanza’, cioè in determinate circostanze un corpo celeste poteva sostituirne un altro. Questa regola era valida sia per i pianeti che per le stelle fisse. Ad esempio, dopo il tramonto del Sole le sue funzioni erano svolte da Saturno : così, per esempio, le opposizioni tra la Luna e Saturno potevano essere considerate equivalenti a quelle tra la Luna e il Sole. Quanto a Saturno, esso regolava la vita pubblica e familiare, ma era anche l’astro delle guerre e della caccia.  













Aveva particolare importanza la sua opposizione alla Luna. Saturno poteva svolgere la funzione del Sole nel corso della notte, ma era sostituibile anche con parecchie stelle e costellazioni, come la Bilancia, Cassiopea e Orione. Da diversi testi di carattere astrologico si apprende che Mercurio era un astro ambiguo (tale attributo si mantenne anche nell’astrologia greca), in virtù delle sue scomparse e ricomparse improvvise. Fu associato a Nabu, il dio degli scrivani e della sapienza. Di Mercurio erano registrate la scomparsa e la riapparizione mese per mese e le congiunzioni con Venere e Saturno ; poteva inoltre rappresentare o essere rappresentato da costellazioni quali i Pesci, Pegaso, il Centauro, il Cane Maggiore. Nell’Enûma Anu Enlil mancano riferimenti a Mercurio. Marte, infine, era il pianeta del dio Nergal, il dio degli inferi e delle pestilenze. Era il pianeta nefasto per eccellenza e perciò era osservato costantemente : si riteneva che danneggiasse i raccolti di grano e di datteri, che impedisse la crescita del bestiame e dei pesci, che arrecasse guerra al paese e morte al re. Di Marte si osservavano le levate e i tramonti, le scomparse e le ricomparse dopo 7, 14 o 21 giorni, l’altezza sull’orizzonte, la luminosità, i rapporti geometrici con Venere, Giove e Mercurio. Marte poteva rappresentare o essere rappresentato dalle costellazioni del Toro, del Triangolo, da Perseo, dalle Pleiadi. Marte aveva inoltre 7 epiteti, tra i quali sono significativi ‘malvagio’, ‘ostile’, ‘volpe’, ‘elamita’. Generalmente i colori dei pianeti erano distinguibili in 4 sfumature, dal rosso al bianco, ed erano comparati a quelli delle più luminose stelle fisse, che, a parità di condizioni, erano considerate, dal punto di vista astrologico, equivalenti ai primi, e quindi ritenute loro ‘rappresentanti’. Alla luce di queste considerazioni, si comprende finalmente la funzione degli elenchi di corpi celesti babilonesi prima indecifrabili : si tratta di liste di stelle il cui colore è equivalente a quello di un unico pianeta. Nei testi babilonesi sono nominate circa 230 tra costellazioni e stelle fisse. La loro posizione reciproca, a differenza di quella dei pianeti, è irreversibile, per cui si prestavano molto meno dei pianeti a indagini astrologiche. Una particolare attenzione era dedicata all’ingresso di stelle nell’alone lunare. Delle stelle, per le quali era particolarmente valido il principio di rappresentanza, si osservavano il colore e la luminosi 





calendario dei lavori tà apparentemente variabile. Dalla Mesopotamia ci giungono anche le prime testimonianze della geografia astrologica (un riflesso si ha anche nella Bibbia[4]), in base alla quale venivano associati i punti cardinali e i varî corpi celesti a paesi, città o ad altre entità geografiche come i fiumi (per esempio le stelle anteriori del Cancro al Tigri, le stelle posteriori all’Eufrate). Il sud era assimilato ad Akkad, il nord-est al Subartu ed al paese dei Gutei, l’est all’Elam, l’ovest al paese di Amurru (comprese Siria e Palestina). Il vento, le nuvole, i temporali e i tuoni, a seconda della zona del cielo di provenienza, stavano a significare determinate conseguenze per i paesi associati ai diversi punti cardinali. Le eclissi avevano un significato rovesciato : per esempio, se cominciavano da sud portavano conseguenze all’Elam, da est le portavano nei paesi di Subartu e dei Gutei, da ovest (ed è l’unica corrispondenza) le portavano al paese di Amurru. 3. L’astrologia caldea nella tradizione grecoromana. – Da Babilonia, presso la scuola del filosofo greco Platone, giunge Berosso, lo scrittore caldeo che in tutta la tradizione letteraria greco-ellenistica è considerato il tramite tra l’astrologia babilonese e il mondo greco ; nel suo libro Babulwniakav egli ha discusso due temi fondamentali dell’astronomia : la rivoluzione del Sole e il movimento della Luna. Lo scrittore giudaico Flavio Giuseppe, nel suo libro Contra Apionem, considera Berosso autore della trasmissione dell’astrologia babilonese al mondo greco, [5] una notizia confermata da Vitruvio che fa il nome anche di due suoi discepoli : Antipatro e Achinapolus. [6] Ancora Plinio il Vecchio ricorda la statua eretta all’astrologo caldeo nel Ginnasio di Atene quale segno di gratitudine per i suoi insegnamenti. [7] Da Strabone apprendiamo i nomi di altri grandi studiosi di astrologia caldei quali per esempio Cidenas, Naburianos e Sudines. [8] L’autore che ci fornisce più informazioni sullo stato delle conoscenze caldee circa l’astrologia è Diodoro Siculo che nei suoi scritti conferma l’antichità di tali conoscenze in Babilonia. [9] Anche il mondo romano è ben cosciente del primato di Babilonia negli studi astrologici[10] anche se l’atteggiamento dei diversi scrittori non è sempre univoco : alcuni si sono limitati a dare informazioni il più possibile oggettive sulle origini degli studi astrologici, altri invece si sono dimostrati accaniti detrattori dell’astrologia  

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caldea. Nella sua introduzione al Poema degli Astri Manilio sottolinea che la patria dell’astrologia è ad Oriente, nella terra dei due fiumi e in Egitto. [11] Plinio il Vecchio attribuisce a Giove Belo l’invenzione di questa scienza e vede in Babilonia il luogo d’origine, [12] inoltre l’autore ci informa dell’antichità degli scritti astrologici incisi su tavolette alludendo, dunque, alla scrittura cuneiforme e riconoscendo a tali scritti una grande autorevolezza. [13] Per Diodoro (2,31,8-9) i Caldei sostenevano di dedicarsi allo studio delle stelle da oltre 473.000 anni, per Cicerone da 470.000 ; Plinio (nat. 7, 160) riferisce l’opinione di Epigene di Bisanzio (720.000 anni), di Beroso e Critodemo (490.000 anni). Sono dati inverosimili che infatti gli autori appena citati accolgono con scetticismo. Tra gli autori che esprimono giudizi critici e a volte anche denigratorî nei confronti delle concezioni astronomiche caldee vanno ricordati Lucrezio, [14] Columella, [15] Catone[16] e Orazio, [17] ma è Cicerone che esprime la critica più veemente contro l’astrologia caldea, in un primo tempo contestando la sua presunta antichità, [18] e in seguito tentando di confutare e ridicolizzare gli oroscopi caldei. [19]  



































Note. [1] Dalley et alii 1976, 33. – [2] Landsberger 1953, 73; Falkenstein 1966, 65 e sgg. – [3] Cfr. questo elenco con la lista completa dei pianeti caldei riportata in Arist. Metaph. 1073b. – [4] lxx De. 4, 19. – [5] J. Ap. 1, 129. – [6] Vitr. 9, 6, 2. – [7] Plin. nat. 7, 123, 3-4. – [8] Str. 16, 1, 6. – [9] Diod. Sic. 2, 29, 1. – [10] Cic. div. 1, 2, 10-13; 1, 91, 9-10. – [11] Manil. 1, 25-65. – [12] Plin. nat. 6, 121. – [13] Plin. nat. 7, 193, 1-9. – [14] Lucr. 5, 727-730. – [15] Colum. 11, 1, 31 sgg. – [16] Cat. agr. 5, 4. – [17] Hor. carm. 1, 11. – [18] Cic. div. 1, 36-37. – [19] Cic. div. 2, 87-99. Bibliografia. Bouché-Leclercq 1899 ; Dalley et alii 1976 ; Falkenstein 1966 ; Landsberger 1953 ; Pettinato 1998.  







Carmelo Lupini Calendario dei lavori. 1. Una tradizione antichissima.– Che l’alternarsi delle stagioni sia alla base del ciclo della riproduzione vegetale e quindi dell’agricoltura è un dato che può risultare addirittura ovvio. A queste fasi tuttavia, legate alla rivoluzione terrestre intorno al sole, si affiancarono già in tempi ancestrali, come si evince da alcuni graffiti rupestri del neolitico, le osservazioni dell’uomo legate al ciclo di altri pianeti visibili ad occhio nudo, e, soprattutto,

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calendario dei lavori

della luna. Questo retroterra culturale fa da sfondo alla consuetudine di inserire un ‘calendario dei lavori’ nella tradizione delle opere agronomiche antiche, fin da →Esiodo (op. 381-617) : cfr. Varr. r.r. 1, 28-36 ; Verg. georg. 1,204350 ; Colum. 11,2 ; Plin. nat. 18, 207-320 ; Geop. 3). L’intera opera di →Palladio, d’altre parte, è strutturata come un calendario dei lavori. L’importanza ‘scientifica’ del menologio agrario è ribadita anche da →Teofrasto (CP 1,13,310), ed è evidente se si pensa alla terminologia agricola presente nel lessico calendariale greco e latino (Casevitz 1991). La codificazione dei →lavori stagionali – e, più tardi, mensili – dovette avvenire già in tempi remotissimi, se le prime tracce di elenchi calendariali legati ai lavori dei campi sono rinvenibili nella tradizione degli Insegnamenti di ambiente babilonese. Redigere una lista più o meno completa di quelle che, in fondo, erano le attività comuni degli agricoltori, nei periodi fissati dalla tradizione orale, divenne poi una prassi anche letteraria, giustificata da alcuni autori con l’opportunità di fornire un breviarium (Plin. nat. 18,230 ; Geop. 2,45) delle « norme che sarebbe opportuno scrivere e tenere esposte nella fattoria, perché ne prenda cognizione soprattutto il massaro » (Varr. r.r. 1,36). A questa esigenza ‘didattica’ rispondono anche le numerose testimonianze iconografiche (musive, pittoriche, vascolari) di cicli calendariali antiche, tardo-antiche e, successivamente, medioevali (Blázquez 1996). È notevole che la maggior parte delle formulazioni e degli avvertimenti calendariali presenti negli autori agronomici antichi si perpetuarono, pressoché identici, nella tradizione dei calendari illustrati e didascalici che in età moderna, dal xvi al xix secolo, ebbero larga diffusione in Europa, [1] nonché nelle tradizioni della cultura contadina ; si ritrovano, infine, ancora oggi nei manuali tecnici sull’argomento e nelle guide pratiche di →agricoltura o giardinaggio, nonché, in forma di ‘avvertimenti calendariali’, nel patrimonio proverbiale italiano. I calendari dei lavori agricoli sono impostati, generalmente, per mese, o per stagioni, o per periodi [→Varrone (r.r. 1, 28-36: otto periodi)], ma seguono anche, al loro interno, oltre al ciclo lunare, la levata e il tramonto di alcune importanti stelle quali Sirio o Arturo, nonché la visibilità di alcune costellazioni. I lavori sono organizzati, come ha mostrato Amouretti 1991, sulla base delle condizioni atmosferico 



















climatiche, sul fabbisogno di →manodopera agricola, sul legame tra produzione di derrate e loro →conservazione o impiego. 2. Le stagioni. – Le stagioni costituiscono la basilare divisione del tempo agricolo. Tuttavia nell’antichità non erano poche le divergenze sulle date di inizio e di fine di questa o quella stagione, legate all’oscillazione dei solstizi e degli equinozi, misurati in zone diverse del bacino mediterraneo : cfr. Hes. op. 564 sg. ; Varr. r.r. 1,28 ; Verg. georg. 1,204-350 ; Plin. nat. 2,39-41, 122-123 ; 18,56-75 ; Colum. 11,2 (quest’ultima è la più dettagliata descrizione del calendario stagionale dell’antichità, in relazione ai →lavori agricoli). L’avvicendarsi delle stagioni, in sostanza, era scandito in modo più evidente dalla levata e calata di alcune stelle : le Pleiadi per l’estate e l’inverno, la Lira per l’autunno, ad esempio. Secondo i calcoli di Varr. r.r. 1, 2836, l’inizio di ogni stagione coincide con il ventitreesimo giorno da quando il sole è entrato nella costellazione in cui cade l’equinozio o il solstizio proprio di quella stagione. La tradizione greco-egizia iniziava in realtà il computo delle stagioni dal solstizio estivo, che in Egitto coincideva con le piene del Nilo : così anche →Arato e →Gemino. Da Ipparco, famoso astronomo alessandrino autore di importanti trattati impostati con metodo rigoroso e scientifico, iniziò la prassi di far iniziare l’anno solare dalla primavera, quindi dall’arrivo dello Zefiro. Ipparco subì forse l’influenza di una tradizione caldea, di taglio astrologico, che faceva coincidere i quattro periodi dell’anno con le quattro età della vita, caratterizzate ognuna da uno dei quattro elementi della natura (caldo, freddo, secco e umido), a cominciare dall’umido (nascita dal ventre materno) : l’anno astrologico cominciava dunque con l’ariete, così come l’anno solare dall’equinozio di primavera, che avviene quando il sole è in ariete; cfr. Ptol. Tetr. 1,10 ; 2,11 (sulle diverse tradizioni relative al primo novilunio dell’anno). Colum. 11,2, nel rispetto del nuovo calendario giuliano, computa l’anno da gennaio a dicembre, ponendo in secondo piano l’alternarsi delle stagioni. E cfr. infine Plin. nat. 18,207-227, che ripercorre la storia delle teorie calendariali, le coordinate astrali e stagionali in base a cui i vari popoli hanno effettuato il computo di mesi e anni, le più importanti levate e calate delle stelle. 3. Il ciclo lunare. – La luna ha un ruolo rilevantissimo nelle civiltà antiche, che sul ciclo  



















cantiere edile lunare basarono, per la maggior parte, i loro calendari. [2] Alla luna, considerata elemento femminile (assai presto, come sembra, venne istituito il legame tra le fasi lunari e il ciclo mestruale), fertilizzante, ma al tempo stesso potentemente influente e a volte misterioso, le civiltà antiche attribuirono un’influenza determinante sull’attività agricola : dalle semine agli innesti, dal taglio del →legno alle raccolte. Le fonti antiche menzionano i precetti per cui è opportuno compiere alcune operazioni a luna calante, altre a luna crescente, ma non sono sempre in accordo. C’è, tuttavia, una ragione scientifica all’origine di entrambe le credenze popolari. Benché la luna rifletta solo il 10% della luce del sole, quantità insufficiente ad alimentare nelle piante il processo di fotosintesi, è stato provato con esperimenti che anche l’influenza di questa rada luce può risultare notevole. La luce lunare determina, innanzi tutto, alcuni tropismi di vegetali (quali la bella di notte, le orchidee, i convolvoli). I raggi della luce lunare, poi, in ragione della loro maggiore capacità di riflesso della banda rossa, sono in grado di raggiungere il terreno anche quando il cielo è coperto, penetrano nel terreno anche per diversi centimetri di profondità e sollecitano la germinazione dei semi. Le piante raggiunte dalla luce lunare mantengono il metabolismo più alto e si sviluppano con maggior vigore e rapidità. Questa capacità della luce lunare va tuttavia letta in duplice senso : se infatti una maggiore illuminazione è benefica per alcune piante, in quanto ne rinvigorisce i processi di crescita, è nociva per alcune sementi (per esempio piselli e fagioli), poiché ne affretta la germinazione, esaurendo la pianta prima che vada a fiore. Altri effetti positivi sono invece la stimolazione della concentrazione di zuccheri all’interno di frutti raccolti durante il periodo di luna crescente, nonché l’azione rigeneratrice e cicatrizzante nei rami tagliati durante la potatura a luna piena. Dall’osservazione naturale di questi processi dovettero scaturire, già nell’antichità, le diverse credenze sull’influsso lunare. Già Varrone (r.r. 1,37) testimonia tale oscillazione. In generale, tuttavia, nella simbologia folklorica vale il concetto che a luna calante si compiono tutte le operazioni che comportano raccolta o morte (potatura, estirpatura, taglio…), mentre a luna crescente le attività finalizzate alla crescita e allo sviluppo (semina, concimazione…), non solo in agricoltura (cfr. ad es., per la medicina, Scrib. Larg. 16).  





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Note. [1] Sobrero 1982-1983, 124-145 ; Maiello 1994, 49-78. – [2] Maiello 1994, 49-78 ; Borst 1997, 9-46.  



Bibliografia. Amouretti 1991 ; Blázquez 1996 ; Borst 1997 ; Cattabiani 1994 ; Del Fabro-Pallavicini 2004, 18-22 ; Frayn 1979, 47-56 ; IsagerSkydsgaard 1992, 160-168 ; Maiello 1994.  













Emanuele Lelli Cantiere edile (età ellenistica). 1. Organizzazione del cantiere. – L’utilizzazione di nuove tecniche, ma anche di materiali costruttivi e decorativi più economici modifica, in Grecia, a partire dal iv sec. a.C., l’organizzazione del cantiere, i cui addetti sviluppano le loro attività in senso specialistico. La finalità è quella di privilegiare “anche a spese della qualità dei ‘saperi’ tradizionali, soprattutto l’immagine visiva (d’insieme) degli edifici piuttosto che la loro intrinseca ‘correttezza’ costruttivo-concettuale”. [1] Se nei cantieri di età classica, inoltre, erano coinvolti più imprenditori per una stessa categoria di opere, in età ellenistica tale realtà diviene più articolata a seconda delle aree di riferimento : in Grecia si mantiene la tradizione di raggruppare più settori artigianali in un’unica impresa ; in ambito italico è documentata la presenza di uno stesso appaltatore in cantieri diversi, anche di una certa rilevanza ; in alcuni centri microasiatici e a Roma, infine, si verificano esempi di ‘industria edilizia’ e, più tardi, di ‘speculazione edilizia’. Ovviamente tali innovazioni non sono recepite in modo capillare in tutte le aree del mondo ellenistico e tecniche ‘antiche’ continuano ad essere impiegate accanto a quelle ‘nuove’. 2. Nuove committenze. – Nell’architettura ellenistica, oltre ai materiali e alle tecniche, si modificano in modo sostanziale anche le procedure di finanziamento e di appalto delle opere pubbliche e il controllo dei lavori. Accanto ai committenti tradizionali, cioè ai governi locali e alle istituzioni che soprintendono ai grandi santuari, si registra una nuova committenza costituita in primo luogo dai sovrani ellenistici, che promuovono in prima persona numerose iniziative edilizie ed urbanistiche (anche come forme di evergetismo), finanziandole con le contribuzioni fiscali ; ad essi si aggiungono, per spirito di emulazione, gli esponenti dei ceti più abbienti e potenti collegati al sistema monarchico. Per la realizzazione, nei santuari maggiori, di donari, tesori, piccoli edifici voti 









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capo

vi, prosegue in età ellenistica, come già in età classica, la tradizione di utilizzare le collette generali come sistema di finanziamento, il che implica la partecipazione ufficiale di più centri di potere e di più ambiti territoriali. Dopo il iv sec. a.C. viene concesso a singoli privati di ottenere pubblicità e prestigio apponendo sugli edifici pubblici le epigrafi con il loro nome, quali finanziatori dell’opera. Negli appalti pubblici, la committenza fornisce spesso all’appaltatore gran parte dei materiali grezzi e alcuni materiali speciali (come le grappe e il piombo per la connessione dei blocchi) che vengono registrati separatamente nei contratti di appalto. Circa questi ultimi, coloro che se li aggiudicano devono, già al momento della proposta, indicare esplicitamente i loro mallevadori finanziari, i quali sono obbligati a pagare anticipi di notevole consistenza.

ejgkevfalo~, Cels. 8, 1, 1/ 363 M) ; base del cervello (basis cerebri, gr. bavsi~ tou` ejgkefavlou, 5, 26, 2 / 215 M,) ; bocca (os, gr. stovma, 2, 8, 33 / 74 M) ; ugola (uua, gr. stafulhv, 4, 7, 3 / 158 M) ; palato (palatum, gr. uJperwv/a, 8, 1, 4 / 364 M) ; lingua (lingua, gr. glw`tta, 7, 12, 4 /329 M) ; epiglottide (exigua lingua, gr. ejpiglwttiv~, 4, 1, 2-3 / 147 M,) ; gola (gula e fauces, gr. favrugx, 1, 3, 23/36 M) entrata esofago (stomachus, gr. stovmaco~, 4, 1, 3 / 147 M,) ; vertebra spinale (uertebra spinae, gr. spovndulo~ th'~ rJavcio~, 4, 1, 3-4 / 147 M ;) ; trachea (aspera arteria, gr. tracei`a, 4,

Note. [1] Vd. Franchetti Pardo 2006, 135.

Bibliografia. André 1991 ; Craik 1998 ; Duminil 1998, 199-206 ; Garofalo 1994 ; Hellmann 2004, 65-86 ; Kollesch 1997, 367-373 ; Kullmann-Althoff-Asper 1998, 287-308 ; Marcovecchio 1993 ; Mazzini 1997, 211-252 ; Nutton 1996f ; Oser-Grote 2004 ; Rütten 1996, 561-582 ; von Staden 1989 ; von Staden 1995 ; Stückelberger 1998, 287-308.





















1, 3 / 147 M). Per una efficace rappresentazione dell’anatomia delle parti della testa si veda Cels. ed. Fr. Marx, Lipsiae et Berolini 1915, cml i, tav. p. 148.

Fonti. Si terranno presenti soprattutto i passi di Celso ora citati.  

Bibliografia. Franchetti Pardo 2006 ; Fyfe 1965 ; Lauther 1999.  



Shara Pirrotti























       



Note. [1] In questa voce saranno riportate prima le denominazioni latine, poi le greche e quindi le attestazioni di Celso. Fonti. Cels. 8, 1, 1-4. 5-10/363-366 M.









3. Patologia della testa. – Già nel Corpus Hippocraticum si parla di affezioni e di dolori al capo, basati su febbre, [1] agenti atmosferici [2] e ubriachezza. [3] Qui ci si soffermerà soprattutto su autori di prima età imperiale romana. Fonti autorevoli sono →Celso e →Scribonio Largo. L’enciclopedista, nell’opera del quale confluisce, come è noto, l’eredità della medicina greca classica ed ellenistica, tratta anche di patologia [4] e accenna, ad es., a difetti del capo, [5] come gangli, meliceridi, ateromi e steatomi e relative terapie chirurgiche. Scribonio, nelle Compositiones, il primo trattato farmacologico in lingua latina, ripreso per diversi medicamenti anche in autori successivi, come in alcuni passi della →Medicina Plinii, in altre opere, escertato e rielaborato in misura notevole in →Marcello Empirico, accenna a varie patologie e a relative terapie farmacologiche. [6] Per affezioni a bocca, naso e →orecchie si veda anche →Galeno. [7]  









Bibliografia. Laser 1983 ; Luchner 2004 ; Mazzini 1997, 246-252 ; Roselli 1996, 217-227.  



2. Anatomia delle parti della testa. – L’anatomia della testa comprende : cervello (cerebrum, gr.  





Capo. 1. Ossa e suture. – Le ossa del cranio, [1] con suture e connessure, sono : cranio (caluaria, gr. kranivon, Cels. 8, 1, 1 / 363 M) ; suture (suturae, gr. rJafaiv, 8, 1, 2 /363 M) ; sutura stephaniaea, la cui descrizione in Celso è perduta (sutura stephanaea, cuius descriptio apud Celsum periit, gr. rJafh; stefaniaiva) ; sutura lepidoides (sutura lepidoides, gr. rJafh; lepidoeidev~) ; sutura lambdoides (sutura lambdoides, gr. rJafh; lambdoeidev~) ; sutura nelle mascelle (sutura in malis, gr. rJafh; ejn gnavqoi~) ; mento (mentum, gr. gevnue~, 8, 12, 1 / 399-400 M) ; insenatura (sinus, gr. koiliva, 8, 1, 7-8 / 364 M) ; mascella (maxilla, gr. gnavqo~, 8, 1, 7 / 364 M) ; processo (processus, ‘via’, 8, 1, 8 / 364 M) ; osso ‘giogale’ o dello zigomo (os sub temporibus iugale, 8, 1, 8 /364 M). Per una efficace rappresentazione delle ossa del cranio si veda Cels. ed. Fr. Marx, Lipsiae et Berolini 1915, tav. p. 365.







Note. [1] Hp. Aph. 4, 70 / 4, 526 L. Per la fisiologia della testa si rinvia naturalmente a quella dei vari elementi. – [2] Hp. Aër. 10 / 2, 50 L. – [3] Ath. 15, 691 f – 692 b. – [4] Soprattutto ll. 4, 6 e 7. – [5] In med. 4, 2 / 152-153 M Celso parla ad es. di cefalea, idrocefa-

caprini lo e di relative cure (dietetiche e cataplasmi). Per gangli, meliceridi, ateromi e steatomi e relativi interventi chirurgici si veda med. 7, 6 / 310-312 M. – [6] Cfr. cc. 1-11. – [7] Us. part. 8, 4s / 3, 625-636 K. Fonti. Hp. Aër. 10 / 2, 50 L ; Aph. 4, 70 / 4, 526 L ; Ath. 15, 691 f – 692 b; Cels. med. soprattutto ll. 4, 6 e 7 ; Scrib. Larg. 1-11 ; Gal. Us. part. 8, 4g / 3, 625636 K.  







Bibliografia. Mazzini 1999a ; Stamatu 2005l, 519-520.  

4. Terapeutica. – Indicazioni terapeutiche sono contenute già nel Corpus Hippocraticum, passim. Già nella medicina degli Egiziani, di altri popoli antichi e dei Greci è praticata la trapanazione del cranio. Anche per la terapeutica si farà riferimento soprattutto alla medicina di prima età imperiale romana, segnatamente →Celso e →Scribonio Largo. Il primo tratta variamente di affezioni patologiche e relativi trattamenti terapeutici[1] e consiglia anche, come si è accennato, ad es. per gangli, meliceridi, ateromi e steatomi, interventi chirurgici. [2] Il secondo, all’inizio del suo trattato, organizzato a capite ad calcem, tratta appunto di affezioni al capo, [3] prescrive anche varie forme di purgatio, anche per nares e per os, [4] e consiglia uno sternutorium ; [5] seguono rimedi ad comitialem morbum. [6] Trattamenti terapeutici per svariate affezioni al capo si ritrovano nella medicina successiva, da →Plinio a →Galeno, a →Medicina Plinii e a Physica Plinii, a →Marcello Empirico, a →Celio Aureliano e ad altri autori della tarda latinità.  







Note. [1] Soprattutto ll. 4, 6 e 7. – [2] 7, 6 / 310-312 M. – [3] Cfr. cc. 1-11. – [4] Vd. cc. 6-10. – [5] Vd. c. 10. – [6] Vd. cc. 12-18. Fonti. Si tenga presente il Corpus Hippocraticum, passim. Si vedano inoltre i passi delle opere di Celso e di Scribonio citati qui sopra per la parte patologica e terapeutica ; infine si tengano presenti le trattazioni, passim, di autori successivi, come Marcellus Burdigalensis, detto anche Marcello Empirico, Celio Aureliano etc.  

Bibliografia. Mazzini 1999a ; Stamatu 2005l, 519-520.  

Sergio Sconocchia Caprini [to; aijpovlion, pecus caprinum]. 1. Descrizione. – Erano gli animali più comunemente allevati, insieme ai →bovini, agli →ovini e

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ai →suini. L’allevamento caprino e quello ovino costituivano fin dall’epoca omerica due settori di elevata produttività ed è noto, al riguardo, come →Catone (De re rustica) li ritenesse i maggiori investimenti possibili nello stilare la seguente graduatoria : bene pascere, satis bene pascere, male pascere e arare, dove addirittura anche la pastorizia mal gestita risulta comunque superiore all’attività agricola. L’alimento maggiormente ricavato dall’allevamento caprino e destinato all’alimentazione umana era di certo il latte, ottenuto tramite mungitura e conservato attraverso l’acidificazione e la cagliata [→conservazione degli alimenti]. Nella terminologia i caprini si compongono di animali di diverso genere e taglia : la capra (hJ ai[x, capra, anche nel diminutivo capretta, to; aijgivdion, o, per indicare la capra giovane, hJ civmaira, capella; per indicare la capra selvatica è attestato il latino caprea), il capro (oJ ai[x o oJ travgo~, hircus), il capretto (oJ e[rifo~, haedus o haedulus). 2. Contesto storico-geografico e fonti letterarie. – Fonte importante per l’allevamento di caprini e ovini è il libro ix dell’Odissea (in proposito si veda anche la →pastorizia), dove si descrive la pratica pastorizia di Polifemo, riflesso di quella reale, databile al ix sec. a.C. circa : il Ciclope alimenta gli animali conducendoli al pascolo dalla mattina alla sera e facendoli abbeverare presso un fiume e li sfrutta in particolare per la produzione di latte e di lana (non vi sono esplicite indicazioni riguardanti la tosatura delle bestie o l’uso delle loro carni). La stalla dove sono ricoverati gli animali è ricavata da una grotta, il cui ingresso viene chiuso con una pietra ; all’interno una parte dello spazio è suddivisa attraverso steccati di recinzione in vani più piccoli, nei quali sono tenuti i giovani capretti e agnelli ; il rimanente spazio libero, invece, è sparso di letame e occupato di notte dalle capre e dalle pecore da mungere e, a volte, anche dai maschi. Di fronte alla grotta c’è un recinto costruito con pietre e tronchi di pino, dove di notte vengono generalmente chiusi i maschi. Capre e pecore sono munte due volte al giorno, anche in presenza dei redi : il latte della mattina è sufficiente per sfamare i redi e il pastore Polifemo, mentre il latte della sera, quantitativamente maggiore perché al termine di una giornata al pascolo, serve anche ad un terzo uso, ovvero la produzione di formaggio. Sulla produzione casearia effettuata da Polifemo, qui diremo solo che il latte munto è raccolto in secchi e vasi ed è utilizzato per produrre for 











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carne, consumo di

maggio ; nel descrivere il procedimento il testo allude a boccali per il siero derivante dalla coagulazione del latte, a canestrelli per la cagliata e a graticciati per la maturazione del formaggio e forse per l’affumicatura. Non essendo fornite informazioni sulle modalità d’impiego del siero di latte e del formaggio e sulla destinazione ultima dei capi di bestiame, ovvero la macellazione, non è possibile dedurre ex silentio che i Ciclopi non si nutrissero di formaggio o di carne animale : le omissioni del testo poetico possono anche considerarsi dei sottintesi che l’opera ai suoi fini non richiede o che erano comprensibili agli uditori del tempo. Riferimenti alle capre si ritrovano anche nelle Opere e i giorni di →Esiodo : il lungo pelame attraverso il quale passa il vento, in quanto non abbondante come quello delle pecore (vv. 516-517), la maggiore quantità di grasso accumulata in estate (v. 585), il bere latte di capra ottenuto nel periodo in cui questa non allatta più (v. 590), la carne dei capretti (v. 592), i quali venivano anche castrati (v. 786). Notizie databili al vi sec. a.C. possono essere rintracciate in fonti indirette del iv-iii sec. a.C. (si tratta di due passi dell’aristotelico Clito di Mileto e di Alessi di Samo, riportati da Ateneo di Naucrati : anche se la distanza cronologica può generare dubbi sull’attribuzione storica dei fatti al vi sec. a.C., essi sono comunque validi per l’epoca delle due fonti in questione e per l’inizio dell’età ellenistica), a proposito degli allevamenti di Policrate di Samo. Tra le varie specie straniere che il tiranno fece importare, c’erano le capre provenienti da due isole dell’Egeo, Sciro e Nasso. Le capre di Sciro erano famose per la qualità del loro latte e il valore di rappresentanza locale assunto da questi animali è dimostrato dalla loro raffigurazione sulle monete della città insulare nel v sec. a.C. Le capre di Nasso, invece, non avevano particolari qualità, se non il fatto che tutte le Cicladi erano conosciute per l’efficace organizzazione di allevamenti di bestiame minuto, combinati con l’attività agricola. Fonti successive come →Varrone (De re rustica) e Ateneo parlano anche delle capre di Milo, altra isola delle Cicladi, come di bestie grandi e belle. Uno dei principali settori economici degli allevamenti caprini delle Cicladi era la produzione e l’esportazione di formaggio. Durante l’epoca imperiale romana erano note per le loro capre l’isola balcanica di Brač (Brazza), anticamente Brattia, la Gallia, Milo, il Salento e il Cassinate.  







Bibliografia. Ballarini 1999 ; Bruno 1969 ; Chandezon 2004 ; Foraboschi 1984 ; La Greca 2010.  







Manuela Martellini Carne, consumo di. Nello studio dell’→alimentazione antica, si è rimasti legati per molto tempo ad un approccio che privilegiava quasi esclusivamente le fonti letterarie : queste, tuttavia, sono meno cospicue sul consumo di carne, rispetto al materiale fornito sui consumi di →cereali o vino [→viticoltura]. Ancora oggi una strada poco battuta dagli studiosi, anche per la difficoltà nel reperimento dei materiali, è l’analisi archeozoologica dei residui animali in luoghi identificati come siti di santuari, mercati o ville (per es. Kučan 2000 ; Columeau 2000). Da queste analisi si possono trarre, con molte cautele, indicazioni generali sull’evoluzione del consumo di carne, legate ai mutamenti climatici ma anche ai gusti.[1] Per la Grecia, ad esempio, in età arcaica si osserva una forte prevalenza di carne ovina (50%) a fronte di quella bovina (20%) ; in età ellenistica la dieta appare integrata con carne di maiale. Una distanza sensibile sembra esservi tra consumi di carne in città e in campagna : se nell’orizzonte urbano la dieta risulta più differenziata, nelle aree rurali il consumo di →ovini arriva a percentuali dell’80%. Un’altra differenziazione è legata alle aree geografiche : nelle isole è preponderante il consumo di →ovini, nelle zone continentali aumenta sensibilmente il consumo di →bovini. Per Roma una ‘svolta’ importante nel consumo di carne si ha intorno al ii sec. a.C., dopo le conquiste mediterranee. La preferenza resta per la carne di →suini, che, stando alle parole di →Plinio (nat. 18,209), « ha cinquanta sapori diversi ». Un documento notevole per attestare la crescita del lusso è il terzo libro varroniano, ove sono menzionati i procedimenti per l’allevamento di volatili (anche esotici) per la mensa delle classi agiate. Le ricette di →Apicio, indicative delle preferenze delle classi alte romane in età imperiale, confermano la prevalenza di maiale (23 ricette), seguito dagli ovini (12) e bovini (4). A livello di classi medio-basse il pollame rappresentava infine la risorsa proteica più a basso costo (Marcone 1997, 96-98).  













Note. [1] Vd. Leguilloux 2000, per la Grecia del primo millennio a.C.

catapulta

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Bibliografia. André 1961 ; Georgoudi 1988 ; La Greca 2007 ; Leguilloux 2000 ; Marcone 1997, 96-98.  







Emanuele Lelli Cassio Felice. Medico di professione, vissuto tra iv e v sec. d.C., la sua attività va contestualizzata probabilmente nell’Africa romana, come ricaviamo dalla tradizione e dalle relazioni con autori quali →Teodoro Prisciano e →Celio Aureliano. Secondo quanto egli stesso ci dice, compose la sua opera, il De medicina, in età matura, nel 447, volgendo in latino [→Traduzioni (mediche)] il sapere scientifico greco della setta logica (De med. pr.). Sulla base di un’espressione usata in apertura di trattazione, la critica è concorde nel ritenerlo cristiano. Lo scritto, dedicato al figlio, contiene rimedi di pratica efficacia e vuole rappresentare una summa del portato medico acquisito dalla tradizione, secondo un atteggiamento piuttosto usuale negli autori tecnici del tempo, votati più alla conservazione di quanto prodotto in passato che non all’acquisizione di nuovi saperi. Nella lingua di Cassio si riscontrano varie componenti di diversa natura, tra cui grecismi, forme di latino tardo e termini punici. Tra le sue fonti figurano scritti del Corpus risalente a →Galeno, ma anche →Sorano di Efeso, nelle sezioni dedicate alla descrizione delle malattie muliebri [→Ginecologia], mentre tra i latini →Vindiciano. Bibliografia. Bendz 1964 ; Corsini 1990 ; Fraisse 2002 ; Fraisse 2006 ; Giuliani 1985 ; Langslow 2000 ; Önnerfors 1993a ; Sabbah 1985.  













Francesco Fiorucci Catapulta [katapavlth~, catapulta]. 1. Origini. – Con il termine catapulta si tende ad indicare una macchina da getto, capace di scagliare sia dardi (katapavlth~ ojxubelhv~) che proiettili sferici in pietra o metallo (petrobovlo~). Le fonti usano vari nomi per indicare simili artiglierie, ma il significato di ciascuno di essi non è il medesimo in tutti gli autori delle diverse epoche, perciò la loro interpretazione non è univoca tra gli studiosi. Conosciute soprattutto grazie all’opera di →Bitone, le catapulte, fra le macchine d’assedio, sono quelle che hanno conosciuto maggior diffusione nell’antichità per la loro efficacia e micidialità, e sono state operanti in Magna Grecia già a partire dalla fine del

Fig 1. Catapulta secondo Vitruvio (da Russo 2004).

v sec. a.C., ad uso degli eserciti di Dionigi il Vecchio di Siracusa. [1] 2. Funzionamento ed evoluzione tecnica. – Fra le descrizioni che possediamo di questo tipo di macchina, la più celebre è quella lasciataci da →Vitruvio simile alla →balista, ma di più piccole dimensioni, era costituita da un congegno che sfruttava un arco fissato ad un affusto su cui scorreva una slitta, scanalata nel mezzo per alloggiare il dardo, munita di un dispositivo di aggancio e scatto che agiva sulla corda dell’arco, e collegata ad un verricello dell’affusto per tirarla indietro e bloccarla. L’affusto era bloccato ad un supporto mediante un giunto per consentire la regolazione dell’alzo del tiro. Per lanciare pietre era sufficiente montare una slitta con guida a sezione emisferica (e di diametro opportuno) che trasmetteva l’impulso al proiettile.[2] A seconda dell’elemento di forza sfruttato per immagazzinare e rilasciare l’energia necessaria alla propulsione del proiettile, le catapulte possono essere divise in due tipi : ‘a tensione’ e ‘a torsione’ [→torsione]. Le prime furono quelle ‘a tensione’, che sfruttavano il principio della flessione dei bracci dell’arco : una parte sotto tensione propelleva il braccio che scagliava il proiettile, in maniera molto simile ad una balestra gigante. Successivamente vennero sviluppate le catapulte ‘a torsione’ [→torsione], che sfruttavano l’elasticità della torsione prodotta da fasci di fi bre elastiche (ricavate da tendini animali, crini e anche capelli femminili) alloggiate in cilindri perpendicolari all’affusto, la cui forza si scaricava sui bracci quando la corda era liberata. Utilizzate sopra 





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catasterismo

tutto come arma di offesa, trovarono largo impiego soprattutto nella guera navale, per il ridotto ingombro rispetto ad altre macchine, e per la possibilità di scagliare a grande distanza proiettili di vario tipo, come quelli incendiari [→fuochi e tecniche incendiarie], particolarmente efficaci in situazioni di scontri marittimi. Nella tarda antichità l’uso delle catapulte andò lentamente decrescendo, finché se ne abbandonò la costruzione a favore di un’altra macchina più complessa ed efficace, il trabucco. Note. [1] Vd. Campbell, D. B. 2003b, 42 sg. ; Marsden 1971, 274 sgg. – [2] Vd. Marsden 1969, 86 ; Russo 2004, 303.  



Bibliografia. Campbell, D. B. 2003b ; Marsden 1969 ; Marsden 1971 ; Sáez Abad 2005b.  





Lucio Benedetti Catasterismo [katasterismov~, catasterismus]. – Per c. (o catasterizzazione), termine derivante dal verbo katasterivzw, «colloco tra le stelle», si intende quel processo per il quale un eroe o una divinità della mitologia classica, al termine della propria vicenda, viene tramutato in astro o in costellazione. Nel mondo classico questo processo avveniva già nei racconti delle fonti mitografiche antiche. Da un certo punto di vista si può dire che i miti costituiscano il primo nucleo di esperienza religiosa e filosofica oltre che poetica, giacché contengono informazioni utili a comprendere il livello delle conoscenze astronomiche dei popoli antichi. A volte tra le raffigurazioni celesti secondo la visione di due civiltà differenti si trovano sorprendenti somiglianze ; per esempio, a proposito della costellazione del Toro, per i Greci essa raffigurava la giovane Io che venne mutata in toro da Zeus affinché Hera non scoprisse la sua relazione con essa, per gli Egizî era invece il bue sacro Apis. La costellazione della Vergine sembra essere collegata col mito della Gran Madre. I Greci vedono in essa Demetra (Cerere per i Romani), la dea delle messi e della fecondazione ; ad essa è associata la stella Spica ossia il grano. Per gli Egizî era la dea Iside, dea della maternità e della fertilità. La costellazione dello Scorpione nei miti egizî rappresenta il medesimo animale che punse il figlio del dio Osiride, Horus, invece i Greci lo immaginavano mentre insidiava Orione nella sua battuta di caccia. La costellazione di Orione per gli Egizî è la rappre 



sentazione celeste del dio Osiride. Sembra, infine, che la Sfinge fosse orientata verso il punto dell’orizzonte in cui in passato sorgeva la costellazione del Leone, quindi era come se la statua, immagine terrena di una presenza celeste, guardasse se stessa proiettata nel cielo (la parola sfivgx deriva molto probabilmente šps-‘nkh, cioè dall’antico egiziano ‘immagine vivente’). Va precisato che nei miti le ‘trasformazioni’ possono essere di due tipi : la metamorfosi e, appunto, il c. La prima avviene a livello terreno ed i soggetti (solitamente semidei e eroi, ma anche individui comuni) perdono la loro natura originaria per assumerne una nuova, sotto forma di animali, piante, minerali, fonti d’acqua, fenomeni naturali. Il c. invece è un processo che avviene a livello celeste : l’assunzione in cielo come singolo astro o come costellazione. La differenza tra i due processi di trasformazione consiste nel fatto che mentre il c. è già un primo livello di divinizzazione in seguito a dei meriti, la metamorfosi invece avviene nella maggior parte dei casi ‘verso il basso’, cioè sotto forma di degradazione e punizione nei confronti di chi si è macchiato di u{bri~ verso gli dèi. Pochissimi sono i casi di soggetti che subiscono sia una metamorfosi sia una catasterizzazione. Un esempio è il mito della ninfa cacciatrice Callisto che, dopo aver generato Arcade con Zeus, fu trasformata in orsa (non è chiaro se per opera di Artemide oppure di Era, o da parte dallo stesso Zeus per sottrarla alla vendetta della moglie). Dopo diverso tempo suo figlio Arcade, nel corso di una battuta di caccia, avrebbe ucciso quell’orsa e se non fosse intervenuto Zeus a tramutarlo nella stella Arturo e Callisto nella costellazione dell’Orsa maggiore, si sarebbe consumata la tragedia. Callisto, dunque, subisce prima una metamorfosi e in seguito una catasterizzazione. In questo, come in altri casi, i personaggi ‘collocati tra le stelle’ sono spesso collegati tra loro nel disegno stesso dei cieli oltre che nella narrazione. La stella Arturo, infatti, appartiene alla costellazione del Cacciatore (Boötes), è vicina alle due Orse e il suo nome ’Arktou`ro~ significa proprio «guardiano dell’Orsa». Un c. celebre è il poemetto sul mito della Chioma di Berenice composto da Callimaco e tradotto in latino da Catullo. Da una testimonianza dello stesso Callimaco[1] sembra che tale mito fu alimentato, se non addirittura creato, dall’astronomo →Conone di Samo (iii sec. a.C.) aven 



catone do chiamato ‘Chioma (o Ricciolo) di Berenice’ un ammasso stellare che era già noto con il nome di ‘Ricciolo di Arianna’ o ‘grappolo d’uva’. Nella letteratura classica occupano un posto di rilievo i Katasterismoiv, un testo in prosa d’epoca ellenistica incentrato sulle origini mitiche delle stelle e delle costellazioni così come venivano interpretate dalla cultura ellenistica. L’opera sopravvive in una epitome redatta alla fine del i secolo a.C. basata su un originale andato perduto attribuito ad uno pseudo-Eratostene. In essa viene citata più volte la perduta opera Astronomia attribuita ad Esiodo e molte tematiche mitologiche sono tratte dai Phaenomena di Arato. Analoga è l’opera di Igino De astronomia o Astronomica in cui sono raccolte in modo tematico le leggende mitologiche collegate agli astri. I capitoli dedicati a queste tematiche ebbero notevole fortuna. Il successo dell’opera di Igino e la ormai dilagante passione per l’→astrologia nel mondo romano finirono per influenzare anche l’arte, in cui trovarono ampio spazio le raffigurazioni delle personificazioni di stelle e costellazioni. Nel mondo romano la tematica del catasterismo non offriva soltanto spunti per l’arte, essa venne utilizzata soprattutto per scopi politico-ideologici a partire dalla metà del i secolo d.C. Con l’instaurazione del principato le tematiche astronomiche e astrologiche assumono particolare importanza ; l’apoteosi del principe, infatti, tende a configurarsi anche come divinizzazione astrale, e così lo stesso Augusto utilizzava i temi celesti per fini propagandistici ; l’imperatore Tiberio venne definito da Svetonio addictus mathematicae, [2] intendendo col termine mathematica, prestito diretto dalla lingua greca, proprio l’astrologia. Ovidio, ultimo esponente del Circolo di Mecenate, per riconquistare la stima di Augusto in seguito all’esilio presso Tomi sul Mar Nero voluto dal principe per via delle attenzioni del poeta verso la figlia, scrisse Le metamorfosi, un’opera in cui narrò le trasformazioni epiche. Essa doveva esaltare l’immagine di Augusto nei confronti di Cesare e così nel xv libro dove tratta il catasterismo di Cesare scrive : Luna volat altius illa / flammiferumque trahens spatioso limite crinem / stella micat natique videns bene facta fatetur / esse suis maiora et vinci gaudet ab illo. [3]  









Note. [1] Call. Aet. 110, 7-8 Pf. – [2] Svet. Tib. 69, 1 e sgg. – [3] Ov. met. 15, 848-851.

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Bibliografia. Burkert 1984b, ii, 219-224 ; Condos 1997 ; Grimal 1990 ; Seznec 1981.  





Carmelo Lupini Catone. 1. Il censore. – Marco Porcio Catone nasce a Tusculum, antica cittadina vicino Roma, nel 234 a.C., da una gens di origini plebee. A trent’anni comincia la sua carriera politica : nel 204 è questore, nel 199 edile e nell’anno successivo pretore della Sardegna. Nel 195 arriva al consolato e, nel 184, alla censura. La sua resterà la censura per antonomasia : sette senatori espulsi probri causa, tra i quali il conquistatore della Grecia L. Quinzio Flaminino ; più rigidi criteri nella definizione del patrimonio dei cittadini romani ; demolizioni di abusi edilizi in territorio pubblico ; risparmio sugli appalti pubblici e imposizione di tasse più elevate sulle transazioni economiche di grande portata (Liv. 39,42,5-44,9). Il suo operato gli attira l’inimicizia di gran parte della nobilitas, che cerca di colpirlo attraverso accuse e processi : quarantaquattro i procedimenti di accusa che Catone affronta nell’arco della sua vita ; in tutti è assolto. Muore nell’autunno del 149. Una vita consacrata alla difesa dell’integrità morale e della moralità della vita pubblica, dunque, all’insegna dell’opposizione verso quella ‘nuova cultura’ ellenizzante sponsorizzata in prima linea dalla gens degli Scipioni e dal loro entourage politico e letterario. Agli interessi dei traffici marittimi e degli affari Catone contrappone quelli della media proprietà agricola italica, incentrata sulla cellula economica della villa, l’efficiente azienda schiavistica mirata alla commercializzazione di prodotti specializzati quali l’olio e il vino. Dal punto di vista culturale, d’altra parte, l’operazione del Censore consiste nel ‘rivestire’ ideologicamente questa scelta economico-politica con una immagine dell’attività agricola che vuole ricollegarsi alla concezione del bonus agricola bonusque colonus tradizionale, alla figura del cittadino-coltivatore integro moralmente e rispettoso del sacro e della legge, contro l’arrivismo e la spregiudicatezza morale dei Greci, la loro cultura troppo liberale e sofistica. Certo la fiera battaglia per la moralità politica condotta da Catone nel lungo arco della sua vita va intesa come sincero e ostinato tentativo di scongiurare le conseguenze più dannose che il nuovo sistema economico mercantilistico – che, comunque, sarebbe alla  













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lunga riuscito vincitore – portava inevitabilmente con sé : la corruzione finanziaria e politica, la ricerca affannosa della ricchezza, la vessazione delle province. Ma anche la realtà della villa catoniana e delle piantagioni schiavistiche medio-grandi, di cui il Censore difendeva gli interessi, dimostrava a tutti gli effetti come la mentalità imprenditoriale finalizzata al grande commercio e non più all’autosufficienza e al piccolo smercio locale, l’utilizzo su larga scala della manodopera schiavile a danno dei lavoratori liberi specializzati, l’accumulazione di terre a danno della piccola proprietà italica, fossero elementi ormai penetrati radicalmente nella struttura agraria dell’Italia del secondo secolo, cui Catone non poteva più sottrarsi. 2. L’uomo di cultura. – L’impegno politico del plebeo di Tusculum, pur con tutte queste contraddizioni, rimane in ogni caso una delle operazioni culturali più marcate e ricche delle maggiori conseguenze per la storia della civiltà romana. Tutta l’opera letteraria del Censore – che, se ci fosse pervenuta intera, sarebbe da considerare tra i più importanti monumenti della cultura romana – può essere vista come un continuo e tenace tentativo di respingere la cultura greca che penetrava a Roma lentamente sotto le forme della ‘nuova’ letteratura. Catone, di contro ad un vecchio luogo comune della critica ormai sfatato, non ignora la cultura e la letteratura elleniche. Anzi è proprio dalla puntuale ‘contestazione’ di certi elementi strutturali e di certi motivi-chiave della produzione letteraria greca che parte la sua risposta alla ‘nuova’ cultura ellenizzante. Così nelle Origines, l’opera storica in sette libri composta negli ultimi anni di vita, il Censore riprende nel titolo e nei primi tre libri la tradizione storiografica greca delle ‘fondazioni di città’ (ktìseis), ma la adatta al mondo romano e italico occupandosi dei popoli e dei municipi della penisola, e la fonde con la tradizione indigena annalistica. La cultura greca penetrava a Roma permeando progressivamente di sé molti campi del sociale, ma anche del privato : tra questi uno dei più importanti era senz’altro l’educazione dei giovani. Far istruire i propri figli da un precettore greco era pratica sempre più frequente nelle buone famiglie dell’aristocrazia ellenizzante romana. Catone scrive invece i Libri ad filium, prima ‘enciclopedia’ delle discipline essenziali per la formazione del cittadino romano, arrogando al pater familias il compito dell’educazione dei figli. I nuovi orizzonti eco 



nomici aperti dalle conquiste mediterranee di Roma convogliavano ormai gli interessi e gli investimenti delle classi dirigenti verso i traffici marittimi e finanziari. A tale programma economico Catone contrappone decisamente il sistema dei medio-grandi proprietari terrieri italici : nasce il De agricultura, la prima opera in prosa latina giunta intera fino a noi. 3. Il De agri cultura. – Principale testimonianza della situazione sociale ed economica delle campagne italiche durante la prima metà del secondo secolo a.C., primo e importantissimo documento della prosa anche letteraria latina, bacino di raccolta di tradizioni indigene e folklore della società contadina arcaica, ma anche di precettistica scientifica o pseudoscientifca di origine greca, il De agricultura è un testo a torto considerato secondario e artisticamente mediocre. Sotto la veste fredda e scarna del trattato, scritto probabilmente durante l’ultimo periodo della vita del Censore, si coglie, ad un’attenta lettura, tutto l’animo e la personalità catoniana : rudemente e anche disumanamente calcolatrice nei rapporti economici e nel trattamento degli schiavi, precisa e competente nelle indicazioni tecniche e giuridiche, permeata di arcaica religiosità nelle formule di scongiuro e di sacrificio. All’agricoltura vera e propria, in realtà, è dedicato in ultima analisi solo un quarto del trattato : ampio spazio ricoprono altri campi del ‘sapere’ tecnico-pratico che il proprietario del fondo, il pater familias, in quanto unico depositario delle conoscenze necessarie alla conduzione dell’attività economica, deve apprendere : oltre alle tecniche di coltivazione (soprattutto della vite e dell’olivo), dunque, sono presenti una sezione ‘meccanica’ dedicata alla costruzione dei macchinari più importanti per la produzione delle colture specializzate del vino e dell’olio ; una sezione ‘edile’ in cui si forniscono istruzioni sulla qualità dei materiali da costruzione della villa e sulla loro messa in opera ; una sezione dedicata ai contratti-tipo da stipulare in caso di appalto di alcuni lavori agricoli o in caso di compravendite ; una parte ‘culinaria’ riservata alla illustrazione di ricette di dolci e farinate ; una sezione in cui sono conservate le formule religiose da pronunziare in riti di propiziazione di attività agricole ; infine una considerevole parte in cui sono rielaborate alcune tradizioni medicinali greche e sono fornite prescrizioni per curare malattie di uomini e di animali. Dunque una piccola ‘enciclopedia’ del proprie 

















celso tario terriero, un libro in cui Catone fondeva, con spirito sicuramente eclettico e pragmatico, la tradizione dei manuali specialistici delle varie discipline (prontuari medici, raccolte di giurisprudenza pontificale), e quella dei trattati tecnici di agricoltura (che si era da tempo costituita come genere), dando vita a un unicum, per struttura e contenuto, nel panorama della successiva letteratura latina e greca, un’opera intricata ma affascinante, paragonabile forse al tipo dei ‘libri di famiglia’ dei mercanti toscani del xiv secolo, in cui conoscenze pratiche e buon senso popolare, esperienze dirette e tradizioni sapienziali e pseudo-scientifiche provenienti da florilegi medioevali, sono fusi in ‘diari’ scritti in una lingua vicina al parlato, spesso non strutturati in modo artistico nè logico, ma dalle cui pagine emerge, come nel trattato catoniano, un senso profondo di vita vissuta. Bibliografia. Astin 1978 ; Boscherini 1970 ; Boscherini 1993a ; Della Corte 1949 ; De Neeve 1984 ; Leon 1942-1943 ; Marmorale 1944 ; Mazzarino 1952 ; Sblendorio Cugusi-Cugusi 1996.  















Emanuele Lelli

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per identificare i sintomi delle malattie diaeticae, ossia di malattie che si curano con la dieta. Le Celeres sive acutae passiones (in tre libri) e le Tardae sive chronicae passiones (in cinque libri), traduzione dell’opera omonima di Sorano, costituiscono assieme alle altre opere citate un contributo molto importante per la conoscenza dei principi della medicina metodica e per la storia della medicina antica in genere. L’opera fu pubblicata per la prima volta nel sedicesimo secolo da Johannes Sichart (1529) e venne poi inserita nelle Aldine nella collezione dei Medici Antiqui omnes (1547). La presenza nel Liber Aurelii e nel Liber Aesculapii (vi-vii sec. d.C.) dei contenuti delle Celeres sive acutae passiones e delle Tardae sive chronicae passiones mostrano la circolazione e il riutilizzo dell’opera di Celio Aureliano in trattati altomedioevali, anche se nel Medioevo le basi teleologiche del sistema medico di Galeno saranno più congeniali e coerenti rispetto ai sistemi filosofici coevi. Note. [1] Roselli 1991, 77. Bibliografia. Bendz-Pape 1990-1993 ; Drabkin 1950 ; Fischer 2005 ; Maire-bianchi 2003 ; MeyerSteineg 1916 ; Mudry 1999 ; Nutton 1997i ; Pigeaud 1982, 105-118 ; Rose 1963, Roselli 1991, 75-86 ; Urso 1997 ; Urso 2005, 90-107.  









Celio Aureliano. Nato a Sicca Veneria in Numidia, come ricaviamo dalle editiones principes, probabilmente nel v sec. d.C., Celio Aureliano appartiene alla scuola metodica, della quale sono fondatori Temisone di Laodicea, discepolo di Asclepiade di Prusa (i sec. a.C.) e teorico della dottrina delle « comunità » (status strictus, status laxus e status mixtus) e Tessalo di Tralle, che vive e opera sotto Nerone. A Tessalo si deve la distinzione come metodo di analisi e di cura tra malattie croniche e malattie acute. Dopo Tessalo il più importante medico metodico è →Sorano di efeso. Celio Aureliano ha come costante riferimento l’autorità di Sorano di Efeso, del quale traduce i Gynaecia in una redazione tarda e fortemente interpolata da Muscione (vi sec. d.C.). Di Celio Aureliano conosciamo frammenti dell’opera sulla dietetica intitolata Medicinales Responsiones [1] testo interpolato e rielaborato da un originale Interrogationes et Responsiones, comprendente due frammenti distinti. Il primo dei due testi è il De salutaribus praeceptis, costituito da una serie di domande e risposte sul modo in cui conservare la salute e il secondo il De significatione diaeticarum passionum, un prontuario di domande e risposte  













Daniele Monacchini Celso. Scarse sono le notizie biografiche relative a Celso ; i dati sono per lo più indiretti e congetturali : di patria, famiglia, vita non si sa in pratica nulla. Ignoriamo anche gli anni di nascita e di morte. Sembra sicuro il prenome Aulus[1] ; altrove ricorre la forma abbreviata A. [2] Nelle fonti antiche viene citato come A. Cornelius Celsus. L’integrazione Aulus, ora comunemente accolta, è stata in realtà oggetto di varie integrazioni alternative. [3] Non è mancata, per A. Cornelius, l’interpretazione Apuleius [4] e la conseguente identificazione con il precettore di Scribonio Largo Apuleius Celsus Centuripinus. [5] L’akmé è indicata a Roma intorno al 24 d.C., sotto Tiberio (imperatore dal 14 al 37 d.C.). Si è pensato ad un’origine franco-spagnuola : il nome Cornelius Celsus infatti ricorre spesso in iscrizioni della Gallia Narbonese. Quintiliano 10, 1, 124 attesta che Celso seguì l’indirizzo etico dei Sestii : Scripsit non parum multa Cornelius Celsus, Sextios secutus, non sine cultu ac nitore. Lana 1953 ritiene che Celso ap 















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partenesse alla scuola, ma solo per qualche tempo in gioventù. [6] Di recente tuttavia si veda Mudry 1982b, 185-187, che ripropone il vecchio problema, se cioè Celso sia stato medico. Plinio il Vecchio lo cita spesso tra le sue fonti tra gli auctores interni e non come medico. Fu autore delle Artes o De artibus, ampia raccolta enciclopedica in un numero imprecisato di libri : sono conservati gli otto libri delle sezione dedicata alla medicina, di valore fondamentale per la conoscenza della medicina antica, greca e romana. Non abbiamo neppure un’idea precisa di contenuti, struttura e disposizione dei materiali trattati nell’opera. Probabilmente le Artes, oltre ai libri del De medicina, comprendevano una sezione dedicata all’agricoltura (cinque libri) e un numero imprecisato di libri relativi all’ars militaris, alla rhetorica, alla filosofia e forse alla giurisprudenza. Il De medicina si differenzia notevolmente da qualsiasi altra opera latina dello stesso genere per qualità, globalità e completezza della scienza contenuta, sia generale che specialistica : dietetica, igiene, semeiotica, patologia, terapia, medicina preventiva, oculistica, odontoiatria, urologia, ostetricia, psichiatria, traumatologia, chirurgia etc. [7] Nel proemio Celso propone una storia dell’arte medica dalla guerra di Troia fino ad Asclepiade di Prusa, riafferma l’unità della medicina nelle sue tre parti costitutive : dietetica, farmacologia e chirurgia, e discute di questioni generali di metodo e cura, con cenni, tra l’altro, ai due indirizzi medici dominanti, il razionale e l’empirico, per i quali cerca una presa di posizione conciliatrice. Inizia quindi la trattazione vera e propria (l. 1), con una serie di norme sulla dietetica, grecamente intesa come condotta di vita che permetta di conservare la buona salute ; il l. 2 è dedicato alla semeiotica secondo Ippocrate e alla patologia generale ; nel l. 3 Celso passa in rassegna diversi tipi di malattie che colpiscono prevalentemente tutto il corpo ; nel l. 4, dopo una breve descrizione delle diverse parti del corpo, parla di malattie e rimedi ad affezioni interne delle singole parti (a capite ad calcem) ; nel l. 5 abbiamo una trattazione sistematica di medicamenti, semplici e composti, e l’analisi del trattamento di ferite, ulcere e varie affezioni esterne ; nel l. 6 si tratta dei vitia di singole parti del corpo (ad es. pelle, occhi, orecchie, bocca, denti, pudenda) ; il l. 7 tratta della chirugia in generale : il l. 8 della chirurgia delle ossa. Celso accoglie nella teoria ciò che da Cesare era stato accolto da tempo nella pra 























xis : adozione della ‘scienza nuova’ medica greca che, dal ii sec. a.C., esercitata da praticanti greci e illustrata con opere che continuano ad essere scritte in greco anche se redatte a Roma e su fonti greche, propone una spiegazione naturale delle malattie che si inserisce in un’interpretazione globale dell’uomo e del mondo, offre terapie fondate sulle cause, e pone a disposizione del lettore un tesoro di conoscenze diverse, che una tradizione, attraverso l’insegnamento dei maestri, ha accumulato, e di una letteratura scientifica importante ; si realizza una vittoria di questa medicina sulla tradizione medica indigena empirico-magica[8] ; viene sottolineata la concezione morale della medicina. Non è possibile dare un giudizio in merito all’originalità del De medicina : il problema della dipendenza da fonti greche o da altre fonti, come era stato proposto per Aufidio, o Cassio Dionisio o Tiberio Menecrate, anche nella struttura dell’opera, rimane sempre aperto anche quando singole fonti siano state eventualmente scartate. Nonostante ciò l’opera di Celso rimane una fonte principale per la storia della medicina dopo Ippocrate, soprattutto per i primi due secoli a.C. : il De medicina costituisce ad esempio documentazione e mezzo di conoscenza per ben settantadue autori medici che sarebbero altrimenti perduti. Per Celso il medico deve possedere doti umane e morali, disponibilità d’animo e di amicizia (3, 6, 6/111112 M), deve non essere avido di guadagno (3, 4, 9 sgg. 106 M), deve essere cauto nei giudizi (cfr. ad es. 5, 26, 1 C-D / 215 M). Per capire la concezione della tevcnh medica di Celso occorre tener presente la probabile adesione, almeno in gioventù, alla scuola dei Sextii ; occorre tener conto della posizione moderata dell’enciclopedista che cerca una sorta di mediazione nella diatriba tra scuole mediche del i sec. d.C., soprattutto tra empirici e dogmatici, anche se sembrano prevalere in lui coloriture empiriche e non può essere sottovalutato un certo atteggiamento scettico. [9] La medicina si fonda sull’esperienza (Prooem. 47 / 25 M), ma è un’arte congetturale (ibid. 45 / 24 M e 74 / 29 M). [10] Celso segue spesso da presso norme del Corpus Hippocraticum e di altri maestri. Interessante la tripartizione della medicina in dietetica, farmacologia e chirurgia, una tripartizione risalente all’età alessandrina (Prooem. 9 / 18 M : in tres partes medicina deducta est, ut una esset quae victu, altera quae medicamentis, tertia quae manu mederetur) ; nessuna delle tre può essere elimi 



















celso nata senza rinunciare all’insieme. È in questa concezione ciceroniana dell’unità della cultura (Mudry 1985, 330), la cui fortuna fu grande a Roma, che s’inserisce la rivendicazione spesso ripetuta da Celso e Scribonio dell’unità organica della medicina. Galeno lo farà ancora, ma dopo più di un secolo e da un punto di vista diverso nel quale la componente dottrinale conta meno che la constatazione della straordinaria degradazione scientifica e deontologica che la specializzazione ha, secondo lui, trascinato nella professione medica. [11] Il De medicina è eccellente per contenuto, disposizione della materia e forma, intesa come lucidità di esposizione. Celso ha dovuto affrontare il problema di trasporre la cultura medica greca in lingua latina [12] e, tra i primi, ha posto le basi di uno strumento duttile e policromo quale sarà la prosa scientifica latina. Gli studiosi sono oggi d’accordo sull’autenticità del De medicina. Capitani 1980, 77-79 esprime un giudizio complessivo di ‘mediocrità’, da intendere con un significato tuttavia non tendente al negativo, anche sulla sezione De medicina : secondo lo studioso neppure questa sezione può essere definita un lavoro del tutto originale, tanto meno il prodotto di un genio paragonabile ad esempio agli scritti del Corpus Hippocraticum, e sembrano complessivamente sussistere elementi per comprendere in qualche modo la tesi di ‘mediocrità’ che troviamo in Quintiliano. La maggior ampiezza della sezione dedicata alla medicina rispetto alle altre sezioni e il fatto che solo questa sezione abbia superato i rischi del tempo fanno presupporre tuttavia che la competenza di Celso e i suoi interessi fossero notevoli in questa disciplina. Mentre, come è noto, per la sezione sull’agricoltura Celso utilizza Catone, Magone, i Saserna, Giulio Attico, Igino e Virgilio, non sappiamo di quali autori si sia servito ad esempio per la retorica, l’arte militare e la giurisprudenza. Per la medicina si è a lungo creduto che Celso abbia in parte tradotto e in parte riassunto gli scritti di Asclepiade. Questa ipotesi è venuta a cadere con gli studi specialistici dell’inizio di questo secolo. Non vi è dubbio che Celso abbia utilizzato numerose fonti greche ed ellenistiche, come risulta dalle citazioni dell’autore e come ha rilevato tutta una serie di studi, da Wellmann 1913 a Schulze 1971, 485-505 (secondo cui la medicina romana è scarsamente originale) a una serie di contributi di Ph. Mudry e di altri studiosi moderni ; Wellmann  



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1895a, 25-26, n. 3, e 57 (in nota) e Probst 1908 passim suppongono la dipendenza di Celso dal De medicina delle Discipline di Varrone. La tesi che Celso sia un plagiario di Aufidio Siculo o di altri autori, già sostenuta da Marx 1915, lxxivciv, soprattutto lxxxiv-civ, e da Wellmann 1913, 4, ribadita da Wellmann 1917, 269-290, in particolare 287 e anche in seguito, non trova ormai credito presso gli studiosi moderni. Gli studiosi hanno evidenziato da tempo numerosi loci paralleli tra Celso e Ippocrate : cfr. De Renzi i 1951, 442-464 ; Wellmann 1913, soprattutto 10-26 ; Marx 1915, 433-435 ; Spencer Celsus iii, 624-627 ; Pazzini-Malato-TrifogliTavone Passalacqua 1958, 36 sgg., 71 sgg., 85 sgg., 135 sgg. Si veda anche Contino 1988, 43. Gli indici dovrebbero essere, nel loro insieme, originali. Discordanze tra indici e testo e problemi di vario genere o considerazioni di tipo linguistico sugli indici stessi così come ci sono pervenuti (cfr. Marx 1915 Proleg. xxiii) non possono, in linea di principio, far escludere la sostanziale autenticità di indici e lemmi (cfr. Sconocchia 1981, 59 n. 49 e Sconocchia 1987, 628). La lingua di Celso è abbastanza pura : evita ampollosità retoriche e troppo armoniose abbondanze di tipo asiano : lo stile è contenuto di solito in una oggettività tersa ed elegante che ricorda la limpida linearità di Cesare. Celso è considerato da antichi e moderni un buon prosatore, « il miglior esempio di prosa tecnica latina » (Parroni 1989, 488). In questo senso suonano i giudizi di antichi e moderni, da Quintiliano, Inst. 10, 1, 124 ; 12, 2, 21-24 che definisce la lingua dell’enciclopedista Celso non sine cultu et nitore (Inst. 10, 1, 124 ; cfr. Inst. 12, 2, 21-24), confrontandola con quella di altri scrittori tecnici del i sec. d.C. quali Mela, in cui l’artificiosità va spesso a scapito della chiarezza, e Plinio, cui si sono rimproverate obscuritas e duritas, agli umanisti (si ricordi l’appellativo di medicorum Cicero). Tra i moderni è paradigmatico il giudizio di Leopardi, Zibaldone 32, che sottolinea la semplicità e la facilità dello stile, per le quali si sarà discostato meno degli altri dal latino volgare (cfr. anche 949 ; 1938 ; 2729 ; 3627). In verità si nota lo sforzo di Celso, di scrivere in uno stile sorvegliato, compatibile con il genere prescelto. D’altro canto (vd. Parroni 1989, 489), che in Celso elementi del parlato e termini tecnici riconducono l’opera “nell’alveo comune delle lingue dei mestieri” (De Meo 1983, 227). È interessante il rapporto tra ‘eigene Anssprüche (Kultur)’ e ‘technisch Erfordernis  



























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celso

(Fachterminologie)’ (De Meo 1983, passim). Come altri scritti di medicina attinenti soprattutto al genere del manuale, il De medicina, che dipende spesso da fonti greche da cui Celso traduce e che, sotto diversi aspetti, appartiene al genere di letteratura che si potrebbe definire latino-greca, presenta caratteristiche importanti per lo studio della lingua latina : tecnicismi, grecismi – tra cui frequenti neologismi – nella patologia e nella terapeutica (prestiti, usati per così dire ‘assolutamente’ o accompagnati da perifrasi e calchi), diminutivi positivati ; volgarismi ; tratti peculiari altresì nel campo della sintassi dei casi (‘Rezeptnominativ’, ‘Rezeptakkusativ’, costrutti adnominali etc.). Non si hanno manoscritti antichi o tardoantichi di Celso. Il De medicina è menzionato solo due volte tra Quintiliano e il sec xv, nel 990 circa da Gerberto di Reims (papa Silvestro ii) e nel 1300 circa da Simone di Genova. Due dei tre mss. anteriori al sec. xv possono essere tenuti in conto per entrambe le menzioni : Paris. Lat. 7028 (P), sec. xi e Laur. 73, 1 (F), sec. ix. F venne alla luce nel 1427 e il Vatic. 5951 (V) fu copiato nel sec. xv. I testimoni noti derivano, secondo le ricostruzioni stemmatiche precedenti al ritrovamento del Toletano, da un unico archetipo, w, e si possono dividere in due classi : alla prima appartengono V, F, P, che contiene excerpta da V ; alla seconda il Laur. 73, 7 ( J), sec. xv, molto verosimilmente copia del Senensis (S), ms. scoperto a Siena nel 1426, ma smarrito quando Niccoli copiò, prima della fine del 1427, da esso J, poi corretto e completato dallo stesso Niccoli sulla base di F nel 1431. Per una coincidenza FV e J hanno lacune che si sovrappongono in 4, 27. La lacuna comune “sieht nichts auf den Archetypus zurück” : fu diagnosticata da Egnatius nel 1528, il contenuto divinato da Morgagni nel 1721 e la lunghezza calcolata da Marx. Il passo completo è ora tornato alla luce in un ms. che è stemmaticamente da collocare nell’ambito della tradizione, il Toletano 97, 12 (T), ora ritrovato per la prima volta, scritto da Jacobus de Hollandia nel sec. xv, secondo quarto, con testo più pieno e buono : la scoperta di T fu annunciata indipendentemente da Granados 1973 e Capitani 1974. Secondo Capitani la fine di T deriva da F, il resto da S in maniera indipendente da J. Lo stemma è, anche dopo il ritrovamento di T, incerto. Propongono un nuovo stemma Capitani 1976, 242, Granados 1977, 72, Contino 1988, 60. La dipendenza di Plinio da Celso, autore da lui  















frequentemente citato, in ampie sezioni della sua enciclopedia, oggetto di discussione tra gli specialisti, sembra per alcuni punti accertata. Relativamente al settore dell’agricoltura dipendono da Celso Giulio Grecino, Columella, che cita spesso Celso, Gargilio Marziale. Più in generale Columella e Gargilio, autori versati nell’ambito tecnico e scientifico, guardavano soprattutto al complesso delle discipline pratiche trattate nelle Artes (agricoltura, medicina, arte militare), che rappresentavano forse la parte più valida di un’opera che già nel titolo sembra indicare un prevalente indirizzo tecnico-pratico. Nella medicina ci sono punti di convergenza e numerosi loci similes tra Scribonio (vedi infra) e Celso. Quanto la medicina debba a Celso nell’età antica è noto ; per il Medioevo e il Rinascimento sono auspicabili più ampi e organici studi. Ignorato a lungo nel Medioevo, il De medicina fu riscoperto da Guarino Veronese nel 1426. Definito anche Latinus Hippocrates e medicorum Cicero, Celso è stato il primo autore medico la cui opera fu data alle stampe : anche di qui la sua immensa reputazione nel Rinascimento. La sua concezione armonica della cultura del medico ha contribuito in seguito a creare nella tradizione occidentale la figura di un medico colto e umanista, talora erudito raffinato, la cui scienza è garanzia, per pazienti e corpo accademico, di competenza professionale e armonia dello spirito. La sezione militare delle Artes è utilizzata da Vegezio nella sua epitome. Alla parte retorica attingono abbondantemente Quintiliano e, più tardi, Giulio Severiano e Isidoro di Siviglia. Per la filosofia si ricordi la presenza di Celso in Agostino. Münzer 1897, 65, è propenso a credere che Celso utilizzasse nei suoi scritti i Praecepta di Catone relativi all’agricoltura che poi sarebbero stati ripresi anche in Plinio e Columella. Nella Naturalis historia, Celsus è citato negli Indices degli Auctores (interni) per i libri 7, 8, 10, 11, 14, 17, 29, 31. Relativamente al ll. 28-32 Münzer 1897, 45, perviene al risultato che Celso « von Plinius nur an wenigen Stellen zugrunde gelegt ist, wo er Neues und Eigenes bot, und diese wenigen Notizen nur aus dem ii, iii und iv. Buche seine medizinischen Werkes stammen ». Una grande dipendenza di Plinio da Celso stabilisce Sepp 1893, 56. Anche Wellmann ritiene che Celso e Plinio abbiano entrambi attinto al l. 8 dell’enciclopedia di Varrone. Un altro accordo è indicato da Wellmann 1895a, 57 (in nota). Cfr. anche Münzer  







ceramica vascolare 1897, 41, nn. 1 e 204. Riferimenti costanti con Celso sono individuati da Contino 1988 nel l. viii De medicina. Per un confronto dei più importanti paralleli istituibili tra Celso e Scribonio cfr. Sconocchia 1985, 161-163, il Testimonialapparat di Marx 1915 e Kind 1897. Generalmente in modo positivo è interpretato il giudizio di Quint. 12, 11, 24 mediocri uir ingenio, ma forse senza un fondamento convincente (cfr. Capitani 1980). Tra Celso e Scribonio si segnalano numerosi punti di contatto, sia per la concezione moraleggiante della medicina, sia per i supporti dottrinari, sia nella definizione della prassi medica e delle cure effettive. Per Celso la medicina è determinante, per Scribonio sono irrinunciabili i medicamenti ; per Celso e Scribonio il medico deve possedere doti umane e morali, disponibilità d’animo e di amicizia, non deve essere avido di guadagno, deve essere cauto e prudente nei giudizi. Questa concezione morale dell’ars medica trova espressione piena nell’Epistula a Callisto, considerata una esaltazione della medicina e dei medicamenti e una difesa della dignità professionale, una Professio medici (cfr. Sconocchia 2000a). L’affermazione, molto simile in Celso (med. 5 Praef. 2 / 190 M) e in Scribonio 200, [13] è fondata su un ideale enciclopedico del sapere ereditato da Alessandria ma tipicamente romano (Cic. de orat. 3, 13 ne aveva fatto la base della paideiva). Le affermazioni ripetute dell’unità della medicina significano però, proprio per il fatto che si prova il bisogno di dirlo, che questa unità è venuta meno, o almeno che è fortemente minacciata. Galeno insisterà ancora su di essa (13, 604, 7 sgg. K), dopo più di un secolo ; ma, nello studioso di Pergamo, la componente dottrinale conterà meno della straordinaria degradazione sia scientifica che deontologica che la specializzazione ha, secondo lui, comportato nella professione medica. Resta il dato di fatto che, dopo il i sec. d.C. c’è una maggior tendenza alla specializzazione : si pensi alla letteratura dietetica di Gargilio Marziale, le Medicinae ex holeribus et pomis, in buona parte derivate da Plinio, o, per scendere al iv sec. d.C., a opere come Antonii Musae de herba Vettonica, Ps. Apulei herbarius, Anonymi de taxone liber e Sexti Placiti liber medicinae ex animalibus o ai Gynaecea di Sorano. Il criterio dell’opera di contenuto più generale con strutturazione a capite ad calcem prevale ancora, tuttavia, in Sereno Sammonico, nella cosiddetta Medicina Plinii, nella Physi 







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ca Plinii e, più tardi, in Marcellus Burdigalensis e Cassio Felice. Note. [1] Cfr. V (Vatic. 5951, sec. ix), explicit del l. 5. – [2] J (Laurent. 73, 7 sec. xv) e T (= Tolet. 97, 12 sec. xv) conservano Aurelius. – [3] Sulla questione si veda anche Contino 1988, 5-15 (per la biografia 13-19). – [4] Cfr. Rhodius 1655, 156. – [5] Cfr. Compositiones i. l. e c. 94 ; i. 171 ; i. 173 e c. 173). – [6] Cfr. anche Contino 1988, 31 e 35-41. – [7] Cfr. Contino 1988, 46-47. – [8] Cfr. Scarborough 1969, 23, 180, nn. 69-71. – [9] Cfr. Mudry 1982b, 186-187. – [10] Per cui vedi Mudry 1985 passim, soprattutto 329 e 332. – [11] Cfr. Mudry 1985, soprattutto 329 e 332 e passim ; si veda anche, infra, la trattazione su Scribonio Largo ; cfr. anche Mudry, 1982a, 68, che insiste sul fatto che le affermazioni ripetute dell’unità della medicina nelle sue tre parti, che si trovano in Celso (5 praef. 9 / 190 M), Scribonio (c. 200) e più tardi in Galeno (13, 604, 7 K) significano, per il fatto stesso che si prova il bisogno di dirlo, che questa unità è venuta meno, o almeno che è fortemente minacciata. Secondo Mudry 1985, 332 e passim, nondimeno, la terminologia di Celso e di Scribonio rivelerebbe non una tripartizione ma una bipartizione originaria che corrisponde alla divisione antica della medicina, attestata con precisione presso Eraclide di Taranto tra affezioni interne e affezioni esterne. – [12] Capitani 1975-1976, 449-518. – [13] Vd. →Farmacologia, 1.  







Edizioni. De Renzi 1851-1852 ; Marx 1915 ; Spencer 1935-1938.  



Bibliografia. Barwick 1960 ; Capitani 1974 ; Capitani 1975-1976 ; Capitani 1976 ; Capitani 1978 ; Capitani 1980 ; Capitani 1991 ; Cichorius 1922 ; Contino 1988 ; De Meo 1983 ; Granados 1973 ; Granados 1977 ; Lana 1953 ; Langslow 1994 ; Limmer-Krieglstein 1992 ; Mazzini 1999a, 4042 ; Mudry 1982a ; Mudry 1982b, 185-187 ; Mudry 1985 ; Mudry 1993b ; Mudry 1994 ; Münzer 1897 ; Pardon 2003 ; Pazzini-Malato-Trifogli-Tavone Passalacqua 1958 ; Rhodius 1655 ; Sallmann 1997 ; Scarborough 1969; Schulze 1971 ; Schulze 1999 ; Schulze 2001 ; Sconocchia 1981 ; Sconocchia 1985 ; Sconocchia 1987 ; Sconocchia 2002a, 329-338 e bibl. 355-357 ; Sepp 1983 ; von Staden 1994, 103-117 ; von Staden 1999b, 251-294 ; von Staden 2001c ; Wellmann 1895a ; Wellmann 1913 ; Wellmann 1917.  













































































Sergio Sconocchia Ceramica vascolare [keramikhv (scil. tevcnh), figulina]. Generalità. – I prodotti in ceramica hanno costituito nella vita quotidiana e negli aspetti documentari dell’antichità classica una

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ceramica vascolare

realtà di dimensioni così imponenti da rappresentare la gran parte dei reperti che adornano oggi i musei. Va detto comunque che la ceramica non era l’unico materiale per confezionare utensili e suppellettili, in quanto venivano usati anche, oltre ai metalli, il legno, la pelle, le corna di animali (che rappresentavano dei recipienti potori naturali), vimini e canne per costruire panieri e cestini, soprattutto nella vita di tutti i giorni e nel mondo pastorale. I contenitori fabbricati con materiali deperibili non sono giunti fino a noi, e di essi è possibile tentare un recupero o nelle stesse rappresentazioni vascolari o nelle citazioni letterarie. [1] 1. Ceramica greca. – Nella struttura portante del materiale ceramico, che era in un certo senso connesso all’alimentazione, elemento principale era il cerchio: infatti →asclepiade di mirlea, nel frammento Sulla coppa di Nestore (conservatoci da Ath. 11, 489 c), ricorda quale fu l’origine della forma delle suppellettili da tavola : « Gli antichi, convinti che il mondo fosse di forma sferica ed avendo ricavato dalla forma del sole e della luna le loro particolari idee, ritenevano che fosse giusto soltanto costruire per il loro nutrimento suppellettili che avessero una forma uguale alla struttura circolare della terra…facevano le mense circolari e i tripodi…e figure rotonde come focacce, chiamate lune… così anche le coppe contenenti nutrimento liquido le facevano circolari ad imitazione dell’universo ». Nell’arco di sviluppo della produzione ceramica greca, che ha inizio già nel xii secolo in ambito miceneo, [2] si distinguono sei diversi momenti, con caratteristiche stilistiche e formali differenti : a) stile protogeometrico ; b) stile geometrico ; c) stile orientalizzante ; d) ceramica a figure nere ; e) ceramica a figure rosse ; f ) ceramica ellenistica. La più imponente esplosione del fenomeno ceramico avviene in Attica, tanto che con l’espressione “griechische Vasen” si è inteso indicare i vasi (Gefässe) provenienti da Atene e dal suo territorio e prodotti nei secc. vi e v a.C., nel cui ambito è perfino stato problematico per alcun tempo l’inserimento o meno di vasi con caratteristiche greche prodotti nel sud d’Italia o in Etruria. [3] Inoltre è proprio in questo contesto cronologico e geografico che la produzione della ceramica perde la connotazione di semplice artigianato funzionale alla produzione di utensili e suppellettili e approda ad una dimensione artistica.  























1.1. Tipologie. – Il ruolo fondamentale rivestito dai prodotti in ceramica si può rilevare dalla varietà delle tipologie esistenti e dalle differenti interpretazioni moderne delle stesse. [4] I vasi erano infatti utilizzati, a seconda delle misure, della forma e della qualità, in tutti i momenti della vita quotidiana, privata, sociale, religiosa, commerciale. a) Vasi per contenere e trasportare (anche sulle navi che commerciavano sulle sponde del Mediterraneo) derrate alimentari costituite sia da liquidi che da aridi : amphoreus, pithos, stamnos. b) Recipienti utilizzati come unità di misura. In generale, tutti i recipienti per contenere e trasportare, ma anche alcune tipologie di coppe, potevano essere utilizzati come unità di misura per aridi e per liquidi. c) Vasi per attingere l’acqua dalle fonti e trasportarla : hydria, kalpis. d) Vasi da fuoco : lebes, tripous. e) Vasi da toilette : aryballos, alabastron, epinetron, lekythos. f ) Vasi rituali per le libagioni (spondai) : spondochous, phiale, plemochoe. g) Suppellettili da tavola : coppe (per bevuta singola e bevuta collettiva), piatti, piatti decorativi da portata. h) Strumenti del simposio. Una osservazione a parte meritano le suppellettili utilizzate in quella pratica tutta attica del simposio. In esso, oltre ad una notevole varietà di coppe che sarebbe impossibile elencare, ma di cui le più famose (oltre all’omerico depas, ormai solo un ricordo archeologico) sono la kylix, il kantharos, lo skyphos, la kotyle e la phiale, troneggiavano tre recipienti : la brocca che conteneva il vino (oinochoe), il vaso per l’acqua (hydria), il cratere (krater). Capolavoro quest’ultimo dei maestri ceramisti, costituiva il centro ideale e spaziale del simposio attico, simbolo della ideologia della temperanza, dove l’acqua unita al vino si mescolava per evitare gli eccessi, e consegnare i simposiasti ad una sobria ebrietas. Attraverso questi contenitori e la ‘liturgia’ del simposio si realizzò quello che venne chiamato il ‘modo attico di bere’, modello dei Sofisti a banchetto di Ateneo ancora nel ii sec. d.C. : una netta linea di demarcazione segnò la differenza tra il mondo civile, che aveva fatto dell’assunzione del vino un momento di elevazione culturale attraverso la conversazione filosofica, la poesia e la musica, e le popolazioni periferiche,  

















ceramica vascolare che bevevano vino puro in grandi quantità e si abbandonavano smodatamente agli eccessi dell’ubriachezza. Inoltre, grazie alle loro scene figurate, questi capolavori dell’arte ceramica offrono una serie di contesti ‘narrativi’ visivi, che costituiscono un unicum per la ricostruzione di molti aspetti della società greca. 1.2. Nomenclatura. – L’inquietante problema della nomenclatura dei vasi può essere riassunto nel difficile tentativo di combinare la varietà delle forme pervenute con la non meno imponente e per gran parte non necessariamente coincidente varietà terminologica. Il problema era stato posto già dalle fonti antiche : nel suo vocabolario enciclopedico, intitolato Onomasticon, Polluce ha dedicato una lunga sezione ai nomi dei vasi (Poll. 6, 95-100) ed altrettanto ha fatto Ateneo, nei Sofisti a banchetto (Ath. 11, 782d-503). I tentativi ‘moderni’ di organizzare un lessico dei vasi risalgono a Budé 1515. È in corso di completamento il Lexicon Vasorum Graecorum, diretto da radici colace 1992-2005, di cui sono stati già pubblicati cinque volumi. Il Progetto mira a costituire la più completa banca-dati mai realizzata della terminologia vascolare, trattando non soltanto i vocaboli designanti le forme ceramiche già canonizzate in archeologia, ma in generale quelli relativi ad ogni tipo di contenitore ed alle misure di capacità, ai contenitori strettamente correlate. Per ciascun lemma è proposta una rigorosa analisi dell’uso linguistico in senso diacronico e sincronico, che superi perciò l’impiego convenzionale comunemente invalso per alcuni termini e ristabilisca il corretto rapporto tra nomen e res. La raccolta ha raggiunto l’imponente numero di circa 2300 lemmi che lungo tutto l’arco di vitalità della lingua greca, nel tempo e nello spazio, hanno designato dei ‘vasi’ nel senso più ampio di ‘contenitori’di ogni genere, tipo e dimensione : ciò consente di quantificare l’importanza di tale realtà nel contesto linguistico e culturale generale, di definirla, attraverso l’individuazione della motivazione linguistica, di misurarla attraverso l’impegno dei parlanti nella lessicalizzazione. 1.3. Tecniche. – Nella fabbricazione dei vasi tre erano le operazioni essenziali : a) la preparazione dell’argilla, b) la lavorazione, c) la cottura. Tutte le tecniche di decorazione erano successive a questi tre momenti. Poco sappiamo circa i componenti dell’impasto argilloso : l’argilla veniva attentamente purificata, attra 







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verso una fase di lavaggio, da tutti gli elementi estranei per poi essere impastata, pestando i materiali con i piedi, con acqua e altre varie sostanze. Una volta ottenuto l’impasto, si passava alla fase di modellamento, che poteva essere effettuato a mano, soprattutto nei periodi più antichi, al tornio, la tecnica più diffusa in Grecia a partire dal 700 a.C., o, più raramente, in stampi, soprattutto per i vasi in forma di testa umana o animale. Dopo esser stato modellato in argilla umida, il vaso veniva sottoposto ad essiccazione ed era poi ulteriormente levigato, raschiato e rifinito per mezzo di arnesi taglienti. I vasi più piccoli, soprattutto al tornio, erano fatti in un unico pezzo, mentre i più grandi erano costituiti da più sezioni unite successivamente ; alla fine venivano attaccate le anse fatte a mano. In seguito ad un’ulteriore essiccazione, infine, il vaso era cotto in forno. Il manufatto così ottenuto era poi decorato con pitture o incisioni. Per i vasi dipinti era prevista una seconda cottura, effettuata quando già la pittura era stata applicata sul vaso, allo scopo di fissare il colore. Nella tecnica delle ceramiche a figure nere il disegno era tracciato sul fondo rosso dell’argilla con il colore nero, ottenuto da un impasto di acqua e argilla arricchita di ossidi di ferro. Con uno strumento appuntito che svelava l’argilla sottostante si incidevano i dettagli delle figure ; infine si completava la decorazione con i colori accessori rosso e bianco. Nella più tarda tecnica a figure rosse le immagini si ottenevano in rosso, su fondo nero. I particolari e i contorni delle raffigurazioni o di parte di esse erano invece evidenziati da linee sottili cui si accompagnava spesso un tocco più intenso di colore. Da ultimo erano aggiunti i particolari in altre colorazioni. Nella produzione attica del v secolo si diffonde l’uso di colori a tempera come il rosso, il giallo, l’azzurro, il verde, utilizzati principalmente su vasi a fondo bianco (ottenuti con l’applicazione di un’argilla bianca liquida) soprattutto nella resa delle stoffe o di altri particolari. In età ellenistica trova ampia diffusione la decorazione a rilievo, in applique o à la barbotine. I rilievi erano ottenuti stendendo sul vaso già modellato un impasto di argilla liquida con cui si modellavano le figure dipinte, poi, con colori a tempera. In alcuni casi i rilievi erano formati separatamente e applicati sul vaso per mezzo di creta sciolta. Una menzione a parte merita la tecnica dei vasi megaresi (iii sec. a.C.), che si avvaleva  



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cereale

della combinazione del tornio e di forme per impressione. 2. Vasi provenienti da area non greca in metallo. – Si tratta di coppe grandi e per lo più preziose. La capienza del recipiente si giustifica per il motivo, ben noto, della smodatezza mostrata dai ‘barbari’ in ogni loro atteggiamento, compreso il momento del bere. Per quanto riguarda il materiale prezioso, con cui spesso risultano fabbricate tali coppe, la risposta è quella che si danno i commensali nei Sofisti a banchetto (Ath. 6, 231 c-d) : i metalli più preziosi erano presenti in maggiore abbondanza nelle zone periferiche e barbare come la Persia, la Macedonia, la Tracia, mentre nel mondo ellenico era quasi del tutto assente l’oro ; anche l’argento in Grecia era molto scarso e le famiglie considerate più ricche non possedevano suppellettili, coppe e piatti d’argento ma solo di bronzo (chalkos), che custodivano in chalkothekai (‘teche’ per oggetti di bronzo). Tuttavia, nel tempo, anche le ricchezze delle terre periferiche si erano ridotte : in Egitto, per esempio (Ath. 6, 231 e-f ) il giovane sovrano Psammetico libava agli dei in coppe di bronzo mentre i suoi predecessori avevano usato coppe d’argento, e a Delfi, nel tempio di Apollo, le offerte votive (anathemata) dell’epoca di Gige re di Lidia erano tutte d’oro e di argento, ma i re della sua dinastia successivamente fecero molta fatica a procurarsi tali metalli. 3. Ceramica romana. – La grande qualità della ceramica greca, scoperta dai romani sia attraverso le transazioni commerciali che, in maggiore quantità, durante le razzie della presa di Corinto da parte dei soldati di Lucio Mummio (146 a.C.), determinò, oltre alla definizione di nekrokorinthia data ai vasi greci di Corinto scoperti nelle necropoli (Str. 8, 6, 23), un acceso collezionismo e un prestigio notevole della ceramica greca, in particolare corinzia, del cui possesso si fregiavano imperatori e neoarricchiti (vd. Trimalchione nel Satyricon di Petronio). Per quanto riguarda invece la produzione originale, la ceramica romana sviluppa nei prodotti più pregevoli modelli decorati con rilievi, già presenti nel periodo ellenistico ed ulteriormente raffinati da nuove tecniche (vernici di nuova composizione, argilla ben depurata, maggiore sottigliezza delle pareti) e da varietà dei profili e complessità delle sagome. Accanto a questa ‘produzione di lusso’ si registra la presenza di numerosi esemplari di sup 





pellettili prive di decorazione o scarsamente decorate. Per le caratteristiche e l’onomastica dei vasi romani, vd. Hilgers 1969. Note. [1] Radici Colace 1997e, 322-327. – [2] Furumark 1941. – [3] Boardmann 1984, 31. – [4] Si veda la suddivisione operata da Dugas-Pottier 1907 in vasi “employés à boire à table”, vasi “destinés à conserver les liquides”, vasi “servant à la toilette”, “pour l’emploi dans les cérémonies religieuses”, “dans les cérémonies nuptiales”, “dans les rites funèraires”. Sulla proposta di altre classificazioni vd. anche Amyx 1958, Scheibler 1978, c.689. Bibliografia. Amyx 1958 ; Beazley 1956 ; Beazley 1963 ; Boardmann 1984 ; Budé 1515 ; DugasPottier 1907 ; Furumark 1941 ; Hilgers 1969 ; Jackson-Greene 2008 ; Radici Colace 1992-2005 ; Radici Colace 1997e ; Scheibler 1978 ; Villard 1956.  























Paola Radici Colace Cereale [cerealis, ‘attinente alla dea Cerere’]. Denominazione generica di qualsiasi grano o frutto edibile, in specie di Graminacee, che, come tale o sotto forma di derivato, possa essere usato come alimento. Oltre alle piante, il termine indica il loro prodotto di granella già raccolto. I cereali più importanti sono : il frumento o grano, il riso, il mais o granoturco, l’orzo, l’avena, la segale, il sorgo o saggina ; sono coltivati meno estesamente il miglio, il miglio perlato, il panico indiano, il tef ed altre graminacee nei paesi caldi. La coltura dei cereali (cerealicoltura) è la più diffusa delle colture agrarie. I cereali sono coltivati prevalentemente per ricavarne farina (panificabile [→pane] o no) o un alimento diretto per l’uomo (riso) o per gli animali (mais, avena, orzo) ; per l’alimentazione degli erbivori domestici i cereali contribuiscono con i loro sottoprodotti, come paglie, pule, e soprattutto foraggio (mais) ; importante è anche l’uso dei cereali nelle industrie per la preparazione di birra, amido, olio, carte e cappelli. 1. Origini del termine e coltivazione. – Già in osco-umbro si trova un aggettivo derivato *kerrios, cersus e Kersus in latino arcaico (vd. Ernout-Meillet 1959, s.v. cerus). Alcuni etimologi collegano questo lemma con il concetto di ‘genio’, ‘dio’, applicato poi per evoluzione semantica alla dea del raccolto. Comunemente accettato è invece il collegamento con le offerte votive (Ov. fast. 4,507 munera cerealia) dedicate in processione alla dea Cerere, in ricordo forse dell’uso che la dea ne fece per  







cereale superare il dolore della perdita della figlia Proserpina o in ricordo del mitico legislatore e re di Eleusi Trittolemo che apprese l’agricoltura da Cerere e la diffuse in Attica (ib. 4,547). Cerealia erano chiamate le feste stesse in onore di Cerere organizzate dal dictator o dal magister equitum alle idi di Aprile : le matrone, vestite di bianco, celebravano in processione il dolore della dea per la perdita della figlia. Cesare introdusse due duoviri (Pomp. dig. 1,2,2,32 aedilis cerealis) addetti all’annona, alla distribuzione di frumento al popolo in caso di necessità ed all’organizzazione dei ludi nel circo, testimoniati largamente dalle iscrizioni. I cereali, detti in epoca romana metonimicamente frumenta poiché il grano o frumento ne costituiva la specie più diffusa, erano suddivisi in invernali (frumenta hiberna) ed estivi (frumenta aestiva). In area italica i periodi di semina erano determinati in inverno dal tramonto delle Pleiadi – semina di tritico ed orzo – ed in estate dal sorgere delle Pleiadi – semina di miglio, panico, sesamo, ormino ed irio. In area asiatica e greca invece tutte le semine avvenivano indistintamente dopo il tramonto delle Pleiadi (Plin. nat. 18,48). Tutti i cereali, eccetto orzo e grano, sviluppano radice e fiore dalla stessa parte del seme. Il frutto è contenuto in spighe ed è difeso dal vallo delle reste contro uccelli e piccoli insetti – tritico ed orzo – oppure è contenuto in capsule – panico –. All’altezza del terzo o quarto nodo inzia a formarsi la spiga e dopo quattro o cinque giorni inzia la fioritura che dura per altrettanti giorni, fino alla sfioritura, momento in cui i cereali si ingrossano e maturano per massimo quaranta giorni, con qualche differenza topografica – ad esempio in Egitto l’orzo si miete nel sesto mese dopo la semina, in Grecia nel settimo –. Normalmente i chicchi si formano in 36 giorni e vengono mietuti otto mesi dopo. 2. Le singole specie. a. Molto note nell’antichità greco-latina. – Frumento [si`to~, frumĕntum]. Nome delle piante appartenenti al genere triticum, le quali forniscono le cariossidi dette anch’esse f. ; più comunemente si usa il sinonimo grano. Il luogo di origine del frumento è ancora oggetto di discussione scientifica. All’interno dei frumenta si inserisce il problema dell’identità del farro o spelta (semen, ador) che spesso viene confuso con il grano. Difficile è stabilire quando questo indistinto cereale sia arrivato nella Penisola, ma certamente costituì il cibo tradizionale dei popoli Italici (primus an 



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tiqui latii cibus). Inoltre l’istituto giuridico-religioso che presiedeva ai matrimoni dei patrizi, la confarreatio, e l’usanza di premiare un soldato vittorioso con una focaccia di farro, adorea, conferiscono a questo cereale una sua autonomia. La classificazione più attendibile fino a Linneo rimase quella di Columella, il quale suddivideva i frumenta in triticum che a sua volta venne distinto in triticum propriamente detto e far o semen adoreum o ador, distinzione moderna tra grani nudi e grani vestiti. Il triticum viene suddiviso poi in : robus pesante e brillante ; siligo, bianca ma molto leggera ; trimestre, cioè frumento marzuolo. In Plinio invece queste tre specie distinte vengono citate come varietà di un’unica specie, il Triticum appunto, da contrapporre essenzialmente al far ed alla siligo. Inoltre la botanica moderna conferma quanto le fonti antiche affermano riguardo alla convertibilità delle specie : frumenti invernali o primaverili possono essere convertibili tra di loro se sottoposti a peculiari modi di coltivazione. Orzo [kriqhv, hordeum, horreo]. Nell’antichità si trova soprattutto in due specie : orzo con chicchi disposti su sei file (hordeum hexastichium) ed orzo con chicchi disposti su due file (hordeum distichium) (Colum. 2,9,14-16), alle quali si aggiunge poi l’hordeum vulgare o quadrato, in cui la spiga sembra avere 4 file di granelli. Per le prime due specie si hanno testimonianze neolitiche, grazie ai relitti di palafitte dell’Italia settentrionale e della Svizzera. Fu da sempre utilizzato non solo per scopi alimentari ma anche medicamentosi. Le sue origini risalgono forse però all’Asia sud-occidentale dove si trova in forma spontanea. Ma è oggi presente in gran quantità anche in Africa settentrionale ed Estremo Oriente. Utile per la preparazione di birra (malto), alcool ed amido. Miglio [melivnh, milium]. Termine di provenienza greca per alcuni, per altri derivato dalla somma dei nummi equivalente a mille (Varr. l.l. 5,106). Spesso il miglio ed il panico nell’antichità vengono assimilati, poiché hanno molte caratteristiche in comune ; anche la terminologia non si differenzia di molto : panicum miliaceum, il vero e proprio miglio ed il panicum italicum (Cat. agr. 6,1 ;132,2 ; Colum. 2,7,1). Il panico è così chiamato per le sue pannocchie (paniculae), per le quali la cima si incurva e lo stelo si fa sempre più sottile. È il cereale più produttivo : un grano corrispondeva a tre sestarii (sextarii). Il luogo di origine è ancora discusso ma si pro 



















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cervello

pende per l’Asia centro-orientale per il miglio e per l’Asia orientale per il panico. Presso i Greci i due cereali non dovettero essere molto utilizzati se alcune fonti ne parlano come specie di cui si nutrivano le popolazioni barbariche. I latini invece li utilizzarono fin dall’età della pietra e figura sempre tra le colture consigliate (Cat. agr. 6,1). Il miglio era finalizzato a diversi usi : macerando il seme di miglio maturo ed il gambo, filtrandolo dopo sette mesi di riposo, si ricavava un vino (Plin. nat. 14,101, benché rimangano dubbi di identificazione con questo cereale) ; i popoli dell’Italia preparavano con esso anche un pane dolce (Plin. nat. 18,100 : praedulcis) ; era utile per la conservazione delle mele (Plin. nat. 15,63) e per la produzione di lievito (Plin. nat. 18,102) ; entrambi i cereali erano utilizzati per la preparazione di una «farinata» (Plin. nat. 18,54 : puls), una miscela di farro, miglio, acqua e latte, la cui diffusione nel Lazio potrebbe essere addirittura precedente al pane. Il miglio veniva spesso anche venduto macinato o integro, come viene ricordato nell’Editto dei prezzi di Diocleziano (iii/iv 1.4 : milium pistum, milium integrum). Cfr. anche il proverbio moram si quaeres, sparge milium et collige (cil iv 2069) per coloro i quali vogliono crearsi un problema anche quando non ne hanno. b. Specie poco note all’antichità greco-latina. – Segale. È originaria dell’Asia sud-occidentale, derivata dalla varietà spontaneum dell’Asia Minore. Diffusasi in Europa centrale è passata poi all’Europa meridionale forse all’inizio della nuova era. Con molta probabilità sconosciuta ai Greci, i Romani ne vennero forse a contatto dopo le conquiste al di là delle Alpi (infatti né Columella, né Catone, né Plinio ne parlano). In Italia è coltivata soprattutto in montagna dove il frumento non sarebbe redditizio. La segale è infatti più resistente al freddo e sopporta terreni alluvionali, sabbiosi o poveri. Se ne conoscono varietà invernali (comuni) e primaverili (marzuole). Avena [Avena sativa]. Originaria delle civiltà orientali, fu nota ai popoli greci e latini soprattutto come erba sterile e nociva fino a quando non entrarono in contatto con i popoli a nord delle Alpi, dove veniva utilizzata sia come foraggio animale e talvolta anche per la nutrizione umana. Sorgo [Syricum (granum)]. L’introduzione in Italia dovette avvenire solo all’inizio dell’Era  













volgare, raccogliendo poca fortuna, forse poiché l’agricoltura italica possedeva già altri cereali panificabili. c. Sviluppo e diffusione dei cereali. – Dai primi secoli dell’era volgare le località di coltivazione cominciano ad estendersi, in un primo tempo a seguito del contatto tra Europa settentrionale e meridionale, in un secondo tempo a seguito degli spostamenti delle migrazioni dei popoli orientali. Nel Medioevo il diverso influsso del lavoro agricolo sulla vita economica delle popolazioni e il nuovo peso via via acquisito dalle città mutano ovviamente anche le condizioni agricole ed alcune colture vengono preferite ad altre – anche per l’utilizzo di nuovi strumenti agricoli. Dal Rinascimento in poi assistiamo all’introduzione di nuove colture in campo europeo e al lento crearsi di un nuovo approccio verso l’agricoltura dei cereali, sempre più scientifico. Inizia la ricerca delle origini e lo studio botanico delle singole piante, finalizzata a sempre nuovi miglioramenti con l’aiuto delle nuove macchine. La colonizzazione ottocentesca, la nuova industria ed il nuovo stile di vita mondiale ha poi portato mutamenti anche in questo settore, indirizzandolo sempre maggiormente verso una produzione di massa per i grandi mercati nazionali e mondiali. Bibliografia. Cracco Ruggini 1995 ; De Martino 1979 ; De Martino 1984 ; Oliva 1930.  





Matilde Serangeli Cervello [ejgkevfalo~, cerebrum]. 1. Anatomia. – Questo organo giuoca, nella medicina antica, accanto al cuore, un ruolo fondamentale per il chiarimento dei processi psicofiosiologici. Insieme con il cuore, suscita grande interesse. Fin dai tempi più antichi, si è intuita la sua connessione con l’attività del pensiero, anche se non con la linearità e l’evidenza che ci si sarebbe potuti aspettare : si pensi che, ad es. per Aristotele, sede dell’attività intellettuale è il cuore e non il cervello. Le sue caratteristiche anatomico-funzionali vengono scoperte e dimostrate progressivamente, per tappe successive. Presso →Anassagora[1] e →Alcmeone di Crotone[2] è il luogo delle sensazioni, per→Filolao di Taranto[3] il principio vitale dell’uomo. La maggior parte degli autori ippocratici[4] ritengono il cervello organo centrale dell’attività intellettuale e psichica. Il cervello è il « trasmettitore » (gr. her 





cervello meneus) dell’aria che si va trasformando nella forza del pensiero (cfr. phronesis). [5] Così una scossa del cervello ha per effetto incoscienza. [6] È composto di due parti : sono note le meningi e le connessioni con il midollo spinale, come è detto anche in Hp. Carn.[7] : « il midollo cosiddetto dorsale ha origine nel cervello […] per questo la denominazione di ‘midollo’ non sarebbe corretta : infatti non è simile all’altro midollo, come negli altri ossi ». Si distinguono appunto cervello e cervelletto : l’organo è rivestito di due membrane, dura e pia madre. Il cervello regola anche come grande ghiandola l’umidità eccedente nei corpi rimanenti ; [8] c’è connessione con l’epilessia. Aristotele conosce anche il cervelletto, come parenkephalís. [9] Pur essendo il più grande biologo dell’antichità, è autore, relativamente al cervello, organo nascosto in una scatola ossea, e la cui struttura, con i suoi avvolgimenti, non suggerisce affatto le funzioni esercitate, di errori davvero clamorosi. Lo scienziato attribuisce erroneamente la sede di percezione, pensiero ed emozione all’organo centrale del cuore, come fonte del sangue caldo e principio di vita. [10] Assegna al cervello una funzione di organo preposto a temperare e regolare il calore della regione cardiaca, [11] cosa che è certamente sbagliata, anche se è, per così dire, un passaggio obbligato. Inoltre il cervello regola con i suoi freddi veglie e sonni. Tre condotti portano dal cervello al cuore. Il cervello non ha nessuna connessione con gli organi di senso. Tra tutti gli esseri viventi l’uomo ha il cervello più grande ; il cervello degli uomini è più grande del cervello delle donne. [12] Una conoscenza sistematica per l’anatomia del cervello è presente in →Erofilo ; lo scienziato descrive le quattro camere cerebrali (gr. koiliai), [13] la confluenza dei vasi venosi [14] e i nervi del cervello. [15] Per →Erasistrato, come attestato in →Galeno, [16] « l’encefalo somiglia all’intestino digiuno e molto intrecciato ; più intrecciato ancora è il cervelletto, che è costituito da molti e diversi avvolgimenti […] l’uomo, proprio in quanto superiore agli altri esseri viventi nell’intelletto, è fornito di un cervello molto intrecciato ». Buona conoscenza anatomica del cervello dimostra anche →Rufo[17] che distingue con precisione le meningi, più spessa quella vicina all’osso e più sottile quella vicino all’encefalo, ma nondimeno resistente ; distingue inoltre la parte per così dire ‘varicosa’ del cervello dalla parte sottostante o ‘base’. Conosce bene anche  









































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il parencefalo e i nervi sensitivi e motori, sede della sensibilità e di ogni movimento e di ogni nostra azione. Galeno definisce come parti del cervello le due parti di cervello e il cervelletto, che sovrasta il punto di confluenza del midollo spinale. [18] Lo scienziato di Pergamo descrive la mollezza della meninge con il moderno concetto di falx cerebri ; separa ancora attraverso una nuova duplicazione (gr. diplōsis, modern. tentorium cerebelli) il cervello e il cervelletto. [19] Descrive inoltre la confluenza dei vasi sanguigni . [20] Inoltre dimostra attraverso esperimenti su animali e vivisezioni, che non è il cuore, ma il cervello a giuocare un ruolo centrale di guida (gr. hēgemonikon) del corpo. [21] Lo scienziato localizza anche nei quattro ventricoli del cervello (gr. koiliai tou enkephalou ; il quarto ventricolo è il cosiddetto calamus scriptorius) il centro di controllo di tutti i processi fisiologici, cioè anche della percezione dei sensi e della scelta dei movimenti. [22]  











Note. [1] D.-K. 59 A 108. – [2] D.-K. 24 A3. – [3] D.K. 32 B13. – [4] Cfr. Morb. sacr. 3/ 6, 366 L. – [5] Hp. Morb. sacr. 16, 1 / 6, 390 L. – [6] Hp. Aph. 7, 58/ 4, 594 L ; Coac. 4, 28, 489 /5, 696 L. – [7] Hp. Carn. 4 / 8, 588 L : cfr. anche Mazzini 1997, 213-214 – [8] Hp. Gland. 10 / 8, 564 L. – [9] HA 1, 16, 494 b 32. – [10] PA 2, 1, 647b 4 sg. ; 3, 4, 666 a 11-13 ; 21, sg. – [11] PA 2, 7, 652 b 19-21 ; 4, 10, 686 a 9 sg. – [12] PA 2, 7, 652b 4 sg., 653 a 27-29. – [13] T 137 von Staden. – [14] T 122 ; 123 von Staden. – [15] T 82 von Staden. – [16] Plac. Hp. et Pl. 7, 3 / 5, 603 K : cfr. anche Mazzini 1997, 214. – [17] Cfr. ad es. appell. 147-151 /153 DR. – [18] Us. part. 8, 6 / 3, 636-638 K. – [19] Anat. admin. 9, 1 / 2, 708 K. – [20] modernamente torcular Herophili ; cfr. Us. part. 9, 6/ 3, 708-709 K. – [21] Plac. Hp. et Pl. 1, 6-7 sg. / 5, 186 sgg. K. – [22] Us. part. 8, 10 / 3, 663 K.  















Fonti. D.-K. 24 A 3 ; D.-K. 32; B13 ; D.-K. 59 A 108; Hp. Aph. 7, 58/ 4, 594 L ; Coac. 4, 28, 489 / 5, 696 L ; Morb. sacr. 16, 1 / 6, 390 L ; Carn. 4 / 8, 588 L ; Hp. Gland. 10 / 8, 564 L ; cfr. Morb. sacr. 3/ 6, 366 L ; Arist. HA 1, 16, 494 b 32 ; pa 2, 1, 647b 4 sg. ; 3, 4, 666 a 11-13 ; 21 sg. ; pa 2, 7, 652 b 19-21 ; 4, 10, 686 a 9 sg. ; pa 2, 7, 652b 4 sg., 653 a 27-29 ; Herophil. T 82 von Staden. T 122 ; 123 von Staden, T 137 von Staden ; Ruf. appell. 147-151 /153 D. Gal. Anat. admin. 9, 1 / 2, 708 K ; Us. part. 8, 6 / 3, 636-638 K ; 8, 10 / 3, 663 K ; 9, 6/ 3, 708-709 K ; Plac. Hp. e Pl. 1, 6-7 s. / 5, 186 sgg. K ; Plac. Hp. et Pl. 7, 3 / 5, 603 K.  











































Bibliografia. Clarke 1963 ; Clarke-Stannard 1963 ; Manzoni 2001 ; Manzoni 2007; ManuliVegetti 1977 ; Mazzini 1997, 213-214 ; Oser Grote 2004, 183-194 ; Rocca 2003 ; von Staden 1989.  













Sergio Sconocchia

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cheremone di alessandria

2. Fisiologia. – Il Corpus Hippocraticum attribuisce al cervello numerose funzioni : dalla sede dell’intelligenza, prodotta in qualche modo dall’aria che vi arriva, all’elaborazione dei sentimenti. [1] Come organo freddo e umido distribuisce ed attira le umidità del corpo, produce flussi di flegma e risente dei cambiamenti dell’aria e delle stagioni. In età ellenistica memorabile è la tesi erasistratea del rapporto esistente tra lo sviluppo dell’intelligenza dell’uomo e la maggiore complessità delle circonvoluzioni cerebrali rispetto agli animali. [2] Erofilo d’altronde aveva individuato per la prima volta il sistema nervoso e chiarito il rapporto fra cervello e nervi, separati fra motori e sensitivi, pur con ampie lacune. Nella sintesi galenica [3] il cervello è sede dell’anima razionale e delle sue facoltà e operazioni, governa le azioni volontarie e le sensazioni inviando sensibilità e movimento attraverso i nervi.  





Note. [1] Hp. Morb. Sacr. 14 / 6, 386-388 L ; 17 / 6, 392-394 L. – [2] Erasistr. fr. 289 – [3] Gal. San. tu. 1, 13 / 6, 73 K.  

Fonti. D.-K. 24 A 3 ; D.-K. 32 B13 ; D.-K. 59 A 108 ; Hp. Aph. 7, 58/ 4, 594 L ; Coac. 4, 28, 489 / 5, 696 L ; Morb. sacr. 14 / 6, 386-388 L ; 16, 1 / 6, 390 L ; 17 / 6, 394 L ; Carn. 4 / 8, 588 L ; Hp. Gland. 10 / 8, 564 L ; cfr. Morb. sacr. 3/ 6, 366 L ; Arist. HA 1, 16, 494 b 32 ; pa 2, 1, 647b 4 sg. ; 3, 4, 666 a 11-13 ; 21 sg. ; pa 2, 7, 652 b 19-21 ; 4, 10, 686 a 9 sg. ; pa 2, 7, 652b 4 sg., 653 a 27-29 ; Herophil. T 82 von Staden ; T 122 ; 123 von Staden ; T 137 von Staden, Ruf. appell. 147-151 /153 DR ; Gal. Anat. admin. 9, 1 / 2, 708 K ; Us. part. 8, 6 / 3, 636-638 K ; 8, 10 / 3, 663 K ; 9, 6/ 3, 708-709 K ; Plac. Hp. et Pl. 1, 6-7 sg. / 5, 186 sgg. K ; 7, 3 / 5, 603 K ; 8, 1 / 5, 650 K ; San. tu. 1, 13 / 6, 73 K ; Meth. med. 1, 10 / 10, 635-636 K.  



























































Bibliografia. Clarke 1963 ; Clarke-Stannard 1963 ; Manzoni 2001 ; Manzoni 2007; ManuliVegetti 1977 ; Mazzini 1997, 273-275 ; Oser-Grote 2004, 183-194 ; Rocca 2003 ; von Staden 1989.  













Fabio Cavalli Cheremone di Alessandria. – Vissuto nel i sec. d.C., nacque da famiglia forse di origini greche. [1] Fu un filosofo stoico e pare che abbia diretto la famosa biblioteca di Alessandria. Fu maestro di Nerone[2] e lasciò scritti sulla religione e la storia dell’Egitto. I suoi interessi comprendevano, oltre alla filosofia, la grammatica (studiò anche la scrittura geroglifica) e l’astrologia. In ambito astrologico scrisse un  

libro sulle comete alle quali, contrariamente alle credenze comuni, attribuiva un significato predittivo propizio. [3]  

Note. [1] Frede 1989, p. 2067. – [2] Frede 1989, 2080. – [3] Orig. Cels. 1, 59. Bibliografia. Gundel-Gundel 1966, 154 sg. ; Van der Horst 1984 ; Urso 2002, 114.  



Carmelo Lupini Chirurgia [ceirourgiva, chirurgia, lett. «opera delle mani»]. 1. Introduzione. – La chirurgia è attestata, almeno nel significato particolare di interventi per fratture o ferite, fin da tempi molto antichi. Interventi chirurgici sono attestati già per l’antico Egitto, come possono comprovare riscontri paleopatologici su mummie o ritrovamenti e rappresentazioni di strumenti chirurgici o fonti scritte, soprattutto papiracee. La chirurgia era praticata anche nel vicino Oriente. Erodoto [1] attesta la presenza e l’attività di medici egiziani presso Ittiti di rango reale. Nei testi di medicina della Mesopotamia la chirurgia è appena nominata; tuttavia, nel Codex Hammurabi, così denominato dal re babilonese (§§ 215-219), sono registrate retribuzioni per un trattamento coronato da successo per fratture, come pure provvedimenti punitivi relativi a interventi chirurgici non riusciti. Nel mondo greco sono attestati, a differenza della dietetica, progressi fondamentali di questa branca della medicina : come vedremo infra fonti principali sono il Corpus di scritti attribuito a →Ippocrate, specialmente le opere chirurgiche, i ll. vii e viii del De medicina di →Celso, i trattati di →Galeno, i ll. xlv-l delle Collectiones di →Oribasio, l’Epitome, i ll. v e vi di Paolo di Egina. Ma ripercorriamo brevemente il cammino dell’ars. Nell’Iliade si fa spesso riferimento a interventi per estrazione di dardi o frecce. [2] Il Corpus Hippocraticum contiene una serie di testi con riferimenti chirurgici : De articulis, De fracturis, De capitis uulneribus, Vectiarius (o Mochlica), De officina medici. Chirurgia, anche al plur. (da ceirourgei`n), significa, letteralmente, ‘operare con le mani’. [3] Gli autori ippocratici sviluppano nei loro scritti un tipo di chirurgia conservativa : praticano salassi, cauterizzazioni, amputazioni, e mostrano di avere buone esperienze metodologiche e una conoscenza abbastanza approfondita nella chirurgia delle ossa. È documentata una molteplicità di tecniche da sviluppare per fratture,  









chirurgia reposizioni, ferite da purificare o far rimarginare. La concezione della medicina ippocratica si basa fondamentalmente sulla ‘teoria umorale’, quindi anche sulla ‘patologia umorale’ ; si è tuttavia attenti anche alle parti solide del corpo : [4] la terapeutica non era attenta soltanto a singoli organi, ma si fondava anche su prescrizioni dietetiche ; la chirurgia si avvaleva di salassi e incisioni di ascessi per far evacuare gli umori eccedenti o alterati. [5] Nell’aforismo ippocratico più celebre si legge : « Ciò che le medicine non guariscono guarisce il ferro, ciò che non guarisce il ferro, guarisce il fuoco, ma ciò che il fuoco non guarisce si deve ritenere incurabile » : [6] dietetica e farmacologia dovevano avere la precedenza sulla chirurgia. [7] Ippocrate e la sua scuola stabiliscono, come è noto, una sequenza ‘gerarchica’ tra dietetica, chirurgia e incisioni e ustioni. Con l’età ellenistica, anche grazie a conoscenze più approfondite nel campo dell’anatomia, la chirurgia assume un’importanza maggiore. Già →Diocle di Caristo aveva fatto registrare progressi significativi : si veda ad es. l’invenzione del cyathiscus Diocleus per l’estrazione di punte di frecce. [8] I testi tecnici di chirurgia ellenistica sono andati, come è noto, tutti perduti : ne possiamo rintracciare elementi significativi nell’opera di Celso che costituisce senza dubbio la fonte principale per la varietà della chirurgia di età ellenistica, e, più tardi, attraverso altre fonti, in Paolo di Egina. Come si è già avuto modo di ricordare nella sezione riservata alla →farmacologia, Celso sottolinea la celebre tripartizione in →dietetica, →farmacologia e →chirurgia [9] come base della medicina ellenistica, ma richiama anche la sua sostanziale unità, [10] concetti ripresi con espressioni estremamente affini in Scribonio Largo : [11] si veda la discussione che ne ho fatto in →farmacologia. Rispetto al Corpus Hippocraticum si registrano, nel campo della chirurgia, progressi notevoli, analoghi a quelli registrati per dietetica e farmacologia : fratture, slogature, trattamenti di ernie, malattie oculari etc. ; importanti anche le novità introdotte nella strumentazione. Celso descrive l’occlusione dei vasi, la chiusura delle ferite attraverso punti di sutura. Si registrano progressi notevoli nel campo della chirurgia, analoghi a quelli registrati per dietetica e farmacologia. Per un riferimento un po’ più circostanziato al contenuto dei libri chirurgici, vii,viii, si veda 2. Chirurgia celsiana. Nel Proemio del l. vii [12] Celso tratteg 





























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gia la figura del medico ideale : « Quanto al chirurgo questi deve essere giovane, o almeno alquanto vicino alla giovinezza ; di mano valida, ferma, né che mai tremi, e pronto e abile non meno con la sinistra che con la destra, di vista acuta e chiara, di animo intrepido ; dotato di umanità così da voler guarire quello che ha preso in cura ; non deve affrettarsi mosso dalle grida di quello o più di quanto la situazione lo richieda, o in modo tale da tagliare meno di quanto sia necessario ; ma deve comportarsi così per tutte le necessità (dell’operazione), come se nessuna emozione derivasse a lui dalle grida del paziente ». Certo il chirurgo doveva essere ritenuto spesso, in quel tempo, anche se dotato delle qualità raccomandate da Celso, una specie di ‘macellaio’ che faceva davvero paura per metodi spesso dolorosi e brutali. Per questo si ricorreva alla chirurgia praticamente soltanto in casi estremi, solamente quando altri tentativi di terapia non avessero avuto successo. Da ricordare, relativamente alla chirurgia celsiana, tra altre cose, la legatura dei vasi nelle emorragie più gravi, la sutura delle ferite profonde, la toracotomia, la cura delle ernie inguinali, ombelicali e scrotali, gli interventi di eliminazione dei calcoli vescicali, la tecnica delle operazioni di emorroidi e varici, interventi di chirurgia plastica e ben ventiquattro tipi di interventi chirurgici in campo oculistico. La medicina romana eredita da quella ellenistica il concetto di sostanze disinfettanti : tra queste hanno importanza in Celso, come poi in Dioscuride e Galeno, vino e aceto. Il vino veniva utilizzato anche, insieme ad alcune erbe che potevano lenire il dolore o favorire la cicatrizzazione, per confezionare altri disinfettanti. Se il paziente lo sopportava era usato l’aceto, di più alte qualità disinfettanti e con marcate proprietà emostatiche. Come antisettici Celso raccomanda olio di timo, catrame, trementina, arsenico; contro i dolori sono utilizzati giusquiamo, mandragora, oppio. Se, nonostante le varie precauzioni, un’eventuale infezione, invece di regredire, minacciava di degenerare in cancrena, specie nel caso di operazioni agli arti, si poteva rendere necessaria ‘l’amputazione’ , eseguita con il sistema del taglio circolare fino all’osso, con una serrula, cioè una piccola ‘sega’. Notevole l’attenzione dedicata alla cura delle ferite : anche per questo aspetto a Celso si rifaranno Dioscuride e Galeno, altro punto di riferimento importante in questo settore. Le ferite da taglio a margini  

















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netti e sanguinanti venivano suturate subito, quelle invece lacero-contuse venivano lasciate guarire in seguito. Per la chiusura delle ferite il metodo di Celso consisteva nel passare attraverso i margini delle ferite una spilla di metallo (fibula), fissata ben stretta alla cute con un filo ; a cicatrizzazione avvenuta, prima veniva rimosso il filo e poi, quando non vi era più pericolo che la ferita si riaprisse, la fibula : i passi relativi a cure di ferite, fasciature, precauzioni per evitare infiammazione e pus sono numerosi[13] . Nella chirurgia del mondo greco e romano si utilizzavano abbastanza spesso, anche se non sempre, sostanze anestetiche. Come pare certo anche prima, ma come è attestato in ogni caso in epoca romana, i chirurgi usavano, oltre ad abbondanti quantità di vino, come anestetici veri e propri, preparati a base di sostanze alcaloidi : decotti di oppio e giusquiamo (una sorta di sintesi di morfina, iosciamina e scopolamina), che avevano qualità antidolorifiche e sedative ; veniva anche utilizzato succo di mandragora bianca a base di scopolamina e atropina. [14] In assenza di anestetici veri e propri si somministravano per lo più forti dosi di vino e si doveva cercare di effettuare gli interventi nel modo più rapido possibile. Sia →Celso che →Scribonio Largo citano chirurgi celebri nel i sec. d.C. [15] Il ruolo di →Galeno nella storia della medicina è stato sempre molto discusso. Lo scienziato di Pergamo riserva comunque attenzione minore alla chirurgia rispetto alle altre parti della medicina ; non dedica alla chirurgia nessuna delle sue opere principali : solo nel Metodo terapeutico, soprattutto ll. 1314, discute di chirurgia in modo dettagliato. Questo si spiega per due motivi : innanzitutto, come Ippocrate, Galeno crede nell’unità della medicina e si batte contro la sua frammentazione ; di conseguenza lo specialista non è per Galeno un vero medico. In secondo luogo per il medico la salute è espressione della natura : la medicina, dunque, deve conservare oppure ripristinare lo stato naturale, e la chirurgia non effettua né l’una né l’altra cosa. Nei suoi scritti non si registrano trattati chirurgici autonomi. Riferimenti e applicazioni sulla chirurgia si rinvengono soprattutto nei suoi scritti metodici di cura. [16] Punto di riferimento importante di Galeno è nella cura delle ferite. Sul trattamento delle ferite come sul trattamento emostatico del sangue lo scienziato congiunge le sue conoscenze svariate in campo anatomico, fisiologico e patologico con alcune esperien 























ze in campo chirurgico che aveva potuto fare come medico dei gladiatori. [17] Anche per le ricerche sugli animali e le vivisezioni praticate attraverso l’anatomia la chirurgia è posposta ai rimedi farmaceutici o dietetici. [18] Anche Galeno opera interventi a calcoli vescicali, aneurismi, fistole, operazioni alle tonsille, cataratte, interventi a tumori e fratture del corpo. [19] Del periodo romano sono stati ritrovati numerosi →strumenti chirurgici, anche in ‘cassette di medici’ in accampamenti militari : tra gli strumenti ritrovati, coltelli, bisturi, uncini per ferite, aghi, sonde, seghe, pinzette, tenaglie, elevatori di ossa, forbici, cateteri etc. Di recente si sono avuti ritrovamenti importanti : ad Aquileia è stato rinvenuto un corredo chirurgico probabilmente appartenuto a un medico del sec. iii d.C. comprendente un centinaio circa di strumenti chirurgici ; a Rimini è stata scoperta ancora più di recente la casa di un medico del i-ii sec. d.C. con un corredo di circa centoventi strumenti chirurgici. Va sottolineato che, anche dalle raffigurazioni in dipinti, rilievi, corredi chirurgici etc., questi strumenti antichi sono sorprendentemente simili, per foggia, caratteristiche e uso ai nostri strumenti moderni. Nel periodo tardo antico la tecnica chirurgica raggiunse un alto livello, a giudicare dallo Ps.-Galeno. [20] In ogni caso non è attraverso Celso, i cui scritti sono praticamente sconosciuti nel Medioevo, e nemmeno attraverso Galeno che la chirurgia operativa del mondo classico viene trasmessa alle età successive. Decisiva è, in questo senso, l’opera di Paolo di Egina, un compendio di opere mediche precedenti che, pur redatto nel sec. vii d.C., riassume tutta la scienza medica precedente. L’opera comprende dal regime alimentare alle febbri, dalla medicina interna alla tossicologia e, nel l. vi, alla chirurgia, che l’Egineta considera, nella prospettiva che era stata di Galeno, semplicemente come parte di una pratica medica più ampia. Il riepilogo accurato della chirurgia nel mondo greco-romano contenuto nel l. 6 non è certo originale, anzi, in buona parte, già trattato nel De medicina e in altre opere. Come, di fatto, tuttavia, qualche operazione sia stata eseguita non è possibile sapere attraverso i testi trasmessi. Come già Celso, anche Paolo Egineta suddivide la trattazione in due parti : chirurgia operativa e trattamento di fratture e lussazioni. Alla prima parte è dedicata una trattazione ben più ampia che procede a capite ad calcem. In  











chirurgia questa parte sulla chirurgia operativa l’Egineta poco si sofferma sul trattamento delle ferite : si limita ad un capitolo tratto da Galeno, sulla cura delle ferite al peritoneo, e ad un secondo capitolo, notevole, sull’estrazione delle frecce e altri corpi estranei. Verso la fine del l. 6 l’Egineta descrive l’uso della trapanazione come terapia adatta per curare alcuni tipi di lesioni al cranio. Come conclusione dell’opera troviamo il trattamento, ancora fondamentalmente ippocratico, sulle fratture semplici e sulle lussazioni. L’epitome, tradotta in arabo nel sec. ix, divenne il testo chirurgico di riferimento per gli enciclopedisti medici del mondo islamico, in particolare ‘Abī ibn al ‘Abbās al-Mağusī e Abu’l Qāsim az-Zahrāvī, noto nel Medioevo come Abulcasis o Albucasis. Notizie importanti sulla chirurgia si trovano, al di fuori della letteratura medica specialistica, in numerosi testi letterari, come ad es. in Agostino, [21] che descrive un intervento chirurgico agli occhi. Il patrimonio della chirurgia antica e tardo-antica viene poi trasmesso alla medicina di epoca bizantina. In questa sezione la trattazione, che è incentrata sulla documentazione di Celso, testata d’angolo tra eredità della medicina greca e successiva medicina di età romana, proseguirà con questa successione : 2. Chirurgia celsiana ; →strumenti chirurgici ; 3.1. Gli interventi chirurgici ; 3.2. Un intervento chirurgico di litotomia secondo la descrizione di Celso ; →embriologia.  













Note. [1] 3, 129. – [2] Come ad es. Il. 11, 844, 848, in cui si descrive l’estrazione di un dardo e l’applicazione di una radice amara per calmare il dolore e stagnare il sangue. – [3] Medic. 5/9, 210 L ; Medic. 14/9, 218-220 L. – [4] VM 22-24/ 1, 626-636 L). – [5] Medic. /9, 204-220 L. – [6] Aph. 7, 87/4, 608 L. – [7] Vd. Schlich 2005, 196. – [8] Cels. 7, 5, 3 / 309 M. – [9] 1 Prooem. 9 / 18 M. – [10] Cels. 5, praef. 2-3 / 190 M. – [11] Cfr. Sconocchia 2003, 48-49. – [12] Cels. 7 praef. 4 / 301-302 M ; cfr. anche Sconocchia 2003, 93. – [13] Un passo illuminante per l’applicazione di suturae o fibulae e relativo alla cura per evitare formazione di pus leggiamo in Celso a 5, 26, 23 BC / 221 M : Si uero in carne uulnus est hiatque neque in unum orae facile adtrahuntur, sutura quidem aliena est : inponendae uero fibulae sunt (ancteras Graeci nominant), quae oras, paululum tamen, contrahunt, quo minus lata postea cicatrix sit. Ex his autem colligi potest, id quoque, quod alia parte dependens alia inhaerebit, si alienatum adhuc non est, suturam an fibulam postulet. Ex quibus neutra ante debet imponi, quam intus uolnus purgatum est, ne quid ibi concreti sanguinis relinquatur. Id enim et in pus uertitur, et inflammationem mouet, et glutinari uolnus prohibet.  







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Ne linamentum quidem, quod subprimendi sanguinis causa inditum est, ibi relinquendum est : nam id quoque inflammat. Conprehendi uero sutura uel fibula non cutem tantum sed etiam aliquid ex carne, ubi suberit haec, oportebit, quo ualentius haereat neque cutem abrumpat. Un altro interessante passo in cui si descrive come combattere efficacemente la suppuratio è a 8, 9, 1 G / 388 M : Si suppuratio uicerit, neque per quae supra scripta sunt discuti potuerit, omnis mora uitanda erit, ne os infra uitietur : sed qua parte maxime tumebit, demittendum erit candens ferramentum, donec ad pus perueniat ; idque effundendum. Si nusquam caput se ostendet, ubi maxime pus subsit, sic intellegimus : creta Cimolia totum locum inlinemus et siccari patiemur : quo loco maxime umor in ea perseuerabit, ibi pus proximum erit eaque uri debebit. Per le fasciature – sia i Greci che i Romani erano davvero abili, come anche gli Etruschi, nell’arte di praticare bendaggi e fasciature varie (D’Amato 1993, 89) –, si veda ad es. med. 5, 26, 24 / 222-223 M. L’enciclopedista descrive l’applicazione di una fascia (lat. fascia ; gr. ejpidesmov~) a 7, 4, 4 AB / 307 M ; descrive accuratamente la recisione di una vena a 7, 30, 3 B / 359 M ; inoltre parla di fasciari (gr. ejpidevsqai), cioè di ‘fasciare’ ad es. a 8, 8, 1CD / 386-387 M. – [14] Alcuni medici ritenevano sufficiente fare aspirare la mandragora anziché somministrarla per via orale ( Jackson 1988, 121) ; questa pratica dell’aspirazione, definita oggi ‘sonno a spugna’, consentiva effetti analgesici rapidi e prolungati. – [15] Ad es. Tryphon chirurgus, sia padre che figlio, Meges chirurgus, Euelpistus chirurgus, Dionysius chirurgus : si veda la successive sezione sulle fonti e, in particolare, Baldin 2007. – [16] Cfr. Gal. Meth. med. – [17] Meth. med. 5, 2 / 10, 309-313 K.– [18] Comp. med. gen. 3, 2 / 13, 604 K. – [19] Opt. med. cogn. 14. cmg Suppl. Or. 4, 134-137. – [20] Vd. la Ps.-galenica Intro. / 14, 674-797 K. – [21] ciu. 22, 8.  





















Fonti. Le fonti antiche più importanti per lo studio della chirurgia (cfr. anche Mazzini 1997, 381382) sono soprattutto opere di Ippocrate, di Celso, Galeno, Oribasio e Paolo di Egina. Numerose le opere di Ippocrate relative a questo versante, ad es. De chirurgia, De officina medici, De fistulis, De haemorrhoidibus, De ulceribus, De excisione foetus ; sono notevoli specialmente De fracturis, De articulis e De capitis uulneribus ; per Celso si veda De medicina ll. 7 e 8 ; per Galeno si vedano De uenarum arteriarum dissectione ; In Hippocratis de articulis librum commentarii iv ; In Hippocratis librum de fracturis commentarii iii ; In Hippocratis librum de officina medici commentarii iii ; De hirudinibus, reuulsione, cucurbitula, incisione et scarificatione ; per Oribasio, Collectiones ll. 44-50 ; per Paolo di Egina, Epitome, ll. 6 e 7. Interventi chirurgici importanti sono descritti in opere ginecologiche del Corpus Hippocraticum : ad es. De exsectione foetus ; De mulierum affectibus libri tres, De natura muliebri, De natura pueri, De semine,  





















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De octimestri partu, De superfoetatione, De uirginum morbis ; inoltre, nei Gynaeciorum libri di Sorano e in alcuni trattati di Galeno, come De uteri dissectione, De semine libri tres, De foetuum formatione, An animal sit quod est in utero, De septimestri partu. Inoltre una serie di altri interventi si rinviene, accanto alle terapie mediche, in Gal. De methodo medendi e Ps. Galeno, Introductio seu medicus. I trattati ippocratici De fracturis, De articulis e De capitis uulneribus approfondiscono una gamma limitata di stati fisici e sono mirabili per accuratezza di descrizioni e razionalità di trattamenti. Per Ippocrate sono anche da considerare gli studi di chirurgia meccanica. Il De fracturis e il De articulis, che si sovrappongono per argomento, sembrano indicare la formazione di una deontologia medica ; sono, in genere, attribuiti a Ippocrate stesso. Nel De fracturis si descrivono fratture dell’avambraccio, distorsioni del piede e della caviglia, fratture della gamba, fratture composte e lussazioni del gomito. Il De articulis si apre con la descrizione della lussazione della spalla ; successivamente tratta di lussazione della clavicola, di fratture di naso e mandibola, di lesioni alla colonna vertebrale, di lussazione dell’anca e, infine, di cancrena e amputazione. Le tecniche di riduzione delle fratture proposte da Ippocrate sono in genere efficaci, anche se certe procedure non sono oggi anatomicamente accettabili. Per lesioni alla spina dorsale era usato il cosiddetto ‘banco di Ippocrate’. Le fratture, sia semplici che composte, erano fasciate con bende impregnate di unguento di cera (lat. ceratum, praticamente i nostri ‘cerotti’), se necessario erano immobilizzate con ferule e poi coperte con altro bendaggio complessivo. Il trattato De capitis uulneribus descrive accuratamente il cranio e le sue suture e distingue le lesioni (contusioni, fratture a fessura, fratture con schiacciamento), per individuare i diversi tipi di trattamento (ad es. le fratture a fessura erano evidenziate con inchiostro nero ; le contusioni sono, secondo l’autore, da trattare attraverso la trapanazione). Per la chirurgia ippocratica in generale si vedano Petrequin 1877-1878 ; Benedetti 1969. Degli sviluppi della chirurgia tra Ippocrate e l’epoca di Celso si sono conservate testimonianze scritte. La chirurgia alessandrina dovette avere una lunga serie di medici attivi ad Alessandria a partire dal 300 a.C. (Michler 1968). Ne abbiamo la riprova in Celso, de medicina ll. 7 e 8. L’enciclopedista ricorda Filosseno, attivo probabilmente prima del 100 a.C., ma possiamo essere certi che i progressi della chirurgia furono resi possibili dai progressi anatomici di →Erofilo ed →Erasistrato e dai progressi e dalle innovazioni degli strumenti chirurgici, oltre che dalla propensione a interpretare la fisiologia umana in senso meccanicistico. Ad Alessandria si sviluppano almeno tre tendenze diverse : la prima sviluppa una chirurgia ‘operativa’ ; la seconda sviluppa la chirurgia cosiddetta ‘mec 













canica’ dei medici ippocratici, la terza l’ostetricia e le affezioni ginecologiche. Scoperta importante è quella che evidenzia che la legatura delle vene e delle arterie arresta il flusso del sangue. Per la chirurgia celsiana, ovviamente, la fonte principale è il De medicina di Celso, soprattutto i ll. 7-8, che rappresentano anche fonte di conoscenza importante per la varietà della chirurgia di età ellenistica. Per i chirurgi di età immediatamente precedente a Celso e da lui variamente citati si vedano rispettivamente: Meges 5, 28, 7A ; 5, 28, 12 K; 7 Praef. 3 ; 7, 2, 2 e passim; 7, 7, 6 C ; 7, 14, 1 ; 7, 26, 2N ; 8, 21, 1 ; Tryphon 6, 5, 3 e 7 Praef. 3 ; in Scribonio Largo si vedano, per Meges, i. e l. 202, i. 213 ; c. 239 ; per Thrasea i. e l. 204 ; c. 204 ; i. e l. 208 ; c. 208 ; per Tryphon chirurgus, si veda 175 ; i. e l. 201, c. 201 e passim : cfr. Baldin 2007. In realtà Paolo di Egina avrebbe collocazione cronologica nel sec. vii, cioè oltre il vi, età convenzionale di riferimento ; tuttavia Paolo attinge certo a fonti precedenti, soprattutto di autori di età imperiale, come Eliodoro, Archigene, Antillo, etc. Notizie e dati tecnici da lui forniti coincidono spesso, in modo impressionante – fatta salva qualche differenza ben comprensibile determinata dal divario cronologico –, con notizie, dati ed esperienze documentati da Celso : la spiegazione di questo fatto è da ricercare nella dipendenza di entrambi da comuni ascendenti, diretti o indiretti, di età ellenistica. Le fonti ricordate documentano i progressi della chirurgia, attestati per noi soprattutto dall’opera di Celso.  

































Bibliografia. Baker 2004 ; Baldin 2007 ; Benedetti 1969 ; Berendes 1914 ; Bliquez 1994 ; D’Amato 1993, 88-102 ; Diller 1949 ; Garzya 1984 ; Grant 1960 ; Grmek 1989 ; Jouanna Bouchet 2007 ; Kind 1921b ; Krug 1990 ; Krug 1993 ; Kudlien 1988 ; Künzl 1983 ; Künzl 1986 ; Künzl 1999 ; Künzl 2001 ; Langslow 1994, 297-318 ; Laser 1983 ; Majno 1975 ; Mani 1991 ; Mc Vaugh 1993, 372-398 ; Mc Vaugh 1996, 193-211 ; Marganne 1998 ; Matino 1996 ; Mazzini 1997, 367-382 ; Meyer-Steineg 1912 ; Michler 1968 ; Michler 1969 ; Mildner 1960 ; Milne 1976 ; Nutton 1991 ; Nutton 1997b ; Nutton 2004 ; Petrequin 1877-1878 ; Pormann 2004 ; Scheller 1967 ; Schlich 2005 ; Sconocchia 2003 ; Singer-Nutton 1970 ; Tabanelli 1956 ; Tabanelli 1958.  





















































































2. Chirurgia celsiana. – Il De medicina di Celso costituisce la fonte principale per la varietà della chirurgia di età ellenistica. Celso tratta della chirurgia in due libri, il settimo e l’ottavo. Celso [1] ribadisce l’unità tripartita della chirurgia in ossa, ferite e operazioni chirurgiche, che corrisponde al concetto moderno di chirurgia. Nel suo excursus di storia della medicina l’autore rileva che nell’Iliade Macaone e Podalirio

chirurgia si occupano di estrazione di dardi e chirurgia esterna, ma non trattano affatto di cura delle malattie interne ; [2] ne consegue che la chirurgia più antica era la cosiddetta chirurgia operativa. La chirurgia ellenistica, come si evidenzia dal De medicina, si differenzia da quella ippocratica soprattutto per la scoperta del principio della ‘legatura dei vasi’. Ma veniamo ai libri più propriamente chirurgici. Il l. vii, anche se non sistematico, è dedicato ad aspetti specifici, come operazione della cataratta, operazioni di ernia, ascessi, cura di ferite con l’utilizzo di spilli per le suture ; le descrizioni di Celso, pur relative ad argomenti già trattati da Ippocrate, non trovano alcun corrispondente nel Corpus Hippocraticum. Ad una breve storia della chirurgia e ad un ritratto del medico ideale [3] segue la descrizione di tecniche operatorie relative a diverse patologie : contusioni, ascessi, fistole, malattie del capo (gangli, meliceridi, ateromi, steatomi), a varie malattie dell’occhio (calazio, pterigio, cataratta, epifore etc.) ; dell’orecchio, della bocca, delle labbra, del naso (polipo, ozena), diversi tipi di ernia, come inguinale, ombelicale, dell’apparato genitale (fimosi, infibulazione, calcoli della vescica, cancrena etc.). Importanti anche le novità introdotte nella strumentazione. A sua volta, il l. viii, dedicato alle parti ossee, aggiunge in realtà ben poco a quanto si trova nelle opere ippocratiche Sulle fratture, Sulle articolazioni e Sulle ferite della testa : nel De medicina, tuttavia, si riscontra cautela maggiore relativamente all’opportunità della trapanazione del cranio. Dopo un excursus di descrizione dello skeletos, con trattazione a capite ad calcem, Celso prosegue con la trattazione di patologie sia generali che specifiche delle singole ossa, relativamente a fratture, carie e cancrena ; segue una trattazione degli strumenti chirurgici adatti alla resezione delle ossa interessate da queste patologie (dalle fratture di capo, naso, clavicola, costole, fino alle fratture di femore, ginocchio, tallone, ossa del piede etc.). Per altri aspetti della chirurgia celsiana si veda supra §1 ; per gli strumenti chirurgici si veda il seguito della trattazione §§ 3-3.2.  













Note. [1] 7, Praef. 5 / 302 M. – [ 2] 1 Prooem. 3 / 17 M. – [3] Cels. 7 Praef. 4 / 301-302 M ; cfr. anche Sconocchia 2003, 93.  

Fonti. Per la chirurgia celsiana, ovviamente, la fonte principale è il De medicina di Celso, soprattutto i ll. vii-viii, che rappresentano anche fonte di conoscenza importante per la varietà della chirurgia di età ellenistica.

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Bibliografia. Baldin 2007 ; Bliquez 1994 ; D’Amato 1993 ; Grmek 1989 ; Gurlt 1964 ; Jouanna Bouchet 2007 ; Künzl 1996 ; Künzl 1999 ; Langslow 1994, 297-318 ; Mazzini 1997, 368-369 ; Michler 1969 ; Milne 1976 ; Nutton 1997b ; Nutton 2004 ; Schlich 2005 ; Stamatu 2005d ; Tabanelli 1956.  































Sergio Sconocchia 3. Gli interventi chirurgici. – 3.1. Ci sono interventi chirurgici (vd. anche Mazzini 1997, 375376) descritti sia nel Corpus Hippocraticum che nel De medicina : aborto chirurgico, [1] operazioni delle varie lesioni e fratture craniche [2] e l’asportazione delle tonsille. [3] La descrizione degli interventi chirurgici di fratture alle ossa si rivela in Celso molto più dettagliata rispetto alla tradizione precedente ; dal testo emerge un maggiore uso di strumenti e una maggiore perfezione tecnica di applicazione ; inoltre c’è una più attenta valutazione dei rischi connessi alle operazioni chirurgiche e all’opportunità etica di un intervento o meno. In generale si può affermare che Celso curi maggiormente la descrizione degli interventi chirurgici rispetto alla tradizione precedente. Nella tradizione successiva sono richiamati, invece, una serie di interventi già presenti nel De medicina : riportiamo di seguito i più rilevanti. È il caso, in primis, dell’intervento di litotomia, descritto da Celso, [4] comune anche nella tradizione successiva, [5] per il quale si veda la trattazione dei casi ; di embriulcia o embriotomia, [6] poi ripreso spesso nella tradizione successiva. [7] L’intervento al filetto della lingua o anciloglosso è descritto da Celso [8] e, successivamente, in età tardo-imperiale da autori, come →Aezio di Amida [9] e →Paolo di Egina, [10] che arricchiscono la casistica e danno ulteriori dettagli sulla terapia operatoria e postoperatoria. Ulteriori interventi comuni sono l’apertura dell’orecchio atreto o perforato in Celso e Paolo d’Egina[11] ; l’asportazione dei polipi nasali, tra Celso e Ps. Galeno, [12] la cataratta, tra Celso, Ps. Galeno e Paolo di Egina ; [13] il cateterismo, tra Celso e Paolo di Egina ; [14] l’ectropion, tra Celso, Aezio e Paolo ; [15] le fratture al cranio, tra Celso e Oribasio, Galeno e Paolo di Egina, [16] le operazioni di riposizione degli intestini, tra Celso, Galeno e Paolo. [17]  





































Note. [1] Hp. Mul. 1, 79 / 8, 198 L ; Foet. exsect. 1 / 8, 512-514 L ; Superf. 7 / 8, 480 L ; e Cels. 7, 29 / 356-358 M ; cfr. anche Kislinger 2005a. – [2] Vd.  







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chirurgia

Hp. Cap. Vuln. /3, 182-260 L e Cels. 8, 4, 1-22/377382 M ; si veda ad es. anche 8, 3, 11 / 377 M: […] At quae fracta, fissa, forata, collisa sunt, quasdam proprias in singulis generibus, quas communes in pluribus curationes requirunt ; de quibus protinus dicam, initio ab eadem caluaria accepto […] . – [3] Per l’asportazione delle tonsille vd. Hp. Morb. 2, 30 / 7, 48 L e Cels. 7, 12, 2 / 328 M : Tonsillas autem, quae post inflammationes induerunt, antiades autem a Graecis appellantur, cum sub leui tunica sint, oportet digito circumradere et euellere […] hamulo excipere scalpello excidere. – [4] Cels. 7, 26 2 A-M. – [5] Ad es. In Sorano, Rufo, Galeno, Ps. Galeno e Paolo di Egina, la cui descrizione è l’unica paragonabile a quella di Celso. [6] Vd. Cels. 7, 29 / 356-358 M : Vbi concepit autem aliqua, si iam prope maturus partus intus emortus est neque excidere per se potest, adhibenda curatio est […] quae in neruosis locis sunt, adhibetur. Su questa descrizione di Celso si ritornerà infra.– [7] Ad es. da Sorano di Efeso, Muscione, Celio Aureliano, Aezio e Paolo di Egina. – [8] Cels. 7, 12, 4 / 329 M. – [9] Aët. 8, 38. – [10] Paul. Aeg. 6, 29 / 2, 66 He. – [11] Rispettivamente Cels. med. 7, 8, 1-2 / 324 M e Paul. Aeg. 6, 23 / 2, 63 He. – [12] Rispettivamente Cels. 7, 10 / 326 M e Ps. Gal. Intro. 19 / 14, 785 K. – [13] Cels. 7, 7, 14 / 319-322 M e Ps. Gal. 19 / 14, 785 K ; Paul. Aeg. 6, 21 / 2, 22 He. Si noti che in Celso è fondamentale curare le malattie agli occhi, mentre l’operazione chirurgica deve seguire eventualmente solo in un secondo momento : cfr. ad es. Cels. 6, 6, 35 / 273 M: Suffusio quoque, quam Graeci hypochysin nominant, interdum oculi potentiae, qua cernit, se opponit. Quod si inueterauit manu curandum est. Per gli oculisti come medici con una specializzazione per la cura delle malattie agli occhi vedi Bergdolt 2005 ; Jackson 1996 ; Nutton 1972. – [14] Cels. 7, 25, 2 / 345 M e Paul. Aeg. 6, 55 / 2, 96-97 He. – [15] Cels. 7, 7, 10 / 318 M e Aët. 7, 74 ; Paul. 6, 12 / 2, 15 He. – [16] Cels. 8,4 / 377-382 M e Orib. Coll. 46, 5-20 ; Gal. Meth. med. 6, 6 / 10, 444455 K ; Paul. Aeg. 6, 90 / 2, 136-141 He. – [17] Cels. 7, 16 / 333-334 M e Gal. Meth. med. 6, 4 / 10, 413-419 K ; Paul. Aeg. 6, 52 / 2, 91-94 He.  























Fonti. Per le fonti si vedano quelle citate nelle note di questo paragrafo, qui sopra, cioè opere di Ippocrate, Celso, Galeno, Oribasio, Aezio di Amida e Paolo Egineta, con i passi relativi variamente messi a confronto. Bibliografia. Bergdolt 2005a ; Gurlt 1964 ; Jackson 1996 ; Kislinger 2005a ; Krug 1985 ; Leven 2005a ; Mazzini 1997, 375-376 ; Nutton 1972 ; Nutton 1997b ; Nutton 2004.  

















Daniele Monacchini 3.2. Un intervento di litotomia secondo la descrizione di Celso (med. 7, 26, 2 A-M / 346-349 M). – I

disturbi delle vie urinarie erano assai diffusi nel mondo antico e, naturalmente, anche nell’età di Celso e Scribonio : erano causati da mancanza di nutrizione adeguata e da condizioni igieniche precarie. Spesso, per una minzione con ritenzione urinaria, seguita da disfunzioni urinarie piuttosto gravi dell’apparato genito-urinario, si rendeva necessario l’uso del catetere. Celso raccomanda per gli uomini tre tipi di catetere, per la donna due : si tratta di tubicini in genere di bronzo a sezione circolare, con le pareti sottili, con l’estremità che doveva essere introdotta nell’uretra arrotondata ; sotto di essa c’era una piccola apertura per il deflusso del liquido. Erano in uso anche cateteri per drenare il liquido degli idropici. Un noto passo dello stesso Giuramento pseudo ippocratico, ascrivibile in realtà cronologicamente al sec. iv a.C. (« Io non eseguirò neppure l’intervento del male della pietra, ma lascerò fare questo intervento a quelli che esercitano questo tipo di attività ») [1] conferma che l’operazione di litotomia era diffusa già da vari secoli prima dell’età di Celso. C’era tuttavia una certa riluttanza dei medici ad eseguirla, considerati anche i rischi dell’intervento. Dopo Celso questa operazione chirurgica è eseguita abbastanza comunemente : si vedano ad es. Sorano ; [2] Rufo ; [3] Galeno ; [4] Ps. Galeno ; [5] Paolo di Egina. [6] L’intervento così come è descritto da Celso, attraverso il perineo e non in laparoscopia, è prassi seguita fino al secolo xvi. [7] Per fornire al lettore un’idea adeguata delle situazione reale della chirurgia in età celsiana proporrò una traduzione della parte relativa all’intervento di litotomia, che in Celso è descritto in tre fasi: [8] « [2] Dal momento che si è fatta menzione della vescica e dei calcoli, il luogo stesso sembra esigere che io aggiunga quale terapia si debba praticare sui pazienti affetti da calcoli, quando non si possa venire in loro soccorso in altro modo : a questo tipo di operazione non conviene in nessun modo affrettarsi, poiché è ‘pericolosa’. Né si deve procedere a tentare questo intervento in ogni stagione, né, indifferentemente, in ogni età né per ogni tipo di affezione, ma solo in primavera, in quel corpo, che ha già superato i nove anni, ma non ancora i quattordici ; e, se il male è tanto grave da non poter essere vinto dai medicamenti, né possa ormai protrarsi senza che, frapposto un qualche intervallo, il paziente non muoia. [B] Non perché frattanto una qualche terapia in qualche modo ‘temeraria’ non giovi, ma perché più spesso fallisce nei  































chirurgia casi, in cui vi sono più numerosi generi e tempi di pericolo ; questi appunto esporrò insieme con la stessa descrizione dell’intervento. Dunque, quando si è stabilito di tentare i rimedi estremi, è necessario alcuni giorni prima predisporre il corpo con i cibi, così che assuma cibi moderati, salubri, ma in alcun modo gelatinosi ; che inoltre beva acqua. Nel frattempo il paziente faccia molto esercizio di camminare, in modo che il calcolo scenda maggiormente verso il collo della vescica. [C] Se poi questo fatto sia davvero avvenuto, lo si può constatare introducendo le dita, così come spiegherò nella descrizione dell’intervento. Come di questo fatto vi sia certezza, il giorno prima il ragazzo ammalato ; poi l’intervento va eseguito in luogo caldo ; l’operazione va eseguita con la procedura seguente : un uomo molto alto ed esperto si siede su un sedile alto : trattiene poi il paziente messo nel frattempo supino o di spalle, avendo poste le cosce del ragazzo sulle sue ginocchia ; piegate anche le gambe del paziente, gli comanda anche di porre le mani sui suoi [popliti], di tirarli a sé il più possibile e di tenerli fermi così. [D] Che, se la corporatura di colui che è sottoposto all’intervento è piuttosto robusta, uniti due sedili, due uomini forti vi si siedono ; i sedili e le parti interne delle gambe di costoro vengono legati insieme tra loro, in modo che non possano essere separati. Allora il paziente è posto allo stesso modo sulle ginocchia dei due ; come il malato si siede, uno dei due uomini ne afferra la gamba sinistra, l’altro la destra, e contemporaneamente il paziente stesso trae a sé i suoi popliti. Sia che sia una, sia che siano due persone a trattenere il ragazzo, si appoggiano e fanno forza sopra le sue spalle con i loro petti. [E] A seguito di questa disposizione avviene che la sacca della regione iliaca sia tesa sopra il pube senza alcuna ruga e che, compressa la vescica in spazi ristretti, il calcolo possa essere preso con maggiore facilità. Oltre a tutte queste precauzioni, siano anche poste, ai lati, due persone forti, che, standogli appresso, non permettano che l’uno o i due che tengono il ragazzo vacillino. Il medico poi, essendosi tagliate con diligenza le unghie e avendo unta la mano sinistra, introduce con delicatezza nell’ano due dita, l’indice e il medio, prima l’uno, poi l’altro ; poi impone con leggerezza le dita della mano destra sopra la parte più bassa dell’addome, in modo che, se le dita scorrono dall’una e dall’al 



















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tra parte con forza intorno al calcolo, non abbiano a ferire la vescica. [F] Né in verità bisogna agire con fretta in questa operazione, come nella maggior parte degli interventi, ma in modo che l’operazione avvenga il più possibile in sicurezza : infatti una ferita della vescica provoca convulsioni con pericolo di morte. E, in primo luogo, si cerca il calcolo intorno al collo della vescica, perché, se ritrovato lì, viene espulso con minore difficoltà. Per questo ho detto (BC ?N) [9] che non si deve eseguire l’intervento se, grazie ai suoi propri indizi, la localizzazione del calcolo non sia nota. [G] Se tuttavia il calcolo o non si sia trovato lì o si sia ritratto indietro, le dita vengono spinte fino alla parte più interna della vescica, e, a poco a poco, anche la destra del medico segue portata più su. E una volta che si sia trovato il calcolo, che necessariamente deve cadere nelle mani, per quello viene portato fuori con tanta maggiore attenzione, quanto più è piccolo e levigato, perché non vada perduto, cioè perché la vescica non debba essere infastidita più di tanto. Perciò la mano destra del medico viene posta sempre davanti al calcolo, le dita della mano sinistra lo spingono verso il basso, fino a che lo si spinge verso il collo della vescica : su questa, se il calcolo è di forma allungata, è da spingere in modo tale che esca inclinato in avanti ; se invece il calcolo è piatto, così che esca di traverso ; se è quadrato, in modo che si appoggi su due angoli, se è più consistente da una parte, in modo tale che fuoriesca prima da quella parte, in cui è più sottile. [H] Nel caso di un calcolo rotondo è evidente che in rapporto alla stessa figura non c’è alcun problema, tranne che, se sia più leggero da una delle due parti, fuoriesca prima da quella parte. Quando il calcolo è giunto ormai in quella posizione (cioè sopra il collo della vescica), allora deve essere incisa la cute sopra il collo della vescica, in prossimità dell’ano con una incisione circolare della pelle a forma di luna, fino al collo della vescica, con tutte due le ‘corna’ della incisione orientate verso le anche : poi di poco sotto in quella parte in cui la ferita si ripiega all’insù, sempre sotto la cute, è necessario fare anche un’altra piccola incisione trasversale, attraverso la quale sia aperto il collo, fino a quando il dotto dell’urina sia accessibile in modo tale che l’incisione sia un po’ più grande del calcolo. [I] Infatti coloro che lo aprono poco per paura della formazione di una fistola, che in quel luogo i Greci chiamano rhyas, cioè ‘flui 











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da’, si ritrovano anche con il medesimo pericolo accresciuto, perché il calcolo, quando è cacciato fuori a forza, crea un suo percorso, quando non lo riceve ; il fatto è anche più dannoso, se contribuisce anche la forma del calcolo o la sua ruvidezza. Da questo fatto possono derivare emorragia e convulsioni. Rischi che, se qualcuno riesce ad evitare, potrà anche avere una fistola molto più grande in conseguenza della rottura del collo che in conseguenza della sua incisione. Quando in verità il collo si è aperto, il calcolo diviene visibile ; per il colore non c’è nessuna differenza. [K] Se il calcolo è piccolo, può essere spinto da una parte con le dita in avanti, dall’altra può essere tratto fuori. Se è piuttosto grande, va agganciato sopra nella parte superiore di esso un uncino appositamente fabbricato alla bisogna. Questo uncino è sottile verso la sua estremità, in forma di un semicerchio di ampiezza smussata, dalla parte esterna liscio, nella parte in cui entra in contatto con il corpo, ruvido nella parte interna, dove viene a contatto con il calcolo, e inoltre l’uncino deve essere piuttosto lungo : infatti un uncino corto non ha la forza di estrarre. Quando è stato agganciato, deve essere inclinato in entrambi i lati, perché sia ben chiaro se il calcolo sia ‘catturato’ ; perché, se è stato catturato, anche quello contemporaneamente si inclina. [L] E questa verifica è necessaria per questo motivo, perché il calcolo, una volta che l’uncino abbia cominciato a essere tratto fuori, non scivoli nuovamente dentro la vescica, cioè non cada nelle labbra della ferita e non le laceri : quale pericolo ci sarebbe in questa eventualità, ho già chiarito sopra (F). Quando è proprio evidente che il calcolo è afferrato saldamente, occorre fare, quasi nello stesso istante, tre movimenti : da un lato e dall’altro, e poi fuori, ma in modo tale tuttavia che questa manovra sia eseguita con delicatezza e che, all’inizio, il calcolo sia tratto fuori di poco. Fatto questo, l’estremità dell’uncino va sollevata, in modo che dentro ne rimanga di più e più facilmente spinga fuori il calcolo. Che se talora il calcolo dalla parte superiore sarà afferrato poco comodamente, sarà da afferrare di fianco. [M] Questo è l’intervento più semplice. Ma la varietà delle situazioni richiede ancora alcune annotazioni […]».  











Note. [1] Per un commento al passo di Celso relativo alla litotomia e per un cenno ad autori successivi che praticano l’intervento si veda Mazzini 1999, 216-217. – [2] Sor. Gyn. 4, 7, 8 ; 5, 15, 1. – [3] Ruf.  

Ren., ues. p. 50 Daremberg-Ruelle. – [4] Gal. Thras. 24 / 5, 846 K e specialmente In Hp. Aph. Comm. 18 / 18, 1, 29 K, in cui si accenna a pratica quotidiana per l’asportazione di calcoli alla vescica, meglio del collo. – [5] Ps. Gal. Opt. Sect. 7 / 1, 118 K. – [6] Paul. Aeg. 6, 60. – [7] Vd. Tabanelli 1964, 64-65. – [8] Per affezioni alle vie urinarie e interventi di litotomia cfr. D’Amato 1993, 90 ; qui si fornisce la traduzione di 7, 26, 2 A-M / 346-349 M. – [9] Cfr. testo di Celso ed. M.  

Fonti. La fonte principale per questo paragrafo è appunto Cels. 7, 26, 2 / 346-353, cit. ; si vedano anche i passi di altri autori successivi, come Sorano, Rufo, Galeno, Ps. Galeno e Paolo Egineta, citati nelle note, qui sopra.  

Bibliografia. D’Amato 1993, 90 ; Leven 2005f, 459-461 ; Mazzini 1999a, 141-145 ; Michler 1969 ; Nutton 1997b ; Schlich 2005, 194-198 ; Tabanelli 1964.  











→embriologia ; →strumenti chirurgici  

Sergio Sconocchia Chirurgia veterinaria. 1. Chirurgia est quodcunque in corpore natum manu ferro vel cauterio curare oportet. Quae nisi ferro vel cauterio curentur, aliter curari non possent. [1] «La chirurgia riguarda tutte le affezioni sopravvenute nel corpo che è necessario curare con operazioni chirurgiche o cauterizzazioni, affezioni altrimenti incurabili». La chirurgia veterinaria comprendeva molti tipi di operazioni tra cui il salasso, la cauterizzazione, le operazioni oftalmologiche, la riduzione delle fratture e del prolasso rettale, la castrazione e l’aborto terapeutico. Questo tipo di cura era la più specializzata e la più segreta di tutte le altre, ma anche la più ‘nobile’ tra le arti della terapeutica anche se rischiosa e dolorosa per l’animale. La prima attestazione storica dell’esistenza di un medico veterinario specializzato in chirurgia (o che almeno fosse in grado di compiere le più semplici operazioni chirurgiche) si ha con l’editto di Diocleziano (301 d.C.) dove possiamo leggere Lauffer 1971, 118-121: 23 deplerae et purgatrae capitis/ per singula capita / * vigenti «per il salasso e la purificazione (dagli umori) della testa 20 denari a testa». Poiché alla pratica chirurgica si fanno solo accenni dagli autori arcaici romani mentre in quelli di epoca tarda – sia negli Hippiatrica greci che nei manuali mulomedici in lingua latina volgare – vi è sempre maggiore riferimento a queste tecniche, si può ipotizzare che la chirurgia (che non poteva essere mera-

chirurgia veterinaria mente teorica, ma necessitava di ‘esercizio sul campo’) fosse di pertinenza esclusiva di figure specializzate che si sono sviluppate nel corso dei secoli. Quest’area della veterinaria è caratterizzata e costellata da innumerevoli termini tecnici (cauterizzare, salassare, praticare la paracentesi oculare, castrare, provocare un aborto terapeutico, etc.) sia di derivazione greca sia di derivazione latina, ma anche propri solamente della veterinaria o di stampo popolare. Accenniamo ora alle operazioni chirurgiche più comuni : salasso, focature e cauterizzazioni, castrazione e aborto terapeutico (quest’ultima operazione non era affatto di routine per i cavalli ma frequentissima negli armenti, nei suini e negli ovini). Va sottolineato che ogni operazione chirurgica era effettuata dopo che l’animale, ma più nello specifico il cavallo, era stato immobilizzato attraverso le tecniche, gli strumenti e le macchine della contenzione. Gli strumenti chirurgici in uso durante l’epoca classica e tardo antica (→medicina, chirurgia) non differiscono nella sostanza da quelli medici, tuttavia vi sono alcune peculiarità tipiche della veterinaria come gli strumenti usati per disegnare cicatrici sulla cute dei cavalli. Alcuni tipi di aghi (rJafiv~, acus, paracenterium) erano impiegati sia per le suture sia per le operazioni di oftalmologia. Bisturi e rasoi erano molto diffusi e avevano forme e misure peculiari per il loro utilizzo ; incisioni e scarificazioni, infatti, avevano procedimenti propri a seconda dell’operazione che si andava a compiere : circinare locum, paracentesis, circumcidere erano usati per indicare tagli circolari ; debrachiolare (volg.) indicava un tipo di taglio ben preciso riferito ai muscoli/nervi della parte superiore della gamba anteriore del cavallo così come la scarificazione era detta decarnare o scarificatio (volg.). Lancette, scalpelli e bisturi [smivlh, scasthvrion, spavqh ; cultellus, ferrum, lamina, scalpellum] erano usati in moltissime operazioni per incidere la cute o resecare escrescenze ; ve ne erano alcuni per fare incisioni circolari (circinus) o per tagli accurati per incidere suppurazioni sottocutanee (sagitta). Tenaglie, forbici e pinze [labiv~, ajgkthvr, sarkolavbo~; fi bula, forpex] erano impiegate sia per afferrare lembi di pelle da ricucire sia per resecare parti malate sia per estrarre corpi estranei dal corpo degli animali ; il forcipe, grossa tenaglia dai manici allungati, era impiegato anche per estrarre feti incastrati nella cavità uterina. Un veterinario  











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doveva, inoltre, essere in grado di fasciare una ferita sanguinante (constrictio) o nervi lesi (adligatura), di bendare un arto rotto o applicare tramite fasciatura unguenti lenitivi. Anche per questo tipo di operazione venivano impiegati diverse tipi di bende e di bendaggi più o meno rigidi. Per gli arti rotti, infatti, si ricorreva a stecche rigide tenute ferme da fasce [plavstigx, regula, fascia, ligatio]. Salasso o flebotomo [flebotomevin, ajfairei`n ; sanguinem detrahere, venas soluere, dematricare, (volg. depleo) depletio, depletura]. Rispetto all’uso indiscriminato che si fece del salasso nella medicina umana [→chirurgia] nella medicina veterinaria l’uso di cavar sangue per quasi tutti i tipi di malattie fu meno diffuso anche se usato con estrema frequenza. [2] Controindicazioni per il salasso erano state stilate sia da Apsyrto [3] sia da Chirone [4] e Vegezio [5] sebbene fosse ben presente nei manuali di pratica veterinaria come ultima spiaggia per la guarigione di un animale (questa pratica era molto diffusa anche perché si avvaleva di un sostrato magico mai dimenticato anche dai veterinari dell’epoca). In veterinaria l’uso del flebotomo [6] non era foriero di una sicura guarigione o temporaneo miglioramento come per la medicina : il suo uso non era considerato panacea universale ; l’animale malato non poteva sicuramente affermare di sentirsi ‘più rilassato’, al contrario poteva abbattersi sul terreno con grave pericolo di vita. [7] Due erano fondamentalmente le condizioni per cui era ritenuto necessario cavar sangue all’animale : la natura acuta o cronica della malattia e l’età dell’animale (quanto più l’animale era vecchio tanto meno sangue si poteva togliere). Fondamentale era anche il punto in cui si doveva praticare il salasso. Secondo Vegezio [8] per le malattie della testa e del sistema nervoso si deve praticare dalla vena dell’occhio vicino alla tempia ; per le patologie oftalmiche bisogna tagliare la vena che corre accanto all’occhio dell’animale mentre per le patologie a carico della gola e del palato le vene del palato (despumare [9]). Per le patologie a carico degli arti anteriori si doveva salassare la vena che corre sopra l’articolazione invece per i salassi nella parte inferiore della gamba era più difficile trovare una vena senza incidere anche un nervo o un muscolo (occorreva quindi un chirurgo esperto). Apysrto non era troppo favorevole al salasso tramite incisione della vena safena né sopra né sotto il  









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ginocchio poiché ne temeva le conseguenze [10] (Moulé ipotizzava per un trombo [11]), consiglia invece il salasso temporale e facciale in caso di febbre; [12] al pastorale in caso di tetano e di infiammazione delle membra ; alla corona per le malattie podologiche, alla giuntura della spalla per le malattie muscolari e neurologiche. [13] Per gli ippiatri greci il luogo migliore per praticare il salasso era attraverso la vena giugulare (travchlo~) mentre Vegezio ne sconsiglia l’abuso. Gli strumenti preposti al salasso erano la lancetta (sagitta) e la fibula (una sorta di graffetta dalla forma di una spilla da balia), che serviva per richiudere vena e ferita, mentre le cucurbituae erano delle ventose ; inoltre veniva predisposto quasi un ‘cerimoniale’ che precedeva l’operazione in sé : il cavallo veniva portato in uno spazio aperto e legato con morsi e freni mentre anche la coda era immobilizzata, successivamente veniva battuta con un bastoncino la parte interessata al salasso affinché fosse messa in evidenza la vena e solo successivamente veniva praticata l’incisione. 2. Cauterizzazione [kauthvr, kauthvrion, cauterium]. – La pratica di cauterizzare gli animali (in special modo i cavalli) era tanto in uso quanto il cavar sangue e probabilmente molto di più in veterinaria che nella medicina umana : questa tecnica veniva usata anche come forma di abbellimento degli animali (come oggi ‘l’arte tatoo’ o delle cicatrici ‘decorative’). La tecnica della cauterizzazione doveva servire, secondo la teoria umorale, a ‘rassodare’ ciò che era troppo molle (eccessi di umori ad esempio o malattie che comportavano indebolimento all’animale). Questa forma di cura era considerata, al pari del flebotomo, come ‘l’ultima spiaggia’ poiché era considerata pericolosa e da eseguirsi sotto stretta sorveglianza di un veterinario esperto : è Vegezio il mulomedico più consapevole della pericolosità di questa tecnica e dà prova della sua preoccupazione in molti punti del suo manuale. Columella è il primo autore a indicare la tecnica della cauterizzazione come cura per il dolore degli animali, [14] non ne troviamo traccia né in Catone né in Varrone. Si passa direttamente all’epoca tardo-antica per avere ampie sezioni di trattati che ne parlano : Apsyrto e Teomnesto dedicano molti capitoli a questa tecnica distinguendo i vari tipi di cauterizzazioni a seconda delle malattie da curare. [15] A partire da Chirone si dà un nuovo significato a questa tecnica, poiché  

















nella Mulomedicina Chironis, secondo la teoria metodica, la cauterizzazione doveva servire a curare quanto si è indebolito con le malattie che causavano rammollimento delle membra o degli umori quali : morsi di animali velenosi, castrazione, tetano, follia. [16] La radice -uro ha generato tutta una serie di termini tecnici tra cui anche ustio, inuro, aduro, adustio; termine tecnico diverso è consumo. La differenza tra inuro e aduro dovrebbe rimandare alla profondità della cauterizzazione nella cute. Columella ha sancito, invece, la relazione tra inuro e consumo, stabilendo che inuro indica una cauterizzazione più leggera di consumo. [17] In epoca tarda è preferita la coppia di temini inuro/ uro a quella aduro/adustio. Lo strumento del cauterio è definito in vario modo : cauterium è un prestito dal greco kauthvrion ; la frase ferro candente curare è di epoca post-columelliana mentre ferrum (sivdhron) è usato per metonimia ad indicare lo strumento del cauterio in ferro. La forma ed i materiali con cui era fatto un cauterio erano varie : poteva essere in rame o in bronzo (cauteria cyprina [18]), in ferro (cauteria ferrea), in piombo (cauterium plumbeum quadratum [19]), ma ve ne erano ancora in argento e oro (estremamente rari – forse di uso sacrale o votivo). Essi potevano avere le forme più disparate a seconda di quale cicatrice si voleva indurre : arrotondata [20] o piatta (plateva). Per creare cicatrici puntiformi si usava un cauterio con la punta molto fina detto penna cauterii (dallo spessore di una piuma) ; per disegnare cicatrici a forma di foglia di palma (palmam dare) si usava un cauterio dalla forma apposita. [21] I disegni creati dalla cauterizzazione erano vari ed erano lasciati alla maestria del veterinario. Oltre alla forma palmata o puntinata si potevano trovare sulla cute degli animali cicatrici reticolari [22] (mandakhdovn, craticulatim) o a forma di stella, di x e di vario tipo. Non è ancora sicura la motivazione per cui le cicatrici assumevano forme così disparate ma gli studiosi si stanno orientando su motivi apotropaici e magici come se ogni forma permettesse la guarigione di una particolare malattia o di una specifica zona del corpo. Altra ipotesi molto probabile si basa sul fatto che le cicatrici, essendo indelebili e specifiche per una sola malattia o zona del corpo, permetterebbero a chi non conosce la storia dell’animale di venire a conoscenza delle patologie di cui ha sofferto ; infine non è da dimenticare il valore estetico di una ‘bella ci 

















chirurgia veterinaria catrice’ che valorizza un animale che vale poco mentre sminuisce la bellezza di uno di valore (attenzione a non sfigurarlo dunque [23] !). Anche le ‘focature’ facevano parte delle operazioni ascrivibili alla cauterizzazione perché consistevano nel riscaldare la parte malata fino ad arrivare a bruciarla (ma solo nei casi più gravi) attraverso gli strumenti della cauterizzazione. A seconda del grado di focatura si possono riconoscere il semplice fomentum o la sacellatio (volg.) che, sebbene bollente, non arrivava ad ustionare l’animale fino a giungere all’adustio e al praefocare che indicavano reali ustioni sulla cute anche in profondità. 3. Castrazione [eujnouciva, castrare]. – Aristotele è stato il primo a dare qualche indicazione precisa sulla tecnica della castrazione affermando che gli animali castrati (ejktemnovmena) (si possono castrare solo gli animali che hanno i testicoli) cambiano carattere dopo l’operazione (eujnou`co~) diventando più docili, la voce muta restando acuta nel caso di quadrupedi femmine mutilate. Lo Stagirita elenca anche le età in cui questa operazione va eseguita (pena la morte dell’animale operato) e descrive brevemente l’operazione di un torello, di un vitello e di un capretto, [24] ma afferma anche che è possibile castrare le scrofe : questa operazione chirurgica era usuale nel mondo greco anche per gli animali di sesso femminile. Negli Hippiatrica possiamo leggere che vi erano veterinari specializzati nella castrazione degli animali [25] che operavano nella primavera e nell’autunno anche se Apsyrto non si oppone ad eseguire operazioni durante l’estate. Così come per la cauterizzazione gli ippiatri greci e quelli romani avevano un lungo cerimoniale da rispettare prima dell’operazione che comprendeva anche una dieta stretta per due giorni. Quattro erano le tecniche principali per la castrazione sia nel mondo greco sia nel mondo latino : attraverso l’arroventamento di un ferro che bruciava la zona interessata e resecava la parte ; attraverso una pinza che letteralmente strappava via gli organi interessati, attraverso la compressione della zona, con l’incisione dello scroto, il taglio dei gangli, dei nervi e dei vasi sanguigni e la cauterizzazione delle ferite interne ed esterne. Anche nella pratica latina la castrazione aveva tanta importanza. Vegezio consiglia di non salassare gli stalloni (admissarii) già castrati (castrata) poiché parte delle loro forze era già stata asportata con la castrazione. [26] Gli autori tardi  











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che più si sono occupati di questo argomento sono Chirone nel settimo libro della sua Mulomedicina e Palladio Rutilio Tauro Emiliano nel sesto libro della sua opus agriculturae de veterinaria medicina de institutione. Chirone descrive fin nei minimi particolari questa tecnica : «Se vuoi castrare un cavallo così dovrai eseguire l’operazione. Nel mese di maggio quando il vento da settentrione è cessato, [27] il giorno prima non dargli da mangiare né da bere. Atterra il cavallo e legalo (contra stringito) accuratamente e fai un taglio nella parte mediana dell’organo […]. Prendi il testicolo inferiore […] e separalo. Taglia la membrana nella parte centrale e fai uscire fuori il testicolo, comprimi la vena centrale con il pollice e stringila con il dito fino a che non si rompa, o recidila poiché fragile. Quindi tira a te il testicolo superiore e tira il suo cremaster (legamento) […] fino a che non sia ben visibile il funicolo e similmente a quanto hai fatto prima, togli il testicolo. Pulisci e detergi accuratamente la membrana che avvolge i testicoli (membranam testis)». [28] Chirone offre ulteriori informazioni quando descrive la tecnica della castrazione attraverso l’incisione con un ferro tagliente fino a che non siano recise anche le radici. Similmente anche Palladio Rutilio Tauro Emiliano : [29] «Adesso [in maggio], come dice Magone, è tempo di castrare i vitelli, che hanno un’età ancora tenera : si comprimano i testicoli con una cannuccia fessurata (fissa ferula) e gradatamente [per effetto della mancanza di sangue i testicoli vanno in necrosi e si staccano da soli] così compressi si distaccano dal resto del corpo. […] Altri, dopo aver legato il vitello ad un travaglio (ad machinam) e con due sottili stanghette di stagno, usate come un forcipe, afferrano quei legamenti che in greco si chiamano cremaster. Dopo aver messo in tensione i legamenti si recidono con un ferro i testicoli, in modo tale che vi rimanga attaccato anche l’inizio dei nervi suddetti. Questa tecnica blocca l’eccessivo sanguinamento […]». Per Palladio, comunque, la tecnica migliore rimane la costrizione dei testicoli e dello scroto con una bacchetta di legno (lignea regula). Una volta compressi, tali organi vengono tagliati con uno strumento apposito a forma di spada o con un’ascia incandescente affinché l’operazione sia rapida e meno dolorosa. Questa tecnica era descritta anche da Apsyrto negli Hippiatrica eseguita con una specie di pinza arroventata e un ferro. [30] Anche altri  









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chirurgia veterinaria

autori di epoca arcaica o classica descrivono tecniche di castrazione dei vitelli o di animali più adulti [31] ma tutti concordano sul fatto che i migliori effetti sull’animale si hanno quando viene castrato in tenera età ma non prima dei due anni. [32] Similmente anche Palladio Rutilio Tauro Emiliano. [33] 4. Aborto [diafqora; ejmbruvou, abortus]. – Tra i testi latini specializzati nella cura e nell’allevamento dei cavalli spiccano, tra gli altri, i trattati di epoca tarda che mostrano quanto i loro autori fossero interessati alla tematica dell’accoppiamento. Tra tutti Chirone è l’unico che dedica un intero libro della sua opera all’argomento, ma anche Palladio, Pelagonio e Vegezio riportano le informazioni indispensabili per l’argomento anche se con minor dovizia di particolari. L’ottavo libro di Chirone è strutturato in modo tale che di ogni argomento riguardante l’accoppiamento e la riproduzione vengano trattate sia le tematiche generiche, sia le eccezioni sia le cure ai casi più pericolosi. Quindi, è possibile rintracciare nella sua opera sia trattazioni riguardanti il parto naturale, sia l’aborto naturale, sia un parto gemellare sia il malaugurato caso in cui il feto muoia all’interno dell’utero materno ed il veterinario debba estrarlo chirurgicamente. Per quanto riguarda l’accoppiamento (de concipientibus) ed il momento più favorevole alla fecondazione (qualem aetatem ut applices, ventrem ut ferat) Chirone non si discosta dalla tradizione precedente affermando che l’età migliore per una cavalla inizia dai due-tre anni mentre per uno stallone comincia dai tre o quattro anni. [34] La gravidanza dura un anno se l’accoppiamento è avvenuto tra stallone e cavalla, [35] ma un anno e due mesi se tra cavalla ed asino. Chirone, infine, enumera almeno alcuni rimedi contro la sterilità della cavalla tra cui vari tipi di cure da somministrare in loco. [36] Per quanto riguarda, invece, il parto (de partu – pario) Chirone non si limita a scrivere dopo quanti mesi esso avvenga, ma espone anche alcuni rimedi per rendere più facile il travaglio alla cavalla sia in caso di parto singolo sia in caso di parto gemellare. In questo secondo caso (Equa geminos si primo parto exposuerit) Chirone consiglia di apporre un fomentum caldo (un sacco o un bendaggio intriso di un composto medicamentoso) sia sui reni affinché questo possa salvaguardare la vulva e le vene della vescica e poi da appoggiare  







lievemente sopra i lombi. [37] Se invece una cavalla non riesce a partorire, Chirone consiglia di tappargli il naso senza soffocarla affinché lo sforzo di respirare la aiuti nella compressione dell’utero e quindi nel parto. Negli Hippiatrica alcuni capitoli sono dedicati anche all’aborto naturale o provocato. In questo secondo caso si consiglia non tanto di sottoporre la cavalla a sforzi eccessivi quanto l’asportazione dell’embrione attraverso un tecnica veterinaria : «è opportuno inserire la mano (o il braccio [38]) all’interno dell’apparato genitale e giungere fino alla cavità uterina (mhvtra). Qualora il puledro abbia già il manto (eja;n me;n dh; lavsion h/\ to; pwlivon), [39] prendendogli la bocca soffocarlo e comprimergli la testa. Qualora la placenta (ajmnivon) sia ancora morbida lacerala». [40] Oltre all’interruzione di gravidanza, negli Hippiatrica molti capitoli vengono dedicati anche alla buona riuscita di una gravidanza, alle cure particolari da dedicare ad una cavalla gravida [41] e a come affrontare il parto affinché avvenga senza complicazioni[42] e venga espulsa la placenta (ta; deuterei`a). Così come negli Hippiatrica anche nel testo chironiano molti paragrafi vengono dedicati all’aborto (de abortu). Vengono enumerati vari casi in cui questo può avvenire in natura [43] oppure debba essere procurato per mano del veterinario. [44] Tra le eventualità del secondo tipo l’autore si sofferma sul caso in cui il feto morendo durante il parto (equa si mortuum licere non potuerit – equa si licere voluerit et pullus in ventrem morietur) non possa più uscire da solo: in questo caso si consiglia di far bere alla cavalla un composto di finocchio bollito in acqua e olio che velocizzi il parto. Chirone non si limita a questo composto di dubbia utilità per casi del genere, infatti, esorta il veterinario ad eseguire una vera e propria operazione chirurgica per estrarre il feto morto dall’utero : «se la cavalla vuole partorire, ma il feto è morto nell’utero, ungiti la mano con l’olio, prendi lo scalpellum e inseriscilo nella vagina; afferra il feto, estrai per prima la testa e poi le zampe anteriori, in contemporanea cerca di estrarre il feto e immetti olio ed acqua[45]», probabilmente per facilitare l’estrazione.  









Note. [1] Chiron 57. – [2] Adams 1995, 40; Veg. mulom. 1, 25, 1 In quibus passionibus et ex quibus locis sanguis est auferendus. – [3] Hippiatr. 1, 8, chg i 3, 1; Hippiatr. 3, 3-4, chg i 31, 2; Hippiatr. 10, 6, chg I 59 ot{ i twn` eujnouvcwn ouj dei` aim | a ajfairein` . – [4]

clima Chiron 32. – [5] Veg. mulom. 1, 27, 2; Veg. mulom. 1, 21, 2 quodsi ignarus fuerit, huius rationis, non solum per detractionem sanguinis non curabit, verum etiam periculum iumentis frequentissime generabit. Cfr. Veg. mulom. 1, 23-24. – [6] Veg. mulom. 2, 40, 1: De observatione flebotomi. – [7] Veg. mulom. 1, 22, 1 quae diligentia adhibeatur in sanguinis detractione. – [8] Veg. mulom. 1, 25, 8 Cephalargicis autem, apiosis, insanis, cardiacis, caducis [...] praecipitur de venis auricularum sanguinem demere. Verumtamen melius est, ut de temporibus, quae dextra ac sinistra sunt, detrahatur: id est sub cavatura temporum tribus digitis ab oculo interpositis, inferius vena perquiritur et ex utraque parte sanguis emittitur [...];Veg. mulom. 1, 27, 1 De opisthotonicis vulsis colicis strophis et qui morbo subrenali tenentur, unde sanguis tollendus sit. – [9] Ortoleva 1999, 152: “verbo che assume nella Mulomedicina Chironis ed in Vegezio il significato tecnico di salasso dal palato. L’etimologia del verbo è probabilmente legata al fatto che dalla bocca del cavallo fuoriusciva sangue misto a saliva (spuma)”. Nel linguaggio veterinario latino tardo-antico molti sono i termini usati per indicare la pratica del salasso. Alcuni di essi sono tipici di un autore soltanto come sanguinare usato transitivamente, nel senso di togliere il sangue (Pelagon. 34, 3; 140, 2; 347). Debrachiolare in Pelagonio e Vegezio indica specificatamente togliere il sangue dalla parte superiore delle zampe anteriori del cavallo (Adams 1995, 509: sanguinem de brachiolo detraho). Dematricare, infine, è usato da Vegezio (Veg. mulom. 3, 7, 3), ma non da Pelagonio. – [10] Hippiatr. 9-10, chg i 56-58. – [11] Moulé 1891, 152. – [12] Hippiatr. 69, 1, chg i 269, 4; Hippiatr. 1, 6, chg i 3, 1, 4. – [13] Hippiatr. 8, 1, chg i 53. – [14] Colum. 6, 12, 5 Fere autem omnis dolor corporis, si sine vulnere est, recens melius fomentis discutitur; vetus uritur, et supra ustum butyrum vel caprina instillatur adeps. – [15] Hippiatr. 96, 1, chg i 326; Hippiatr. 34, 20, chg i 187, 21; Hippiatr. 34, 4-9, chg i 179-183. – [16] Chiron 27-37. – [17] Colum. 8, 2, 3 Nec tamen id patiuntur amissis genitalibus, sed ferro candente calcaribus inustis, quae cum ignea vi consumpta sunt, facta ulcera dum consanescant, figulari creta linuntur. – [18] Ortoleva 1999, 139: “l’aggettivo cyprinus nella lingua tecnica tardoantica poteva designare anche un manufatto di bronzo oltre che di rame.” – [19] Chiron 551. – [20] Pelagon. 533. – [21] Veg. mulom. 1, 28, 4 interdum autem puncta infiguntur, interdum ad similitudinem lineae candens ducitur veru, aliquando velut palmulae fiunt. in hoc enim mulomedici cum arte laudatur ingenium, si ita animal cauterio curaverit ne deformet. – [22] Pelagon. 533; Veg. mulom. 2, 67, 6; Chiron 187; Hippiatr. 34, 27, chg i 191, 18. – [23] Chiron 281; Chiron 670; Veg. mulom. 2, 67, 6 si vero tanta indignatio fuerit, ut eiusmodi non sentiat curas, aut cauterio cuprino locis

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opportunis urendo deprimes puncta, ne deformetur animal, au si vilius est et necessitati aptius quam decori, craticulatim, sicut moris est, ures. – [24] Arist. HA 8, 50, 631b21. – [25] Hippiatr. 99, chg i 341-342. – [26] Veg. mulom. 1, 23. – [27] Chiron 726-727. – [28] Chiron 683-684. – [29] Pallad. vet. med. 6, 27. – [30] Hippiatr. xcx, chg 2, 238. – [31] Colum. 6, 26. – [32] Varr. r.r. 21, 2, 5 Castrare non oportet ante bimatum, quod difficulter, si aliter feceris, se recipiunt; qui autem postea castrantur, duri et inutiles fiunt. – [33] Pallad. vet. med. 6, 7. – [34] Chiron 744 bimam aut trimam in equam impone, equo autem trimo vel magis quadrimo. – [35] Nel paragrafo 759 Chirone è ancora più preciso aggiungendo che la gestazione naturale di una cavalla dura undici mesi e dieci giorni, ma che alle volte avvengono parti prematuri in cui la gestazione è durata nove mesi e venti giorni. – [36] Chiron 766 Equa si virginale mundum habuerit et concipere non potuerit, semel maxime admittito sed rigorissima tempestate, ut concipiat neve laxet. Chiron 768: Equa. – [37] Chiron 747. Probabilmente è pensiero dei veterinari che lo sforzo di partorire due puledri non causi danni permanenti a questi organi a causa dell’eccessiva pressione e slabramento muscolare. – [38] Hippiatr. 13, chg i 85, 13-14. – [39] Oppure: quando la membrana che avvolge il puledro (placenta) sia già formata completamente e resistente. – [40] Hippiatr. 11, chg i 84, 1-9 ∆Ayuvrtou peri; proptwvsew~ mhvtra~. – [41] Hippiatr. 14, chg i 86, { pwn. 11 ajnatolivou peri; ejpimeleiva~ twn` kuouswn` ip – [42] Hippiatr. 14, chg i 87, 16 Eujmhvlou pro;~ eujtokivan. – [43] Chiron 750 De equarum abortus et mixtiones naturaliter quemadmodum debeant facere, et quando, quod appellatur graece ochiai, necesse erit scire te et hoc. – [44] Chiron 760 Necessarium autem debeam et hoc scribere, inmaturos abortus. Saepissime enim non erit equae utilem peferre fetum, si ex malo genere conceperit. quam oportebit fatigationibus fatigatam [...] ex ea expellere fetum. – [45] Chiron mulom. 765. Bibliografia. Adams 1995, 21-33 ; Björck 1944 ; Hoppe 1927 ; Lauffer 1971, 118-121 ; Moulé 1891 ; Önnerfors 1988 ; Ortoleva 1999, 139, 152, 175.  











Violetta Scipinotti Clima. 1. Definizione. – Nella scienza greca e latina il concetto di clima, in cui sono spesso confusi fenomeni tipici della meteorologia e dell’astronomia, ha origine da quest’ultima. Si riferisce, come indica l’etimologia del termine, all’inclinazione dell’asse polare della sfera celeste in relazione con l’altezza decrescente del sole sull’orizzonte dell’osservatore con l’aumento della latitudine, determinando la

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clima

temperatura dell’aria con la quale finisce sostanzialmente per identificarsi. Essa rimane costante in una fascia da Ipparco delimitata tra due paralleli e dell’ampiezza di 1° mentre da parte di Tolomeo si afferma piuttosto la costanza del giorno, cioè della durata dell’illuminazione solare del solstizio estivo che determina l’ampiezza della zona con un dato clima : un criterio quello di identificare quest’ultimo come fascia della superficie terrestre delimitata da due paralleli che è perdurato fino alla fine del diciottesimo secolo con il sorgere della moderna climatologia. [1] Per quanto concerne le conoscenze climatiche degli antichi esse furono influenzate dall’astronomia e poi dall’astrologia ; il concetto di ‘tempo’ rimase sconosciuto ai Greci che ignorarono perciò la differenza che intercorre tra clima e tempo con gli elementi di umidità, pressione atmosferica, etc. verificabili mediante strumenti di misurazione che gli antichi non seppero realizzare. Un concetto di clima quindi che seppur scaturito da presupposti scientificamente veri non si è potuto avvalere dei risultati di ricerche sui fenomeni metereologici. Ciò a causa della dicotomia tra astronomia e fisica tipica del pensiero greco : alla prima spettava il compito di studiare il mondo dell’etere caratterizzato dai movimenti perfetti degli astri con le sue leggi geometrico-matematiche, la seconda invece occupandosi del mondo sublunare, quello dell’imperfezione, aveva un ruolo subalterno, empirico e non di vera scienza, un limite al valore di una ricerca scientifica sugli elementi del clima, al quale il mondo romano non seppe dare alcun contributo di conoscenze recependo in toto il pensiero greco al riguardo. 2. Il determinismo climatico degli antichi. – La ripartizione della terra in zone climatiche, in cui l’elemento essenziale è quello termico determinato dalla latitudine, conduce a tale proposito i geografi greci a una sostanziale tripartizione [2] dell’ecumene in glaciale, torrida e temperata, l’unica questa in grado di garantire le migliori condizioni di vita non solo economiche ma anche politiche. In tale contesto il bacino del Mediterraneo costituisce un’area privilegiata, secondo l’affermazione di Strabone, così da permettere il «prosperare di città e di genti ben governate». [3] L’affermazione formulata dal più importante geografo dell’antichità consolida definitivamente, dopo quattro  









secoli, anche se non nel modo deterministico con cui era stata formulata, la teoria dei climi che il suo fondatore, Ippocrate, sul finire del v secolo a.C. aveva esposto nel trattato Sull’aria, le acque e i luoghi. Seppur in un’ottica medica egli sviluppa la teoria dell’influenza del clima per spiegare non solo le differenze etniche tra le varie aree alla luce di quelle climatiche, ma anche i diversi gradi di sviluppo socio-culturale in cui un ruolo di primaria importanza è svolto proprio dal clima, ponendo le premesse di quello che è conosciuto come determinismo climatico grazie al quale, tra Ottocento e Novecento, si sono volute spiegare grandi migrazioni di popoli in Asia. Al clima temperato, al giusto mezzo tra i due estremi di caldo e di freddo si ascrive il merito di aver permesso lo sviluppo delle potenzialità umane. E la dicotomia climatica tra Asia ed Europa conduce anche a quella fisica, morale e politica tra gli abitanti dei due continenti : la forza degli europei e la loro insofferenza nei confronti dei monarchi è attribuita al clima caratterizzato da differenze stagionali, mentre l’indolenza e l’acquiescenza degli asiatici è frutto dell’uniformità climatica. Differenze che si ritrovano in parte anche in regioni greche dove da un lato l’ottusità dei Beoti è attribuita all’aria resa ‘densa’ dagli impaludamenti del Copaide mentre la brillantezza intellettuale degli Ateniesi dall’altro, alla ‘purezza’ dell’aria dell’Attica. [4] L’idea di fondo del trattato ippocratico che si pone alla base del suo determinismo naturalistico si coglie nella dipendenza dell’uomo dall’ambiente di cui il clima costituisce una componente fondamentale. Da Ippocrate in poi questo determinismo diviene una communis opinio che sancisce la superiorità ellenica grazie alle caratteristiche più temperate del clima della Grecia [5] e in particolare di Atene, specie quando verrà fatta propria da Platone e Aristotele. [6] Così tra gli storici greci, con riferimento all’etnografia, il clima finì per essere invocato per spiegare eventi e situazioni che ne attirarono l’attenzione, specie riguardo alla nefasta influenza che può esercitare con i suoi eccessi. In età ellenistica, con l’affermarsi dello stoicismo, all’influsso del clima si aggiunge la sinergia astrale sul destino degli uomini : così gli astri, coi loro movimenti non influenzerebbero solo le caratteristiche delle stagioni ma ne costituirebbero la causa prima. Lo sviluppo dell’astrologia nel contesto della divina 





clima zione, condusse a un rinnovato significato del clima nel determinare il destino dell’uomo che sarebbe condizionato dalla data e dal luogo di nascita e cioè dalla fascia climatica di appartenenza. Una reazione di tipo antideterministico si ebbe nel i secolo a.C. con Cicerone e Strabone. Mentre l’oratore romano nel De natura deorum ribadisce l’azione del clima in particolare nel rapporto tra l’intelligenza e la densità dell’atmosfera il cui incremento è nefasto, nel De fato esclude che tale situazione possa impedire l’esercizio della volontà. Su questa linea si pone il geografo greco per il quale il clima può al più determinare i caratteri somatici ma non quelli morali dei popoli. [7] 3. Caratteristiche del clima mediterraneo e sua evoluzione. – La civiltà classica vede nel Mediterraneo il suo centro di gravità. Come rileva Braudel [8] esso unifica paesaggi e modi di vita per effetto del suo clima che è generato da quel ‘Mediterraneo aereo’ costituito dalla circolazione atmosferica dell’Oceano e del Sahara : la prima è attiva nel semestre invernale, dall’equinozio di settembre a quello di marzo. In questo periodo l’anticiclone delle Azzorre non ostacola le depressioni atlantiche che si susseguono traversando il Mediterraneo rendendo assai instabile il clima invernale ; è la stagione dei venti e delle piogge che nell’antichità prevedeva il blocco della navigazione. [9] Il semestre estivo vede la risalita dell’anticiclone che ostacolando le perturbazioni atlantiche è responsabile dell’assenza di piovosità e della calma sul mare. Il clima che lo caratterizza estende i suoi effetti sul continente nell’area in cui è presente l’olivo. Esso ad onta dei suoi pregi dovuti alla temperanza climatica non offre garanzie ai raccolti a causa dell’instabilità dei suoi elementi : un fatto che nell’antichità era causa di carestie e comunque con le sue conseguenze sul paesaggio e l’ambiente mise a dura prova i popoli che vi vissero. Sostanzialmente le condizioni climatiche dell’antichità erano analoghe a quelle attuali anche se le variazioni del livello del mare testimoniano la presenza, nel passato, di oscillazioni climatiche. In sintesi con la glaciazione tra il xv e l’xi millennio a.C. il livello del Mediterraneo era inferiore di 120130 metri rispetto a quello attuale ; poi si assiste a un rapido aumento che nell’viii millennio conduce al raggiungimento dell’attuale linea di costa. Lo studio del clima dell’antichità o paleoclimatologia si avvale di approcci scientifici  











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interdisciplinari in cui le oscillazioni climatiche sono riconosciute con vari sistemi che fanno riferimento soprattutto alle fasi di contrazione e incremento dei ghiacciai. Il loro arretramento tra il v e il iii millennio a.C. insieme con il predominio della quercia sulle coste mediterranee e la presenza di insediamenti umani nell’area oggi occupata dal deserto dimostrano l’esistenza di un lungo periodo di optimum climatico. [10] Il ii millennio a.C. vede invece un avanzamento del fronte glaciale con punte massime raggiunte tra il xv e xiv secolo a.C. in coincidenza forse con la grandiosa esplosione del vulcano di Santorini, alle cui ceneri, immesse nell’atmosfera, si potrebbe attribuire la fase di raffreddamento cui seguì, tra il xiii e il xii secolo a.C., una di regresso glaciale e clima caldo ed alla quale si ascriverebbero difficoltà incontrate dai popoli del Mediterraneo e dell’Asia occidentale anche per effetto di una diminuzione delle precipitazioni. Si tratta però di deduzioni fondate su dati extra-mediterranei a causa della scarsità di riscontri nel bacino mediterraneo dove le ricerche sono attinenti, per ovvi motivi, alla palinologia e all’analisi della stratificazione dei sedimenti recenti. Non sono mancati tentativi di spiegare la fine della civiltà micenea e gli spostamenti di popoli nel Vicino Oriente con l’ipotesi di un cambiamento drammatico delle condizioni climatiche nella prima metà del xii secolo a.C. [11] Certo è che tra l’xi e il ix secolo si assiste a una grave recessione economica, demografica e culturale nel Mediterraneo orientale di cui non si riesce a dare una spiegazione adeguata, mentre è evidente la discontinuità tra la civiltà micenea e quella greca arcaica. L’ipotesi climatica è suggestiva, specie se si considera che lo spopolamento non interessò le aree più esposte ai venti umidi. Dai dati palinologici l’inversione di tendenza con condizioni climatiche più fresche e umide nel Mediterraneo ebbe inizio dalla fine del x sec. a.C. Il mondo classico avrebbe goduto di un clima meno caldo testimoniato dal livello del mare più basso di circa 1 metro e più rispetto a oggi. Nella seconda metà del iii secolo a.C. la temperatura aumentò e la piovosità si attenuò provocando la diffusione di piante mediterranee fuori del loro habitat tradizionale, mentre nell’età tardo imperiale si assiste ad un’accentuazione dell’aridità cui si vorrebbe attribuire la fine della potenza romana : secondo E. Huntington il disseccarsi  





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dei pascoli dell’Asia centrale conseguente alla contrazione della piovosità avrebbe provocato spostamenti di popolazioni e di conseguenza le invasioni barbariche in Occidente. [12] Un’ipotesi che, seppur improntata a un rigido determinismo e come tale respinta, trova tuttavia un riferimento mediterraneo nell’inaridimento dell’Africa settentrionale, un tempo granaio di Roma. [13] Le problematiche indotte dal tema delle variazioni climatiche e il loro influsso sulla storia del mondo antico sono molteplici e di difficile risoluzione se non nel contesto di un approccio sempre più interdisciplinare.  



Note. [1] Dicks 1955, Pinna 1988, 17-27. – [2] Str. 2, 3, 1. – [3] Str. 2, 5, 18. – [4] Diog. Apoll. 64 A 19, 44-45 D.-K. – [5] Hdt. 3, 106, 1-2. – [6] Panessa 1991, i, 123-153. – [7] Pinna 1988, 47-97. – [8] Braudel 1953, i, 263-317. – [9] McGrail 2001, 88-95. – [10] Pinna 1984, 51-133. – [11] Carpenter 1969. – [12] Huntington 1907. – [13] Pinna 1984, 133-150. Bibliografia. Braudel 1953 ; Carpenter 1969 ; Dicks 1955 ; Huntington 1907 ; Lamb 1971-1977 ; Le Roy Ladurie 1982 ; McGrail 2001 ; Panessa 1991 ; Philippson 1948 ; Pinna 1984 ; Pinna 1988 ; Vita-Finzi 1969.  





















Giangiacomo Panessa Columella, Lucio Giunio Moderato. Scrittore latino di →agricoltura. 1. Vita. – Scarse sono le notizie biografiche sull’autore. Nato a Gades (Cadice) in Spagna, visse nel i sec. d.C. e scrisse in età neroniana, poiché menziona come contemporanei →Seneca e suo fratello Gallione nel suo trattato (3,3,3 ; 9,16,2). Intraprese dapprima la carriera militare in Cilicia ed in Siria, poi si dedicò all’agricoltura, cui era stato avviato in Spagna dallo zio paterno M. Columella. Stabilitosi in Italia, forse vicino a Roma, si occupò dell’amministrazione di fondi nel Lazio (Ardea, Alba, Carseoli) e nell’Etruria (Cere), allo studio scientifico dell’agricoltura ed alla stesura di scritti tecnici. 2. Opere. – L’opera principale è il De re rustica (o Res rustica) in 12 libri, il maggior trattato antico di agricoltura, sia per estensione che dal punto di vista scientifico e letterario. È tramandato anche un libro sull’→arboricoltura (liber de arboribus), la cui forma disadorna e schematica ed il cui contenuto pressoché identico a quello dei libri iii-iv dell’opera maggiore fanno pensare che facesse parte di una prima redazione dell’opera, poi ampliata e rielaborata. Sono  

perduti il liber singularis ad Eprium Marcellum sulla coltivazione della vite [→viticoltura] ed uno scritto di →astrologia (contra astrologos). Inoltre nel trattato Columella accenna ad una futura esposizione di riti religiosi legati all’agricoltura, probabilmente mai realizzata. 3. De re rustica. – Il trattato è dedicato a Silvino, un proprietario terriero vicino di Columella a Cere, e fu pubblicato progressivamente, come risulta da accenni dell’autore, nel corso dell’opera, ai commenti dei lettori sui libri conclusi. In modo sistematico sono esposti tutti gli aspetti della res rustica, comprendente sia agricoltura che allevamento, integrati con note di →agrimensura, →architettura, →astronomia, →veterinaria, →medicina e culinaria [→alimentazione in roma] : rispettivamente nel i libro si tratta di requisiti del fondo agricolo ideale (salubrità, presenza d’acqua, costruzione adeguata della villa [→azienda agricola]) e doveri del padrone (controllo costante del lavoro dei dipendenti, coloni e schiavi) ; nel ii coltivazione dei campi (scelta del terreno, →aratura, concimazione, semina di grano, legumi e foraggio) ; nei libri iii-v cura degli alberi e della vite (con nozioni di agrimensura nel v) ; dal vi al ix allevamento, rispettivamente di bovini, cavalli e muli (vi), asini, ovini, suini e cani (vii), animali da cortile, uccelli e pesci pregiati (viii), selvaggina ed api (ix). Il x libro, che tratta di orti e giardini, si distingue perché è l’unico scritto in versi (436 esametri) : secondo il piano originario dell’opera doveva essere l’ultimo e concludere con eleganza il trattato accogliendo un suggerimento di Virgilio, che nelle Georgiche (4,116-148) aveva accennato al tema degli orti invitando i posteri ad approfondirlo. In seguito, però, Columella aggiunse due libri in prosa per soddisfare le richieste di amici lettori : l’xi tratta dei doveri del fattore (vilicus) e comprende sia un calendario [→calendario dei lavori] con l’indicazione delle condizioni astronomico-atmosferiche e dei lavori agricoli caratteristici di ogni mese, sia una nuova trattazione più tecnica degli orti con un indice generale (ma di incerta autenticità) degli argomenti dei libri i-x ; infine il xii espone i compiti della fattoressa (vilica) ed una serie di ricette culinarie per conservare e trasformare alcuni prodotti agricoli. 4. Valore scientifico ed impegno morale. – Non si tratta solo di un manuale tecnico e nozio 













columella, lucio giunio moderato nistico, ma di un’opera scientifica di ampio respiro, frutto di vasta esperienza, cultura ed impegno morale. Significativa è l’introduzione programmatica del i libro, in cui l’autore condanna l’indifferenza e l’inettitudine dei proprietari terrieri del suo tempo, riprendendo motivi topici degli scrittori di agricoltura, da sempre impegnati a contrastarne la decadenza, ma rielaborandoli con riflessioni personali in un discorso critico ma costruttivo. Columella respinge sia gli sterili lamenti dei contemporanei, che incolpano il suolo ed il clima per la ridotta produzione agricola, sia le teorie filosofiche fatalistiche secondo cui la terra sarebbe ormai esaurita, accusando gli stessi proprietari di affidare i campi a schiavi o a dipendenti vecchi ed inesperti, e proponendo di rivalutare la figura dell’agricoltore e di modernizzare l’attività agricola. L’autore difende infatti la dignità dell’agricoltura, fondamentale per l’economia romana, contro il dilagare di mestieri disonesti ed avvilenti (usura, avvocatura, clientelismo) o innaturali (rischiosi commerci per mare) ; condanna, come →Varrone, le mollezze dei cittadini, deridendone le smanie per il teatro e per attori effeminati, e ne compiange la cagionevole salute, minata dai vizi, cui contrappone la sana vita rustica. Constatando infine l’assenza di maestri di agricoltura, a differenza di altre professioni meno necessarie o superflue (parrucchieri e cuochi), assume egli stesso questo compito didattico e sociale, illustrando il lavoro dell’agricoltore in tutta la sua complessità. Mostra così le innumerevoli competenze dell’‘agricoltore perfetto’, dalla conoscenza di ogni terreno a nozioni di astronomia e meteorologia, dal dominio delle varie tecniche di aratura, semina, innesto, potatura, viticoltura, orticoltura e floricoltura, all’esperienza in materia di allevamento, riproduzione e cura di ogni specie di bestiame. Delinea insomma una cultura enciclopedica, che si ispira al ritratto ciceroniano del ‘perfetto oratore’, unita ad ingegno, tenacia e disponibilità di capitali. Ne risulta una trattazione densa, interessante ed insieme animata sempre da buon senso e razionalità con cui Columella affronta ogni questione (mostrandosi ad es. scettico verso talune pratiche superstiziose dei precedenti trattatisti) : è un opus ricco di psicologia (ad es. nell’invito ad essere cordiali con i coloni, fermi ma clementi con gli schiavi, o ad incitare i buoi con la voce più che con le percosse), improntato ad equili 



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brio, realismo e parsimonia (con l’ammonizione, però, a non lesinare nelle spese necessarie per fronteggiare gli imprevisti), forse utopico in certe aspettative (ad es. riguardo al fattore ed alla fattoressa ideali, descritti come campioni di efficienza e di dedizione al lavoro) e con qualche eccessiva critica moralistica e tradizionalista (come quella al lusso ed alla mondanità femminile, o il rimpianto di austere usanze antiche), ma nel complesso al passo con i tempi e carico di entusiasmo ed ottimismo. 5. Economia. – La situazione economica nell’Italia del tempo, quale traspare dall’opera, appare instabile e preoccupante per la necessità di importare grano e vino dalle province e per il dilagare di latifondi lasciati a pascolo ed a colture estensive. Denunciando questi segnali di crisi, Columella ne indica però anche la soluzione in un rilancio dell’agricoltura nazionale sia su grande che su piccola scala, per la forte richiesta del mercato (specie di prodotti di lusso ricercati dai ricchi romani, che l’autore peraltro condanna in digressioni moraleggianti), per la convenienza della manodopera servile (di cui Columella però segnala anche la scarsa utilità, se non controllata) e per i molti vantaggi che anche la gente comune, più colpita dall’inflazione, poteva trarre da una maggior pratica dell’orticoltura ad uso privato. Il modello che egli propone agli agricoltori più responsabili ed attivi è una coltivazione razionale ed intensiva, soprattutto della vite (cui dedica ben tre libri del trattato) per l’alta rendita da lui stesso sperimentata. 6. Pubblico. – Columella rappresenta e si rivolge ad una classe di proprietari terrieri benestanti, in parte occupati in affari in città (di qui il consiglio di acquistare fondi nelle vicinanze per poterli visitare) ed avezzi ad una vita agiata (per cui l’autore suggerisce di fornire di comodità anche la casa di campagna, soprattutto per trattenervi la domina, come nota maliziosamente), ai quali Columella illustra tra l’altro con orgoglio propri esperimenti ed invenzioni (ad es. nuove tecniche di innesto ; perfezionamento di attrezzi agricoli ; nuovi medicamenti per animali). Si tratta inoltre di un pubblico di colti lettori, che poteva apprezzare le menzioni e citazioni di autori greci e latini che costellano l’opera, tra cui spicca →Virgilio, qualificato spesso da Columella con l’appellativo di noster, forse allusivo, oltre che al suo valore nazionale, a letture comuni in circoli di amici.  



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7. Fonti e modelli. – Columella è innanzitutto erede della tradizione catoniana e varroniana. Come →Catone si appella all’esempio dei maiores, insieme agricoltori e generali (Cincinnato, Curio Dentato) per invogliare all’agricoltura. Con Varrone condivide la considerazione dell’allevamento come attività complementare all’agricoltura, l’uso di distinguere tre mezzi principali per apprendere la res rustica (lettura di testi teorici, consultazione di esperti contemporanei e soprattutto l’esperienza) e l’indicazione preliminare delle fonti, in gran parte testi ora perduti. Columella fornisce un lungo elenco (in 1,1,3 sgg.), intercalato da rapidi giudizi, di autori cartaginesi, greci e romani, in parte corrispondenti ai nomi indicati da Varrone, ma con l’aggiunta di quelli latini a lui posteriori. Cita in particolare (direttamente o riassumendo e discutendo i precetti) Magone, Cornelio Celso e, per singoli argomenti, gli autori di saggi specifici come Igino per l’apicoltura, Giulio Attico e Giulio Grecino per la viticoltura. Nei confronti dei predecessori è sempre rispettoso, ma indipendente e spesso critico : riguardo ai più antichi segnala subito la necessità di verificarne i dettami alla luce della realtà attuale, verso i contemporanei si rivela giudice rigoroso e severo, segnalando errori o contraddizioni. Tra i passi citati spicca per ampiezza quello dell’Oeconomicus di →Senofonte nella traduzione latina di Cicerone, di cui offre una preziosa testimonianza indiretta. D’altra parte Columella è profondamente influenzato dall’insegnamento tecnico ed umano delle Georgiche di Virgilio, che egli loda sia come il poeta romano per antonomasia, sia come maestro di agricoltura, e da cui attinge molti exempla tecnici attestandone il valore scientifico, forse in voluto contrasto con chi (ad es. Seneca in epist. 86,15), pur apprezzandone i pregi letterari, le riteneva solo un’opera di intrattenimento, non un vero manuale per agricoltori. 8. Lingua e stile. – All’immediatezza ed alla persuasività dell’insegnamento columelliano contribuisce la forma espositiva, in prima persona ed in un piacevole tono didascalico, lontana dal brusco elenco di precetti di Catone, ma anche dalla finzione dialogica di Varrone. Ogni argomento è svolto con chiarezza e precisione, ma senza rinunciare all’eleganza, in una prosa insieme scientifica ed artistica. Le numerose citazioni virgiliane (59), cui si affiancano quelle sporadiche di altri poeti (Omero, Esiodo, En 

nio) sono l’elemento più vistoso del raffinato gusto stilistico di Columella, che riesce a conciliare la lingua tecnica agricola, caratterizzata da grecismi, tecnicismi (talvolta corredati di etimologie sull’esempio di Varrone), parole del gergo contadino e neologismi, con gli ornamenti stilistici propri di un testo letterario, come la variatio nel lessico, ricco di sinonimi, e l’uso di nessi allitteranti, litoti, arcaismi e poetismi, costruzioni originali, metafore e personificazioni, evitando comunque eccessi retorici e proponendosi espressamente di escludere elementi non pertinenti alla trattazione (come i miti legati alla vita rustica, anche se poi, in forma di preterizione, vi accenna comunque, ad es. in 9,2,3 ss. a proposito dell’origine divina delle api). 9. Il libro x. – Il culmine dell’impegno stilistico è rappresentato dal libro x, il poemetto didascalico sugli orti, con cui Columella si proponeva ambiziosamente di completare le Georgiche, emulando Virgilio : lo scrittore da una parte si rivela abile versificatore e perfetto conoscitore della poesia virgiliana e di altri poeti (soprattutto Ovidio), dall’altra manifesta una spiccata tendenza ad un personale virtuosismo espressivo, allo sperimentalismo linguistico ed alla ricerca di originalità, evidente nell’uso di termini rari e di nessi audaci. Limite del poemetto non è tanto il prevalere dell’elemento poetico sul contenuto tecnico (che rese opportuna un’ulteriore esposizione in prosa del tema degli orti [→ortaggi] nel l. xi), quanto una certa ridondanza espressiva ed il gusto espressionistico dell’autore per immagini crude nella rappresentazione della natura, peraltro tipico dell’età neroniana. Un altro aspetto della personalità di Columella è l’inclinazione a riflessioni filosofiche e moraleggianti : frequente è il ricorso a sentenze, proverbi e detti popolari, mentre un particolare interesse per la →cosmologia emerge nelle disquisizioni su Terra e Natura, viste come forze divine positive. Questi momenti più seri e riflessivi sono bilanciati altrove da elementi che vivacizzano l’esposizione rivelando lo spirito dell’autore, che introduce aneddoti, giochi di parole, battute argute e sorridente autoironia. 10. Fortuna. – Dell’opera columelliana si avvalsero in seguito →Plinio il Vecchio e soprattutto →Palladio (iv/v sec.), l’ultimo grande scrittore latino di agricoltura, che dal calendario del libro xi trasse tra l’altro spunto per la  



concime struttura del suo opus agriculturae (suddiviso per mesi, anziché per argomenti), e dal carme sugli orti derivò l’idea di concludere pure la propria opera con un poemetto (De insitione). Riferimenti al De re rustica ricorrono nei veterinari Eumelo, →Pelagonio e →Vegezio, in →Gargilio Marziale, Cassiodoro ed Isidoro. 11. La tradizione manoscritta. – Il De re rustica è tramandato da due codici del ix sec., Sangermanensis Petropolitanus (Leninopolitanus) Clas. Lat. F v. 1 (S) e Ambrosianus L 85 sup. (A), risalenti ad una fonte comune, e da codici del xv sec. derivati da A e da un altro capostipite perduto (R) e contaminati tra loro. Il testo fu riscoperto dopo secoli di oblio dagli umanisti : l’editio princeps apparve a Venezia nel 1472, e a partire dall’edizione aldina (Venezia, 1514) si riconobbe l’erronea collocazione del liber de arboribus, tramandato fino ad allora nel De re rustica dopo il ii libro (per cui il trattato risultava composto da 13 libri). Da allora il trattato fu pubblicato in 12 libri, generalmente in edizioni collettive comprendenti anche gli altri tre maggiori autori latini di agricoltura, Catone, Varrone e Palladio.  

Bibliografia. Ash-Forster-Heffner 1941-1955 ; Boldrer 1996 ; Calzecchi Onesti 1977 ; Cossarini 1977 ; Kappelmacher 1917 ; Lundström 18971968 ; Marcone 1997, 26-30 ; Martin 1985 ; Reeve 1983, 146-147 ; Scivoletto 1992.  

















Francesca Boldrer Concime. 1. Definizione. – Insieme delle sostanze, organiche o minerali, somministrate al terreno per arricchirlo degli elementi nutritivi necessari allo sviluppo e alla migliore produttività delle piante, che la terra ha perduto nel corso del tempo per il ripetersi e il perdurare delle stesse colture sul medesimo suolo agricolo. È stata considerata fin dall’antichità una delle pratiche più importanti della →agricoltura. 2. Importanza della concimazione. – Già in tempi antichissimi l’uomo ebbe la consapevolezza che il periodico indebolimento e rinvigorimento della fertilità del →terreno dovesse dipendere dalla presenza o meno di alcune sostanze necessarie alle coltivazioni e cercò di individuarne la natura. Sembra che all’inizio del neolitico l’uomo si servisse della cenere ottenuta con il taglio e l’incendio di una parte del terreno per concimare il suolo già coltivato, oppure che scegliesse con attenzione le zone

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coltivabili che avessero particolari caratteristiche naturali tali da rigenerarsi spontaneamente (esondazione di fiumi ; ruscellamento). L’uso di residui vegetali per concimare il terreno deve risalire ai primi stadi del Neolitico, più recente è l’utilizzo di rifiuti animali e vegetali. Sembra che i Cadmei e i Persiani utilizzassero la cenere delle piante per concimare il terreno, mentre nell’Odissea (17,297) è testimoniato l’uso dello sterco animale ; secondo il mito in Grecia fu il re Augia ad escogitare per primo l’utilizzo del letame come concime, che in seguito Eracle avrebbe introdotto nella penisola italica. La pratica della concimazione fu per moltissimo tempo, come è naturale, spontanea ed istintiva, legata non alla sperimentazione e all’osservazione scientifica, ma a elementi di carattere mistico e divino : in età romana la produttività e la fecondità dei campi venne celebrata come dono ottenuto dalla benevolenza degli dei e esisteva una vera e propria divinità – Stercutius (o Stercutus) – protettrice della fertilità del terreno (è significativo che il verbo latino colo possieda il doppio significato di ‘coltivare’ e ‘venerare’, a conferma dell’inscindibile legame che la coltivazione ebbe con l’ambito religioso). Anche il termine latino laetamen, legato al verbo laetari (‘rallegrarsi’) così come all’aggettivo laetus (‘fertile’, ‘fecondo’, ma anche ‘gradito’, ‘lieto’), indica chiaramente quanto questa pratica fosse utile e vantaggiosa per l’intera comunità. Che la concimazione fosse ritenuta essenziale alla tecnica agronomica è profusamente testimoniato dalla trattazione delle fonti antiche sull’argomento ; Catone (agr. 61 : «Che cosa vuol dire coltivare bene un terreno ? Arare bene. E in secondo luogo ? Arare. E in terzo ? Concimare !») la pone significativamente al secondo posto nella coltivazione, immediatamente dopo la pratica dell’→aratura. 3. Qualità di concime. – Tra le specie di concime, il migliore è il letame aviario, escluso quello degli uccelli acquatici di aree paludose o marine, che per l’eccessiva fluidità può essere utilizzato solo in unione con lo sterco di altri volatili. Interessante la notizia di →Varrone (r.r. 1,38) secondo cui l’efficacia di questi escrementi era tale che il prezzo dell’affitto delle uccelliere variava, a seconda che il padrone permettesse o meno l’utilizzo del letame dei volatili ivi custoditi. Il letame delle colombe è il più conveniente in assoluto, poiché, adatto ai terreni più deboli per il suo intenso calore,  

















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concime

elimina le piante infestanti e arricchisce la terra anche se sparso in piccole quantità. Al pari di questo, è molto utile quello dei tordi e dei merli, perché, oltre a fertilizzare il terreno, costituisce un ottimo nutrimento per i buoi e i maiali. Lo sterco umano è simile a quello delle colombe. Per la notevole natura riscaldante e l’eccessivo fetore, viene combinato con altri rifiuti organici prima dell’utilizzo ed è indicato soprattutto per i terreni argillosi o sabbiosi senza alcuna fertilità, bisognosi di un nutrimento più forte ed energico. Accanto alle feci, grande impiego ha anche l’urina umana, la più efficace per le viti e gli alberi da frutto, poiché, oltre a rendere più abbondante il raccolto, migliora il gusto e il profumo del vino e della frutta. In prevalenza si usa lo sterco animale, che le fonti pongono al terzo posto in ordine di efficacia. Quello d’asino è il più fertile e adatto a tutte le piante, perché la lenta masticazione, e dunque la completa e facile digestione dell’animale, permette di produrre un letame ben putrefatto e adatto ad essere sparso subito nei campi. Tra gli altri vi è lo sterco di capra, di pecora, di bue, di maiale (molto efficace secondo la testimonianza dei Geoponica 2, 21, mentre Colum. 2,14,4 lo considera pessimo) e quello di cavallo e mulo (utili nella praticoltura perché le bestie da tiro si nutrono di orzo, che fa crescere l’erba in grande quantità ; Varr. r.r. 1,38). Soprattutto nelle aziende prive di allevamento animale è praticato il sovescio delle leguminose – il lupino, la fava o la veccia da foraggio, ma anche l’ervilia, la cicercula, il pisello e la lenticchia – e sono considerati ottimi concimi la cenere, i carboni minuti o la polvere. Plinio ricorda che i traspadani addirittura preferivano usare la cenere piuttosto che il letame e bruciavano lo sterco dei giumenti – il più leggero – per concimare il terreno. Bruciare le stoppie, le frasche, gli arbusti selvatici e tutti i generi di rifiuti della campagna o incendiare i campi infecondi non solo nutre il suolo, ma elimina tutte le componenti nocive e l’umidità eccessiva, formando fessure adatte ad una migliore penetrazione dell’acqua nel terreno (Verg. georg. 1,84-90). 4. Conservazione del concime : il letamaio. – Per prevenirne il disseccamento – e dunque la perdita delle sostanze nutritive – il concime è conservato in un luogo interrato, scavato all’aperto, in cui vengono ammassate tutte le sostanze efficaci per la fertilizzazione : lo sterco animale e umano che deve decomporsi, la cenere dei  





forni, gli scarti dei conciatori di pelli, il liquame, la paglia, la sterpaglia, il legno e i rami secchi, le alghe marine (risciacquate nell’acqua dolce) e qualsiasi altro avanzo dell’→azienda ; alcuni agricoltori vi gettano anche la stoppia che, calpestata dal bestiame e marcita con l’urina degli animali, diviene un ottimo concime (Geop. 2, 22). L’intero composto, smosso con dei badili e rivoltato con forconi per favorire la putrefazione, è continuamente bagnato con urina umana o acqua dolce, affinché marcisca velocemente e, macerato nel suo liquame, si mantenga sempre umido (a questo scopo alcuni agricoltori costruiscono accanto al letamaio anche i bagni degli schiavi ; Varr. r.r. 1,13). Perché il letame non perda questo suo liquido, la fossa deve avere un fondo leggermente inclinato e pavimentato. I letamai devono essere sempre in numero di due – o uno diviso in due parti distinte –, affinché lo sterco recente e quello invecchiato possano essere conservati separatamente. Non vi è accordo tra le fonti sulla ‘stagionatura’ del concime. Alcuni autori consigliano di servirsi di letame invecchiato di tre o quattro anni, più morbido e dall’odore più sopportabile di quello recente, che danneggerebbe il campo e favorirebbe la prolificazione di vermi (Plin. nat. 17,53). Secondo altri, al contrario, il concime migliore è quello di un anno, poiché mantiene ancora tutte le sue sostanze nutrienti, mentre lo sterco più vecchio non avrebbe alcuna utilità (Colum. 2,14,8 ; Pallad. 1,33,2). 5. Somministrazione del concime. – Il concime non deve essere somministrato ad ogni terreno nella stessa quantità, ma in base alla natura specifica del suolo – poco alla terra già fertile, una misura maggiore a quella di media qualità, molto al suolo infecondo – affinché questo, troppo concimato non si bruci o, privo di concime, non si secchi. Non si deve distribuire tutto insieme in dosi elevate, ma frequentemente, più volte all’anno, in relazione con le piantagioni ivi coltivate ; infine, non tutti i luoghi del campo vanno concimati in parti uguali, ma maggiore deve essere la distribuzione del concime nelle zone più elevate, poiché le piogge e i ruscelli, facendo scendere il letame, trasportano il concime anche verso i territori sottostanti. 6. Periodo della concimazione. – È utile concimare il terreno in autunno, perché il letame possa riscaldare le radici durante l’inverno e favorire la crescita delle piante in primavera ; tuttavia alla ripresa vegetativa, nel mese di Feb 









conservazione degli alimenti braio, devono essere concimati i luoghi più poveri e sassosi e si deve eseguire la concimazione più abbondante. Non esiste in realtà un’epoca in assoluto più adatta alla distribuzione del concime, ma sono le diverse colture a determinarne di volta in volta il periodo opportuno. L’importante è che la fertilizzazione avvenga in prossimità della semina – dopo aver liberato il campo dalle erbe infestanti – e nello stesso giorno in cui può essere eseguita l’aratura, cosicché il letame, rotto dall’aratro e mosse le zolle, possa penetrare a fondo nel terreno ; questo deve avvenire quando il vento soffia da Ovest e la luna è decrescente (sembra che per le colture prative la concimazione debba avvenire con la luna crescente ; Pallad. 1,33,2 ; Colum. 2,14,9). 7. L’evoluzione moderna della tecnica di concimazione. – I concimi naturali in uso nell’antichità continuarono ad essere impiegati per moltissimo tempo come unico metodo efficace per la fertilizzazione del terreno. Tuttavia con il passare dei secoli l’esclusivo utilizzo di sostanze organiche finì per impoverire il suolo in misura sempre maggiore, mentre l’aumento esponenziale della popolazione e, di conseguenza, la più elevata richiesta alimentare mondiale, necessitarono l’intervento di tecniche più avanzate nella produzione agricola. Nel 1840 Justus von Liebig (1803-1873) nella sua Organic chemistry and Its Application to Agricolture and Physiology, London, per la prima volta espose sistematicamente la teorizzazione della concimazione artificiale – il processo di mineralizzazione e trasformazione che i composti organici subivano in natura prima della loro utilizzazione da parte del suolo, poteva essere riprodotto artificialmente dall’uomo, combinando gli elementi utili alla fertilità secondo precise regole – che permise di produrre in industrie specializzate fertilizzanti artificiali sempre più efficaci per un’adeguata nutrizione del suolo. L’utilizzo di concimi chimici è attualmente il più sviluppato, sebbene negli ultimi anni sia in forte espansione l’agricoltura biologica, che prevede esclusivamente la concimazione organica. Sebbene rappresenti ancora un settore poco sviluppato, in futuro potrebbe contrastare l’utilizzazione intensiva di elementi artificiali a favore di sostanze meno dannose e più vantaggiose per il territorio.  





Bibliografia. Paladini 1970 ; White 1970b, 199223.  

Giulia Tozzi

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Conone di Samo. – Matematico ed astronomo greco vissuto nel iii secolo a.C., è stato ricordato da Callimaco in un’elegia intitolata La chioma di Berenice, poi tradotta a Roma da Catullo per aver scoperto nel cielo un gruppo di stelle, visibile fra le costellazione della Vergine, del Leone e di Boote, cui diede il nome di Berenikes plokamos (= lat. Coma Berenices). Si trattava di un caso di →catasterismo, in quanto Conone affermò di aver ritrovato in cielo il ricciolo che la regina Berenice aveva tagliato per offrirlo in voto per un felice ritorno del marito, Tolomeo iii Evergete, dalla guerra. Famoso per le sue ricerche sulle eclissi solari [→eclisse], in campo astrologico i suoi interessi principali si sarebbero concentrati nello studio dell’astrometeorologia. [1] Nulla ci è pervenuto, se non un riferimento a lui da parte di Seneca[2] e la notizia di un trattato astronomico in sette libri, dal titolo De astrologia, di cui abbiamo notizia dallo Pseudo-Probo. [3]  



Note. [1] Verg. ecl. 3, 40. – [2] Sen. nat. 7, 3, 3. – [3] Prob. ad Verg. ecl. 3, 40. Bibliografia. Gundel-Gundel 1966, 107 sg. ; Urso 2002, 114.  

Carmelo Lupini Conservazione degli alimenti. 1. Generalità. – La conservazione delle derrate e dei prodotti derivati dall’allevamento è stato uno dei problemi fondamentali delle società antiche. In mancanza di refrigerazione, i procedimenti più impiegati per la preservazione degli alimenti (sia per la conservazione ad uso domestico, sia per il trasporto commerciale) erano : la salatura, l’essiccazione, l’affumicatura. Per le derrate, comune era la pratica di chiuderle il più ermeticamente possibile in otri e recipienti vari (Arist. Pr. 22,4 ; 25,17 ; Varr. r.r. 1,58 ; Plin. nat. 15,61). Ma il sistema più diffuso era quello di bloccare la fermentazione e l’invecchiamento dei prodotti attraverso l’immersione in liquidi aromatizzati e disinfettanti. I liquidi conservanti più diffusi erano l’aceto e il vino aromatizzato, nonché l’idromele, ottenuto dalla fermentazione del miele in acqua (per la preparazione : Colum. 12,12). La morchia era impiegata come conservante per frutta secca (come i fichi) o bacche (per esempio mirto) : vd. Cat. agr. 99-101 e, per la preparazione, Varr. r.r. 1,61 e 64 ; Plin. nat. 15,3334. Per tenere lontani roditori e altri animali in 













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contravveleni composti

festanti era diffuso l’impiego di un impasto di malta e morchia (Cat. agr. 92 ; Varr. r.r. 1,57,2). 2. Cereali. – I metodi per conservare il frumento (e il fieno per gli animali) erano vari (Plin. nat. 18,301-308) : si privilegiavano ambienti chiusi e secchi (meglio se sopraelevati), ma sono attestati anche grotte e pozzi (Varr. r.r. 1,57 ; Geop. 2,27-31). Un tipo particolare di terriccio, proveniente dalle città di Olinto e di Cerinto euboica, era noto perché, mescolato ai →cereali, li conservava meglio, anche se ne alterava in parte il sapore (Theophr. HP 8,11,7 ; Plin. nat. 18,305). 3. Ortaggi. – Alcuni →ortaggi (cetrioli, zucche) si conservavano in fondo ad un pozzo (Arist. Pr. 20,14 ; Theophr. CP 5,6,5), ma si potevano anche essiccare e conservare, coperti di aneto, finocchio e aceto, in vasi chiusi (Colum. 12,9,1-2) : in quest’ultimo modo venivano preparate lattuga, cicoria, cipolle. Rape e navoni si immergevano nella senape (Colum. 12,56-57). 4. Frutta. – Sotto la paglia si conservavano i →frutti, che maturavano lentamente e non marcivano (Arist. Pr. 22,13 ; Varr. r.r. 1,59,1), ma anche le uova, a volte precedentemente coperte per alcune ore di sale (Colum. 8,6, che è tuttavia scettico sulla possibilità di conservare a lungo il prodotto). L’essiccazione sostituiva il più facile ed economico metodo di conservazione di una parte notevole di frutta : mele, fichi e uva soprattutto, ma anche pere e sorbe (Colum. 12,14-16 ; Plin. nat. 15,60). La maggior parte della frutta (non essiccata) tuttavia si conservava sotto vino aromatizzato o nel miele (Colum. 12,10,4-7 ; 12,47 ; Plin. nat. 15,64-65). Ancora un altro metodo prevedeva la realizzazione di piccole fosse nel terreno, cosparse di frondame aromatico, nelle quali venivano adagiati i frutti, ricoperti sempre da fronde, da un tavolato, quindi da terra (Colum. 12,46-47 per le melegranate e le mele ; Plin. nat. 15,66). Un metodo particolare di conservazione di alcuni frutti (uva, mele, sorbe) consisteva nel lasciarli appesi all’albero, ma chiusi ermeticamente in vasi di coccio : ciò consentiva una maturazione più lenta e una preservazione fino anche alla stagione invernale. Il metodo, attestato già in Varrone (r.r. 1,68), descritto più dettagliatamente in Columella (12,45 ; 12,46 anche per le melegranate) e nei Geoponica (4,6,2), si è conservato nelle pratiche agricole del meridione italiano fino al secolo scorso. Per il periodo medio-breve, la frutta si riponeva in tavolati areati (Plin. nat. 15,59). Le olive si conservavano principal 











mente in salamoia, intere o schiacciate, o sotto mosto o aceto (Colum. 12,49), o come una sorta di ‘marmellata’ da spalmare (epytyrum : Cat. agr. 119 ; Colum. 12,49,10-11). 5. Alimenti di origine animale. – La →carne e il →pesce venivano conservati soprattutto sotto sale : in questo caso la carne più adatta era quella di maiale (Cat. agr. 162 ; Colum. 12,55) ; il pesce più indicato le alici. L’affumicatura e la salatura erano altrettanto diffusi, e numerose sono le testimonianze antiche che ne attestano l’uso ; perduta, invece, è la quasi totalità della strumentazione antica, fuorché i resti di fornaci e camini (MacKinnon 2004, 173-186). →Apicio (1,7) menziona per la carne un metodo particolare di cottura nel miele, che tuttavia non sembra esser stato praticato frequentemente.  











Bibliografia. André 1961 ; Curtis 2008 ; MacKinnon 2004 ; Marcone 1997, 75-98 ; Thurmond 2006.  







Emanuele Lelli

















Contravveleni composti. 1. Antidoti profilattici [profulaktikav, praesidiaria]. – 1.1. Indicazioni terapeutiche. – Gli a. profilattici sono composizioni utilizzate, nell’antichità, per preservare l’organismo da eventuali avvelenamenti, preparate triturando gli ingredienti in dosi stabilite e somministrate per masticazione o per bevuta con l’aggiunta di eccipienti[1] ; agiscono contro le sostanze venefiche impedendone la diffusione nell’organismo e stimolandone l’espulsione attraverso evacuazioni intestinali o vomito. [2] Di questa categoria fa parte anche l’antidoto di Mitridate (vd. infra 4). 1.2. Composizione. – Gli a. profilattici, generalmente composti da erbe o elementi minerali, talora venivano assunti quotidianamente in dosi minime ; l’a. di Apollonio Mure è composto da foglie di ruta, noci, fichi secchi, una presa di sale. [3] L’a. profilattico utilizzato da Nicomede è composto da bacche di ginepro e terra di Lemno con l’aggiunta di olio e di idromele. [4] L’olio di enante è consigliato, oltre che per altre patologie, anche come a. profilattico polivalente, e in particolare contro l’avvelenamento da biacca [→veleni e contravveleni, 2] e gesso, perché ritenuto capace di attutire la tossicità di tutte le sostanze. [5] Nelle ricette sono spesso presenti l’aceto [6] e la feccia del vino [7] semplici o in composizione, contro tutti i veleni e soprattutto contro l’intossicazione da  











contravveleni composti funghi, perché considerati di natura contraria al loro veleno. 1.3. Notizie storiche. Secondo →Galeno, [8] il re Nicomede utilizzava l’a. profilattico ogni volta che nutriva il sospetto di aver ingerito veleni, considerato che le sostanze che lo componevano, salvifiche in caso di avvelenamento, non erano comunque nocive. [9] 2. Antidoto dei cento ingredienti [ajntivdoto~ eJkatontamivgmato~, centena]. – 2.1. Indicazioni terapeutiche. – Più d’una ricetta è tramandata con l’indicazione di un numero assai elevato di ingredienti ; →Plinio sostiene che le ricette di contravveleni contenenti decine di elementi diversi sono preparazioni inventate per sfoggio e ciarlataneria, e afferma di essere a conoscenza di ricette composte da ben seicento ingredienti, molti dei quali prescritti in quantità infinitesimali. [10] Secondo Galeno, [11] l’a. dei cento è efficace contro i composti letali, contro ogni elemento tossico, contro il morso di tutti gli animali velenosi, contro le affezioni interne, e gli è riconosciuta la proprietà di depurare il corpo dagli elementi tossici, di espellere i feti abortiti, di essere efficace contro le febbri, i tremori, la podagra e i problemi nervosi. 2.2. Composizione. – Tra gli elementi che compongono l’a. dei cento ingredienti sono indicati iperico, acacia, iris, acoro, seselio, bdellio, gomma, rose secche, genziana, cardamomo, semi di papavero, polio, pepe bianco, foglie di malobatro, succo di panacea, mirra, galbano, nardo siriaco, croco, zenzero, succo di liquirizia. La preparazione prevede che alcuni degli ingredienti siano messi a macerare nel vino, e che sia aggiunto come eccipiente il miele ; [12] una seconda ricetta comprende astrolochia, acacia, abrotono, anice, genziana, succo di liquirizia, terra samia, iris illirica, mirra, cicuta, gomma, galbano, rosmarino, succo di papavero, terra di Lemno, nardo celtico e nardo siriaco. [13] 2.3. Notizie storiche. Secondo Galeno, [14] questa seconda ricetta, utilizzata anche come farmaco polivalente, era quella da lui preparata per l’imperatore contro tutte le affezioni e ritenuta particolarmente efficace contro ogni tipo di veleno. 3. Antidoto di Filone di Tarso [Fivlwno~ ajntivdoto~, antidotum Philonis]. – 3.1. Indicazioni terapeutiche. – Farmaco composto polivalente, efficace soprattutto in caso di intossicazioni epatiche o disturbi al colon causati da riten 















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zione di urina o presenza di calcoli, consigliato anche in caso di pleurite, vomito e tosse catarrale. [15] 3.2. Composizione. – L’a. di Filone è composto da cinque dracme di lanugine di croco, [16] una di piretro, una di euforbio, [17] una spiga di nardo, venti dracme sia di pepe bianco che di giusquiamo, venti dracme di oppio. [18] 3.3. Notizie storiche. – Filone di Tarso, alla cui paternità viene tradizionalmente ricondotto l’a., è un medico di collocazione cronologica incerta, probabilmente pre-alessandrino. [19] Il testo della ricetta filoniana, utilizzata fino al xvi sec., oltre ad essere riportato da Galeno, [20] è inserito da Camerarius nel suo commentario sugli antidoti. [21] 4. Antidoto di Mitridate [ajntivdoto~ Miqridavtou, antidotum Mithridatis]. – 4.1. Indicazioni terapeutiche. – L’a. di Mitridate è uno dei contravveleni composti polivalenti più noti dell’antichità. La sua efficacia è universalmente riconosciuta, ed è prescritto contro tutti i farmaci letali e contro il morso di tutti gli animali velenosi ; tra le facoltà attribuite alla composizione, quella di stimolare la comparsa del ciclo mestruale, quella di facilitare l’espulsione di feti abortiti e quella di corroborante in caso di stati febbrili cronici, paralisi, tremori, opistotonia, sciatica, podagra e malattie neurologiche in generale. [22] 4.2. Composizione. – Sotto la denominazione di a. di Mitridate sono tràdite diverse ricette ; Galeno [23] riporta, con i nomi alternativi di antidoto preparato con pungitopo (ajntivdoto~ dia; skivgkou/skivggou: vd. Diosc. 4, 144; cfr. murrivnh ajgriva in Diosc. 4, 129), teriaca (qhriakhv) e antidoto dai cento ingredienti (ajntivdoto~ eJkatontamivgmato~), una prima composizione che ha tra gli ingredienti, oltre a pungitopo, ferula, nardo selvatico, iperico, acacia, gomma, rose secche, genziana, cardamomo, iris, semi di papavero, storace, polio, cassia nera, galbano, croco ; la preparazione prevede che alcuni di questi ingredienti siano messi a macerare nel vino, e che per l’intero composto si utilizzi come eccipiente il miele. Una seconda ricetta, che secondo Galeno [24] era utilizzata anche da Andromaco, comprende tra gli elementi per la preparazione scilla, estratto della carne di animali velenosi, succo di papavero, rose secche, iris illirica, cinnamomo, succo di liquirizia, zenzero, rabarbaro, radice di cinquefoglie, calaminta di montagna, cassia nera, polio, san 





















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corpi celesti

gue di anatra. La ricetta fornita da →Celso [25] è composta da trentasei ingredienti e ricalca la composizione suggerita da Galeno, mentre secondo Plinio, che vuole tra gli elementi utilizzati noci secche, fichi e foglie di ruta, [26] gli ingredienti sono cinquantaquattro. [27] La ricetta fornita da →Scribonio, [28] che risulta parzialmente corrotta, [29] pare simile a quella prescritta da Galeno ; inoltre, dopo l’enumerazione degli ingredienti, vi è prevista la somministrazione di fave egizie e vino pretto. [30] 4.3. Notizie storiche. – Il primo utilizzo dell’a. è tradizionalmente ricondotto alla figura di Mitridate vi Eupatore Dioniso (120-63 a.C.). [31] Secondo la tradizione, il re, molto esperto di medicina, usava aggiungere al composto anche il sangue di anatra, individuato come il più efficace degli ingredienti, ed era solito assumere ogni giorno una piccola dose del composto, così da abituare il corpo alla digestione dei veleni. [32] L’efficacia della ricetta, confermata dalla ripetuta assunzione da parte del re di veleni mortali senza alcuna conseguenza, è ulteriormente comprovata dalla morte di Mitridate : vinto in guerra, avrebbe provato a darsi la morte con veleni letali, ma, ormai assuefatto, non avrebbe ottenuto alcun effetto, tanto da essere costretto a trapassarsi con una spada. [33] Circa un secolo dopo, l’imperatore Nerone (3768 d.C.), preoccupato dalla possibilità di essere avvelenato, avrebbe ordinato al suo medico personale, Andromaco, di rivisitarne la ricetta, con la sola aggiunta della carne di vipera ; il nuovo composto prese il nome di teriaca di Andromaco. [34] 5. Teriaca di Elio Gallo [qhriakh; Aijlivou Gavllou, theriaca Aelii Galli]. – 5.1. Indicazioni terapeutiche. – Sotto il nome di Elio Gallo sono tràdite diverse ricette di antidoti e teriache tutti ritenuti assolutamente efficaci, [35] talora indicati come polivalenti, talora utilizzati contro il veleno degli scorpioni, contro affezioni interne o contro il morso di animali rabbiosi. [36] 5.2. Composizione. – Tra gli ingredienti della t. contro affezioni interne sono indicati nardo indiano, cannella, croco, mirra, nardo celtico e galbano ; [37] la t. contro il morso di animali rabbiosi è composta, tra gli altri elementi, da mirra, croco, pepe bianco, meo e nardo ; [38] Galeno tramanda ancora altre due ricette di teriache di Elio Gallo ; tra gli ingredienti della prima sono prescritti radice di brionia, semi di trifoglio, succo di panacea, aristolochia, radice di rosmarino, iris illirica, zenzero, papavero,  

























ruta selvatica, cumino, mirra ; [39] la seconda è composta, tra gli altri elementi, da semi di trifoglio, aristolochia, echio, apio, anice, prezzemolo, succo di panacea, cumino, mirra, seme di robbia. [40] 5.3. Notizie storiche. – Elio Gallo è identificato con il prefetto d’Egitto tra il 27 e il 25 a.C. e in seguito impegnato in una campagna voluta da Augusto in Arabia Felice. Il suo nome è legato a varie ricette di contravveleni composti proprio in ragione della sua permanenza in territori percepiti come periferici e rischiosi. [41] La ricetta della t. sarebbe stata data a Cesare Augusto. [42]  



Note. [1] Vd. Gal. 14, 146 K. – [2] Vd. Gal. 14, 146 K. – [3] Vd. Gal. 14, 146-147 K. – [4] Vd. Gal. 14, 147 K. – [5] Vd. Plin. nat. 23, 80. – [6] Vd. Plin. nat. 22, 47. – [7] Vd. Plin. nat. 23, 66. – [8] Vd. Gal. 14, 147 K. – [9] Vd. Gal. 14, 147 K. – [10] Vd. Plin. nat. 29, 24. – [11] Vd. Gal. 14, 152 K. – [12] Vd. Gal. 14, 152-155 K. – [13] Vd. Gal. 14, 155-158 K. – [14] Vd. Gal. 14, 155 K. – [15] Vd. Gal. 13, 267. – [16] Vd. Radici 2008, 233 n. 16. – [17] Vd. Radici 2008, 232 n. 13. – [18] Vd. Lloyd-Jones-Parsons-Nesselrath 1983, 322-323. – [19] Vd. Diller 1941, col.52. – [20] Vd. Gal. 13, 267 K. – [21] Vd. Camerarius 1533. – [22] Vd. Gal. 14, 152 K. – [23] Vd. Gal. 14, 152-153 K. – [24] Vd. Gal. 14, 154-155 K. – [25] Vd. Cels. 5, 23, 3. – [26] Vd. Plin. nat. 23, 149. – [27] Vd. Plin. nat. 29, 24. – [28] Vd. Scrib. Larg. 170. – [29] Vd. Sconocchia 1983, 81. – [30] Vd. Scrib. Larg. 170. – [31] Vd. Mcging 1996, 991. – [32] Vd. Plin. nat. 25, 6. – [33] Vd. Gell. 17, 16. – [34] Vd. Ciarallo 2004, 71. – [35] Vd. Gal. 14, 161 K. – [36] Vd. Gal. 14, 158-159 K. – [37] Vd. Gal. 14, 158-159 K. – [38] Vd. Gal. 14, 158 K. – [39] Vd. Gal. 14, 161 K. – [40] Vd. Gal. 14, 161-162 K. – [41] Vd. Wellmann 1893, 493. – [42] Vd. Gal. 14, 114 K. ; Sconocchia 1985, 207 n. 88.  

Bibliografia. Camerarius 1533 ; Ciarallo 2004 ; Diller 1941 ; Lloyd Jones-Parsons-Nesselrath 1983 ; Mcging 1996 ; Radici 2008 ; Sconocchia 1983 ; Sconocchia 1985 ; Wellmann 1893.  

   







Livia Radici













Corpi celesti (silenzio, sonorità). 1. Generalità. – Una memoria storica più recente di quella classica mostra come nella nostra letteratura, da Leopardi (“Che fai tu, luna in ciel ? Dimmi, che fai, silenziosa luna ?”)[1] a d’Annunzio[2] (“La luna piena, a mezzo del cielo, versava la triplice purezza della luce, del gelo, del silenzio”), a Carducci (“Ben vieni, o bell’astro d’argento, compagno tacente a la notte”), [3] sono più numerose le attestazioni di una luce siderale  





cosmetica sprofondata nel silenzio. Ma non manca qualche caso in cui agli astri è attribuito un suono, un rumore, e la percezione della luce viene rivissuta in termini di vocalità. Si tratta di versi di Dotti : “Sorgea la notte e per gli adriaci liti / parea l’aria sgroppar tremoli accenti, che del sol moribondo eran lamenti / o degli astri nascenti eran vagiti”. [4] 2. Il firmamento come vocalità e suono. – C’è un testo dal quale è necessario prendere le mosse per capire il modo in cui i Greci, da un punto di vista strettamente speculativo, avevano risolto il problema del firmamento come vocalità e suono. È un passo del de caelo (2, 9, 290b), in cui Aristotele combatte la teoria di ‘alcuni’ non meglio precisati ma da identificare con i Pitagorici, secondo i quali i corpi celesti (luna, sole, astri, pianeti) muovendosi producono uno yovfo~, cioè un rumore di forza straordinaria, una fwnh; ejnarmovnio~ determinata dalla differente velocità delle sfere disposte quasi come una scala musicale. Una fwnhv, una voce, la cui esistenza Aristotele nega per una serie di motivi : a) non ha effetto sull’udito perché nessuno la sente ; b) non ha ripercussione neppure sui corpi ; c) è impossibile che si produca perché gli astri si muovono (ferovmenoi) in qualcosa che si muove (ejn feromevnw//) e quindi manca l’attrito in cui essa dovrebbe originarsi. Quindi né yovfo~ né fwnhv. E neppure dunque la sumfwniva o aJrmoniva, di cui parlano i Pitagorici. L’argomentazione aristotelica, ineccepibile sul piano della fisica, non tronca però la concezione che gli astri emettessero suoni ed avessero una voce : già Platone, che nel Timeo aveva parlato degli intervalli delle sfere celesti, nella Repubblica (R. 617 b), aveva immaginato che su ognuno di questi kuvkloi montasse una Sirena sumperiferomevnh, che emetteva (iJei`sa) la sua voce (miva fwnhv). E dopo di lui, da Alessandro Efesio riportato da Teone di Smirne (fr. 21, 9 Suppl. Hell.) fino a Giamblico (vp 15, 65), in ambito greco e a Cicerone (nat. deor. 2, 119), Apuleio (mund. 29), Mario Vittorino (6, 60 Keil) e Marziano Capella (1, 12) in ambito latino, alle stelle non solo viene attribuita una ‘voce’, ma la loro espressione sonora è definita addirittura w/jdhv, cantus (canto), accanto alla diffusa attestazione della sola musica come risultato del loro movimento. [5] Termini come sunw/diva e concentus, mevlo~ e cantus, fqovggo~ e chorus ‘raccontano’ un romanzo delle stelle visto – e per certi testi rimodellato sulla tipologia dei cori angelici – essenzialmente come ‘voce’,  













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fqovggo~, che si esprime su una melodia, mevlo~, per diventare un canto corale, sunw/diva. È anco-

ra interessante osservare che accanto a questa applicazione diretta di termini afferenti al campo semantico della voce in senso proprio ve n’è un’altra, più sottile e per questo più intrigante, anche perché molto più invasiva ed imponente, che dal senso letterale si spinge fino alla metafora. Infatti, per indicare l’accordo o il disaccordo planetario, cioè un elemento che è stato da sempre alla base dell’interesse degli uomini verso gli astri nella loro significatività prognostica, viene impiegato in una maniera massiccia, che poi tecnicizzandosi diventa univoca, il lessico della voce : sumfwniva, suvmfwno~, sumfwnei`n ed i loro contrarî descrivono la cooperazione (e per analogia, nei composti negativi, il contrasto/opposizione) tra i corpi celesti come un ‘parlare insieme’ un comunicare e di conseguenza un esprimere l’accordo in termini del tutto propri al microcosmo umano (→microcosmo e macrocosmo). Un altro aspetto rilevante è costituito dal fatto che le diverse costellazioni dello Zodiaco, al di là delle distinzioni basate sul presunto sesso astrale, sul grado di umidità o siccità, sulla loro collocazione orientale o occidentale o in base all’immaginario ordine gerarchico celeste, vengano classificate in tre categorie, e proprio a proposito della loro capacità di parlare : così in un anonimo testo astrologico compaiono segni fwnhvente~, hJmifwnhvente~, a[fwna, cioè «parlanti», «semiparlanti», «muti», [6] una classificazione perfettamente sovrapponibile a quella grammaticale in cui le lettere dell’alfabeto erano state distinte in sonanti, consonanti e mute →stelle, scrittura delle.  





Note. [1] G. Leopardi, Canto del pastore errante, 1-2 [2] G. D’Annunzio, Prose di romanzi, Milano, 1955, 1, 263. – [3] g. carducci, Poesie, Bologna, 1955, 1, 955. – [4] g. dotti in Marinisti, a cura di G. Gatto, Torino, 1954, 256. – [5] Radici Colace 1993 c, 236, n. 19. – [6] Ludwich 1877, 107, 2-5 ; Hübner, 1976, 123, n. 13. .. –



Paola Radici Colace Cosmetica [kosmhtikh; tevcnh, ornatio]. 1. Indicazioni generali e strumenti. – Nel mondo antico si intendeva, per c., l’arte di mettersi in ordine, e ne facevano parte tutte le attenzioni prestate alla cura del corpo. [1] Un ruolo fondamentale era rivestito, sia in Grecia che a Roma, dalla pulizia personale che precedeva la profumazione, l’acconciatura e il trucco. Secondo Ovidio, [2]  



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l’interesse per la cura della persona e l’attenzione all’aspetto fisico, poco presenti in epoca arcaica, sono progressivamente aumentati, sino a divenire pratica quotidiana al suo tempo sia per gli uomini che per le donne, almeno nelle classi agiate. I rinvenimenti archeologici testimoniano un largo uso, nell’area del mediterraneo, di strumenti utili per mantenersi in ordine, quali specchi generalmente costituiti di materiale metallico, pettini, rasoi in bronzo di varie forme e con manici lavorati, forbici, strigili per i massaggi con unguenti, arricciacapelli, forcine, lime per unghie. [3] 2. Igiene personale. – Sebbene la distribuzione e lo scarico delle acque nelle abitazioni private fossero assai difficoltosi, [4] sia gli uomini che le donne mostravano particolare attenzione alla pulizia del corpo ; eccetto che per chi abitava le dimore più ricche, [5] infatti, era diffuso l’uso dei bagni pubblici. Anche gli uomini, dopo i bagni, usavano idratare la pelle applicando olio d’oliva e frizionandola con appositi strumenti. 3. Trucco. – I prodotti cosmetici dell’antichità erano, il più delle volte, frutto di tritura di erbe o minerali e dell’aggiunta di eccipienti ; le donne greche utilizzavano prodotti differenziati per le guance (zwgrafivva pareiw`n), per colorare le labbra (ceilevwn bafhv), [6] per dare colore alla pelle (mivlto~), per tingere le palpebre (uJpografh; ojfqalmw`n) [7] e per marcare i lineamenti del viso (ajsbovlh)[8] ; le donne corinzie e, in particolare, quelle ateniesi, usavano uniformare e schiarire la pelle del viso con il carbonato di piombo o biacca (yimuvqion) [9] e identificavano con questa pratica l’appartenenza a uno stato sociale elevato. Tuttavia, la biacca è uno di quegli elementi utilizzati nell’antichità a fini estetici che, per le loro caratteristiche, talora danneggiavano l’epidermide (→veleni e contravveleni, 2). Anche le donne romane utilizzavano balsami, paste dentifricie, tinture per capelli, ciprie, rossetti e unguenti di diverso tipo conservati talora in scatole a scomparti separati. [10] Inoltre, tra i profumi personali erano molto utilizzati l’incenso, la mirra (→veleni e contravveleni), il finocchio e le rose essiccate. [11] 4. Acconciature. – Sia le donne greche che quelle romane usavano acconciare i loro capelli in trecce o in semplici code, sebbene a Roma, in età imperiale, fosse diffusa la moda delle acconciature elaborate sulla sommità del capo e quella dell’utilizzo di parrucche. In epoca arcaica, sia in Grecia che a Roma gli uomini  



usavano lasciar crescere sia la barba che i capelli, mentre a partire dal v sec. a.C. in ambito greco e dal iii a.C. in ambito romano si diffuse la moda dei capelli corti e del viso sbarbato. [12]  

Note. [1] Vd. Grillet 1975, 13. – [2] Vd. Ov. medic. 11-22. – [3] Vd. Wright-Vickers 1996, 404. – [4] Vd. Ginouvès 1962, 33. – [5] Vd. Flacelière 1959, 180. – [6] Vd. Philostr. Ep. 22. – [7] Vd. Xen. Cyr. 1, 3; per un ricco elenco dei kovsmoi femminili cfr. Ar. fr. 332, 1-5 K.-A. – [8] Grillet 1975, 50. – [9] Vd. Grillet 1975, 33-35. – [10] Vd. Wright-Vickers 1996, 404. – [11] Vd. Ov. medic. 83-94. – [12] Vd. WrightVickers 1996, 404-405. Bibliografia. Flacelière 1959 ; Ginouvés 1962 ; Grillet 1975 ; Wright-Vickers 1996.  





Livia Radici















Cosmologia. 1. Considerazioni introduttive. – 1.1. Il termine ‘cosmologia’ è moderno (in italiano è attestato sin dalla fine del Cinquecento, mentre si presume che il primo trattato di Cosmologia generalis sia stato quello di Chr. Wolff, pubblicato a Verona nel 1731) ed ha avuto una vita piuttosto travagliata via via che l’ambito è stato ritenuto rilevante non tanto per la filosofia quanto per l’astronomia e, più in particolare, per l’astrofisica. Anche nel mondo classico la nozione di c. (peri physeos, de rerum natura, più che peri kosmou) si è variamente intrecciata con la filosofia, la fisica e l’astronomia. Nondimeno la parola chiave è kosmos, termine che ha conosciuto una cospicua evoluzione del suo campo semantico. In Omero ed →Esiodo con kosmos si indica un ordine o ordinamento, mentre Erodoto e Tucidide se ne servono per indicare tanto l’ordinamento di una città quanto l’onore, →Aristotele per indicare l’ornamento del discorso così come il firmamento, la sfera celeste, l’ordine cosmico. Nonostante questa relativa instabilità, ad usare il termine nell’unica accezione in cui si parla tuttora di cosmo, ossia per indicare l’ordinamento del mondo fisico nel suo complesso, cominciarono senza alcun dubbio i →presocratici. [1] Quel che più conta, l’antichità greca e latina ha investito grandi energie nel tentativo di elaborare una meditata rappresentazione dell’universo non solo in termini di definizione dei rapporti spaziali (tentativi di ‘dire’ come è fatto il mondo, quanto è grande…) ma, sin dall’inizio, anche nella elaborazione di congetture sugli equilibri dinamici, e perfino sul 

cosmologia le trasformazioni grazie alle quali il sistema è arrivato a darsi quell’assetto stabile che a noi è dato osservare. Ha potuto prendere forma, in tal modo, un settore di ricerca piuttosto ben identificato, con sviluppo di uno specifico sapere sui corpi celesti, sulla terra e sulla logica che presiede al sistema terra-cielo. 1.2. La fase di avvio di questa riflessione è strettamente legata a quello straordinario laboratorio che fu Mileto ai tempi di →Talete e allievi e, di riflesso, agli scambi con il sapere elaborato nell’area mesopotamica e in Egitto. In quel piccolo centro sicuramente arrivarono, e qualcuno seppe apprezzare, una serie di informazioni sul modo in cui Babilonesi ed Egizi si rappresentavano il cosmo ed effettuavano specifiche misurazioni, talora di grande precisione. La passione di Talete per le misurazioni [2] e, più in generale, il tipo di sapere che prese forma a Mileto fanno pensare che nel suo ambiente si ebbe notizia di non poche acquisizioni disponibili in alcune altre culture. Come è noto, non molto riesce ad emergere sul conto di questi scambi, ed è un peccato. Possiamo cominciare col ricordare che, all’inizio di un suo libro, il sofista Ippia enunciò il proposito di riferire sia cose cantate dai poeti sia cose di cui si parla « nelle sungraphai (compilazioni, testi in prosa), alcune dei Greci, altre dei barbari » (86B6 D.-K., dalle Stromati di Clemente Aless.), ma purtroppo le nostre informazioni si fermano qui. Un altro sofista, Crizia, si dedicò, in una sua elegia (88B2 D.-K.), a riconoscere la paternità di specifiche invenzioni (anche l’invenzione di particolari oggetti d’uso quotidiano, come ad es. il sedile installato sul carro) ai popoli più diversi – Etruschi, Fenici, Carii… – così come ad alcune etnie elleniche. Un buon mezzo secolo più tardi Isocrate, parlando degli Spartani, ebbe occasione di dichiarare che i barbari « sono allievi e maestri di molte scoperte » (Panat. 209) e Filippo di Opunte ebbe modo di dichiarare che i Greci portano alla perfezione tutto il sapere che acquisiscono presso i ‘barbari’ (Epin. 997e). A sua volta Aristotele ha occasionalmente annotato che Egizi e Babilonesi seppero rendere conto del passaggio della luna davanti ad alcune ‘stelle errabonde’ sulla base di osservazioni effettuate per lunghissimi periodi di tempo, osservazioni « dalle quali deriva molto di ciò che noi sappiamo intorno a singole stelle » (Cael. 2, 12, 292a 6-9). L’insieme (ma vd. anche →astronomia, 15) è più che  











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promettente ; e non a caso ricerche minuziose sono state condotte nel tentativo di trovare dei riscontri. I parallelismi fin qui rivenuti [3] rimangono però dei parallelismi a distanza e d’altra parte, per il periodo che qui interessa, non siamo in condizione di identificare nessun tentativo greco di dire cose specifiche intorno al sapere elaborato dai sapienti di altri paesi, così come non siamo in grado di documentare il cammino inverso del sapere, dalla Grecia all’Egitto e/o alla Persia. Che tutto ciò dipenda unicamente da un deficit di conoscenze da parte nostra è certamente possibile, ma lo stato attuale delle nostre conoscenze induce piuttosto a pensare che i sophoi di Mileto (e, più in generale, delle poleis greche dell’Asia Minore) utilizzarono conoscenze provenienti da altre culture per poi costruire un sapere eminentemente greco, per poi inventare cioè un modo plausibile – e intelligibile per i parlanti greco – di rendere conto dei fenomeni ‘celesti’ e di altri argomenti, senza preoccuparsi di precisare se e in che misura una data teoria fosse debitrice di competenze allotrie. Si può capire che, in queste condizioni, il sapere di provenienza non ellenica sia rimasto un substrato, non un elemento costitutivo del nuovo che ha preso forma tra i Greci. [4] In questo loro costruire un sapere che gli stessi sophoi di Mileto non poterono non percepire come profondamente innovativo, risalta anche l’uso di abbandonare il tradizionale registro narrativo, le metafore, i nomi propri, il sovraccarico mitologico di cui anche la Grecia era ricca, investendo energie nel tentativo – mediamente riuscito – di costruire un linguaggio e di ideare una forma di scrittura che ne sapesse fare a meno, a tutto vantaggio di quegli elementi conoscitivi che vennero giudicati difendibili o tali da dar luogo ad accertamenti non troppo aleatori. Conviene ricordare, a questo punto, che nella Grecia del vii-vi secolo a.C. l’invenzione di un’alternativa alla narrazione poetante ha avuto come protagonisti da un lato i redattori di atti fondativi delle colonie e gli autori delle prime leggi scritte, dall’altro proprio i sophoi di Mileto, che misero mano a testi non poetici in cui procedere alla presentazione del loro sapere sul mondo. Si osservi, al riguardo, che la comunicazione di tipo narrativo-affabulatorio presuppone una modesta vigilanza dell’uditorio intorno alla plausibilità e fondatezza di quanto viene narrato, e anzi sviluppa una strutturale tendenza ad  



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attenuarla. Invece il sophos ci tiene ad essere giudicato attendibile, quindi cerca spiegazioni per quanto possibile non fantasiose e si adopera per far sì che l’uditorio possa farsi almeno un’idea delle ragioni per cui sostiene una determinata teoria e spiega i fenomeni in un certo modo ; inoltre cerca spiegazioni diverse per fenomeni diversi. Per queste vie vengono fatti passi decisivi nella direzione del sapere e della scienza. Anche perché il contesto non è soltanto una società di liberi, di benestanti che dedicano tempo e denaro a ricerche più o meno peregrine, in presenza di un pubblico disposto ad apprezzare. È anche una società molto competitiva, in cui raggiungere qualche forma di eccellenza costituisce un’aspirazione diffusa (basti pensare alle Olimpiadi) e in cui anche una scoperta può rendere famosi (si cerca il protos heuretēs). A loro volta questi antichi sophoi ben presto cominciarono a dar luogo a dispute e a fare il nome dei propri ‘colleghi’. È in particolare Erodoto a parlare di competizione fra teorie rivali allorché (in 2, 20-23) passa a discutere le teorie precedentemente emesse dai sapienti greci per spiegare la dinamica delle piene periodiche del Nilo. [6] D’altra parte →Eraclito non si è limitato a menzionare e criticare Omero ed Esiodo ma, oltre a parlare espressamente di oJkovsown lovgou~ h[kousa (nel fr. 108 D.-K.), ha fatto riferimenti precisi anche a persone cronologicamente a lui vicine o molto vicine. La lista include infatti →Pitagora, →Senofane, Ecateo, Ermodoro, Biante figlio di Teutameno, Archiloco, Alceo (lo riferisce Diog. Laert. 1, 76 = F 142 Mouraviev) e, congetturalmente, Talete. [7] Inoltre egli ha avuto occasione di riferire che Pitagora si procurò una selezionata scelta di compilazioni (suggrafaiv). Il termine sungraphai qui usato si direbbe particolarmente significativo in quanto fa pensare alla raccolta di molti nuclei di sapere, magari anche un po’ eterogenei, con attitudine a giustificare il riferimento polemico di Eraclito alla polymathia di Pitagora (in Diog. Laert. 8, 6 = 14A19 D.-K. = 23B129 D.-K.). Nell’insieme, queste circostanze depongono a favore dell’idea che a Mileto sia iniziata una decisiva fase di incubazione di quella che poco a poco divenne filosofia, scienza e scienze. Proprio i sophoi seppero dar vita, oltretutto, a un tipo – e quindi a un primo gruppo – di trattazioni specifiche in prosa : i →peri physeos, autentico prototipo del trattato scientifico. E, per l’appunto, la co 









smologia costituì, per questi sophoi, un banco di prova elettivo fin dai primordi. 1.3. Ciò premesso, proviamo a identificare le grandi tappe della costituzione della cosmologia greca. Sono cinque o sei : - abbiamo dapprima il fondamentale apporto di Talete e →Anassimandro ai primi tentativi di elaborare un’immagine ‘moderna’ del cosmo e di altri aspetti del reale (§ 2) ; - viene poi elaborata la teoria delle sfere o corone concentriche (→Parmenide e →Filolao : § 3) mentre altri autori tornano a valorizzare la teoria del vortice cosmico ; - prende quindi forma il modello geometrico adottato per ‘salvare i fenomeni’ spiegando, in particolare, l’anomala condotta di alcune ‘stelle erranti’, con il conseguente decollo della stagione ‘aurea’ della ricerca astronomica in Grecia, con il contributo di Filolao, →Platone, →Eudosso, Callippo, →Aristotele e altri : § 4) ; - segue l’elaborazione di un modello alternativo, il sistema eliocentrico (→Eraclide Pontico e →Aristarco) che però non riuscì a mettere radici nella cultura cosmologica ellenistica e successiva (§ 5) ; - inizia la lunga fase in cui il sistema a sfere concentriche viene retrocesso a generico quadro di riferimento, da precisare e ridefinire nei dettagli alla luce di ciò che ora maggiormente mobilita e gratifica una nuova generazione di esperti: la sempre più accurata mappatura delle stelle, la sempre più accurata rilevazione di tempi e posizioni dei corpi celesti ‘mobili’, la sempre più accurata predizione degli eventi astrali fino alla produzione di sofisticatissime tabelle, l’uso sapiente di nozioni geometriche e trigonometriche innovative (§ 6). È forse appropriato osservare che, rispetto ad altri modi di raccontare questa stessa storia (es. altre storie della cosmologia greca), il profilo qui offerto privilegia la fase iniziale, da Talete fino al modello cosmologico delineato da Parmenide, mentre passa con mano leggera sulle ricerche di epoca ellenistica e imperiale, ritenendo che esse rientrino piuttosto nell’ambito dell’→astronomia. 2. I difficili inizi. Le grandi intuizioni dei Milesi. – Che un passo decisivo sia stato compiuto a Mileto, da Talete e Anassimandro, nel corso del sec. vi a.C. è cosa difficilmente contestabile. Furono infatti loro ad avanzare per primi una serie di ‘ipotesi difendibili’ (e quindi anche  













cosmologia discutibili) sul sistema dei corpi celesti, ed è significativo che ci siano convincenti indizi per supporre che la novità relativa del sapere di cui fu portatore Talete sia stata percepita dagli stessi suoi contemporanei. 2.1. Esemplare è la storia di Mandrolito di Priene. La nostra unica fonte (Apul. flor. 18 = 11A19 D.-K.) dapprima ricorda che, già prossimo alla vecchiaia, Talete divinam rationem de sole commentus est, pervenne cioè a spiegare la ‘divina proporzione’ concernente il sole, cosa che io stesso, dice Apuleio, experiundo comprobavi. Ciò premesso, Apuleio narra che Talete edocuit Mandrolytum Pryenensem, qui, nova et inopinata cognitione impendio delectatus, optare iussit quantam vellet mercedem sibi pro tanto documento rependi : satis, inquit, mihi fuerit mercedis … si id quod a me didicisti cum proffere ad quondam coeperis, tibi non adscriveris, sed eius inventi me potius quam alium repertorem praedicaris. Apprendiamo dunque che un contemporaneo di Talete seppe ravvisare nella misurazione dell’ampiezza angolare del sole una scoperta sensazionale. La notizia sembra avere un suo impensato riscontro in Eraclito allorché questi si compiace di affermare che è facilissimo misurare l’ampiezza apparente del disco solare dato che essa corrisponde, per l’appunto, all’ampiezza dei nostri… piedi. Infatti la frase di Eraclito è sensata solo a condizione di ipotizzare che l’osservatore stia sdraiato e sollevi il piede, così da porlo di fronte al disco solare, perché in tal caso il piede arriva a nascondere il sole per intero, a volte anche con apprezzabile precisione. Ora, se →Eraclito non fosse stato a conoscenza di ricerche volte a stabilire quanto è ampio il disco solare e del successo arriso per questo a Talete, difficilmente avrebbe potuto pensare al piede come strumento empirico per la misurazione. Ne scaturisce un ottimo indizio per presumere che la misurazione fosse avvenuta e avesse fatto notizia, non senza dar luogo anche a un po’ di ironia. [8] Coerenti con queste indicazioni sono lo status di sophos (Talete venne considerato uno dei Sette Sapienti) e, soprattutto, la notevole ricchezza delle informazioni pervenute fino a noi. L’abbondanza di notizie su Talete è infatti convincente indizio di notorietà dell’antico ricercatore, notorietà verosimilmente raggiunta soprattutto grazie ai numerosi accertamenti ‘impossibili’ di cui egli era stato capace, accertamenti che i comuni mortali nemmeno provavano a effettua 



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re. Infatti a Talete è ascritto anche un numero ragguardevole di altre misurazioni, di carattere sia spaziale sia temporale, tutte accomunate dalla speciale difficoltà dell’impresa. In questa sede interessano le misurazioni temporali che riguardano la durata dell’anno e l’osservazione di ben due anomalie nel sistema degli eventi cosmici : quella, davvero minima, tra i giorni che intercorrono fra solstizio e solstizio (181182 e 183-184 giorni rispettivamente) e quella riguardante il numero delle notti senza luna, che varia continuamente. Naturalmente non conosciamo le quantificazioni fatte da Talete nei due casi ma, grazie a un papiro pubblicato nel 1986, sappiamo che egli seppe sollevare il problema e che →Eraclito seppe pronunciarsi anche sulla seconda anomalia, almeno nel senso di far notare che, quando la luna nuova ‘ritarda’ di una notte, quella notte viene puntualmente recuperata, senza mettere in discussione la regolarità del ciclo lunare nel suo complesso. [9] Veniamo ora alla questione, di decisiva rilevanza per la cosmologia, della previsione di una eclissi, argomento oggetto di una secolare controversia tra chi ritiene verosimile una previsione così impegnativa e chi, ritenendo la cosa impraticabile, declassa la notizia a leggenda. È stato peraltro osservato che, se fosse una leggenda, bisognerebbe spiegare come la si è potuta inventare. Ma « allo scopo di inventare la predizione di una eclissi solare bisogna prima accettare che una eclisse solare sia un evento predeterminato, non un evento che accade su comando divino. La gente comune dell’epoca non avrebbe inventato una storia del genere né ci avrebbero creduto, a meno di non dubitare del fatto della predizione ». [10] Sul fatto, pertanto, è difficile nutrire seri dubbi, mentre resta da capire come sia stato possibile arrivare alla previsione. Un dettaglio del medesimo papiro di cui sopra è, probabilmente, chiarificatore. Leggiamo infatti che « Talete ha detto che il sole è eclissato quando la luna si trova davanti ad esso, cosicché [l’oscuramento ad opera della luna ?] segna il giorno in cui si verifica l’eclissi ». [11] L’affermazione concorda con la testimonianza di Esichio – « scoprì che l’eclissi di sole dipende dalla hypodromē della luna », cioè ha luogo quando accade che la luna passi lì sotto (o, per meglio dire, lì davanti : schol. in Plat. Remp. 600 A = 11A3 D.-K.) – e soprattutto con quella di Erodoto : aveva predetto l’eclisse « fissando come termine proprio  



























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l’anno in cui l’eclisse ebbe effettivamente luogo » (1,74,2). La combinazione di queste tre informative sembra idonea a sbloccare storiche riserve sul conto di una misurazione tanto controversa. Cosa emerge, infatti ? che Talete forse non pretese di dire che l’eclissi ‘avverrà domani’ o ‘il giorno x’, ma si accontentò di dire : ‘avverrà durante uno dei prossimi noviluni’. D’altronde, se non avesse avuto nemmeno una vaga idea della ricorsività del fenomeno e dei relativi conteggi, anche l’indicazione di un anno sarebbe stata temeraria e, in ultima istanza, velleitaria. Appare pertanto ragionevole presumere che egli abbia avuto almeno idea dell’exeligmos o del saros, [12] ma non addirittura il dato preciso (oltre alla presumibile difficoltà di accedere con precisione a simili conteggi, si consideri il residuo tasso di labilità che grava su tali previsioni). Ora, per l’appunto, Erodoto suggerisce una valutazione più prudente e approssimativa (del tipo : ‘siamo nel diciottesimo anno, quindi…’). Pertanto, in forza di quanto addotto nella precedente nota 10, inclino a ritenere che Talete non possa aver previsto addirittura una data. Ma, posto che avesse indicato un anno, egli sarebbe stato in grado di restringere la previsione a soli 13 giorni su 365, ossia a escluderne ben 352, e ciò avrebbe costituito un autentico sapere in quanto istituiva una effettiva capacità di predizione e – cosa non meno importante – permetteva di raccordare la previsione ad alcuni nuclei di sapere, dunque a conferirle quel valore aggiunto che permise poi alla notizia di avere una grande eco. Il riferimento al novilunio permette di pensare che Talete sia stato capace di ravvisare, nel dischetto scuro che, ad ogni eclissi, va a coprire per qualche tempo il disco solare, proprio la luna al novilunio. Le fonti non ce lo dicono, ma non sembra avventato ipotizzare che le irregolarità osservate nei noviluni sia stata da lui associata alla relativa irregolarità delle eclissi di sole, nel senso che solo di tanto in tanto il disco lunare opaco va a porsi esattamente sulla traiettoria del disco solare, così da causare il suo momentaneo oscuramento. Ciò, d’altronde, non ci obbliga a pensare né che Talete abbia elaborato, con l’occasione, anche l’idea che la luna non brilla di luce propria ma è illuminata dal sole, né che egli sia pervenuto anche a interpretare le fasi lunari come effetto della triangolazione terra-luna-sole. A rigore non sappiamo nemmeno se egli ravvisò nella eclissi un fatto  









meramente meccanico, tale da autorizzare il declassamento di un evento per lo più percepito come impressionante a fenomeno del tutto privo di significati reconditi perché dipendente da un mero ‘ostacolo’ materiale e temporaneo (l’interposizione della luna che si trova a svolgere la funzione del diaframma). Di questo si può solo dire che è verosimile. Infatti, nel caso particolare non si sarebbe potuto parlare di un evento rigorosamente regolato, dato il tasso di imprevedibilità che lo stesso Talete ravvisava nel fenomeno della luna nuova. I contributi di Talete sui quali si è fin qui riferito danno motivo di ritenere che egli abbia inteso accertare, misurare e prevedere, più che avventurarsi a dire come è fatto qualcosa o perché accade qualcosa. [13] In compenso i suoi accertamenti impongono di pensare che per Talete il mondo fosse qualcosa di ordinato, regolato, prevedibile, ma anche impersonale e privo di soggettività, per cui è ammesso anche modificare il corso di un fiume. È quanto meno possibile che perfino la sua teoria più famosa, quella dell’acqua intesa come archē, debba essere intesa come espressione dell’idea che all’origine di tutte le cose non dobbiamo immaginare chissà che cosa, ma una cosa semplice, la semplice acqua. [14] 2.2. Passiamo ora ad →Anassimandro. L’allievo di Talete dà la netta impressione di essere partito dall’insegnamento del maestro per poi procedere secondo direttrici sensibilmente diverse da quelle. Appare inoltre evidente che il tentativo di costruire una rappresentazione relativamente organica del cosmo abbia costituito una sua primaria ambizione. Per inquadrare il suo apporto alla cosmologia si procederà dunque a dare anzitutto un’idea delle sue teorie specifiche. Ecco alcuni nuclei dottrinali particolarmente significativi : • la terra, situata al centro dell’universo, è in equilibrio e quindi ferma, ed è comprensibile che sia così perché, se ci si pone dal punto di vista cosmico, emerge immediatamente l’impossibilità di indicare una direzione privilegiata verso cui possa aver luogo la sua ipotetica caduta (in altre parole, perché la terra non saprebbe da che parte cadere); [15] • la terra ha (si è trovata ad avere) forma cilindrica, a mo’ di colonna di pietra, [16] in quanto, in un lontanissimo passato, da essa si è distaccata una fascia infuocata, paragonabile a una gigantesca corteccia d’albero, fascia che si  









cosmologia è poi frantumata, finendo per formare il sole, gli astri e la luna ; il distacco è avvenuto per effetto di un vortice di dimensioni cosmiche (in greco divnh, poi di`no~) ; [17] • noi abitiamo una delle due superfici piane del cilindro ed è possibile che anche l’altra superficie piana, quella collocata agli antipodi, sia non solo abitabile ma abitata ;[18] • si possono stimare le dimensioni del cosmo : il sole si muove a una distanza di ventisette o ventotto volte il diametro terrestre, mentre la luna dista diciotto volte (o, forse, diciannove ; quanto poi alle stelle, esse potrebbero distare nove volte) ; [19] • si può effettuare anche una prima stima delle dimensioni dei principali corpi celesti avvalendosi dei confronti effettuabili in occasione delle eclissi e del passaggio di Hermes e Afrodite davanti a sole e luna; [20] • la teoria delle cavità (o sfiatatoi) spiega le dinamiche di eclissi e fasi lunari ;[21] molteplici fenomeni atmosferici sono interpretabili quali effetti del vento (in ciò Anassimandro sembra anticipare qualche idea di Anassimene) ; in particolare le piogge « si formano dal vapore che si leva dalla terra assolata » (trad. Reale) ; l’umidità, che è progressivamente diminuita per effetto delle radiazioni solari, ha creato le condizioni appropriate per la formazione dei primi esseri viventi. A margine ricordiamo inoltre che le fonti parlano anche di mondi, di infinità dei mondi e di futuro collasso del sistema. Si intuisce la difficoltà di raccordare questi punti con le considerazioni fin qui riportate. Si consideri inoltre che il repertorio delle teorie emesse da Anassimandro comprende anche molti altri ‘insegnamenti’ – fra l’altro sulla formazione degli esseri viventi, l’acclimatazione di alcuni animali marini all’aria e alla superficie terrestre, la gestazione dei primi uomini [22] – e così pure il famoso pinax sulle terre e sui mari dell’area mediterranea, una rappresentazione grafica, verosimilmente corredata da un testo di accompagnamento : temi sui quali si sorvolerà dato l’oggetto della presente trattazione (ma vd. →geografia, 3). La trattazione dei temi cosmologici appare straordinariamente innovativa, anche in confronto con le ricerche condotte da Talete, e può così essere sommariamente caratterizzata. Anassimandro fu capace non solo di rappresentarsi la terra, i corpi celesti, fin quasi a visualizzarli, ma anche di pensare le dinamiche grazie alle quali il mondo  























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è potuto esistere, si è formato ed ha progressivamente assunto l’assetto attuale, prevedendo per giunta la sua dissoluzione. Le informazioni appena proposte sono inequivocabili nel documentare la sua strabiliante capacità di rappresentarsi la totalità spazio-temporale, fino ad abbozzare una descrizione coerente del mondo, dei rapporti spaziali e, quel che più conta, della vicenda macro-storica che abbraccerebbe la storia del cosmo, dalla sua formazione alla sua dissoluzione, passando per gli equilibri presenti, che vengono concepiti come stabili nel breve periodo ma, chiaramente, non anche nel lungo o lunghissimo periodo. Infatti, se si eccettua qualche possibile intuizione di Talete, non si ha notizia di nulla di comparabile né tra i Greci né presso altri popoli, ed è appena il caso di sottolineare la distanza rispetto al racconto fatto da Esiodo nella sua Teogonia. Il mondo di Anassimandro è conoscibile nel suo modus operandi e nelle regole che presiedono al suo funzionamento. Non ci sono entità sovrumane che decidono, non accadono eventi strani, non si fa appello a circostanze straordinarie ed irripetibili : tutto appare comprensibile e conoscibile. Nella peggiore delle ipotesi, abbiamo difficoltà a capire perché accade qualcosa, ma – così sembra di poter intendere – si tratta di difficoltà non insuperabili. Si direbbe pertanto che Anassimandro abbia mantenuto ben ferma l’idea di natura – impersonale, regolata, prevedibile – che era stata accreditata, utilizzata e, forse, elaborata da Talete, anche se rigettò alcune delle idee accreditate da quest’ultimo (quanto meno affermò che del sole vediamo solo ciò che un foro ci permette di vedere). Pure significativo è che Anassimandro abbia parlato di un proto-mondo che ruotava su se stesso e che, per effetto della velocità e della conseguente spinta verso l’esterno, avrebbe letteralmente perso dei pezzi per distacco (è come se facessimo ruotare a velocità crescente, su un fuso, un ammasso di terra umida : prima o poi avverrebbe il distacco di qualche grumo dalla parte centrale, ossia dalla zona che noi diremmo equatoriale). Con la medesima logica egli avrebbe insegnato che i frammenti staccatisi hanno mantenuto il moto rotatorio nella stessa direzione iniziale (sia pure con delle variazioni per quanto riguarda il processo di assestamento delle masse, la velocità ed altre caratteristiche), mentre il nucleo centrale si sarebbe fermato, raggiungendo una condizione  



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di fissità o staticità al centro del sistema. Ma accanto al mero distacco per eccessiva velocità rotatoria abbiamo anche la stabilità della terra per effetto di un dubbio che fa pensare all’asino di Buridano (il grande ammasso non saprebbe da che parte cadere !), il calore come condizione non solo necessaria ma anche sufficiente per la comparsa di forme di vita, il mero disseccarsi delle scaglie nei ‘pesci’ che riescono a sopravvivere anche fuori dal mare, e così di seguito. Ogni volta la spiegazione sorprende per la sua straordinaria elementarità. Misteri insondabili, misteri che i poeti erano soliti spiegare in modo fantasioso, ora vengono spiegati ipotizzando dinamiche che sorprendono per il fatto di non presentare assolutamente nulla di strano o eccezionale, insomma per la loro rassicurante quotidianità, « che non introduce nessuna differenza tra i corpi terrestri e celesti, anzi conserva l’unità dinamica dell’insieme ». [23] Un’altra grande benemerenza di Anassimandro, che in questa sede ha senso solo richiamare, è l’allestimento di una esposizione in prosa del suo sapere. È anzi probabile che il suo Peri physeos abbia addirittura inaugurato la serie delle trattazioni così denominate – ‘trattati scientifici’ in prosa che si sono rapidamente susseguiti con il medesimo titolo – nel qual caso egli avrebbe anche fissato le grandi linee della tipologia di simili scritti. [24] 2.3. Il terzo sophos di Mileto, →Anassimene sembra aver concentrato la sua attenzione sulle dinamiche trasformative terrestri, che qui non interessano. Ma c’è pur sempre qualche punto che merita di essere ricordato. Egli avrebbe teorizzato la forma concava (tympanoeides : cfr. Perilli 1996, 30-34) del ‘piatto’ in cui noi ci troviamo a vivere : la nostra area mediterranea con al centro un grande avvallamento occupato dai mari e segnata da alti monti sui bordi. In questo caso egli sembra affidarsi alle notizie, certo alquanto approssimative, sulle molte catene montuose che, sia pure da lontano, ‘guardano’ l’area del Mediterraneo da quasi ogni lato. Con ciò, si direbbe che egli esprima diffidenza verso le ardite e inverificabili congetture cosmologiche di Anassimandro, preferendo ipotesi più circoscritte a fronte delle quali sia disponibile un certo numero di indicatori di carattere osservativo. Egli sostenne inoltre che la terra non cade perché poggia sull’aria con modalità analoghe a quelle di un coperchio con bordi che stia su una pentola in ebollizione o,  













in alternativa, « come l’acqua nelle clessidre ». Questa seconda comparazione, documentata in Aezio (= 13A20 D.-K.), è decodificabile se facciamo riferimento, come dobbiamo, al tipo di clessidra di cui parla →Empedocle nel fr. 100 D.-K. [25] 2.4. Anassimandro e Anassimene hanno fatto scuola. Non si può spiegare diversamente l’ingresso in scena, a distanza di pochi decenni, di Senofane di Colofone ed Eraclito di Efeso. L’apporto di Senofane alla cosmologia è poveramente documentato dalle fonti. Nondimeno egli fu autore del primo Peri physeos in esametri epici ed è nel suo caso che, per la prima volta, le informazioni di origine dossografica trovano riscontro in sue esplicite dichiarazioni pervenute fino a noi: non si riesce a farsene un’idea complessiva, possiamo contare solo su tessere difficili da raccordare. Sembra che egli abbia prestato grande attenzione all’elemento marino. Suo è il frammento nel quale per la prima volta viene chiaramente descritto il ciclo delle acque dal mare al mare (D.-K. 21B30) ; sua è la tesi secondo cui, se si trovano dei fossili di pesce sui monti di Paro, Malta e altrove, si deve intendere che ci fu un tempo in cui la terra era fangosa e solo in epoche successive si è progressivamente prosciugata ed essiccata (21A35 D.-K.) : inequivocabile ripresa di intuizioni svolte da →Anassimandro. Ma soprattutto egli sostenne che i corpi celesti, incluso il sole, sono sì infuocati, ma emergono dall’acqua, anzi letteralmente si spengono e si riaccendono ogni giorno (cfr. 21A33,3, A38, A40, A41 D.-K.). Farebbe eccezione la luna per il fatto di spegnersi e dissolversi, sia pure solo per breve tempo (e sempre per il venir meno di congrue evaporazioni), soltanto una volta al mese (21A43). L’idea che i corpi celesti possano originare da vapori non manca di lasciare perplessi, al pari dell’idea che la parte inferiore della terra sia apeiron, illimitata (21B28 e A47 D.-K.). È tuttavia possibile che Senofane abbia inteso ricercare una maniera semplice di rendere conto dei fenomeni, senza fantasticherie né voli pindarici : accettiamo che il sole si spenga la sera e le stelle si spengano la mattina, accettiamo che gli astri sorgano dal mare al pari delle nubi, salvo ad assumere forme molto più caratterizzate. Ugualmente rinunciamo a immaginare che la terra possa essere cilindrica e situata al centro dell’universo : basti dire che sta ‘sotto’, che è ciò-che-sta-sotto. In questo at 













cosmologia teggiamento è quanto meno possibile ravvisare una forma accentuata di riduttivismo, da degno emulo dei milesi. [26] Un diverso ardimento sembra invece connotare l’informazione, di origine dossografica, secondo cui Senofane avrebbe insegnato che il sole segue un percorso circolare solo in apparenza, trattandosi di un errore percettivo dovuto alla sua grande distanza perché, in realtà, il sole avanza verso l’infinito (to;n h{lion eij~ a[peiron proievnai : 21A41a D.-K.) cioè, si direbbe, si muove di moto rettilineo. Lo stato di completo isolamento in cui rimane la notizia dissuade da ogni tentativo di elaborare una interpretazione. 2.5. Quanto poi a Eraclito, nuovi elementi sono emersi grazie alla recente pubblicazione dei suoi Placita. [27] Da questa documentazione, per molti versi nuova, emergono una molteplicità di riferimenti alla nozione di esalazione (anathumia), intesa quale origine dei corpi celesti, che costituiscono una manifesta ripresa di idee di →Senofane. Manifestamente affine è anche la tesi secondo cui il sole nascerebbe ogni giorno dal mare (per cui « è nuovo ogni giorno » : 22B6 D.-K.) e in esso si spegnerebbe ogni sera. Degna di nota è anche la ripetuta caratterizzazione di sole, luna e stelle come skafaiv («conche», «nicchie»). Si ha pertanto l’impressione che Eraclito abbia proposto un certo numero di idee più o meno innovative in stretto dialogo – e talvolta in polemica – con Senofane e i sophoi di Mileto. E probabilmente si è trattato di un contributo di modesta portata, sostanzialmente marginale se paragonato ai temi a lui più cari, quasi che egli avesse dovuto occuparsi di queste cose in quanto se ne erano occupati, e a fondo, molti degli intellettuali con i quali non poteva non confrontarsi. 3. La fatica dell’avanzamento del sapere peri physeos. L’apporto di Parmenide. – La lenta moltiplicazione dei trattati Peri Physeos poté verosimilmente favorire il progressivo consolidamento di questo sapere costruito pezzo per pezzo da molti sophoi a dispetto delle residue divergenze (che non tardarono a manifestarsi) e della conseguente moltiplicazione di teorie e congetture. È pertanto significativo che nelle sue Nuvole Aristofane abbia tratteggiato una bella parodia dei meteorologoi che interrogano il cielo e una competente parodia del modo in cui i meteorologi spiegavano gli eventi naturali (es. sostenendo che a mandare i fulmini sono le nubi, non Zeus). [28] A sua volta la parodia  













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non è solo indizio di notorietà, ma anche di un diminuito prestigio delle tante teorie emesse nel frattempo. In effetti la riflessione sul vortice e sulla formazione di oggetti astrali più o meno infuocati (e, ormai, definitivamente collocati a immensa distanza dalla terra) non poté non correre il rischio di arenarsi di fronte alla difficoltà di arrivare a una rappresentazione credibile delle trasformazioni a seguito delle quali il mondo sarebbe pervenuto ad assumere la forma che a noi appare. Sembra che, all’epoca, un ostacolo particolarmente grave fosse rappresentato dall’avvenuta individuazione dei pianeti, le cinque “stelle errabonde” note anche in Mesopotamia. Per lungo tempo, la loro anomalia non seppe dar luogo ad alcuna spiegazione plausibile. →Alcmeone, per esempio, provò ad affermare che i pianeti si muovono in direzione opposta rispetto alle stelle fisse (24A4 D.-K., da Aezio). Con ciò egli intese chiaramente affermare che i pianeti non fanno corpo con il sistema delle stelle fisse ma si muovono in qualche altra direzione, ma affermare che i cinque corpi si muovono tutti in direzione opposta costituisce una semplificazione senza dubbio eccessiva. Si può capire, tuttavia, la difficoltà di dare un senso a questi spostamenti, percepiti come irregolari, imprevisti, inspiegabili. È anzi possibile che il problema sia stato percepito come un vero rovello, perché le anomalie contrastavano con l’idea di natura regolata e prevedibile nelle sue manifestazioni. D’altra parte la ricerca di una soluzione adeguata ha costituito un oggetto di ricerca addirittura millenario, che ha condizionato perfino la disputa su geocentrismo ed eliocentrismo. È pertanto significativo che, nel periodo in esame, si sia almeno pervenuti a sospettare che Phosphoros (lat. Lucifer) e Hesperos siano, in realtà, la medesima stella errabonda, ma non molto di più. [29] 3.1. A fronte di una possibile impressione di stallo, fu Parmenide a dare un impulso importante, in grado di smuovere le acque e innescare effetti di lunga gittata, e non certo a causa della sua famosa ontologia, bensì per via dei contributi specifici – e di rilievo – che egli sembra aver dato alla rappresentazione del sistema delle relazioni cosmiche. Infatti si ha motivo di ritenere che nella seconda parte del suo famoso poema, ossia nella macro-sezione in cui, con ogni verosimiglianza, vennero concentrate molteplici teorie e congetture sugli aspetti  

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più diversi del mondo fisico, trovassero posto, accanto ad altri, svariati nuclei dottrinali rilevanti per l’argomento che stiamo trattando. [30] È anzi altamente significativo che Parmenide abbia anche trovato il modo di enunciare espressamente il proposito di delineare una cosmologia, ossia di costruire un sapere specifico intorno al cosmo. Lo dimostrano due dei suoi frammenti.  

(fr. 10, da Clemente Alessandrino, trad. G. Reale) Tu conoscerai la natura dell’etere e nell’etere tutte [quante le stelle, e della pura lampada del sole lucente le invisibili opere e donde ebbero origine, e apprenderai le azioni e le vicende della luna [errabonda dall’occhio rotondo e la sua natura ; e conoscerai così il cielo che tutto [circonda, donde ebbe origine, e come Necessità lo costrinse a tener fermi i confini degli astri.  

(fr. 11, da Simplicio) (…) come la terra il sole la luna e l’etere tutto avvolgente e la lattea via del cielo [e l’Olimpo estremo e l’ardente forza degli astri ebbe impulso [a formarsi.

Come si vede, la dea di Parmenide annuncia una sub-trattazione espressamente dedicata ai temi della cosmologia e cosmogonia, parla di ‘venire a sapere’ come stanno le cose e, con ciò stesso, parte dal presupposto che sia disponibile – o almeno si stia costruendo – un vero e proprio sapere sul conto del cosmo e della sua ‘architettura’. Pure significativo è l’uso, in questo contesto, della parola ‘Olimpo’, che non significa un’entità fantastica (e tanto meno un determinato monte) ma viene usato come metafora per parlare di ciò che è situato agli estremi limiti dell’universo e che non può non essere pensato come un ingrediente costitutivo del sistema dei corpi celesti. Già questi sono indizi convincenti di una più matura elaborazione del sapere cosmologico. A fronte di così incoraggianti premesse, spiace constatare che la cosmologia parmenidea sia affidata, per gran parte, a informazioni di seconda mano, non diversamente da ciò che accade con i cosmologi di Mileto. Gli apporti di Parmenide vertono sulla sfericità della terra al centro dell’univer-

so, le fasce climatiche terrestri, la luce lunare, l’identificazione del pianeta Venere e le fasce o corone cosmiche. Partiamo dal nucleo dottrinale che, nella prospettiva di queste pagine, parrebbe presentare un interesse minore : le fasce climatiche. →Posidonio avrebbe sostenuto che Parmenide divideva la terra in cinque zone o fasce climatiche, con una fascia torrida, due fasce temperate e due altre zone fredde (lo riferisce Strabone in 2, 2, 2 = D.-K. 28A44a). Il riferimento a cinque zone, di cui una molto calda, due molto fredde e, in mezzo, due temperate, autorizza a pensare che Parmenide, degno emulo di Anassimandro, sia pervenuto a rappresentarsi gli emisferi sud e nord (come simmetrici), e soprattutto a rappresentarsi il sole come un corpo che riscalda questa terra sferica da molto lontano, per cui i raggi colpiscono la sua superficie in maniera più o meno obliqua a seconda del grado di curvatura della stessa. secondo un criterio comprensibile o addirittura intuitivo. Viene con ciò a definirsi e consolidarsi l’immagine della terra, concepita come sferica e collocata al centro dell’universo, mentre si precisano le modalità con cui il sole la illumina e riscalda. [31] Coerente con questa formidabile intuizione è la teoria secondo cui la luna non brillerebbe di luce propria ma sarebbe illuminata dal sole (come si legge nel famoso fr. 14 D.-K. : nuktifae;~ peri; gai`an aJlovmenon ajllovtrion fw`~). Parmenide è esplicito, in due frammenti, nel precisare e codificare l’origine riflessa della luce lunare. Ora la dinamica da cui dipenderebbe l’illuminazione parziale e mutevole della luna chiaramente presuppone idee non troppo vaghe sulla triangolazione sole-luna-terra : idee non troppo vaghe, ma difficili da precisare. Sembra che si debba postulare in Parmenide, quanto meno, una intuitiva capacità di spiegare che il mutevole tasso di illuminazione della sfera lunare dipende dall’angolo in cui è verosimile che si trovi, di volta in volta, il sole già tramontato. Ciò non è la stessa cosa dell’aver capito esattamente come, perché e quando, ma può ben aver rappresentato un avanzamento rispetto a Talete e una premessa di tipo intuitivo per l’elaborazione teorica della quale sembra che sia stato capace →Anassagora (su cui vd. più avanti, sez. 2.3). Naturalmente non siamo capaci di affermare che Parmenide sia stato capace di dedurre la posizione del sole a partire  







cosmologia dalla porzione di luna che noi vediamo di volta in volta, né che abbia chiaramente compreso che il sole illumina sistematicamente metà della superficie sferica della luna, né che egli sia stato capace di costruire un funzionale modellino esplicativo di tipo fisico, con la luna che, in pieno giorno, viene spostata e fatta girare lentamente attorno all’osservatore, in modo che questi possa osservare la corrispondenza tra la porzione di volta illuminata e la porzione di volta in volta non lambita dai raggi solari, e quindi anche il momento in cui la luna va a collocarsi proprio davanti al sole. Spingersi ad immaginare tutto questo sarebbe sicuramente eccessivo. Ma ciò non impedisce di pensare che Parmenide possa aver correttamente intuito la logica delle fasi lunari. [32] Viene con ciò ripresa l’idea, già familiare ad Anassimandro, secondo cui la terra non solo fa sistema con gli altri corpi celesti, ma è essa stessa uno di questi corpi di proporzioni gigantesche, immensamente distanti l’uno dagli altri, che coesistono sulla base di rapporti stabili (o almeno : rapporti che nel frattempo si sono stabilizzati) i cui segreti non sono del tutto inaccessibili alla mente umana. A rigore, quanto è stato appena affermato è solo una inferenza a fronte della quale si cercherebbero invano delle dichiarazioni esplicite di Parmenide. Ma esattamente nella stessa logica si colloca la già ricordata identificazione di Fosforo/Lucifero e Espero, ossia della ‘stella del mattino’ con la ‘stella della sera’. [33] Ora si consideri che “à partir du moment où l’on admet que le mouvement du soleil pendant la journée et celui de la lune et des étoiles pendant la nuit est un seul et même mouvement, il devient possible d’affirmer que la lumière du jour est due uniquement au soleil, et que la nuit n’est que l’absence de celui-ci”. [34] Ciò che si delinea è, in altri termini, una più che meditata congettura sulle relazioni spaziali che intercorrono fra la terra e i principali corpi celesti. Veniamo ora alla tessera più problematica di questo significativo insieme. Una molteplicità di fonti ci riferiscono che Parmenide ha anche teorizzato l’esistenza di una serie di ‘corone’ (stephanai) verosimilmente concentriche che formano il cielo e rendono conto del moto dei vari corpi celesti. In materia prevale da sempre la convinzione che egli intendesse parlare, in realtà, di sfere concentriche. A farlo pensare è, in primo luogo, l’insistenza con cui egli parla di sfera, e ne parla in positivo, in altri con 







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testi (in particolare ai vv. 42-45 del fr. 8 D.-K.) ; in secondo luogo gli indizi base ai quali alcuni pensano che di sfera parlassero già i pitagorici del suo tempo ; in terzo luogo l’intuitività dell’idea di sfera celeste. È dunque molto attraente spingersi a pensare che Parmenide abbia potuto parlare di una molteplicità di strutture sferiche, [35] ma non dobbiamo dimenticare che contro una simile congettura sta l’uso di un termine come stephanai. [36] In effetti l’evocazione delle ‘corone’ non può non richiamare i kukloi, simili a immense ruote, di cui aveva parlato Anassimandro. A prendere questo termine come sinonimo (o sostituto) di sphairai, bisognerebbe pensare a un tasso di metaforicità decisamente alto, forse troppo alto. Ciò premesso, osserviamo che mentre Anassimandro e Anassimene si erano rappresentati il cielo come una superficie tra solida e infuocata, Parmenide ha provato a introdurre una maggiore complessità, ipotizzando una molteplicità di strutture concentriche : all’esterno una sorta di muro solido, poi una corona di fuoco, poi una corona buia (‘di tenebre’), poi ancora una corona infuocata e una buia. Se ne deduce, per cominciare, che egli ha mutuato dai milesi l’idea di una superficie opaca che impedisca di vedere il fuoco cosmico. Egli sembra anche aver ripreso da Anassimandro l’idea di cerchi cosmici colossali. Rimaniamo invece spiacevolmente nel vago per quanto riguarda la più precisa configurazione di queste ‘corone’ e il motivo per cui Parmenide può aver desiderato di teorizzare una successione di strati. Infatti non siamo in grado di affermare che due apposite ‘corone’ presiedessero al moto del sole e della luna, né che egli attribuisse un moto differente a singole ‘corone’, né che egli si sia proposto di dare un senso anche alle anomalie del moto grazie alle quali alcuni corpi celesti vengono detti ‘erranti’. [37] Non così problematico è interpretare il silenzio di Parmenide sul vortice cosmico. L’ordine da lui delineato sembra comportare l’abbandono della teoria del vortice e dell’idea stessa di cosmogonia. Anziché proporsi di rispondere alla domanda : ‘come ha fatto il mondo a raggiungere l’attuale punto di equilibrio e che cosa potrà accadere in futuro ?’, egli sembra riconoscere come legittima una domanda differente : ‘quale ordine regna nel cosmo ?’ Nel primo caso viene ipotizzato un equilibrio dinamico che sarebbe stato raggiunto grazie al progressivo assestamento del 



















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le spinte centrifughe e centripete generate dal vortice cosmico ; nel secondo caso si delinea un equilibrio statico, un sistema con centro e periferia che non ha una storia (o preistoria). Questo nuovo modo di accostarsi ai fenomeni celesti è una modalità inaugurata, per quanto se ne sa, da Parmenide e costituisce l’antenato dei modelli elaborati, in altre epoche, da Eudosso e Aristotele. 3.2. L’insegnamento di Parmenide ha avuto una fortuna singolare. L’impatto fu sicuramente molto grande : a lui si richiamarono e di lui scrissero, prendendo le distanza in misura maggiore o minore, un numero sorprendentemente alto di intellettuali di appena una generazione posteriore, dando luogo a orientamenti di pensiero molto diversi tra loro e molto caratterizzati. [38] Il contributo di →Empedocle si segnala per la decisa ripresa dell’idea di vortice e di un approccio chiaramente diacronico al cosmo. La sua c. è eminentemente dinamica e, più precisamente, ciclica. Dato che egli mostra di conoscere molto bene il testo di Parmenide, si deve pensare che la determinazione nel parlare di vortice cosmico implichi una specifica presa di distanza rispetto al suo autore di riferimento. [39] Empedocle appare impegnato ad accreditare l’idea che il vortice, regolato dall’alternanza di Amore e Odio nell’occupare il suo centro (fr. 35,4), dia origine agli assetti cosmici così come al loro scompaginamento nel lungo periodo. Il cielo deriva dall’aria ed è fatto di aria ; il sole è connesso al fuoco ma ne è piuttosto un riflesso ; la luna è fatta di aria solidificata ; il movimento dipende dall’aumento della pressione che si determina in certe zone in virtù dell’eccessivo calore. A fronte di una discontinuità piuttosto netta da Parmenide, le sue idee sembrano configurarsi come una elaborazione a partire dal tipo di c. che era stato proposto da Senofane. [40] 3.3. Un maggiore investimento nello studio del cielo si deve ad un altro intellettuale vicino a Parmenide, →Anassagora. Osserviamo, per cominciare, che questi sarebbe stato « il primo ad affidare agli scritti una teoria più chiara e ardita sulle fasi e gli oscuramenti della luna » (safevstaton e qarralewvtaton : Plu. Nic. 23 = 59A18 D.-K.), arrivando a sostenere che sulla luna ci sono « abitazioni, e così pure colline e vallate » (59A1.8 D.-K.) e, in secondo luogo, che il sole, più grande del Peloponneso (ibid.), è un ammasso di pietre – o di metalli – incandescen 

























ti e che il meteorite caduto ad Egospotami nel 466 a.C. è una di queste pietre di origine solare (59A11-12 D.-K.). Anassagora mostra di aver impostato una ricerca – diremmo noi oggi – sulla fisica dei corpi celesti che si è significativamente estesa anche alla tesi secondo cui la luna si riscalda fino a dotarsi di un minimo di luminescenza anche nella zona buia e alla curiosa identificazione di un indizio per pensare che la terra possa essere piatta : se fosse sferica, la linea che segna il sorgere e il tramonto del sole avrebbe dovuto mostrare una curvatura che invece non appare. [41] Con ciò ha preso forma un bell’apparato di congetture propriamente inverificabili ma tali da delineare una maniera di rendere conto dei corpi celesti che si caratterizza per una forte spinta a pensare che sole e luna siano enormi ammassi fisici non troppo diversi dalla terra : un modo molto concreto di prendere sul serio l’insegnamento di Anassimandro sull’origine terrestre dei corpi celesti. Su un altro versante Anassagora è impegnato a rilanciare l’idea di una cosmogenesi dovuta al vortice e, quel che più conta, retta da una razionalità cosmica. Infatti egli insegna che tanto il primo impulso al vortice, quanto la formazione di tipi diversi di mescolanze e, in particolare, la formazione – e disposizione nello spazio – dei corpi celesti dipendono dal Nous (59B12 D.-K.), esprimono cioè una razionalità che prende forma a seguito di un processo solo perché sin dall’inizio ha retto e guidato il processo medesimo. In questo modo viene a delinearsi una singolare miscela di due maniere di rappresentarsi il cosmo che continueranno a coesistere come radicalmente diverse : da un lato l’attitudine a studiare i corpi celesti in quanto ammassi di materia ognuno avente le sue caratteristiche (il sole incandescente, la luna solo leggermente arrossata anche nelle parti in ombra…) e risultante di forze che producono effetti nel lungo periodo ; dall’altro la propensione a rappresentarsi il mondo, e in particolare i corpi celesti, come qualcosa di ordinato, razionale e ben disposto, quindi armonico, sostanzialmente stabile e espressione di una specifica intenzionalità sovrumana. La prima modalità rinvia ad Anassimandro, la seconda esprime una prossimità con la cosmologia di Parmenide, se è vero che questi ha completamente messo da parte l’idea di vortice. Tra le due modalità sembra delinearsi però una coesistenza, senza vere e proprie saldature.  







cosmologia Leggiamo, ad esempio, che il cielo è composto di pietre le quali « si accumulerebbero per il forte movimento vorticoso » (th/` sfovdra/ peridinhvsei : 59A1, 12 D.-K.), per cui ricadrebbero se quel movimento subisse un rallentamento. Sarebbe stato il nous a istituire e garantire un equilibrio che dipenderebbe peraltro da come grandi ammassi di materia si sono venuti (e si vengono) configurando per effetto di forze e spinte di enorme portata. Va ad appuntare la sua attenzione proprio su questo problema il dilemma impostato da una famosa pagina del Fedone platonico : che tipo di raccordo e coordinamento si determini (o si debba ipotizzare) tra cause materiali e ruolo del Nous. In effetti lo schema di Anassagora finisce per spiegare il fatto come frutto di una intenzionalità (il Nous che realizza un suo progetto) e come risultato di una combinazione di cause materiali (è semplicemente accaduto che le cose andassero in questo e non in altro modo), e il raccordo tra i due punti di vista non manca di sollevare qualche bel problema. [42] 3.4. Occupiamoci ora di Leucippo e →Democrito, non senza precisare subito qualche aspetto della cronologia. Democrito di Abdera potrebbe essere stato appena più giovane di Socrate e sarebbe stato particolarmente longevo, per cui si presume che sia vissuto fin verso il 370-360 a.C. Si presume tuttavia che l’atomismo sia stato elaborato, sulla scia di Leucippo, in età relativamente precoce, quindi, orientativamente, prima del 430 a.C. Uno degli indizi più convincenti in tal senso è la traccia di alcune teorie di Diogene di Apollonia nelle Nuvole di Aristofane. Se nel 423 a.C. Aristofane già aveva notizia della relativa notorietà di alcune teorie di Diogene di Apollonia e questi si ispirò, come pare, all’insegnamento di Anassagora e Democrito (oltre che di Anassimene milesio), allora anche importanti nuclei dell’insegnamento di Democrito dovrebbero risalire a epoca anteriore. [43] Lo schema atomistico adottato da maestro e allievo ha attitudine a superare il dilemma nel quale sembra essere rimasto impigliato Anassagora in quanto gli effetti dell’interazione tra gli atomi sono, per definizione, sia razionali (logici, non fortuiti, non arbitrari) sia necessari. Le due connotazioni si saldano assieme perché gli atomi non conoscono altra razionalità che quella espressa dalla meccanica dei singoli contatti o urti in cui ciascun atomo, muovendosi nel vuoto, viene ripetutamente coinvolto. Di  







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nuovo, pertanto, viene a delinearsi una cosmogenesi ricondotta al mero intreccio – e, si direbbe, ‘selezione naturale’ [44] – degli atomi in base alla loro maggiore o minore attitudine a saldarsi insieme e muoversi in modo sempre più solidale. Centrale, in questo schema, è il vortice che, a sua volta, sembra scaturire dal mero moto degli atomi, quale forma primaria di combinazione dei moti individuali. Da simili premesse era difficile che potessero derivare contributi specifici sulla effettiva configurazione del cosmo, in quanto la soluzione ideata dagli atomisti è fin troppo radicale. Infatti  la dinamica del sistema è tale da spiegare tutto a priori e una volta per tutte ; d’altra parte l’impercettibilità dei singoli atomi impedisce di provare a dire come specificamente si determina un singolo fenomeno, chi e come si aggrega o per quale ragione l’aggregato risultante è quello che è, e non un altro. A fronte di questo sapere a priori, che produce una spiegazione teorica di tutto non suscettibile di tradursi in spiegazioni circostanziate di qualcosa, Democrito ha notoriamente sviluppato un vasto sapere su questioni particolari, sapere consegnato ai suoi molti trattati e trattatelli (tutti molto mal conosciuti). Gli ulteriori contributi attinenti alla cosmologia, qualunque sia l’opera in cui comparivano, includono le seguenti dottrine particolari : - 68A40 D.-K. : i mondi sono infiniti e diversi fra loro, cosicché ve ne sono anche alcuni privi di sole e luna (probabilmente si deve pensare a una pluralità di vortici) che non hanno né animali né piante né umidità ; alcuni sono così grandi che non potrebbero accrescersi ulteriormente ; accade che alcuni di questi agglomerati si dissolvano o si scompongano a seguito di collisione ; i pianeti non si trovano alla stessa altezza ; - 68A90 D.-K. : nella luna ci sono alture e avvallamenti, quindi ombre (che verosimilmente spiegano il diverso grado di luminosità di ciò che vediamo) ; - 68A91 D.-K. : la via lattea è costituita di tanti piccoli astri vicini tra loro ; la loro luce è affievolita dall’ombra che vi proietta la terra ; essi ci appaiono adiacenti l’uno all’altro solo per effetto della grande lontananza ; - 68A92 D.-K. : quando i pianeti vanno in congiunzione fra di loro si formano le comete (che sono dunque, anch’esse, una mera apparenza) ; nell’universo ci sono molte più stelle di quelle che noi vediamo ;  































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- 68A94 D.-K. : la terra ha la forma di un disco concavo (pieno d’acqua), peraltro ha una forma allungata ; - 68A95-97 D.-K. : in origine, quando ancora era piccola e leggera, la terra, che è stata sottoposta a un progressivo prosciugamento sotto l’effetto dei raggi solari, si muoveva (di moto rotatorio ?), ma poi, essendo divenuta troppo pesante, si è fermata ; ha subito una inclinazione ‘verso mezzogiorno’ e si muove (nel senso che hanno luogo dei terremoti) quando un eccesso di acque genera squilibri. Nell’insieme, questo sapere sul cosmo, che si distingue per la cura nel discernere l’apparente dal reale, non sembra spingersi particolarmente lontano, ma non dobbiamo dimenticare che l’elenco delle sue opere – un elenco che, per essere dovuto a quel Trasillo che predispose anche il Corpus Platonicum e per il fatto di presentare, opportunamente distinti, titoli di opere ritenute attendibili e titoli di opere di dubbia autenticità, non può non essere ritenuto mediamente affidabile – includeva anche un trattato specifico sui pianeti.[45] 3.5. Di qualche interesse è poi il confronto fra gli atomisti e Diogene di Apollonia in quanto, come si è già avuto modo di far presente, questo intellettuale verosimilmente noto ad Aristofane (per cui si presume che abbia raggiunto una considerevole notorietà ad Atene già intorno al 425 a.C.) non parlava di atomi bensì di aria, ma si è trovato ad accreditare una cosmologia davvero molto vicina a quella di Democrito : mondi innumerevoli e suscettibili di distruzione (64A1 e A10 D.-K.) ; la luna e gli astri hanno l’aspetto della pietra pomice (64A12 e A14 D.-K.) ; in cielo circolano anche pietre invisibili a occhio nudo che talvolta collidono con gli astri e così finiscono per cadere sulla terra (64A12 D.-K.) ; la terra è ferma al centro del sistema, avendo assunto la conformazione attuale in virtù del caldo e del freddo (64A1 D.-K.). Non è senza significato che, col mutare delle ipotesi intorno alla materia prima del cosmo, non siano cambiate significativamente le congetture su punti particolari. Oltretutto la circostanza incoraggia a dubitare che la cosmologia di Democrito possa essersi spinta molto oltre gli orizzonti di ciò che anche noi veniamo a sapere sull’argomento.[46] 3.6. Occupiamoci ora di Filolao, il pitagorico di Crotone che fu coetaneo di Socrate. Non ci soffermeremo su temi di per sé rilevanti, come  

















la relazione tra illimitato, limitante e armonia, il ruolo attribuito al numero, le oscure indicazioni disponibili intorno alla condizione originaria del cosmo, la dinamica della sua futura distruzione e la possibile identità del numero uno con il fuoco centrale (il quale viene denominato, con nostra sorpresa, hestia, termine che evoca non soltanto il focolare domestico in quanto luogo e apparato per la produzione della fiamma e del calore, ma anche il focolare inteso come fulcro delle relazioni tra i membri della medesima famiglia). Anche la sua astronomia è relativamente mal conosciuta, ma il poco che sappiamo è tale da evidenziare delle idee fortemente originali. Il primo punto è lo ‘spodestamento’ della terra dalla posizione, divenuta già tradizionale, al centro del cosmo a favore di un fuoco che noi non vediamo. Due testi, uno dei quali dovuto ad Aristotele (si tratta di 44A16 e 58B37a D.-K.), sono inequivocabili nel farci sapere che, secondo Filolao, anche la terra ruota attorno a un fuoco centrale al pari di ogni altro corpo celeste, ed è bilanciata da una anti-terra collocata dalla parte opposta del fuoco centrale, verosimilmente per evitare che le enormi dimensioni della terra (in quanto corpo anch’esso eccentrico) introducessero uno squilibrio troppo grande nel sistema dei corpi celesti. Si delinea, con ciò, una focalizzazione dell’attenzione sul sistema delle relazioni tra i corpi celesti, l’idea che essi debbano essere organizzati e disposti in modo armonico, così da formare un sistema stabile. Di una simile idea si cercherebbe invano una traccia anche labile negli autori precedenti, segno che in ambiente pitagorico si era elaborato un approccio considerevolmente innovativo e indipendente da ciò che veniva comunemente asserito da altri sophoi. Apprendiamo inoltre (da Aezio : 44A16 D.-K.) che Filolao si rappresentava il cosmo come una serie di nove corpi celesti che ruotano attorno al fuoco centrale. Nell’ordine, si tratta di anti-terra, terra, luna, sole e i “cinque pianeti” errabondi [47] più, all’esterno, le stelle fisse. I suoi corpi celesti si muovono ordinatamente nello spazio cosmico, ognuno a una velocità differente dagli altri. La terra e l’anti-terra alla velocità più alta (un giro attorno al fuoco centrale in un giorno, voltando ‘le spalle’ al fuoco centrale e quindi anche l’una all’altra) e gli altri con velocità minori, fino alle stelle fisse che si muovono solo lentissimamente. Complicano le cose gli indizi che impongo 

cosmologia no di ravvisare, nel sapere di Filolao, non solo il tentativo di costruire un sapere positivo e in qualche misura controllabile, ma anche l’espressione di intendimenti lato sensu religiosi, mitologici, rituali. Appare infatti difficile spiegare altrimenti l’affermazione che la luna è abitata da uomini quindici volte più grandi di noi uomini e il giorno, sulla luna, dura quindici dei nostri giorni, oppure l’enfasi nel denominare il fuoco centrale non solo hestia, ma anche «casa di Zeus», «madre degli dei» e «altare» (in 44A16 D.-K.). Sta di fatto, però, che Filolao ha potentemente contribuito ad avviare una approfondita riflessione sulla collocazione e le ‘regole di funzionamento’ dei corpi celesti, forse non senza far tesoro di qualche idea di Parmenide. Appare inoltre evidente egli sia espressione di una cultura astronomica discontinua rispetto alle speculazioni dei cosiddetti Pluralisti proprio in quanto si mostra interessato soprattutto a individuare i fattori di equilibrio tra i vari corpi celesti in movimento. Che la nuova impostazione sia debitrice della particolare cultura espressa dal pitagorismo è sostanzialmente pacifico, anche se da una simile affermazione è virtualmente impossibile procedere a più circostanziati accertamenti.[48] Resta da aggiungere che Filolao, se è l’ultimo dei cosmologi presocratici, da alcuni non secondari punti di vista è anche antesignano del nuovo che prenderà forma ai tempi di Platone. 4. La stagione ‘aurea’ della cosmologia greca : Platone, Eudosso, Callippo e Aristotele. – 4.1. Spostandoci ora al iv secolo, sarà il caso di cominciare con la eloquente testimonianza di alcuni famosi non-specialisti, come →Senofonte e lo stesso →Platone, perché è la loro testimonianza a parlarci del nuovo che si stava affermando nei primi decenni del iv secolo. Ciò che essi lasciano intravedere è un nuovo tipo di sapere intorno ai corpi celesti che già si inscrive nell’orizzonte dell’astronomia, più che della cosmologia, in quanto ora gli sforzi dei ricercatori appaiono orientati a capire come i corpi celesti si interconnettono e fanno sistema pur preservando ciascuno la sua particolare maniera di muoversi nello spazio. In effetti i testi che ora verranno brevemente richiamati documentano l’affermarsi di maniere inedite di impostare la ricerca sugli astri. Possiamo incominciare con un passo dei Memorabili di →Senofonte: in 4, 7, 5 l’autore ha modo di riferire, di passaggio, che Socrate dissuadeva  

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i suoi frequentatori abituali dallo spingere lo studio dell’astronomia « fino alla conoscenza dei corpi celesti che non stanno nella medesima orbita (ejn th`/ aujth/` perifora/`), i pianeti, e le stelle non fisse, e sciupare il tempo per cercare le loro distanze dalla terra e i loro percorsi (perivodou~) e le cause di queste cose » (trad. A. Santoni). L’indicazione non è generica, perché al centro del discorso viene posto il tentativo di rappresentarsi il percorso compiuto dai corpi celesti ‘instabili’, ossia la specificità del loro anomalo moto ; in secondo luogo si parla di orbite, ossia di tracciati regolari che dovrebbero rendere conto dell’apparente anomalia del moto dei pianeti ; in terzo luogo si fa un esplicito riferimento ai tentativi sia di misurare e quantificare, sia di capir bene come funziona il sistema. Ora che Senofonte abbia delle competenze astronomiche è escluso. Ciò significa che egli ha notizia, e notizia non troppo vaga, di persone – verosimilmente di astronomi diversi da Filolao – che coltivavano l’astronomia in modi innovativi e con qualche successo, e così pure della direzione che questi nuovi studiosi stavano dando alla loro ricerca. A chi stava dunque pensando nello scrivere queste righe ? Non lo sappiamo, ma in questo caso non è tanto importante arrivare a fare un nome, quanto registrare la notizia e rilevare che l’informazione di queste nuove ricerche è arrivata fino a Senofonte, forse intorno al 370-360 a.C.[49] Anche →Platone ha avuto più volte occasione di lanciare delle idee intorno alla natura del cosmo. Ricordiamo, per cominciare, che nel Fedone (109a) egli ha trovato il modo di riproporre, e con grande maestria, l’idea di Anassimandro secondo cui la terra se ne sta ferma al centro dell’universo semplicemente perché è in equilibrio (ossia per mancanza di ragioni o spinte che possano indurla a precipitare nell’una o nell’altra direzione). Ma nella pagina seguente egli ha anche provveduto a elaborare un’idea non solo inedita, ma anche illuminante, quantunque manifestamente fantasiosa : è probabile, ha affermato in Phaed. 109e-110a, che l’aria stia alla terra e ai suoi abitanti esattamente come l’acqua sta al fondo marino e ai pesci che vivono negli abissi. In tutti e due i casi, per chi giace nel fondo, è straordinariamente difficile riuscire a farsi un’idea di quale ambiente può prendere forma alla superficie dell’acqua e, rispettivamente, alla superficie dell’aria. Chi sta sotto, immerso nell’acqua o nell’aria, magari  











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arriva a intuire che sopra ci sarà un tipo di ambiente o ecosistema completamente diverso, non descrivibile con le categorie di chi sa vivere solo ‘sotto’, ma non è in grado di rappresentarselo, non se lo sa immaginare. Se le idee lanciate nel Fedone andavano chiaramente nella direzione di un sistema di relazioni fisiche completamente diverso da quello che caratterizza il nostro ambiente di vita, nel settimo libro della Repubblica – dunque, si può presumere, nemmeno un decennio più tardi – viene a delinearsi un’astronomia ideale ricondotta a modelli matematici (problhvvmasin … crwvmenoi, « servendoci di problemi », come si legge in 7, 530b 6) e sottoposta a forme molto accentuate di astrazione. Grazie a una simile impostazione, Platone mostra di intravedere una concreta possibilità di individuare l’ordine nascosto – e immutabile – che presiede ai moti apparentemente disordinati dei pianeti. Ma è nel decimo libro che egli entra in dettagli particolarmente interessanti, in particolare allorché scrive che «stando al racconto di Er, bisogna pensare [che il fuso cosmico sia] fatto in modo che in un solo grande fusaiolo, cavo e forato da parte a parte, ne fosse inserito un altro, simile ma più piccolo, che gli si adattava come quei vasi che si infilano gli uni dentro gli altri ; e così poi un terzo, un quarto e altri quattro. Infatti i fusaioli erano in totale otto, inseriti l’uno nell’altro, e ne erano visibili dall’alto i bordi circolari, che costituivano la superficie continua di un unico fusaiolo intorno al fusto ; questo si estendeva, attraversando da parte a parte, nel centro, l’ottavo fusaiolo. Il primo fusaiolo, il più esterno, aveva il bordo circolare più largo, secondo per larghezza era quello del sesto, terzo quello del quarto, quarto quello dell’ottavo, quinto quello del settimo, sesto quello del quinto, settimo quello del terzo, ottavo quello del secondo. Il bordo del maggiore era trapunto, quello del settimo era il più splendente (etc.). Il fuso girava tutto in un moto circolare uniforme, ma, all’interno della rotazione dell’insieme, i sette cerchi giravano lentamente in senso contrario a quello dell’insieme ; di questi l’ottavo si muoveva più velocemente, secondi per velocità e simultanei erano il settimo, il sesto e il quinto, terzo nel suo moto circolare retrogrado appariva loro essere il quarto (etc.)» (10, 616d-617b, trad. M. Vegetti). In questo caso il contesto è indiscutibilmente costituito dal tentativo di suggestionare il  









lettore con una bella fantasmagoria astronomica, malgrado il tutto sia concettualmente piuttosto labile. Basti dire che qui si parla di vasi collocati uno dentro l’altro, tutti forati, che si muovono con velocità differenti in un contesto retto da un grande fascio di luce che, a sua volta, costituirebbe l’asse dell’universo. A suscitare una intuitiva perplessità è proprio la forma attribuita a questi corpi cosmici : una forma a vaso o tazza, una imprecisata via di mezzo tra la semisfera e il cilindro che manifestamente scade nell’arbitrario a scapito della possibilità di attribuire a simili fantasticherie un qualunque valore conoscitivo. Ma il riferimento ai vasi non può che attenere alla dimensione fantastica del brano,[50] mentre l’idea che ciascuna struttura ‘vascolare’ ruoti con velocità decrescente e, quel che più conta, in direzione opposta a quella del recipiente al cui interno è collocata ci parla di un sistema di enormi cavità concentriche, invisibili ma non opache (dunque trasparenti), che si muovono in maniera indipendente l’una dall’altra, ma entro un sistema di regole. Infatti il movimento è ‘opposto’, la velocità è ‘decrescente’, i vari recipienti sono concentrici e l’asse di rotazione è il medesimo per tutti. Il riferimento all’asse attorno al quale ruotano tutti questi recipienti è significativo, perché nasconde e, insieme, rivela una riflessione non banale : il sistema mostra chiaramente di ruotare attorno al medesimo asse, quindi di funzionare come una struttura cha fa riferimento a tale asse. Il suo asse, pur configurandosi come una struttura di base (tanto che tutti i recipienti fanno riferimento ad essa), è a sua volta invisibile e si può provvisoriamente caratterizzare come un fascio di luce che noi non vediamo ma che a suo modo detta legge all’intero sistema. Ancora, a ogni recipiente concentrico corrisponde un corpo ruotante visibile anche a occhio nudo, e ciò significa che il recipiente ‘trasporta’ un particolare corpo, anzi trova la sua ragion d’essere nel bisogno di capire come mai ogni corpo celeste possa muoversi attorno al medesimo asse ma non allo stesso modo degli altri corpi celesti : la spiegazione (non dichiarata) è che esso si trova incastonato in questa colossale struttura trasparente. A sua volta il sistema dei recipienti serve a far capire (quindi dimostra che si è capito) che i moti di ciascun pianeta, moti che non sono meno sistemici dei moti di sole e luna, possono apparirci ancor più devianti rispetto  





cosmologia al moto di stelle, sole e luna perché si sono dati una direzione e una velocità differenti nel pieno rispetto delle regole del sistema. Infine le velocità non sono crescenti o decrescenti, ma variano quasi liberamente di livello in livello. Con ogni evidenza, chi ha ideato una così elaborata fantasmagoria può anche non essere stato un astronomo professionista e non essersi personalmente dedicato al calcolo di traiettorie e velocità, ma doveva certamente sapere molte cose ed essere molto ben informato su un modo profondamente innovativo di rappresentarsi i moti celesti. Da qui il desiderio di dare un nome al professionista echeggiato da Platone, desiderio che rimane inappagato. Comunque il dato primario è che, intorno al 370, Platone e altri avevano idea di un nuovo schema di ‘lettura’ del cielo al quale uno o più astronomi stavano lavorando. Capiamo che questo schema doveva essere fondato su un sistema di strutture sferiche trasparenti e coassiali, ma con moto difforme, ciascuna delle quali avrebbe fatto da supporto per il sistema delle stelle o uno dei sette corpi celesti ‘irregolari’ (sole, luna e pianeti) che sono anche visibili a occhio nudo. Se fin dai tempi, ormai remoti, di Anassimene (o addirittura di Esiodo) si è parlato di stelle conficcate nella sfera esterna, opaca, che costituisce la volta del cielo, se Anassimandro e Parmenide avevano almeno intravisto un sistema di grandi ‘fasce’ cosmiche chiamato a rendere conto proprio del moto dei corpi non solidali con le stelle,[51] è ora per la prima volta che si squarcia il velo su un intero apparato di strutture sferiche (o semisferiche) concentriche e trasparenti che avrebbero il compito di ‘trasportare’ i corpi celesti.[52] Quanto poi al grado di prossimità fra questa pagina della Repubblica e il breve testo di Senofonte sopra richiamato, sembra appropriato osservare che Senofonte non parla di strutture di supporto dei corpi in movimento, ma parla pur sempre di orbite (percorsi di spostamento) differenti e di persone che si dedicano alla loro più precisa determinazione. Se ne ricava l’impressione che nei due casi vengano richiamati aspetti diversi di un medesimo orientamento che lascia da parte ogni tentativo di spiegare l’assetto attuale in termini evolutivi (a partire dal vortice cosmico) e si concentra in modo esclusivo sulla specificità di questi moti differenti ma ordinati e inseriti in una sorta di logica unitaria. Passiamo ora ai due brevi passi che incon-

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triamo nel Timeo, e che pure forniscono molti dettagli degni di nota. Nel primo leggiamo che colui che costituì il mondo (oJ sunistav~) assegnò al cosmo in quanto tale uno solo dei sette movimenti,[53] il moto circolare, che è «quello che soprattutto conviene all’intelligenza e alla saggezza. Perciò, appunto, facendolo ruotare allo stesso modo e nello stesso luogo e in se medesimo, fece sì che si muovesse con movimento circolare, gli tolse tutti gli altri sei movimenti e lo fece immobile rispetto ad essi» (Ti. 34a). «Affinché il tempo si generasse, furono fatti il sole la luna e i cinque altri astri, che hanno nome di pianeti (…) Dio li collocò nelle orbite nelle quali si muoveva il circuito circolare del Diverso. Essendo sette gli astri, sette sono le orbite» (Ti. 38cd, trad. G. Reale). In questo caso Platone appare impegnato non solo a introdurre e accreditare quell’idea di perfezione del moto circolare che diverrà un cardine della c. aristotelica, ma anche ad accreditare l’idea che la chiave dell’astronomia sia da ricercarsi nell’apparato concettuale della geometria. Si fa notare inoltre il riferimento ai ‘sei movimenti’. In tal modo prende forma, quanto meno, un contesto particolarmente favorevole per le ricerche condotte, grosso modo nello stesso periodo, da Eudosso. Spiace constatare la mancanza di indizi per capire se le ricerche di quest’ultimo presero forma nell’Accademia o in maniera indipendente, perché i rari cenni platonici all’astronomia, indiscutibilmente vaghi e non informativi, lasciano capire soltanto che Platone sa o potrebbe sapere qualcosa delle sue ricerche e vede con favore la possibilità di squarciare il mistero dei cieli che in tal modo si delinea, ma questo è tutto, o almeno si cercherebbero invano gli indizi di una inequivocabile conoscenza delle idee di Eudosso da parte di Platone. Quanto poi alla supposta competenza astronomica di quest’ultimo, è verosimile che egli abbia cercato di accreditarsi come “architect of mathematical sciences” e svolto una funzione di indirizzo e incoraggiamento, senza sviluppare particolari competenze lui stesso. [54] Resta da aggiungere qualche considerazione sul Timeo, dialogo-monologo che manifestamente si richiama alla tradizione dei Peri physeos e nel quale avremmo potuto aspettarci di trovare una dottrina cosmologica nemmeno troppo acerba. In realtà l’opera sviluppa la trattazione soprattutto sul versante antropologico e della fisiologia umana, mentre del cosmo si

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tratta in relazione al costituirsi di una struttura fisica complessa (a partire dai triangoli e dai cinque solidi geometrici regolari), ma avendo cura di non sfiorare nemmeno la rappresentazione dei corpi celesti in movimento.[55] 4.2. Venendo ora a trattare delle teorie di →Eudosso di Cnido, cominciamo col ricordare che la sua breve vita si colloca tra il 408 e il 355 oppure tra il 391 e il 338 a.C., e che ben poco si riesce ad appurare sull’epoca del suo arrivo ad Atene, sui fecondi sedici mesi che avrebbe trascorso in Egitto e sui contatti avuti con Platone.[56] La famosa teoria delle sfere omocentriche costituisce solo uno dei molti campi di specializzazione di questo versatile intellettuale, ma ovviamente è quanto qui interessa. Sappiamo che l’argomento venne trattato in un’opera non pervenuta che si intitolava Sulle velocità (Peri; tacw`n, cioè sulle differenti velocità con cui si spostano i corpi celesti). La nostra principale fonte di informazione è Aristotele il quale, nel libro xii della Metafisica, esordisce piuttosto bruscamente con queste affermazioni : «Ma che il numero dei movimenti di traslazione superi quello dei corpi che si spostano localmente, è una cosa evidente anche a chi abbia una modesta competenza in questo campo di studi (infatti, ciascuno degli astri non fissi compie più di uno spostamento) ; comunque, per quanto concerne il numero di queste traslazioni, noi ora, tanto per darne un’idea, intendiamo riportare le teorie di alcuni matematici…» (12, 8, 1073b 7-11, trad. A. Russo). Aristotele mostra di partire dal presupposto – ritenuto pacifico e, come abbiamo visto, condiviso anche da Platone – che il moto dei corpi fisici sia analizzabile e scomponibile in più tipi di moto. Apprendiamo, in particolare, che i moti obliqui sono pensati come analizzabili con modalità che ricordano fin troppo bene gli assi cartesiani, ossia in sei direzioni : secondo la verticale (direzione verso l’alto e verso il basso) e due direzioni orizzontali pensate come ortogonali fra di loro. Orbene, Aristotele si trova ad affermare – e in maniera piuttosto perentoria – che si potrà riuscire a capire il moto complesso di singoli corpi celesti se si individueranno i moti semplici la cui combinazione da luogo esattamente a un dato moto complesso (il movimento di traslazione effettivo che, almeno in parte, è osservabile da terra), se cioè si riuscirà a scomporre un moto complesso in una serie di moti semplici. Si noti la novità dell’idea e la  





sua spiccata attitudine a tradursi in indagini specifiche. Chiarito questo punto, Aristotele prosegue : «Eudosso sostiene che il movimento di traslazione tanto del sole quanto della luna si compie nell’ambito di tre sfere, la più esterna delle quali, secondo lui, è quella delle stelle fisse, la seconda quella che si muove nel cerchio che biseziona longitudinalmente lo zodiaco, la terza è quella che si muove in un cerchio che è inclinato attraverso la latitudine dello zodiaco ; ma il cerchio secondo cui si sposta la luna è inclinato secondo un angolo che è maggiore rispetto a quello del cerchio secondo cui si sposta il sole ; il moto di traslazione di ciascun pianeta si attua mediante quattro sfere, e le prime due di queste sono identiche alle prime due del sole e della luna (infatti la sfera delle stelle fisse è quella che imprime il movimento a tutte quante le altre sfere, e quella che è disposta in ordine dopo di essa e che compie la propria traslazione nel cerchio che biseziona lo zodiaco, è comune a tutti i pianeti) ; invece la terza sfera di tutti i pianeti ha i suoi poli nel cerchio che biseziona lo zodiaco (etc.)» (Metaph. 12, 8, 1073b 17-28, trad. cit.). Con ogni evidenza, queste dichiarazioni sono molto impegnative e sembrano presupporre molteplici conoscenze, indicazioni di metodo, impostazione dei calcoli (cfr. →Eudosso, 3). A noi viene tuttavia presentato, per giunta in forma narrativa, solo un insieme di conclusioni, che sono comprensibili, ma non sono accompagnate da nessuna indicazione che ci permetta di identificare i moti circolari semplici la cui combinazione renderebbe conto dei moti complessi identificabili per mezzo di prolungate ed accurate osservazioni di specifiche porzioni della volta celeste. Infatti non è difficile capire che Eudosso deve aver lavorato a un metodo con cui reinterpretare i moti apparenti degli astri in base alla combinazione di più movimenti regolari,[57] e precisamente di una serie di movimenti circolari non coassiali, con dislocazione degli assi in punti diversi della ‘sfera’ immediatamente più esterna, ossia abbandonando il principio platonico (ma in parte anche di Parmenide e Filolao) delle sfere coassiali. Ma Eudosso avrà intrapreso l’impostazione dei calcoli allo scopo di arrivare a delineare una modalità credibile di scomposizione della complessità in insiemi finiti di moti semplici ? Avrà costruito dei modelli specifici ? La risposta non è ovvia. Probabilmente non possiamo  











cosmologia limitarci a constatare che la nostra fonte non entra in dettagli, ma si limita a identificare la funzione di ciascun livello : la prima sfera produce o riproduce il moto semplice delle stelle fisse ; la seconda introduce una correzione tale da rendere conto pienamente della specificità delle orbite di sole e luna, e solo in parte di quelle dei singoli pianeti ; per rendere conto delle ulteriori specificità del moto dei pianeti si devono postulare, per ciascuno, altre due sfere non coassiali. Resta da capire se Eudosso abbia tentato di identificare le specifiche dei quattro moti semplici che, combinati insieme, dovrebbero rendere conto dei singoli moti complessi. In particolare l’individuazione dei punti in cui collocare gli assi delle sfere interne appare un compito proibitivo per lui e, oso presumere, non solo per i matematici di duemila anni fa. In considerazione di quanto esposto, non è impossibile che il modello elaborato da Eudosso si sia fondato sull’idea che, con calcoli appropriati, si potrebbero individuare assi e velocità di ciascuna sfera, intendendo che egli potrebbe non aver dedicato particolari energie all’impostazione di calcoli e all’effettuazione di prove con appositi modellini. In altri termini : la sua costruzione avrebbe potuto essere di tipo geometrico, più che di tipo matematico, e egli avrebbe potuto ritenere sufficiente arrivare a capire che si potrà arrivare un giorno a rendere conto dei fenomeni esaminati solo a condizione di ipotizzare una meccanica del tipo indicato. Le dichiarazioni di Aristotele impongono inoltre di ritenere che Eudosso elaborò non un mero modello matematico ma un modello fisico, con sfere reali, trasparenti (quindi invisibili), verosimilmente piuttosto sottili, con l’asse di ciascuna collocato in punti funzionali della sfera immediatamente più grande e più comprensiva, in modo che ogni sfera potesse avere poli e velocità sue peculiari. In questo modo si apre definitivamente la strada all’ipotesi che il cielo sia costituito da un grande numero (qualche decina) di sfere trasparenti la cui esistenza non è in alcun modo osservabile, nel presupposto che ogni moto complesso (a) sia la risultante di (e sia quindi scomponibile in) più moti semplici, (b) sia effetto della collocazione del singolo oggetto astrale in un punto determinato di una di queste sfere in movimento che a sua volta abbia gli assi fissati in una sfera più grande, che a sua volta abbia gli assi fissati su una terza sfera, e così via di seguito.[58]  







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4.3. Di fronte a tanto ardimento, e anche a tanto ottimismo nel pensare che all’ipotesi esplicativa possa effettivamente corrispondere una fisicità priva del benché minimo riscontro, è ovviamente lecito sospettare che Aristotele abbia involontariamente accentuato i tratti di realismo di uno schema che, in teoria, poteva anche essere stato concepito come una mera modalità di calcolo con cui provare (solo provare) a rappresentarsi i fenomeni. In effetti, anche se mancano evidenze in grado di accreditare o screditare simili congetture, sembra ragionevole supporre che il fascino del modello, combinato con l’impressione che non si diano altre concrete modalità di spiegarsi il moto degli astri, abbia fortemente impressionato Eudosso non meno di Aristotele ed altri, al punto da istituire la possibilità di pensare che effettivamente in cielo ci fossero, e girassero in continuazione, alcune decine di immense sfere sottili e trasparenti, ma al tempo stesso solide e capaci di trasportare, in taluni casi, anche corpi celesti decisamente ‘scomodi’ come il sole, senza il minimo rischio di destabilizzazione del sistema. Spiace dunque constatare che in proposito disponiamo di informazioni decisamente troppo sommarie. Sappiamo però che, di fronte a tanto ardimento (e anche a un così grande ottimismo nella capacità della ragione umana di dirci come è fatto e come funzione il cosmo), Aristotele mostra di aver apprezzato, ma senza scomporsi. Appena qualche riga più sotto egli prosegue riferendo che un certo Callippo di Cizico, suo contemporaneo e ‘collega’, ritenne di dover portare la serie dei cerchi trasparenti da 26 a 33 per meglio rendere conto della specificità di taluni fenomeni [59] e aggiunge : «Ma, perché si possa dare veramente il conto preciso dei fenomeni mediante la combinazione di tutte le sfere, ci devono essere, per ciascuno dei pianeti, ancora altre sfere che, rispetto a quelle sopra accennate, siano di ugual numero meno uno, e devono girare in senso inverso rispetto a quelle e riportare alla medesima posizione la prima sfera dell’astro che, in ogni caso, è disposto in ordine al di sotto di un altro (…) Poiché, pertanto, le sfere in cui si compiono queste traslazioni sono otto per Zeus e Cronos e venticinque per gli altri pianeti (…) le sfere saranno in tutto quarantasette» (Metaph. 12, 8, 1073b 37-1074a 13, trad. cit.). E poco oltre : «Ammettiamo, intanto, che tale sia il numero delle sfere ; di conseguenza,  





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è conforme a ragione supporre che siano di uguale numero anche le sostanze e i princìpi immobili» (etc.) (12, 8, 1074a 13-15, trad. cit.). Come si vede, egli ha compiutamente recepito la congettura di Eudosso ed ha solo accentuato il passaggio, già avviato, dal modello matematico (la risoluzione di un moto complesso nella combinazione di più moti semplici, la sua spiegazione a partire da moti semplici) alla teorizzazione dell’effettiva esistenza di ben quarantasette mega-strutture sferiche e dei rispettivi principi che devono imprimere a ciascuna uno specifico moto (e, prima, collocare gli assi nei punti giusti). Il passaggio ha una sua logica : se i corpi celesti si muovono in base a moti perfettamente regolari (tanto da ritornare periodicamente sulle medesime posizioni), se i moti in questione non possono che essere circolari, e se si tratta di moti reali che, non per nulla, producono effetti osservabili, allora è corretto postulare l’esistenza di strutture materiali in grado di produrre gli effetti desiderati. Ora se queste sfere concentriche non sono coassiali, via via che esse salgono di numero, il moto degli oggetti fissati in qualche punto di singole sfere interne – sole, luna, i cinque pianeti – diverrebbe di una complessità sovrumana, non suscettibile di analisi; inoltre caotico e, quindi, contrario ai dati di osservazione. Da qui l’esigenza, procedendo dall’esterno verso l’interno, di ricostituire ogni volta le condizioni originarie (in modo uguale a quello delle stelle fisse) neutralizzando sistematicamente gli effetti delle combinazioni di sfere che stanno ‘a monte’. Si ammetterà che, date le premesse, la conclusione si imponeva con grande determinazione. Semmai sorprende, che nel far ciò, Aristotele non abbia avvertito il bisogno di introdurre nessuna precisazione intorno a svariate questioni collaterali come ad es. le seguenti : come mai, mentre la luna è un corpo celeste relativamente opaco, mentre sole, stelle e pianeti sono dei corpi celesti luminosi, le sfere sono verosimilmente solide ma trasparenti ? come si è arrivati (e chi è arrivato) a produrre e montare tutte queste sfere, collocando gli assi di ciascuna sfera interna in appositi punti strategici ? che pensare degli assi che, in teoria, dovrebbero sporgere di molto dalla singola sfera, e che pensare del punto di appoggio degli assi sulla sfera pertinente ? come si è arrivati (e chi è arrivato) a effettuare, una volta per tutte, il perfetto coordinamento tra i  









moti semplici grazie ai quali si genera una traslazione complessa e i moti semplici chiamati a neutralizzare al meglio gli effetti derivanti dalla combinazione di altri moti semplici ? Infatti, a rigore, non basta pensare ad altrettanti motori immobili (ognuno pensato come sorgente di un particolare tipo di moto) ; bisognerebbe pensare a una progettualità complessiva che si rivela immediatamente difficile da accreditare come reale, senza il supporto di uno straordinario atto di fede (in realtà, come si riferirà tra un momento, non si tratta di mera fede nella potenza dell’epistēmē). Sta di fatto che, in questo modo, si è venuti a edificare una nuova narrazione inverificabile di come dovrebbe essere fatto il cielo. Potremmo anche dire : un nuovo mythos, al cui accreditamento Aristotele diede un contributo di prim’ordine in virtù di altre essenziali tessere della ‘sua’ cosmologia. Infatti, come è noto, egli ebbe modo di elaborare e accreditare anche una concezione della materia scandita in cinque ‘essenze’, ossia i quattro elementi empedoclei più un etere (la ‘quintessenza’) pensato come radicalmente diverso dagli altri quattro : mentre i quattro elementi sono corruttibili, il quinto sarebbe incorruttibile (‘sensibile ma eterno’) ; mentre i quattro elementi sono caratterizzati da un moto eminentemente rettilineo [60] che deve per forza conoscere dei limiti, il quinto sarebbe caratterizzato dal moto circolare, quindi da un moto regolare e costante, per sua natura idoneo a continuare indefinitamente nel tempo, senza conoscere perturbazioni di sorta. Si intuisce facilmente che la teoria degli elementi appena riassunta ha caratteristiche tali da costituire un vero e proprio volano per l’accreditamento delle congetture sulla supposta successione di sfere trasparenti collocate una dentro l’altra, ciascuna con specifiche particolari quanto ad asse, orientamento, velocità e distanza tra le sfere (tenendo conto della presenza o assenza di corpi che, per essere visibili dalla terra, si presume abbiano dimensioni ragguardevoli). Alla stabilizzazione di una così vistosa sicurezza nel prendere per buone le conclusioni di un lungo e ardito itinerario inferenziale probabilmente diede il suo bravo contributo, invero, anche la potente suggestione costituita dagli entusiasmi che, come abbiamo visto, provvide Platone ad alimentare con grande efficacia. In effetti la rappresentazione del moto dei pianeti ideata da Eudosso poté essere percepita come  









cosmologia talmente geniale ed ‘elegante’ da imporsi come una congettura priva di alternative, tale perciò da poter essere accolta senza sostanziali riserve da Aristotele nella sua propria dottrina cosmologica. In effetti in questo laborioso modello il filosofo ha probabilmente ravvisato un vertice insuperabile nei modi possibili di rendere conto del sistema dei moti dei corpi celesti. Ha dunque un senso leggere, nel medesimo capitolo di Metafisica 12, che «lo studio delle traslazioni deve essere rinviato a quella che, fra le scienze matematiche, si approssima di più alla filosofia, ossia all’astronomia [gr. astrologia] : questa, infatti, ha come oggetto delle sue indagini una sostanza che è sensibile ma eterna, mentre le altre scienze matematiche – quali, ad esempio, l’aritmetica e la geometria – non hanno a che fare con alcuna sostanza» (12, 8, 1073b 3-7, trad. cit.). Prende forma, in tal modo, una combinazione di ingredienti che ha avuto il potere di generare un potente cortocircuito e dunque una formidabile presunzione di affidabilità : lo status di ispirazione platonica, una più che attraente teoria dei cinque elementi e il tipo di analisi dei moti astrali che era stato impostato e avviato da Eudosso. Veniamo ora a un altro potente protagonista del processo di rassicurazione nella validità dello schema interpretativo di Eudosso-Callippo-Aristotele. A conferire una speciale capacità di tenuta a quel modello diede un contributo di rilievo anche l’idea di religione astrale, un’idea che si venne precisando e mise radici proprio all’interno dell’→accademia intorno alla metà del iv secolo. Di una propensione a ravvisare nei corpi celesti degli dei è traccia in Timeo 40d e nel libro v delle Leggi (quando si parla dell’ani ma del mondo e si condanna l’ateismo, senza però entrare nel merito del sapere intorno ai moti degli astri), ma il monumento inequivocabile di questa svolta è piuttosto l’Epinomis che si conviene di attribuire a Filippo di Opunte, collaboratore di Platone all’epoca della stesura delle Leggi. Questa ‘Appendice alle Leggi’ è tutta incentrata su un sentimento di religiosa ammirazione per l’ordine celeste, sull’attribuzione di divinità e intelligenza agli astri e sulla conseguente polemica contro un concezione rozzamente materialistica dei corpi celesti.[61] Non che a partire da ciò prenda forma uno specifico sapere sugli astri, ma l’idea di divinità dei corpi celesti poté sposarsi molto bene con la  



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tesi aristotelica della incorruttibilità e perfetta regolarità del moto dei corpi celesti, fornendo un potente valore aggiunto a supporto di una particolare maniera di rendere conto del moto degli astri mentre rilanciava – e rivitalizzava con nuove motivazioni – l’adesione soggettiva alla religione olimpica. Ciò spiega le resistenze che indebolirono sul nascere le ipotesi alternative formulate da altri intellettuali a distanza di pochi decenni dalla Metafisica e dal De caelo aristotelico. Intanto il brano della Metafisica sopra riportato – e da associare alla ‘tirata’ finale di M. xii 8 sulla sostanziale validità dei miti risalenti ai nostri più antichi progenitori – appare significativo anche per il fatto di impostare il passaggio dalla c. all’astronomia. Concludiamo questa sezione con un cenno sui molti punti, uno più significativo dell’altro, ai quali Aristotele ha dedicato l’ultima pagina del ii libro del De caelo : (a) l’eclisse di luna viene interpretata, con estrema sicurezza, come effetto dell’interposizione della terra ; (b) la forma circolare dell’ombra che va ad oscurare per breve tempo la luna viene interpretata come prova certa della sfericità della terra ; (c) poiché uno spostamento relativamente modesto (sulla superficie terrestre : es. dalla Grecia all’Egitto) è sufficiente determinare una manifesta alterazione della gamma delle stelle visibili, se ne deduce che, al confronto con le stelle, la terra non dovrebbe essere poi tanto grande ; (d) viene riferito che i matematici hanno provato a calcolare le dimensioni della sfera terrestre, indicando una circonferenza pari a 400.000 stadi (circa 720.000 km, quasi il doppio delle dimensioni reali : quelle che Eratostene, invece, seppe indicare con sorprendente precisione). Il modo di trattare tutta questa intricata materia (in Cael. 2, 14, 297b 25-298a 20) dimostra che Aristotele seppe mantenere una certa sensibilità anche per la dimensione fisica della ricerca sui corpi celesti, sensibilità che, per le ragioni indicate, non mise tuttavia radici.[62] 5. La meteora della teoria eliocentrica : Eraclide Pontico e Aristarco di Samo. – Il caso di un altro contemporaneo ed allievo di Aristotele, Eraclide Pontico costituisce quasi la controprova del processo di ideologizzazione che, all’epoca, la teoria delle sfere concentriche poté subire. Eraclide, oltre a condurre indagini sull’esatto percorso di singoli corpi stellari, allo scopo di spiegare ancor meglio il moto diurno dei cieli, giunse ad elaborare una teoria ancora più ar 













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dita e innovativa delle precedenti, sostenendo che non è il sole a girare attorno alla terra ma è la terra a girare attorno al sole. Purtroppo, per quanto riguarda questa sua teoria, disponiamo di informazioni oltremodo esigue : un solo passo del commento di Simplicio alla Fisica di Aristotele, testo posteriore di quali nove secoli. Cominciamo con la dichiarazione fondamentale : Eraclide e[legen o{ti kai; kinoumevnh  



pw`~ th`~ gh`~, tou` de; hJlivou menovnto~ pw`~, duvnatai hJ peri; to;n h{lion fainomevnh ajnwmaliva sw/vzesqai, «disse che, con la terra che in qual-

che modo si muove mentre il sole in qualche modo sta fermo, si ottiene di salvare l’apparente anomalia che riguarda il sole» (fr. 31 Wehrli). Chiaramente l’idea è rivoluzionaria, solo che Simplicio (o la sua fonte) non sa dire in base a quali ragionamenti Eraclide può aver raggiunto una conclusione che non era solo ardita e deviante rispetto alle teorie di successo di suoi tempi (quelle di Eudosso-Callippo-Aristotele) ma aveva qualcosa di inaudito e tale da scompaginare completamente gli schemi. Spiace, dunque, di non avere elementi né per capire quale sarebbe l’anomalia apparente del sole qui presa in considerazione, né per capire in che modo precisamente l’ipotesi eliocentrica vi avrebbe posto rimedio. Intuiamo il ragionamento di base – il moto rotatorio di tutti i corpi celesti in una certa direzione si può spiegare anche ipotizzando che sia la terra a ruotare nella direzione opposta – ma resta da capire come, su tali premesse, Eraclide pensasse di spiegare le differenze nel modo in cui si spostano i sette corpi celesti che non seguono il corso delle cosiddette stelle fisse. La sua intuizione, ignota ad (o ignorata da) Aristotele, ebbe un seguito importante, anche se effimero, nell’opera di →Aristarco di Samo. Anche in questo caso il primo punto da chiarire è che le nostre conoscenze in materia soffrono di una documentazione scarsa. Il testo più significativo sull’argomento si deve ad →Archimede, il quale nell’Arenarius ebbe a scrivere : «Ricordi che con la parola kosmos la maggior parte degli astrologoi designano la sfera il cui centro è il centro della terra e il cui raggio è la retta che va dal centro del sole al centro della terra: è così che lo vedi definire nelle dimostrazioni pubblicate dagli astrologoi. Ma Aristarco di Samo ha scritto un libro con certe congetture dalle cui premesse si ricava che l’universo è molte volte più grande di quanto si sente dire. Egli  

congettura che le stelle fisse e il sole rimangono immobili, mentre la terra, passando per la circonferenza del cerchio, gira attorno al sole, che sta fermo al centro di tale orbita; in secondo luogo, che la sfera delle stelle fisse, avente il medesimo centro che ha il sole, è talmente grande che il cerchio, secondo cui egli ipotizza che la terra giri, dista dalle stelle fisse quanto il centro della sfera dista dalla sua superficie esterna».[63] È interessante notare che lo stesso Aristarco scrisse anche un trattato Sulle misure e le distanze di sole e luna, che partiva invece dalle assunzioni comunemente condivise e nel quale perveniva, fra l’altro, ad argomentare che, quando la luna ci appare dimezzata, la sua distanza angolare dal sole è pari a un trentesimo di quadrante, [64] che la distanza del sole dalla terra è tra 18 e 20 volte la distanza della luna dalla terra (sappiamo che, in realtà, la proporzione tra le due distanze è prossima a 390 volte) e che, siccome l’ampiezza angolare (quindi la grandezza apparente) di sole e luna è quasi la stessa, anche il diametro reale del sole sarà pari a 18-20 volte il diametro della luna. La coesistenza di questo trattato con opere nelle quali lo stesso Aristarco non insisteva nel propugnare l’eliocentrismo ci permette di capire che, molto probabilmente, la teoria venne da lui presentata come qualcosa di altamente congetturale e dunque tale da non poter imporre un sistematico stravolgimento delle idee-guida della ricerca astronomica – insomma come una mera possibilità (o ipotesi di scuola) – il che è eloquente indizio di quanto si fosse già consolidato il modello di cosmo a sfere concentriche. Non a caso lo stoico Cleante, suo contemporaneo, ebbe a dichiarare che «i Greci dovrebbero citare in giudizio Aristarco di Samo per empietà per aver spostato il focolare dell’universo, perché lui, povero essere umano, aveva cercato di salvare i fenomeni, ipotizzando la fissità del cielo e un movimento della terra secondo l’eclittica, nonché un moto di rotazione della terra intorno al proprio asse». [65] Questa e altre dichiarazioni consimili sono eloquente indizio del successo arriso al modello di cosmo a sfere concentriche non meno che alla religione astrale coltivata in svariate scuole filosofiche. 6. Quando la cosmologia cedette il posto all’astronomia di posizione e alla meccanica celeste. – Mentre dunque la meteora eliocentrica concludeva la sua breve storia per diventare mero oggetto

cosmologia di curiosità storiografica (tale rimase, infatti, per ben millecinquecento anni : fino a Copernico), l’a. celebrava altre conquiste con →Archimede, →Eratostene, →Apollonio di Perga, →Ipparco, →Posidonio, →Gemino e altri, fino a →Tolomeo. Conquiste memorabili, come la geniale congettura di Eratostene sulle dimensioni del globo terrestre, la teoria degli eccentrici e degli epicicli (Archimede e Apollonio), i progressi nella rappresentazione del cielo, l’ulteriore, decisivo affinamento del modello geocentrico ad opera di Ipparco (autore, fra l’altro, del primo catalogo delle stelle e primo teorico della precessione degli equinozi) e, più tardi, la sua ‘definitiva’ sistemazione ad opera di Tolomeo.[66] È interessante notare che nessuno di questi autori ha mantenuto l’idea aristotelica di un sistema di sfere trasparenti su alcune delle quali fossero incastonati i sette corpi mobili identificati, né condiviso la preoccupazione di stabilire che la perfezione eterna dei moti celesti dipende dalla particolare ‘materia prima’ di cui essi sarebbero costituiti, senza, eccezione a partire dal livello della luna (la ‘quintessenza’ aristotelica, aeriforme, incorruttibile e dotata di moto circolare regolare). Queste congetture – come peraltro tante altre : l’insegnamento di Anassagora, l’osservazione delle macchie lunari e la teoria del vortice cosmico – non ebbero reale seguito, anche se suscitarono il residuo interesse di un filosofo (Epicuro) e di un poeta (Lucrezio). Al centro dell’attenzione delle nuove generazioni di studiosi del cielo non fu la cosmogonia, così come non lo fu la lettura ‘fisica’ dei corpi celesti. Ciò che attrasse la loro attenzione e che alimentò la ricerca da parte di intere generazioni di specialisti ebbe tutt’altra natura : furono la precisione di misurazioni, l’allestimento di conteggi e tabulati, i dettagli dei moti regolari (e quindi eterni) di quei corpi, in particolare le anomalie osservabili, che vennero descritte in dettaglio e reinterpretate in modo da poterle trattare come delle irregolarità solo apparenti, grazie anche all’introduzione di nozioni come quella di percorso eccentrico (non attorno a un solo centro, ma attorno a due) e di epiciclo (ciclo su ciclo). L’insieme di questi indicatori permette di capire che il loro modo di studiare il cielo ebbe uno scopo a suo modo limitato : elaborare delle teorie in grado di rendere conto dei dati di osservazione e, in particolare, delle anomalie apparenti in materia di spostamento,  







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quindi di ‘percorsi’ complessi, ma pur sempre ordinati e prevedibili, di alcuni corpi, fino alla previsione di specifici spostamenti futuri. Venne così definendosi la missione dell’astronomo : trattare i problemi che nascevano da una sempre più professionale osservazione del cielo come problemi eminentemente geometrici e di calcolo. Di conseguenza il loro sapere si configurò come un’astronomia eminentemente matematica, non fisica. Tale caratteristica, a sua volta, apre la strada a una corrispondente distinzione terminologica : la loro fu astronomia, ricerca sulle leggi che presiedono al moto degli astri, tentativo di arrivare a individuare con precisione le regole di quei moti complicati. “Bref, les Grecs ont pris très vite l’habitude, semble-t-il, de raisonner en fonction d’un modèle réduit dont ils se sont appliquées à lui faire reproduire aussi exactement quel possible les apparences. Sphérique et sphéropée, géométrie et mécanique, furent les premiers ressorts de l’astronomie grecque”. [67] È appena il caso di ricordare che una simile impostazione si è perpetuata fino al Sei-Settecento, cioè per due interi millenni, ed è significativo che qualche ripresa della religione astrale sia potuta variamente riaffiorare fino agli albori dell’età moderna. D’altro canto la propensione a pensare che il sapere cosmologico possa e debba vertere non sulla natura o origine dei corpi celesti (ciò che sarebbe una pretesa eccessiva), ma unicamente sulla complicata perfezione dei loro moti, dunque in ultima analisi sulla messa a punto di modelli matematici, implica che Tolomeo e i suoi insigni predecessori si proposero di capire non ‘come è fatto il mondo’ ma solo come esattamente funziona il concatenamento dei moti. Di conseguenza il loro sapere mal si presta ad essere trattato come una cosmologia. Possiamo forse aggiungere, conclusivamente, che se l’osservazione delle macchie solari ad opera di Galilei non comportò l’immediata fine dell’assimilazione dell’astronomia alle scienze matematiche è per via di schemi tenacissimi che erano stati messi a punto ad Atene già nel corso del iv secolo a.C.  



Note. [1] Questo uso del termine è attestato, in particolare, in Eraclito, fr. 30 e in Parmenide, fr. 4, 3 D.-K. – [2] Una recente rassegna delle sue misurazioni viene offerta in White 2008, 91 sg. – [3] Il tema delle relazioni tra la filosofia greca e il cosiddetto Oriente ha dato luogo a una vasta letteratura per lo più caratterizzata dalla propensione a

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postulare un’influenza che nessuno nega. Per un aggiornamento su questi temi, peraltro connotato da grande riluttanza a riconoscere la discontinuità fra il sapere dei Greci e il sapere di altri popoli, vd. Burkert 2008. – [4] Basti pensare alle memorabili misurazioni cui si è dedicato Talete (cfr. sez. 1.2). Esse non sono soltanto del tutto inedite dal punto di vista tipologico; sarebbero state anche impensabili in una qualunque delle altre società avanzate dell’epoca. – [5] Come è noto, sarebbe ben difficile pronunciarsi sulla questione se Esiodo colga o non colga nel segno quando afferma che dal Chaos sono derivati Tenebra e Notte e poi da Notte sono derivati Cielo e Giorno (Eraclito, per esempio, avrebbe avuto un buon argomento per raccomandare di mettere Notte e Giorno sullo stesso piano), perché Esiodo afferma senza giustificare, limitandosi a confidare di aver colto nel segno (in quanto poeta non avrebbe potuto regolarsi diversamente). Ma come funzionerebbe il divenire, il derivare evocato da Esiodo ? Quale sarebbe la dinamica della derivazione o generazione ? Esiodo ha forse qualcosa da dire al riguardo ? – Altre considerazioni degne di nota compaiono in Lanza 1979, 92-96. – [6] Egli non fa nomi ma, come è noto, i riscontri ci permettono di dare un nome certo o pressoché certo a tutti e quattro i proponenti da lui menzionati (e criticati) : si tratta di Talete, Eutimene, Anassagora e, rispettivamente, Ecateo. – [7] Sulla relazione Talete-Eraclito vd. più avanti, sez. 2.1. – [8] Mi riferisco al fr. 3 D.-K. (da un famoso passo del papiro di Derveni e da Aezio), dove si legge che il sole, per sua natura, ha la larghezza di un piede umano. Che senso avrebbe mai avuto soffermarsi su una simile banalità, se non per irridere a una scoperta accreditata come straordinaria e accolta con ammirazione ? Sull’argomento è disponibile una nutrita letteratura (si ricorderà almeno Mouraviev 2006, 6 sg.) che però, stranamente, non istituisce alcun nesso con le misurazioni effettuate da Talete. Una prima segnalazione in tal senso (in Rossetti 1998, 250 sg.) non ha infatti dato luogo, finora, a ulteriori note di commento. – [9] La sola (ma affidabile) fonte di quest’ultima informazione è costituita dal papiro ossirinchita 3710, per il quale è disponibile una pregevole edizione commentata : Mouraviev 1992, 229-242. – [10] Traduco da Panchenko 1994, 276. La vasta bibliografia sull’argomento continua a far registrare una irrisolta contrapposizione frontale tra i due schieramenti. – [11] Trad. Mouraviev. Ho ritenuto di discostarmi da quella traduzione nella sola parte congetturale, collocata tra parentesi. – [12] L’exeligmos indica una ricorsività ogni 669 lunazioni (cioè dopo circa 54 anni), mentre il saros indica una ricorsività ogni 223 lunazioni (cioè dopo circa 18 anni). Tra i sostenitori di una previ 











sione ‘secca’ si segnalano Panchenko 1994 e Zhmud 2006, 241-243. – [13] Le fonti attribuiscono a →Talete anche decine di altri spunti dottrinali attinenti alla terra, al sole alla luna, alle stelle, allo zodiaco, alla durata del mese e dell’anno e ad altro ancora. Ad esse nuoce il fatto di rimanere notizie ognuna delle quali vive di vita propria, per cui passarle in analitica rassegna sarebbe lungo, laborioso e tale da generare una sorta di smarrimento non molto produttivo. – [14] La storia della deviazione del corso di un fiume è in Erodoto, 1, 75 = 11A6 D.-K. Il tema dell’acqua-archē è documentato e discusso anzitutto da Aristotele nel primo libro della Metafisica (= 11A12 D.-K.) per poi essere variamente ripreso da altri autori. – [15] Si noti la strepitosa e quanto mai innovativa scelta di provare a pensare alla condizione della terra ponendosi dal punto di vista dell’universo, ossia del sistema di cui occuperebbe il centro. È geniale che egli sia potuto pervenire a pensare che l’idea di caduta verso il basso non si possa applicare al sistema cosmico in quanto tale. Si suole dire che in questo modo ha preso forma il principio di ragion sufficiente, ma mi pare di dovervi ravvisare anche un principio di inerzialità (solo non si dice, galileianamente, che i corpi proseguono nel loro moto se e finché non incontrano ostacoli o spinte, bensì che i corpi si muovono solo se accade che si determini una spinta univoca, altrimenti rimangono fermi. Comunque anche questa è una forma di inerzialità). – [16] Il tema del riferimento alle colonne dei templi, o almeno a un singolo rocchio non scalanato, solleva alcune interessanti curiosità. I tempi di Anassimandro hanno coinciso con il decollo dell’architettura templare in Grecia, con edifici che presentavano accentuate connotazioni geometriche, mentre non è chiaro se egli poté conoscere anche templi con colonne scanalate. Un intero gruppo di studiosi ha creduto di poter valorizzare la famosa coppa di Arcesilao, contenente la raffigurazione di una tipica colonna dorica ben scanalata, coppa che viene comunemente datata proprio in epoca prossima al 550 a.C., e ha proposto di ravvisarvi la trasposizione iconografica di questo particolare insegnamento di Anassimandro (qui basti ricordare Lasserre 1987b e Conche 1991, 38-41). In contrario si può addurre che la coppa di Arcesilao rappresenta non un rocchio ma una intera colonna, e una colonna scanalata, anziché levigata e più chiaramente cilindrica. – [17] Sul vortice in Anassimandro e, più in generale, nei Presocratici vd. Perilli 1996. Questi si interroga su possibili antecedenti di Anassimandro e conclude affermando che anche prima di lui « la nozione di vortice appare già caratterizzata da un evidente grado di astrazione » (p. 20). Tuttavia non risulta che altri abbia additato in precedenza nel vortice il principale ‘motore’ de 



cosmologia gli equilibri cosmici. – [18] Una delle nostre fonti, Ippolito (= 12A11.2 D.-K.), parla espressamente della superficie (scil. piana o grosso modo pianeggiante) su cui insistiamo noi e della antitheton, quella che sta dall’altra parte. In effetti la forma cilindrica della terra era tale, per sua natura, da aprire la porta anche all’idea di antipodi, tanto più nelle mente di chi aveva ben chiaro che la terra ‘non saprebbe da che parte cadere’. Partendo da tale premessa, infatti, era possibile rappresentarsi il ‘cadere’ dei corpi come un fenomeno che interessa chi si trova sulla superficie terrestre ma non anche la terra in quanto tale. Da qui a pensare che chi si trova sull’altro disco piano vivrà approssimativamente come noi, senza alcun rischio di precipitare ‘in giù nel vuoto’, il passo è relativamente breve. Vorremmo sapere se Anassimandro arrivò a tanto. – [19] Queste misure, offerte da molti fonti dossografiche, soffrono di un comprensibile scarto, sul quale sono state peraltro costruite congetture fin troppo arrischiate, come quando Conche 1991, 209 sg., e Hahn 2001, 217, hanno attribuito ad Anassimandro un modello di cosmo organizzato secondo strutture concentriche, di forma grosso modo cilindrica e con misure oltremodo precise, con lo spessore di ciascuna corpo astrale, e della relativa fascia cosmica, ritenuto pari a uno (così da spiegare l’alternanza di 28 e 27). In compenso la scelta di non parlare di sfere concentriche ma di anelli (o cilindri) concentrici (più fonti, riunite in 12A21-22 D.-K., sono esplicite nell’indicare il paragone con la ruota del carro) ha il merito di contrastare validamente la propensione di molti studiosi a parlare invece di sfere celesti, come se fosse accertato che Anassimandro abbia teorizzato un intero sistema di sfere concentriche e trasparenti. Osserviamo inoltre che le stime quantitative da lui accreditate, pur non essendo stravaganti, sono del tutto incontrollabili ; la stessa unità di misura rimane fatalmente molto vaga ; non si potrebbero difendere o attaccare con argomenti. Probabilmente Talete non avrebbe apprezzato. – [20] La fonte è Simplicio, in Arist. de caelo 471 (= 12A19 D.-K.). Ovviamente sarebbe vano pensar di ricavare dall’osservazione a occhio nudo una qualunque stima sulla distanza o sulle dimensioni reali dei corpi celesti. Però l’idea di arrivare ad acquisire dei dati in questo modo è quanto meno rispettabile. – [21] La tesi dell’alternanza di fasce buie e fasce luminose dovrebbe aver avuto lo scopo primario di spiegare il massiccio occultamento della grande quantità di fuoco che si presumeva occupasse la periferia del cosmo. Infatti era necessario postulare un potente fattore di nascondimento del fuoco per non andare in conflitto con un dato di osservazione primario : la presenza di innumerevoli piccole sorgenti luminose sparse nel  





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cielo. – [22] In queste poche tessere sembra doveroso ravvisare la punta di un più vasto iceberg, ossia la prima ‘storia naturale’, con inequivocabili tratti evoluzionistici, della formazione degli esseri viventi, dai mari ai cieli, e sulla loro progressiva differenziazione. – [23] Così Franco Repellini 2006, 2346. – [24] Una delle nostre fonti scrive che egli « primo fra i Greci a noi noti, ebbe il coraggio di pubblicare un discorso scritto riguardante la natura » (ejqavrrhse prw`to~ w\n i[smen ÔEllhvnwn lovgon ejxenegkei`n peri; fuvsew~ suggegrammevnon : Themist. or. 36, 317 = 12A7 D.-K., trad. G. Reale). La struttura testuale così impostata era verosimilmente idonea a fungere non solo da intelaiatura per qualcosa come una conferenza, ma anche e soprattutto da deposito ordinato di conoscenze e duttile ‘contenitore’ di un sapere in fieri : esposizione delle conoscenze che il singolo autore professava di possedere, ravvisando in esse il nocciolo della sua episteme e del suo insegnamento. Su questi temi vd. Rossetti 2006a e →Peri P hyseos. – [25] Sul fr. 100 di Empedocle è disponibile una più che ubertosa letteratura. Qui basti rinviare a Rossetti 2004a, 151-161. In sintesi : la klepsydra, utensile in bronzo pensato per travasare liquidi in piccole quantità, fa leva sul vuoto per trattenerli al suo interno. Anassimandro sembra limitarsi a suggerire che l’aria sottostante rimane ferma e compatta sotto la terra un po’ come l’acqua quando viene ‘aspirata’ attraverso questo particolare utensile. – [26] Sul possibile senso della decisione di rappresentarsi i corpi celesti « come nubi » si segnala un recente contributo di Mourelatos (2008, spec. 151-155). – [27] Si tratta della sez. iii.2 degli Heraclitea di Mouraviev 2008. I testi rilevanti figurano alle pp. 7-43 ; il commento alle pp. 139-165. – [28] Ad offrire ripetuti ed inequivocabili accenni sul modo in cui i cosmologi presocratici si spiegavano ta phainomena sono, in particolare, Aristofane nelle Nuvole (spec. ai vv. 367-411), Euripide (soprattutto nel fr. 839 N.2) ed il comico Ermippo nel fr. 73 K.-A. Per uno sguardo d’insieme vd. Perilli 1996, 79-83. – [29] Basti riferire che “This identity had been known in Babylon for many centuries, but it is unknown to Hesiod, and it is not mentioned in any Greek text before Parmenides” (Kahn 2007, 36) e che “Il merito della scoperta è attribuito dalle fonti, con un intrico di notizie in certa misura anche contraddittorie, alternativamente a Parmenide e Pitagora” (Cerri 1999, 55). – [30] La cosmologia di Parmenide è attualmente oggetto di una sostanziale riscoperta, dopo una lunga fase in cui l’attenzione degli studiosi si è polarizzata sulla sua dottrina dell’essere a discapito di ogni altro nucleo dottrinale da lui proposto in altre sezioni del poema. Per un primo orientamento vd. Rossetti 2008d, 7-20. – [31] Questa rappresentazione si sa 















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rebbe sicuramente giovata di un eventuale modellino fisico, oltretutto agevole da costruire : una semplice sfera esposta ai raggi del sole che sarebbe risultata più calda nella zona che noi chiamiamo equatoriale e più fredda (oltre che poco illuminata) nelle due aree che noi chiamiamo polari. Che Parmenide abbia potuto predisporla ? – Sul tema ‘chi ha scoperto che la terra è sferica ?’ ha pagine significative von Fritz 1988, 156-160, ma vd. anche Cerri 1999, 53 sg. – [32] In effetti le nostre fonti nulla hanno da dire sulle opinioni di Parmenide intorno al modo in cui il sole illumina la luna. Né egli risulta essersi occupato delle eclissi di sole. – [33] In questo caso la conclusione è relativamente facile da raggiungere in quanto si richiede soltanto di far mente locale alle altre stelle della zona, salvo a predisporre una eventuale rappresentazione grafica delle posizioni relative delle varie stelle contigue. – [34] Thivel 1979, 68. – [35] Si tratta di un’opinione consolidata, anche se, in verità, gli specialisti di Parmenide raramente avvertono l’esigenza di pronunciarsi su questo particolare argomento. Una esplicita affermazione della sfericità delle stephanai figura in Bollack 2006, 260 sgg. – [36] La nostra principale fonte di informazione sulle ‘corone’ è Aezio (2, 7, 1 = 28A37 D.-K.). – [37] Sui quesiti ora formulati non è dato trovare una letteratura specialistica. Se ne intuiscono le ragioni : gli studiosi di Parmenide si sono tradizionalmente concentrati sul primo logos, non sul secondo. Per una riflessione su questa consolidata tendenza della ricerca vd. la mia introduzione a Cordero 2008. – [38] Un breve promemoria : →Zenone di Elea e →Melisso di Samo figurano tra i ‘fedelissimi’ ; Empedocle di Agrigento, Anassagora di Clazomene, Leucippo di Mileto (o di Elea, o di Abdera) e Democrito di Abdera figurano tra i ‘pluralisti’ ; Protagora di Abdera e Gorgia di Leontini figurano tra i critici più severi. Sempre limitatamente agli autori di v secolo (e senza dimenticare che Democrito e Gorgia sopravvissero a Socrate), la lista continua, se non altro, con Epicarmo di Siracusa, Xeniade di Corinto, Ippia di Elide e, molto probabilmente Filolao di Crotone. Un così articolato elenco si impone all’attenzione perché nessun altro intellettuale è stato mai preso tanto sul serio nel corso del v secolo. L’attenzione per Parmenide semplicemente non ha paragoni. – [39] Graham 2006, 188-193 e 206-208 illustra molto bene le forti connessioni di Empedocle con Parmenide. Non rileva però questa particolare – e non secondaria – linea di divergenza. – [40] L’ipotesi qui avanzata, che la cosmologia di Empedocle sia vistosamente discontinua rispetto a quella di Parmenide e si richiami semmai a quella di Senofane, non è familiare alla pur nutrita letteratura critica sull’argomento. Ricordiamo alcuni contri 













buti salienti : O’Brien 1969 ; Long 1974 ; Kingsley 1995 ; Perilli 1996, 55-64 ; Santaniello 2004 ; Trépanier 2004. – [41] Per questi due punti v. Panchenko 2002a e, rispettivamente Panchenko 1997. – [42] Su Anassagora ved. Sider 2005 ; Lapini 2002 ; Curd 1998 ; Laks 1996 ; Tigner 1979 ; Schofield 1975 ; Tigner 1974 ; Sider 1973 ; Raven 1954. – [43] L’individuazione dell’anno di nascita di Democrito, a partire da testimonianze vistosamente incongruenti, ha alimentato numerosi tentativi di mettervi un po’ d’ordine. Per una dettagliata disamina delle fonti vd. Goulet 1994, 655-677. A me sembra chiarificante la prossimità di alcune sue teorie con quelle di Diogene di Apollonia in quanto, a meno di pensare che sia stato Democrito a riprendere idee dell’apolloniate (eventualità mai seriamente presa in considerazione), dobbiamo necessariamente supporre che almeno la cosmologia di Democrito sia nettamente anteriore all’epoca delle Nuvole di Aristofane. Di conseguenza, o egli fu precocissimo (nel qual caso potrebbe anche aver avuto quarant’anni meno di Anassagora ed essere quindi nato intorno al 460) oppure fu all’incirca contemporaneo di Socrate. – [44] Particolarmente esplicita, in questo senso, è la sintesi del pensiero di Leucippo che ci è stata preservata da Diogene Laerzio (il passo pertinente figura in 9, 31). – [45] Su questi temi si segnalano Leszl 2007 ; Graham 2006 ; Leszl 2002 ; Taylor 1999 ; Sedley 1981. – [46] La monografia fondamentale su Diogene di Apollonia è Laks 2008a, di cui interessano in particolare le pp. 189-216. Inoltre Laks 2008b, Palmer 2001. Ricordiamo anche le storiche monografie di Cappelletti (1975) e Zafiropoulo (1956). – [47] Tra le idee entrate in circolo grazie a Filolao e, in seguito, universalmente accettate figurano l’identificazione dei cinque astri errabondi che verranno ben presto associati ciascuno a particolari divinità olimpiche, con nomi che vengono universalmente adottati anche ai nostri giorni. Sapendo che la sfera delle stelle fisse fu da Filolao denominata Olimpo, non possiamo escludere l’eventualità che egli possa aver avuto un ruolo anche nell’istituire i cinque apparentamenti fra figure mitologiche e astri ‘errabondi’. – [48] Su Filolao è tuttora fondamentale Huffman 1993. Inoltre Burkert 1962 ; Furley 1989 ; Kingsley 1995 ; Zhmud 1998 ; Kahn 2001 ; Huffman 2007. – [49] Non si ha notizia di studi dedicati a questo particolare passo dei Memorabili, se si eccettua Viano 2001. – [50] Che questa rappresentazione del cielo abbia una inequivocabile componente fantastica è opportunamente ricordato da Franco Repellini 2007, 379, che con l’occasione segnala inoltre : “Con la comparsa del fuso e dei suoi fusaioli la sfericità del cosmo viene lasciata cadere da Platone” (ma vd. anche ibid., 380, 382 sg.). L’obiettivo  















































cosmologia qui perseguito non è rendere conto di un sapere, ma solo delineare un’immagine che possa colpire la fantasia ; pertanto non deve sorprendere che i fattori di inverosimiglianza della storia – es. il silenzio sull’obliquità dell’eclittica e sulla cosiddetta retrogradazione di Venere e Mercurio (Franco Repellini 2007, 389) – siano molteplici. Per altri aspetti vd. MacLachlan 1991. – [51] Campese 2007, 408 sg. ravvisa una ulteriore connessione tra i due autori nell’enfasi di entrambi sui desmoi, ma i ‘vincoli’ di cui parla Parmenide riguardano l’essere, mentre Platone sembra parlare di cosmiche gomene che garantiscono un appropriato raccordo tra fuso e fusaioli. – [52] Il passo platonico, organicamente inserito nel mito di Er, è stato molto studiato. Ricordo Schuhl 1930, Morrison 1955, Couvreur 1985, Knorr 1990, Schils 1993 e, più recentemente, i contributi accolti in Vegetti 2007. – [53] Uno dei sette movimenti è, con ogni evidenza, quello circolare, ed è significativamente presentato come qualcosa di più perfetto al confronto con gli altri (si tratta di un’idea recepita appieno da Aristotele). Quanto agli altri sei moti, provvede un altro passo del medesimo dialogo (Ti. 43b) a farci sapere che si tratta dei movimenti « in avanti e indietro, a destra e a sinistra, in basso e in alto » [vd. anche →fisica, 2]. Si noti che la teoria dei sei movimenti, anch’essa condivisa da Aristotele, ha avuto lo straordinario pregio di inaugurare la scomposizione (l’analisi) di qualunque movimento complesso in base a quelli che, per noi, sono gli assi cartesiani. – [54] Zhmud 2006, 82-116. – [55] Sul Timeo e sulla c. platonica è ovviamente disponibile una vastissima letteratura. Qui si ricorderanno Vlastos 1995 ; Lloyd 1991 ; Brisson 1974 ; Cornford 1937; MacLachlan 1991. – [56] Per un profilo vd. Schneider 2005, 295-297, MacLachlan 1991. – [57] La tentazione di rappresentarsi queste indagini come fondamentalmente ingenue invita a ricordare che l’astronomia tuttora vigente ha mantenuto elementi importanti di questa impostazione, ad es. distinguendo i vari moti della terra e della luna, cioè scomponendo un moto complesso in una serie di moti più semplici e dando un nome a ciascuno (rotazione, rivoluzione, traslazione etc.). – [58] Su Eudosso Lasserre 1966 è ancora un punto di partenza obbligato. Inoltre Mendell 1998 ; Aujac 1993 ; Huxley 1963. – [59] Su Callippo vd. Mendell 1998 ; Segonds 1994a ; Van der Wawerden 1983-84 e 1960. – [60] Si intenda : lungo la verticale alto-basso, senza tener conto degli spostamenti in orizzontale. – [61] Sull’Epinomis è tuttora fondamentale Tarán 1975 ; inoltre Kraemer 1983, 103-120. Accenniamo appena alla nutrita letteratura sulla cosiddetta religione astrale che prese nuovo vigore e una più precisa configurazione verso la fine dell’età di Platone e che è documen 























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tata in particolar modo dall’Epinomis, dialogo accolto nel Corpus Platonicum ma dovuto al suo allievo Filippo di Opunte. In proposito basti qui ricordare Barton 1994b e Berti 2002, non senza osservare che la religione astrale trova un precedente non troppo vago nell’insegnamento del pitagorico →Filolao. – [62] Sul De caelo Dollo 1992 ; Bos 1991 ; Seek 1964 ; Solmsen 1960. – [63] Archim. Aren. 201 Heiberg. Su Aristarco vd. Neugebauer 1975 ; Noack 1992 ; Bowen-Goldstein 1994 ; Panchenko 2001 ; Berggren-Sidoli 2007 ; Mendell 2008. – [64] Un trentesimo di 90°, cioè 3°. Il dato astronomico reale è sensibilmente diverso : circa mezzo grado. Una competente discussione di questo punto figura in Panchenko 2001. – [65] Plu. De fac. orb. lum. 6, 923A (= fr. 500 SVF), trad. Radice con modifiche; questo dato deriva dall’esegesi, divenuta ormai ‘canonica’ del testo di Plutarco: diversamente intendono RussoMedaglia 1996, sulla base della difesa del testo tràdito. – [66] Per la bibliografia sull’astronomia greca si rinvia alla voce →astronomia di questo stesso Dizionario. – [67] Aujac 1979, 50.  

















Bibliografia. Algra 1999 ; Aujac 1979 ; Aujac 1993 ; Barton 1994b ; Beloch 1924 ; BerggrenSidoli 2007 ; Bernal 1967 ; Berti 2002 ; Bodnar 2004 ; Bos 1991 ; Bowen- Goldstein 1994 ; Brisson 1974 ; Brisson 1990 ; Burkert 1962 ; Burkert 2003a ; Burkert 2008 ; Buxton 1999 ; Cambiano 1991 ; Campese 2007 ; Capizzi 1978 ; Cappelletti 1975 ; Cerri 1998 ; Cerri 1999 ; Conche 1991 ; Cordero et alii 2008 ; Cornford 1952 ; Couloubaritsis 1986 ; Couvreur 1985 ; Curd 1998 ; Detienne 1967 ; Dollo 1992 ; Dreyer 1970 ; Evans 1998 ; Finkelberg 1986 ; Franco Repellini 1980 ; Franco Repellini 1993 ; Franco Repellini 2006 ; von Fritz 1971 ; von Fritz 1988 ; Furley 1989 ; Gemelli Marciano 2007 ; Graham 2006 ; Greene 1992 ; Hahn 2001 ; Hahn 2003 ; Havelock 1996 ; Huffman 1993 ; Huffman 2007 ; Huxley 1963 ; Jürss 1982 ; Kahn 1960 ; Kahn 2007 ; Kingsley 1995 ; Knorr 1990 ; Kraemer 1993 ; Laks 1996 ; Laks 2008a ; Laks 2008b ; Lanza 1979 ; Lasserre 1966 ; Lasserre 1987b ; Lerner 2000 ; Leszl 1985 ; Leszl 2002 ; Lloyd 1975 ; Lloyd 1979 ; Lloyd 1987 ; Lloyd 1991 ; Long 1974 ; MacLachlan 1991 ; MansfeldRunia 1997-2008 ; Marcacci 2004a ; Mendell 1998 ; Mouraviev 1992 ; Mouraviev 1999-2008 ; Mouraviev 2008 ; Mourelatos 2002 ; Mourelatos 2008a ; Mourelatos 2008b ; Naddaf 2005 ; Nestle 1940 ; Neugebauer 1974 ; Noack 1992 ; O’brien 1969 ; Palmer 2001 ; Panchenko 1993 ; Panchenko 1993 ; Panchenko 1997 ; Panchenko 2001 ; Panchenko 2002a ; Perilli 1996 ; Popper 1999 ; Raven 1954 ; Rossetti 1998 ; Rossetti 2004a ; Rossetti 2006a ; Rossetti 2008d ; RussoMedaglia 1996 ; Sambursky 1956 ; Sambursky  





































































































































































































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costruzione

1962 ; Santaniello 2004 ; Sassi 1980 ; Scarcella 1979 ; Schils 1993 ; Schneider 2005 ; Seek 1964 ; Segonds 1994a ; Sider 2005 ; Solmsen 1960 ; Taylor 1999 ; Tigner 1974 ; Tigner 1979 ; Trèpanier 2004 ; Van der Waerden 1983-84 ; Van der Waerden 1988 ; Viano 2001 ; Vlastos 1975 ; West 1971a ; West 1997 ; White 2008 ; Zafiropoulo 1956 ; Zhmud 2001b ; Zhmud 2006.  













































Livio Rossetti Costruzione (sistemi e tecniche). 1. Sistemi costruttivi. – Tra i sistemi costruttivi dell’architettura antica, particolarmente innovativi si rivelano l’arco (denominato, in base alla forma della curva di intradosso, ‘a pieno centro’, ‘a tutto sesto’, ‘a sesto voltato’, ‘a sesto ribassato’, ‘a sesto eccedente’, ‘a sesto acuto’ od ‘ogivale’, etc.) e la volta (‘a botte’, ‘sghemba’, ‘ascendente’). Si tratta di strutture curve realizzate in pietra da taglio, o in materiali disgregati tenuti insieme da malta, o in laterizi, oppure, infine, in materiali misti, che consentono realizzazioni architettoniche ardite ed eleganti. Entrambi i sistemi costruttivi, infatti, permettono di superare grandi spazi con snellezza e con incomparabile grandiosità architettonica. La differenza tra i due sistemi è che l’arco costituisce un elemento di una parete discontinua e traforata, mentre la volta si estende a ricoprire un ambiente. Entrambi sono utilizzati in Oriente : gli esempi più antichi risalgono all’Egitto del iv millennio a.C., e vi sono attestazioni di archi e volte sia nelle civiltà mesopotamiche, sia in Persia, Siria e India, dove erano apprezzati per le loro caratteristiche. Nell’architettura greca sono dapprima impiegati soltanto per esigenze tecniche di carattere particolare, oppure in parti dell’opera di secondaria importanza. Solo dopo il iii sec. a.C. l’arco e la volta iniziano ad essere utilizzati regolarmente, insieme alla semicupola e alla campata, come strutture ‘spingenti’, sottoposte cioè a forze in direzione orizzontale. Archi e volte sono infatti documentati per l’età ellenistica in alcune porte urbiche [→infrastrutture e servizi], nell’edilizia teatrale (porte d’ingresso, passaggi sotterranei, scale di accesso e corridoi dei teatri) [→architettura teatrale], e funeraria (tombe macedoni di iv e iii sec.) [→architettura funeraria]. Nel mondo occidentale l’arco e la volta sono noti agli Etruschi, che li trasmisero ai Romani.  

Questi ultimi fecero dell’arco e della volta gli elementi caratterizzanti la loro originalità costruttiva. Sotto l’influenza edilizia etrusca, l’architettura romana perfezionò la tecnica della volta e dell’arco, creando sia l’arco a tutto sesto che quello ribassato. L’incremento dell’arco e della volta nella tecnica costruttiva romana fu certamente condizionato da due novità essenziali : l’adozione del cemento come materia legante, che conferiva una nuova, maggiore compattezza al complesso edilizio, e la graduale adozione del mattone al posto di elementi misti. Strutture ad arco si possono rinvenire in tutti i maggiori monumenti della Roma repubblicana e imperiale e nelle province (teatro di Marcello, anfiteatro di Verona, ponte di Narni, ponte di Augusto a Rimini, Colosseo, arco di Druso). In alcuni esempi architettonici l’arco è direttamente impostato sulla colonna (Casa di Meleagro a Pompei, Foro di Leptis Magna, palazzo di Diocleziano a Spalato), preludendo al tipo adottato nelle basiliche cristiane e nelle chiese bizantine. Talvolta sono utilizzati archi di scarico per concentrare azioni in punti determinati, come è possibile rilevare nella Porta Maggiore, nel Foro di Traiano e nel Pantheon a Roma. Sono utilizzati archi anche negli interni con funzione di alleggerimento, come nel tempio di Tiberio, nel Pantheon, nella chiesa di S. Costanza. Nelle terme di Diocleziano e nella basilica di Massenzio viene utilizzato l’arco rampante, che è in sostanza la riduzione alla sagoma esterna di un contrafforte inclinato. Esempi di coperture a volta, invece, si possono rintracciare nel vestibolo della Piazza d’Oro della Villa Adriana, in una sala della Domus Aurea, nella Domus Augustana sul Palatino, nonché in diverse abitazioni di Pompei e Napoli. 2. Tecniche costruttive. – A partire dall’età ellenistica, le tecniche costruttive si evolvono grazie all’invenzione di materiali nuovi (cocciopesto e pozzolana [→materiali edili]) che rivoluzionano il metodo di realizzazione dell’opus, cioè delle opere murarie relative ai monumenti dell’architettura romana. Sia il cocciopesto che la pozzolana, infatti, consentono di realizzare un nuovo tipo di muro composto da due strati, alti circa un metro e mezzo di altezza alla volta, di pietre di piccole dimensioni o di tufo vulcanico, al cui interno si dispone un conglomerato di pozzolana, pietre o laterizi (opus coementicium), nel modo ir 

crateva regolare che Vitruvio definisce opus incertum, o antiquum. [1] Alla fine dell’età repubblicana i tracciati reticolari dei lati esterni tendono a regolarizzarsi, dando origine prima all’opus quasi reticulatum e poi all’opus reticulatum. Una tecnica del tutto diversa è l’opus latericium, cioè la muratura fatta interamente di mattoni essiccati all’aria (lateres crudi). Quest’ultimo metodo costruttivo è di origine antichissima e ampiamente diffuso in tutto il Mediterraneo. Nel mondo classico viene utilizzato fino al i sec. d.C. nell’edilizia civile e nell’architettura militare. [2] Tipico dell’architettura romana è l’opus craticium, consistente nella realizzazione di graticci di legno a orditura regolare con riempimento in malta e altri materiali leggeri, per la realizzazione delle costruzioni lignee. Fin dall’età ellenistica si realizzano in cantiere i primi prefabbricati di blocchetti di pietra o tufo che costituiranno il nucleo murario in calcestruzzo, da ricoprire con intonaco, stucco o altri rivestimenti per proteggerlo dagli agenti atmosferici. Vitruvio consiglia di costruire i muri con reticolato irregolare perché esso impedisce il formarsi di fratture sulla superficie del muro. Per opere di minore importanza si adotta la tecnica usata nella Grecia classica detta e[mplekton, consistente nel riempire con malte cementizie lo spazio tra i due lati. L’architetto romano preferisce senz’altro a questa tecnica, che può lasciare le tre parti del muro non perfettamente saldate tra loro, il metodo greco di costruire muri in pietra sovrapposta alternata in lunghezza (orthostatae) e profondità (diatoni) in modo sfalsato. 3. Lavorazione a mosaico. – Prende il nome, probabilmente dal gr. mou`sa e appare per la prima volta nella letteratura latina negli Scriptores Historiae Augustae. L’agg. musivum appare solo in Agostino (civ. 16, 8, 1) e si limita a riferirsi alla decorazione di pareti e volte. È questa una tecnica decorativa adoperata su una superficie architettonica liscia (pavimento, parete, soffitto), consistente nel giustapporre e fissare su uno strato di intonaco pezzetti di pietre, vetro, terracotta singoli (yh`foi, ajbavkia, ajbakivskoi, tesserae, tesserulae, tessellae) o raggruppati a pannelli (crustae), a formare rappresentazioni figurate o geometriche. Note. [1] 2, 8 e passim. Altre notizie relative all’opus in Plin. nat. 36, 171. – [2] Vitr. 2, 8. Cfr. Calcaprina 1933.

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Bibliografia. Adam s.d. ; Adam 1996 ; Bettini 1978 ; Breymann 1927 ; Calcaprina 1933 ; Cooper 2008 ; Crema 1959 ; Franchetti Pardo 2006 ; Fyfe 1965 ; Giovannoni 1925 ; Lancaster 2008 ; Lauther 1999 ; Lugli 1957 ; MacDonald 1965 ; Marinucci 1988 ; Marta 1990 ; Pascolini 1985 ; Picard 1965 ; Rivoitra 1921.  



































Shara Pirrotti Crateva. 1. Vita e opere. – Soprannominato rhizotómos fu farmacologo e botanico del ii/i a.C. alla corte di Mitridate vi Eupatore, re del Ponto, dal cui nome egli chiamò una pianta mithridatia (Plin. nat. 25, 62; cfr. Plin. nat. 127; Ps. Apul. herb. 66, 12), forse una liliacea, l’Erythronium dens canis (secondo la classificazione di Linneo). È autore di almeno due opere fondamentali sui ‘semplici’, principalmente vegetali e minerali, di cui abbiamo alcuni frammenti (gran parte dei quali raccolti nell’edizione di Dioscoride del Wellmann) :[1] un erbario, dal titolo non conservato, dotato di riproduzioni colorate di piante, accompagnate da descrizioni e istruzioni specifiche per l’impiego medicinale (Plin. nat. 25, 4, 8) forse coincidente con il rJizotomikovn (cfr. scholia a Nic. Ther. 681a), opera di →farmacologia, che tratta delle applicazioni medicinali delle radici e delle piante (distinte per varietà e nomi) nonché delle tecniche di preparazione; un’opera in tre libri (Crateuas dicit in tertio libro) è menzionata nel trattato di Ps. Galeno, De uirtute centaureae c. 2 de speciebus centaureae et notificatione garum. Dell’erbario fa anche parte una sezione periv metallikw`n farmavkwn kai; ajrwmavtwn. 2. Fortuna. – I suoi trattati sono ben noti a →Sestio Nigro e →Dioscoride ; quest’ultimo ricava alcuni dati del suo De Materia medica da Crateva e allude spesso a lui citandolo. Forse alcuni dei disegni del « manoscritto di Giuliana Anicia » (Vindobon. med. gr. i), [2] che restituisce anche frammenti del perduto erbario di C., si basano sulle sue riproduzioni, anche se oggi si crede che queste ultime non rappresentino il loro modello diretto [3] è citato spesso da Galeno. Le opere di C. costituirono un modello per la trattazione della materia botanica (ordine alfabetico, denominazione del ‘semplice’, sua descrizione e effetti medicinali, vd. Mazzini 1997, 33-34) ed esercitarono un forte influsso su tutta la medicina e la farmacologia posteriore.  









Note. [1] Wellmann 1906-14, 3, 139 sg. – [2] Con-

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critodemo

servato nella Nationalbibliothek di Vienna. Tali miniature sono datate al 512 d.C. per la dedica ad Anicia Giuliana, ma probabilmente risalgono a modelli più antichi. – [3] Riddle 1985, 190-191.

Rochberg 2008, s.v. Kritodēmos, 493 ; Schnabel 1923, 118-120 ; Urso 2002, 114-115.

Bibliografia. Cazzaniga 1964 ; Mazzini 1997 ; Riddle 1985 ; Scarborough 2003 ; Stannard 1966 ; Touwaide 1967 ; Touwaide 2000a ; Wellmann 1897 ; Wellmann 1898b ; Wellmann 19061914.

Ctesibio [iii sec. a.C.]. 1. Dati biografici. – Le notizie sulla vita di C. sono assai scarse ; il suo nome è spesso associato a quello di →Erone e di →Filone di Bisanzio, soprattutto per l’identità di oggetto della loro speculazione. Secondo le fonti visse e operò ad Alessandria, sotto il regno di Tolomeo ii Filadelfo (283-247 a.C.). [1] C., secondo la tradizione di origine modesta, era dotato di uno spirito concreto e ricco di creatività. [2] Il contributo che apportò alla scienza ellenistica non fu tanto di natura teorica, quanto pratica ; riconosciuto come inventore eccezionale, gli si attribuisce la paternità di invenzioni a lungo rimaste insuperate, e non è da scartare l’ipotesi che alcune delle macchine descritte da Filone ed Erone risalgano a lui. È ricordato come il primo ad aver impiegato, per la creazione di congegni complessi, conoscenze di →pneumatica e meccanismi azionati dalla pressione dell’aria ; in particolare, attraverso lo studio degli effetti dell’aria compressa sull’acqua, C. sarebbe giunto a fabbricare strumenti musicali e macchine per sollevare l’acqua. [3] 2. Opere e dottrina. – Nessuna opera di C. è conservata, ma è possibile ricostruire il contenuto di alcune parti della sua produzione grazie alla descrizione che Filone, Vitruvio ed Erone fanno del funzionamento di congegni come la pompa a stantuffo con valvola, [4] l’argano ad acqua, [5] un orologio ad acqua che calcolava l’orario con una certa precisione, [6] una catapulta da guerra. [7]



















Daria Crismani Critodemo. Astrologo di incerta datazione oscillante dal i sec. a C. al i-ii d.C.[1] fu allievo di Berosso ed ebbe diretto accesso alle fonti Babilonesi. [2] Apprezzato anche nel mondo orientale dove era considerato un’autorità, è, assieme a Berosso ed Epigene, il fondatore in Occidente di un sistema organico di previsioni basato sull’osservazione astronomica. Nell’opera intitolata Visione, C. esponeva una teoria secondo la quale la vita umana si articola in tanti momenti di passaggio da un’età all’altra che si realizzano ad intervalli di sette anni ; a ciascuno di questi momenti, caratterizzati da variazioni biologiche, diede il nome di ‘scalino’ (klimathvr). Critodemo considerava, infatti, l’esistenza umana come un’ascesa, dal basso dell’incosciente infanzia fino al culmine della saggia vecchiaia. Dell’opera sono pervenuti un parziale sommario [3] e un frammento in cui sono esposte le previsioni dei territori (o{ria), [4] ma il fenomeno della riscrittura che caratterizza la letteratura astrologica ci fornisce informazioni attraverso le rielaborazioni di vari autori successivi che lo citano e ad esso si rifanno. È attribuita a Critodemo anche la teoria degli antiscia (ajntiskiva = «ombra»). Secondo tale teoria, ogni segno dello Zodiaco, oltre alla posizione ’reale’, ha una sorta di posizione ‘alternativa’ o ‘riflessa’, nella misura in cui, rispetto all’asse Cancro/Capricorno, ogni segno si riflette sempre in un altro segno. Tale scoperta ha determinato l’accrescimento delle possibili relazioni tra i segni, con l’aggiunta di un’altra serie di combinazioni, quella dei segni ‘che si guardano’ (blevponta).  





Note. [1] Gundel-Gundel 1966, 106-107 ; Hübner 1999 ; Rochberg 2008b, s.v. Kritodēmos, in eans 493. – [2] Plin. nat. 7, 193. – [3] Ed. P. Boudreaux, ccag viii 3, 102. – [4] Ed. F. Cumont, ccag viii 1, 257-261.





Carmelo Lupini





















Note. [1] Vd. Ath. 4, 174b-c ; Diod. Sic. 3, 42 ; Vitr. 9, 8 ; 10, 7 ; Plin. nat. 7, 125. – [2] Vd. Fleury 1994a, 67-77. – [3] Vd. Drachmann 1948, 4-7 ; Gille 1980, 86-90. – [4] Vd. Vitr. 10, 7, 4 ; Her. Pneum. 1, 28. – [5] Vd. Vitr. 10, 8. – [6] Vd. Vitr. 9, 8, 4. – [7] Vd. Ph. Bel. 43.  











Bibliografia. Drachmann 1948 ; Fleury 1994a ; Gille 1980.  



Livia Radici





Bibliografia. Gundel-Gundel 1966, 106 sg. ;  

Cuore. 1. Anatomia. – Nelle testimonianze più antiche della letteratura greca[1] il cuore non è visto come un organo puramente fisiologico, ma anche come sede della percezione del pensiero e dell’anima. Una concezione che si

cuore ritrova anche in scritti di medicina scientifica più tarda. →Empedocle, ad esempio, ritiene il cuore organo fondamentale e primario, come sede della ‘forza vitale’. [2] Le conoscenze dello stesso Corpus Hippocraticum sono piuttosto scarse (tranne che nel De corde) : sono note una membrana che riveste il cuore, le orecchiette ; l’organo è solido e compatto e pieno di calore. Le conoscenze divengono più ampie e approfondite dal iv sec. a.C. in poi. La descrizione più articolata è quella di →Aristotele. [3] Sussiste, nel corpo umano, una sorta di coordinamento ; il cuore accentra su di sé, come organo principale, « un ruolo fondamentale di questo comando » : al cuore è attribuita la sede del principio di vita, del sentimento e – ciò che è importante – anche del pensiero. [4] Aristotele identifica per la prima volta tre camere cardiache, il cui compito è quello di produrre il sangue fresco che lo scienziato ritiene essere fondamento sia dei vasi sanguigni che del sangue. [5] Più precise ancora sono le conoscenze in età ellenistica : del cuore si conoscono vene, arterie e ventricoli, anche se non c’è consenso sul numero ; valvole cardiache (già in Aristotele ed Erasistrato) ; il pericardio, la forma a piramide ; l’organo è un grande muscolo ; le camere sono due, [6] in seguito, tuttavia, i ventricoli sono quattro ; il cuore differisce dai muscoli per colore e consistenza ; le valvole sono di tipo e forma varia (semilunari, tricuspidali) ; il cuore è principio delle arterie, non delle vene. Erasistrato conosce, pare, la funzione di pompa delle valvole cardiache. [7] Nella medicina romana, Celso non ne tratta nella sua opera. Ne tratta ampiamente, invece, riprendendo dottrine alessandrine, →Rufo [8] : « il cuore è principio del calore, della vita e del polso ». Rufo sa che il ventricolo destro, più sottile, è ‘venoso’ e ha capacità più grande di quello ‘arterioso’ ; conosce anche il “pericardio”. →Galeno compone sul cuore due trattati [9] e descrive il cuore non come muscolo ma come un organo costituito di tessuti simili ai muscoli, con quattro camere. Due camere sono gli ‘atri’ e servono a pompare i materiali trasportati nei vasi del cuore e poi di qui a pomparlo di nuovo fuori. [10] Lo scienziato di Pergamo descrive in modo analogo a Erasistrato la funzione delle valvole cardiache [11] e le modalità di funzionamento del cuore. [12] La circolazione sanguigna attraverso il cuore non è molto conosciuta. Scarse sono le cognizioni dei medici antichi sulle malattie del  





























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cuore, fino allo stesso Galeno. Sintomi come kardiōgmos o kardialgia possono significare, nel Corpus Hippocraticum, « dolore alla bocca dello stomaco » (lo stomaco è definito in greco spesso kardia). [13] Spesso malattie dello spirito sono ritenute malattie del cuore. [14]  







Note. [1] Hom. Il. 5, 250 ; 10, 94 . – [2] D.-K. 31 A 84. – [3] HA 1, 17, 496 a 4-19. – [4] Somn. Vig. 2, 455 b 34 – 456 a 24 ; PA 2, 1, 647 a 24-31 . – [5] PA 2, 1, 647 b 4-7 ; 3, 4, 665 b 14-16. – [6] Hp. Cord. / 9, 76-92 L. – [7] Erasistr. fr. 201 Garofalo. – [8] Appell. 160-165/ 155-156 D R. – [9] Us. part. 6 / 3, 409-515 K.; Anat. admin. 7 / 2, 589-650 K. – [10] Us. part. 6, 15 / 3, 480487 K. – [11] Anat. admin. 7, 9 / 2, 615-618 K. – [12] Us. part. 6, 14 / 3, 476-480 K. – [13] Cfr. Epid. 4, 16 / 5, 154 L ; Mul. 2, 116 / 8, 250 sg. L. – [14] Hp., Epid. 6, 5, 5/ 5, 316 L ; Anon. Paris. 1, 1, 2 sg. ; 18, 1, 1.  











Fonti. Hom. Il. 5, 250 ; 10, 94 ; D.-K. 31 A 84 ; Hp., Epid. 4, 16 / 5, 154 L ; 6, 5, 5/ 5, 316 L ; Mul. 2, 116 / 8, 250s. L ; Cord. / 9, 76-92 L ; Arist. HA 1, 17, 496 a 4-19 ; Somn. Vig. 2, 455 b 34 – 456 a 24 ; pa 2, 1, 647 a 24-31; PA 2, 1, 647 b 4-7 ; 3, 4. 665 b 14-16 ; Erasistr. fr. 201 Garofalo ; Ruf. appell. 160-165/ 155-156 DR ; Anon. Paris. 1, 1, 2 sg. ; 18, 1, 1; Anat. admin. 7 / 2, 589-650 K ; 7, 9 / 2, 615-618 K ; Us. part. 6, 14 / 3, 476480 K. Us. part. 6, 15 / 3, 480-487 K.  























Bibliografia. Duminil 1983 ; Harris 1973 ; Mazzini 1997, 219-221.  











Sergio Sconocchia

















2. Fisiologia. – Per quanto riguarda il cuore il Corpus Hippocraticum ci riporta che è la sede dell’intelligenza e delle emozioni, produce il sangue ed è centro e fonte del calore naturale alimentato dall’aria distribuendolo al resto del corpo. [1] Anche in questo caso sono i medici ellenistico-romani e specialmente Galeno a perfezionarne il meccanismo fisiologico : il cuore rappresenta il principio di tutta la vita sede delle anime vitale, irascibile e patibile ; attraverso il polmone attira a sé l’aria/pneuma e fornisce il movimento alle arterie. Il movimento del cuore, alimentato dalla vena cava e dal sangue, è involontario. [2]  







Note. – [1] Hp. Morb. Sacr. 18 / 6, 394-396 L ; Hp. Morb. 4, 33 / 7, 542-544 L ; Hp. Carn. 6 / 8, 592-594 L. – [2] Gal. Plac. Hp. et Plat. 6, 3 / 5, 525 K. Gal. Meth. med. 9, 10 / 10, 635-636 K.  



Fonti. Morb. sacr. 18 / 6, 392-393 L ; Hp. Genit. 1 / 7, 470 L ; Morb. 4, 33 / 7, 544 L ; Anat. 1 / 8, 538 L; Carn. 6 / 8, 592-594 L ; Oss. 4 / 9, 170 L. Ep. 23/ 9, 396 L. Gland. 6 / 8, 560 L. Aër. 9 / 2, 41-42 L ; Ps. Ruf. Anat.  









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cuore

51-52 / 181 D R ; Aret. 4, 3, 6 ; Gal. Anat. admin. 6, 13 / 2, 580 K ; Us. part. 4, 6 / 3, 273 K ; Us. part. 5, 6 / 3, 367 K ; 6, 10 / 3, 448-449 K ; Plac. Hp. et Plat. 6, 3 / 5, 525 K ; 6, 8 / 5, 573 K ; 8, 9 / 5, 713 K ; Gal. Meth. med. 9, 10 / 10, 635-636 K.  

















Bibliografia. Bleker 1975 ; Duminil 1983 ; Kölbing 1967 ; Marcovecchio 1993, 738, 899 ; Mazzini 1997, 277-279 ; Scarborough 1976b.  









Fabio Cavalli 3. Patologia. – A differenza della dottrina del Corpus Hippocraticum, che non individua nel cuore malattie specifiche, la medicina di età ellenistico-romana parla di paralisi, sincope, palpitazione etc. La cardialgia (kardiwgmov~ o kardialgiva oppure kardiakh; diavqesi~, cardiaca passio), indicata appunto nel Corpus Hippocraticum come kardiwgmov~ o kardialgiva, si manifesta in genere con ‘dolori alla bocca dello stomaco’, denominato in greco spesso kardiva. [1] Concezione analoga troviamo appunto in Galeno. [2] Consiste appunto nell’occlusione o nel rilassamento di esofago e kardiva, debolezza generale del corpo, eccesso di essudorazione del torace, pulsazioni deboli, respiro affannoso. Galeno cita l’infiammazione del cuore o anomalia del polso, causate da una cattiva kra`si~, cioè «mescolanza» di umori, o tumori della cavità del cuore, che egli aveva avuto modo di vedere in dissezioni di animali. [3] La malattia veniva messa in relazione anche con eccessi alimentari, occlusione di vene etc. ; la cura consiste per lo più nella somministrazione di cibi facilmente assimilabili.  







Note. [1] Hp. Epid. 4, 16 / 5, 154 L ; Mul. 2, 116 / 8, 250 sg. L. – [2] In Hp. Aph. comm. 17 /17, 2, 677 K. – [3] Gal. Loc. aff. 5, 2 /8, 302 K.  

Fonti. Aret. 21-23 H ; Gal. Ars med. 10-11 / 1, 331-337 K ; 355 K ; Us. part. 6, 8 / 3, 437-439 K ; Resp. us. 5 / 4, 508 K ; Loc. aff. 5, 2 / 8, 303 K ; In Hp. Hum. comm. 3, 13 / 16, 396 K ; Orib. Syn. 9, 6 e 9, 7 / 5, 473 B D M. Per la cardialgia : Hp. Epid. 4, 16 / 5, 154 L ; Mul. 2, 116 / 8, 250s. L ; Cels. 3, 18, 19 / 127-128 M ; Aret. 126-130 H ; Soran.-Cael. Aur. gyn. 2, 14-17 / 240-288 B ; Gal. Loc. aff. 5, 2 /8, 302 K ; Ps. Gal. Intro. 13 / 14, 735 K ; In Hp. Aph. comm. 17 /17, 2, 677 K.  





























4. Terapeutica. – Come si è già accennato, la gamma delle patologie cardiache diviene più ampia in età ellenistica : paralisi, sincope, palpitazione etc. Trattazioni terapeutiche sistematiche e specifiche non sono, per la verità, molto frequenti. Tra gli scritti del Corpus Hippocraticum ci è giunto il trattato De corde ; [1] qui si prenderanno in esame soprattutto opere della medicina di età imperiale romana. Non molto frequenti sono i cenni relativi al cuore in Celso, [2] comunque non contenenti indicazioni terapeutiche. In Scribonio Largo cor è nominato soltanto in relazione a indicazioni su sostanze velenose, [3] a proposito dell’aconitum, che mordet autem stomachum et ipsum cor adficit ; segue l’indicazione del relativo contravveleno. Cardiacus non è attestato né in Celso né in Scribonio. Cenni ad affezioni legate al cuore sono invece abbastanza frequenti, come nel caso della paralisi ; paralisi e antidoti sono attestati sia in Celso[4] che in Scribonio Largo. [5] Cenni a disturbi e trattamenti per il cuore si ritrovano passim in Galeno, soprattutto in Comp. med. sec. loc. libri vi e Comp. med. sec. gen. Libri vii. [6]  











Note. [1] Hp. Cord. / 9, 76-93 L. – [2] In Cels. 4, 1, 4 / 147 M si accenna al cuore in connessione al polmone ; in 5, 26, 2 / 215-216 M, e poi 8 e 13 / 217 M si trovano altri cenni. – [3] In questo caso a c. 188. – [4] Vd. med. 2, 1, 12 / 48 M, resolutio neruorum (paralysin Graeci nominant) ; il passo più interessante è 3, 27, 1 A / 141-142 M, in cui Celso riporta, in lettere greche, l’antica denominazione di ‘paralisi’, appunto apoplexía. – [5] Si vedano vari antidoti, ma soprattutto la celebre antidotos hiera Paccii Antiochi (descrizione a c. 101, cenno a c. 156, in cui è citato anche un acopo). [6] Rispettivamente 12, 378-1007 K e 13, 362-1058 K.  



Fonti. Hp. Cord. / 9, 76-93 L ; Cels. med. 2, 1, 12 / 48 M ; 3, 27, 1 A / 141-142 M ; 4, 1, 4 / 147 M ; 5, 26, 2 / 215-216 M, e 8 e 13 / 217 M ; Scrib. Larg. 101 ; 156 ; 188 ; Gal. Comp. med. sec. loc. libri vi / 12, 378-1007 K ; Comp. med. sec. gen. Libri vii / 13, 362-1058 K.  





















   

Bibliografia. Duminil 1998 ; Harris 1973 ; Siegel 1968 ; von Staden 1989, 169-172 ; 260-268.  



Bibliografia. Harris 1973 ; Mazzini 1997, 347 ; Siegel 1968 ; von Staden 1989, 169-172 ; 260-268 ; 342 ; Stamatu 2005i, 410-412.









Sergio Sconocchia

D Decorative, tecniche. 1. Generalità. – Tutti i prodotti artistici o decorativi sono il risultato dell’applicazione di una tecnica, ossia di un insieme di operazioni manuali o strumentali, che intervengono sulla materia e la modificano, conferendole, talvolta, valore di opera d’arte. 2. Glittica [daktulioglufiva, scalptura ectypa]. – Le pietre e le gemme hanno rivestito presso i popoli antichi un ruolo considerevole sia come ornamento, sia come talismani, a causa delle virtù magiche o delle proprietà medicinali e terapeutiche che venivano loro riconosciute. L’espressione ‘glittica’, dal greco gluvptw, gluvfw ‘incido, intaglio’, cui corrisponde il latino scalpere, designa l’arte di intagliare e incidere le pietre preziose e, per estensione, indica la disciplina che studia l’intera classe delle gemme incise. L’incisione su pietra risale alle prime fasi della vita umana, deriva, infatti, dalla necessità di ‘segnare’, al fine di distinguerlo, un oggetto dall’altro attraverso l’applicazione di un sigillo. Quando le pietre cominciarono ad essere utilizzate come ornamento, furono dapprima levigate e molate leggermente per essere in un secondo momento nobilitate attraverso l’incisione, spesso figurata. Tale lavorazione (liqotribikhv, scalptura) era effettuata a mano libera sulle pietre tenere, quali la steatite ; le altre, invece, una volta ridotte col taglio alla forma voluta, erano lavorate con uno strumento apposito e di forma variabile (truvpanon, terebra), mosso da una ruota a pedale o con l’aiuto di un archetto. Il bulino, solitamente di metallo e dalla punta smussata (ferrum retusum), era rinforzato con l’innesto di una scheggia di diamante [1] o intriso di polvere di corindone o smeriglio stemperata nell’olio per plasmare e levigare le superfici. Le pietre dure si lavoravano artisticamente in due modi : o lasciando in rilievo la figurazione, abbassando il fondo, o incavandola sulla superficie. Nel primo caso si ha il cammeo, ottenuto generalmente da agate a falde o strati di diverso colore (onice o sardonica, diaspro, agata), che permettono all’incisore di ottenere il rilievo di un colore su uno sfondo di un altro colore, solitamente più scuro, con singolare risalto della figurazione. Quando l’incisione figurata è incavata si hanno le gemme incise che possono servire da sigilli. 2.1. Grecia. – Nella Grecia arcaica si utilizzarono gemme variopinte che recavano inci 



se figure mitologiche, divinità, guerrieri. Un particolare sviluppo ebbe la g. nell’età classica, quando furono attivi artisti di eccezionale fama e abilità. Tra i temi, accanto alle scene tratte dalla vita quotidiana e alle immagini delle divinità, compare il ritratto che sarà molto diffuso anche in età ellenistica soprattutto ad Alessandria d’Egitto, da cui provengono cammei e gemme di ragguardevoli dimensioni. 2.2. Roma. – Un particolare rigoglio presenta la g. a Roma, dove molto diffuso è il collezionismo di oggetti preziosi : numerose sono le gemme incise con ritratti, di ispirazione ellenistica che raggiunge livelli di virtuosismo in età augustea. La produzione si conclude in epoca claudia con i grandi cammei con raffigurazioni di gruppi o ritratti imperiali, e con piccoli oggetti scolpiti a tutto tondo. 3. Mosaico. [mousaikovn o mousei`on o mouseivwma o mouseivwsi~, musivum opus]. – Con questo termine si intende la decorazione di una superficie architettonica (pavimento, parete o soffitto) per mezzo di elementi multicolori più o meno regolari, costituiti nella fase più antica da ciottoli e in seguito da pietre dure, marmi, conchiglie, paste vitree, terracotta o smalti giustapposti secondo un preciso progetto decorativo, applicati su una superficie solida e fissati per mezzo di cemento o mastice. Questi elementi, raggiunta una forma più o meno regolare, vennero chiamati dai Greci ajbakivskoi o yh`foi, dai Romani abaculi, tesserae o tessellae. Gli antichi distinguono il m. con denominazioni diverse a seconda della sua natura, delle dimensioni del materiale usato, della destinazione : opus sectile, composto di crustae di marmo di varia grandezza, colore e forma e destinato a decorare le pareti ; opus musivum o metalla, m. parietale derivato dall’opus vermiculatum ; pavimentum tessellatum, formato da cubetti di pietre e marmo, molto regolari, usato appunto per i pavimenti ; opus vermiculatum, a tessere di grandezza minore, più adatte a seguire il contorno sinuoso delle figure e, dunque, usato per gli emblemata, pannelli con decorazione spesso figurata inseriti nei pavimenti tessellati. Tra i m. pavimentali si annoverano anche i lithostrata, pavimenti di pietra e marmo, tagliati in pezzi irregolari e disposti senz’ordine. La tecnica preparatoria prevedeva diverse operazioni eseguite sulla superficie da decorare : questa veniva ricoperta da più strati di calce mescolata a polvere di mar 











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decorative, tecniche

mo, mattoni e paglia ; sull’ultimo strato veniva tracciato il disegno sul quale si stendeva la trama del m. vero e proprio. 4. Toreutica [toreutikhv (scil. tevcnh), caelatura]. – Il termine indica l’arte della lavorazione del metallo in incavo o a rilievo, a sbalzo, a cesello oppure ad incisione, operando su un’unica massa o unendo singoli pezzi attraverso la saldatura. Deriva dal greco torevw ‘perforo’, ‘passo fuori’, da cui toreiva, il lavoro d’intaglio, e toreuthv~ il cesellatore. La lavorazione del metallo avviene con i processi dello sbalzo, in cui l’esecuzione delle decorazioni si ottiene martellando la lamina del metallo dal diritto o dal rovescio, fino ad ottenere un disegno a rilievo ; della cesellatura ; dell’incisione, in cui l’artista si serve di uno strumento da taglio per asportare sottili strisce di metallo ; dell’agemina (ad gemina metalla), consistente nell’incastro di piccole parti di uno o più metalli di vario colore, in sedi appositamente scavate su un oggetto di metallo diverso, per ottenere una colorazione policroma ; e del niello (da nigellum, diminutivo di niger), per cui le incisioni nel metallo vengono riempite di sali metallici, che assumono un colore nerastro. I principali strumenti adoperati dal cesellatore sono il cesello (toreuv~, caelum), utensile dalla punta smussata, che veniva adoperato con l’aiuto di un piccolo martello o di una pietra, e il bulino, usato per le incisioni quando si vuole ottenere un solco leggero sul metallo, a cui bastava la semplice pressione di una mano. Il metallo più usato è il bronzo, ma l’arte della t. si applica anche all’oro e all’argento, molto diffuso in epoca classica, [2] utilizzati per foggiare sia utensili di uso comune, sia oggetti d’ornamento arricchiti da decorazione geometrica, vegetale o figurata. Accanto a questi materiali compare anche l’elettro, una lega d’oro e d’argento che si trova in natura, ma che si può ottenere anche artificialmente. 4.1. Civiltà cretese e micenea. – Nella civiltà cretese-micenea la t. assurge ad espressioni assai alte. Le suppellettili più ricche provengono da alcune tombe di Micene. Gli oggetti di metallo – grandi vasi d’uso comune, vasellame prezioso, maschere funebri d’oro, ornamenti ed altre suppellettili – testimoniano vari processi di lavorazione oltre al martellamento : la cesellatura, l’incisione, l’agemina, il niello. Veri capolavori di t. sono le due celebri tazze d’oro provenienti da Vaphió (Peloponneso), conservate al Museo di Atene, e il rhyton fram 













mentario rinvenuto a Micene e rappresentante la presa della città (Simon 1966, 924-925). 4.2. Grecia. – Dopo il Medioevo ellenico, durante il quale la toreutica sembra aver subito un regresso, nella Grecia pervasa dagli influssi dell’Oriente si sviluppa una fiorente metallotecnica, in cui è peculiare il tipo di lebete a protomi di leoni e grifi, proprio dei secc. vii-vi a.C. e noto da esemplari rinvenuti non solo in Grecia, ma anche in Etruria, nel Lazio, in Armenia. Tra le opere di t. si possono annoverare anche le statue primitive fatte di lamine ribattute e i grandi colossi crisoelefantini, che ebbero la loro maggiore esplicazione nel sec. v a.C. con Fidia (Zeus di Olimpia, Atena Parthenos nel Partenone) e Policleto (Era di Argo). Molto diffusa era la produzione a rilievo, di cui è esempio famoso il tempio di Atena Chalkioikos a Sparta, descritto da Pausania. [3] Nel corso del v sec. a.C. la t. si specializza nella produzione di oggetti, vasi e strumenti. In quest’epoca si possono annoverare tra i toreuti insigni artisti, quali Mirone, Fidia e Policleto. Eccellente toreuta fu Callimaco, fiorito negli ultimi decenni del secolo, la cui opera più famosa era la lampada d’oro con fusto di palma di bronzo conservato nel tempio di Atena Poliade o Eretteo. [4] Superiore è la manifestazione della t. nell’arte ellenistica, che si caratterizza per la vasta produzione di vasellame d’argento riccamente adorno, opera di toreuti provenienti per lo più dall’Asia Minore. Toreuti particolarmente famosi furono Mentore e Mys. Dell’abbondante produzione ellenistica di oggetti di lusso in metalli preziosi, di cui le testimonianze archeologiche rappresentano un documento esiguo, si trova larga eco nelle fonti letterarie. [5] 4.3. Roma. – Con le vittorie dei Romani su Antioco iii di Siria e su Perseo di Macedonia e con la conquista di Pergamo insigni tesori passarono a Roma, e se i primi tempi della Repubblica romana furono caratterizzati da un modesto tenore di vita, a questo presto subentrò una crescente esigenza di lusso, che trova espressione nell’ampia diffusione di fastoso vasellame d’argento. [6] Esigua la produzione toreutica databile alla metà dell’età imperiale, ma a partire dal iv sec. possediamo nuovamente grandi tesori ricchi di opere toreutiche di pregevole fattura. Accanto alla tecnica del martellamento e della cesellatura si osserva nel metallo stesso del recipiente la tecnica  







decorative, tecniche degli emblemata o crustae, cioè figure o ornati riportati all’interno o all’esterno dei vasi e in essi placcati o saldati. Nella tarda t. si può talora osservare la tecnica dell’opus interrasile, già conosciuta nell’arte arcaica greca e in quella etrusca orientalizzante e consistente nel ritagliare la lamina metallica col martello, con la lima o con il cesello, così da formare figure a giorno o ornati. 5. Scultura [ajndriantopoiiva, [7] sculptura[8]]. – L’origine della s. come attività umana è molto antica: i Greci, ad esempio, ne facevano risalire la nascita alla prestigiosa personalità di Dedalo. Essa si può definire come l’arte di creare una forma in tre dimensioni. Numerosi sono i materiali di origine minerale, vegetale o animale a disposizione dello scultore, ciascuno dei quali esige una particolare tecnica di lavorazione. 5.1. Pietra. – La prima fase della lavorazione delle sculture in pietra si svolgeva nelle cave e consisteva nel ridurre, mediante colpi di martello, il masso ad una sagoma approssimativa, secondo misure prestabilite riportate nel blocco stesso. Nel caso di figure a tutto tondo il lavoro si svolgeva da ogni lato e consisteva nell’asportazione di strati successivi di marmo. Gli strumenti utilizzati erano il martello, utilizzato nella prima sbozzatura, e lo scalpello in bronzo, che veniva adoperato colpendo il marmo perpendicolarmente. Il procedimento di sbozzatura risultava particolarmente violento e impediva il raggiungimento di una superficie perfettamente levigata ; a ciò si provvedeva con una accurata lisciatura effettuata con la pomice e, in seguito, con la raspa. A questa fase di lavorazione e di prima rifinitura si accompagnava spesso l’uso del cesello. A partire dal v secolo si avvertì la necessità di un modello preparatorio di cera o d’argilla. Per i rapporti volumetrici tra il modello e l’opera definitiva in lavorazione si faceva uso del filo a piombo, cui si sostituì, in epoca più recente, una specie di telaio-diagramma. Per il bassorilievo si utilizzava una tecnica simile a quella della s. a tutto tondo, consistente in una preliminare incisione del disegno, cui seguiva l’approfondimento del fondo tra le figure e la lavorazione delle superfici interne delle figure stesse. Anche gli strumenti sono uguali : lo scalpello e diversi tipi di cesello. A partire dal iv secolo, si sviluppò una caratteristica tecnica, in uso anche per il tutto tondo, che troverà largo impiego nel mondo romano : l’utilizzo di differenti qualità  







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di marmo bianco per costruire le statue non in unico blocco, bensì in pezzi staccati. La scultura romana sviluppa ulteriormente questo sistema di montaggio fino a combinare insieme porfido e marmo o diverse qualità di marmi colorati. 5.2. Metalli. – Diffuse per la produzione di sculture in metallo erano la tecnica del getto in forma con o senza anima e la tecnica a cera fusa. Molto frequente era anche la lavorazione a martello di lamine di bronzo su modelli di legno, le quali venivano poi applicate su anime lignee, per la creazione di oggetti d’arte e statue, chiamata in Grecia sfurhvlaton ed utilizzata durante l’età classica per le statue crisoelefantine. L’anima costituiva un primo abbozzo della scultura e riceveva una modellazione definitiva solo con la cera. Seguiva il processo di intaglio e incisione. La tecnica della cera fusa non permette nelle varie epoche e culture notevoli differenziazioni, le quali dipendono piuttosto dalla tecnica metallurgica locale. Nella scultura greca il bronzo presenta sempre un notevole spessore, poiché la lavorazione avviene direttamente sullo strato di cera. Le leghe variano secondo la tradizione tecnica delle officine, che spesso impiegavano i residui delle precedenti lavorazioni. Alla fine dell’età ellenistica si passò all’esecuzione delle sculture in pezzi separati e poi saldati insieme per mezzo di piccoli perni. L’uniformità esteriore era assicurata da un accurato lavoro di bulino. Erano fuse a parte in particolare la capigliatura, la barba etc. ; le ciglia erano ritagliate da una lamina metallica e inserite nell’orbita cava dell’occhio insieme ad un intarsio di →vetro per l’iride, metallo per la pupilla e avorio per la cornea. In epoca romana si ricorreva sia a questo procedimento tardo-ellenistico, sia alla classica formula del getto a cera. 5.3. Terre. – Anche l’argilla fu ampiamente utilizzata nella produzione di sculture a tutto tondo e a rilievo. Le più antiche statue di terracotta erano costruite a rullo. Per impedire la deformazione dell’argilla a causa del ritiro conseguente all’essiccamento, essa veniva mescolata con sabbia e coccio pesto che ne assicuravano la porosità. Il lavoro di modellatura cominciava dal basso e veniva effettuato senza far uso di un’armatura. Probabilmente l’intera figura era dapprima rozzamente abbozzata e, in un secondo momento, su quest’anima si sviluppava la modellatura. Un rivestimento di  

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decorative, tecniche

argilla più fine copriva le impurità contenute nell’argilla usata per modellare la statua. Si procedeva poi alla verniciatura con argilla diluita per la colorazione nera, mentre i dettagli in rosso e in bianco erano ottenuti con ocra rossa o argilla liquida. La temperatura di cottura era di circa 960°. In età ellenistica e romana le sculture erano formate su uno stampo, generalmente in terracotta, di notevole durezza. Contrariamente alle statue, le statuette erano fatte con argilla ben levigata, pressata nello stampo dapprima in uno strato sottile e poi mediante applicazioni più spesse. Le statuette greche in terracotta erano generalmente costruite con vari stampi. Una volta estratte da questi le varie parti venivano saldate tra loro con l’argilla liquida. I tocchi di rifinitura erano dati con utensili di legno o metallo. Infine si ricopriva la figura con un sottile strato di argilla bianca. Si procedeva poi alla cottura, effettuata a temperature molto basse e, infine, alla coloritura. Questa produzione si estende per un notevole arco di tempo, dal periodo arcaico all’epoca romana. 5.4. Legno. – La s. in legno non presenta, sul piano della tecnica artistica, una evoluzione particolarmente appariscente : la tecnica di lavorazione consisteva nel ricavare dal tronco, mediante un’operazione di intaglio, il corpo della figura, a cui si aggiungevano in un secondo momento gli elementi sporgenti come gambe, braccia etc. Con tale tecnica vennero scolpiti in Grecia gli xóana (da xevw ‘liscio’, ‘levigo’), di cui parlano numerosi autori antichi tra cui Pausania. [9] Si trattava di statue di legno raffiguranti divinità, nude o rivestite di abiti veri, forse con arti snodabili. Il termine, tuttavia, era utilizzato per indicare anche le statue di legno ricoperte di lamine metalliche o di avorio, oltre che quelle fornite di testa, mani e piedi di marmo (acroliti). La produzione scultorea in legno del mondo antico è andata quasi completamente perduta a causa della deperibilità del materiale usato, di natura organica : della s. lignea della Grecia preclassica si conservano solo avanzi assai modesti (sculture dell’Heraion di Samo) ; con l’inizio dell’arte classica e poi con l’Ellenismo e l’epoca romana la s. in legno perde gradualmente importanza rispetto alla produzione in marmo e in bronzo. Intanto, tuttavia, si assiste ad un perfezionamento della tecnica della lavorazione del legno : agli strumenti tradizionali (scalpelli, asce, scuri, seghe,  









lesine, trapani ad arco con punta di rame) si aggiunsero la pialla, il tornio, la vite e nuovi tipi di trapano. Molti di questi strumenti scompariranno con la fine dell’età classica in concomitanza con l’involuzione delle tecniche della lavorazione del legno. 5.5. Materiali diversi. – L’avorio, data la facilità del suo reperimento, è una delle sostanze più largamente impiegate nella produzione degli oggetti d’uso, rituali, ornamentali. Tutte le grandi civiltà del bacino del Mediterraneo – da quella cretese a quella romana – conobbero questo materiale e lo impiegarono in produzioni artistiche di pregio. Era utilizzato prevalentemente nella produzione di oggetti di dimensioni ridotte, per lo più piccole statue; non mancano, tuttavia, testimonianze dell’impiego di tale materiale in opere di dimensioni considerevoli, come le statue crisoelefantine di Fidia e Skopas. In Grecia, in particolare, l’avorio era, infatti, spesso impiegato insieme all’oro, come intarsio o come elemento di composizione. Le opere crisoelefantine erano realizzate su un’armatura di legno, sulla quale venivano montate ad incastro le varie parti. L’avorio esigeva una particolare lavorazione, per la quale esisteva una specifica categoria di lavoranti, i rammollitori dell’avorio (malakth`re~ ejlevfanto~), i quali davano alle lamelle in cui era stato tagliato l’avorio la curvatura necessaria per formare le diverse parti del corpo della statua (Capponi 1965, 757). A Roma fu impiegato nella produzione di opere di statuaria e in oggetti d’uso; durante il periodo imperiale, tuttavia, era divenuto piuttosto raro e ricercato e costituiva, dunque, uno dei materiali più pregiati. Si ebbe una ripresa della lavorazione dell’avorio intorno al iv sec. d.C. a Bisanzio, dove si iniziò ad utilizzare l’avorio di tricheco oltre a quello di elefante. 6. Pittura. – Né i Greci né i Romani consideravano la p. come un’arte indipendente, fornita di valore autonomo : essa costituiva, invece, un elemento di decorazione nell’→architettura e nella scultura. La p. ha, tuttavia, prodotto nell’antichità classica opere degne d’attenzione. Tre sono le principali tecniche pittoriche utilizzate nell’età classica : la tempera, l’encausto, l’affresco. 6.1. Tempera. – La tecnica della p. a tempera utilizza colori sciolti in acqua e addizionati di una sostanza agglutinante (uovo, latte, latte di fico o colle animali come la xylocolla e l’ichthyocolla) che fungeva da veicolo per il co 



decorative, tecniche lore e lo fissava al supporto. Una volta stesa, la tempera veniva verniciata. →Plinio [10] annovera tra le vernici la zopissa (oleum picinum, cioè pece purificata, resina e cera sciolta in acqua ragia) e una resina sciolta in acqua ragia che aveva la caratteristica di risultare nera in vitro. 6.2. Encausto. – Derivante dal greco ejgkaivw «metto a fuoco», il termine encausto (e[gkauston, encaustum) indica una tecnica pittorica che utilizza colori mescolati a cera liquefatti dal calore e fissati a caldo sul supporto per mezzo di attrezzi di metallo chiamati cauteri o cestri. Sia Plinio, [11] sia →Vitruvio[12] descrivono i metodi di esecuzione dell’encausto. Attraverso la mistione dei pigmenti con colla di bue, cera punica (cera vergine bollita in acqua di mare) e calce spenta si otteneva una tempera molto densa che poteva essere diluita con acqua. Essa era mescolata a cera diluita con olio e stesa con il cestro. Da ultimo si passava alla lucidatura con un panno tiepido. Si possono considerare pitture ad encausto alcuni ritratti provenienti dal Fayyūm, dipinti su tela o su legno. 6.3. Affresco. – Nell’antichità fu molto diffusa la tecnica della pittura a fresco, cioè quella p. rapida che si incorpora strettamente con il suo supporto, costituito da un intonaco fresco e sufficientemente saturo d’acqua e che viene fissata per mezzo di una pellicola di carbonato di calcio. I reperti archeologici più antichi mostrano per l’intonaco preparazioni sottilissime di rena mista a calce o ad argilla, ma successivamente si giunse all’applicazione di un procedimento diverso, costituito da due strati, il primo di creta mista a sterco di vacca, crine o paglia tritati e un secondo di gesso. A Creta, inoltre, si assiste ad una ulteriore tecnica per cui la p. murale veniva eseguita su intonaco umido di pura calce, sulla quale erano applicati direttamente i colori. In Etruria lo strato di preparazione risulta sottilissimo e talvolta inesistente. La tecnica per la preparazione degli strati successivi dell’arriccio e dell’intonaco accuratamente descritta da Vitruvio[13] trova la sua prima applicazione in alcuni affreschi rinvenuti in tombe ellenistiche e si diffonde, in seguito, nell’Italia centrale per divenire il procedimento esclusivo nella p. murale romana. Vitruvio parla di tre strati successivi di un impasto ruvido, o arriccio, consistente in una parte di calce spenta e due parti di pozzolana o sabbia, stesi sul muro precedentemente inumidito. Su questi tre strati venivano posti altri tre strati di calce, sabbia fine e polvere di marmo  

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impastate, sempre più sottili verso la superficie. Dal ii sec. d.C. il processo di intonacatura dei muri si semplifica con la diminuzione del numero degli strati di arriccio e intonaco. Sui colori utilizzati nella pittura parietale forniscono preziose informazioni Vitruvio[14] e, soprattutto, Plinio, [15] il quale afferma, riguardo alla p. greca, che questa conoscesse solo quattro colori : bianco (terra di Melos), giallo (ocra attica), rosso (sinopis pontica), nero (nero di fumo addizionato con collante). Egli, inoltre, opera un’interessante distinzione tra colores floridi, identificabili con i colori trasparenti, talmente preziosi che dovevano essere forniti al pittore dal committente, [16] e colores austeri, cioè i colori a corpo. Entrambi gli autori[17] menzionano un procedimento atto preservare i colori, consistente nella verniciatura a cera, ottenuta spalmando la parete dipinta e asciutta con cera pontica calda diluita con olio. La cera veniva fatta penetrare nelle porosità dell’intonaco attraverso il calore applicato con un cauterio ; infine, la parete era lucidata con un panno di lino. 7. Arte vetraria. – La decorazione del →vetro può essere considerata parte integrante della manifattura, poiché tutte le fasi della sua lavorazione implicano una elaborazione estetica. Tra i numerosi sistemi di decorazione in uso nell’antichità classica nell’arte vetraria si possono distinguere : la decorazione dipinta, la decorazione applicata, la doratura, l’intaglio e l’incisione, la tecnica a strati o a rilievo, la tecnica dei diatreta, il disegno a stampo. 7.1. Decorazione dipinta. – Uno dei sistemi di decorazione del vetro più diffusi nell’antichità era la pittura, che poteva essere a smalto o a freddo. La pittura a smalto, molto diffusa a Roma, dove arrivò attraverso il tramite siriano, si realizzava dipingendo i motivi decorativi sulle pareti dell’oggetto a freddo ; questo veniva, poi, sottoposto al calore di un particolare forno, che raggiungeva una temperatura inferiore a quella necessaria alla fusione del vetro e che garantiva, invece, l’adesione alle pareti dell’oggetto dei colori dello smalto, tra i cui componenti vi era una polvere vitrea, necessaria alla fusione dello smalto con il vetro. Questo, una volta decorato, si lasciava raffreddare lentamente fino a raggiungere la temperatura ambiente. Il vetro così trattato, incorruttibile agli →agenti atmosferici, presenta caratteristiche di durata tali da permettere la conservazione di esemplari molto antichi fino ad  











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demetrio falereo

oggi. Una durevolezza limitata, caratterizzava, invece, i vetri decorati con la pittura a freddo, che era costituita dalla semplice applicazione a freddo, senza una ricottura successiva alla decorazione, alla parete vitrea di colori privi di componenti vetrosi. 7.2. Decorazione applicata. – Molto diffusa nei tempi antichi, consiste nell’applicare agli oggetti vitrei elementi decorativi modellati a parte. L’applicazione si esegue quando tanto l’oggetto da decorare quanto le decorazioni vitree non sono del tutto solidificati, in modo da garantire la perfetta adesione delle due parti. 7.3. Doratura. – Si tratta della decorazione a foglia d’oro compresa fra due strati di vetro. La tecnica si fa risalire all’epoca ellenistica, ma trova la massima diffusione tra il iii e il iv sec. d.C. 7.4. Intaglio e incisione. – Tale tecnica decorativa si adatta particolarmente a prodotti vitrei caratterizzati da notevole durezza e spessore, in quanto interviene direttamente nel corpo degli oggetti. Tra i sistemi di incisione e intaglio trova particolare diffusione nell’antichità l’incisione alla mola, in cui le pareti vitree erano sottoposte all’azione di mole o ruote che vi producevano intagli a diversa profondità. Altrettanto utilizzata era la tecnica di incisione graffita, in cui si eseguivano motivi decorativi sulla superficie mediante l’uso di punte di selce o pietra focaia, raggiungendo spesso risultati di altissima qualità. 7.5. Tecnica a strati o a rilievo. – Consiste nella sovrapposizione di più strati di vetro, per lo più di diversi colori. Con un vetro opaco di colore cupo (solitamente blu, nero, marrone o verde bottiglia) si plasmava il vaso e lo si immergeva, ancora caldo, in una massa fluida di vetro bianco opaco. Una volta raffreddato, si cesellava lo strato esterno di colore bianco, fino a far affiorare lo strato sottostante di colore scuro, che costituiva lo sfondo delle immagini intagliate a cammeo. Un esempio di tale lavorazione è rappresentato dal vaso Barberini o Portland, conservato al British Museum di Londra, che presenta una scena mitologica realizzata nel vetro bianco su fondo blu (Neuburg 1966, 770). 7.6. Diatreta. – Il termine deriva dal verbo greco diatetraivnw [18] ‘buco’, ‘foro’, ‘perforo’ e indica vasi di vetro soffiato rivestiti di una fitta rete di fili di vetro, molto diffusi nel tardo impero. Tale risultato si otteneva attraverso una particolare tecnica di lavorazione, che consisteva nella soffiatura di un vaso grezzo di

spessore notevole, sul quale era poi eseguita una raffinata opera di intaglio a reticolo, molto simile all’intreccio vimineo. 7.7. Disegno a stampo. – Molto pregevoli nell’antichità classica erano i vetri soffiati in stampi, cioè i recipienti ottenuti attraverso la soffiatura in una matrice negativa. Si tratta di una tecnica particolarmente diffusa per gli oggetti modellati in forme naturalistiche (animali, teste umane, frutta). Note. [1] Plin. nat. 37, 61. – [2] Plin. nat. 33, 154. – [3] Paus. 3, 17, 2. – [4] Paus. 1, 26, 5. – [5] Liv. 27, 16, 7 ; 37, 59, 3. – [6] Plin. nat. 33, 139. – [7] Cfr. Xen. Mem. 1, 4, 3 ; Pl. Grg. 450d. – [8] Vitr. 2, 9, 9 ; Plin. nat. 16, 209. – [9] Paus. 3, 17, 6 ; 3, 19, 7. – [10] Plin. nat. 24, 41. – [11] Plin. nat. 35, 149. – [12] Vitr. 7, 9, 3. – [13] Vitr. 7, 3, 6. – [14] Vitr. 7, 7-14. – [15] Plin. nat. 35, 50. – [16] Plin. nat. 35, 30. – [17] Vitr. 7, 9, 3 ; Plin. nat. 33, 122. – [18] Cfr. Chantraine 1968, I, s.v. diatetraivnw, 1109-1110.  









Bibliografia. Aletti 1951 ; Babelon 1896 ; Barbet 1985 ; Bianchi Bandinelli 1965 ; Blümner 1875-1887 ; Cagiano de Azevedo 1958 ; Cagiano de Azevedo 1960 ; Cagiano de Azevedo 1966 ; Calabi Limentani 1970 ; Capponi 1965 ; Chantraine 1968 ; Deubner 1940 ; Dugas 1919 ; Dunbabin 1999 ; Farneti 1993 ; Fiorentini Roncuzzi 1990 ; Fleming-Honour 1908 ; Forbes 1966, 110-196 ; Gauckler 1904 ; Girard 1900 ; Harden 1966 ; Höcker 1998 ; Kitzinger-Picard 1987 ; Levi 1963 ; Lippold 1937 ; von Lorentz 1933 ; Maltese 1998 ; Mielsch 1997 ; Neuburg 1966 ; Neudecker 2002 ; Panayides 2000 ; Plantz Horster 1998 ; Rich 1947 ; Saglio 1887 ; Simon 1966.  



































































Nadia Cacopardo Demetrio Falereo [345-282 a.C.]. Filosofo peripatetico ateniese, discepolo di →Teofrasto, fu nominato governatore di Atene dal re macedone Cassandro nel 317 a.C. Sconfitto da Demetrio I Poliorcete nel 307 a.C., si ritirò in Egitto, dove divenne consigliere culturale di Tolomeo I Sotèr, al quale suggerì la creazione del Museo e della Biblioteca di Alessandria. Autore di opere di retorica e di grammatica, al nome di Demetrio Falereo è legata anche una delle prime opere di argomento polemologico : si tratta degli Stratêgika, di cui però non resta nulla. [1]  



Note. [1] Wehrli 1968, 43. Bibliografia. Wehrli 1949 ; Wehrli 1968.  

Lucio Benedetti

democrito Democede di Crotone. Fonda nel vi sec. a.C. la scuola ‘medica’ di Crotone. Entrato in conflitto con il padre, inizia ad esercitare a Egina, assunto a spese dello Stato. Passa, poi, al servizio di Atene e di Samo, presso il tiranno Policrate. Nell’anno 522, dopo la sconfitta di Policrate da parte dei Persiani viene catturato da Dario I e condotto a Persepoli. Un giorno Dario si sloga un piede e, insoddisfatto dei medici egiziani impone a D. di curarlo. Nonostante neghi di conoscere l’arte medica, lo guarisce. Cura, in seguito, anche la moglie di Dario, Atossa, da un ascesso alla mammella sempre più esteso. Acquisisce fama, ricchezza e notevole influenza tali che, con l’aiuto di Atossa convince Dario a rivolgere la propria attenzione verso la Grecia[1] e a inviarlo lì come guida di esploratori persiani per compiere un periplo delle coste e prenderne nota. Giunto a Taranto, con l’aiuto del re tarantino, Aristofilide, sfugge ai Persiani e rientra a Crotone. I Persiani lo inseguono, ma i Crotoniati si oppongono alla riconsegna di Democede, il quale affida a loro l’incarico di riferire a Dario che egli ha sposato la figlia del lottatore Milone, famosissimo anche presso il re persiano. [2] In seguito alla reazione dei Crotoniati contro i discepoli di Pitagora, Democede, che fu, dunque, un pitagorico, è costretto alla fuga. Esile è il contributo di D. all’evoluzione della medicina diversamente che per Alcmeone (→Alcmeone di crotone), medico più importante della scuola di Crotone.  

Note. [1] Vd. Hdt. 3, 129-138 ; Ath. 12, 522 b ; Suid. 2, 42f e Griffith 1987, 45-46 per questo particolare tipo di nostos o «ritorno» in patria. – [2] Griffith 1987, 37.  



Bibliografia. Asheri-Fraschetti-Medaglia 2000 ; Carini 2002a, 284 ; Griffith 1987 ; Nutton 1997d ; Wellmann 1903 ; Wenskus 2005.  









Daniele Monacchini Democrito. Dati bibliografici. 1. Allievo di Leucippo, D. fonda ad Abdera una scuola ad indirizzo atomistico. L’attività scientifica di D. ebbe portata enciclopedica : oltre alla cosmologia, il suo campo di speculazione comprendeva logica, geografia, linguistica, matematica e fisica, come testimoniano i frammenti delle sue opere. [1] 2. Opere e dottrina. – Secondo Diogene Laerzio, [2] che attribuisce a D. 70 titoli, il filologo alessandrino Trasillo diede una sistemazione  





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alle opere di D., ordinandole in 13 tetralogie. Tre di queste sono costituite da titoli di opere matematiche : 1. Sulla differenza angolare o sul toccare cerchio e sfera, Sulla geometria, Geometrica, Numeri ; 2. Sulle linee e solidi irrazionali, Proiezioni, Grande anno o Astronomia – Parapegma, Combattimento della clessidra ; 3. Descrizione del Cielo, Descrizione della Terra, Descrizione del Polo, Descrizione dei raggi visivi. La dottrina fisica attribuita già a Leucippo, ma ampiamente sviluppata da D., è fondata sull’atomismo. Per il filosofo di Abdera, la materia non sarebbe divisibile all’infinito, ma sarebbe costituita dal vario aggregarsi di particelle indivisibili, qualitativamente indifferenti ; le differenze sensibili, pertanto, si limiterebbero a dipendere da parametri quantificabili (forma, grandezza e posizione). [3] Tuttavia, gli studiosi contemporanei sono discordi relativamente ai riflessi in campo matematico della dottrina atomistica di D. : alcuni segnalano la posizione democritea come continuista in geometria e atomista in fisica, leggendo nelle sue teorie un’anticipazione dell’approccio per indivisibili e, addirittura, del calcolo integrale, [4] confortati da un’interpretazione orientata del dibattito tra Crisippo e D. riferito da Plutarco ; [5] altri ritengono che la concezione democritea considererebbe i solidi composti da distinte lamine atomiche indivisibili. [6] Va ricordata la testimonianza di →Archimede, il quale riconosce a D. il merito di aver dato un contributo per nulla trascurabile ai teoremi, dimostrati poi da →Eudosso, secondo i quali un cono che abbia determinate base ed altezza costituisce la terza parte del cilindro che abbia uguale base ed uguale altezza e lo stesso rapporto intercorre tra piramide e prisma.  

















Note. [1] Fonti su D. e frammenti della sua opera in Diels-Kranz 1951-1952, ii (68), 81-230 ; Luria 1970. – [2] Vd. Diog. Laert. 9, 45-49. – [3] Vd. Vlastos 1995, 328-50. – [4] Vd. Tannery 1988, 125. – [5] Vd. Plu. De comm. not. 39, 1079d-e. – [6] Vd. Luria 1933, 106-85.  

Bibliografia. Diels-Kranz 1951-1952 ; Luria 1933 ; Luria 1970 ; Tannery 1888 ; Vlastos 1995.  







Livia Radici 3. Lo spettro disciplinare. – Sull’edizione delle opere di D. ad opera di Trasillo la nostra unica fonte di informazione è Diogene Laerzio nel già citato catalogo. Significativamente, si parla

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democrito

del medesimo Trasillo che ha curato la costituzione del Corpus Platonicum. Poiché anche nei codici più antichi il corpus platonico pervenuto fino a noi rispecchia con sorprendente fedeltà la disposizione dei dialoghi in tetralogie secondo lo schema che troviamo in Diog. Laert. 4, 57-61, e poiché Trasillo ha mostrato di saper discernere con mano piuttosto sicura i dialoghi autentici da quelli apocrifi, da queste circostanze emerge un convincente indizio per conferire una presunzione di sostanziale attendibilità anche al catalogo trasilliano delle opere di D. Su tale premessa, e di fronte alla dispersione di grandissima parte dei testi di D., l’esame del catalogo relativamente alla lista – libri di etica, libri di fisica, libri di matematica, libri di musica (mousika) e libri sulle arti (technika) – sono tali da evidenziare solo limitati indizi di assestamento delle aree disciplinari, cosa che in linea di massima non sorprende perché sappiamo che a delineare un ordine seriale tra discipline contigue è stato piuttosto →Aristotele. Semmai si apprezza la non dichiarata decisione di rinunciare a scrivere l’ennesimo →Peri physeos e pervenire a riconoscere la specificità dei singoli ambiti, rinunciando a istituire raccordi artificiosi e, semmai, dedicando ai singoli argomenti unità testuali comparativamente più ampie delle corrispondenti sub-trattazioni che, in alternativa, sarebbero dovute confluire nell’unico Peri physeos. Nondimeno è degna di nota la presenza di alcuni tentativi di mettere ordine fra tematiche contigue e complementari. L’indicazione più intuitiva emerge da un sottogruppo dell’area matematica, allorché vengono indicate, nell’ordine, opere intitolate Ouranographie, Geographie, Polographie e Aktinographie, dove si apprezza anche l’individuazione di qualche eloquente neologismo per i titoli. Inoltre la lista delle opere non classificate (asuntakta) di cui è parola dopo i libri di fisica e prima dei libri di matematica (Diog. Laert. 9, 47) propone, nell’ordine, Aitiai ouraniai, Aitiai aerioi e Aitiai epipedoi secondo una scansione che, in questo caso, può ben reggere il confronto con la distinzione tra De caelo e Meteorologica in Aristotele. Ugualmente tra i libri di fisica troviamo trattazioni distinte per i sapori e i colori (se non anche per altri tipi di sensazione). I rimanenti titoli sono invece tali, per la loro eterogeneità, da far pensare che siano nati in occasioni diverse e non in funzione di un’idea unitaria dei temi di ricerca, e anche le

rimanenti aitiai del § 47 devono dirsi alquanto eterogenee (una è dedicata al fuoco, una ai suoni, una alla botanica, una agli animali, una alla pietra). Se ne inferisce che l’individuazione di aree disciplinari ragionevolmente distinte, ma contigue e complementari, è stata solo incoativamente anticipata da D. È, peraltro, il catalogo di Trasillo a fornire questa non secondaria indicazione sulle forme di organizzazione del sapere prima di Aristotele. In particolare la matematica sembra, a giudicare dal catalogo trasilliano, essere stata oggetto di assidue ricerche. Anche se la documentazione disponibile non va, purtroppo, oltre la lista dei titoli, l’apparato di denominazioni che prende forma è degno di nota in quanto associa a denominazioni non problematiche, come Peri geometries, Geometrikon e Arithmoi, anche delle denominazioni piuttosto sorprendenti per l’elevata specificità del tema indicato. Tale è il caso dell’opera (o operetta) dedicata a linee e solidi aloga, irrazionali, che ben difficilmente poté non fondarsi sul confronto con la matematica di ispirazione pitagorica. Nell’insieme le molte opere di D. documentano una interessante fase di avvio verso l’individuazione di un criterio con cui disporre le discipline una accanto all’altra individuando con una certa precisione lo specifico di ognuna, così da renderle comparabili: fase di avvio che necessariamente comportava il superamento dell’opera onnicomprensiva (ma per ciò stesso condannata a una irriducibile eterogeneità di argomenti trattati) il cui titolo fosse, invariabilmente Peri physeos. Un problema ulteriore, al quale in questa sede sarà sufficiente solo accennare, nasce dal fatto che l’atomismo è ampiamente documentato a livello di testimonianze (ne parla a lungo, per cominciare, Aristotele nella Fisica), l’etica è ampiamente documentata a livello di massime ma solo a quel livello, e ogni altro tema è fortemente penalizzato dalla estrema penuria delle informazioni disponibili. Per effetto di una così cospicua asimmetria, nella seconda metà del secolo xx è stata a lungo dibattuta la questione del rapporto tra atomismo ed etica, come se quelle due facce di una personalità tanto poliedrica fossero le sole due da prendere in considerazione. 4. Fisica atomistica. – Per quanto riguarda l’atomismo occorre preliminarmente osservare che nella delineazione dell’atomismo le fonti attribuiscono un ruolo fondativo a Leucippo

dietetica (il maestro di D. che, prima di stabilirsi ad Abdera, si recò forse a Elea presso →Zenone). In effetti i due nomi sono stabilmente associati nella delineazione dell’argomento che, per comune opinione, getta le premesse per la fisica atomistica, ossia la tesi secondo cui: (a) il nonessere esiste (infatti «to den, cioè l’ente, non esiste più di to mēden, il nulla»: 68B156 da Plutarco) ed è il vuoto ; (b) il riempimento comporta l’immobilità o inalterabilità dei rapporti tra le parti, e ciò dimostra che il vuoto è indispensabile perché possa darsi un qualunque movimento ; (c) non si può parlare di un solo ente ma, al contrario, di una innumerevole quantità di entità materiali così piccole da non poter essere distinte a occhio nudo, entità che peraltro differiscono l’una dall’altra solo per la forma ed eventualmente la posizione reciproca, e inoltre sono in perenne movimento (salvo a formare aggregati dotati di una ragionevole stabilità). L’espressione atomos idea («forma indivisibile») è democritea ma non compare nei frammenti. Proprio perché l’atomo è impercettibile, la conoscenza vera o autentica è quella della mente (nous) che si rappresenta gli atomi e il vuoto, mentre quella dei cinque sensi è una conoscenza ‘oscura’, tale da non saper dare delle vere certezze. A questa idea si collega la tesi del carattere convenzionale (nomoi) delle qualità sensibili (68B125 D.-K., da Galeno). 5. Cosmologia. – L’idea che gli atomi siano in movimento quasi per definizione costituisce la premessa in base alla quale D. arriva ad affermare che la dinē, il vortice, è « causa dell’origine di tutte le cose » (Diog. Laert. 9, 41 = 68A1 D.-K.). Causa, ma anche effetto del moto degli atomi, se è vero che, secondo Leucippo, molti corpi staccandosi dall’apeiron vanno verso un ‘grande vuoto’ e generano un unico vortice, per cui una parte di questi sōmata si aggrega e si compatta (mentre altri atomi rimangono disconnessi) e l’insieme va ad assumere una forma sferica (fr. 67a D.-K., da Diogene Laerzio). È interessante notare che questo moto eterno viene anche detto automaton, ossia non indotto da agenti esterni o cause particolari. L’idea di vortice cosmico era stata introdotta da →Anassimandro e poi accolta da quasi tutti (con la vistosa eccezione di →Parmenide). In particolare →Anassagora sembra aver elaborato una cosmologia molto affine a quella di D. Lo schema atomistico, d’altra parte, impediva alla teoria del vortice di specificarsi e tradursi in dottrine particolari in quanto la spiegazione  







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(atomi e vortice) era fin troppo universale, capace cioè di rendere conto a priori di qualunque cosa ma non di una cosa in particolare. Edizioni. Diels-Kranz 1951-1952 ; Luria 1970 ; Taylor 1999 ; Leszl 2009.  





Bibliografia. Alfieri 1953 ; Furley 1987 ; Gemelli 2007 ; Graham 2006; Krs 1983 ; Luria 1933 ; O’Brien 1981 ; O’Brien 1994 ; Salem 1996 ; Tannery 1888 ; Vlastos 1995.  

















Livio Rossetti Diade. Ingegnere di Alessandro Magno, la sua fama è legata soprattutto all’assedio di Tiro (332 a.C.), durante il quale le sue macchine belliche giocarono un ruolo determinante nella presa della città, come testimoniano le fonti. [1] →Ateneo Meccanico (10) e →Vitruvio (10, 13, 3) ci attestano che Diade vantava l’invenzione di importanti congegni, come le ‘torri mobili’ (forhtoi; puvrgoi, turres ambulatoriae) [→elepoli] ed il →trapano, impiegati nelle campagne del Macedone. Sappiamo inoltre che fu allievo di Poliedo di Tessaglia e scrisse un trattato di →meccanica (Ath. Mech. 10).  

Note. [1] Diels 1920, 30 sg. Bibliografia. Diels 1920 ; Fabricius 1894 ; Lendle 1983, 71 sgg. e 128 sgg. ; Whitehead-Blyth 2004.  





Francesco Fiorucci Dietetica [diaithtikhv, diaetetica]. 1. Premessa. – Dietetica nel mondo antico ha un valore ben più ampio rispetto a quello di ‘alimentazione’ che ha nei tempi moderni : è ‘sistema di vita’, il modo di mantenere la buona salute con il modo di vivere, di fare esercizi sportivi e vita attiva, di alimentarsi, di fruire di bagni, sonno, attività sessuali e di varie forme di purificazione, come vomito e purghe. In questa linea, Dietetica, significa, in senso ampio, soprattutto prevenire ed evitare la malattia : naturalmente implica, in genere, un livello sociale abbastanza agiato, tempo e denaro. Nella medicina del mondo classico c’è accordo abbastanza uniforme tra periodo delle origini, Corpus Hippocraticum e tarda antichità. Dopo un accenno al periodo dell’Epos, [1] si può citare ad es. il bios Pythagoreios, [2] con le note ‘proibizioni di fagioli e vegetarismo’. Inventore della dietetica medica è considerato →Erodico di Selimbria : le sue dottrine ci sono note attraverso l’Anon.  









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dietetica

Londin. 9, 20-36 ; c’era ad es. giusto equilibrio tra sforzo fisico e assimilazione. Si terrà conto del valore dato all’educazione sportiva (paidotribes), come attestato da Pl. R. 3, 406 a-b. La dietetica costituisce, con la →farmacologia e con la →chirurgia, la terza parte della →medicina. [3] In particolare, nell’àmbito della previdenza della salute, rappresenta la ricerca di un modo retto di vita. Il primo scritto completamente conservato di dietetica in questo senso è lo scritto ippocratico De diaeta (Sul regime di vita), ritenuto scritto verso la fine del v sec. a.C. L’autore si appoggia, d’altro canto, ad una letteratura relativa già esistente. Vengono trattati, in quattro libri, i fattori ritenuti necessari dall’autore per un sistema di vita sano. Il titolo va inteso non tanto nell’accezione ristretta alla sfera dell’alimentazione, quanto nel valore, come si è già chiarito, di ‘sistema di vita’ (divaita, in generale). L’opera esercita sulla medicina posteriore un influsso grande, paragonabile a quello della dottrina dei quattro umori ; il modo di vita è formulato con concetti basilari. Ad es., in Vict. 1 si legge : « L’uomo e tutti gli animali si compongono di due elementi fondamentali, con caratteristiche differenti quanto a potenza, ma che tuttavia si completano nella funzione, dico precisamente fuoco e acqua ». [4] Subito dopo, però, l’autore si discosta dalla concezione dei quattro umori : « Al fuoco e all’acqua compete rispettivamente quanto segue : al fuoco caldo e secco ; all’acqua invece freddo e umido ». [5] La sintesi degli elementi e delle loro proprietà contribuisce a determinare la natura umana, sia per quanto riguarda il corpo che per quanto concerne l’anima. L’uomo e la donna sono definiti nella loro costituzione : l’uomo è caldo e asciutto ; la donna è umida e fredda. L’idea della conservazione della materia e dell’energia [6] presuppone un ciclo degli elementi : fondamentale è l’assunzione di nutrimento. L’‘acqua’ che il nutrimento apporta e il ‘fuoco’ della relativa trasformazione in calore e moto definiscono, anche se in modo intuitivo più che sistematico, il sistema del ricambio. Ogni individuo è fornito di ‘calore innato’, che ha sede nel cuore ; per poter conservare questo calore è necessaria la «cozione» (pevyi~) del cibo nello stomaco. Resta irrisolto il problema se a diffondersi all’interno dell’organismo siano le sostanze nutritive così come sono o se viene invece assorbito il prodotto della «cozione». Punto di partenza, come si è avuto modo di  

































dire, è la conoscenza della natura umana (physis), la conoscenza relativa all’efficacia di cibi e bevande, ma anche la conoscenza del rapporto tra nutrizione e moto. Il libro ii è incentrato su un esame sistematico sia dei diversi tipi di alimenti che di attività (moto fisico, bagni, riposo, sonno), per poter determinare il valore di ogni fattore ed elemento nel regime stesso. Segue così un’analisi precisa di qualità naturali e artificiali dei diversi alimenti e della varie bevande : grano ; farro e spelta ; avena ; fave ; tipi di carne di vari animali, come di bue e d’asino ; miele ; cipolla ; cibi cotti alla griglia ; cibi assunti crudi ; poi segue ancora un’analisi relativa ai vantaggi di attività adeguate : « Quando l’uomo fa moto, gli alimenti ingeriti e il corpo stesso si riscaldano : la carne attrae l’umidità e impedisce l’accumulo intorno ai fianchi. In questo modo il corpo si empie, ma il ventre invece dimagrisce [… ] la componente più asciutta degli elementi rimane tuttavia nel corpo ; mentre il corpo e la carne si asciugano ». [7] Lo scritto ottenne diffusione immensa ; il trattato si pone come una vera e propria guida dietetica in senso moderno. La dietetica, elaborata soprattutto nei trattati di De diaeta i, ii, ii e iv (cioè Victus), comprende già tutti i capitoli del canone che ritorna nell’Ars medica di →Galeno [8] sulle sei res non naturales – la cui forza influenza necessariamente i corpi –, principi che poi restano validi fino ai secoli più tardi nelle Regole di salute medioevali (Regimina sanitatis). Lo sviluppo della dietetica nell’antichità si contraddistingue per una grande diversificazione in tutti gli ambiti particolari di questo settore. Sono prodotti in gran numero opere particolareggiate sulla dottrina della nutrizione, per l’utilizzazione di cibi e bevande a livello grezzo ed elaborato. La dietetica viene esaltata – e non solo attraverso i suoi aspetti etici – da →Platone e →Aristotele, per una formazione della educazione dell’individuo e del cittadino (paideia). In età ellenistica appare in modo rilevante la tendenza a considerare negativi gli aspetti della vita nelle città.→Diocle di Caristo può vantare nel iv sec. a.C. una dottrina da lui personalmente fondata per l’adempimento di tutte le norme dietetiche. Galeno, che nei suoi trattati dietetico-igienici conserva e trasmette la summa della dietetica antica, sa bene che una persona di vita sedentaria non è in grado di occuparsi in modo adeguato del suo benessere fisico e mentale . [9] In età bizantina la disciplina  



































dietetica viene strutturata e condensata in manuali appositi : ad es. si trovano calendari mensili in cui la dietetica è divulgata per un uso più ampio ; vengono raccomandati o sconsigliati sotto forma di brevi sentenze cibi e bevande sotto l’indicazione del loro effetto medicamentoso. Nella presente trattazione si prenderanno in esame i seguenti aspetti o elementi, sempre discussi con relative fonti e bibliografia : Alimentazione ; Esercizi fisici ; per altri aspetti vd. →sonno ; →bagno ; →vomito ; →sessualità.  















Note. [1] Hes. Op. 588-569. – [2] Cfr. Pl. R. 10, 600 b 1 sgg. – [3] Gal. Thras. 33 / 5, 869 K. – [4] Vict. 1, 3 / 6, 472 L. – [5] Vict. 1, 4 / 6, 474 L. – [6] Vict. 1, 4-5 / 6, 474-478 L. – [7] Hp. Vict. 2, 61-63 / 6, 574-580 L. – [8] 23 / 1, 367 K. – [9] Gal. San. tu. 6, 1 / 6, 383 K. Fonti. Hes. Op. 588-569 ; Hp. Vict. (De diaeta 1, 2, 3, 4) ; Pl. R. 10, 600 b 1 sgg. ; Gal. Ars med. 23 / 1, 367 K ; Thras. 33 / 5, 869 K ; San. tu. 6, 1 / 6, 383 K.  









Bibliografia. Angeletti-Cavarra 1999, 467-478; Edelstein 1966; Joly 1960; Martínez Saura 1996; Mazzini 1997, 350-366; Nutton 1997e; Steger 2004; Wöhrle 2000; Wöhrle 2005, 217-219.

2. L’alimentazione. – La dottrina dell’alimentazione (trofhv, alimentum) giuoca, all’interno della medicina antica, un ruolo importante : aspetti fondamentali della terapia sono le prescrizioni alimentari, legate a elementi e teoria umorale. Nell’ambito del Corpus Hippocraticum trattano dell’alimentazione varie opere. Così in De diaeta salubri si pone l’alimentazione in rapporto a indicazioni di età, anni, caratteristiche fisiche e stato di salute. Discussioni varie sui processi nutritivi e sulla digestione sono contenute nei trattati De alimento [1] e Victus: [2] il nutrimento viene accolto nel corpo attraverso il processo della digestione e assimilato nelle diverse parti del corpo, come ossa, muscoli etc. [3] Spesso, insieme con gli alimenti, viene, attraverso i polmoni incamerata aria. [4] In Vict. 1, 34 [5] si legge che in tutte le specie viventi i maschi sono più caldi e più secchi, le femmine più umide e fredde, soprattutto perché « i maschi si sottopongono a un regime di vita più faticoso così da riscaldarsi e seccarsi, mentre le femmine sono sottoposte a regimi di vita più umidi e facili, inoltre si purificano del calore ogni mese » ; indicazioni sui cibi troviamo, ad es., sull’orzo, in Vict. 2, 40 ; [6] su trattamenti vari degli alimenti ancora in Vict. 2, 56 ; [7] consigli sulla differenziazione dei cibi, per cui agli individui di costituzione corporea piuttosto umida  













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e molle conviene seguire per lo più un regime secco, mentre agli individui di costituzione più densa, gracile e scura è utile seguire un regime piuttosto umido leggiamo in Hp. Salubr. 2. [8] Lo scritto ippocratico De diaeta in morbis acutis, tratta della corretta alimentazione nelle malattie : l’alimentazione deve essere sana, deve avere per effetto un risultato di equilibrio dei singoli umori e qualità del corpo.[9] Nel trattato De uetere medicina viene riaffermato il principio, fondato sull’esperienza, che, per l’alimentazione, gli individui malati non devono essere trattati come i sani. [10] Sulla base di diagnosi retrospettive molte specie distinte di malattie descritte nel Corpus Hippocraticum, come poi in Galeno, sono poste in rapporto con mancanza di nutrizione. In realtà, nel Corpus ritroviamo gli elementi fondamentali del pensiero medico dell’antichità classica. “L’equilibrio o lo squilibrio delle componenti il corpo umano (salute o malattia) possono essere rispettivamente conservati o ristabiliti anche attraverso un rapporto equilibrato, o comunque compensante, tra alimentazione e lavoro e/o esercizio ginnico ; l’alimentazione aggiunge, il lavoro toglie”. [11] I cibi, quando se ne conosca bene la natura e quando vengano somministrati in armonia con la natura stessa, concorrono in modo determinante a conservare o ristabilire questo equilibrio ; ma è necessario conoscere anche qualità e caratteristiche naturali dei vari alimenti (caldo, freddo, umido e secco), così come la loro digeribilità e assimilabilità : le qualità dei cibi possono essere modificate dall’uomo e dai fattori ambientali. [12] L’alimentazione ideale, mirata alla conservazione dello stato di salute, consiste soprattutto in varietà, rapporto con età, sesso, costituzione fisica, lavoro, stato di salute, adattamento con le varie stagioni dell’anno, equilibrio e moderazione ; l’alimentazione ideale del malato consiste soprattutto nel recupero dell’equilibrio perduto. Del resto già nella produzione filosofica era posta in risalto la connessione, ad es., tra alimentazione troppo abbondante e predisposizione alla malattia ; [13] al medico è attribuita competenza relativamente ad una alimentazione sana. [14] Come particolarmente sana e adeguata è ritenuta un’alimentazione di tipo spartano. [15] La medicina antica successiva a →Ippocrate è, relativamente all’alimentazione, in genere più limitata, incentrata per lo più su indicazioni di singoli cibi o semplici ;  

























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dietetica

indica alcuni principi generali per la distinzione delle qualità dei cibi e propone alcuni criteri di alimentazione particolari, in relazione a singole malattie o a fasi successive di convalescenza. Già nel i sec. a.C. è documentata la conoscenza che il consumo di cereali guastati da funghi o putrefazione può apportare epidemie ; [16] inoltre Galeno menziona il pericolo rappresentato, nel corso di malattie, dall’utilizzazione di piante selvatiche velenose. [17] L’idea di valore nutritivo in senso moderno non esiste nel mondo antico. La maggior parte della popolazione è costretta a nutrirsi di ciò che è reperibile : la popolazione antica vive ampiamente dei mezzi di nutrizione di base, con costi relativamente popolari. L’idea di contenuti nutritivi differenti di singole sostanze alimentari è attestata per la prima volta in Celso, che riprende e trasmette, come è noto, saperi, principi e dottrine di epoca ellenistica : l’enciclopedista opera una distinzione tra genus ualentissimum, media materia e imbecillissima materia, cioè tra « mezzi di alimentazione preziosi, medi, carenti »). [18] Secondo Celso è importante conoscere innanzitutto la natura del proprio corpo e adattare i cibi alla propria costituzione : l’individuo magro si deve riempire, il grasso dimagrire ; il caldo raffreddare, l’umido asciugare e così via. [19] Inoltre è opportuno tenere adeguatamente conto delle diverse stagioni dell’anno. [20] Di astinenza dal cibo e di altri trattamenti terapeutici importanti, come salassi, uso di ventose, purghe, vomito etc. si parla in altri passi. [21] Alla tradizione ippocratica si ricollega la teoria dell’alimentazione di Galeno : la nutrizione è definita come alimentazione e riscaldamento del corpo, così che la quantità di cibo assunto deve corrispondere alla traspirazione. [22] Nella sua suddivisione in mezzi di alimentazione utili e dannosi Galeno segue in parte esperienze piuttosto particolari, ad es. quando biasima l’assunzione di frutta fresca. [23] Lo scienziato di Pergamo assegna un ruolo importante ai mezzi di alimentazione di origine animale, assegnando il ruolo più alto alle carni di suino, perché sono le più affini a quelle dell’uomo. [24] Inoltre, al di fuori delle qualità dei prodotti animali, tiene conto anche di altri fattori, come di inquinamenti ambientali, ad es. di conseguenze di corsi d’acqua inquinati da scoli sui pesci. [25] È possibile provare la stretta dipendenza di alcune malattie ricorrenti da attribuire a carenza di nutrizione  































attraverso ricerche e ritrovamenti di Paleopatologia su denti e ossa. Note. [1] Alim. / 9, 98-120 L. – [2] Cioè De diaeta i, ii e iii. – [3] Alim. 7 / 9, 100 cfr. 110 L. – [4] Alim. 29 sg. ; 9, 108 L. – [5] 1, 34 / 6, 512 L. – [6] Vict. 2, 40 / 6, 536 L. – [7] Vict. 2, 56 / 6, 566 L. – [8] Hp. Salubr. 2 / 6, 74 L. – [9] Acut. / 2, 224-376 L. – [10] vm 3 / 1, 574 L. – [11] Mazzini 1997, 351. – [12] Mazzini 1997, ibid. – [13] Pl. R. 2, 14. 373d. – [14] Pl. Ion 531e. – [15] Plu. Lyc. 10. – [16] Lucr. 6, 1090-1137 ; Caes. civ. 2, 22 ; Diod. Sic. 12, 58. – [17] Diff. febr. 1, 4 / 7, 285 K. – [18] Sull’alimentazione si veda, in Cels. med. 2, 18-32 / 88-97 M. – [19] Cels. med. 1, 3, 13-14 /34 M. – [20] med. 1, 3, 34-38 / 37-38 M. – [21] Ad es. 2, 9, 2 / 77 M e 2, 18, 1-2 / 88-89 M. – [22] In Hp. alim. comm. 2, 4 / 15, 240 K. – [23] Bon. mal. suc. 1 / 6, 756 sg. K. – [24] Bon. mal. suc. 4 / 6, 778 K. – [25] Alim. fac. 3, 25 / 6, 709 K.  





Fonti. Hp. vm 3 / 1, 574 L ; Acut. / 2, 224-376 L ; Vict. 1, 34 / 6, 512 L ; Hp. Salubr. 2 / 6, 74 L ; De diaeta i / 6, 466-524 L ; ii / 6, 528-588 L ; iii / 6, 592-636 L. Alim. 9, 98-120 ; Pl. Ion 531e ; R. 2, 14. 373d.– Lucr. 6, 1090-1137 ; Caes. civ. 2, 22 ; Plu. Lyc. 10 ; Diod. sic. 12, 58 ; Cels. 1, 3, 13-14 /34 M ; 1, 3, 34-38 / 37-38 M ; 2, 9, 2 / 77 M e 2, 18, 1-2 / 88-89 M ; Cels. 2, 18-32 / 8897 M ; Gal. Alim. fac. 3, 25 / 6, 709 K ; Bon. mal. suc. 1 / 6, 756 s. K ; Bon. mal. suc. 4 / 6, 778 K ; Diff. febr. 1, 4 / 7, 285 K ; In Hp. Alim. comm. 2, 4 / 15, 240 K.  







































Bibliografia. André 1998 ; Dalby 2003 ; Lieber 1970 ; Mazzini 1997, 351-355 ; Sconocchia 1990b ; Stamatu 2005f, 270-271 ; Wilkins 1995 ; Wöhrle 1990.  













3. Gli esercizi fisici. – Come l’alimentazione accresce energie e massa corporea, l’esercizio fisico produce gli effetti contrari. Relativamente all’attività fisica c’è accordo sostanziale nelle linee di base tra le opere del Corpus Hippocraticum, la dottrina ellenistica e la successiva tradizione di età romana : la medicina di età ellenistico-romana aggiunge davvero poco ai principi guida ippocratici, limitandosi per lo più a dedicare maggiore spazio a singoli esercizi, [1] a singole applicazioni e ad abbinamenti esercizi-malattie. [2] L’esercizio fisico viene considerato, già nel Corpus Hippocraticum, come una parte della dietetica e gli viene riconosciuto il ruolo, insieme con l’alimentazione, di cura fondamentale del corpo. [3] L’attività fisica serve fondamentalmente a conservare lo stato di buona salute o, in caso di perdita di quest’ultimo, a recuperarlo : condizioni fondamentali sono gradualità, moderazione, considerazione di età, sesso, salute di chi la esercita,  







diocle di caristo equilibrio tra esercizio che, come si è detto, ‘toglie’ e alimentazione che ‘aggiunge’ ; inoltre natura specifica di ogni esercizio e funzione terapeutica finalizzata per malattie specifiche. [4] Devono essere tenuti ben presenti tempi e modalità per ginnastica ed esercizio fisico e per effetti e intensità terapeutica nelle diverse stagioni dell’anno. È da considerare anche il rapporto specifico tra abitudine graduale e costante all’esercizio fisico ed eventuali riprese violente, che sono comunque inopportune e da evitare. [5] Gli esercizi presi in considerazione nei trattati del Corpus Hippocraticum riguardano soprattutto le classi più agiate, alle quali la dietetica è per lo più rivolta. Si suddividono in esercizi naturali, come ad es. quelli relativi a vista, udito, voce, pensiero, passeggiate (che hanno tuttavia, più di altri esercizi, qualcosa di faticoso e di cui sono indicate caratteristiche e opportunità) [6] ed esercizi violenti, come lotta, pugilato, cavalcate etc. L’attività fisica rappresenta un elemento terapeutico importante per singole malattie o affezioni, [7] così come per la convalescenza. [8] Filosofi e medici criticano tuttavia l’eccesso di attività fisica : [9] questa deve restare comunque entro limiti moderati e opportuni. [10] Gli esercizi fisici erano seguiti per lo più dal paidotribes o gymnastes (da gr. gymnós, in quanto la ginnastica era praticata ‘a corpo nudo’). Talvolta si ingenerano contrasti tra paidotribes e medico. [11] Questo è attestato da →Erodico di Selimbria ed è confermato da →Galeno; [12] →Celso riprende in pratica le posizioni della medicina ellenistica. L’enciclopedista attribuisce grande importanza all’esercizio fisico, soprattutto per chi è legato a una vita sedentaria : l’attività fisica deve precedere il cibo ed essere proporzionata al grado di necessità e stanchezza dell’interessato ; deve inoltre aver termine quando sopraggiungono stanchezza o sudore, senza che si raggiunga la soglia dell’affaticamento. Costituiscono esercizio valido e adeguato la lettura (a voce alta), i duelli, il gioco della palla, le passeggiate, possibilmente effettuate a cielo aperto e in luoghi non del tutto pianeggianti, ma con qualche salita e discesa, al sole piuttosto che all’ombra (e che questa sia, in ogni caso, naturale), la corsa : all’esercizio fisico con movimento dovranno seguire ora unzioni ora bagni. [13] Galeno è autore di un trattato sul giuoco della palla [14] ; il giuoco deve procurare divertimento al corpo ma anche sollievo e distrazione all’anima : [15]  





























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quanto alla ‘palla’, dalla descrizione di Galeno si evince che doveva trattarsi di una palla simile alla moderna ‘palla da rugby’ o ‘da volley’. L’attività fisica non deve essere comunque eccessiva, perché in questo caso procurerebbe danni. [16] Anche per Galeno l’esercizio fisico deve precedere l’assunzione di cibo.  

Note. [1] Si veda infra la trattazione su Galeno, ad es. Paru. pil. – [2] Cfr. Mazzini 1997, 356. – [3] Hp. Vict. 1, 2 / 6, 468-472 L. ; Orib. Coll. Inc. 40 (cfr. Diocl. fr. 141 Wellmann) ; Gal. San. tu. 2, 8 / 6, 135 K. – [4] Mazzini 1997, 355. – [5] Hp. Acut. 12 / 2, 318 sgg. L. – [6] Hp. Vict. 2, 61-63 / 6, 574-580 L. – [7] Hp. Epid. 6, 1, 5 / 5, 268 L ; Morb. 2, 55 / 7, 86 L ; Anon. Paris. 26, 3, 4 ; Cael. Aur. acut. 1, 9, 78 ; chron. 3, 5, 70. – [8] Hp. Acut. 29 / 2, 516 L. – [9] Cfr. ad es. Pl. R. 3, 404 a-b ; Xen. Smp. 2, 17 ; più tardi Cels. med. 1, 1, 3 / 30 M). – [10] Hp. Aph. 1, 3 / 4, 458 sg. L ; Pl. R. 3, 401d. – [11] Pl. Smp. 186e ; Gorg. 464b. – [12] Thras. 5, 806-898 K. e passim ; cfr. Stamatu / Van Hooff 2005, 370. – [13] Cels. med. 1, 2, 5-7 /31 M. – [14] Paru. pil. / 5, 899-910 K. – [15] Paru. pil. 1 / 5, 899-900 K. – [16] Protr. 9 ; 11 / 1, 20 sg. ; 30 K.  

























Fonti. Hp. Acut. 12 / 2, 318 sgg. L ; 29 / 2, 516 L ; Aph. 1, 3 / 4, 458 s. L ; Epid. 6, 1, 5 / 5, 268 L ; Vict. cioè De diaeta i, ii, iii e iv ; Vict. 1, 2 / 6, 468-472 L ; Hp. Vict. 2, 61-63 / 6, 574-580 L Morb. 2, 55 / 7, 86 L. ; Pl. Grg. 464b ; R. 3, 401d ; R. 3, 404 a-b ; Smp. 186e ; Xen. Smp. 2, 17 ; Cels. 1, 1, 3 / 30 M ; 1, 2, 5-7 /31 M ; 2, 15 / 85-86 M; Anon. Paris. 26, 3, 4 ; Gal. Protr. 9, 3 ; 11, 9 / 1, 20 s. ; 30 K ; Gal. Thras. / 5, 806-898 K e passim ; Paru. pil. / 5, 899-910 K ; San. tu. 2, 8 / 6, 135 K ; Cael. Aur. acut. 1, 9, 78 ; chron. 3, 5, 70 ; Orib. coll. Inc. 40 (cfr. Diocl. fr. 141 Wellmann).  









   

































Bibliografia. Baltrusch 1997 ; Brophy-O’ Relly Brophy 1989, 156-165 ; Decker 2001 ; Jüthner 1012 ; Mazzini 1997, 355-358 ; Schlange-Schöningen 2003, 129-131 ; von Staden 1989 ; StamatuVan Hooff 2005.  













Sergio Sconocchia Diocle di Caristo. Della vita di questo autore sappiamo pochissimo, sebbene la tradizione ce lo descriva come una personalità straordinaria. Figlio di Archidamo, fu considerato un secondo Ippocrate [→Ippocrate di Cos] e la sua attività va collocata verso la metà del iv sec. a.C. Della sua opera conosciamo soltanto frammenti, rimastici grazie alle citazioni di autori posteriori, sia greci che latini, come per esempio →Celso, →Sorano di Efeso, →Galeno e →Oribasio, i quali attestano la grande notorietà di cui godette fino al tardoantico. I suoi interessi scientifici furono estre-

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diofanto

mamente vari, come la sua produzione, che spaziava dalla →anatomia alla →fisiologia, dalla→dietetica alla →chirurgia. Si distinse inoltre come esperto ginecologo [→ginecologia] e inventore di rimedi [→terapeutica] per varie patologie [→patologia]. Descrisse e studiò fenomeni quali la respirazione [→polmoni] e la digestione [→stomaco], su cui scrisse un trattato, come ci informa l’Anonimo Parigino. [1] A suo nome ci è stata tramandata per via indiretta una lettera [→epistolografia (medica)] destinata al re Antigono, la cui autenticità è controversa. [2]  



Note. [1] Vd. Garofalo 1997, 11, 1, 2. – [2] Vd. Sconocchia 1998c. Bibliografia. Garofalo 1997 ; Leven 2005g ; Nutton 1997h ; Sconocchia 1998c ; Van der Eijk 2000-2001.  







Francesco Fiorucci Diofanto [iii sec. d.C.]. Protagonista indiscusso di una nuova fase del pensiero matematico è Diofanto di Alessandria, studioso che contribuì in modo decisivo allo sviluppo dell’→aritmetica e dell’algebra in età ellenistica. Le scarsissime tracce a proposito della sua vita rendono difficile qualsiasi accurata ricostruzione della sua biografia. Nonostante l’importanza dei risultati conseguiti, la sua opera rimase per lungo tempo in oblio, precludendo così ai suoi successori la possibilità di avvalersi dei progressi che lo studioso aveva raggiunto. I numerosi trattati composti da D. sono stati smarriti e la nostra conoscenza della sua opera si basa essenzialmente su alcuni manoscritti che permettono di avere un quadro abbastanza verosimile del complesso delle sue ricerche. Oltre ad uno scritto Sui numeri poligonali, i cui risultati tuttavia non sono particolarmente significativi, possediamo sei dei tredici libri dell’Arithmetica, la principale opera di D., preservata in alcuni manoscritti. L’Arithmetica si compone di una serie di circa 150 problemi e, secondo quanto contenuto nella dedica, si propone come manuale per l’apprendimento della disciplina da parte di uno degli allievi di D. Al di là dell’intento prevalentemente didattico, l’opera mette in evidenza l’originale approccio adottato dallo studioso nella soluzione di questioni afferenti all’aritmetica e all’algebra. Sembra indubitabile che l’aspetto più significativo sia l’introduzione del simbolismo nell’algebra, sebbene sia difficile

stabile quale sia lo stadio effettivo del nuovo linguaggio adottato da D. La relativa posteriorità del manoscritto pervenuto potrebbe lasciare supporre infatti interpolazioni del testo originale al fine di garantire maggiore uniformità tra la simbologia adottata nell’opera e il bagaglio di nozioni effettivamente disponibile agli studiosi dell’epoca. Possiamo allora solo ipotizzare che D. adoperasse la lettera ~ dell’alfabeto greco per indicare ‘il numero del problema’, vale a dire l’incognita, attualmente rappresentata dal simbolo x. L’odierna x² era inoltre indicata con il simbolo DÁ, poiché è la prima lettera della parola duvnami~. Allo stesso modo x³ corrispondeva a KÁ, in quanto prima lettera di kuvbo~. Nonostante alcuni svantaggi nell’adozione di una simbologia certamente meno intuitiva rispetto a quella attualmente in uso, è indubitabile che l’introduzione delle lettere per identificare le incognite ponesse le basi per un nuovo sviluppo dell’algebra. L’adozione di potenze superiori al cubo documenta inoltre un decisivo superamento della riluttanza tipica del mondo greco classico nella trattazione di quantità algebriche non aventi alcun corrispettivo geometrico. L’approccio di D. mira al contrario a scindere il residuale legame arcaico tra algebra e geometria e conseguentemente a legittimare un’impostazione autonoma nella trattazione delle grandezze numeriche. Congiuntamente la logistica, relegata nella matematica classica ad un livello inferiore rispetto all’aritmetica, trova legittimazione e spazio all’interno dell’opera diofantea. Potenze superiori al cubo potevano essere studiate in un ambito esclusivamente aritmetico, senza alcun rimando di tipo geometrico. Allo stesso modo le singole operazioni algebriche, quali addizione, sottrazione, moltiplicazione e divisione, corrispondevano a specifici simboli o a determinate posizioni tra i numeri. Questo aspetto rende solo apparentemente compatibile l’algebra di D. con i ragguardevoli risultati raggiunti nello stesso ambito da parte dei Babilonesi. In realtà D. inscrive l’indagine sulle equazioni in un ambito puramente teorico, dal momento che ciascun numero non porta con sé il riferimento ad una grandezza concreta intesa come unità monetaria, appezzamento terriero o quantitativo di grano, ma si presenta come entità puramente astratta. Inoltre D. nello svolgimento delle equazioni antepone la ricerca di soluzioni razio-

dioscuride/dioscoride nali, espresse da numeri esatti, ad approssimazioni formulate con numeri irrazionali, di cui al contrario si accontentavano i Babilonesi. Il contenuto dei libri dell’Arithmetica può essere sinteticamente identificato nell’esposizione di problemi, la cui soluzione conduce alla costruzione di equazioni determinate o indeterminate, di primo o secondo grado con una o più incognite. A titolo di esempio del procedimento adottato da D. si possono richiamare il problema 8 del libro I, che richiede di dividere un dato numero quadrato in due numeri quadrati, e il problema 9 del libro ii, riguardante la divisione in due quadrati di un numero generato dalla somma di due quadrati, e infine il problema 6 del libro iii che propone di trovare tre numeri la cui somma e la somma di due di essi dia un quadrato. Si compie così in modo definitivo il superamento di uno stadio retorico o primitivo dell’algebra, in cui non ci si avvaleva di simboli o espedienti linguistici, a favore dello stadio sincopato o intermedio, caratterizzato dall’introduzione di alcune abbreviazioni. Le equazioni sono a loro volta affrontate mediante la progressiva eliminazione delle incognite, fino a giungere nella maggior parte dei casi alla identificazione del valore numerico pertinente. L’originalità dello studioso emerge tuttavia nell’esame delle equazioni indeterminate, affrontate in modo completo e coerente al punto da fare luce su questo settore dell’algebra, successivamente denominato analisi diofantea, in onore al contributo che l’alessandrino fornì nella fondazione di tale branca. L’Arithmetica tuttavia si presenta come una collezione di problemi slegati tra loro e non ambisce a fornire una trattazione sistematica dell’algebra a partire da assiomi e postulati secondo lo stile euclideo. Sebbene l’opera metta in evidenza l’ingegno di D. nella ricerca delle incognite, essa non mira ad enucleare il complesso dei problemi emergenti nello svolgimento di ciascuna equazione, ma spesso tralascia l’approfondimento di alcuni aspetti non direttamente pertinenti alla soluzione del quesito in esame. D. ammette solo radici razionali positive, trascurando tutte le rimanenti, e nella ricerca delle radici di equazioni di secondo grado si accontenta di fornirne solo una. Egli respinge addirittura come non risolvibili le equazioni la cui soluzione comporta radici negative od immaginarie. La riluttanza verso approssimazioni o valori

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negativi caratterizza l’opera di D. come un saggio di algebra pura. L’Arithmetica di D. mostra pertanto un approccio marcatamente operativo, volto cioè alla concreta soluzione del problema di volta in volta preso in esame, e tralascia l’elaborazione di un metodo teorico, in grado di porsi come strumento conoscitivo generale nell’analisi delle equazioni indeterminate. La molteplicità di procedimenti adottati nella soluzione delle equazioni se da un lato documenta la fecondità del genio di D., dall’altro testimonia l’assenza di un approccio generale. D. colleziona una serie di problemi senza preoccuparsi di fornirne una classificazione che permetta almeno di riconoscere una analogia tra i differenti casi al fine di esibire le differenti tipologie. Si tratta di un aspetto che pone l’indagine di D. in contrasto con l’ambizione alla generalizzazione, tratto distintivo della matematica greca. La ricerca di soluzioni corrette non si accompagna alla delineazione di modelli astratti. Manca dunque nell’opera di D. la definizione di uno schema assiomatico e deduttivo, in cui inserire e organizzare sistematicamente le nozioni afferenti all’algebra indeterminata. Al contrario si preferisce un approccio induttivo, volto alla soluzione del problema concreto, senza la ricerca, pur sempre possibile, di una connessione tra i metodi adottati allo scopo di fornire una schematizzazione. Resta infine un problema di storia della scienza: il chiarimento del ruolo di D. nell’ambito degli sviluppi dell’algebra antica. Nonostante sia innegabile il contributo apportato nella soluzione delle equazioni determinate ed indeterminate, la scarsità dei documenti a nostra disposizione non permette di ricostruire in modo lineare una possibile evoluzione dell’algebra greca. A causa dell’assenza delle tracce relative ai suoi predecessori Diofanto rischia di apparire come una figura sostanzialmente autonoma nel complesso della matematica ellenistica. Edizioni. Tannery 1893-1895. Bibliografia. Boyer 1989 ; Heath 1921 ; Heath 1964 ; Klein 1968 ; Mugler 1958-1959.  







Piero Tarantino Dioscuride/Dioscoride. 1. – Al cilicio Dioscuride di Anazarbo, medico militare sotto Claudio e Nerone, si devono i fondamenti della farmacologia non solo antica : il suo de  

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diritto

materia medica rappresentò, come la Naturalis Historia del contemporaneo Plinio, il testo di riferimento di tutto il Rinascimento occidentale e della tradizione araba. Scrisse in greco, ma come Plinio corredò l’opera di agili pinakes, la dedicò a un Augustus, utilizzò una molteplicità di fonti (comune a Plinio, ad esempio, →Crateva), tripartì l’esposizione dei suoi 5 libri in base ai regni vegetale, animale e minerale, descrivendo alcuni farmaci non solo con scientifica precisione, ma quale più antico testimone noto del rimedio. Sembra certa l’attribuzione a Dioscoride dei 2 libri di Simplicia, ma non di altre opere Sui veleni (edite come →pseudo dioscuride). Nella ricca tradizione manoscritta, pregevolissime le illustrazioni, note già ai tempi dell’autore. 2. Pseudo-Dioscuride. – A Dioscuride sono attribuite varie opere, tra cui due libri Perì deleterión pharmákon e Perì iobólon (Sui dardi velenosi), ormai universalmente note come pseudodioscuridee. Bibliografia. Mazzini 1997, 46-48 ; Mazzini 1988 ; Riddle 1985 ; Sconocchia 2002a, 348-349, 360 ; Touwaide 1997, 255-282 ; Touwaide 2000a, 462-465 ; Stamatu 2005z, 227-229.  











Daria Crismani Diritto [novmo~, ius]. 1. Considerazioni introduttive. – Lo studio della “formazione della coscienza giuridica e delle sue concrete espressioni” [1] si avvale della cosiddetta giurisprudenza etnologica per condurre indagini sull’organizzazione sociale e, dunque, in termini sociologici, su modelli di comportamento sanzionati, rispondenti al tipo ‘tradizioni, usi, costumi, prassi, leggi’. Si può dire che economie primitive, di raccolta e di caccia, di pastorizia e di agricoltura, producono man mano esigenze maggiori di coesistenza e di assetto collettivo, forme di organizzazione in cui si riscontra, in rapporto con la necessità della sanzione, il formarsi di una solidarietà di gruppo e di un potere. La sanzione si attua nella vendetta di sangue, si attenua con la legge del taglione e ancor più con la composizione della offesa, dapprima convenzionale, poi imposta dall’ordinamento (un esempio di ciò nella norma della legge delle xii tavole : Si membrum rupsit, ni cum eo pacit, talio esto). Tutto ciò, usi, costumi, norme, istituti, termini successivi dell’esistenza del fenomeno giuridico, difficilmente distinguibile  

dapprima dal vincolo religioso, comunque esso abbia a manifestarsi, trova espressione nel linguaggio, anche in un linguaggio che si voglia considerare muto. L’esperienza greca ne è un esempio, anche se un d. ‘greco’ nel senso di un ordinamento giuridico unitario non si è storicamente avuto. L’espressione è però valida se, come si è efficacemente detto, con essa si vuol intendere un insieme di sistemi giuridici appartenenti all’ambito culturale e linguistico greco, caratterizzati da tipiche affinità di istituti, metodi processuali, principi organizzativi e dogmatici. [2] In effetti non a caso si parla spesso di d. attico, non di d. ellenico, perché imponente è la sproporzione tra la documentazione epigrafica e letteraria disponibile per la polis di Atene e per tutto il resto dell’ecumene ellenica. Questo dato primario ci ricorda immediatamente che un deficit di conoscenze grava pesantemente su un’esperienza giuridica che, per essere fortemente condizionata dal localismo, almeno in teoria avrebbe potuto offrire uno spaccato fascinoso di modalità diverse di rispondere a problemi ricorrenti prima che la città di Atene si potesse affermare come modello e punto di riferimento sempre più accettato come tale. Sempre in tema di preliminari, osserviamo che l’esperienza giuridica greca può ben dirsi in larga misura autoctona per via di una organizzazione sociale per la quale già all’epoca erano disponibili solo dei termini di paragone decisamente remoti (e, per noi, terribilmente opachi). Infatti delle popolazioni con le quali più frequenti furono i contatti, di due aree – Egitto e Persia – sappiamo che furono caratterizzate da un centralismo così solido e affermato da scoraggiare in partenza ogni possibile comparazione, mentre sul conto di altre aree (come i territori fenici, etruschi e di altre etnie nelle quali non si manifestarono forme particolarmente alte di accentramento imperialistico del potere) soffriamo di drammatiche carenze conoscitive. D’altra parte la cultura giuridica ellenica tende molto al localismo in quanto si sviluppa nel momento in cui si fa qualcosa di cui usufruire anzitutto hic et nunc (salvo poi a darsi delle regole), e stiamo parlando di una società che ha tenacemente adottato come punto di partenza la piena autonomia di tante piccole aree territoriali e urbane. Quanto ai singoli ordinamenti giuridici, un posto a parte spetta alla spettacolare iscrizione rinvenuta nel 1884 a Gortyna, nell’isola di Creta. Si tratta  

diritto di un testo continuo, inciso sulle pareti di un muro circolare e databile al 450 a.C. circa, in cui trova posto la parte della legislazione locale che disciplina i delitti sessuali (in particolare l’adulterio), il d. di famiglia e il d. di successione. Il confronto tra le norme del d. di Gortyna e le norme del d. attico dà conto della preesistenza a quest’ultimo di norme appartenenti appunto al d. comune greco. Si ammette per esempio la donna alla successione legittima ; le si concede la capacità di amministrare i propri beni e di disporne ; si vieta la donazione tra coniugi ; si regola diversamente l’adozione, etc.[3] Si tratta in sostanza di situazioni tutte indicative di una fase del d. in cui ancora non si è affermata una forte compagine statale. In effetti, dall’viii secolo a.C. in poi si svolge in tutto il mondo greco un movimento codificatorio e comunque di stabilizzazione delle norme in forma legislativa. [4] Tale consolidamento viene attribuito ovunque a nomoteti più o meno leggendari : Licurgo a Sparta, Zaleuco (vii sec. a.C.) a Locri e Thurii, Caronda (vi sec. a.C.) a Catania, Draconte (624 a.C. ca.) e Solone (594 a.C.) ad Atene. Il carattere comune che viene in evidenza è la sovranità della legge, la quale in via di principio non è derogabile per ragioni di equità. I principi che ora vengono enunciati si riferiscono al cittadino, che solo in tale sua qualità può godere dei diritti che gli derivano dalla propria posizione nell’ambito del d. familiare (incentrato sull’oikos, casa : entità comprendente persone, beni e riti) e per il tramite della quale si entra a far parte delle fratrie e quindi della polis. Spetta al capo della casa il potere di disposizione sul patrimonio. La successione si opera anzitutto nei confronti della discendenza maschile legittima o dell’adottato, fino a che non divenga maggiorenne e cittadino il figlio della eventuale donna appartenente all’oikos ed erede dello stesso ; resta salva la possibilità per l’adottato di sposare egli stesso la donna erede. La successione testamentaria appare relativamente tardi, ma già a partire da Solone si ha la possibilità, per chi non avesse figli, di designare un successore al quale affidare la casa e la potestà sulle figlie. Si sviluppano poi a poco a poco altre forme di attribuzione (legati, fondazioni, sostituzioni, etc.). L’istituto tutelare conosce, accanto al tutore testamentario, la chiamata all’ufficio per chi sia vincolato al pupillo dalla parentela di sangue. Il  













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regime giuridico delle cose non conosce un rapporto reale simile al dominium del diritto romano. Il rapporto di appartenenza dei beni è piuttosto dato dal potere sulla cosa e da un potere di disposizione di essa ; non si giunge fino al punto di riconoscere effettive azioni di rivendicazione e neppure azioni possessorie : la controversia sull’appartenenza avviene infatti su ciò che si può definire una prevalenza di d., un maggior d. a ritenere o ottenere il bene in questione. Quanto ai modi di acquisto di tale posizione giuridica nei confronti delle cose, oltre a quelli a titolo originario, si ha l’atto di disposizione da parte di chi vi sia legittimato ; non si conosce l’istituto della usucapione. Di grande importanza, anche ai fini della stabilità dei rapporti di appartenenza, sono le forme di pubblicità, ad esempio attraverso la testimonianza dei vicini o, materialmente, tramite l’apposizione di cippi (horoi). I rapporti obbligatori possono essere ricondotti, secondo la distinzione aristotelica, ad una attività volontaria (hekousion synallagma) o ad una attività involontaria (akousion synallagma), nascente, cioè, qui, dall’illecito. Per costituire una valida obbligazione del primo tipo (cioè contrattuale) occorrono naturalmente il consenso e la capacità delle parti, un oggetto idoneo e una causa lecita e plausibile di nascita del vincolo obbligatorio. La responsabilità per l’inadempienza si ricollega al danneggiamento che sia stato provocato nel patrimonio del creditore per effetto della mancata prestazione. La valutazione del danno normalmente è predeterminata all’inadempimento attraverso una sorta di pena convenzionale. Il d. attico conosce alcune forme negoziali tipiche, quali la vendita, tipi di locazione-conduzione, prestiti di denaro ad interesse, etc. Forme di garanzia sono la garanzia personale, molto antica e di grandissima importanza sia nelle sue applicazioni processuali sia come garanzia di particolari impegni contrattuali, e il pegno, in varie forme. Per quel che riguarda la disciplina giuridica dell’illecito, vengono puniti con particolari procedure il danneggiamento in molteplici forme, il furto, l’omicidio, l’ingiuria. In particolare l’omicidio viene distinto in volontario e involontario, punito il primo con la morte (a cui ci si può sottrarre esercitando l’esilio), con l’esilio e senza confisca dei beni il secondo. Si vieta ai privati di realizzare la vendetta di sangue nei  





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confronti dell’omicida che si sia esiliato. Nella sfera del d. propriamente criminale (cioè penale pubblico) rientrano invece i delitti di alto tradimento e in genere quelli consistenti in comportamenti lesivi della religione e degli interessi della collettività. Giuliano Crifò 2. L’Atene classica. 2.1. Generalità. – Nel caso particolare dell’Attica e del periodo posteriore al vi secolo a.C., [5] tre fattori mettono da sempre gli studiosi in condizione di farsi un’idea piuttosto precisa dell’ordinamento espresso da quella polis. Si tratta della disponibilità, specialmente per l’Attica di v e iv secolo a.C., di una vasta ed eloquente documentazione epigrafica sul conto di innumerevoli atti pubblici e di un certo numero di atti privati che furono oggetto di trascrizione su pietra ; della frequenza con cui passaggi significativi della vita pubblica e della vita dei tribunali furono oggetto di rappresentazione a teatro e di discorsi pronunciati in assemblea (o in tribunale) che vennero trascritti, talora accomodati e comunque resi di pubblico dominio, tanto da arrivare in parte fino a noi ; della formazione di una letteratura giuridica, certo un po’ sui generis, ma senza alcun dubbio molto abbondante anche se pervenuta solo in minima parte. I tre ambiti si integrano del tutto naturalmente, permettono eccellenti riscontri e quindi hanno attitudine a porre rimedio almeno a un certo numero di comprensibili lacune nella documentazione primaria. È in particolare il formarsi di una specifica professionalità, e quindi di una cultura di settore, che si presta a essere osservata da una molteplicità di angolazioni diverse. Ha senso perciò provare a individuare, per esempio, tipi diversi di professionisti e di professionalità. A questo riguardo sarà anzi prudente ricordare che a rappresentare la cultura giuridica attica per mezzo di testi professionali raramente provvidero, all’epoca, i massimi professionisti ateniesi (o greci) del d., almeno nel senso in cui tali possono e debbono ritenersi, ai nostri giorni, i nostri politici, notai, giudici, avvocati, alti funzionari e professori di materie giuridiche. Nell’antica Roma, per esempio, a partire dai tempi di Appio Claudio (attivo prima del 300 a.C.) e di Sesto Elio Peto Cato (che fu console nel 198 a.C.) per arrivare fino alla commissione presieduta da Triboniano e costi 





tuitasi nel 530 d.C., dunque lungo un arco di oltre otto cruciali secoli di storia, il campo del d. è stato sempre fermamente occupato da una categoria di maestri assai caratterizzata, che si è assunta una volta per tutte il compito della ‘rappresentazione’ scritta del migliore sapere giuridico. Si può anzi aggiungere, sia pure con le necessarie limitazioni, che alla produzione di testi giuridici si è sempre dedicata una particolare categoria pur in presenza di altre figure ricorrenti che pure seppero raggiungere livelli alti di professionalità giuridica. Ma per quanto riguarda le poleis greche, o almeno Atene, la situazione ci si presenta con connotazioni che non potrebbero differire di più. A fungere da formatori delle nuove leve di esperti furono per lungo tempo i Sofisti e poi i retori, i quali operarono di norma come privati, non scrissero trattati di d. e tutt’al più operarono da consulenti nella fase di predisposizione di nuovi nomoi e psēphismata. Già questa costituisce una anomalia di primissimo ordine. Un’altra anomalia peculiare è che a scriverne ex professo furono invece, e paradossalmente, degli intellettuali – anzitutto →Platone, →Aristotele, →Teofrasto –, che furono e sono considerati filosofi, dunque figure che in altri contesti sarebbe del tutto normale relegare tra i non-specialisti, tra i non-professionisti del d., forse al pari degli autori di teatro. Possiamo ricordare inoltre il totale silenzio dei grammateis che ad Atene si alternarono nella gestione della segreteria di boulē, collegio degli arconti e altri organismi non necessariamente meritevoli di essere etichettati come secondari, in quanto di nessuno di costoro si sa che scrissero libri o opuscoli, o che svolsero una qualche funzione docente malgrado sia inimmaginabile che non ci fosse una trasmissione di fatto delle competenze da grammateus a grammateus. Un tratto peculiare dell’esperienza giuridica di lingua greca sembra dunque essere costituito dalla speciale difficoltà in cui ci si imbatte allorché ci si propone di individuare i detentori delle competenze di punta, i maestri, i grandi professionisti sui quali poté verosimilmente incombere la responsabilità e il merito delle acquisizioni più significative. La specificità del quadro di riferimento che contraddistingue l’esperienza giuridica attica è insomma tale da alimentare un dubbio perfino sul tipo di competenze che bisognerebbe mettere in campo per poterne rendere conto al meglio. Per chi abbia una for-

diritto mazione prettamente romanistica, per esempio, è virtualmente impossibile non accostare l’esperienza giuridica greca alla maniera di Hans-Julius Wolff, lasciarsi cioè colpire dalla supposta constatazione che “Mai i greci tentarono di penetrare i presupposti, l’essenza o le implicazioni delle loro istituzioni. Non fu mai scritta una sola opera che tentasse di enucleare le conseguenze pratiche di quelle istituzioni servendosi di un metodo per lo studio della casistica (a case method) analogo a quello dei romani”. [6] Oppure osservare con il Jones che, “despite a number of books under the title Novmoi or Novmima”, ad Atene si pubblicarono “few if any legal textbook treating the law professionally and systematically. … It was only with the Roman conquest that the law became the subject of professional instruction and training”. [7] Oppure affermare, con il Biscardi, che l’Atene classica non ha conosciuto una “letteratura tecnico-giu­ri­dica” bensì soltanto “opere che ci hanno tramandato il risultato di studi sulle costituzioni e sulle leggi greche” come l’Athenaion politeia aristotelica, l’omonima operetta pseudo-senofon­tea, qualche tessera della Politica di Aristotele e “opere filosofico-giuridiche” come le Leggi platoniche. [8] Il problema nasce quando si consideri che la rilevazione di ciò che i Greci forse non furono capaci di fare, assolve al suo compito di orientamento solo se la si combina con la parallela rilevazione dei filoni che altri popoli, altre società (per esempio la Roma imperiale) non seppero coltivare, perché altrimenti rischia di trasformarsi in un giudizio di valore in base al quale approvare un modo di accostarsi al d. e disapprovarne un altro addirittura a priori. 2.2. Le competenze connesse alla produzione di documenti. – Nella cornice appena abbozzata si giustifica dunque una certa attenzione per la produzione di decreti consegnati alla pietra quando si consideri che quei decreti sono espressione di una professionalità spiccata e di una esibizione pubblica di tale professionalità, della domanda e dell’offerta di competenze specifiche nella preparazione e messa a punto dei documenti che poi venivano archiviati, utilizzati e, non di rado, sottoposti a trascrizione su pietra. Un cenno, per cominciare, sulla fase iniziale della legislazione nell’ecumene greca. Una prudente riflessione sulle evidenze disponibili, da Omero in poi, permette di affermare  





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che “procedure formali per la gestione delle controversie erano ben stabilite prima dell’introduzione della scrittura, intorno alla metà dell’ottavo secolo”, che “le città greche cominciarono a mettere per iscritto delle leggi intorno alla metà del settimo secolo” e che “intorno alla fine del sesto secolo molte città – forse un centinaio – avevano già qualche legge scritta”. [9] Si può ben dire, pertanto, che l’ecumene greca fu assai precoce nell’elaborare una netta propensione allo sviluppo di norme, di procedure e quindi anche di una specifica cultura giuridica. Se ci riferiamo poi all’Atene democratica (dal 465 circa in poi), gli indizi sul carattere cogestito, regolamentato, tipizzato della vita pubblica si moltiplicano. Per quasi duecen­ to gior­ni all’anno furono all’opera, si ritiene, non meno di mille o millecinquecento giudici popolari, e talvolta ne vennero convocati anche molti di più ; a sua volta la Boulé coin­ volgeva ben cinquecento cittadini ogni anno, e solo nel iv secolo il divieto di rielezione all’ufficio di buleuta venne mitigato consentendo una seconda designazione non consecutiva nel corso di una vita. [10] Era inoltre prevista la designazione di sostituti per ovviare sia all’eventuale bocciatura del candidato in sede di docimasia, sia all’eventualità di un decesso o di altro impedimento irreversibile nel corso del mandato. Ma c’erano anche molte altre fun­ zioni pubbliche af­fi date ad organi collegia­li che, almeno nel iv secolo, finirono per coinvolgere, si stima, circa settecento persone, [11] peraltro senza considerare gli assistenti e segretari, variamente denominati, che prestavano servizio con nomina annuale presso molti di questi organi spesso collegiali che, a loro volta, si rinnovavano puntualmente ogni anno, con articola­te procedure di sorteggio, votazione, docimasia e rendiconti. [12] Questa società conobbe, in pari tempo, una imponente produ­ zione di documenti affidati a supporti materiali più o meno durevoli : la pietra e molto più raramente il bronzo, inoltre il cuoio, le tavolette di legno e, si presume, anche dei materiali scrittorii più labili, specialmente nel caso dei ‘verbali’ dei vari atti. Ricordiamone alcuni tra i molti tipi. (a) Allo scopo di procedere alla formale statuizione di leggi e decreti [13] prendeva forma un articolato iter procedurale : approntamento delle proposte da portare in discussione, di nuove stesure che tenessero conto di  













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eventuali emendamenti (in tal caso la loro redazione era affidata ad una commissione di estensori : i syngrapheis), di stesure semi-definitive che, approvate dalla Boulē, acquisivano lo status di disegno di legge (probouleuma) su cui si sarebbe poi dovuta pronunciare l’Ecclēsìa, e infine delle stesure definitivamente approvate, all’occorrenza sottoposte a una ulteriore messa a punto sul piano formale col concorso dell’epistates della Boulē e dei suoi collaboratori, e pronte per la trascrizione su pietra, infine eventuali copie ad uso di ambasciatori, strateghi, arconti e privati, ovvero copie su pietra da esporre al pubblico ad Atene e/o in altre città. [14] Questi documenti dovevano per forza di cose attenersi a uno standard non troppo generico, sia per quanto riguarda il suo impianto e la formulazione delle premesse (edoxen tēi boulēi kai tōi dēmōi... eprytaneue... egrammateue... epestateue... erke... eipe…), sia per quanto riguarda le convenzioni da usare nella formulazione del dispositivo, sia per l’eventuale decisione di riprodurre la delibera su pietra e l’indicazione di chi era autorizzato a sostenerne le spese. Erano quindi tali da richiedere che li si formulasse secondo moduli riconoscibili e noti solo a una minoranza. (b) Il sistema comportava anche la produzione di molti tipi di note scritte corrispondenti ai nostri ‘verbali’, note che non ci sono pervenute in quanto per il loro allestimento era normale usare supporti materiali di basso costo, ma anche di più difficile conservazione. Rientravano in questa categoria di documenti le liste di coloro che si erano appena candidati a cariche assegnate per sorteggio, il verbale del sorteggio con menzione di chi ad esso aveva presieduto e annotazione dei sorteggiati, così come dei loro eventuali sostituti (nel caso della designazione dei buleuti, ognuno dei 139 demi provvedeva a redigere una sua lista) ; inoltre i ‘verbali’ relativi alle nomine di carattere elettivo, con menzione dell’ufficio di presidenza, elenco dei candidati, esito delle votazioni e annotazione dell’esito della docimasia, nonché, si può presumere, dichiarazione di nomina dei segretari. (c) Parliamo ora dei documenti contabili tenuti dai vari collegi di tesorieri (tamiai) e da molti altri titolari di funzioni pubbliche che, terminato l’anno di sevizio, dovevano essere sottoposti al controllo di euthunoi e logistai. Essi includevano le attestazioni relative ai versamenti effettuati dal tesoro di Atena (che non di rado veni 





vano trascritti anche su pietra), i rapporti relativi all’esecuzione di particolari opere pubbliche, [15] la ‘corrispondenza’ con le città tenute a versare dei tributi annuali (vd. più avanti a proposito dei sigilli) e i prospetti annuali delle entrate e delle uscite, anch’essi da sottoporre all’esame dei logisti. [16] Alla gestione delle entrate e delle uscite erano del resto associati anche molti altri tipi di documenti, tra cui le liste degli invalidi (che ricevono del denaro dalla polis, vengono sottoposti ad apposita docimasia e, al tempo stesso, esclusi dalla possibilità di assolvere a funzioni pubbliche : cfr. Lys. 24, 13), i sobri dossiers relativi alle somme versate agli orfani di guerra, le raccolte di dati relativi alla consistenza del patrimonio di determinate categorie di cittadini (apographai), le liste di persone indebitate verso lo stato con indicazione dei relativi importi e della causale (in materia vd. spec. Lys. 9, 3, 7, 11 sg.), l’ordine scritto che i proedri trasmettevano agli esattori con l’incarico di riscuotere determinate multe (cfr. e.g. Aeschin. 1, 35 : sesto decennio del iv secolo) e i documenti relativi alle confische, con descrizione dei beni e stima del loro valore (vd., ad es., Lys. 17, 4 e 7), oltre che menzione della sentenza che prescriveva la confisca e della persona che aveva avuto l’incarico di renderla esecutiva. La loro importanza derivava dalla possibilità di aprire un contenzioso : si pensi alla vertenza sulle presunte sovvenzioni ‘gonfiate’ nel caso delle somme accordate a Fidia per realizzare alcune delle sue più celebri statue. [17] (d) A sua volta l’amministrazione della giustizia comportava che i privati redigessero le graphai da affiggere nell’agora così come gli enklēmata da presentare all’arconte per poter iniziare una vertenza di carattere privatistico ed eventualmente le deposizio­ni scritte acquisite prima del dibattimento (a partire dal iv secolo), nonché copia del testo delle leggi che le parti intendevano invocare in sede di dibattimento ; d’altra parte è quanto meno possibile che nei dossier processuali figurasse talora anche il testo dei quesiti su cui chiamare a deporre sotto tortura gli schiavi. (e) Ulteriori incombenze gravavano poi sull’ufficio degli arconti : a loro spettava infatti di allestire i dossier relativi ai singo­li processi eliastici, con essenziali dati sull’istruttoria, successiva annotazione dell’esito del primo verdetto (‘colpevole o innocente’) emesso dai dicasti nonché dettagli sull’eventuale secondo verdetto (proposte al 















diritto ternative di sanzione, esito della votazione). Se non altro la grande quantità di processi non poteva non moltiplicare queste ‘schede’. (f) Non meno ampia doveva essere la produzione di elenchi nominativi : registri dei cittadini come l’ekklēsiastikos pinax (Dem. 45, 35) e il lēxiarchikon grammateion di ciascun demo (in proposito si noterà che la compilazione di una lista di 5000 o 9000 cittadini, che ebbe luogo nel 411, presuppone che si potessero consultare le liste di cui disponeva ciascun demarco : cfr. [Lys.] 20, 13), liste dei cavalieri compilate per motivi diversi (cfr. Lys. 16, 6 e 26, 10 : rispettivamente primo e secondo decennio del iv secolo), lista degli arconti e, si può presumere, di altri titolari di funzioni pubbliche, liste nominative dei militari assegnati a una nave o a un reparto militare (se non altro allo scopo di identificare eventuali disertori e caduti), elenchi dei caduti (non di rado fatti incidere a cura della tribù di appartenenza) e degli orfani di guerra, elenchi (autoencomiastici) di pritani ed altri buleuti, degli efebi, e sicuramente anche di altre figure. In tutti questi casi è virtualmente certo che si redigessero dei documenti almeno un poco standardizzati, il che fa subito pensare a forme non necessariamente lievi di competenza in chi era incaricato di redigerli. La lista continua con i documenti emanati da titolari di funzioni pubbliche : decreti onorifici ; iscrizioni che accompagnavano i cosiddetti donaria (i molti oggetti, spesso in pietra, che venivano collocati in prossimità dei templi di maggior rilievo) ; disposizioni e messaggi (non necessariamente sigillati) che venivano affidati ad ambasciatori e delegazioni ; documenti di accompagnamento ad alcuni tipi di multe (vd. più sotto a proposito del psēphismatopolēs) ; tabelle recanti gli ordini impartiti dai capi militari (cfr. Ar. Av. 450) ; documenti relativi alla costituzione delle giurie che dovevano fissare la graduatoria nei concorsi teatrali e alle loro delibere ; documenti relativi al numero di beneficiari di singoli pagamenti di massa, come il misthos per i dicasti, per i poveri che partecipavano agli spettacoli teatrali, per i partecipanti alle sedute dell’ecclēsia e per i marinai, nonché le somme versate agli invalidi; inventari del patrimonio (anch’essi denominati apographai : cfr. Lys. 19, 27 e 18, 9) ; iscrizioni da collocare sull’immobile o sull’appezzamento di terreno che veniva eventualmente ipotecato ; verbali recanti le testimonianze da leggere in tribunale ; iscrizioni  



























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funerarie. Il fatto che sul finire del v secolo si sia deciso di destinare un apposito edificio (il Mētrōon) ad ‘Archivio di Stato’ costituisce un potente indizio a favore dell’ipotesi che l’archiviazione di molti di questi atti avesse già comportato un accumulo davvero cospicuo di documenti, che si desiderava poter disporre con qualche ordine allo scopo di agevolarne la consultazione. Un ulteriore sottogruppo riguarda gli oggetti contenenti delle parole e destinati ad assicurare la riconoscibilità sia di certi documenti contabili, sia dei titolari di speciali funzioni pubbliche. Tali sono i sigilli emessi da Atene con cui le città alleate dovevano identificare i documenti di accompagnamento dei loro tributi annuali, [18] le targhette di legno (e poi di bronzo) usate nel iv secolo per identificare i dicasti [19] e quelle (se non sono le stesse : ne parla il solo Demostene in 39, 10-12) che venivano usate per le procedure di sorteggio, e così pure le psēphoi di bronzo relative alle varie sezioni dell’Eliea (anche di questi oggetti ci è pervenuto qualche esemplare). Si ricorderanno, infine, i molti documenti destinati a certificare determinate relazioni tra privati : scritture contabili tenute dai banchieri (i trapezitika grammata), testa­menti, adozioni effettuate per testamento (come in Is. 2, 14-17), accordi scritti tra gli eredi per la ripartizione dell’asse ereditario (come in [Dem.] 48, 9, 11), altri ‘appunti domestici’ relativi alla sussistenza di crediti e debiti, [20] la generalità dei contratti (syngraphai, solitamente redatti in almeno due copie), in particolare dei prestiti marittimi (particolarmente delicati perché di norma presuppongono la distinzione tra chi investe e chi gestisce le somme, la menzione dei tassi, talora persino variabili, che le parti convengono di applicare, ed una quantità di altre clausole [21]) e altri tipi di contratto d’impresa. Ciò premesso, giunge il momento di dire qualcosa sul tasso di professionalità di una così vasta e variegata produzione documentale. La quantità non poteva non favorire il formarsi di una lingua cancelleresca, peculiare degli atti ufficiali, che non poteva non mantenere una robusta distanza dalle specifiche della lingua conversazionale, [22] fermo restando che anche le scritture più ricorsive (es. le note emesse dai demarchi e recanti l’indicazione dei cittadini designati per la Boulē, obbligati al servizio militare, giunti all’età giusta per fungere da arbitri, assegnati a una diversa classe censitaria etc.) saranno state sottopo 









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ste a tipizzazione proprio per via della loro relativa elementarità. Già intorno al 450 vediamo comparire, nei decreti trascritti su pietra, sia la menzione della commissione di sungrapheis incaricata di definire il testo di una delibera di cui non viene indicato il proponente perché, si presume, il testo finale è il frutto di più proposte (ig i3 21 =atl ii D 11), sia dei veri e propri emendamenti, con indicazione del nuovo proponente e, a volte, ripetizione delle premesse (Edoxen tēi boulēi kai tōi demōi etc. : di norma questo accade quando si tratta di emendamenti votati a distanza di mesi o anni). [23] E al 452 risale una iscrizione in cui figurano ordinatissime tabelle a più colonne con cui rendere conto dei tributi delle città alleate (in ig3 71 = atl ii A 9 = ghi2 69 compaiono due serie di quattro colonne affiancate !). Questi e numerosi altri indicatori parlano inequivocabilmente di alti livelli di elaborazione e standardizzazione. Possiamo pertanto supporre che il più delle volte la loro preparazione comportasse l’intervento di una sorta di scriba dotato di qualche competenza, e spesso di una professionalità decisamente alta, non esattamente digiuno della migliore prosa dell’epoca. Non per nulla Aristofane ha introdotto, in Av. 1035-55, la figura del « venditore di decreti » (psēphismatopolēs). Il neologismo (che negli scoli assume la forma di psēphismatographos) ci parla di una figura non altrimenti attestata, ma si intuisce facilmente che, siccome si poteva essere buleuti una o al massimo due volte nella vita, poteva ben accadere che il buleuta medio non disponesse di competenze troppo spiccate e che il cittadino interessato a promuovere una iniziativa legale [24] avesse bisogno di essere opportunamente assistito e indirizzato. Andrà anche osservato, con l’occasione, che mentre ad Atene questo imponente ricorso alla scrittura, e ad una scrittura altamente professionale, è attestata solo a partire dall’età di Temistocle, la produzione di documenti analoghi in altre città è documentata anche per periodi anteriori di circa due secoli (ad es. nel caso delle iscrizioni che recano il testo di alcuni atti di fondazione delle colonie) e che le iscrizioni non attiche di vii e vi secolo spesso evidenziano una cura redazionale perfettamente in grado di reggere il confronto con lo standard che seppero poi darsi ad Atene (dietro doveva esserci, ogni volta, la mano di qualche autentico sophos). Rispetto a questa produzione, quella attica si distingue, più che  









altro, per l’accelerazione senza eguali che quasi all’improvviso, a partire dall’età di Pericle, ricevette la produzione di documenti redatti con sempre maggiore professionalità. Comprendiamo bene che il fenomeno si inquadra nell’orizzonte del risalto che nella società attica hanno avuto il momento assembleare, i molti organi collegiali e le articolazioni territoriali dello stato (basti pensare agli oltre centotrenta demi), il tutto con comprensibile contenimento dello spazio accordato a istituzioni monocratiche o diarchiche. Se la delibera assembleare non poteva non richiedere un’adeguata attività di drafting, la moltiplicazione degli organi collegiali e delle articolazioni territoriali dello stato non poteva non comportare una vasta circolazione di documenti standardizzati, a volte brevi (come dobbiamo supporre : si pensi alla designazione dei buleuti o dei dieteti) così come l’allestimento di un gran numero di registri da tenere aggiornati. 2.3. Livelli diversi di competenza giuridica nell’Atene classica. – Quanto sopra esposto induce a portare brevemente il discorso sulle forme di intermediazione specialistica. Possiamo forse incominciare con un cenno sulle forme di acculturazione diffusa. Lisia, per esempio, rivolgendosi ai buleuti ebbe motivo di scrivere : « Accorgersi che (il mio avversario) sta mentendo non è facile solo per voi che siete abituati a interrogarvi su casi del genere » (3, 28). A sua volta Platone ebbe occasione di scrivere che chi aspira ad essere un dicasta equanime, dovrebbe « acquistare e studiare i libri sull’argomento » che sono in circolazione (Lg. 12, 957c). L’affermazione è significativa per il fatto di presupporre l’esistenza di un’offerta di libri specifici alla portata del comune dicasta, ma non lo è di meno per il fatto che si potesse pensare a dei dicasti che comprano libri per documentarsi e farsi un po’ di cultura giuridica. Per l’appunto tre quarti di secolo prima Aristofane aveva posto in bocca a Filocleone un più che nutrito campionario di termini tecnici nonché di espedienti retorici e di citazioni un po’ dotte (vd. V. 1240 sgg. e 1245-7). Ciò parla appunto dell’acculturazione diffusa che ha comunque luogo allorché uno assolve molte volte all’ufficio di giudice popolare. Forme di maggiore professionalizzazione si delineano, per esempio, quando Senofonte (Mem. 2, 9) ci parla di un collaboratore di Critone il quale, ogniqualvolta un sicofante prendeva qualche iniziativa  











diritto giudiziaria con­tro il suo amico e protettore, en­trava in azione e in molti casi riuscì a dimostrare o che l’accusatore ave­va commesso « mol­te ingiustizie » o che aveva (cioè si era fatto) molti nemici. Analogamente Demostene (in 21, 36) osserva che Midia non avrebbe mancato di raccogliere (o far raccogliere) una documentazione su episodi di prevaricazione analoghi a quello a lui imputato, col preciso intento di argomentare che, se in quei casi non si adottarono, come non si adottarono, sanzioni di rilievo, allora sarebbe fuor di luogo scandalizzarsi più di tanto per la sua condotta e sanzionarla con anomala severità. Altre figure peculiari della società ateniese furono gli esegeti, una piccola corporazione di esperti in materia di interferenza tra religione e d. ai quali era normale rivolgersi per chiedere quale fosse il comportamento da tenere allorché la situazione risultasse di difficile ‘lettura’ relativamente a ciò che potesse ritenersi atto legalmente corretto, comportamento religiosamente corretto e relativi contrari (atto illegale e comportamento empio). L’intersezione tra i due ambiti riguardava, come è noto, l’ambito delle forme improprie di delitto, quando si doveva tener conto non soltanto della legislazione pertinente (ed eventualmente delle ‘leggi non scritte’) ma anche del problema della contaminazione religiosamente sancita, il miasma : una sorta di peste virtuale che incombeva prima di tutto sui parenti dell’omicida e della vittima, di riflesso su amici e frequentatori e, per estensione sull’intera città. L’omicidio infatti, tolti i casi più ovvii (morte procurata nel corso di battaglie, legittima difesa, alcune forme di esecuzione diretta all’interno delle mura domestiche, etc.), era comprensibilmente avvertito come un fattore di forte allarme sociale, e in questi casi era normale configurare l’allarme sociale quale un incombente pericolo di miasma. Ne derivava uno stretto obbligo di astenersi con ogni cura da atti non consentiti e, per converso, di non esimersi da iniziative ben precise (obbligazioni ritualizzate) la cui mancata osservanza facilmente scatenava una serie di ulteriori contromisure da parte di terzi. Da qui la difficoltà di inquadrare in modo appropriato le situazioni nelle quali il privato rischiava di rimanere impaniato, difficoltà che erigeva gli esegeti in consulenti esclusivi e ufficiosi in alcuni specifici ambiti della procedura penale. Il loro consiglio si fondava anzi – caso dav 





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vero unico in Attica – su una cospicua capitalizzazione di pareri emessi nel corso dei secoli, e attenervisi equivaleva a ‘coprirsi le spalle’ limitando grandemente il rischio di censure, processi o altre conseguenze temibili (ragion per cui era normale riferire ai giudici quale fosse stato il loro responso e cosa si era fatto per stare alle istruzioni degli esegeti). [25] A un livello già più alto sembra collocarsi il Cefalo esponente dei democratici che, sul finire del v secolo, contrastarono i Trenta Tiranni. Di lui Eschine (3, 194) e Demostene (18, 251) riferiscono che avrebbe redatto più decreti di ogni altro suo contemporaneo, e senza mai dar luogo a contestazioni (cioè a processi per illegalità). La segnalazione trova una splendida conferma in Aristofane. Chi, nelle Tesmoforiazuse (anno 411), propone un formale psēphisma (vv. 373-379) conclu­de infatti il discorso con cui ne raccomanda l’adozione con la seguente dichiarazione : « Il resto lo formulerò con l’assistenza della segretaria (meta tēs grammateōs) » (v. 432). Pure convergente è la seguente dichiarazione di Demostene (24, 28) : « Avrete notato, al­la semplice lettu­ra del decreto, con quale perizia (hōs technikōs) esso è stato formulato ». Sempre Demostene, oltre a parlare talvolta di coloro che « conoscono tutte le leggi » (20, 92-93), o di chi « le conosce me­glio di come dovrebbe » (57, 5), in 23, 201 ha occasione di osservare che ci sono dei «retori maledetti» (theois echthrois rhētores) i quali formulano con leggerezza, e vendono poi a buon mercato, delle proposte di onorificenza graphontes pan ho ti an boulontai, redigendo qualunque testo il committente abbia a richiedere. Passando a livelli ancora più alti di professionalità specifica, ha senso richiamare le responsabilità di prim’ordine nella elaborazione del “testo unico” delle leggi (tra il 403 e il 401 a.C.) che vennero affidate a Nicomaco, un grammateus che neppure godeva della cittadinanza (cfr. Lys. 30, 2 sgg., 5, 25, 27 e passim) ma che avrà verosimilmente dimostrato di avere delle competenze non facili da reperire presso altri politai. Sullo spiccato livello di professionalità dei segretari associati alle più alte cariche dello stato si pronuncia lo stesso Platone quando afferma (Pol. 290b1-4) che ci sono dei collaboratori dei magistrati che divengono sophoi peri grammata, esperti nel redigere atti pubblici di vario tipo in virtù dei molti testi che, data la natura del loro ufficio, avevano occasione di predisporre, e abilissimi (pandeinoi)  













   





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nella vasta gamma di servizi che sono in grado di rendere ai titolari di particolari fun­zioni pubbliche. Analogamente in un passo delle Leggi (12, 956e-957a) Platone ha occasione di scrivere che il compito di precisare le procedure nei dettagli più minuti (smikra kai rhadia nomima) – cioè di elaborare dei regolamenti applicativi – può ben essere demandato ad un « legislatore più giovane ». Con questa espressione è verosimile che egli intenda alludere appunto al ceto dei grammateis, il cui compito si intende dunque esteso all’elaborazione di proposte (che un’autorità superiore provvede poi a ratificare) sui moduli comportamentali che precisano e specificano la singola norma (di carattere procedurale), elaborando qualcosa di paragonabile ai nostri regolamenti applicativi. Un probabile ostacolo alla manifestazione della professionalità di queste figure fu costituito dalla annualità delle cariche, annualità che avrà pur previsto molteplici casi di reingaggio, ma senza che si delineasse nessuna vera e propria forma di carriera o la possibilità di sostanziosi arricchimenti nell’esercizio di tali funzioni. Sembrano andare in questa direzione le molteplici allusioni alla modestia degli onorari che incontriamo, in particolare, in Isocr. 13, 3 sg. e 9, Pl. Apol. 20b 9, Pl. Hipp. ma. 282d 1 e Xen. Mem. 1, 2, 5; 5, 6; 6, 5 e 13. È possibile (solo possibile) che qui si alluda a docenti non assimilabili ai sofisti e ai retori e a corsi pensati per aspiranti grammateis, se non addirittura tenuti da ex-grammateis. Tutto questo fermo restando che non si sa di nessun grammateus che abbia scritto qualcosa di paragonabile allo Ius tripertitum di Sesto Elio Peto. Se ora proviamo a salire ancora nella scala gerarchica di fatto che si sta delineando, arriviamo ai logografi. Come è noto, il logografo è stato una sorta di sofista pur sempre ben retribuito, ma un po’ meno prestigioso, che prestava la sua opera nella preparazione di chi avrebbe poi preso la parola in tribunale, quindi per accusatori e soprattutto imputati esposti a rischi gravi o gravissimi. Il logografo studiava la disputa ed elaborava una strategia di attacco o difesa, inoltre preparava il cliente alla gestione dei suoi interventi durante l’udienza (salvo che, per ridurre i costi, non limitasse il suo ruolo alla sola ideazione di un appropriato esordio e di un’appropriata perorazione) : Teofrasto (Char. 17, 8) parte dal presupposto che il logografo porti l’intera responsabilità della vertenza per af 





frontare la quale viene di volta in volta ingaggiato. La varietà delle situazioni da affrontare non poté non costituire comunque una eccellente palestra formativa. Piuttosto eloquente, al riguardo, è la testimonianza di Aristofane nelle Nuvole. Qui il coprotagonista della commedia, Strepsiade, si rivolge a Socrate precisamente allo scopo di apprendere le astuzie del leguleio (il ‘discorso debole’, quell’arte di ribaltare le posizioni che costituì la grande risorsa del logografo di professione) e, nell’enunciare ciò che vuole apprendere da Socrate, parla almeno venti volte, e del tutto esplicitamente, della speranza di riuscire a circuire gli altri e sfuggire ai suoi molti creditori servendosi di argomenti dichiaratamente capziosi (vv. 98 sg., 114-118, 244-246, 444-447, etc.). Chiaramente Socrate dovrebbe insegnargli (o almeno insegnare a suo figlio) a gestire in proprio le vertenze in cui può accadergli di essere coinvolto, o che può desiderar di iniziare, cioè metterlo in condizione di poter fare a meno dell’intermediazione dei logografi ad ogni occasione. Sempre nelle Nuvole Strepsiade significativamente dichiara di voler diventare un kurbìs, un conoscitore di kurbeis (le antiche tavole esposte nell’agorà e recanti le leggi di Solone) e così pure un abile eiron (buon dissimulatore e maestro d’inganni : v. 448 sg.), e solo in un secondo momento si adatta all’idea che, ad imparare più semplicemente a eu legein (v. 1143), cioè ad acquisire la sapienza comunicazionale tipica dei logografi più sofisticati, sia non lui ma suo figlio. Il trasparente gioco di allusioni che si concretizza nel felice neologismo (kurbis) identifica la figura del cittadino che si è familiarizzato fin troppo bene con le leggi, e che verosimilmente se ne avvarrà per i propri fini di parte, quindi anche per perpetrare qualche prevaricazione a danno di chi non sia così esperto. Si erge, pertanto, a metafora della persona che conosce fin troppo bene le leggi raccolte nelle kurbeis e sa servirsene anche a torto. In effetti il termine costituisce una sorta di felicissima immagine del consulente legale (implicitamente accostato, peraltro, al sicofante) e rende alla perfezione tanto le attese quanto i timori del pubblico. In particolare su questo conoscere fin troppo bene le leggi (e poterle quindi utilizzare a proprio vantaggio anche in modo distorto) abbiamo →Antifonte (5, 45: « ma loro, conoscendo bene tutte le leggi, etc. »), il già richiamato passo di Demostene su  





diritto chi « conosce le leggi meglio di come dovrebbe » (57, 5) e un inatteso frammento di Menandro, il fr. 545 Körte Thierfelder : « belle sono le leggi, eppure chi le studia con troppa cura viene scambiato per un sicofante ! ». L’affiorare del medesimo topos a distanza di un secolo dai tempi di Aristofane e Antifonte è davvero degno di nota. Possiamo salire ancora in questa scala gerarchica virtuale ? Giunti a questo punto, diventa difficile fare un passo ancora perché, come già accennato, non si sa nulla di preciso sull’organizzazione del lavoro dei grandi retori, sul verosimile intreccio di consulenze, interessi politici e interventi a servizio di clienti danarosi, men che meno sull’eventuale presenza di allievi che seguissero da vicino l’opera di queste figure apicali. In ogni caso non risulta che i grandi retori abbiano scritto anche opere dedicate a rendere conto del loro sapere sul d., anche se nelle orazioni dicaniche compaiono a volte excursus anche ampi e pregevoli, che fanno pensare a una sorta di trattato. Non accade però di individuare un testo di d. dovuto a Demostene o altro famoso maestro del foro. Una possibilità è che questi esperti ritenessero di non aver interesse a rendere conto della loro professionalità in maniera esplicita attraverso libri. Nondimeno qualche libro specifico doveva pur essere in circolazione. Ce lo assicura Platone quando, nel libro ix delle Leggi scrive che « nelle nostre città ci sono non soltanto i libri (gram­ma­ta) e i discorsi messi per iscritto (en grammasi logoi) di tanti autori diversi, ma anche gli scritti composti dal legislatore (cioè dai singoli legislatori) e i discorsi » da loro pubblicati (858c). E poco più avanti : di tutti i grammata che nelle città sono stati scritti, quelli che vertono sulle leggi dovrebbero apparire, quando si svolge il rotolo, di gran lunga i più belli e i più pregevoli, mentre gli altri tipi di scritti dovrebbero attenersi a quel modello, perché in caso contrario non meriterebbero di essere presi sul serio (858e-859a). Con ciò egli viene a dirci inoltre che, nello scrivere anche lui un trattato peri nomon, non si è in alcun modo sottratto al doveroso confronto con la migliore letteratura giuridica disponibile. Altrove leggiamo che i Nomophylakes dovrebbero raccomandare ai maestri di ‘leggere e spiegare’ non soltanto le Leggi ma anche « le (altre) opere di argomento affine e simili (per impostazione) » (7, 811e), e così pure di mettere per iscritto ciò che dovesse affiorare da altri discorsi non tra 







   













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scritti e che fosse dello stesso tenore. Su un piano leggermente diverso provvede Aristotele a parlare di « raccolte di leggi e costituzioni » nel cap. 9, 9 della Nicomachea, dichiarandole certamente utili per chi è capace di studiarle discernendo pregi e difetti, ma molto meno utili se chi le esamina è privo di una specifica cultura di settore. E poco dopo aggiunge : poiché gli intellettuali del passato coltivarono poco o male la nomothēsia, egli provvederà personalmente a trattare l’argomento secondo i suoi standard, oltre che a impostare lo studio della politica. Nell’insieme queste osservazioni appaiono improntate a una certa prudenza : qualche bel libro c’è ma, se si fosse potuto parlare di una produzione vasta e varia, probabilmente i due si sarebbero espressi in termini meno riduttivi e forse avrebbero fatto dei nomi. 2.4. Sulle tracce della letteratura giuridica attica. – Dopo aver richiamato tratti salienti di una situazione complessa della quale raramente i giurisgrecisti hanno parlato, giunge ora il momento di tracciare un panorama di quel che la letteratura giuridica attica è stata. La situazione del settore appare alquanto paradossale perché sembra che questa letteratura sia strettamente legata a Platone, Aristotele e Teofrasto, sia dunque nata al di fuori della sfera dei professionisti del d. e della legislazione. Sta di fatto, però, che ai temi del d. questi tre autori dedicarono una imponente mole di opere sempre più specifiche. La circostanza impone di ripercorrere brevemente i dati fondamentali per poi tentare un primo bilancio. [26] Per quanto riguarda il v secolo ha senso ricordare la Repubblica di Protagora (perduta, ma che andrà ascritta, di preferenza, alla letteratura politica) ; i Nomima barbarika di Ellanico (menzionati dalla Suda) ; il libro di →Ip­p o­da­m o (su cui riferisce il solo Aristotele in Pol. 2) che dovette affrontare non senza penetrazione il tema dello ius condendum ; qualche testo perduto in cui Antifonte si fosse spinto oltre la contrapposizione tra physis e nomos ; forse una trattazione di Trasimaco sulla costituzione ; una buona dozzina di fram­menti di →Democrito (potrebbe trattarsi di una sorta di proto-manuale di educazione civica, forse pensato per i dicasti) ; i libri di Crizia sull’assetto istituzionale di varie città : alcuni in prosa ed almeno uno addirittura in versi ; almeno per certi aspetti, anche la celebrata Costituzione degli Ateniesi er­  

























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roneamente inclusa nel Corpus Xenophonteum. Dalla lista andranno invece esclusi i non pochi scritti che hanno sceverato il tema del rapporto tra natura e convenzione (phusis e nomos) in quanto hanno tutta l’aria di essere delle disquisizioni di carattere prettamente filosofico. Una volta messi da parte il libro di Ippodamo e l’Ath. Pol., tutto il resto si riduce, invero, a tracce minime e non molto caratterizzate, per cui è dubbio perfino che questi titoli possano passare per esordi e anticipazioni di una letteratura giuridica da venire. Ai primi decenni del iv secolo potrebbero risalire i due Peri nomou di Antistene, dei quali però si sa solo che vennero scritti. Ben più articolati appaiono gli anni centrali del iv secolo (ca. 375-335). A →Senofonte si devono la Costituzione dei Lacedemoni e lo straordinario Poroi, dove la politica economica dello stato certamente predomina, ma senza addirittura azzerare l’interesse per il quadro istituzionale e normativo ; a Platone le Leggi (invece la Repubblica notoriamente elimina quasi del tutto la dimensione normativa dal quadro di riforma dell’assetto istituzionale, mentre il Politico e il Critone sfiorano appena i temi che qui interessano). Ci sono inoltre gli excursus reperibili in Demostene – una vasta trattazione sulla tipologia degli omicidi e sulla corrispondenza tra natura dell’imputazione di omicidio e identificazione di un consesso idoneo a pronunciarsi su specifiche imputazioni (23, 24-87), l’essenziale profilo delle possibili risorse procedurali a cui il singolo può appellarsi per contrastare un furto o un comportamento empio che figura in 22, 26 e alcune sezioni del Contro Timocrate (or. 24) – così come un passo di Eschine e soprattutto il cosiddetto Peri nomon pseudo-demostenico (dall’or. 25 : settimo o ottavo decennio del secolo). È appena il caso di registrare il cospicuo salto di qualità. Come arriviamo ad →Aristotele, però, un ulteriore salto di qualità si impone alla nostra attenzione. La già ricordata seconda parte del­l’Athenaion Politeia, oltre a proporre un significativo sottotitolo (katastasis tes politeias, « ordinamento dello stato »), offre un panorama delle funzioni pubbliche e delle procedure relative all’esercizio della maggior parte di queste, panorama che può ben dirsi esemplare quanto a ordine e nitidezza della trattazione. [27] Dobbiamo poi ricordare il non mol­to che è so­ pravvissuto della vastissima documentazione raccolta, in supposta collaborazione con sva 









riati allievi, intorno all’assetto istituzionale di qualcosa come cen­tocinquantotto (o secondo altre fonti, ben duecentocinquantasette) altre città ; alcuni excursus inclusi nella Politica (dove spicca la panoramica sugli otto tipi di tribunali che figura in iv 15, 1300b20-36, ma a fine libro 4, ce n’è anche una sui vari tipi di funzioni pubbliche) e nella Retorica (cfr. 1, 14-15, nonché 3, 15) ; altri titoli di cui abbiamo modesti frammenti, come il Dikaiomata (o Dikaiomata Hellenidon poleon, « Questioni di diritto delle città greche »), di cui è traccia nei frr. 405-407 Gigon ; il Nomoi in quattro libri a cui vengono assegnati i frr. 468-472 Gigon e il Nomos systatikos, « Legge raccomandata (cioè : regole di condotta consigliate, ma non imperative ?) », cui sono ascritti i frr. 465-467 Gigon. Abbiamo poi le opere di →Teofrasto, al quale si devono i monumentali Nomoi kata stoicheion in ventiquattro libri sui quali siamo discretamente bene informati, con epitome in dieci libri (teste il catalogo laerziano, §5, 44) e altri due libri verosimilmente concepiti come epitomi della epitome (più una varietà di altre trattazioni particolari sul conto delle quali siamo male o molto male informati). Abbiamo infine notizia di un Nomoi di Demetrio Falereo, di due scritti, un Nomoi e di un Synthekai (« Contratti »), dovuti a →Eraclide Pontico, di cui però si sa soltanto che avevano forma dialogica, e delle opere che Dicearco dedicò alle istituzioni di Sparta e di altre città : Politeia Spartiaton, Pellenaion, Korinthion, Athenaion, nonché Tripolitikos. Quanto ai contenuti, qui basti ricordare che i Nomoi teofrastei sono caratterizzati da un approccio comparativista : egli sembra essersi dedicato proprio alla rappresentazione di come gli stessi istituti giuridici si sono configurati in poleis differenti. [28] Una simile scelta ci parla da sola della vocazione ‘panellenica’ dell’opera. Come si vede, fu pressoché soltanto il →liceo a proporsi come fervidissimo centro di produzione di testi lato sensu giuridici, testi verosimilmente pensati per circolare in tutta l’ecumene ellenica. Il mero dato quantitativo ci impone di pensare che siano stati concepiti come risorsa per la formazione degli addetti ai lavori di molte poleis e come risposta a una domanda di sapere di cui essi poterono prendere tempestiva coscienza. D’altra parte, se la domanda venne soddisfatta da Aristotele e allievi, e con successo, ciò implica che in precedenza non era soddisfatta. Naturalmente non può  



























diritto non sorprendere che a farsi carico dell’offerta di una così ubertosa letteratura giuridica siano stati dei ‘filosofi ’, ossia degli intellettuali che, a quanto è dato sapere, non pretesero mai di proporsi come specialisti – o, men che meno, professionisti – del d. Per loro questo dovette costituire uno dei tanti ambiti del sapere coltivati in parallelo con ammirevole metodicità. Eppure fu anche, con ogni verosimiglianza, il solo ambito in cui Aristotele e Teofrasto insieme pervennero a dedicare a un solo argomento addirittura un buon centinaio di libri, cioè una quantità molte volte superiore al numero di libri da loro dedicati ad altri temi prediletti, che si trattasse della logica, delle scienze della vita, delle scienze della natura o della storia del sapere ellenico. Perveniamo, con ciò, alla constatazione di una problematica anomalia, accentuata dal fatto, già segnalato, che Aristotele accenna appena, nel cap. 10, 9 della Nicomachea, a « raccolte (sunagwgaiv) di leggi e costituzioni », dichiarando che esse sono certamente utili (eu[crhsta) per chi è capace di studiarle e di discernere pregi e difetti, ma molto meno utili se chi le esamina è ajnepisthvmwn, privo cioè di una specifica cultura di settore (sintesi della sez. 1181b6-9), per poi dedicare un cenno (ma di nuovo solo un cenno) alle ‘costituzioni’ da lui descritte e fatte descrivere in apposite opere, avendo cura di non metterle sullo stesso piano delle sunagogai di cui sopra. Per quel che vediamo, insomma, questa storia per altri versi ammirevole si dispiega in silenzio, senza la minima enfasi. La sola cosa che non dovrebbe fare scandalo è, semmai, il fatto che questo sapere sulle leggi e le istituzioni politiche sia caratterizzato da un approccio descrittivo e informativo, non normativo e non in direzione di una dettagliata casistica. Si intuisce, infatti, che la già ricordata vocazione ‘panellenica’ di queste opere imponeva di non fare discorsi eccessivamente approfonditi, essendo opere pensate non per un giudice impegnato a emettere sentenze e/o ad argomentare la loro cogenza, non per le parti interessate a individuare un argomento a tutela del loro interesse contingente, ma per un pubblico interessato a venire a sapere, capire, farsi un’idea delle cose, rappresentarsi possibili alternative nel modo di impostare (o modificare) una data normativa. Ciò a maggior ragione quando si consideri che ad Atene e altrove il collegio giudicante era eminentemente laico, non interrogava le  



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parti, non conduceva né utilizzava risultanze di tipo investigativo, non discuteva prima di arrivare all’emissione del verdetto, si limitava a pronunciarsi con un sì o con un no, non era in condizione di motivare il verdetto, e nemmeno avrebbe potuto essere fatto responsabile di un verdetto che risultasse in contrasto con il verdetto precedente. In queste condizioni, ciò che aveva senso offrire era una cultura giuridica di orientamento, molto più che un sapere puntuale, finalizzato alla costruzione di un apparato normativo solidale e di un’articolata casistica. Perfino l’universo delle sentenze precedenti, infatti, in quel sistema giudiziario aveva una scarsa o scarsissima pregnanza. Per queste ragioni, il tipo di sapere giuridico-costituzionale offerto dal Liceo ha titolo ad essere giudicato congruente con la natura della domanda di sapere possibile in quella particolare società. Che poi la sua elaborazione potesse essere affidata a dei filosofi anziché a un ceto di retori, logografi, grammateis e altri esperti, questo sì rimane un dato in grado di sorprendere. Il sapere giuridico formatosi proprio mentre da un sistema basato sulle poleis si stava passando all’impero panellenico soffre, in effetti, di una sottile anomalia che attiene più alla sua origine e alla qualifica professionale di chi ne scrisse che non alla verosimile natura della domanda di sapere espressa da quella società. Ci si può chiedere, infine, se queste opere potessero essere classificate come costruzione di un ambito specifico del sapere o come opere ipomnematiche al pari, poniamo, delle Opinioni dei fisici di Teofrasto. La seconda ipotesi ha qualche freccia al suo arco proprio per la particolare natura di questo sapere. La rassegna degli assetti istituzionali delle varie poleis, per esempio, non ha valore prescrittivo o predittivo, ma semplicemente informa sulle istituzioni che le singole città si sono date e su come le sono venute regolamentando. La rassegna della legislazione, del pari, ha attitudine a informare, confrontare, fornire idee ma, di nuovo, non a fornire qualcosa che possa somigliare alle istruzioni per l’uso. Di nuovo, occorre tener presente che queste opere fecero riferimento a un modo di fare giustizia profondamente estraneo al modello instauratosi a Roma, un modo fondato sul ruolo del giudice popolare che può tranquillamente emettere verdetti in deroga dai precedenti o da una interpretazione autorevole. In tali condizioni, lo spazio per

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un’accezione prescrittiva della cultura giuridica era necessariamente molto più limitato. Di conseguenza la vocazione ipomnematica delle opere in oggetto non contrasta col bisogno di sapere e di capire. Il sapere e il capire ebbero per oggetto una realtà sensibilmente più fluida che non laddove le sentenze vengono formulate per iscritto, vengono motivate ed erette in precedenti. 2.5. La dispersione di un vasto patrimonio. – A conclusione di queste note, giunge il momento di ricordare che un così vasto corpus di testi lato sensu giuridici ebbe una vita effimera. Infatti la tradizione manoscritta si è interrotta in età imperiale e, malgrado alcune sparute sopravvivenze (tale, in fin dei conti può considerarsi perfino l’Athenaion politeia, se è vero che era una su oltre centocinquanta politeiai), l’intero corpus è andato disperso. È pur vero che Cicerone ebbe occasione di affermare che ab Aristotele mores, instituta, disciplinas, a Theophrasto leges etiam cognovimus e che uterque eorum pluribus … conscripsisset qui esset optimus rei publicae status, hoc amplius Theophrastus (de fin. 5, 11 = fr. 590 Fortenbaugh). Ma Cicerone fu tra i più assidui frequentatori (e tra i non molti veri conoscitori) della biblioteca che proprio gli eredi di Teofrasto ritirarono dal Liceo intorno al 286 a.C., e che, una volta portata a Roma, fu affidata alle cure di Tirannione. In seguito le opere giuridiche di Teofrasto vengono richiamate due volte nel Digesto (1, 3, 3, dove si fa il nome di Pomponio, e 1, 3, 6, dove si fa il nome di Paolo Sentenziario : cfr. i frr. 629 e 630 Fortenbaugh) ; nondimeno, in ambiente latino la traccia dei circa cento libri di d. prodotti da Aristotele e allievi si riduce a così poco. A volte si esprime sorpresa di fronte alla rarità dei riferimenti reperibili nella letteratura giuridica di lingua latina, ma la cosa non ha reale motivo di sorprendere, perché la radicale differenza del sistema giuridico rese quel sapere sostanzialmente inutilizzabile e, tutt’al più, interessante per venire a sapere, non certo per esercitare la professione di giurista imperiale. Ciò costituisce una convincente spiegazione della mancata produzione di sempre nuove copie, fino alla perdita della tradizione manoscritta diretta per tutte queste opere, malgrado l’alta reputazione dei loro autori. Come è noto, se si è salvata l’Athenaion Politeia aristotelica, ciò dipende semplicemente dal fatto, puramente casuale, che una copia dell’opera era finita nel deserto,  



in luogo asciutto, e lì è stata dimenticata. Ci troviamo dunque in presenza della dissoluzione di un intero corpus molto specifico di opere che chiaramente sono state qualcosa di più di una semplice, episodica meteora. Al contrario, se quelle opere vennero redatte e pubblicate, è perché Aristotele e allievi molto probabilmente si resero conto che un’intera branca del sapere meritava di essere documentata, ordinata e resa disponibile proprio in quanto ambito del sapere.[29] Livio Rossetti 3. Roma. – 3.1. Il diritto romano come scienza. Il linguaggio dei giuristi. – Scienza in un senso più proprio si ha certamente per l’esperienza giuridica romana. Si tratta di una forma specifica di sapere, caratterizzato dal fatto che, a parte la consueta iniziale riserva della sua conoscenza a esperti privilegiati (Liv. 9, 46, 5 : civile ius repositum in penetralibus pontificum) in vista dell’applicazione, è decisamente valutato come opera dell’uomo (Herm. D. 1, 5, 1). La stessa distinzione tra ius divinum e ius humanum deve dirsi a suo modo laica perché, presupposta comunque l’unitarietà del fenomeno, si indica l’esigenza di una trattazione distinta secondo che si tratti di ciò che riguarda gli interessi privati («la sfera dei rapporti, competenze e vincoli messi in opera dai soggetti di d.») e di ciò che riguarda gli interessi pubblici (la sfera dei fondamenti religiosi e politici dello stato, le sue istituzioni : Ulpiano, D. 1, 1, 1, 3 = Inst. 1, 1, 1, 4). Su questa base si instaura la distinzione diciamo scientifica tra il d. privato e il d. pubblico che nelle rispettive sfere si giovano di un vocabolario tecnico, per cui ad es. obligatio est iuris vinculum, quo necessitate adstringimur, alicuius solvendae rei secundum nostrae civitatis iura [30] e Lex est quod populus iubet atque constituit o, secondo un’altra celebre definizione, est commune praeceptum, virorum prudentium consultum, delictorum quae sponte vel ignorantia contrahuntur coercitio, communis rei publicae sponsio.[31] Il ‘diritto’ come tale è una disciplina strutturalmente collegata a una varietà di campi di intervento, per cui a Roma si vennero a costituire molteplici specializzazioni – ius fetiale, pontificium, sacrum, civile, honorarium, ‘augurale’ – che, a seconda dei casi, faceva riferimento ad una sfera più fortemente religiosa ovvero decisamente laica. Significativamente, l’adozione della lingua latina è continuata anche quando  



diritto divenne ufficiale e normale l’impiego del greco. Giustiniano dirà che il latino è lingua patria e il greco è consentito solo kata; povda, cioè limitatamente alle chiose o note. Il d. romano ha fortemente privilegiato le parole dette e i gesti formalizzati (Aude... ; uti lingua nuncupassit ita et ius esto ; lance licioque…). Documento autoritativo fondamentale sono state le xii tavole, la cui messa per iscritto ha avuto la funzione di rendere certo il tenore delle norme, fissando il principio dell’eguaglianza di fronte alla legge. In effetti la scrittura, fatto tardivo, si caratterizza per avere sostanzialmente valore probatorio e non costitutivo, fondamentali restando l’oralità, il simbolismo, le formule, per cui essenziale è rimasto il fatto interpretativo affidato all’attività di esperti, pur in presenza di una letteratura giuridica, opera essa stessa altamente tecnica. In effetti la stessa disciplina (ius) è stata qualificata come ars/techne (CelsoUlpiano) e si è tradotta in attività prettamente scientifica, divenendo scientia iuris. Quanto poi alla letteratura giuridica espressa dalla società romana, la sua specificità consiste nell’essere stata opera dei giuristi. Ora niente vieta che un giurista scriva anche p. es. di grammatica o di altro ; niente vieta che un annalista racconti di leggi, di processi etc. ; ma né la qualità di giurista, nel primo caso, né l’argomento giuridico di cui si parla, nel secondo caso, basterebbero a far rientrare questi testi in quel che si vuol considerare come letteratura giuridica. È anche chiaro che, a Roma, forme di attività letteraria aventi a che fare con il d. e testimonianza di esso si sono avute anche per l’età arcaica e per l’età repubblicana : redazione di memorie per gli archivi sacerdotali (regole astratte, istruzioni cerimoniali per i sacerdozi, formulari di atti sacri, responsa), verbali di assemblee, diari ufficiali e statuti di templi, leges regiae, legis actiones, formulae per il compimento di atti giuridici, tabulae censoriae, un regolamento per la convocazione dei comitia centuriata, istruzioni per intentare un’accusa capitale, formulae di deditio e di giuramento militare etc. È tuttavia negli specifici scritti dei giuristi che si riscontrano sia la funzione di dare responsi e interpretare le norme sia la funzione di trasmettere tale sapere e dunque di insegnare. Una prima, sintetica tipologia distingue tra opere rivolte all’esame di casi pratici ; destinate a un insegnamento elementare ; manuali per la pratica ; commentari ; esposizioni sistematiche ; monografie ;  





















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note e citazioni. In modo più differenziato si parla di una letteratura scarsamente casistica e basata su statuizioni astratte e di principio, spesso in forma di massime ; di una letteratura consistente invece nel commento a leggi e senatoconsulti ; agli editti magistratuali e a singoli titoli edittali ; a opere di giuristi, anche in forma di epitomi e di annotazioni ; di una letteratura problematica, particolarmente approfondita e complessa, di cui fanno parte Digesta, Responsa, Quaestiones, Disputationes, Coniectanea, Memorialia, Epistulae, Problemata, Membranae (‘abbozzi’), ‘Scoperte giuridiche’ ; di libri di istruzioni per magistrati e funzionari (De officio consulis etc.) ; di una letteratura monografica, in tema specialmente di diritto delle obbligazioni, d. ereditario, d. criminale, procedura, d. fiscale, d. militare, etc. Come scrivono questi giuristi ? Secondo lo Schulz, “lo stile dei giuristi classici si conforma strettamente alla tradizione repubblicana”. Comunque, ad avviso dello stesso studioso, si tratterebbe di “un latino elegante, romano autentico, serio, rapido, corretto e puro. Sono evitate dispute e retorica ; le sentenze sono brevi, la terminologia è fissa, le cose sono chiamate con i loro semplici e propri nomi, le mire principali sono chiarezza e obiettività”. Non è propriamente una conformità, dunque, se per i giuristi classici si ha “una forma professionale di linguaggio e perciò una cosa a parte, divergente sotto molti aspetti dall’uso comune”. Sarà pure, come si dice, “uno stile piano, disadorno, che disdegna ogni artificio retorico e mira unicamente alla semplicità ed esattezza”. Ma, di là dalla necessaria verifica di queste affermazioni, si dice anche (diversamente dunque da quel che apparirebbe nei giuristi di età repubblicana) che “le cose sono chiamate con i loro nomi tecnici e con essi soltanto, anche se siffatto rigore terminologico produce una certa monotonia. Neologismi e metafore sono applicati con estrema cautela (ma la testimonianza qui addotta dallo Schulz è la caratterizzazione ciceroniana del genus tenue degli oratori) ; parole inusitate, arcaismi specialmente, sono fuggiti come la peste. Eccitazione, pathos e emozionalità nella espressione sono tabù ; il tempo dell’esposizione è un tranquillo andante. Va da sé che le clausole ritmiche non erano ricercate”. Si dice anzi che i giuristi romani avrebbero posseduto “una lingua quasi matematica, che ammette una sola parola per quasi ciascun concetto giuridico e ha sottoposto anche il  



















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patrimonio linguistico comune a una selezione rigorosamente semplificante, una lingua sorprendentemente chiara, breve, acutissima, taglientissima, acuminatissima e tuttavia del tutto semplice”.[32] Come tutte le scienze, anche il d. ha prodotto un proprio vocabolario (giuridico) che si è aggiunto a quello corrente, dando luogo a fenomeni di trasformazione semantica (mancipatio/emancipatio) che talvolta è ancora possibile identificare. Termini tecnici sono stati pertanto considerati, ad es., i nomina actionis (cavere, agere, respondere, legere, interdicere, statuere, iudicare, damnare, vindicare, interpretari, etc.), ma anche tante espressioni di uso quotidiano hanno subito un processo di oggettivazione con lo scopo di precisarne nel modo più inequivoco il senso. Si veda ad esempio un frammento tratto dal commento all’editto provinciale di Gaio, giurista del ii sec. d.C., e confluito nel Digesto giustinianeo (D. 50, 16, 30) : - ‘Silvia cedua’ est, ut quidam putant, quae in hoc habetur, ut caederetur. Servius eam esse, quae succisa rursus ex stirpibus aut radicibus renascitur. - ‘Stipula illecta’ est spicae in messe deiectae necdum lectae, quam rustici cum vacaverint colligunt. - ‘Novalis’ est terra praecisa, quae anno cessavit, quam Graeci nevasin vocant. - ‘Integra’ autem est, in quam nondum dominus pascendi gratia pecus immisit. - ‘Glans caduca’ est, quae ex arbore cecidit. - ‘Pascua silva’ est, quae pastui pecudum destinata est… Come è chiaro, l’impiego da parte del giurista conferisce un valore tecnico alle espressioni in parola.[33] Può sorprendere constatare che il primo testo in cui si dica esplicitamente che il iuris consultus è iuris interpres si trova nella Institutio oratoria di M. Fabio Quintiliano, pubblicata verso il 96 d.C., ma questa identificazione è un fatto antico e vale per l’intera giurisprudenza, anche se occorre distinguere. Anche Cicerone, ad es., dice che il giureconsulto svolge la interpretatio iuris, ma non sembra ridurre a ciò la sua attività : giacché il giurista repubblicano svolge anche quella del responsitare ed ha la cognitio iuris. Conoscere il d. significa informarsi, dare responsi significa risolvere il caso proposto, interpretare significa anzitutto, come abbiamo visto, spiegare la norma da applicare. Tutto ciò presuppone un sapere. Quale è la cultura che ne è alla base ?  





3.2. La professione giuridica vista da Cicerone. Diritto e retorica. – Ci aiuta a rispondere il trattato ciceroniano del 55 sull’eloquenza (De oratore), dedicato al fratello Quinto, che era stato pretore nel 62. A discutere intervengono le grandi personalità di L. Licinio Crasso, il console del 95, Marco Antonio, avo del triumviro, Q. Mucio Scevola l’Augure, C. Aurelio Cotta, il console del 75, Q. Lutazio Catulo, il console del 102, C. Giulio Cesare Strabone Vopisco, celebre avvocato, ucciso dai mariani. Nel tema fondamentale del saper parlare e dei modi in cui bisogna parlare – non a vuoto né per dire cose false, non con parole rotonde, immaginose, accompagnate dal gesto del tribuno che parla alla massa suggestionata dalla forma e non attenta al contenuto, ma per persuadere, per convincere l’ascoltatore della verità di ciò che si sta dicendo – ha un gran ruolo il problema, vissuto direttamente dai protagonisti del dialogo, se l’oratore debba o meno conoscere il d. e se il giurista debba essere anche oratore. Questa opinione è argomentata, con gran ricchezza di riferimenti specifici a cause celebri e meno celebri, dal grande oratore L. Licinio Crasso, per il quale è prova di insigne impudenza (1, 38, 173) agitarsi nel foro, appiccicarsi al tribunale e ai pretori, occuparsi di gravi controversie private, in cui spesso si discute non sul fatto ma sul d. e sull’equità, proiettarsi nei processi davanti ai centumviri, dove si tratta di usucapione, tutele, gentilità, agnazioni, alluvioni, circumluvioni (il formarsi di un’isola di terreno), obbligazioni, vendite, servitù di muri, di luci, di stillicidio, revoche o conferme di testamenti, etc., quando si ignora completamente che cosa sia nostro e che cosa di altri, a che titolo si sia cittadini o stranieri, liberi o schiavi, etc. Come potrebbe un patronus affrontare una qualsiasi causa non avendo alcuna conoscenza del d. (sine ulla scientia iuris) ? È un’ignoranza che dipende anche dalla pigrizia. Anche ammettendo che lo studio del d. (cognitio iuris) sia cosa vasta e difficile, tanta è la sua utilità che non bisognerebbe esitare a compiere lo sforzo necessario. Ma, argomenta Crasso, in verità si tratta di cosa facilissima : certo, dapprima era qualcosa di segretamente conservato e, dopo Gneo Flavio, frammentato ; ma, introdottasi la dialettica, razionalizzato e messo in sistema questo patrimonio di sapere, avendo individuato la finalità dello ius civile nel mantenimento, fondato sulle leggi e sulle consuetudini, del  





diritto sentimento di giustizia in ordine agli interessi e alle cause tra cittadini, è ormai possibile costruire, mediante distinzioni in generi e specie e definizioni, perfectam artem iuris civilis, magis magnam atque uberem quam difficilem et obscuram (1, 42, 190). Crasso prosegue affermando che chi studia il d., vi trova il piacere della filologia, l’interesse della politica (civilis scientia), tutta intera contenuta nelle xii tavole, con la disciplina di tutti i pubblici interessi e dell’assetto di governo (descriptis omnibus civitatis utilitatibus ac partibus : 1, 43, 193), la sapienza filosofica le cui discussioni hanno tutte la loro fonte nello ius civile e nelle leggi (ibidem). Fremant omnes licet, dicam quod sentio : bibliothecas mehercule omnium philosophorum unus mihi videtur xii tabularum libellus, si quis legum fontes et capita viderit, et auctoritatis pondere et utilitatis ubertate superare (1, 44, 195). Del resto chi ignora quanto la conoscenza del d. porti per se stessa a chi è giurista onori, credito, dignità ? Non come in Grecia, dove uomini di bassa condizione, convinti da un misero compenso (mercedula), si offrono come assistenti agli oratori nei processi, o come pragmatikoi, ‘pratici’ : a Roma il giurista è al contrario un amplissimus et clarissimus vir, la casa del giurista è infatti senza dubbio oracolo dell’intera città. L’oratore deve pertanto conoscere anche il d. pubblico (publica quoque iura, quae sunt propria civitatis atque imperii), la storia, gli esempi dell’antichità, giacché, come in cause e processi su questioni private occorre spesso trarre argomenti ex iure civili (e perciò all’oratore è indispensabile la scienza del d. civile : idcirco … oratori iuris civilis scientia necessaria est) così, quando si tratta di cause pubbliche, di interesse generale, occorre agli oratori politici tutto ciò che gli offrono la tradizione (antiquitatis memoria), l’autorità del d. pubblico e la considerazione e conoscenza di come si governa lo stato (regendae rei publicae ratio et scientia : 1, 46, 201). Non parlo di causidici o di ciarlatani – aggiunge Licinio Crasso prima di esaltare la funzione dell’avvocato ideale – ma di un uomo che eccelle in un’arte la cui grandezza ha origine in un dio. La replica di Antonio, per il quale ognuno deve fare il proprio mestiere, e se ha bisogno di informarsi su cose che non sa, si rivolga allo specialista, è puntigliosa e concreta : a suo giudizio, il giurista è chi sia esperto e delle leggi e consuetudini in ciò di cui usano i privati e del dare responsi, nell’esser di guida nel processo, nell’indicare  













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le formule utili a garantire (eum dicerem qui legum et consuetudinis eius, qua privati in civitate uterentur, et ad respondendum et ad agendum et ad cavendum peritus esset : 1, 48, 212). Quanto poi al d. civile, non si nega l’importanza di un’arte grande e che è estesa e che riguarda molti e che è stata sempre in sommo onore e che è coltivata dai più illustri cittadini (clarissimi cives) (1, 2, 235). Proprio per ciò, a seguire l’idea di Crasso che non si possa essere oratore senza essere anche giurista, si correrebbe il rischio di considerare quei giuristi che non sono oratori (e, dice Antonio, ce ne sono, ce ne sono stati e molti) puri cavillatori, banditori di azioni, monotoni enunciatori di formule, cacciatori di sillabe (Ita est tibi iuris consultus ipse per se nihil nisi leguleius quidam cautus et acutus, praeco actionum, cantor formularum, auceps syllabarum : 1, 45, 236). Antonio stesso, ottimo avvocato, dichiara di non aver mai appreso il d. e tuttavia di non aver mai avuto problemi nel discutere cause in tribunale. Basta che l’oratore si rivolga a un esperto. Il dialogo, a parte la quantità di informazioni assunte, mostra chiaramente che a Roma c’è stata differenza tra l’esser giurista e l’essere oratore (cioè oratore giudiziario, avvocato, patrono), non per le personalità ma per i compiti. Una certa preminenza della funzione di oratore si è avuta, semmai, nei processi pubblici, in particolare nei processi politici o comunque tali da suscitare particolare interesse o emozione nell’opinione pubblica, fermo restando che la retorica, strumento essenziale dell’eloquenza, contava anche per il giurista. In effetti, non c’è dubbio che la retorica fosse l’elemento formativo della cultura generale romana, essenziale per emergere nella vita politica e sociale così come per portare a buon fine nei processi questioni ereditarie o intorno alla proprietà, etc. È anche vero che l’introduzione a Roma della cultura e della retorica greca è coincisa con un grande sviluppo del pensiero giuridico oltre che del d. positivo. Ma tutto ciò non è riferibile a quella attività interpretativa che sappiamo svolta dal collegio pontificale e poi dalla giurisprudenza. 3.3. L’oratore e il giurista. La prudentium interpretatio. – Nel processus delle fonti del d. lo ius civile è definito come quel d. che sine scripto in sola prudentium interpretatione consistit (Pomp. D. 1, 2, 2, 12). Ma tra questa interpretatio, che crea d. (e che continuerà ad esser considerata produttiva di norme anche in seguito) e l’at 



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tività interpretativa che, realizzata mediante lo strumentario retorico e dialettico, è diretta al chiarimento della norma, c’è la differenza, grande e di sostanza, che passa tra una interpretazione in funzione normativa e un’interpretazione in funzione ricognitiva. Ora il lavoro del giurista romano formalmente svolgeva funzioni ricognitive, ma di fatto andava in direzione normativa, oltre a produrre, attraverso un impegno sistematico e la costruzione di categorie giuridiche, una propria impalcatura dogmatica. In effetti, si ricorderà la bella immagine del giurista, oracolo dell’intera città, e la definizione datane da Antonio nel De oratore : definizione riduttiva, rispetto all’esaltazione di Licinio Crasso, ma che invece acquista grande forza se collegata alla funzione di socializzazione. Ne abbiamo conferma nel De officiis (2, 19, 65), allorché viene invocata una opinione legata al concreto e che opera in concreto, che non passa, per dir così, sopra la testa della gente, ma risponde alle sue vere esigenze. Cosicché, divenendo norma, resta legata alla concretezza della vita. Ma perché una opinione dovrebbe essere accettata e diventare, come diventa, vincolante ? Non dimentichiamoci che si tratta di una opinione dottrinaria e che il giurista non è né un legislatore né un magistrato giusdicente (e d’altra parte non è, in genere, neppure un giudice). È in virtù di queste sue caratteristiche che la sua opinione può venire accettata e diventare, come diventa, vincolante pur trattandosi di una opinione dottrinaria, non supportata da norme positive anche se riconducibile alla logica del sistema. Infatti il d. giurisprudenziale, quello ius civile che in sola interpretatione prudentium consistit, è un adeguamento ai fatti, che richiede una interpretazione, l’arte di individuare, qualificare, determinare il problema giuridico, organizzando la realtà e cercando di coglierla nei suoi momenti essenziali, tipici, ricorrenti, prestando peraltro attenzione alle esigenze dei tempi e trasformando dunque dinamicamente il complesso normativo vigente. Il che non potrebbe essere fatto senza il dominio della lingua e, ad esempio e in modo rilevante quanto al lavoro costruttivo, senza quello specifico interesse ai vocaboli che si collega al discorso sull’analogia e l’anomalia, alla valutazione circa le origines rationesque vocum (Gell. 13,10). “La lingua nazionale dell’impero – ha scritto il Nocera [34] – è in un certo senso proprio il latino  



giuridico, il latino della storia della giurisprudenza romana, in quel che presentava di compatto e differenziato da ogni contaminazione con lo stesso linguaggio forense, infarcito di sonorità e di effetti retorici piegati al successo oratorio, ma lontano da quella scienza del d., che si incarnava nelle istituzioni con quel misto di responsabilità etica e di compiacimento professionale che si esprimeva in quella specie di superbo motto di Aquilio Gallo che separava con disdegno il d. dal fatto : nihil hoc ad ius... ad Ciceronem (Cic. Top. 12, 51)”. Vi si riassumono una quantità di punti essenziali : la distinzione tra l’oratore e il giurista, la separazione del fatto dal d., la compattezza storica, istituzionale e scientifica di quest’ultimo nella sua espressione giurisprudenziale, risultato e causa insieme di responsabilità etico-politica e di professionalità. Ricordiamo inoltre il valore dei gesti e della parola già nella sfera religiosa e politica, il formalismo e la disciplina, la stessa economia linguistica che si traduce nella verificabile concisione delle nostre prime testimonianze, dalla normazione regia a quella decemvirale. Il linguaggio delle deliberazioni assembleari e dell’attività edittale mira a una certezza normativa che richiede precisione e si sforza di raggiungerla attraverso indicazioni meticolose e circostanziate. La scrittura pone, d’altronde, il problema di una discriminazione tra chi sa leggere e scrivere (e far di conto) e chi è analfabeta, e si traduce in rafforzamento del bisogno dell’esperto. Di conseguenza, anche se i destinatari ultimi delle norme sono – come è ovvio – i cittadini, il giurista è il loro tramite indispensabile e in lui bisogna riporre fiducia. Si intende così anche meglio la vincolatività del responso giurisprudenziale. Nondimeno, quella romana non è stata una società del libro (non lo è neppure nel senso in cui lo sono i fedeli di religioni rivelate), ma una società della parola (si pensi alla stipulatio, «fulcro del sistema contrattuale romano») affidata al rapporto personale (si pensi alla fides) e trasmessa attraverso la memoria (si pensi all’obbligatorio apprendimento scolastico delle xii tavole : Nostis quae sequuntur. Discebamus enim pueri xii ut carmen necessarium, quas iam nemo discit, scrive Cic. leg. 2, 59), quella stessa memoria collettiva e individuale che è parte essenziale del lavoro del giurista. Le nostre conoscenze tuttavia sono necessariamente affidate a quanto ci è pervenuto di quel che i Romani hanno  





diritto tradotto in scritti. È dunque su tale base che si può parlare del linguaggio giuridico romano e specialmente del problema terminologico (del vocabolario cioè che si ricava dai testi, anzitutto, da quelli giurisprudenziali) e delle trasformazioni semantiche di codesto vocabolario, secondo lo specifico contesto letterario ma soprattutto secondo le suggestioni concrete, anche esteriori, operanti sui giuristi, nelle loro varie opere. Pomponio, ad es., nel ricordare Q. Elio Tuberone, che da avvocato si fece giurista dottissimo nel d. pubblico e nel d. privato, aggiunge che i suoi scritti non incontravano favore per il modo arcaicizzante con cui si esprimeva (D. 1, 2, 2, 46). La redazione scritta del pensiero dei giuristi, certamente posteriore alla lex xii tabularum, ha dunque portato all’elaborazione di una vera e propria letteratura giuridica i cui inizi possono risalire alla fine del iv sec. a.C. e più precisamente a un liber de usurpationibus attribuito a Appio Claudio Cieco, opera sul conto della quale molto si è scritto quantunque la nostra unica fonte di informazione al riguardo sia costituita dal cenno che vi fa Pomponio in D. 1, 2, 2, 36 : hunc etiam actiones scripsisse traditum est primum de usurpationibus, qui liber non exstat. È autorevole anche quella dottrina che, collegandolo alla laicizzazione del diritto e più direttamente alle deliberazioni assembleari e alla attività edittale, caratterizza il linguaggio che vi corrisponde come diretto a una certezza normativa che richiede indicazioni meticolose. Ma già questa corretta constatazione ci colloca di fronte al fenomeno della scrittura. Ci può essere – e di fatto ne siamo informati – una sapienza riposta di gesti e di parole, legata all’interpretazione e riservata in specie a quegli esperti che sono i pontefici. Ciò accade peraltro nel contesto di una possibilità generale di osservare e ascoltare quei gesti e quelle parole, di memorizzarli, di trasmetterne la conoscenza riproducendo il gesto e riferendo la parola. 3.4. Il latino dei giuristi. – La sedimentazione di termini e locuzioni ha dato luogo a un gergo non sempre trasparente e, quindi, a vaste ricerche sul campo semantico delle parole del d. Il Lexicon totius Latinitatis (1771) in sei volumi (i-iv parole latine e relative fonti, v-vi nomi propri), dovuto a E. Forcellini e poi corretto e aumentato fino alla vi edizione (che è stata ristampata con appendici a Padova nel 1940 e nuovamente nel 1965), e il Thesaurus linguae La 

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tinae iniziato dal Leo e dal Woelfflin nel 1893 e ancora non concluso, sono stati accompagnati da una lunga serie di opere più specifiche che meritano di essere qui ricordate : - il Manuale Latinitatis fontium iuris civilis Romanorum. Thesauri Latinitatis epitome del Dirksen (Berolini, 1837) ; - il Vocabularium iurisprudentiae Romanae (Berolini, 1894-1987) : indice delle parole che compaiono nel Digesto giustinianeo, nelle Institutiones di Gaio, nei Tituli ex corpore Ulpiani, nelle Pauli Sententiae, nei frammenti giurisprudenziali della Collatio legum, della Consultatio veteris cuiusdam iurisconsulti, dei Fragmenta Vaticana ; - il Vocabolario delle costituzioni latine di Giustiniano di C. Longo (pubblicato nel «Bullettino dell’Istituto di diritto romano» 10, 1897-98) : indice delle parole contenute nelle costituzioni latine del Codex, nelle costituzioni introduttive a Codice, Digesto, Istituzioni giustinianee, nelle Novellae latine giustinianee e nei passi certamente compilatorii delle Istituzioni giustinianee ; - l’Index verborum graecorum quae in Institutionibus et Digestis occurrunt di G. Bortolucci (pubblicato nell’«Archivio giuridico F. Serafini» 76, 1906, 353-396 : indice delle parole greche del Digesto e delle Istituzioni giustinianee) ; - l’Handlexicon zu den Quellen des römischen Rechts di H. Heumann (1847, ix ed. a cura di E. Sechel, Jena, 1907, xi ed., 1971 : vocabolario delle fonti giuridiche romane) ; - il Vocabolario delle Istituzioni di Gaio di P. P. Zanzucchi (Milano, 1910, rist. 1961, integrato quanto ai frammenti delle Institutiones rinvenuti in papiri ; - il Vocabularium Codicis Iustiniani, pars prior di R. Mayr (Pragae, 1923 : indice delle parole latine contenute nelle costituzioni del Codice di Giustiniano) ; Idem, pars altera, di M. San Nicolò (Pragae, 1925 : come sopra per le parole greche) ; - lo Heidelberger Index zum Theodosianus di O. Gradenwitz (Berlin, 1925, con Ergänzungband del 1929, dedicato alle Novellae teodosiane e post-teodosiane, ed Ergänzungsindex zu Ius und Leges di E. Levy, Weimar, 1930 : idem per le parole contenute nelle varie raccolte pregiustinianee di iura, di leges e miste di iura e leges) ; - il Vocabularium Institutionum Iustiniani Augusti di R. Ambrosino (Mediolani, 1942). [35] Ricordiamo infine le Digestorum similitudines, raccolta di 27.694 somiglianze presenti nel  



































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Digesto, opera in 11 voll. di Garcia Garrido e F. Reinoso Barbero (Madrid, 1994) e consimili lavori sul codice teodosiano e sul codice giustininianeo. Si tratta di strumenti, preziosi, come tutti i vocabolari, e per dir così neutrali. Non meramente neutrali, invece, sono altre opere, indispensabili per la storia della ricerca romanistica e, un tempo, in modo quasi assoluto, per la stessa ricerca. Si tratta di quei sussidi in cui sono segnalate le opinioni della dottrina circa alterazioni (glossemi o interpolazioni) dei testi giuridici romani. Essi rappresentano una parte notevole del discorso intorno al linguaggio giuridico romano, anche se non pochi dei sospetti avanzati in anni lontani sembrano oggi non trovare più adesione. [36] Quanto agli strumenti, si ricorderanno in primo luogo l’Index interpolationum quae in Iustiniani Digestis inesse dicuntur a cura di L. Mitteis, E. Levy, E. Rabel (Weimar, 1929-1935) e l’Index interpolationum quae in Iustiniani Codice inesse dicuntur curato da G. Broggini (Köln-Wien, 1969). Gioverà richiamare anche A. Guarneri Citati, Indice delle parole, frasi e costrutti ritenuti indizio di interpolazione nei testi giuridici romani (ii ed. 1927 ; Suppl. i, in Studi S. Riccobono 1, 1934, 701 sgg. ; Suppl. ii, in Festschrift P. Koschaker 1, 1939, 117 sgg.). Di pratica utilità, anche per le tavole che riproducono esempi di fonti e di strumenti di lavoro, è inoltre L. Maganzani, Fonti e strumenti di ricerca. Metodo di consultazione per lo studio del diritto romano ad uso degli studenti (Como, 1988).  





Note. [1] L’espressione figura in Ciccotti 1934. – [2] Così Wolff 1970 ; cfr. anche Mitteis 1891. – [3] Sul codice di Gortyna qui basti rinviare a Martini 1995 ; Maffi 1997 ; Stolfi 2006. – [4] In proposito vd. Gagarin 1986. – [5] Non prenderò in considerazione il d. greco tolemaico in considerazione della sua obiettiva marginalità dal punto di vista di un Dizionario che si occupa di Grecia e Roma. – [6] Wolff 1975, 397 sg. – [7] Jones 1956, 253. – [8] Biscardi 1982, 30-33. – [9] Traduco da Gagarin 1986, 121. La cifra di circa cento poleis è desunta da Ruschenbusch 1983 (che Gagarin menziona in nota). – [10] Ce ne da notizia Arist. Ath. Pol. 62, 3. Il dato è significativo perché, in quelle condizioni, ben difficilmente un cittadino non disabile, non atimos e non uso a vivere quasi sempre fuori città poteva sottrarsi a una simile designazione : prima o poi toccava anche a lui di fungere da buleuta. – [11] Cfr. Hansen 1980. Hansen 1991, 242, estende invero la valutazione anche al v secolo, ma che in  







età periclea la vita pubblica di Atene fosse già così strutturata è virtualmente impossibile. – [12] Per un profilo di queste procedure vd. Borowski 1975, 50-81 ; Rossetti 1981 ; Todd 1993, 78-82. Sul numero dei grammateis impiegati dallo stato ateniese vd. più avanti. Quanto poi alla possibilità di mantenere la stessa carica per più anni consecutivi, ciò era consentito solo per un numero limitato di funzioni molto diverse tra loro : strateghi, tamiai (che nei templi sovrintendevano al tesoro della città), filarchi (forse), molti grammateis e hupogrammateis. – [13] Hansen 1989, 98 sg., calcola che in un anno venivano deliberati dalla sola Ecclēsia qualcosa come quattrocento decreti, ai quali si devono ancora aggiungere quelli deliberati direttamente dalla Boulē. Sembra che una legge prescrivesse di presentare le proposte di psēphisma per iscritto : cfr., 1.a; Cic. Brut. 27 e De or. 2, 93, nonché Plu. Per. 8 e Suida, s.v. Perikles. – [14] Ad es. ig i3 78 = ghi2 73 (previsione esplicita di due copie, una da esporre ad Atene e una da esporre ad Eleusi : iscrizione congetturalmente assegnata al 422). Nel caso di ig3 1453 = atl ii D 14 = ghi2 45 (tra il sesto e il nono decennio del v secolo) copie del medesimo decreto, che si richiedeva fosse riprodotto su pietra in ogni città interessata alla questione, sono state trovate in sei diverse località. – [15] Strepitoso per la sua puntigliosità è uno dei rapporti relativi alla ripresa dei lavori di costruzione dell’Eretteo nel 409, rapporto nel quale si fa addirittura l’elenco, sezione per sezione, dei blocchi di pietra che devono ancora essere montati o rifiniti dagli scultori, nonché delle loro misure : ig i2 372. – [16] Un esempio di tali prospetti è offerto da ig i3 52, 25-27 = ghi2 58 = atl ii D 1 : anno 434/3 a.C. – [17] Ce ne parla Plutarco nella Vita di Pericle, cap. 31. Vd. anche lo scolio a Ar. Pax 605 (da Filocoro). – [18] Cfr. ig3 34, 15-16 = ghi2 58 : anno 448/7 ; comprensibilmente non ci è pervenuto nessun esemplare. – [19] Se ne sono ritrovati non meno di 175 esemplari, alcuni dei quali sofisticati al punto da sorprendere. Cfr. Kroll 1972. Il formato era di cm 11 x 2, lo spessore di 2 mm ; a volte erano contrassegnate da ben quattro marchietti identificanti. Le nostre tessere con foto e le tessere magnetiche a fatica reggono il confronto ! – [20] Come in Dem. 36, 18-20 e 41, 21 sg. : quest’ultimo documento è sigillato e Demostene entra in qualche dettaglio sulla rottura del sēmeion effettuata in presenza di più persone, la successiva redazione di una copia e la decisione di depositare l’originale, nuovamente sigillato, presso una persona di fiducia cui viene per l’occasione attribuita una funzione notarile. – [21] Più d’uno di questi contratti è riportato per esteso dagli oratori (es, Dem. 35, 10-13). In proposito vd. Isager-Hansen 1975, 74-84 e passim. – [22] In pro 























dissezione posito v. López Eire 1994, 176 sg. Significativo è anche il neologismo che occasionalmente affiora in Aristotele (EN v 10, 1134b24) : ta psēphismatode, « i documenti redatti a mo’ di decreto ». – [23] Una simile prassi è documentata a partire almeno dal 446/5 – cfr. ig3 40 = ghi2 52, dove compaiono addirittura due diversi emendamenti (alle linee 40 e 70) – e si osserva con qualche frequenza durante la guerra peloponnesiaca : cfr. ig3 61, 68, 71, 101, 102, 110, 118. – [24] Rossetti 2002 illustra un esempio di psēphisma, che rispondeva ad esigenze prettamente locali (diremmo noi oggi : di quartiere). – [25] Classico sull’argomento è Oliver 1950 ; ma vd. anche MacDowell 1978, 192 sg. – [26] I dati raccolti nel prosieguo fanno riferimento alle ricerche su cui riferiscono Rossetti 2001, Rossetti 2002 e Rossetti 2004b. Corre l’obbligo di osservare che il riconoscimento della specificità di questa produzione non è patrimonio comune ; infatti le opere di carattere generale, incluse trattazioni decisamente professionali (es. Flashar 1983 e Fortenbaugh et alii 1992 ; ma potrei citare anche recenti voci di enciclopedia come Berti 2006 e FagginMovia 2006), continuano a non farlo e, nella migliore delle ipotesi, a ricondurre i testi giuridici nell’alveo della politica. Nondimeno è difficile negare, in base ai dati qui riproposti, che il Liceo si sia distinto in particolar modo nella produzione di testi inequivocabilmente pensati come illustrazione dell’assetto istituzionale e normativo (incluso dunque il d. positivo) di una o più poleis. – [27] Qui basti ricordare che l’opera associa una prima sezione diacronica (sui cambiamenti dell’assetto istituzionale di base che sono intercorsi a partire dai tempi di Draconte e Solone) a una sezione dedicata a rendere conto piuttosto analiticamente dell’attuale profilo istituzionale della polis, con capitoli dedicati ai diversi organismi e alla normativa che ne regola la costituzione, le competenze, il funzionamento, i controlli, l’avvicendamento nella carica. Un autorevole commento viene offerto in Rhodes 1981. – [28] Induce a pensarlo il fr. 650 Fortenbaugh (da Stobeo), che propone un confronto tra la normativa sui contratti vigente a Cizico e quella di Turii, con un riferimento finale alle norme fissate da Caronda e, sorprendentemente, da Platone. Sui Nomoi di Teofrasto vd. soprattutto Szegedy-Maszak 1981 e Fortenbaugh et alii 1992. – [29] La trattazione di questo argomento si conclude intenzionalmente qui allo scopo di sottolineare la straordinaria anomalia di un ambito disciplinare che, diversamente da moltissimi altri, semplicemente non è riuscito a passare nel mondo latino, dove il patrimonio ellenico finì per essere sostanzialmente azzerato lasciando libero campo alla nascita di un tipo di sapere e di profes 















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sionalità del tutto nuovi. – [30] i. 3, 13 pr. – [31] Gaio Inst. 1.3; Papiniano D 1.3.1. – [32] Schulz 1968, 466 sgg. – [33] Crifò 2005, 309 sgg., 407 sgg.; vd. anche →caccia, 3, nota n. 8. – [34] Nocera 1988, 525. – [35] Ricordo inoltre Reggi 1967, 165 sgg. e 1977, 87 sgg., che prende in considerazione le parole contenute nella prima e nella seconda Collatio dell’Authenticum ; il Lessico di Gaio sulle parole contenute nei frammenti gaiani del Digesto giustinianeo ; il Vocabularium e il Lessico di Bartoletti Colombo sulle parole contenute nelle Novellae giustinianee ; i lessici che Melillo, Palma e Pennacchio hanno dedicato all’Edictum Theoderici Regis e alla Lex Romana Burgundionum. – [36] Come rilevanti esempi di critica (o ipercritica) interpolazionistica potrebbero indicarsi tra gli altri i lavori di G. Beseler, S. Solazzi, E. Albertario. Per un riesame complessivo vd. Kaser 1986, 112 sgg.  





Bibliografia. Ambrosino 1942; Archi 1980; Bartoletti Colombo 1977-1989; Bartoletti Colombo 1983-1986; Berti 2006; Biscardi 1982; Borowski 1975; Bortolucci 1906; Broggini 1969; Ciccotti 1934; Crifò 2005; Dirksen 1837; FagginMovia 2006; Flashar 1983; Forcelli 1965; Fortenbaugh et alii 1992; Gagarin 1986; García Garrido-Reinoso Barbero 1994; Giuliani-Picardi 1981; Gradenwitz 1925; Gradenwitz-Kübler 1894-1987; Guarneri Citati 1927; Hansen 1980; Hansen 1989; Hansen 1991; Heumann 1907; Isager-Hansen 1975; Jones 1957; Kaser 1986; LeoWoelfflin 1893; Longo 1897-1898; López Eire 1994; MacDowell 1978; Maffi 2004; Maganzani 1988; Martini 1995; Mayr 1923; Melillo-PalmaPennacchio 1990; Melillo-Palma-Pennacchio 1992; Mitteis 1891; Mitteis-Levy-Rabel 19291935; Nocera 1988; Oliver 1950; Reggi 1967, 1977; Rhodes 1981; Rossetti-Liviabella-Furani 1993; Rossetti 2001; Rossetti 2002; Rossetti 2004b; Ruschenbusch 1983; San Nicolò 1925; Schulz 1968; Stolfi 2006; Szegedy-Maszak 1981; Van Effenterre-Ruzé 1994-1995; Volonaki 2001; Wolff 1970; Wolff 1975; Zanzucchi 1961.

Giuliano Grifò Dissezione [ajnatomhv, dissectio]. 1. Generalità. – È il complesso metodologicamente organizzato delle operazioni di incisione, apertura e sezionamento del →cadavere, o delle spoglie di animale, effettuate per motivi di tipo didattico, scientifico o investigativo-giudiziario. 2. Cenni storici. – I popoli primitivi furono ben lontani da forme consapevoli di attività settoria ; ma l’uccisione e la macellazione di animali, o il compimento di rudimentali tentativi  

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dissezione

di medicazione di ferite, dovettero permettere empirici contatti con gli interna corporis, da cui derivarono constatazioni di tipo anatomico, pur frammentarie e asistematiche. Sebbene i tradizionali procedimenti conservativi del cadavere [→putrefazione] ne implicassero la manipolazione, anche presso la civiltà egizia non si sviluppò un particolare interesse per l’→anatomia e non ne fu permesso, ma forse neppure ipoteticamente concepito, il sezionamento a scopo di studio. Il corpo del defunto era spiccatamente tabuizzato e l’eviscerazione aveva luogo, entro una cornice rituale, a cura degli imbalsamatori, che costituivano una categoria affine ma ben distinta per qualifica e ambito operativo da quella dei medici-sacerdoti. [1] Pratiche simili ebbero diffusione anche presso popoli venuti a contatto con l’Egitto quali sciti, assiri ed ebrei (furono, per esempio, imbalsamati Giacobbe [2] e il figlio Giuseppe [3]), ma con le medesime caratteristiche e limitazioni. [4] Anche nel mondo greco, a lungo, la pratica della dissezione non fu ammessa né teorizzata. Secondo una tradizione fondata su alcune testimonianze – la più ampia e significativa delle quali è offerta da Calcidio – primo scienziato a effettuarla sarebbe stato →Alcmeone di Crotone ; ma è probabile che questi si sia limitato a compiere qualche rilievo circa l’→occhio e, comunque, non su esseri umani. [5] Non c’è motivo di ritenere che →Empedocle, sebbene sia giunto a elaborare ipotesi alquanto sofisticate sui meccanismi funzionali dell’→occhio e dell’apparato respiratorio, abbia proceduto a dissezioni per trovare a esse riscontro[6] ; né si può giungere a conclusione diversa a proposito di →Democrito, nonostante le sue acute osservazioni di carattere biologico. [7] Sebbene →Galeno ritenesse il contrario, la pratica settoria non dovette essere adottata nemmeno da →Ippocrate di Chio che, invece, seguiva e applicava il metodo induttivo. Eppure nel Corpus Hippocraticum si riscontra qualche aspetto che sembra presentare un certo interesse specifico ; soprattutto in De locis in homine e De carnibus compaiono descrizioni anatomiche che potrebbero far supporre l’osservazione diretta. Tuttavia non si parla mai in modo esplicito di sezionamento, ma solo di rilievi effettuati attraverso lesioni ; anzi un embrione umano, esito dell’aborto di una prostituta, risulta sottoposto appena a esame esterno, senza che sia  















nemmeno valutata l’opportunità di procedere ulteriormente. [8] In De morbo sacro è descritta l’apertura del cranio di una capra, per dimostrare che l’origine della patologia non è divina ma ascrivibile alla presenza abnorme di liquido; [9] è stato osservato come tale dimostrazione, che ricorda quella che sarebbe stata eseguita da →Anassagora per far vedere che un ariete aveva un solo corno per cause meramente naturali, [10] non ebbe comunque un vero e proprio carattere sperimentale, poiché finalizzata a offrire sostegno a una teoria preconcetta che sarebbe stata comunque ritenuta valida. [11] La dissezione fu senz’altro praticata dall’autore di De corde, ma la stesura del trattato è successiva agli altri, risalendo all’incirca al periodo in cui erano già operanti gli alessandrini. [12] Esperimenti di dissezione e →vivisezione furono, invece, compiuti con certezza da →Aristotele. In Historia animalium lo Stagirita muove da un approccio critico ai metodi di studio adottati in precedenza, soprattutto a proposito del sistema vascolare, suggerendo di applicare la tecnica settoria ad animali soffocati dopo un dimagrimento indotto. [13] La dissezione comparve, dunque, alquanto tardi nell’ambiente scientifico greco e ciò per molteplici ragioni. Le era culturalmente associato, innanzitutto, un formidabile senso di repulsione di cui reca testimonianza lo stesso →Aristotele. [14] Influiva poi la radicata credenza popolare secondo cui il →cadavere conservava residue funzioni vitali. Si temeva, inoltre, che la yuchv, in forma di spettro, potesse interagire con i viventi e quindi, a fronte dello strazio dei suoi resti, tornare a vendicarsi [→pseudoscienza e credenze]. Infine, l’incisione di un corpo era severamente proibita sia da leggi sacre, in quanto fonte di contaminazione [→miasma] che si sarebbe estesa a chi avesse osato compiere il gesto e che ne sarebbe diventato fonte a sua volta, sia da leggi civili. [15] Ma a essere determinante fu il mutamento metodologico : →Aristotele, che intendeva ricercare le cause di ogni singola parte anatomica e delle funzioni da essa svolte, avvertì più di altri l’utilità della dissezione. [16] Questa venne sicuramente praticata in quel particolare microcosmo culturale e politico che fu Alessandria d’Egitto, per un arco di tempo non perfettamente stimabile a partire dal secolo iii a.C.[17] e su cadaveri di condannati a morte che, analogamente a quanto accadeva  

















divisione per la →vivisezione, scontavano così una sorta di pena accessoria ; il loro essere ai margini della società, inoltre, aiutava a superare il tabù di cui era gravata la salma e ad attenuare il pericolo antropologico e religioso che in ciò era insito. →Galeno avrebbe ulteriormente ribadito l’opportunità di effettuare esplorazione settoria su individui in qualche modo estromessi dalla collettività. [18] Ma →Celso testimonia come la materia divenne oggetto di intenso dibattito tra i →dogmatici (favorevoli alla dissezione anatomica, per l’utilità conoscitiva e scientifica che le attribuivano) e gli →empirici (che la ritenevano inutile, in rapporto alle caratteristiche della medicina del tempo e al presupposto che un corpo morto non era funzionalmente e strutturalmente assimilabile a uno vivo, nonché immorale in quanto costituiva un foedus). [19] Le argomentazioni dei primi prevalsero, allora, ma in seguito avrebbe dominato l’impostazione di segno contrario, orientata alla condanna e al ludibrio di tali studi. Critiche assai ferme furono mosse da Tertulliano, [20] riferite alla →vivisezione ma plausibilmente estese anche alla dissezione, [21] e da →Agostino; [22] quest’ultimo, in particolare, ebbe a insistere tanto sull’iniquità etica quanto sulla vanità scientifica. →Vindiciano, nel condannare la pratica in quanto crudele, attribuisce ai medici alessandrini l’intento di ricostruire motivi e circostanze del decesso. È dunque plausibile che scopo precipuo dell’attività settoria, in quel contesto, fosse la ricerca delle cause intermedie della →morte, situate fra quelle evidenti (secondo →Celso caldo, freddo, digiuno ed eccessi alimentari) e quelle nascoste, cui si poteva pervenire solo col ragionamento. [23] In seguito, la sezione di cadavere fu a lungo abbandonata ; tuttavia, la tecnica settoria ebbe un convinto assertore e divulgatore in →Galeno. Medico dei gladiatori a Pergamo, esperienza che doveva avergli consentito l’osservazione anatomica attraverso le ferite profonde, stabilitosi a Roma poco dopo l’ascesa al trono di Marco Aurelio, scrisse diverse opere sull’argomento (fra cui le ’Anatomikai; ejgceirhvsei~), non tutte pervenute, e acquistò notorietà per gli spettacolari esperimenti compiuti su cadavere e su vivente (→vivisezione). La dissezione completa, da effettuare quando l’animale era morto da poco, dopo aver rasato il pelo e inciso i tegumenti con apposito scalpello, partiva dai  















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muscoli e dai vasi, continuando attraverso nervi, visceri, intestini, grasso e ghiandole, secondo un ordine dovuto alla deperibilità del corpo ; lo →scheletro era oggetto di esame a sé stante. Il settore avrebbe dovuto scuoiare l’animale personalmente e in modo da non provocare lesioni alle parti da osservare. Gli esperimenti erano effettuati soprattutto su scimmie antropomorfe senza coda (il più delle volte uccise per annegamento) e maiali, poiché Galeno ne aveva intuito la somiglianza biologica con l’essere umano, che invece era osservabile solo di rado (per esempio nel caso dei bambini esposti). Ma occasionalmente potè studiare altre specie, effettuando fra l’altro la dissezione di un →cuore di elefante.  

Note. [1] Halioua 2005, 73-75. – [2] Ge. 50, 2-3. – [3] Ge. 50, 26. – [4] Scarano 1993. – [5] Lloyd 1993, 281-306. – [6] Lloyd 1993, 311-312. – [7] Lloyd 1993, 312-313. – [8] Lloyd 1993, 313-320. – [9] Morb. Sacr. 11. – [10] Plu. Per. 6. – [11] Grmek 1996, 23. – [12] Lloyd 1993, 315-316. – [13] Lloyd 1993, 308-309. – [14] Arist. PA 645a 27-31. – [15] Manzoni 2007, 21. – [16] Lloyd 1993, 326-328. – [17] Carlino 1994, 158. – [18] Carlino 1994, 170. – [19] Cels. Prohoem. 40 / 23 M. – [20] Tert. anim. 10, 4. – [21] Carlino 1994, 190. – [22] Aug. civ. 22, 24 e anim. 4, 6, 7. – [23] Pellegrin 2005, 491. Bibliografia. Carlino 1994 ; Defanti 1999 ; Garofalo 2002; Halioua 2005 ; Lloyd 1993 ; Manzoni 2007 ; Pellegrin 2005 ; Scarano 1993.  











Francesco Cuzari Divisione [diaivresi~]. Nel lessico della →matematica antica è possibile individuare quattro distinti significati del termine diaivresi~ : (1) nel primo caso esso definisce il complesso di operazioni consistenti nel dividere in parti un ente geometrico, quale linea, superficie o solido, secondo specifiche proporzioni ; (2) nel secondo caso diaivresi~ indica una proprietà di sottrazione attinente alle proporzioni ; (3) nel terzo caso il vocabolo designa il punto di divisione in una figura ; (4) nel quarto caso assume una funzione metodologica, in quanto identifica un procedimento di partizione di concetti o proposizioni. I diversi valori di diaivresi~ e diairei`n sembrerebbero specializzazioni di un uso originario dei due vocaboli, rintracciabile nell’idea di prendere un composto nei suoi costituenti. Testimonianze attendibili di questa prima adozione sono attestate in alcune sezioni del corpus platonico ed aristotelico. In un  







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divisione

passo del libro v della Metafisica, precisamente alle righe 1014a 30-35, diairei`n connota l’atto di scomposizione di un corpo nei suoi elementi ultimi, vale a dire la possibilità di prendere un composto nei suoi costituenti. (1) Il verbo diairei`n viene ampiamente usato per indicare l’atto di d. di un segmento di retta, di una circonferenza, di un angolo, di una superficie e di un solido. Una di queste molteplici adozioni, tutte accomunate dal riferimento al concetto di scomposizione, è esemplificata nella dimostrazione della proposizione 19, contenuta nell’opera Conoidi e Sferoidi di →Archimede : « Si divida la BD nelle [parti] uguali alla ED nei punti R, P, Q, O e dai [punti di] divisione si conducano rette parallele ad AC fino alla sezione conica, e sulle rette così condotte si innalzino piani perpendicolari alla BD : le sezioni saranno dunque cerchi aventi i centri sulla BD » (trad. Frajese 1974). Nel Timeo (53d) →Platone adotta diairei`n per indicare la d. di un angolo retto in due parti uguali, ai fini della costruzione del triangolo rettangolo isoscele. →Proclo adopera diairei`n in modo ancor più generale in riferimento a tutte le grandezze continue, collocando l’operazione di d. tra gli assiomi generali della matematica : « […] e l’altro [assioma], che il punto divide la linea, la linea divide la superficie, e la superficie divide il solido – perché tutte queste figure sono divise da quelle che costituiscono il loro limite immediato ; – e infine l’assioma che l’illimitato nelle grandezze esiste per aggiunzione e per soppressione, ma l’una e l’altra in potenza ; perché ogni continuo è divisibile e aumentabile, all’infinito » (in Eucl. 198, trad. Timpanaro Cardini 1978). Ovviamente anche il sostantivo diaivresi~ assolve la medesima funzione, come appare evidente dall’uso che ne fa →Euclide nella prova di Elementi 10, 42 : « […] e che AB risulta divisa anche nel punto D, nello stesso modo della sua divisione in C » (trad. Maccioni 1970). (2) Il termine diaivresi~ è assunto inoltre per identificare una proprietà caratteristica delle proporzioni, denominata propriamente diaivresi~ lovgou, la quale garantisce la legittimità del passaggio dalla formulazione a :b = c :d alla formulazione (a-b) :b = (c-d) :d. Essa è attestata con chiarezza nella definizione 15 del v libro degli Elementi di Euclide : « Si ha scomposizione di rapporti quando si consideri la differenza tra l’antecedente ed il conseguente in rapporto  



































al conseguente preso da solo » (trad. Maccioni 1970). Espressioni che svolgono ruolo analogo sono anche kata; diaivresin e dielovnti, le quali identificano il procedimento per sottrazione, sancito dalla formulazione di Euclide e largamente adoperato dai matematici successivi. (3) Il vocabolo hJ diaivresi~ si pone come abbreviazione dell’espressione to; th`~ diairevsew~ shmei`on e designa il punto di d. in una figura. Euclide lo usa ad esempio nel corollario ad Elementi 4, 15 : « E similmente al caso del pentagono, se noi conduciamo, per i punti di divisione [posti] sulla circonferenza del cerchio, rette tangenti al cerchio, si verrà a circoscrivere al cerchio un esagono equilatero ed equiangolo » (trad. Maccioni 1970). Anche nella proposizione 19, precedentemente citata, dell’opera Conoidi e Sferoidi, si trova una adozione simile da parte di →Archimede. (4) La scelta della parola diaivresi~ per designare l’operazione intellettuale di scomposizione di un concetto è chiaramente illustrata da Proclo, nella descrizione dei tre procedimenti più validi adoperati nella ricerca matematica, vale a dire l’analisi, la d. e la riduzione all’assurdo : « Un secondo metodo è quello “per divisione” ; questo scompone il genere proposto nelle sue parti, fornendo il punto di partenza alla dimostrazione, mediante esclusione di tutte le cose non essenziali alla costruzione della ricerca proposta ; ed è questo il metodo che Platone esalta come quello divenuto l’ausiliario per tutte le scienze » (in Eucl. 211, trad. Timpanaro Cardini 1978). La diaivresi~ indica propriamente anche il movimento divisorio della dialettica platonica, sebbene lo stesso vocabolo ricorra nelle opere del filosofo ateniese anche in relazione ad attività grafiche. Il chiarimento dell’influenza tra →filosofia e matematica nella precisazione del metodo di d. è tuttavia un punto controverso nella storia del pensiero. La possibilità di assimilare teoreticamente il procedimento di d. dei matematici e il processo logico della dicotomia delle idee potrebbe trovare la sua origine in una comune radice linguistica dei diversi usi di diaivresi~, termine che si è successivamente caricato di significati altamente specialistici ed abbastanza indipendenti sia nel lessico scientifico sia nel lessico filosofico.  

















Bibliografia. Heath 1921 ; Mugler 1958-1959 ; Szabó 1974 ; Szabó 1994.  



Piero Tarantino



domnino Dogmatici [Dogmatikoiv, Dogmatici]. Capi della scuola furono →Ippocrate di Cos, fondatore anche della setta, che per primo la diresse ; dopo di lui →Diocle di Caristo, →Prassagora di Cos, →Erofilo di Calcedonia, →Erasistrato di Ceo, Mnesiteo di Atene, →Asclepiade di Bitinia, proveniente da Ceo, detto anche di Prusa. [1] Ciò che connota maggiormente i Dogmatici o Razionali è il valore attribuito al ragionamento come ricerca di cause universali, principi, elementi universali, sia nella ricerca delle cause delle malattie (eziologia), che nelle applicazioni terapeutiche. I D., a parte la denominazione che li definisce e riunisce, non hanno un vero e proprio caposcuola (cfr. Ps. Gal. cit.), né una reale unità di dottrina. Sotto diversi aspetti sono i veri continuatori della tradizione ippocratica. Su di essi si può utilmente rileggere, soprattutto per quanto concerne il contrasto ideologico-dottrinario con gli →empirici (Gal. Sect. 4-5 = 1, 73-76 K). La scuola dogmatica crede fondamentalmente in due tipi di cause, ádeloi aitíai, lat. causae occultae, cioè «cause non manifeste», e pródeloi aitíai, lat. causae evidentes, cioè «cause manifeste» : la radice vera della malattia, il principio, è nelle cause nascoste, che quasi celano il male ; le cause manifeste, invece, lo evidenziano. Queste ultime colpiscono i sensi : caldo, freddo, stanchezza e così via : ma, alle cause vere, ‘nascoste’, si può giungere soltanto attraverso il dogma (lat. ratio), cioè il ragionamento che, solo attraverso un’attenta ricognizione degli elementi ‘esterni’ in suo possesso, può risalire, variamente unificando e sintetizzando, alla causa prima, unica e vera di ogni malattia, individuando, ipso facto, la terapia più indicata. Sono dunque necessarie conoscenze fisiologico-anatomiche precise e approfondite ; una scienza anatomica che presuppone chiaramente sezione (sectio) e anche vivisezione (si pensi ad Erofilo e ad Erasistrato) : aspetto su cui si appunta la polemica degli Empirici secondo i quali sezione e vivisezione, oltre che crudeli, sono inutili. Dell’indirizzo dogmatico esponente principale sarà Galeno. Dai principi dogmatici, già nel i sec. a.C. discende un indirizzo che ha il fondamento teorico nella dottrina stoica di →Posidonio di Apamea (Rodi ii-i sec. a.C.) : il logos, «pensiero, fuoco divino» viene ad essere identificato come pneuma, «soffio di vita». Secondo Ateneo di Attalea (i sec. a.C.), ritenuto poi il fondatore  

















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della scuola detta degli →Pneumatici, lo pneuma è in parte innato e in parte ispirato : dall’incontro dell’uno e dell’altro si genera il ‘calore vitale’, che distribuendosi attraverso il corpo dà vita alle diverse funzioni vitali.  

Note. [1] Cfr. Ps. Gal. Intro. 4 = 14, 683 K. Fonti. Cels. Prooem. 13-26 / 19-21 M ; Gal. Sect. soprattutto 1, 91-92 K ; inoltre Meth. med. 10, 159. 182. 184 K ; Comp. med. gen. 13, 463 K, e Ps. Gal. Introductio seu medicus / 14, 674-797 K. Tra le fonti non c’è accordo sui veri iniziatori dell’indirizzo dottrinario.  





Bibliografia. Kudlien 1965 ; Labisch 2005, 233234 ; Mazzini 1997, 191-194 ; Nutton 1997f ; Garofalo-Vegetti 1978, 117-121.  







Fabio Cavalli Domnino [ca. 420-470 d.C.]. Quanto sappiamo della sua vita si ricava dal commento di →Proclo al Timeo, dalla Vita Isidori di Damascio e dalla Vita Procli di Marino. Originario di Larissa o Teodicea, fu allievo di Siriano presso l’Accademia di Atene assieme a Proclo. Viene descritto come uomo capace (iJkano;~ ajnhvr) nelle scienze matematiche, ma, al tempo stesso, come uomo di non grandi qualità filosofiche e, soprattutto, colpevole di avere male interpretato le dottrine platoniche. [1] Stando al racconto di Marino, Siriano, posto di fronte all’alternativa di dover scegliere fra D. e Proclo il diadoco dell’Accademia, individuò in questo il proprio successore. [2] È, al contrario, probabile che, seppure per un breve periodo, fu D., in quanto allievo più anziano, a succedere a Siriano. Le notizie in nostro possesso inducono a credere che, almeno da un certo momento in poi, la rivalità fra D. e Proclo fu grande. Sembra che quest’ultimo abbia scritto un trattato rivolto contro il condiscepolo, allo scopo di ‘purificare’ le dottrine platoniche da lui malamente interpretate. Sotto tale profilo, il rapporto fra D. e Proclo assume caratteri problematici molto simili a quelli che la tradizione ha individuato nel confronto tra le dottrine di Numenio e quelle di →Plotino. Di D. ci è rimasto un Manuale di introduzione all’aritmetica (’Egceirivdion ajriqmhtikh`~ eijsagwgh`~). Nell’ultimo capitolo è fatto accenno a un’altra opera (’Ariqmhtikh; stoiceivwsi~), il cui scopo doveva essere l’approfondimento delle proprietà dei numeri e l’analisi degli argo 



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domnino

menti di aritmetica utilizzati da →Platone. [3] Per quanto non si abbiano prove decisive che, al di là degli intenti, D. abbia effettivamente realizzato quest’ultima opera, il suo progetto è apparso a taluni prova di un tentativo di inserimento nella tradizione che, a partire da opere quali l’Expositio rerum mathematicarum ad legendum Platonem utilium di Teone di Smirne, si era proposta di approfondire i rapporti fra matematica e filosofia nei dialoghi platonici. Ne deduciamo che D. voleva presentarsi non solo come matematico ‘tecnico’, ma anche come filosofo. L’aspetto singolare dell’impianto del suo Manuale pare essere la proposta – in decisa controtendenza rispetto all’innesto della filosofia neopitagorica in quella neoplatonica – di una scienza e filosofia della matematica ‘alternativa’, basata, cioè, sul riferimento a →Euclide piuttosto che a →Nicomaco. Va però chiarito che, quantunque la tradizione filosofico-matematica dominante nel neopitagorismo e nel neoplatonismo si distingua dalla matematica euclidea, entrambe restano modelli di tipo razionale-deduttivo, che, seppur a diverso titolo, guardano a Platone. In altra maniera, tuttavia, da quanto avviene in genere nel neopitagorismo e nel neoplatonismo, Euclide si richiama anche ad Aristotele e all’idea che la matematica incarni parte dell’indagine sulla realtà, nel suo aspetto quantitativo-positivo. Gli Elementi si trovano così alla confluenza di due distinti modi di concepire la scienza matematica : da un lato essi, attraverso figure come quella di →Erone, →Pappo – entrambi autori di commenti all’opera di Euclide –, →Teone Alessandrino e la figlia →Ipazia, divengono, soprattutto ad Alessandria, il riferimento di una vera e propria matematica ‘tecnica’ e ‘scientifica’. Dall’altro, si manifesta la tendenza a incardinarli in una gerarchia delle scienze che, a partire da Porfirio, orienta la →matematica alla →filosofia e tenta, talvolta, di ‘pitagorizzare’ Euclide. →Giamblico arriva a criticare apertamente Euclide, mostrando di preferire, anche in questioni tecniche come quella della classificazione dei numeri, le scelte di Nicomaco. Ciò accadde anche perché gli aspetti ‘mistici’ della teoria del numero, assenti in Euclide, acquistarono una particolare rilevanza nella filosofia neoplatonica. In polemica con tali ripiegamenti della scienza aritmetica verso l’aritmologia, D. tenterebbe il ritorno a  



un approccio ‘razionale’ alla matematica. Egli, difendendo l’idea dell’autonomia di questa dalla filosofia, cerca in tal senso di imporre un modello sulla base del quale viene rivalutata la funzione, in ambito matematico, del calcolo, abbassato invece, da Giamblico e altri neoplatonici, a quell’aspetto empirico-applicativo delle scienze che sortisce l’effetto di allontanare il matematico dall’autentico fine del suo studio, fine che consiste nel liberare progressivamente l’anima dagli avviluppamenti nel sensibile, per volgerla alla contemplazione dell’intelligibile. L’idea che il Manuale realizzi un progetto di ritorno a Euclide non va, tuttavia, estremizzata. La classificazione (tavxi~) dei numeri proposta da D., per quanto si ispiri a quella euclidea, prova a integrarla, ma, nel fare questo, si appropria anche di tavxei~ in uso presso neopitagorici e neoplatonici. Oltre a Euclide, Nicomaco e Teone, sembra che Domnino facesse uso, per le proprie classificazioni dei numeri, anche di un’altra fonte, comune forse anche a Giamblico, oggi andata perduta. Diversamente dalle fonti neopitagoriche e neoplatoniche, però, gli aspetti ‘metafisici’ della natura del numero sono completamente ignorati. Ugualmente, D. pone scarsa attenzione alla questione dei numeri piani e solidi e, in generale, alla loro configurazione geometrica che, talvolta, procedeva in parallelo alla complessa problematica della serie dimensionale e a quella, ad essa connessa, della natura intelligibile dei numeri e della loro funzione nell’articolazione del reale [→numeri ideali e numeri aritmetici]. Uno sguardo complessivo all’opera del matematico permette di concludere che una delle ragioni dello scontro fra D. e Proclo è forse rintracciabile nel modello di matematica proposto dal Manuale, che mostra un completo disinteresse nei confronti della distinzione fra aspetti ‘fisici’ e ‘metafisici’ dei numeri, distinzione che è invece centrale in Giamblico, Siriano e Proclo. La decisione di quest’ultimo di commentare Euclide può, almeno in via di ipotesi, essere anche il risultato della presunta rivalità con D. Proclo continua a mantenersi nel solco della linea dominante nell’ontologia matematica neoplatonica, segnata dagli intrecci con l’orientamento neopitagorico, come testimonia la diffusione di commenti a Nicomaco. Prova è la ripresa, da parte di Proclo, della dottrina pitagorico-platonica della natura intermedia degli

doroteo di sidone enti matematici. Anche la notizia secondo la quale D. sarebbe stato un grande matematico, ma un mediocre filosofo, è forse indizio di un tentativo di difendere implicitamente quella linea Giamblico-Proclo che, invece, insisteva sui necessari rapporti fra matematica e filosofia, sicché solo un orientamento di quella verso questa poteva essere concepita quale autentica espressione delle stesse scienze matematiche. I riferimenti allo scontro fra Domnino e Proclo e la maggiore fama e influenza di quest’ultimo lasciano sorpresi circa la sopravvivenza del Manuale. Ciò è dovuto probabilmente al fatto che esso riuscì ad assolvere, analogamente alle opere di Nicomaco e Giamblico, a una precisa funzione didattica, in virtù della chiarezza e semplicità espositiva. È possibile che anche l’assenza, nell’opera, di vere e proprie dimostrazioni si debba far risalire al suo carattere didascalico. Note. [1] Damasc. Vita Isid. fr. 227. – [2] Marin. Vita Procl. 26. – [3] Domn. Enchirid. 57. Bibliografia. Adorno 1992 ; Brown 2000 ; Bulmer-Thomas 1971 ; Cuomo 2001 ; Ferrari 2000 ; Giardina 2003 ; Heath 1921 ; Knorr 1989 ; O’Meara 1989 ; Romano 2000a ; Segonds 1994b ; Tannery 1912a ; Tannery 1912b ; Tannery 1915.  



















   



Claudia Maggi Doroteo di Sidone [i sec. d.C.]. È autore di un manuale astrologico in esametri in cinque libri, Pentabiblos, che ha rappresentato nella storia dell’astrologia una pietra miliare, come ritiene Stegemann 1939 cui dobbiamo la prima edizione dei frammenti, preceduta da una articolata introduzione con un pregevole capitolo sull’impiego delle forme epiche premesso all’edizione. Nell’opera si riconosce all’autore la qualifica di capostipite di una tradizione, soprattutto in considerazione delle difficoltà di una poesia che si misurava con una materia in un certo senso nuova e così ardua. [1] Non a caso →Firmico Materno, [2] nell’introdurre la trattazione degli antiscia (associazioni di segni zodiacali per coppie parallele: →Critodemo), fregia D. del complimento di vir prudentissimus nel lodarne gli apotelesmata scritti verissimis ac disertissimis verbis. Della trattazione degli antiscia di D. non è rimasto alcun frammento. →Efestione di Tebe,[3] oggi principale fonte dei suoi frammenti (ci ha conservato ben 365 dei 398 versi superstiti), nel citarlo sottolinea più

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volte la fattura assai pregevole dei versi, tanto da ritenerli degni di essere citati integralmente a perpetua memoria. D. è un personaggio che si colloca come cerniera tra due periodi, nella fase di passaggio da una letteratura anonima, sentita ancora come rivelazione ed ammantata di autorità religiosa (frequente il richiamo ai palaioi; Aijguvptioi →Nechepso e Petosiride), ad una vera letteratura astrologica. In particolare si veda Turcan [4] che nell’analizzare il ruolo preponderante dell’astrologia nella vita, nel pensiero e nella religione greco-romana, si sofferma sulle fasi attraverso cui passano la pratica e la letteratura astrologica, affermando che con Doroteo si chiude un’epoca, quella della letteratura apocrifa delle prime generazioni ellenistiche, e si dà inizio ad una vera letteratura astrologica in cui gli autori sono ben individuati e danno il proprio nome alle opere e alle dottrine. Tra le innovazioni più importanti, si deve registrare la conflatio tra epiteti dei pianeti ed epiteti di divinità pagane, che, realizzata attraverso un percorso di associazioni e assimilazioni progressive, rappresenta il più alto contributo stilistico e contenutistico dei processi assimilativi operati da D. (vd. Radici Colace 1992a).[5] Si deve a D. un’opera che nell’antichità fu autorevole, indiscussa, preziosa, che doveva intitolarsi Pentateuchos o Pentabiblos, [6] e si presentava come una compilazione generale del sapere astrologico onnicomprensiva e completa. Questi gli argomenti : (i) oroscopia e periodi della nascita ; (ii) matrimonio e figli ; (iii) durata della vita e cronocratorie ; (iv) corso degli anni di nascita ; (v) iniziative. Di questo trattato esametrico, molto citato ed usato dagli astrologi di professione, così esemplare da essersi meritato una traduzione araba nel ix sec., che giustifica la recente edizione di Pingree 1976, rimangono oggi poco meno di 400 versi, di tradizione indiretta, sopravvissuti in parafrasi senza fantasia e senza stile, oggetto di riusi frammentari e parziali (oltre che in Efestione, che cita, riassume in prosa e commenta il testo di D., altri frammenti sopravvivono in →Balbillo, Firmico Materno, →Retorio e nella tradizione bizantina ed araba). Indubbiamente il testo, la cui tradizione, ancorché perdente, è rimasta fuori dai percorsi culturali tradizionali, è un classico esempio di come la materia astrologica si sia prestata nel tempo ad essere manipolata, sezionata, scomposta e rimontata secondo un sistema eminentemente retorico, estremamen 









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doroteo di sidone

te sensibile all’interesse ed al livello del fruitore. Vd. →Astrologica, letteratura (grecia). Note. [1] Stegemann 1939, 1-71. – [2] Firm. math. 2, 29, 29. – [3] Hephaest. i, 297, 11 Pingree. – [4]

Turcan 1968, 392-405. – [5] Radici Colace 1992a, 187-203. – [6] Stegemann 1939, 6-7 ; Pingree 1976, Praefatio xiv.  

Paola Radici Colace

E Eclisse [e[kleiyi~, kaqaivresi~, defectus, defectio, eclipsis]. 1. Generalità. – Il mistero del sole che si spegne o della luna che si oscura hanno sempre affascinato l’uomo e stimolato la sua immaginazione. Quasi tutti i popoli dell’antichità hanno registrato, nei loro miti e racconti, questi fenomeni e forse dallo stesso desiderio di prevedere le eclissi di sole e luna nacque e si sviluppò la scienza astronomica. Il cielo è stato considerato immutabile per molto tempo in quanto riflesso della perfezione divina e tutti quei fenomeni che avvengono con regolarità hanno permesso di stabilire le prime unità di calcolo del tempo : il giorno, il mese e l’anno. Ogni fenomeno che alterava la regolarità del cielo poteva provocare oltre che meraviglia, soprattutto timore, in particolare la sparizione di un oggetto celeste specialmente se questo, come il sole o la luna, erano il riflesso di una potenza divina o addirittura divinità [→astrolatria]. Gli antichi, però, si accorsero presto che le eclissi si presentano con una certa regolarità e incominciarono a registrarle ponendo particolare attenzione ai tempi e alla percentuale di oscuramento dell’astro. Imparare a prevedere il fenomeno poteva conferire grande prestigio a quegli antichi astronomi, che sembravano essere in grado di penetrare i misteri di un cielo che era la sede degli dèi e quindi di essere vicini più di chiunque altro alle divinità e in rapporto diretto con esse. Ma il fine dello studio delle eclissi andava ben al di là del prestigio conferito a chi fosse stato in grado di prevederle: infatti ciò che contava per gli antichi astronomi, che riuscirono a scoprire una regolarità nella successione apparentemente capricciosa delle eclissi, era la necessità di mettere ordine in una volta celeste che, per via di fenomeni occasionali, poteva apparire imprevedibile quanto alla regolarità dei suoi moti suscitando inquietudine in chi la osservava. Inoltre l’osservazione e la misurazione delle caratteristiche di ogni singola e. potevano fornire dati che avevano una ricaduta pratica molto importante per la stessa →geografia : infatti gli astronomi dell’antica Grecia, come anche quelli arabi del Medioevo, misurando i tempi delle eclissi viste da diverse località, erano in grado di determinare con una certa precisione le differenze di longitudine. Gli astronomi babilonesi, intorno al v se 



colo a.C., erano riusciti a determinare la regolarità dei cicli di eclissi : un ciclo era detto saros e consisteva in un periodo di 18,03 anni (223 mesi sinodici) al termine del quale si ripetono le stesse eclissi lunari e solari. Durante uno di questi cicli si verificano 29 eclissi di Luna e 41 eclissi di Sole. La scoperta del ciclo dei saroi viene attribuita ai →Caldei circa 2500 anni fa, i quali si accorsero che il sole, la luna e la terra si ritrovano nella medesima condizione ciclicamente (Suid. s.v. Savroi, s 148, 1). L’astronomia presso gli antichi Egizî era abbastanza sviluppata; nonostante questo i reperti storici che riguardano l’antico Egitto non hanno rivelato testimonianze e riferimenti significativi sulle osservazioni delle eclissi. 2. Eclisse di sole. – La vita sulla terra dipende strettamente dalla luce e dal calore del sole; la sua scomparsa improvvisa durante un’eclisse era dunque un’esperienza traumatica. Per secoli la gente ha considerato le eclissi di sole un evento terribile e funesto, presagio di sventura, e ha compiuto rituali, cerimonie e sacrifici per esorcizzarle. La civiltà egizia, che adorava il sole come un dio il quale garantiva loro luce, calore e nutrimento, non ha lasciato documenti significativi sulle eclissi, eppure certamente questo popolo doveva aver assistito a molte eclissi nel corso della sua storia e certamente non poteva restare indifferente alla sua apparente scomparsa, ma è più che probabile che anche per la civiltà egizia l’eclissi di sole fosse un evento negativo. Infatti, se si considerano i geroglifici che significano ‘eclissare’ (detto di , si può notare la presenza astri), cioè nšn , che raffigura l’animale del determinativo sacro di Seth (nelle versioni ellenistiche della mitologia egizia è noto come Tifone), divinità dai tratti negativi in quanto fu il responsabile dell’uccisione del fratello Osiride, divinità solare, che sarà poi vendicato dal figlio Horus, anch’esso un dio solare. È nota anche l’espres, che significa ‘grande eclisse’ o sione forse ‘eclisse totale’ (eijlikrinh;~ e[kleiyi~): contiene un determinativo che viene normalmente usato per indicare cioè che è grande o imponente : wr . Questa mancanza di documentazione sulle eclissi ha sorpreso molti studiosi; tuttavia esiste un’ipotesi suggestiva in grado di dimostrare che l’immagine dell’e. solare sia stata tramandata in forma simbolica : la corona solare ha un’apparenza particolare durante alcune  





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eclisse

eclissi e il suo aspetto risente molto dell’attività delle macchie solari: infatti quando la loro attività è al minimo la luminosità della corona diminuisce, ma a livello della regione equatoriale del disco si osservano dei lunghi pennacchi di gas incandescente che si estendono nello spazio. Pare che possa esistere un’analogia tra questi pennacchi, che sicuramente saranno stati notati dagli astronomi e sacerdoti egizî, e le ali simboliche del disco solare divinizzato , la cui immagine veniva spesso posta all’ingresso delle tombe e dei templi, forse per raffigurare il sole vincitore sull’oscurità. Peraltro immagini simili raffiguranti il ‘sole alato’ compaiono anche in una stele di Assurbanipal ii a Nimrud e in un rilievo neoittita del palazzo di Kapara, entrambi risalenti al ix secolo a.C. Nel mondo classico le eclissi solari venivano spesso vissute con timore ; in un frammento di Archiloco l’e. è intesa come una totale sovversione dell’ordine del mondo che getta nella paura e nello sconforto gli uomini sconvolgendo le loro certezze : « Nulla c’è che si possa non aspettarsi o si possa negare, giurando, nulla che desti stupore, poiché Zeus, padre degli Olimpi, a mezzogiorno ha fatto notte, nascondendo la luce del sole luminoso: giunse per gli uomini una triste paura. Da allora tutto diventa degno di fede, tutto può essere atteso per gli uomini, nessuno di voi si stupisca nemmeno vedendo le fiere scambiare il pascolo marino con i delfini e che a quelle diventino più gradite le onde risonanti del mare rispetto alla terra, a quelli il monte boscoso ». [1] →Talete di Mileto avrebbe previsto l’e. del 585 a.C. e, come riferisce →Plinio il Vecchio, [2] fu il primo tra i Greci a studiarle e a tentare di spiegarne le cause. Erodoto (7, 37, 2-3) narra di una e. di sole che spaventò Serse che si accingeva ad attaccare la Grecia nel 480 : per fugare le sue paure gli astronomi di corte gli assicurarono che quel fenomeno era un segno propizio, in quanto la luna sarebbe stata dalla parte dei Persiani, mentre il sole dalla parte dei Greci e se, infatti, è la luna ad oscurare il sole, vuol dire che la vittoria è persiana (7, 37, 7-15). La più famosa e. solare del mondo classico, predetta da Talete, è quella che si verificò nel corso della battaglia tra Persia e Lidia il 28 maggio 585 a.C. Erodoto (1, 74, 2-3) riferisce che i due eserciti interpretarono l’e. come un triste presagio e immediatamente posero fine alla guerra dopo sei anni di scontri. Nonostante l’e. solare sia sempre stata considerata dalla maggior parte  













degli uomini come un evento soprannaturale, pare che gli astronomi del suo tempo sapevano bene che tale fenomeno era causato dalla sovrapposizione del disco lunare su quello solare, sebbene non riuscissero a capire perché la luna, che appariva sempre nel cielo come un corpo splendente di luce argentea, in quella occasione apparisse come un corpo oscuro. Plutarco, in una delle sue storie dedicata ad Alessandro Magno, descrive un’e. totale di sole avvenuta il 20 settembre del 331 a.C. Un’altra e., osservata da Cheronea, sua città natale, il 20 marzo 71 d.C. viene descritta minuziosamente. Nelle Vite Parallele molti personaggi nascono, muoiono, o compiono grandi gesta in coincidenza di e. di sole o luna. Particolarmente significativa è la figura di Romolo che viene concepito durante un’e. di sole e muore durante un’altra (Plu. Rom. 12, 1 sgg.; 27, 1 sgg.) ; secondo la tradizione, infatti, Romolo scomparve quando aveva cinquantaquattro anni, alle None di Quintile (17 luglio 709 a.C.), in un giorno in cui il sole era oscurato: anche se non è chiaro se invece la causa fosse stata un mero evento atmosferico. Secondo Velleio Patercolo[3] Roma fu fondata 437 anni dopo la caduta di Troia (1182 a.C.), subito prima di un’e. solare (il fenomeno fu osservato a Roma il 25 giugno 745 a.C.), che fu osservata dal poeta Antimaco di Teo, nel nono giorno del mese egizio di Pharmuthi, ovvero il 21 aprile, come universalmente accettato (Plu. Rom. 12, 2). Plutarco racconta che un certo Tarruzio, [4] matematico, astrologo ed amico di Marco Terenzio →Varrone, era riuscito a calcolare il giorno esatto in cui Romolo e Remo furono concepiti, cioè il 24 giugno del 772 a.C. al momento di una e. totale di Sole, e il giorno in cui nacquero, cioè il 24 marzo del 771 a.C. La storia delle eclissi nel mondo antico è utile anche per gli studî cronologici ; per esempio un’e. citata da Tito Livio[5] riporta la data dell’11 quintile del -189 (190 a.C.), mentre calcolandone la data oggi tale e. viene datata al 14 marzo-189. Lo scarto del calendario di Numa rispetto alle stagioni era allora di quasi quattro mesi. Il mondo romano, dunque, ha visto nelle eclissi di sole un evento soprannaturale che non necessariamente poteva essere foriero di sventura, ma poteva annunciare eventi decisivi per la storia di Roma. 3. Eclisse di luna. – La luna, il corpo celeste più vicino alla terra, con la sua mutevolezza apparente dovute alle varie fasi, con la sua influenza esercitata sulle maree e le eclissi, è di 





eclisse ventato un elemento estremamente significativo nell’ambito di ogni esperienza mitologica e religiosa del mondo antico. Non è un caso che il calendario lunare, basato su cicli più facilmente osservabili e misurabili rispetto a quelli delle stelle, dei pianeti e del sole stesso, abbia preceduto quello solare. Solitamente associata a potenze soprannaturali femminili, la luna nel pantheon egiziano, dopo la fondazione di Alessandria e l’ellenizzazione di molti culti autoctoni, è rappresentata dalla dea Iside, sposa della divinità solare Osiride, ed è rappresentata con l’immagine della luna crescente sul petto e sul capo: a volte le ‘corna’ della falce lunare sono sostituite da corna bovine. Nel mondo egeo, un culto lunare minoico sembra attestato nell’isola di Creta da rappresentazioni della luna su gemme e anelli. Sebbene nella religione greca la luna non rivesta aspetti particolarmene significativi, ha un ruolo importante nel folklore, nella magia e nella poesia greca di età arcaica. Nei poemi omerici essa non è considerata una divinità ; solo con Esiodo (Th. 371-374) viene stabilita la genealogia della divinità lunare Selene, figlia del Titano Iperione e di Theia e sorella del Sole e dell’Aurora. Sembra che a Roma il culto della Luna fosse molto antico: infatti secondo una testimonianza di Varrone, [6] sarebbe stato introdotto dal sabino Tito Tazio e dunque precedette l’introduzione di modelli greci quali Selene o Artemide (identificata con Diana). Nelle civiltà antiche (come anche in molte culture primitive), la luna ebbe dunque un ruolo di primo piano non solo nell’ambito di ogni esperienza religiosa, ma anche in quello semplicemente pratico del calcolo del tempo. Questo rapporto tra l’uomo e la luna entrava in crisi quando essa si manifestava non più nella normalità delle sue fasi, ma attraverso un fenomeno inizialmente imprevedibile e inquietante come le eclissi, che oggi sappiamo essere causate dall’ombra della terra proiettata sulla faccia visibile del satellite. Anche le eclissi lunari, pertanto, erano interpretate dagli antichi come un segno della collera della divinità. Nelle civiltà egiziana e mesopotamica le eclissi sono state osservate e studiate, ma le cause restavano ancora oscure. Sembra proprio che nel mondo mediterraneo fu la scienza greca a chiarire le ragioni di tale fenomeno attraverso le osservazioni di →Talete ma, più presumibilmente, la scoperta va attribuita ad →Anassagora, attorno alla metà del v secolo a.C., anche se le teorie  



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più avanzate sul moto del sole e della luna risalgono ad →Ipparco (ii secolo a.C.). In Omero l’e. è intesa come la ‘morte’ dell’astro (Od. 20, 356-357), mentre da un passo dell’opera De facie in orbe Lunae (Peri; tou` ejmfainomevnou proswvpou tw'/ kuvklw/ th`~ Selhvnh~) di Plutarco, [7] apprendiamo che per altri poeti vissuti tra il vii e il v secolo a.C., quali Mimnermo, Archiloco, Stesicoro e Pindaro, l’astro era ‘tolto’, ‘rubato’ al cielo mediante interventi magici o soprannaturali e proprio per questo motivo l’e. era detta anche kaqaivresi~. Lo stesso Plinio ricorda un titolo, [8] La donna di Tessaglia, dato da Menandro a una commedia che rappresentava le cerimonie misteriose o litanie (ambages) che compivano le donne per far «discendere la luna» (detrahere Lunam). Sappiamo che →Aristarco di Samo si servì di questo fenomeno, partendo dal dato che l’ombra della terra proiettata sulla superficie lunare equivale a due volte il diametro della luna, per calcolare la distanza e le dimensioni di sole e luna, basandosi su uno schema geometrico costituito da un triangolo i cui vertici sono rappresentati dai due astri e dall’osservatore sulla terra. [9] Altre notizie relative all’eclissi lunare, probabilmente copiate da testi babilonesi perduti, si trovano nell’Almagesto di →Tolomeo in cui vengono ricordate 19 eclissi di Luna, avvenute tra il 720 e il 380 a.C., tratte da antichi elenchi babilonesi (Ptol. Tetr. 4; Arist. Coel. 2, 12; Cumont 1912). Considerate in Roma un prodigio, registrate con ogni probabilità nelle Tabulae, che i Pontefici redigevano ogni anno, le eclissi furono studiate e predette, già dal ii secolo a.C., da C. Sulpicio Gallo, il primo vero astronomo romano, che dovette utilizzare tutte le teorie in precedenza elaborate nell’ambito della cultura greca ; pare che anche lui riuscì a chiarire le origini naturali del fenomeno. [10] Tito Livio scrive[11] che il giorno prima della battaglia di Pidna, nella quale l’esercito romano guidato dal console L. Emilio Paolo sconfisse quello macedone del re Perseo, il tribuno Sulpicio Gallo impressionò i soldati prevedendo l’e. di luna che si sarebbe verificata quella sera, dimostrando, dunque, che le eclissi erano fenomeni naturali prevedibili. Nonostante i tentativi di spiegazione scientifica, anche nella letteratura latina sono numerosissimi i passi che attestano il convincimento circa le eclissi di luna come effetto di incantesimi magici che possono distogliere l’astro dalle sue funzioni celesti ‘attirandolo’ sulla terra.  









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edilizia commemorativa romana

Plinio, infatti, ricorda che prima della scoperta delle cause naturali del fenomeno gli uomini credevano che la Luna potesse essere vittima di malefici. In →Virgilio, Orazio e Tibullo si legge che i carmi e gli incantesimi possono ‘tirar giù’ (deducere) la luna dal cielo. [12] In Seneca, nella tragedia Medea, [13] la donna si rivolge così alla luna : « E ora, evocata dai miei incantesimi, vieni, o astro delle notti, con il tuo aspetto più sinistro e la minaccia della tua triplice fronte ». Silio Italico, infine, ricorda che fu Angizia la prima a rivelare gli incantesimi capaci di manipolare la natura e tra questi il modo di ‘staccare la luna dal cielo’. [14] Lo scopo dei rumori che le antiche genti italiche producevano nel corso di un’e. doveva essere quello di impedire che le parole magiche arrivassero fino alla luna oppure, secondo una credenza diffusa ancora tra i popoli primitivi, di spaventare quell’essere mostruoso che stava divorando la luna. È certo comunque che per gli antichi Romani durante l’e. la luna si trovava in uno stato di ‘sofferenza’: infatti presso gli scrittori latini l’espressione Luna laborat, «la Luna soffre», era un’espressione molto frequente. Nei più antichi miti italici pare che non sia documentata la credenza in un mostro ‘divoratore’, quindi nell’immaginario di quelle genti tali rumori servivano solo per impedire che le parole magiche arrivassero ‘integre’ in cielo e quindi a scongiurare il rischio che la luna cadesse vittima dei malefici prodotti da queste formule magiche. Tibullo infatti afferma : Cantus et e curru Lunam deducere temptat / et faceret, si non aera repulsa sonent. [15] Dunque, vista la natura maligna dell’e. di luna, il fenomeno doveva necessariamente portare con sé influssi nefasti : così Tacito ricorda l’e. di luna verificatasi nella notte tra il 26 e il 27 settembre del 14 d.C. in Pannonia, [16] durante la quale i soldati associarono al fenomeno le proprie difficoltà e disperavano di poter ottenere il successo se l’astro non fosse riapparso nel suo splendore. Queste superstizioni erano così tenaci che erano ancora vive in epoca cristiana: infatti da un’omelia di S. Massimo, vescovo di Torino, e da numerosi altri testi, apprendiamo che ancora nel v secolo d.C. in Occidente si usava produrre clamores e rumores durante le eclissi lunari.  







8, 69 ; Hor. epod. 5, 45-46 ; Tib. 1, 8, 21-22. – [13] Sen. Med. 750-752. – [14] Sil. 8, 498-501. – [15] Tib. 1, 8, 2122. – [16] Tac. ann. 1, 28, 1-27. Per una lista di eclissi attestate in fonti antiche, vd. RE, VI, 2352-2364 (s.v. Finsternisse).  



Bibliografia. Bicknell 1967 ; Bowen 2008 ; Cumont 1912 ; Englert 2008 ; Graham 2008a ; Graham 2008b ; Lehoux 2008 ; Mendell 2008 ; RE VI, 2352-2364.  













Note. [1] Archil. fr. 122 West = 114 Tarditi. – [2] Plin. nat. 2, 53, 7. – [3] Vell. 1, 8, 4-5. – [4] Plu. Rom. 5, 3 e sgg. – [5] Liv. 37, 4, 1 sgg. – [6] Varr. ling. 5, 74. – [7] Plu. De facie in orbe Lunae 931. – [8] Plin. nat. 30, 7, 2-5. – [9] Mendell 2008, 131-133. – [10] Plin. nat. 2, 53, 1-13. – [11] Liv. 44, 37 sgg. – [12] Verg. ecl.







Carmelo Lupini









Edilizia commemorativa romana. 1. L’arco onorario (aJyiv~, puvlh, pulwvn, arcus, fornix, più rar. ianus). – L’arcus [→Costruzione (sistemi e tecniche], specie a tutto sesto, è utilizzato peculiarmente per l’erezione di monumenti celebrativi, quali gli archi onorari e le portae triumphales. Tali complessi monumenti scaturiscono, probabilmente, da molteplici influssi. Le suggestioni dei monumenti celebrativi ellenistici e gli ingressi monumentali greci qui si fondono, con ogni probabilità, con la struttura italo-romana della porta arcuata, subendo anche i condizionamenti psicologici imposti dalla concezione romana del trionfo, inteso come passaggio attraverso una porta simbolica. Da iscrizioni epigrafiche, da fonti numismatiche e letterarie, tuttavia, si deve desumere che gli archi onorari costituissero i monumenti caratteristici dell’architettura romana, dotati di propria individualità ; erano generalmente realizzati in marmo (a. marmoreus), potevano essere isolati o inglobati in un complesso edilizio ; potevano essere bifronti o quadrifronti (se erano posti all’incrocio di due vie che si incontravano ad angolo retto) (tetravpulon, tetrapylum) e decorati (a. cum ornamentis) da statue e quadrighe (a. cum statuis, cum statua et quadriga, cum quadrigis, cum seiugibus), da trofei (a. cum tropaeis, ornatus spoleis) o da altri simboli (a. cum insignibus coloniae, cum insignibus triumphorum o triumphis insignis). Questo genere di a. fu definito anche triumphalis, secondo una terminologia dapprima diffusa in Africa e poi nel resto del mondo romano a partire dal basso Impero. Riguardo alla tecnica costruttiva, l’a. era di norma realizzato come passaggio semplice o multiplo coperto da volte. La copertura a volta del passaggio rappresenta il segno distintivo del monumento e della sua romanità. La volta può essere realizzata con un unico blocco murario su pilastri portanti ; oppure può essere impostata su una cornice che delimita i pilastri  





edilizia commerciale nella parte superiore. L’a. può essere inoltre arricchito sulla facciata da semicolonne, o colonne staccate, semplici o doppie. Negli a. isolati, non compresi cioè all’interno di altre costruzioni aventi carattere di monumento onorario (come talvolta accade per gli a. bifronti in circhi, stadi, acquedotti, etc.), la decorazione si estende su tutto il monumento, anche sui lati corti. La parte alta dell’edificio costituisce la piattaforma su cui collocare trofei, statue di vincitori e vinti, per lo più in bronzo. Altre statue possono essere collocate in nicchie. Sulle superfici libere dell’attico sono poste le sculture di maggiore rilievo artistico, che rappresentano complesse scene di guerra o trionfo, apoteosi o esequie funebri, scene mitologiche e simboliche. I più antichi a. onorari furono realizzati, con intenti votivi e commemorativi, nel corso del ii sec. a.C. da generali vittoriosi. Il loro impiego si diffuse nel corso del secolo successivo per affermarsi definitivamente in età imperiale, soprattutto a Roma e in Italia, tanto negli edifici pubblici dedicati ai sovrani quanto in piccoli edifici onorari e funerari di carattere privato. A. onorari sono attestati diffusamente anche in Gallia e in Africa. La loro funzione non è soltanto celebrativa, ma varia a seconda del contesto in cui sono eretti: la funzione celebrativa si esplica quando l’a. viene eretto in onore dell’imperatore, dei membri della famiglia imperiale, di generali o magistrati; se l’a. è innalzato in memoria di defunti, anche di semplici privati cittadini, riveste una funzione funeraria. Nei casi in cui l’a. sia ubicato in posizione di accesso a città, territori, oppure ad aree recintate (per es. lo ianus geminus nel Foro romano), funge da termine confinario, da indicazione topografica, non disgiunta dal carattere sacrale che i passaggi e le porte assumevano presso il mondo romano. Nel caso, infine, della sua dedicazione a colonie o municipi, oppure a divinità, svolge anche una funzione religiosa. Una sintesi delle diverse istanze ricoperte dall’a. onorario si può riscontrare in monete di Traiano in cui compare l’a. dedicato a Giove Ottimo Massimo (ricco di riferimenti figurativi alla vittoria del dio sui Giganti) o quello dedicato a Tito sulla via Sacra (con sculture di soggetto trionfale e funerario). Prevale, comunque, l’intento celebrativo e allusivo a vittorie e conquiste militari. Anche in questo caso, comunque, non mancano i riferimenti figurativi alle divinità tutelari. 2. La porta monumentale [ejpinivkiai puvlai,

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porta triumphalis]. – Un tipo particolare di a. onorario è la p. m., che condivide con l’arco, talvolta, la struttura di edificio isolato su quattro lati, ma è di carattere più generico, in quanto non è specificamente dedicata a un personaggio illustre di cui rechi statue o insegne. Ne è un notissimo esempio è la p. m. edificata nel Campo Marzio a Roma, in cui il carattere religioso delle cerimonie trionfali rappresentate predomina sull’intento onorario. 3. La colonna onoraria [columna]. – Si tratta di una struttura a sviluppo verticale e sezione tendenzialmente circolare, utilizzata nel mondo classico con funzione portante sia nelle costruzioni lignee che in quelle lapidee o marmoree. In età romana la c. diviene il piedritto dell’arco, e pertanto viene sottoposta a sollecitazioni oblique. Fin dall’antichità, comunque, la c. assume anche valore decorativo, religioso o celebrativo, perdendo del tutto la funzione portante. Essa, quindi, può annoverarsi tra i monumenti celebrativi, il cui maggior e più noto esempio è la c. Traiana (112 d.C.), la prima ad utilizzare per i suoi bassorilievi manodopera romana e soggetti autoctoni. Bibliografia. Adam s.d. ; Architettura Romana 1965 ; Brown 1963 ; Bujoni 1966 ; Spano 1913 ; Lugli 1957 ; Macaulay 1980 ; MacDonald 1965 ; Picard 1965 ; Rossini 1836.  











   



Shara Pirrotti Edilizia commerciale. 1. I magazzini [wJrei`on, sitofulakei`on, ajpoqhvkh, horreum, granarium]. – I m. sono costruzioni particolari ideate all’esplicito fine, puramente pratico, di offrire uno spazio coperto dove depositare derrate alimentari. M. di uso privato sono menzionati nel Vicino Oriente da vari autori greci col nome di qhsauroiv. Sono annoverati anche tra gli edifici dei palazzi minoici di Creta e delle civiltà mesopotamiche; gli scavi archeologici hanno infatti evidenziato ambienti rettangolari allungati, allineati e spesso affrontati su lunghi corridoi, al cui interno sono stati rinvenuti grossi pivqoi parzialmente interrati, destinati appunto alla conservazione di derrate alimentari e liquidi (olio, vino). Nell’Egitto tolemaico, come è rappresentato sui dipinti oggi conservati presso il Ramesseo di Tebe, i m., costruiti in argilla e legno, o anche in laterizi, hanno pianta circolare o ellittica coperta da volte. In Grecia i m. vengono utilizzati per la prima vol-

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edilizia commerciale

ta come edifici pubblici disposti intorno ad un cortile porticato, connessi ad un mercato (vd. infra 4), di uso generalmente temporaneo. Ne esistevano esempi ad Atene e Corinto nell’età classica e, in età ellenistica, soprattutto dal iii sec. a.C. in poi, a Pergamo, Cnido, Smirne, Perge, Efeso e in altre grandi città mercantili. In particolare, a Pergamo l’edificio cosiddetto Arsenale (vd. infra 3), della fine del iii-inizi ii sec. a.C., era formato da edifici allungati di forma rettangolare di legno su basamenti di pietra piuttosto allungati che, benché riservati a scopi militari, dovevano essere molto simili nella tecnica costruttiva ai m. M. di tradizione ellenistica si mantengono anche in Licia, dove in età imperiale sono realizzati edifici di un piano a pianta rettangolare, ripartiti in ambienti comunicanti coperti da volte a botte e aperti su un piccolo portico. Se l’Arsenale di Pergamo servì da modello ai m. romani utilizzati negli accampamenti, in realtà, i Romani resero i loro m. per uso civile del tutto autonomi e straordinariamente diffusi per tutta l’età romana, tanto da essere particolarmente attestati in età imperiale sia dalle fonti letterarie, sia da quelle epigrafiche e giuridiche. Le caratteristiche edilizie dei m. romani sono costituite dal fatto che sono recintati da un alto muro, per isolarli dalle costruzioni contigue, e consistono in diverse serie di ambienti comunicanti tra loro (fino a 4), detti cella o ajpoqhvkh, disposti intorno a un cortile spesso porticato. Vi si accedeva da un corridoio che dalla strada immetteva direttamente nel cortile. Il tipo-base, caratterizzato da una regolarità di pianta, facilità di movimento e disimpegno, poteva evolversi in un tipo a doppio cortile porticato con un numero raddoppiato di ambienti, tutti circondati da un unico muro ; oppure esemplificarsi in un tipo di m., rinvenuto lungo le banchine e in prossimità degli scali nelle città portuali (Pozzuoli, Ostia e Porto), senza porticato interno e con un cortile ridotto a semplice corridoio di passaggio e comunicazione tra due sole serie di cellae affrontate. Quest’ultimo tipo può considerarsi il prototipo dei m. romani e il più antico (ne sono documentati esempi del i sec. d.C.). Il materiale utilizzato per la realizzazione dei m. era inizialmente il tufo o altra pietra da taglio, poiché era particolarmente resistente agli incendi, all’umidità e anche a tentativi di furto. In età imperiale anche questo tipo di edifici fu realizzato in opus coementicium o late 

ricium [→costruzione (sistemi e tecniche)]. Se il m. era di uso privato viene definito horreum rusticum o horreum urbanum, a seconda che sorgesse in campagna o in città. Ne danno testimonianza Columella, Varrone, Catone, Vitruvio, Plinio, i quali tutti specificano che tali edifici sorgevano lontano dalla domus [→edilizia privata] per proteggerla da eventuali incendi. L’orientamento dei m., inoltre, era molto importante, per preservare la merce all’asciutto e ben aerata : si preferiva collocarli a N o a E. Se il m. era destinato al grano, doveva essere costruito in legno [→materiali edili] su alti pilastri o in laterizi di tre piedi di spessore. Le pareti, sormontate da una volta, non potevano avere finestre. Se, invece, i m. erano destinati ai liquidi, avevano celle basse a livello del terreno che dovevano mantenersi fresche per il vino e più tiepide per l’olio. Nelle celle vinarie, inoltre, era prevista una piattaforma a gradini, detta cuneus, che assomigliava nella forma ai cunei dei teatri [→architettura teatrale]. Talvolta i m. erano disposti su due piani, riservando a quello superiore gli uffici amministrativi e i depositi delle merci di maggiore deperibilità o pregio. Al piano superiore si accedeva da scalinate disposte sia al centro che ai lati del porticato, che proseguivano in un soprastante loggiato coperto da una tettoia. All’esterno del muro di tali edifici spesso si disponevano tabernae, cedute in affitto a negozianti di generi diversi. Gli scavi archeologici, che hanno riscontrato m. rustici a Pompei, Ostia e Boscoreale, confermano i dati forniti dalle fonti. Se, viceversa, il m. era di uso pubblico, veniva definito con il plurale horrea e gli aggettivi publica o fiscalia. Erano particolarmente numerosi a Ostia (dove ne sono stati riportati alla luce diciassette), Pozzuoli, Roma (h. Germaniciana et Agrippiana, h. Galbana, Seiana, Lolliana), nonché in Sicilia, Africa settentrionale ed Egitto, cioè nelle province fornitrici di derrate alimentari. Il più antico esempio dell’Urbe è rappresentato dagli horrea Sempronia, nel quartiere annonario per eccellenza, emporio del porto fluviale alle pendici dell’Aventino, costruiti dopo la legge agraria di Caio Gracco del 123 a.C. Rinomati erano anche gli h. Galbana (detti anche Sulpicia), tra il Testaccio e il Tevere, destinati al deposito di materiali diversi (olio, vino, frumento, legumi, stoffe, avorio, marmi). Gli horrea urbani esplicavano infatti le funzioni di immagazzinamento di grano,  

edilizia commerciale distribuzione di derrate al popolo, deposito di generi di monopoli (sale, etc.) ed altre merci. Non mancavano però edifici specializzati nella conservazione di un solo tipo di merci (Piperatoria, Candelaria, Fabaria, Chartaria, etc.). Tutti gli h. erano posti sotto la sorveglianza degli aediles, durante la repubblica, e dei procuratores del praefectus annonae in età imperiale. Durante l’Impero si diffusero ampiamente a Roma anche m. privati ceduti in affitto, destinati al deposito di merci e di beni personali. Per questo particolare tipo di m. si sono conservate norme giuridiche, dette leges horreorum, dalle quali è possibile individuare anche la disposizione interna delle attrezzature e dei mobili contenitori. Sono infatti menzionati armaria fissati alla parete e arcae, cioè grandi cassoni profondi e non molto alti. Tutti i mobili erano in legno. Nelle province sono presenti soprattutto m. militari, specificamente in Inghilterra e Germania, realizzati presso il pretorio, lungo la via principalis, con mura in pietra rinforzate da contrafforti e un cortile centrale che disimpegna non soltanto le cellae, ma anche ambienti minori destinati ai servizi. Il pavimento, in terra battuta, è sospeso dal suolo mediante pilastrini, al fine di creare un’intercapedine per proteggere le derrate dall’umidità. 2. I portici [porticus]. – Un tipo particolare di magazzino è la porticus, destinata sia al deposito che alla distribuzione e alla vendita diretta delle merci. Il p. di linea essenziale di età classica si evolve in questo tipo con l’aggiunta di un piano superiore, a cui si accede da scale, che riproduce la suddivisione dello spazio sottostante (il prototipo è attribuito all’architetto Sostratos di Cnido [→Architetti]). Nel muro di fondo di questo nuovo tipo di p. si impiantano fitte botteghe, alle cui spalle spesso si creano esedre. In entrambi i piani si usa l’ordine dorico per l’esterno e ionico per l’interno. La città che più di tutte fa uso di p. multipiani è Pergamo, dove la necessità di sfruttare completamente la profondità dei p. anche in città costruite su montagne ha comportato la sopraelevazione del colonnato su un sottosuolo scavato per far posto alle botteghe. A Roma esistevano diversi e rinomati esempi di p. : la P. Aemilia, costruita presso il Tevere nel 192 a.C. ; la P. Margaritaria, di epoca domizianea, sorta nel Forum adiectum in summa sacra via ; la P. Minucia Frumentaria (del tempo di Claudio ?),  







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dislocate, rispettivamente, presso l’Emporio, il Foro e il Campo Marzio. Erano vasti quadrilateri, nei quali i pilastri tracciavano serie di gallerie e di ambienti allineati senza soluzione di continuità, che talvolta si intersecavano tra loro. La P. Aemilia è l’esemplare più antico di edificio in calcestruzzo esistente a Roma. La costruzione di tali strutture si incrementa alla fine del periodo repubblicano, quando Roma diventa la capitale politica ed economica del Mediterraneo. Un esempio molto simile è rappresentato dagli horrea di Narbona, descritti molto probabilmente da Sidonio Apollinare (carm. 22, 40 sgg.), in cui le gallerie sono sotterranee, fiancheggiate ai lati da piccoli ambienti coperti a volta. 3. L’arsenale [newvria, skeuoqhvkh, nauphvgion, newvlkion, navalia]. – Il termine è di origine araba, e indica il complesso architettonico di strutture destinate a custodire le navi e le suppellettili militari. Sia in greco che in latino è espresso al plurale, a sottolineare che l’edificio fosse in realtà costituito da un complesso di costruzioni omogenee e simili tra loro. Occorre distinguere, per i termini greci, i newvria, cioè, gli a. in cui si riparava la flotta, dalle skeuoqh`kai, i magazzini che erano parte degli a. veri e propri ; i nauphvgia, che erano le parti del cantiere dove si costruivano e riparavano le navi, dai newvlkia, cioè i luoghi dove le navi venivano parcheggiate e custodite. Per i newvria greci del secolo iv e del principio del iii a.C. esistono numerosi luoghi letterari confermati dai ritrovamenti archeologici, mentre non esistono notizie per quelli anteriori a questa data, che pure dovevano esistere, perché ogni cittadina marittima che avesse un’importanza commerciale aveva certamente il suo a. Si può presupporre che fossero interamente in legno, simili a quelli di Samo, che sono i primi a. citati dalle fonti. Un altro dei più antichi a. greci si trovava nel sacrario di Eleusi, di epoca periclea, la cui struttura, molto semplice, constava di un locale a quattro navate costruito con la tecnica dell’opus incertum [→costruzione (sistemi e tecniche)]. Il soffitto era sostenuto da quattro pilastri angolari, su cui poggiavano anche piani sospesi, inseriti a mezza altezza. [1] Sempre in età periclea fu costruito il noto a. del Pireo, capace di contenere ben 400 navi, incendiato a seguito della guerra del Peloponneso, distrutto per ordine di Silla, e ricostruito un secolo più tardi (Plu. Sull. 14, 7). Era suddi 

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edilizia commerciale

viso nelle tre baie fortificate di Kavnqaro~, Zeva e Municiva (Kähler-Guidi 1958, 684). Di esse, la prima era l’emporio commerciale di Atene e la seconda il principale porto militare della città. In seguito alla ricostruzione del iv sec., le costruzioni lignee furono sostituite da basamenti lapidei su cui poggiavano travature di legno che sostenevano tetti a due spioventi, per uno spazio idoneo a contenere 196 newvsoikoi (celle per navi da guerra). L’intero gruppo di costruzioni era circondato da un muro poligonale che cingeva l’intera baia (povro~), dal quale si dipartivano in senso longitudinale numerosi colonnati verso il mare, distante non più di 40 m. Lungo i colonnati correva una guida lapidea di circa 3 m, la cui inclinazione consentiva alla nave custodita di entrare e uscire agevolmente. Un altro a. abbastanza noto era quello di Oijniavdai (Eniade) in Acarniana, che si differenziava da Zeva, di cui peraltro condivideva proporzioni e disposizioni delle celle, perché la skeuoqhvkh era attigua alle celle e non separata da esse ; ciascuna cella, inoltre, era dotata di un proprio tetto a due spioventi ; le guide su cui scorrevano le chiglie delle navi, infine, erano più perfezionate, in modo da agevolare al massimo le manovre di accesso e uscita. Entrambi gli esempi, tuttavia, sono databili ai primi anni del iv sec. Il tipo ellenistico più noto è l’a. di Pergamo, costruito sulla sommità della rocca con basamenti in pietra per sostenere edifici quadrangolari di legno adibiti sia a depositi per l’artiglieria della fortezza, sia a granai. Se ne conservano le fondazioni, che consentono di ipotizzare gallerie lunghe da 31,5 a 47,5 m e larghe da 6 a 18 m. Le coperture dell’a. di Pergamo erano costituite da un tetto a un solo spiovente, con un’obliquità minima che costringeva le tegole a poggiare sul tavolato che rivestiva il cavalletto del tetto, su cui erano fissate con l’argilla. A Pergamo furono costruiti tre a. tra il iii e il ii sec. a.C., che funsero da modelli a quelli rinvenuti negli accampamenti di Scipione in Spagna. Nessun dato è possibile invece raccogliere per ricostruire l’a. ellenistico di Qessalonivkh (odierna Salonicco), fatto incendiare dal re di Macedonia Perseo dopo la battaglia di Pidna (168 a.C.). Il compito degli a., meramente funzionale, metteva in secondo piano l’aspetto estetico della costruzione, consistente nell’armonia delle proporzioni. Tali edifici, infatti, dovevano assolvere problemi eminentemente pratici. La loro struttura era di norma costituita da una  



galleria lastricata in pietra, lunga un centinaio di m e larga circa 20, divisa in tre navate da due file di colonne. La navata centrale serviva al passaggio, mentre quelle laterali, su due piani, di cui quello inferiore ulteriormente ripartito in recinti, era utilizzato come deposito di cordami e vele, che venivano disposte in appositi armadi. Il piano superiore era invece spesso dotato di scaffalature. Gli a. dovevano mantenere intatto il materiale e per questo motivo furono dotati di impianti di aereazione rudimentali, mediante la realizzazione di basamenti in pietra alti quel tanto che bastasse a preservare il materiale dall’umidità (1-1,50 m). Su di essi veniva appoggiata la struttura lignea che costituiva il vero e proprio deposito, come avverrà per gli horrea romani. Non mancano, tuttavia, esempi di edifici di particolare bellezza artistica, come l’a. del Pireo, costruito da Filone intorno al 246230 a.C., e indicato da Plutarco come una delle meraviglie del mondo. [2] Sull’a. del Pireo è inoltre giunta fino a noi notizia, grazie a →Vitruvio, della relazione del suo ideatore, intitolata De aedium sacrarum symmetriis et de armamentario, quod fuerat Piraei portu. [3] Dalle fonti si apprende che le navate laterali di questo imponente edificio avevano grandi porte di bronzo, 36 finestre sui lati lunghi e 3 su quelli corti per la loro aereazione e illuminazione. Scarsissime sono le notizie sui navalia romani, detti anche textrina, per analogia, probabilmente, tra l’ordito del legno delle carene e la tessitura delle stoffe. Questo secondo termine doveva forse specificare la parte dell’a. riservata alla costruzione e riparazione delle navi. I pochi riferimenti consentono di ipotizzare che i primi a. di età repubblicana dovessero conformarsi ai tipi ellenistici. Anche Vitruvio (7, praef. 12) è avaro di informazioni, che si limitano all’esposizione degli edifici (a nord per evitare l’eccessivo caldo e gli insetti), al tipo di materiale (meglio non utilizzare il legno per scongiurare gli incendi), alle proporzioni (tali da accogliere anche le navi più grandi). Qualche informazione giunge dai bassorilievi della colonna Traiana, in cui è rappresentato un porto con l’a., di cui si distinguono le celle che, al posto del tetto a due spioventi di età ellenistica, presentano volte in muratura. Sulla Colonna Traiana è anche riprodotto un armamentarium, corrispettivo della skeuoqhvkh. Un altro a. (di Pozzuoli ? di Miseno ?) è rintracciabile su un affresco della Casa del Labirinto a Pompei, oggi conservato nel Museo Nazionale di Napoli (Kähler-Guidi 1958, 1, 685).  



edilizia commerciale Un’iscrizione latina riferisce, inoltre, che L. Coilius aveva costruito in età repubblicana un a. a Ostia, che fu restaurato nel ii sec. d.C. da P. Lucilio Gamala. Altri navalia esistevano già nel 332 a.C. nella stessa Roma e il transito alle navi era consentito solo abbassando gli alberi per zigzagare attraverso i piloni dei ponti. Le stesse navi superstiti di Perseo, al termine della iii guerra di Macedonia, furono trasportate a Roma nel Campo Marzio. L’ubicazione degli a. di Roma è nota per i riferimenti delle fonti, piuttosto che per i ritrovamenti archeologici. Gli autori concordano nell’affermare che in età repubblicana esistessero due a. sulle rive del Tevere e uno nel Campo Marzio (secondo l’attestazione di Ennio riportata da Servio), [4] uno ai piedi dell’Aventino, presso lo sbocco della Cloaca Maxima, e l’altro nella zona oggi compresa tra Palazzo Farnese e il fiume. Il primo, unito all’emporium, prendeva il nome di navale inferius. Se ne è conservata un’immagine nel disegno della Forma Urbis di marmo rinvenuta nel Foro, oggi conservata alla Biblioteca Vaticana (Rodríguez Almeida 1981). Il secondo fu utilizzato come prigione nel corso della terza guerra punica. Anche Cicerone riferisce che vi fossero a. nell’Urbe al suo tempo, restaurati dall’architetto greco ÔErmovdwro~, ma non specifica dove si trovassero.[5] In ogni caso, in età imperiale, essi non vengono più menzionati dalle fonti, perché, verosimilmente, l’attenzione dei costruttori romani si concentra sulla realizzazione dei grandi porti di Claudio e Traiano sulla riva destra del Tevere, presso la foce. Gli antichi a. furono contestualmente trasformati in musei, dove si potevano ammirare la nave di Enea o le flotte nemiche conquistate dagli imperatori romani. 4. Il mercato [mavkellon, ejmpovrion, macellum, emporium, forum]. – Il termine italiano deriva dal lat. merx, ‘merce’, perché indica il luogo di una città dove si espongono le merci e in cui avvenivano (e avvengono tutt’oggi) le compravendite. Questo luogo era caratterizzato da specifiche attrezzature e da un’architettura e urbanistica peculiari, da cui molto spesso prendeva corpo un nuovo centro abitato, del quale il m. costituiva il nucleo edilizio. Nel mondo greco arcaico il m. sorgeva in prossimità dei maggiori luoghi di culto, oppure lungo le strade principali e gli incroci, lontano dallo spazio urbano. Questi luoghi prendevano il nome di ajgorai; ejforivai. Dal iv sec. in poi il m. è associato all’ajgorav, nella quale Aristotele consiglia di distinguere una parte tradizionale,

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dedicata agli uomini liberi, e una parte economica, l’ejmpovrion. [6] Quest’ultima finirà per predominare, reclamando spazi bene definiti e appositamente destinati, che si configurano in modo più preciso a partire dall’età ellenistica, quando il m. è strettamente connesso al porto (Mileto, Pireo) e continua a interagire con le strutture politiche (Corinto, Priene e la stessa Atene). Altri rinomati m. del mondo ellenistico sono quelli di Assos, Dura Europos, Efeso, Pergamo. In quest’ultimo caso è possibile rilevare nel ii sec. a.C. una differenziazione tra l’ajgorav politica, collocata sull’acropoli e l’ajgorav commerciale, nella città bassa. La zona destinata ai commerci si presentava di pianta rettangolare con una piazza circondata da portici e tabernae. [→edilizia pubblica 1.4]. Lo stesso processo evolutivo avvenne anche a Roma, in cui il Forum, da cui presero il nome successivamente tutti gli altri m. dell’Urbe, costituì, dagli albori dell’età repubblicana, sia il centro commerciale per la vendita al minuto, che quello politico della città. La sua collocazione è documentata nei pressi dell’isola Tiberina fin dall’età del ferro. Il commercio all’ingrosso era invece svolto dal Forum Boarium (per il bestiame bovino) e dal Forum Holitorium (per gli ortaggi), che si trovavano sulla riva sinistra del Tevere, esattamente alle spalle del Forum, presso l’isola Tiberina. Lungo il percorso che collegava i due centri commerciali, inoltre, si svolgevano normalmente molti altri m. specializzati in un solo tipo di prodotto, i cui nomi derivavano dalle merci che vendevano : il Suarium alle pendici del Quirinale, il Piscatorium a nord del Forum, il Vinarium (ai piedi dell’Aventino), il Forum Cuppedinis, Cupidinis o Coquinum (presso il Piscatorium), il Pistorium (presso l’Emporium). Nel momento in cui le due funzioni, politica e commerciale, si disgiunsero (179 a.C.), il F. rimase circondato dalle sole tabernae argentariae di banchieri e orefici, in cui si vendevano merci pregiate e nobili, mentre il m. vero e proprio si trasferì a fianco della basilica Aemilia. Augusto lo smantellò e lo fece ricostruire ai piedi dell’Esquilino col nome di Macellum Liviae, soppiantato dal Macellum Magnum, eretto sul Celio nel 69 d.C., per volere di Nerone, e ricostruito nel iv sec. d.C. Nel F. i portici e lo spazio assumono una funzione diversa rispetto a quanto avveniva nell’ajgorav greca : a Roma la ‘piazza’ diventa infatti uno spazio aperto rettangolare, introdotto da un arco monumentale, il cui centro è occupato dal Capitolium,  



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edilizia privata

incorniciato dai portici, che hanno la semplice funzione di enfatizzare quello che è considerato l’edificio più importante. In età imperiale il F. viene ornato di monumenti celebrativi della gloria di Augusto [→edilizia commemorativa romana]. Insieme ai monumenti più importanti, sul F. si affaccia la reggia, residenza del Pontifex Maximus, il tempio di Vesta con il focolare sacro, altri templi, il comitium (cioè il luogo destinato alle riunioni dell’assemblea pubblica, dove si riunisce il Senato), la basilica, la curia. Intorno al F. sorgevano tabernae novae e veteres anche su due piani, e ben due basiliche, la Iulia e l’Emilia [→edilizia pubblica]. La struttura del m. romano, riscontrabile nei m. di Ostia, Pozzuoli, Pompei, consta dunque di un cortile quadrangolare con tabernae rivolte sia all’interno che all’esterno e con al centro una qovlo~ destinata a tempio, o a fontana, oppure, semplicemente, allo smercio di merce deperibile (le qovloi di Leptis Magna). Le rovine di Pompei consentono di avere una idea anche della decorazione di questi edifici, abbelliti con marmi, statue, mosaici, affreschi e colonne. L’esempio più grandioso e completo di m. di età romana è rappresentato dal cosiddetto Tempio di Serapide di Pozzuoli, di epoca flavia e rimaneggiato al tempo degli Antonini o dei Severi, oggi in gran parte sommerso per fenomeni di bradisismo. Un esempio anomalo di m. è rappresentato dai Mercati Traianei, costruiti sulle pendici del Quirinale nel 113 d.C. Essi, sfruttando il pendio, davano luogo ad una serie di tabernae e vari locali dislocati su quattro piani, inseriti in una grande aula. La loro destinazione d’uso poteva essere quella di magazzini statali, di luoghi di rivendita ufficiale, gestita dallo Stato, e/o luogo per la distribuzione dei congiaria. Dalla forma dell’aula dei Mercati Traianei gli Arabi deriveranno i loro ‘fondaci’. ‘Mercati-bazar’ molto simili agli edifici musulmani, d’altronde, sono stati documentati, in età repubblica, a Tivoli e Ferentino e, in età imperiale, a Ostia. Note. [1] Noack 1927, 189. – [2] Plu. Sull. 14, 7 ; cfr. anche ig 2, 22, 1668 (Sylloge 4, 969). – [3] Vitr. 7, pr. 12. – [4] Serv. Aen. 11, 326. – [5] De orat. 1, 62. – [6] Arist. Pol. 133b 1.  

Bibliografia. Bettini 1978 ; Brown 1963 ; Giovannoni 1925 ; Macaulay 1980 ; MacDonald 1965 ; Picard 1965 ; Scurati Manzoni 1991 ; Trabucco 2006 ; Ward Perkins 2001 ; Wilson, 2000.  

















Shara Pirrotti

Edilizia privata. 1. L’edilizia privata nel mondo greco. – Per Aristotele, come per qualsiasi greco, « ogni povli~ è composta da oi\koi » (Pol. 1253b). L’oi\ko~, sia nel suo significato sociale di ‘famiglia’ che nell’accezione fisica di ‘casa’, è dunque la base della povli~ greca, intesa politicamente come ‘comunità’ e topograficamente come ‘città’ (o ‘città-stato’). Lo studio della città greca inizia, dunque, dallo studio della casa privata greca, che nella Grecia antica presenta due differenti tipi di abitazioni : capanne circolari, erette su poderosi muri concentrici separati da corridoi stretti e lunghi (Orchomenos, Tirinto, etc.), oppure su pali di legno poggianti su basi lapidee e tetti conici (Cicladi, Asia minore) ; abitazioni a pianta rettangolare (mevgaron), con il tetto a due spioventi sorretto da una fila di colonne di legno, un portico sulla fronte e uno o più vani piccoli nella parte posteriore (Troia, Lesbo, Tessaglia, Beozia, Peloponneso). In quest’ultimo caso il tetto della casa può essere realizzato in legno, strame o tegole, mentre quello del portico è sempre a terrazza. Lo spazio tra i due tipi di tetti, a forma di triangolo, serve ad illuminare la sala e a favorire la fuoriuscita dei fumi. Ad Olimpia e Asine è stata rinvenuta una parete circolare nel mevgaron, che crea un’abside. A Creta si attesta la pianta rettangolare con la particolarità che il tetto non è a doppio spiovente, bensì a terrazza, con un’apertura per il fumo, mentre la sala del focolare, sorretta da colonne angolari, è quadrata. Il lato corto, inoltre, presenta due pilastri tra i quali sono poste tre aperture da cui si accede a una corte che svolge il ruolo di pozzo-luce. In età micenea il mevgaron si specializza nella forma descritta da Omero (rintracciabile nella cd. ‘casa delle colonne’ di Micene), cioè con un’ampia corte centrale (aujlhv) e un complesso (dw`ma), contornato da un porticato (ai[qousa), costitito da un vestibolo (provdomo~), una sala rettangolare con al centro il focolare (ejscavra) e un piccolo gruppo di vani (qavlamo~). Dietro il mevgaron, inoltre, si apre un piccolo accesso a un corridoio che immette, mediante una scala, al piano superiore, destinato a gineceo. Dopo la distruzione dei palazzi e fino al vii sec. a.C. l’edilizia domestica greca appare priva di un progetto definito e realizzata con materiali poveri, su piante indifferentemente circolari, rettangolari o quadrate. Le abitazioni hanno una disposizione degli ambienti spesso confusa, senza una distinzione  







edilizia privata funzionale e una conveniente esposizione. Tra vii e vi sec. a.C. prevale la pianta rettangolare e la casa, costituita da due o tre ambienti privi di corte, è costruita in mattoni crudi intonacati su un basamento di calcare. Al piano superiore è possibile accedere da scale esterne. Alla fine del vi sec. inizia la prima ricerca costruttiva in cui siano privilegiate la luce, il ricambio d’aria e la comodità degli ambienti, che mantengono una forma quadrangolare regolare con un cortile interno porticato su uno dei lati. 2. Architettura privata ellenistica. – Questa tipologia costruttiva e decorativa trova significativi esempi nell’edilizia di Olinto, realizzata, tra il iv e il ii sec. a.C., in mattoni crudi poggianti su poderosi basamenti in calcare, con facciate monotone e lisce, raramente interrotte da finestre. L’architettura residenziale, inoltre, rivela un tipo di alloggio nuovo, sia pure mutuato dalle forme osservate nell’Atene del v sec., che mantiene fino all’età ellenistica una sistemazione urbanistica disordinata e irregolare. Le case rinvenute a Olinto sono di forma quadrata e contengono all’interno un cortile della medesima forma, da cui tutti gli ambienti prendono luce. Il cortile interno è talvolta dotato di colonne snelle ed eleganti ; lungo uno dei suoi lati corre un corridoio per tutta la lunghezza della casa, detto pastav~, sul quale si aprono alcune stanze, mentre altre danno sul cortile. L’appartamento (oi\ko~) consta di una sala rettangolare e di due vani minori su un lato. Tra le stanze, è particolarmente elaborata solo la stanza da pranzo (ajndrwvn), di forma rettangolare, con pavimento musivo e fascia spesso sopraelevata su tre lati. L’ajndrwvn è spesso preceduto da un vestibolo. Sul lato occidentale del cortile è posto un magazzino a cui si accede sia dalla strada che dall’interno. Un altro magazzino si trova ad est della pastav~. Rari sono i servizi igienici. All’ajndrwvn si accede mediante una scala esterna. L’ambiente al piano superiore viene adibito per la servitù o ad uso foresteria e viene indicato dalle fonti col nome di puvrgo~.[1] Alla fine del iv sec. nella Grecia settentrionale si afferma una caratteristica edilizia residenziale, con peristilio all’interno del cortile, cioè con uno spazio aperto dentro la casa, distinto dal semplice vuoto su cui si affacciano le camere. Ciascun elemento mantiene una regolarità delle forme e una linearità autonome. Questo tipo di abitazione lussuosa è stata rinvenuta a Pella in Macedonia, dove si trova il cosiddetto  

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palazzo di Palatitza-Vergina, a cui si accede da un ingresso monumentale posto sul lato orientale, che immette in un cortile, con ben sedici colonne su ogni lato, lungo il quale si dispongono gli ambienti ; alcuni di essi presentano una decorazione musiva pavimentale, che restituisce figure delineate mediante sassolini policromi. L’e. privata del iii sec. a.C. trova i suoi maggiori esempi nelle città di Priene in Asia Minore e di Delo. Quest’ultima città è costituita da abitazioni che dispongono di un numero di vani variabile, da due a poco meno di venti, tutte dotate di corte con peristilio. Le case sono disposte in modo irregolare in quartieri collegati da vie tortuose e spesso strette. La pianta di Priene invece dispone gli edifici in modo regolare in isolati rettangolari su assi ortogonali. Non manca il gusto decorativo per gli interni, realizzato con uso di mosaici, marmi e sculture. Gusto decorativo del tutto assente, peraltro, sulle facciate, la cui unica monumentalità è costituita da un architrave sorretto da mensole o capitelli posto al di sopra della porta principale. Sul piano strutturale gli edifici non presentano sostanziali innovazioni rispetto a quelli di Olinto. Dopo il iii sec. a.C. le case a peristilio divengono piuttosto diffuse in Grecia : se ne rinvengono esempi a Pergamo, Thasos, Rodi. 3. 3.1. Edilizia privata romana : architettura popolare. – I primi edifici romani sono le capanne che proteggono la vita della famiglia dalle intemperie, realizzate piuttosto rozzamente con travi su cui poggiano graticci coperti da un intonaco grossolano e una copertura in paglia. Sul modello di quelle etrusche e greche, le abitazioni divengono col tempo più stabili e la loro forma da ellittica diviene un parallelepipedo allungato concluso da un timpano, con annessi vestiboli ed altre stanze. Nei primi secoli di Roma persiste il modello dell’antica casa italica costituita dal solo atrium (dall’aggettivo ater, perché le pareti erano annerite dal fuoco del camino domestico), [2] circondato da poche stanze, delimitate nel lato posteriore da un ambiente centrale coperto da una tettoia, intorno al quale sono disposti gli ambienti. Più tardi il cortile centrale è cinto da un porticato a colonne, il cosiddetto peristylium : il suo nome riflette l’influenza della casa greca su quella romana. L’esempio più completo e noto di casa romana di iv-iii sec. a.C. è rappresentato dalla cosiddetta ‘casa del Chirurgo’ di Pompei, in cui la ianua di ingresso immette in un vestibu 







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lum, dal quale si accede a uno stretto corridoio detto fauces. Il corridioio si apre su un atrium centrale con apertura per convogliare le acque piovane (compluvium) in una cisterna sotterranea. Intorno all’atrium sono disposte alcune camere, dette cubicula, e alla sua estremità due alae. In fondo all’atrium c’è il tablinum, cioè una sala principale fiancheggiata da camere di minori dimensioni e da un corridoio che si apre sull’hortus. [3] Nel ii sec. a.C. prevale la casa ad atrium, chiusa da mura e senza finestre, a cui però si aggiunge il perystilium con viridarium, cioè il giardino monumentale, spesso ornato da una fontana o da una piscina. Alla fine dell’età repubblicana questo tipo di casa romana raggiunge l’apice della raffinatezza, introducendo due perystilia, due atria e altri appartamenti sussidiari come bagni, biblioteche e vani di nome e matrice ellenistici (oecus, triclinium, apotheca, exedra, xystus, etc.). Anche di questo periodo rimangono significativi esempi a Pompei (la cosiddetta ‘casa pompeiana’). Alla casa signorile, o atrium, fa riscontro la casa popolare in affitto, detta di preferenza taberna. 3.2. Edilizia privata romana. Le insulae. – Il fenomeno crescente dell’urbanesimo in età imperiale introduce a Roma una graduale evoluzione delle antiche forme di abitazione verso unità abitative frazionate di tipo verticale, in cui coabitano più famiglie in affitto, le une a ridosso delle altre. Il fatto che lo spazio libero tra una casa e l’altra fosse di due piedi e mezzo (ambitus), come se fossero isole, valse loro la denominazione di insulae. Il loro nome ha quindi una valenza anche spaziale, che vale a distinguerle dalle domus monofamiliari, anch’esse dotate inizialmente di ambitus per la circolazione. Il tipo delle i. finisce col prevalere sulle case ad atrium e su quelle ad atrium e perystilium, che vengono destinate ormai solo all’edilizia patrizia. L’ambitus lentamente viene occupato da tettoie e porticati, sui quali i proprietari possono rivendicare diritti e oneri. Lo spazio interinsulare, inoltre, viene abbattuto per costruire muri mediani o contigui tra le case che, dopo l’incendio del 64, vengono imposti in doppia fila. Delle i. restano tracce archeologiche nelle rovine di Ostia, Pompei, ma soprattutto a Roma, in cui le i. si distinguono per il nome del proprietario (i. Boloniana, presso l’isola Tiberina, Calamiana, Vitaliana e Eucarpiana sull’Esquilino, etc.). Alcuni passi di Plinio [4] e Vitruvio, [5] ma anche alcuni te-

sti letterari di Marziale [6] e Giovenale [7] consentono di far luce sulle abitazioni popolari della Roma imperiale : spesso modeste, a più piani, architettonicamente scadenti, realizzate in materiale fittile destinato a un rapido deterioramento (parte in muratura e parte in opus coementicium e intelaiature lignee), sono disposte in quartieri popolari fittamente abitati, appunto le i., mentre solo una minoranza di privilegiati può disporre di un’abitazione dignitosa. I Romani, d’altronde, non si preoccupano troppo dell’abitazione privata né dal punto di vista tecnico né da quello artistico, perché rivolgono tutta la loro attenzione agli edifici pubblici e militari. E benché Roma già da tempo conosca il sistema di imbrigliazione delle acque e sia ricca di fontane pubbliche, thermae [→infrastrutture e servizi] efficienti e frequentate, nonché di acquedotti funzionali, ancora in età imperiale i piani alti delle case non hanno acqua né un sistema di fognature adeguato. Il sistema di canali di scarico, molto moderno ed efficiente, è utilizzato solo per gli edifici pubblici. Il mito, dunque, di una Roma costituita da ville circondate dal verde dei giardini (i celebri horti sallustiani) va ridimensionato : all’epoca dei Severi, come risulta dai frammenti catastali conservati, le domus signorili di Roma sono appena 1790 contro 46.602 insulae, e vi è una differenza abissale tra le loro strutture architettoniche. L’altezza delle insulae a più piani non rispetta quasi mai le leggi imperiali che limitano le costruzioni a uno sviluppo verticale mas­simo di 60-70 piedi (= 18-21 metri) e già sulla fine della repubblica Cicerone descrive una Romam [...] cenaculis sublatam atque suspensam [8] Avvalora la tesi di una città ‘sospesa per aria’ la notizia che nella zona del circo Flaminio, in pieno centro cittadino, si ergesse un vero e proprio grattacielo : la rinomata insula felicles, che nel iv secolo d.C. viene mostrata come una curiosità ai tu­risti per la sua mole gigantesca. Il centro della Roma imperiale è dominato dalla presenza della corte e dagli edifici pubblici, ma, in realtà, non esistono nette distinzioni in quartieri ed è difficile individuare le quattordici regioni della Città, poiché le i. sono sparse ovunque e il centro è veramente un intri­cato gomitolo di strade da cui, già dai tempi di Orazio, si tende a evadere verso le ville della campagna. L’abitazione-tipo dell’edilizia popolare consiste di un soggiorno, due stanze da letto, la cucina, un gabinetto, un ingresso, collegata all’appartamento adiacente  





edilizia privata da ballatoi, frequenti anche all’esterno (maeniana), e presenta due varianti : a) quella in cui il pianterreno co­stituisce un unico appartamento unifamiliare (specie di casa signorile alla base dell’i.), che ha il nome di domus, in contrasto cogli ap­partamenti (cenacula) dei piani superiori ceduti in affitto, a cui si accede da scale di legno ; [9] b) quella, più frequente, in cui il pianterreno è diviso in botteghe e magazzini (tabernae), spesso adibiti a negozi o a tuguri per abi­tazione, che prendono luce da finestre aperte su strette viuzze o addirittura su semplici pozzi luce. Gli esempi di i. più noti sono quelli di Ercolano (la cosiddetta casa ‘a graticcio’), Pompei (alcune case presso l’anfiteatro), Ostia (casa nella via di Diana: vd. Auboyer 1959, 2, 396. Tra il i e il ii sec. questo diventa il tipo definitivo di casa romana, realizzata interamente in muratura, con grosse pareti di laterizi non intonacati, su quattro o cinque piani, fino a superare i 15 m di altezza. La copertura più frequente è quella a solaio e tetto, con tegole o coppi. Caratteristico è l’accorpamento di più abitazioni con porte e scale di accesso distinte (case ‘del Serapide’ e ‘degli Aurighi’ a Ostia), che talvolta si spinge fino a riunire blocchi di i. in caseggiati multipli (le case ‘a giardino’ di Ostia). È evidente che lo spa­zio vitale in questi caseggiati popolari è minimo, il frastuono eccessivo, i crolli e gli incendi frequenti. E se la decenza dell’abitazione è direttamente proporzionale all’affitto pagato, è piuttosto improbabile che nel periodo augusteo, cioè nel momento di maggiore splendore di Roma, la plebe cittadina, eternamente disoccupata, e il proletariato contadino, che costituisce la piaga sociale più tragica causata dall’estendersi del latifondo, possano trovare i fondi per vivere in un’abitazione dignitosa. Sul modello della capitale, case a sviluppo verticale sorgono nelle maggiori metropoli dell’Impero (Antiochia, Atene, Alessandria, Smirne, Corinto, Efeso, etc.). 3.3. Edilizia privata romana : domus patriciae. – L’Oriente ellenistico torna a far sentire la sua influenza nella Roma di iv sec. d.C., quando ricompaiono le case a sviluppo orizzontale, isolate su tutti lati con mura privi di finestre. Sono presenti anche molti ambienti decorati e strutture architettoniche ornate, come ninfei, aule colonnate e/o absidate, exedrae, etc. Questo tipo di abitazione, che tende nuovamente a svilupparsi intorno a una corte centrale circondata da colonne o pilastri, sul modello dell’atrium  





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e del tablinum, è destinata alla classe sociale superiore di magistrati e proprietari terrieri. Al contrario delle insulae, le domus patriciae e le villae urbanae, a partire dal i secolo a.C., sono lussuose : esse riflettono nella pianta e nelle decorazioni forme ellenistico-orientali. Nella d. p., costituita sempre da un unico piano, si entra per mezzo di un corridoio diviso in due parti da una porta (ianua). La parte situata prima della porta è il vestibulum e lì avviene la salutatio mattutina dei clientes ; la parte posta al di là della porta è denominata fauces (entrata). Oltre all’entrata principale ve ne è spesso una secondaria o di servizio (posticum) che si affaccia su un vicolo. Dalle fauces si passa nell’atrium, ampio vano che costituisce il centro della parte anteriore della casa. Nel pavimento dell’atrio si apre una vasca rettangolare (implu­vium), in cui si raccoglie l’acqua piovana che entra da una apertura praticata nel soffitto (compluvium). Originariamente l’atrium era la camera nuziale e la stanza da lavoro della materfamilias. Qui ardeva anticamente il focolare domestico, che successivamente si sposta dall’atrium alle stanze più interne. Pur ridotto al ruolo di anticamera, peraltro son­tuosamente arredata (la suppellettile comprende tra l’altro il lararium e l’arca, la «cassaforte»), l’atrium rimane una stan­za di prestigio di cui Vitruvio distingue cinque tipi architettonici. [10] Ai due lati dell’atrium, sempre corrispondenti tra loro, si aprono due alae, destinate forse, quando l’atrium era coperto (nella primitiva casa italica), a far entrare aria e luce per mezzo di porte o finestre aperte verso l’esterno. Intorno all’atrio si trovano altri ambienti : tabernae o botteghe che danno sulla strada, stanze di servizio, camere da letto che guardano verso l’interno e cubicula (stanzette secondarie). Dall’atrio si passa nel tablinum (archivio), una grande stanza che si apre in tutta la sua ampiezza nella parete dell’atrio opposta alla porta. La comunicazione tra atrium e tablinum – dove nell’età più antica risiedeva il pater familias – è costituita da un tendaggio. Un corridoio detto andron, alla greca, laterale rispetto al tablinum, conduce dall’atrium al peristylium. Più variabile è la distribuzione degli ambienti intorno al peristylium : alcuni di essi hanno un nome e una funzione particolare : il triclinium o sala da pranzo (che possono essere anche più di uno) ; l’exedra, vasta sala all’estremità del peristylium in corrispondenza del tablinum ; l’oecus, forse un triclinium di particolare ampiezza, conclaves, varie stanze da letto. Vitruvio non  













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parla della cucina né delle celle degli schiavi, stanze che non hanno una collocazione fissa e che non pre­sentano alcun interesse dal punto di vista architettonico ; accenna invece ai bagni riservati alla famiglia del padrone. 3.4. Edilizia privata romana : villae. – Con la denominazione di villa i Latini indicano un complesso di costruzioni con annessa corte, comprendenti l’abitazione vera e propria, le stalle, le botteghe. [11] Qui vive e lavora, per conto di un proprietario residente in città, la familia rustica. Abitazioni rurali di questo tipo, del tutto svincolate dall’economia urbana, sono citate nella Grecia classica come dipendenze di santuari, insistendo, nella loro configurazione architettonica, sulla loro mera funzione praticistica. Gli inventari dei santuari, infatti, elencano, come parti di questi edifici, alcune stanze disposte intorno a una corte centrale o su due piani, comprendenti alloggi per i servi (klisivon), stalle (bouvstasi~), ovili (probatewvn), mulini (mulwvn), cantine e granai. [12] Solo a partire dal iii secolo a.C., cioè da quando avviene la trasformazione dell’economia e del costume romani a favore di un’organizzazione prediale disposta entro complessi sempre più ampi, si edificano v. urbanae, vere e proprie ville residenziali o case di campagna dei ricchi, tendenti a incrementarsi nella successiva età imperiale. In questo periodo il concetto di ‘villeggiatura’ è ancora estraneo ai patrizi romani, ma la tendenza a evadere dai negotia e dalle ordinarie occupazioni della vita induce a creare dei soggiorni piacevoli in uno o più luoghi tranquilli, nei quali sia possibile curare anche gli interessi legati ai possessi terrieri. Il proprietario terriero che una volta, quando andava a villeggiare (rusticari), alloggiava in una stanza della sua fattoria insieme al fattore e ai servi (come Orazio nel suo podere della Sabina), divenuto più esigente e raffinato, non si adatta più a convivere con gli schiavi, ma si costruisce una dimora distinta ai margini della propria tenuta, in luogo panoramico. Sorgono così lussuose v. urbanae separate, ma non lontane, dalle case coloniche (v. rusticae) spesso preesistenti che, essendo centri di vita economica, devono essere soprattutto funzionali. Le nuove costruzioni sono invece complesse e raffinate dal punto di vista architettonico e perfettamente integrate nel paesaggio circostante. Esse accentuano il senso di intimità e di isolamento, pur senza escludere la vista panoramica sulla campagna, alla quale sono colle 



gati da viali (xustoiv) porticati, terrazze, solaria, ninfei, esedre. Non mancano gli impianti termali. La pianta architettonica delle v. urbanae è estremamente variabile e individualistica. [13] In generale si può affermare che da un tipo di v. fortificata, quale si afferma tra la fine del iii sec. a.C.[14] e il i, [15] (rappresentata dalla v. degli Scipioni di Liternum), si passa, in età imperiale, a una costruzione dotata di sculture e ornamentazioni, in perfetta consonanza con l’urbanistica scenografica ellenistica. [16] Non sempre la v. urbana è costruita in campagna ; qualche volta sorge in riva al lago o sul mare, indipendentemente dal possesso di terreni e proprietà rurali. In ogni caso, la v. non è mai del tutto isolata ed è sempre autosufficiente dal punto di vista economico, specializzando le proprie risorse nel tempo, addirittura al di fuori dell’agricoltura (allevamento, piscicoltura, attività bancaria, industria). Il modello della v. autosufficiente sul piano economico, che si afferma anche nelle province romane occidentali porta gradatamente a una netta contrapposizione tra campagna e città (non solo, come avviene in età romana, sul piano demografico) e pone le basi per la concretizzazione dell’economia curtense tardoantica, da cui prenderà le mosse la società feudale medievale.  

Note. [1] Dem. 47, 56. – [2] Varr. ling. 5, 161. – [3] Sulle variazioni di questa pianta base e sui diversi tipi di atrium, cfr. Vitr. 6, 3, 1 sgg. – [4] Nat. 3, 67. – [5] Vitr. 1, 8, 17; 38, 43. – [6] Mart. 12, 20 ; 1, 117, 7. – [7] Iuv. 3. – [8] leg. agr. 2, 96. – [9] Cfr. Sen. benef. 6, 15, 7. – [10] Cfr. Vitr. 6, 3. – [11] Varr. r.r. 1, 2, 14. – [12] Cfr. Gal. De antid. 14, 17 K. Cfr. anche ig, 11, 2, 287 ; Bull. Corr. Hell. 14, 1890, 422. – [13] Basti confrontare le antitetiche posizioni di Hor. carm. 3, 1, 33-37 e Cic. Att. 2, 1, 11, nei confronti dei consigli del redemptor, cioè dell’architetto incaricato di realizzare la villa. – [14] Cfr. Sen. epist. 51, 11. – [15] Cfr. Plu. Mar. 34. – [16] Cfr. Cic. Att. 4, 3 ; 6, 2 ; 8, 2 ; 10, 3 ; epist. 7, 23 ; Plin. epist. 2, 17.  













Bibliografia. Adam s.d. ; Adam 1994 ; Argan 1936 ; Bozzoni-Franchetti Pardo-OrtolaniViscogliosi 2006 ; Brown 1963 ; Bujoni 1966 ; Cahill 2002 ; Carducci 1949 ; Clarke 1991 ; Fyfe 1965 ; Giuliano 1966 ; Lauther 1999 ; Lawrence 1996 ; Lippolis-Livadiotti-Rocco 2007 ; Macaulay 1980 ; MacDonald 1965 ; Martin 1989 ; Mazzoleni 2004 ; Picard 1965 ; Rocco 2007 ; Robinson-Graham 1938 ; Scranton, 1965 ; Tomlinson 1995 ; Trabucco 2006 ; Wycherley 1962 ; Zevi 1964.  

















































Shara Pirrotti

edilizia pubblica Edilizia pubblica. 1. Edilizia pubblica greca. – Mentre sull’acropoli fervono i lavori per arricchire di una nuova monumentalità religiosa la città, nel vi sec. appaiono ad Atene i primi edifici civili in cui si svolge la vita sociale, economica e politica della povli~. 1.1. Il portico [stoav, porticus]. Strettamente connesso alla vita civile e religiosa cittadina, il p. è un edificio che trae origine dal p. orientale pregreco, soprattutto ittita, egiziano ed egeo, concepito come passaggio coperto, spesso con effetto decorativo sulla facciata degli edifici. La forma del p. di età arcaica è piuttosto ridotta e scarsamente profonda (portico di Samo, portico degli Ateniesi a Delfi ) e si amplia nel corso del v sec. a.C. per assumere una fisionomia più definita (Delfi, Delo, Olinto). Molti p. diventano in questo periodo monumenti commemorativi e gallerie di esposizione (Sparta, Atene). Il p. greco di età classica è prevalentemente rettangolare, con un lato allungato, aperto e colonnato, sporgente su una strada o una piazza. Il lato opposto a quello colonnato è di solito costituito da un muro. La copertura è di norma a terrazza, ma può essere anche a spioventi. Il p. è estremamente importante e funzionale nella Grecia di epoca classica, addirittura è la struttura più esemplare. La sua planimetria, basata sulla lunghezza del suo asse maggiore, contribuisce alla estensione orizzontale della città greca, escludendone lo sviluppo in verticale. La caduta della povli~, l’ampliamento dell’orizzonte economico e la fondazione delle monarchie ellenistiche producono profondi mutamenti nell’architettura che consistono non tanto in nuove invenzioni, quanto in modifiche importanti delle strutture esistenti. Nascono in questo periodo i p.-magazzino [→edilizia commerciale] connessi alle attività commerciali e portuali. Nelle province si affermano p. a coda, a ferro di cavallo (Priene, Magnesia). Molto importante è il ruolo dei p. a servizio di ginnasi e palestre, come a Sicione, Olimpia e a Delo. Tra i p. post scaenam a servizio dei teatri [→architettura teatrale] famoso è quello di Eumene, che collega il vecchio teatro di Dionisio ad Atene con il nuovissimo Odeion di Erode Attico. Nato inizialmente per proteggere le persone dalle intemperie, il p. si trasforma gradatamente in elemento funzionale dell’organizzazione civile, in rapporto con il santuario [→architet-

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tura sacra], la piazza, il mercato [→vd. infra, 1.4], con le costruzioni portuali [→infrastrutture e servizi], con gli edifici teatrali, con ginnasi e palestre [→edilizia sportiva e ricreativa], con fontane pubbliche o semplicemente come elemento architettonico decorativo in facciata, connesso ai prospetti di edifici pubblici o alle più importanti vie, secondo una tipologia edilizia che si consoliderà nella società romana, dove le città sono abbondantemente porticate. 1.2. Prutanei'on e bouleuthvrion. – Funzionali alle assemblee e alle riunioni sono il prutanei'on e il bouleuthvrion. Il primo è collocato in epoca classica al centro della città, in stretta relazione con la piazza pubblica, e vi si esercita la più alta magistratura. Qui si conserva il fuoco sacro della città, si coltiva il culto di Estia, si custodiscono gli archivi cittadini e i pritani svolgono la loro attività. L’edificio, dunque, assolve funzioni religiose e profane strettamente connesse tra loro, e si compone di una facciata adornata da un porticato o da un ingresso monumentale, il provpulon, e di tante stanze contigue su pianta rettangolare che si aprono su un cortile, anch’esso porticato. Gli ambienti ritenuti più importanti sono l’archivio, la cappella di Estia, la sala dei pasti consumati dai pritani in comune ; quest’ultima è anche adibita a sala da pranzo per gli ospiti cittadini e stranieri di riguardo. Il bouleuthvrion, che ospita la Boulhv, il Consiglio degli anziani (mentre le assemblee si svolgono per lo più in spazi all’aperto) rappresenta il primo tentativo della Grecia classica di appropriarsi di spazi interni ampi, come poi avverrà con il teatro, di cui riproduce la forma e la posizione, spesso appoggiata al pendìo di un monte. Inizialmente di pianta rettangolare, con i sedili disposti lungo i lati lunghi e in due file nella corsia centrale, successivamente di forma quadrata, con gradinate su 3 lati, con lo spazio interno diviso in navate da 5 file di colonne, l’edificio è modificato ulteriormente da Ictino [→architetti], secondo un progetto (visibile nel bouleuthvrion di Priene del iv sec.) che ingrandisce la sala interna convergente verso il centro mediante gradinate disposte intorno ai 4 lati, il cui accesso è facilitato da 2 passaggi aperti su tre lati. L’interno è scandito da due corone concentriche di colonne distanti dieci metri l’una dall’altra che lasciano libera e amplificano la visuale. 1.3. La biblioqhvkh. – Questo edificio, che  

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aveva precedenti alle corti greche di Policrate di Samo, Pisistrato di Atene, ma anche a quelle orientali di Ninive, è istituito per la prima volta in modo pianificato nell’Atene di età ellenistica da Aristotele, il quale lo destina alla raccolta pubblica di testi letterari, politici, religiosi o scientifici [→biblioteche antiche]. Da un discepolo di Aristotele, Demetrio Falereo, l’idea di una b. universale è attuata nella nuovissima città di Alessandria, dove costituisce, con i suoi 500.000 papiri provvisti di etichette e collocati in scaffali, il cosiddetto Mousei`on dell’Accademia Reale. Strabone (17, 1, 8) lo descrive come un recinto porticato, ricco di viali, con un’esedra e una sala per banchetti. Di questo edificio non rimangono tracce architettoniche fuori terra, mentre numerosi sono i resti archeologici della b. di Pergamo, fondata da Attalo I nel ii sec. a.C., a quattro piani, che risulta essere la più antica che si sia conservata. Di altre b. ellenistiche (Pella, Antiochia) rimangono solo menzioni epigrafiche. 1.4. L’ajgorav. – Nel vi sec. i templi, gli uffici e i principali edifici pubblici sono disposti sull’ajgorav secondo il principio della funzionalità, per il quale essi, ognuno di pianta diversa, si susseguono sul lato occidentale. L’ajgorav (dalla rad. del verbo ajgeivrw, «raduno») è il cuore della povli~, la piazza principale, il centro economico, religioso, politico. I primi esempi di a. si trovano a Creta e risalgono all’viii-vii sec. a.C. Nel vi sec. sono collocabili sia l’a. di Sparta che quella di Atene, ma è nel v sec. che essa assume valore commerciale all’interno della città, contemporaneamente alla sua destinazione di luogo di riunione delle assemblee popolari. La sua forma, caratteristica delle altre piazze greche coeve, è data dalla convergenza delle vie principali in un ideale triangolo e il suo impiantito è di norma in terra battuta. Raramente, infatti, sono stati rinvenuti segni di pavimentazione (Magnesia, e parzialmente Taso e Corinto). Nel volgere del tempo le riunioni politiche e le assemblee passano a svolgersi in teatri (Corinto, Efeso, Messene), ma l’aspetto commerciale ed economico dell’a. si mantiene fino a divenire preponderante. Fino al caso limite di Pergamo, in cui esistono addirittura due distinte a., l’una per lo svolgimento della vita politica e l’altra per le transazioni economiche e commerciali. In epoca ellenistica l’a. è dotata di portici lungo i lati (che ne costituiscono il carattere distintivo), dove la gente può

riunirsi o passeggiare. Lo spazio interno, inoltre, assume un nuovo ordine, ignoto all’epoca arcaica e classica, quando l’a. pullulava di statue ed edifici, disposti disordinatamente, che adesso vengono allineati sui margini dello spazio disponibile. In età ellenistica, dunque, l’a. è armonicamente inserita nel tessuto urbanistico, in stretto collegamento con le strade principali e con gli edifici pubblici più rappresentativi. Collegato con l’a. di Atene è l’arsenale del Pireo [→edilizia commerciale, 3], ideato da Filone, che congiunge il porto militare con il cuore della città mediante una galleria coperta, lunga oltre 100 m, nella cui corsia centrale possono transitare i cittadini, mentre in quelle laterali si conservano gli attrezzi marittimi. L’architettura pubblica ellenistica rivolge la sua principale attenzione alle residenze per la corte e per le classi nobiliari, ai centri cultuali anche con finalità assistenziali e curative (santuari, donari, tesori, piccoli edifici votivi), ai centri per attività politiche, sportive o culturali. E se tali edifici in epoca classica erano enfatizzati singolarmente e semplicemente disposti uno dopo l’altro, adesso si cerca di imporre ai volumi una regia unificatrice che chiarisca le relazioni tra i diversi corpi di fabbrica, a cui vengono consentite irregolarità e asimmetrie. Ad ogni elemento però è assicurata la libertà di movimento e la spazialità : dal ii sec. inizia a svilupparsi, infatti, l’attenzione allo spazio interno, oltre che esterno. 1.5. Il Faro. – Edificio singolare, il cui prototipo fu realizzato ad Alessandria nel 280 a.C. agli inizi del regno di Tolomeo Filadelfo, per il prezzo di 800 talenti. Il progetto dell’architetto Sostratos di Cnido, il cui nome è iscritto nel monumento, prevede per l’edificio un’altezza variabile da 120 a 135 m su tre piani collegati da rampe, formati rispettivamente da una torre a pianta quadrata, rastremata verso l’alto ; una seconda torre ottogonale finestrata ; una lanterna circoscritta da un colonnato circolare che sostiene un tetto conico. Sul tetto è posta una statua colossale, forse di Poseidone. La luce che esce dalla lanterna è ottenuta mediante la combustione di legni resinosi e olii minerali, e regolata nella direzione e potenza da specchi concavi, per un raggio di visibilità di circa 50 m. Presso il F. sorgerà successivamente un tempio di Iside detta perciò Faria. Il F. di Alessandria serve per la salvezza dei naviganti, come dice l’iscrizione, ed è eretto in onore degli dei salvatori (i Dioscuri ? Tolomeo e Bereni 







edilizia pubblica ce ?). La costruzione viene ricordata da molte fonti letterarie come una delle meraviglie del mondo. [1] La sua immagine è inoltre raffigurata su monete imperiali fino a Commodo, su figurine fittili e sigilli di piombo rinvenuti ad Alessandria. Menzionato anche in fonti arabe medievali, il F. viene distrutto nel 796 da un terremoto. Sul modello alessandrino si modellano tutti gli altri F. dell’antichità, e rare sono le varianti : quello del porto di Claudio presenta quattro piani degradanti, sull’ultimo dei quali arde il fuoco direttamente e non protetto da una lanterna ; il F. di Messina, rappresentato su monete del 38-36 a.C. ha forma cilindrica coperta da cupola, due finestre e un balcone. Sulla cupola è posta una statua di Nettuno o di Pompeo. I F. di Gallia e Britannia hanno una caratteristica forma a cannocchiale e a pianta ottagonale. La loro collocazione è, in generale, all’estremità dei moli, come a Pozzuoli o a Leptis Magna. Talvolta, come nel caso del F. di Claudio, è posto su un’isoletta artificiale, ottenuta affondando all’imbocco del porto una nave da carico che trasportava a Roma l’obelisco del circo Vaticano. [2] Molto più frequentemente è collocato su un’altura (Capri, Miseno, capo Ateneo nella penisola Sorrentina), [3] come è rappresentato su monete, sarcofagi, affreschi e mosaici. 2. Edilizia pubblica romana. – Così come in campo religioso, anche riguardo alle opere pubbliche a carattere non religioso i Romani esprimono una grande capacità sincretica : la cinta muraria che dalla prima età repubblicana racchiude e protegge Roma segue modelli greci ; la rete di canali di scarico, dette cloache, [→infrastrutture e servizi] dove per la prima volta viene impiegato il sistema delle volte e degli archi di origine orientale [→Costruzione. (Sistemi e tecniche)], è importata dagli Etruschi. Poco più tardi si costruisce il primo mercato (forum) [→edilizia commerciale] e il primo circum, il Circo Massimo, [→edilizia sportiva e ricreativa] nell’area tra il Palatino e l’Aventino, anch’esso ispirato a modelli greci. 2.1. La basilica [basilica]. – Nel 184 a.C., durante la censura di Catone, viene edificata la prima basilica, la Basilica Porcia, una struttura architettonica concepita sul modello dei portici multipiani con ali dell’oriente ellenistico, consistente in un edificio rettangolare coperto da un tetto, con o senza esedre, utilizzata  









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come luogo di riunioni, per gli affari e la vita sociale. L’origine greca della costruzione richiama alla mente la stoa; basivleia («portico del re») di Atene, descritto da Pausania, [4] che aveva funzione giudiziaria perché era sede del tribunale. Al suo interno, una fila di colonne consente l’illuminazione dall’alto del vano centrale e scherma le navate, di cui quella centrale è concepita come un’entità unica. Altri spazi interni definiti sono scanditi da tribune, alcove o finestre. Come luogo dove collocare il tribunal si trovano spesso un’abside o un avancorpo situati sul lato corto o al centro di uno dei lati lunghi. [5] Questo tipo di costruzione, che subisce negli anni successivi alcune modifiche particolarmente apprezzabili negli esempi più noti della Basilica Ulpia costruita sotto Traiano e della Basilica Nova di Massenzio (terminata da Costantino verso il 313), influenzerà la costruzione delle chiese basilicali cristiane a partire dal iv secolo d.C. Le fonti attestano anche la presenza di basiliche private (Iulia Aquilana, etc.). [6] Poiché la basilica era una costruzione pubblica di importanza pari a quella del teatro, dell’acquedotto o dell’anfiteatro, essa è realizzata anche in Italia e nelle province (Pompei, Nola, Ardea, Treviri, etc.). Esempi dell’architettura porticata di origine ellenistica si rinvengono a Pompei (Terme Stabiane) e nei Fori che erano interamente porticati, come i teatri, i circhi e gli anfiteatri nelle parti inferiori. Portici si trovavano nei ninfei, nei santuari (Pompei), lungo le vie, sulle facciate dei palazzi. 2.2. La curia. – È il luogo dove i cives romani si radunano a scopi religiosi o per attività deliberative. Le c. più antiche sono collocate alle falde del Palatino, di fronte al Celio : vi si insedia il Septimonium, cioè il gruppo di rappresentanti dei sette pagi. Ogni pagus, tuttavia, possiede una propria c., cioè una grande sala per riunioni religiose, i cui aderenti erano detti curiales. Nelle colonie e nei municipi la c. è l’edificio dove si riuniscono i decurioni. Quando Roma accresce le sue dimensioni, a est delle c. veteres sono edificate trenta c. novae, che la tradizione attribuisce addirittura a Romolo e che consistono, sostanzialmente, in trenta suddivisioni di un unico grande edificio. La c. per antonomasia è il Senato, di fronte al comitium e comunicante con il Forum. Detta Hostilia, perché attribuita al re etrusco, viene modificata nell’80 da Silla, prendendo il nome di c. Cornelia. Subisce successivamente l’incen 

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dio del 52 a.C. e viene ricostruita da Cesare nel 44 con il nome di c. Iulia. La dedicazione dell’edificio, che nel frattempo ha assunto carattere sacrale, avviene solo nel 29, con una cerimonia che Augusto impone di assimilare a quelle per la dedicazione dei templi. [7] Modificata ulteriormente sotto Domiziano nel 94 d.C., è istoriata probabilmente nella colonna traiana. Nuovamente bruciata nel iii sec. viene ricostruita a pianta quadrangolare da Diocleziano, con la facciata ricoperta di laterizi e rivestita di marmi e stucchi. Al posto del timpano sulla fronte, che il modello primitivo aveva per rassomigliare a un tempio, viene adesso realizzata una grande porta centrale in bronzo con due finestroni laterali. Il nuovo edificio viene suddiviso in tre parti : il chalcidicum, un portico aggiunto da Augusto ; l’attiguo secretarium, una sala absidata ; la c. vera e propria, in cui si raduna il Senato, i cui membri siedono su scranni collocati su tre gradini di marmo intarsiato che corrono lungo i lati della sala ; sul fondo è posto il podio del presidente e la statua della Vittoria, mentre sulle pareti sono presenti un certo numero di nicchie con edicole a colonne su mensole. Dopo il ii sec. a.C., quando la basilica, il comitium, la curia e il senato divengono edifici indipendenti con una propria, caratteristica fisionomia, si aggiungono nel foro e intorno ad esso altre costruzioni ‘specializzate’, come il macellum e l’horreum (→edilizia commerciale, 4), il tabularium (archivio pubblico), il saeptum (per le votazioni pubbliche). Della monumentalità pubblica fa parte anche la schola, luogo di sosta e riposo lungo la strada, specie in prossimità di Fori e portici, a forma di esedra, caratterizzata da un muro rivestito di marmo e colonne in marmo o granito al suo interno (esedra sul decumano di Ostia). Con il nome di schola, tuttavia, nella Roma imperiale si intendono anche edifici con diversa destinazione d’uso (parte delle Terme [→infrastrutture e servizi], recinti degli accampamenti, luogo destinato agli incontri dei membri di corporazioni religiose e associazioni commerciali). Con il significato di ‘sala di riunioni’ è ricordata da Plinio (nat. 35, 114) quella all’interno dei portici di Ottavia, ornata di affreschi. Altri edifici pubblici di Roma sono il teatro, l’anfiteatro [→architettura teatrale] e il viale monumentale, basati sul sistema di archi e volte. 2.3. La biblioteca. – Augusto, inaugurata una nuova era di pace e prosperità, porta a compi 







mento altri edifici che erano già stati progettati da Cesare, a cui è consacrato un nuovo tempio all’estremità orientale del Foro. Tra questi la prima b. pubblica, progettata appunto da Cesare [8] e completata da Asinio Pollione nel 39 a.C. in connessione all’Atrium Libertatis, da lui restaurato. [9] Di età repubblicana è nota solo la b. della Villa dei Pisoni ad Ercolano, mentre le altre erano private (b. di Silla, di Cicerone, etc.). Molte sono invece le b. pubbliche di età imperiale successive a quella di Pollione : la b. del tempio di Apollo sul Palatino, rinnovata dopo l’incendio del 64 ; la b. del portico di Ottavia, con sezioni distinte per gli autori greci e latini, ed altre in cui prevale lo schema ad abside o ad esedra. In qualche caso la b. ha pianta rettangolare, come la Ulpia, situata tra la basilica e il tempio del divo Traiano, all’interno del foro di quest’imperatore. Dai resti di questa b. si può osservare che gli scaffali erano protetti dall’umidità mediante un secondo muro che isolava dall’esterno quello su cui erano collocati i libri. In età imperiale iniziano i lavori per realizzare un nuovo complesso monumentale nel Campo Marzio, che comprende i Saepta progettati da Cesare, il Pantheon, la basilica di Nettuno e le terme di Agrippa, a cui nel tempo si aggiungono l’Ara Pacis e il Mausoleo di Augusto, inseriti in un contesto variegato di portici, giardini, canali e laghetti artificiali. Il programma edilizio di Augusto culmina nella realizzazione del Forum. Il più originale degli edifici è certamente il Pantheon, che oggi sopravvive nella ricostruzione dell’imperatore Adriano (quello di Agrippa fu distrutto nell’80 per un incendio). L’adozione regolare del marmo di Carrara per le costruzioni rinnova l’aspetto della Città caput mundi, imprimendole una facies di benessere e opulenza ineguagliabile. 3. Il palazzo [domus regia, palatium]. – Il p. è l’edificio destinato a imprimersi nella mente dei sudditi come quello dove risiede colui che è in grado di guidare i destini del proprio nucleo familiare e dell’intera società. Questa implicazione quasi sacrale si afferma in età moderna, a partire cioè dal xviii sec., quando la potenza dei monarchi viene rafforzata ed enfatizzata dalla sontuosità delle loro dimore. Ma anche nell’antichità classica le abitazioni del signore riconosciuto di una popolazione (Achei, Dori, etc.) possiedono caratteristiche architettoniche appariscenti di grandiosità e scenograficità, che  



edilizia pubblica le rendono del tutto diverse dalle comuni abitazioni. Il p. è presente nell’→architettura minoico-micenea, dove si presenta con un’ampia sala del trono, ambienti residenziali, un cortile e stretti magazzini allungati, a indicare le sue molteplici funzioni di luogo di abitazione, di deposito, di amministrazione, di riunione. C’è uno iato profondo tra il o i p., in cui abita la classe più abbiente, e il resto delle abitazioni, in cui trascorre la vita, quasi in antitesi, la popolazione dei ceti minori (cfr. i p. di Hagia Triada, Gurnià, Cnosso, Creta). Diverso nella struttura e nelle intenzioni è il p. miceneo, dove si esplicano attività economiche e sociali specifiche. A questo scopo gli ambienti sono distribuiti in maniera definita intorno al megaron, che è la sala delle udienze, ma anche l’emblema, la rappresentazione edilizia del potere assoluto accentrato nelle mani del sovrano. Nella Grecia arcaica, man mano che si incrementa la vita sociale che si esplica fondamentalmente nell’ajgorav cittadina, il p. perde la sua importanza e la sua funzione per assumere definitivamente, nel vi sec. a.C. quella sacrale, pari all’acropoli sulla quale è generalmente posto. Nella Grecia continentale classica il p. non è un edificio presente nelle città. Ritorna nel iv sec. a.C., epoca in cui è databile il p. di Palatitza di Alessandro Magno, che è un ampliamento della pianta a peristilio caratteristica dell’→edilizia privata. In età ellenistica nei territori orientali nascono i primi p. veri e propri, di cui i maggiori esempi, tanto in termini di proporzioni che di valenza artistica sono costituiti dai p. di Alessandria, Antiochia e Seleucia, che sono ‘città nelle città’, ricchi di giardini, recinti con mura e un alternarsi di edifici destinati ai diversi scopi amministrativi, culturali, giuridici, finanziari. Tra questi edifici quello residenziale della corte con la sala del trono occupa un’ala specifica. A Roma, com’è ovvio, i p. iniziano a comparire in età imperiale, quando Tiberio e Caligola si crearono il problema di far costruire sul Palatino un edificio di rappresentanza adatto al disbrigo degli affari di Stato, che costituisse anche la loro abitazione privata, avversati dai contemporanei, che intravvedevano in questa iniziativa un tentativo di instaurare il potere assoluto. [10] Il termine p., infatti, con il quale si vuole indicare la dimora dell’imperatore nella quale egli esplica la sua funzione pubblica, prende il nome da uno dei sette colli sul quale la maggior parte degli im 

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peratori romani ha stabilito la propria residenza e, pertanto, passa ad indicare il luogo fisico nel quale l’imperatore vive ed esercita il proprio potere e la propria funzione pubblica. [11] L’edificio è dunque concepito sia come l’involucro della vita dello stato, sia come rifugio da essa. La vita dello stato riguarda i cerimoniali, scanditi attraverso la grande sala del trono, gli appartamenti ufficiali, le sale di udienza e le sale dei banchetti. Oltre agli appartamenti ufficiali, nel p. si trovano anche quelli privati (cui si accede da un giardino formale di dimensioni più ridotte), dai quali è possibile contemplare, mediante gallerie finestrate, il mondo esterno, lontano e estraneo. La domus aurea di Nerone, per realizzare la quale l’imperatore occupò gran parte del centro urbano, è l’esempio più noto di p. Domiziano è tuttavia il primo a dare incarico ufficialmente a un architetto (in questo caso Rabirius) di costruire una sede imperiale definitiva sul Palatino, in cui le piante precedenti si adattassero alle nuove esigenze connesse all’imperialismo romano. Il p. di Domiziano è ripartito in sezioni che costituivano, rispettivamente, il p. di residenza, quello di rappresentanza con l’aula regia per le udienze solenni, il solium augustale, una basilica Iovis dove si riunisce il suo consiglio privato, un grande triclinio decorato di marmi preziosi intarsiati, portici e fontane, e inoltre il giardino e l’ippodromo. Dopo il iii sec. d.C. la basilica, dove si discutono le cause e dove avvengono le manifestazioni più eclatanti dell’assolutismo imperiale, diviene la parte del p. più rappresentativa e importante. Alla fine del iii sec. il decentramento amministrativo causato dall’istituzione della Tetrarchia determinò la costruzione di p. a Milano, Treviri, Tessalonica, Nicomedia e Spalato, quest’ultimo voluto, com’è noto, da Diocleziano. Si tratta di un edificio di pianta rettangolare fortificata, con torri quadrate ai lati e ottogonali al fianco delle tre porte. Un secolo più tardi Costantino farà costruire il p. di Costantinopoli. Note. [1] Str. 17, 791 ; Plin. nat. 36, 83 ; Jos. BJ 4, 10, 5. – [2] Plin. nat. 16, 201. – [3] Svet. Tib. 74 ; Stat. silv. 3, 5, 100. – [4] 6, 24, 2-3. – [5] Cfr. Vitr. 5, 1, 4. – [6] Vitr. 5, 1, 4. – [7] Gell. 14, 7, 7. – [8] Svet. Iul. 44, 2. – [9] Isid. orig. 6, 5, 2. – [10] Cfr. D.C. 53, 15, 5. – [11] D.C. 60, 6, 8.  





Bibliografia. Billot 1982 ; Bozzoni-Franchetti Pardo-Ortolani-Viscogliosi 2006 ; Brown 1963 ; Bujoni 1966 ; Calderini 1940 ; Fyfe 1965 ;  











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edilizia sportiva e ricreativa

Giuliano 1966 ; Hellmann 2002 ; Knell 1988 ; Lauther 1999 ; Lawrence 1996 ; Lippolis-Livadiotti-Rocco 2007 ; Macaulay 1980 ; Martin 1980 ; Porphyrios 1991 ; Rivoitra 1921 ; Robinson-Graham 1938 ; Scurati Manzoni 1991 ; Tomlinson 1995 ; Walthew 2002 ; Ward Perkins 1974 ; Wilson J. M. 2000 ; Wycherley 1962.  































Paola Radici Colace Edilizia sportiva e ricreativa. 1. La palestra [palaivstra, palaestra]. – La ginnastica riveste una grande importanza in Grecia, sia come base dell’addestramento militare, sia come armonico complemento dell’educazione al pari della musica. Per favorire la preparazione atletica dei giovani, fin dall’età arcaica vengono costruite strutture specializzate, denominate palestre e ginnasi. La p. è il luogo in cui gli atleti e i giovani greci si esercitano al pugilato e alla lotta (pavlh) [1] sotto la protezione di Hermes e di Palaistra (secondo il mito figlia, o amante, di Hermes), la quale inventò le regole della lotta. [2] A questi dei, in età ellenistica si aggiunge anche Heracles. L’esigenza indifferibile di costruire p. nelle città greche si consolida a partire dal vii sec. a.C., epoca in cui sono introdotte nuove competizioni nei giochi olimpici che necessitano di spazi appositi per le esercitazioni. Le fonti attestano che già nel corso del vi sec., al tempo di Solone, esistesse una p. ad Atene e che Clistene ne abbia fatto costruire una a Sicione. [3] Questo edificio, che costituisce inizialmente la parte più importante del ginnasio, consiste in un semplice recinto quadrangolare con pavimento di sabbia destinato alla corsa annesso al drovmo~. Il tipo arcaico di p. è attestato, oltre che ad Elide, [4] anche nell’Atene di Licurgo, [5] il quale la fece costruire, secondo le fonti, nei pressi del Liceo. [6] E se con questo significato il termine si mantenne fino al medioevo, [7] bisogna tuttavia sottolineare che nel tempo la p. subisce un’evoluzione significativa, fino a diventare il luogo in cui si svolgono molteplici attività, che spaziano dall’esercizio fisico alla didattica. Per questo motivo essa acquisisce anche la denominazione di ‘scuola’ o comunque è comunemente considerata il luogo in cui sono messe a confronto le abilità intellettive individuali. [8] La sua struttura architettonica, parallelamente, subisce lentamente delle modifiche, consistenti nella realizzazione di portici lungo i quattro lati interni, sui quali si succedono alcuni ambienti, così come è atte-

stato da Vitruvio, il quale, nel definire l’intero complesso con il nome di p., sottolinea che si tratta di una costruzione tipicamente greca. [9] La trasformazione architettonica descritta da Vitruvio è in diretto rapporto con l’evoluzione del ginnasio (vd. infra, 2) in età ellenistica, sia ad Atene che nella Magna Grecia. Dopo il iv sec., infatti, ad Atene la paideiva si incentra più sugli aspetti spirituali e culturali che su quelli politici e militari, che ancora continuano ad essere alla base dell’eduzione dei giovani di Sparta. La p., quindi, da edificio privato gestito e finanziato da privati, diviene, per la sua acquisita utilità sociale, una struttura pubblica di proprietà e a carico dello Stato, la cui manutenzione è gestita dagli iJeropoioiv. L’insegnamento delle diverse discipline, inoltre, è interamente sostenuto economicamente dalla comunità, che si preoccupa della retribuzione del paidotrivbh~. [10] Per realizzare i nuovi obiettivi proposti dalla sua mutata funzione nella società greca, la p., accoglie nel suo complesso, in età ellenistica, nuovi peristili quadrati o rettangolari con porticati interni su tre lati singoli, e doppi sul quarto lato per impedire al maltempo di penetrare all’interno. Un tipo particolare di portico interno, denominato xustov~, serve per le esercitazioni al coperto in inverno ed è affiancato da viali alberati per correre o passeggiare all’aperto nella bella stagione (Vitr. 5, 11, 4). All’esterno sono collocati altri portici, per consentire agli spettatori di transitare senza intralciare gli atleti. Per il pubblico che assiste alle gare è previsto anche uno stadium, che, secondo la terminologia utilizzata da Vitruvio (5, 11, 4), è uno spazio capace di contenere un gran numero di spettatori. I porticati interni semplici sono inoltre dotati di esedre e sedili per coloro che desiderino studiare o leggere. L’esedra di maggiori dimensioni si chiama ephebeum. In un angolo del portico è posto un conisterium, cosparso di sabbia, la frigida lavatio (equivalente al loutrovn, ovvero al bagno freddo), un elaeothesium attiguo al frigidarium dove effettuare le unzioni con olio, la sudatio, il laconicum, e il propnigeum (ingresso) al bagno caldo (calida lavatio). Del tipo ellenistico di p. descritto da Vitruvio (5, 11, 1-4) rimangono esempi a Olimpia, Priene, Epidauro, Delfi. In questi centri la p. risulta dotata di quegli ambienti termali che favoriranno l’evoluzione dell’edificio nelle terme romane [→infrastrutture e servizi, 1]. Proprio perché viene integrata nelle terme, la p. sarà l’unica parte del ginnasio greco

edilizia sportiva e ricreativa destinata a sopravvivere al suo declino. I più antichi esempi di p. nell’ambiente greco-italico dell’Italia meridionale, intermediario tra la Grecia ellenistica e l’Urbe, sono stati rinvenuti ad Ercolano e Pompei, dove, tra le altre p. e terme, è presente un piccolo peristilio dorico collegato con il Foro triangolare e forse anche con un ginnasio. [11] Nelle province romane occidentali la p. ha spesso una forma diversa e originale. In Tunisia, per es., la p. di Gigthi ha forma circolare circondata da colonne e ha in dotazione quattro esedre semicircolari in posizione diagonale tra loro. Anche Roma conosce fino al periodo imperiale, accanto agli impianti termali di maggiori proporzioni, il tipo di p. presente in Campania. Si tratta il più delle volte di p. private, costituite da cortili porticati, realizzati già al tempo di Cicerone nelle domus più lussuose e nelle villae. [12] 2. Il ginnasio [gumnavsion, gymnasium]. – I gumnavsia sono peculiari del mondo greco, in quanto non si conoscono impianti similari né nella Creta minoica, né nel mondo orientale. Di essi non si fa menzione neppure nei poemi omerici, che collocano i ludi funerarii in memoria di Patroclo nella pianura troiana e quelli offerti da Alcinoo in onore di Odisseo nell’ajgorav di Scheria. Bisogna attendere il vii sec. a.C. per rintracciare nella letteratura le prime informazioni sul ruolo della ginnastica nel mondo ellenico. [13] A partire da quella data, infatti, essa viene considerata, all’interno della povli~ greca, una disciplina autonoma, avente l’obiettivo di addestrare cittadini-soldati in grado di combattere in quelle falangi, che avevano sostituito i carri da combattimento. Il carattere militare degli esercizi ginnici si mantiene fino alla fine dell’età ellenistica. La costruzione dei primi g. (Accademia, Liceo e Kunovsarge~ di Atene), tuttavia, avviene soltanto qualche secolo dopo, al tempo dei Pisistratidi (550 a.C. circa). I primi edifici destinati alla ginnastica si presentano come ampi giardini, ricchi di alberi e corsi d’acqua, nei quali si potevano ammirare altari, recinti sacri e statue. Per installare una struttura del genere occorrevano, quindi, tre requisiti essenziali : 1) possibilità di piantare alberi ; 2) disponibilità di risorse idriche ; 3) spazio per disporre statue di dei ed eroi. Le pitture vascolari contribuiscono notevolmente a ricavare una descrizione più o meno particolareggiata degli impianti sportivi veri e propri di vi-v sec. a.C. Essi sono costituiti da  





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piste per la corsa a piedi, aree per la lotta e il pugilato, fontane per l’igiene personale degli atleti. Le pitture restituiscono anche gli ajpoduthvria, costruzioni snelle destinate ad accogliere gli atleti nei momenti di relax, custodire i loro indumenti e i loro attrezzi. Di queste strutture architettoniche particolari si possono cogliere dettagli costruttivi nell’Euthyd. (272e), in cui Platone, ricostruendo alcuni frammenti della vita e dell’attività didattica di Socrate nel Liceo di Atene, spiega appunto che gli ajpoduthvria, dove si svolgono i dialoghi platonici, sono luoghi porticati opposti ad un’esedra colonnata, del tipo che si sarebbe diffuso soprattutto in età ellenistica. Gli spazi aperti, tuttavia, rimangono preponderanti. A Siracusa il g. si sviluppa presso l’ajgorav a partire da un hJrw/`on, [→architettura funeraria] eretto in onore di Timoleonte ; ad Atene, come già detto, nell’Accademia, nel Liceo e nel Kunovsarge~, dove si trovano luoghi di culto ed altari dedicati alle principali divinità (Atena, Zeus, Eracle, Apollo etc.). Se in origine il g. è il luogo in cui i giovani greci si preparavano alle competizioni atletiche che avrebbero disputato negli stadi, dalla fine del v sec., gradatamente, la funzione di questo complesso si amplia fino ad assumere, in età ellenistica, la dignità di università, di centro religioso e civile. Parimenti, si modifica profondamente anche la sua facies architettonica. Di essa è possibile ricavare qualche dettaglio osservando il g. di Delfi, costruito intorno al 330 a.C. L’edificio è posto su due terrazze sorrette da poderosi muri. Nella terrazza superiore si trova un portico di circa 200 m antistante una pista aperta. Sia la linea di partenza che quella di arrivo sono indicate da basamenti di pietra denominati a[fesi~ e tevrma, distanti l’uno dall’altro uno stadio delfico. Il piano inferiore ospita vasche marmoree dalle cui bocche rivestite di bronzo fluisce l’acqua ; vi sono incluse anche due piscine (una rotonda e una a S), un piccolo naov~ e un’esedra. In età ellenistica, l’automatismo provocato dalla specializzazione e dall’allenamento qualificato presuppongono norme particolari inerenti alla lunghezza delle piste, alla composizione dei campi per la lotta, alla specificità di ciascuna disciplina, che da quel momento deve essere praticata in uno spazio attrezzato esclusivo. In conseguenza della sua specializzazione, dell’assunzione della funzione intellettuale e della forma universitaria del g., si affermano le premesse di uno sviluppo monumentale della struttura. I  



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edilizia sportiva e ricreativa

portici colonnati, infatti, sono insufficienti per professori e studenti, i quali richiedono sale sempre più ampie e specializzate. Scompare, inoltre, la distinzione tra palestra e g. che vi era nel periodo classico, quando la palestra, che, come già detto, inizialmente consisteva in un semplice recinto annesso alla pista per la corsa, era destinata solo ad alcune discipline : pancrazio, pugilato, lotta (pavlh). In età ellenistica, alle sale destinate a queste discipline si aggiungono camere destinate allo studio e alle conferenze, nonché ambienti riservati ad usi igienici. Tra il iii e il ii sec. a.C. il g., a cui ora si accede da propilei il più delle volte monumentali, si arricchisce di nuovi ambienti raggruppati sulla terrazza, nei quali si impone la pianta ad esedra, destinati alle attività culturali. Essi, in numero di due o quattro, sono disposti intorno ad una corte quadrata o rettangolare. L’altra terrazza è invece occupata da portici con navate, che si alternano a piste scoperte, giardini, parchi e ambienti per la sosta e la conversazione. Una ulteriore peculiarità di queste strutture, rispetto al g. di Delfi del iv sec., è la scomparsa del bagno all’aria aperta e indipendente. Adesso le installazioni destinate alle abluzioni e gli spogliatoi occupano una delle ali. Divengono quindi elementi costitutivi del g., altrettanto indispensabili della palestra, la pista all’aria aperta (paravdromo~), la pista porticata (xustov~), lo spogliatoio (ajpoduthvrion) e le stanze destinate ad abluzioni e unzioni. Gli esercizi fisici sono infatti preceduti e seguiti da particolari cure fisiche, che prevedono l’unzione d’olio nell’ajleipthvrion e l’abluzione, dopo la fatica, nel loutrovn. Alcuni g. sono dotati persino di bagni termali e a vapore, detti puriathvria. La funzione intellettuale, civile e religiosa del g. è invece assolta, come già detto, dalle esedre, denominate ajkroathvrion, dotate di banchi per i numerosi uditori. I testi menzionano anche sale d’aspetto per gli schiavi detti paidagwgei`a, e biblioteche. I più noti esemplari di g. di questo periodo sono quelli di Olimpia e di Pergamo. Quest’ultimo possiede al suo interno un autentico tempio, mentre gli altri g. sono dotati di semplici naoiv. Nelle monarchie ellenistiche l’amministrazione del g. è considerata molto importante ed è affidata a magistrati che vi destinano numerosi contributi. Il g. è anche sede di numerose società private, ma, soprattutto, diventa, nelle regioni conquistate da Alessandro Magno, l’emblema  

della grecità, al punto da costituire, almeno fino al ii sec. a.C., il monumento pubblico urbano più importante. Al termine dello stesso ii secolo la Grecia conosce, come è noto, una lenta decadenza che culminerà, nel secolo successivo, con la conquista romana. Durante questo periodo molti g. sono distrutti e mai più ricostruiti, anche perché la cultura romana impone pratiche igieniche e termali, proprie delle popolazioni italiche, del tutto nuove e sostanzialmente diverse. Gli antichi edifici come le Accademie di Atene, Delfi e Pergamo vengono ora dotate di terme e le installazioni originarie sono sostituite da altre, più conformi alle esigenze e al gusto romano. 3. L’anfiteatro [ajmfiqevatron, amphitheatron]. – Il termine, che compare per la prima volta in ambiente romano e in età imperiale con il valore di aggettivo [14] (presupponendo un sostantivo come oijkovdhma), fa riferimento ad una costruzione di pianta ellittica destinata agli spettacoli, che non è un doppio teatro, cioè l’unione di due teatri, [15] bensì uno spazio circolare che gira tutto intorno all’arena (ajmfiv), dal quale gli spettatori possono assistere agli spettacoli che si svolgono nell’arena (qevatron). L’edificio, destinato a partire dal i sec. a.C. ai ludi gladiatorii e alle cacce, è talvolta denominato col nome di spectacula. [16] Questo termine fa riferimento sia a ciò che si svolge nell’arena, sia alle gradinate per gli spettatori. La forma ellittica dell’arena è pensata per poter offrire la massima visibilità per i cortei e le sfilate, di gran lunga maggiore di quanto non potesse fare la forma rotonda o rettangolare, di cui in sostanza l’ellisse è una sintesi. Costruito dapprima in legno, [17] l’a. viene definitivamente realizzato in pietra a partire dal 29 a.C., data in cui è eretto, per ordine di Statilio Tauro, il primo a. stabile nel Campo Marzio, che rimane in uso fino al 64 d.C., quando fu distrutto dall’incendio (Kähler 1958, 1, 375-376). Fuori di Roma gli a. stabili sono costruiti in epoca anteriore : a Pompei, infatti, rimane un a. eretto intorno all’80 a.C. Altri a. si rinvengono a Siracusa, Pola, Nîmes, Cagliari, Corinto, Tiro, Sutri. La sostituzione dell’a. ligneo con quello stabile è resa possibile, nel corso del i sec. a.C., dal perfezionamento del sistema delle volte [→costruzione (sistemi e tecniche), 1], ma occorre attendere l’età imperiale prima di avere a Roma un a. in pietra. In realtà gli a. romani sono in tutto due : l’a. Castrense, di età severiana, e il più noto a. Flavio, o Colosseo,  



edilizia sportiva e ricreativa iniziato da Vespasiano e terminato sotto Domiziano. La sua cavea ellittica di pietra è ottenuta mutuandola dal teatro romano in muratura, trasferendo sull’ellisse il sistema delle sostruzioni radiali inclinate verso l’interno. I muri di sostegno convergono, a tal scopo, non sul punto mediano dell’ellisse, bensì sui punti corrispondenti alla loro costruzione, disposti a stella intorno all’ideale centro dell’edificio. Si cerca anche di mantenere abbastanza ampi i corridoi di accesso alla cavea dell’asse maggiore, che servono per il passaggio dei gladiatori e per i cortei. Anche l’ingresso, posto all’estremità dell’asse minore, è mantenuto largo, diviso in navate da colonne, perché serve da vestibolo al palco d’onore. L’arena è coperta da sabbia, non è lastricata, ed è collegata ad una serie di corridoi sotterranei, dove conservare le suppellettili utili agli spettacoli e custodire le gabbie delle belve. Poiché nei sotterranei confluisce l’acqua piovana e quella impiegata per le naumachie, essi sono quindi dotati di impianti idraulici adeguati. La cavea è interrotta, nel Colosseo, da gradus o gradationes, cioè file digradanti di posti, in cui sporgono i vomitoria, cioè le porte di accesso alle scale. Nei pressi dell’arena la cavea è più elevata come per un podio, per proteggere gli spettatori da eventuali rischi durante i combattimenti e consentire una migliore visuale alle file più in basso. Attraverso pilastri di pietra collegati da muri in laterizi si realizza invece il sistema di passaggi (collegati mediante cunicoli) e scale per accedere ai diversi ordini di posti. Ogni piano è inoltre di norma attraversato da uno o due corridoi circolari dietro i due ordini di arcate numerate della facciata esterna. Il Colosseo, l’a. di El-Gem e quello di Capua ne hanno eccezionalmente tre. Tali corridoi assolvono la duplice funzione di accogliere gli spettatori in caso di intemperie e consentire loro di passeggiare. Le arcate dei piani superiori sono ornate di statue. Gli a. hanno infine alcune finestre rettangolari o ad arco. Dietro il muro del piano più alto è realizzato un corridoio a colonne che offre un ulteriore spazio per posti in piedi, proteggendo, contemporaneamente, gli spettatori del piano immediatamente inferiore dalla pioggia. La copertura, infine, è realizzata in struttura precaria e pertanto può essere spostata dove occorre con corde intrecciate a formare una rete. Verticalmente sono disposte delle velae, talvolta manovrate da marinai, per proteggere gli spettatori dal sole.

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4. L’ippodromo o circo [iJppovdromo~, circus]. – Edificio destinato alle corse dei cavalli e dei carri e, talvolta, per lo svolgimento di ludi gladiatorii, almeno fino alla realizzazione dei primi anfiteatri (vd. supra, 3). Attestato già in Omero, [18] è costruito nella forma tradizionale di quadrilatero terminante a semicerchio solo nel vii sec. a Olimpia. Qui l’i., dotato di gradinate per gli spettatori, è largo circa 240 m e presenta nel campo due basi circolari o semicircolari intorno a cui girano i cavalli. Le basi sorreggono a loro volta colonne o pilastri, su cui sono collocate statue. Sui lati corti sono poste due linee, una di partenza e una di arrivo per i carri. Sul lato più lungo è inoltre collocato un altare rotondo. [19] L’i. greco, tuttavia, è utilizzato solo in determinate occasioni e per il resto dell’anno è destinato a pascolo. Una fisionomia diversa ha invece l’i. a Roma, denominato circus, perché, secondo il mito, lo inventò Circe, figlia del Sole, per celebrare i ludi in onore del padre defunto. [20] È più verosimile, tuttavia, che il nome derivi dalla sua forma quasi ellittica, [21] derivata dall’i. greco, nonostante quello romano presenti alcune varianti. [22] La sua arena, infatti, talvolta ricoperta di polveri preziose, come il minio, la malachite o la mica, [23] è percorsa da un lungo basamento detto spina, avente agli estremi due basi semicircolari (metae) sulle quali sono collocate statue, fontane, obelischi ed altri ornamenti, e inoltre sette delfini che ruotano ad ogni giro dei carri e sette grosse uova di pietra, gli ovaria o falae. La corsa si protrae per sette giri, terminati i quali il carro raggiunge il traguardo, detto calx. Prima della partenza i carri sono custoditi in carceres chiusi da porte e fiancheggiati da torri (oppida), disposti obliquamente come la spina su uno dei lati minori del c., per consentire a ognuno dei carri di compiere la medesima traiettoria. Le gradinate per gli spettatori, uomini e donne indifferentemente (a differenza di quanto accade nell’anfiteatro), sono separate in senso orizzontale da praecinctiones, e in senso verticale da scalaria. Le gradinate sono posizionate sui lati lunghi, dalla parte opposta ai carceres. Per accedere ai corridoi si utilizzano i vomitoria. I senatori e i notabili prendono posto su una piattaforma provvista di balaustra (podium) che corre intorno al c., divisa in gradini, ognuno dei quali è chiuso da cancelli per impedire di urtare gli spettatori sottostanti. [24] Coloro che hanno sponsorizzato e organizzato i giochi

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efestione di tebe

e i giudici incaricati di assegnare il premio al vincitore sono ospitati su logge d’onore, rispettivamente sopra la porta d’ingresso all’arena che si apre in mezzo ai carceres, e nel tribunal iudicum. L’imperatore prende posto invece sul pulvinar, o suggestus, destinato anche alle statue degli dei. Il c. di Roma più noto e di maggiori proporzioni è il circo Massimo, rappresentato nei mosaici di Piazza Armerina. [25] Altri c. sono realizzati anche a Foligno, Lione, Barcellona di Spagna, Gerona, com’è attestato dai ritrovamenti archeologici. L’ultimo spettacolo tenuto nel c. risale al 549, anno in cui fu allestito per volere di Totila. Lo stesso Totila che decretò, parallelamente, subito dopo, la distruzione dei teatri [→architettura teatrale] e degli altri monumenti di Roma. 5. Lo stadio [stavdion, stadium]. – È l’edificio destinato alle gare di atletica, la cui pista per le corse podistiche ha la lunghezza di 600 piedi (uno stadio). In Grecia, semplice pista pianeggiante, lo s. diviene in seguito un quadrangolo addossato da un lato alle pendici di un colle, o sorretto da contrafforti, oppure infine posto tra due pendii che offrono una comoda visuale agli spettatori, secondo i tipi riscontrabili ad Efeso, Delo, Mileto, Rodi, Atene, Epidauro, Messene, Corinto. La pista in terra battuta, larga tra i 17,50 m di Delo e i 44 m di Nisa, è delimitata da una soglia lapidea, o da un parapetto, oppure da una zoccolatura. Nella tarda età ellenistica vengono posti dei veri e propri dispositivi di partenza, con meccanismi per lo scatto simultaneo dei concorrenti. Alcuni s., inoltre, vengono dotati di gradinate in legno o pietra. In questo periodo lo s. assume la forma definitiva di un rettangolo, il cui lato di partenza è rettilineo e quello di arrivo curvilineo. Su questa forma si modella lo s. romano, collocato in pianura, con gradinate sorrette da volte e arcate, scandite da passaggi e scalinate. Lo s. di Roma viene eretto da Domiziano nel Campo Marzio e la sua pista è larga 54 m e lunga 276. Le gradinate possono ospitare circa 20.000 persone. Altri s. di particolare capienza (fino a 30.000 persone) sono attestati in epoca romana in Asia Minore (a Perge, Efeso, Afrodisiade). La loro funzione risulta più articolata dello s. della capitale, poiché vi si tengono anche spettacoli musicali, ludi gladiatorii e venationes. Note. [1] Verg. Aen. 3, 281 ; Paus. 6, 23, 4. – [2] Philostr. Im. 32 ; Serv. Aen. 8, 138. – [3] Hdt. 6, 126. – [4] Paus. 6, 23, 1. – [5] Pl. Euthd. 273. – [6] Paus. 1, 29. – [7] Isid. orig. 18, 23. – [8] Plu. Demetr. 32, 3 ; Quaest.  





conviv. 7, 7, 1 ; Pyrrh. 23. – [9] 5, 2, 2-3. – [10] Resp. Athen. 2, 7 sgg. – [11] Della Corte 1924, 44 sgg. ; Maiuri 1986, 29 sgg. – [12] Cic. Verr. 2, 5, 185. – [13] Thgn. 2, 1335-36. – [14] Vitr. 17, 1. – [15] Così lo definirono Ov. met. 2, 25 ; Cassiod. var. 5, 42, 5 ; Isid. orig. 15, 2 ; 18, 2. – [16] Svet. Cal. 31 ; Tib. 40. – [17] Cfr. Cic. fam. 2, 3, 1 ; Plin. nat. 36, 116. – [18] Il. 23, 257 ss. – [19] Paus. 5, 8, 8 ; 7, 20, 10 sgg. – [20] Cfr. Tert. spect. 8 ; Isid. orig. 18, 28. – [21] Varr. ling. 5, 153 ; Cassiod. var. 3, 51, 10. – [22] D. C. 9, 7. – [23] Plin. nat. 33, 27 ; 36, 45 ; Svet. Cal. 18. – [24] Ov. am. 3, 2, 63. – [25] Cfr. Gentili 1957, 7 sgg.  























Bibliografia. Adam 1994 ; Argan 1936 ; Audiat 1930 ; Bozzoni-Franchetti Pardo-OrtolaniViscogliosi 2006 ; Delorme 1960 ; Franchetti Pardo 2006 ; Fyfe 1965 ; Gentili 1957 ; Hellmann 2002 ; Kähler 1958 ; Knell 1988 ; Lauther 1999 ; Lawrence 1996 ; Porphyrios 1991 ; Schazmann 1924 ; Schleif-Eilmann 1940-1941, 8-23 ; Scranton 1965 ; Summerson 1970 ; Tomlinson 1995.  



































Shara Pirrotti Efestione di Tebe [iv-v sec. d.C.]. Nel iv sec., che coincide con quella che Gundel-Gundel chiamano “das Wiederauf blühen der Astrologie”, [1] e quindi sotto lo stesso stimolo culturale che nelle epoche avvenire avrebbe prodotto la fioritura dei manuali di astrologia a Bisanzio (sec. ix) e nell’Umanesimo e nel Rinascimento (secc. xiv-xv), E. risponde alle esigenze del suo pubblico scrivendo un manuale astrologico, un ejgceirivdion, come egli lo chiama a dispetto del suo spessore, che costituisce il bacino di raccolta della dottrina astrologica precedente. Chiamato “astrologisches Compendium” dal primo editore Engelbrecht, [2] e “apotelesmaticorum libri tres” nella recente ed accurata edizione di Pingree, [3] il titolo può essere reso con « Previsioni astrologiche ». I tre libri di cui l’opera si compone comprendono le grandi branche della disciplina, dalla genetlialogia all’oroscopia all’astrologia catarchica. Pur essendo un manuale di compilazione, l’opera si distingue per la presenza di una forte componente metatestuale che porta l’autore più volte a soffermarsi sulle finalità e sulle caratteristiche del suo lavoro. Nelle tre parti proemiali e in numerose puntate disseminate qua e là nel corso della trattazione, E. fornisce precise indicazioni sulla struttura della disciplina che tratta, sul suo sistema di lavoro, sul suo metodo nel trattare le fonti che stanno alla base del suo compendio (prime tra tutte →Doroteo e →Tolomeo).  



elepoli L’autorità indiscussa delle fonti è richiamata puntualmente da continue citazioni, a sostenere la qualità delle cose che vengono dette, ma il metodo di lavoro sottolinea continuamente il ricorso al ‘taglio’, alla ‘sintesi’, non nasconde la preoccupata attenzione nei confronti di un destinatario sicuramente interessato alla materia astrologica e a quanto detto dagli ‘antichi’, ma che ama il taglio, l’abbozzo, la ristrutturazione sintetica della disciplina in maniera più funzionale ai tempi. Un recupero del passato, dal quale ci si può spingere verso il futuro, e che indica nel compilatore quell’importante cerniera che egli rappresentò per la conservazione di autori altrimenti perduti : →Doroteo, →Apollinario, →Necepso e Petosiride, →Anubio, ma anche di autori, quali →Tolomeo, che nel iv. sec. erano di difficile lettura e comprensione ed ai quali E. offre il carrello passe partout di una più fruibile antologizzazione. [4] Compilatore per eccellenza, E. subì il destino di essere a sua volta antologizzato e parafrasato, a partire dalla sua inclusione nel Syntagma Laurentianum, redatto a Bisanzio nel ix sec. : nel secondo volume della sua edizione Pingree [5] pubblica a parte i riassunti (epitomae quattuor), ultimi testimoni di un lavorìo di riscrittura che ha sottoposto il testo a continui rimaneggiamenti funzionali alla fruizione. L’opera di raccolta dei riassunti non si può dire conclusa, dal momento che elementi delle Previsioni astrologiche di E. sono stati scoperti per caso all’interno della tradizione manoscritta delle parafrasi bizantine di Massimo. [6]

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Note. [1] Cfr. Gundel-Gundel 1966, 241-244. – [2] Engelbrecht 1887. – [3] Pingree 1973. – [4] Radici Colace 1995 e 1997a. – [5] Pingree 1974a. – [6] Radici Colace 1997b. Bibliografia. Engelbrecht 1887 ; Gundel-Gundel 1966 ; Pingree 1973 ; Pingree 1974a ; Radici Colace 1995 ; Radici Colace 1997a ; Radici Colace 1997b.  











Paola Radici Colace Elepoli [eJlevpoli~, helepolis]. Col termine helepolis (lett. «espugnatrice di città») si designava una grande torre d’assedio, utile a raggiungere le fortificazioni avversarie e permettere l’invasione delle città grazie ad un ponte levatoio abbassato al momento opportuno. Si trattava di una macchina imponente, che alloggiava al suo interno batterie di artiglieria per risponde-

Fig. 1. Elepoli (da Connoly 1998).

re agli attacchi portati dalle mura, come accadeva in certi tipi di →testuggini. I modelli più famosi furono quelli costruiti da Posidonio di Macedonia ed Epimaco di Atene. Del primo non sappiamo nulla, ma →Bitone (52 sgg.) ce lo tramanda come inventore di una helepolis destinata alle campagne di Alessandro Magno, quindi possiamo immaginare sia stato uno degli ingegneri al seguito del condottiero macedone, come →Diade. L’autore asserisce che le dimensioni della torre devono essere studiate in funzione delle mura da espugnare, indicando che questa deve superare in altezza le fortificazioni. L’helepolis di Epimaco fu usata da Demetrio Poliorcete nell’assedio di Rodi del 304 a.C. ed era simile alle torri che parteciparono alle battaglie sotto le mura di Argo (295 a.C.) e Tebe (291 a.C.). Le fonti non concordano nel riportare l’altezza della macchina, che doveva comunque superare abbondantemente i 30 m., con una base di circa 20 m. (Ath. Mech. 27 sgg.; Vitr. 10, 16, 4 ; Diod. Sic. 20, 91; Plu. Dem. 21, 1-2). La struttura, munita di otto grandi ruote, era suddivisa in nove ripiani, collegati internamente tramite scale. Nel piano più basso erano poste potenti lanciapietre [→catapulta] che sparavano attraverso apposite aperture, a loro volta protette da scudi rivestiti di ma 

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eliano

teriale adatto a resistere alle armi incendiarie [→fuochi e tecniche incendiarie]. Difficile ricostruire il sistema di propulsione in grado di muovere macchine così pesanti, ma resta il dato che fosse necessario lo sforzo di migliaia di uomini. Le fonti attribuiscono anche a Diade l’invenzione di gigantesche torri mobili (turres ambulatoriae), il cui modello più imponente pare superasse i 50 m. di altezza, congegnate in modo tale da poter essere trasportate in parti componibili dall’esercito per essere assemblate sul posto (Vitr. 10, 13, 3-4; Ath. Mech. 10 sgg.). Bibliografia. Campbell D. B. 2003a ; Lendle 1983; Marsden 1969 ; Marsden 1971 ;WhiteheadBlyth 2004  





Francesco Fiorucci Eliano. L’opera di Eliano, la Tactica theoria, fu composta a partire dagli ultimi anni del i sec. d.C. e diretta successivamente all’imperatore Traiano (98-117), con ogni probabilità in una data compresa tra il 106/7 e il 113, periodo in cui il monarca risiedette a Roma, prima della sua partenza per le spedizioni contro i Parti. Come esplicita lo stesso Eliano (Tactica pr. 3), fu l’incontro con Frontino, anch’egli scrittore di opere militari, a convincerlo ad impegnarsi definitivamente nella stesura del suo trattato. L’opera descrive l’organizzazione dell’esercito, le varie unità di cui è composto, gli armamenti e le formazioni. Secondo alcuni la Tactica theoria sarebbe stato uno degli scritti utilizzati da →Asclepiodoto come modelli, ma sul rapporto tra i due la critica non è concorde. [1] Altrettanto problematica è la relazione con l’Ars tactica di →Arriano, il quale secondo alcuni avrebbe una fonte comune con E., secondo altri invece lo prenderebbe a modello, essendo di poco posteriore. [2] Sussiste però anche la possibilità di ravvisare nel grande storico Polibio il capostipite di tutta la tradizione che, attraverso →Posidonio, continuatore dell’opera storica del primo, giungerebbe anche ad Asclepiodoto, E. e Arriano. [3]  





Note. [1] Loreto 1995. – [2] Dain 1946, 26-40 ; Stadter 1978 ; Wheeler 1978. – [3] Devine 1989.  



Bibliografia. Dain 1946 ; Devine 1989 ; Loreto 1995 ; Stadter 1978 ; Wheeler 1978.  







Francesco Fiorucci

Eliodoro. Noto attraverso →Oribasio e →Paolo di Egina, Eliodoro fu chirurgo di ispirazione pneumatica nella Roma imperiale dei tempi di Giovenale, che lo ricorda come eviratore (testiculos, postquam coeperunt esse bilibres, / tonsoris damnum tantum rapit Heliodorus: 6, 372-373), a testimonianza di una fama dovuta all’originalità del suo interesse per problemi di natura estetica connessi a questa branca dell’arte, e alle preoccupazioni ‘etiche’ ben rilevate da I. Mazzini [1], che ricorda l’importanza attribuita da Eliodoro alla necessità di valutare i rischi dell’intervento chirurgico. Tra i titoli conservati dalla tradizione indiretta, Sulle articolazioni, Sulle fasciature, Sulla chirurgia, e gli apografi Sui pesi e misure, Epistula phlebotomiae. Note. [1] Mazzini 1998, 63. Biblografia. Mazzini 1998, 62-63; Crismani 2002e, 352-353.

Daria Crismani Elio Promoto. 1. – A questo autore che l’esile tradizione manoscritta vorrebbe di Alessandria, vissuto probabilmente intorno al ii secolo d.C., sono attribuite 130 ricette mediche raccolte in un’operetta intitolata Dynameron, la quale ha avuto la sua editio princeps nel 2002 (edidit D. Crismani, Alessandria), ma che interessò già il cardinale Bessarione e fu utilizzata a scopi pratici nella Venezia illuminista. Di un’opera di Iatrika (Physika kai antipathetika) dedicata, secondo la lettera premessa al Dynameron, a mali non curabili coi rimedi tradizionali, resta un breve excerptum che interessò Max Wellmann, anch’esso disponibile oggi nell’edizione citata del Dynameron. Gli aspetti magico – simpatetici intravisti da Wellmann nell’excerptum sono esclusi dal ricettario (a eccezione di un capitolo dedicato agli afrodisiaci) che offre, ordinati senza troppo rigore secundum loca, una serie di medicamenti di ispirazione empirica ben inseriti nella tradizione farmacologica imperiale e tardo antica. 2. Pseudo Elio Promoto. – Un trattato sui veleni Peri ton iobolon therion kai deleterion pharmakon è stato edito di recente (S. Ihm 1995) come opera pseudo promotiana : esso è testimoniato in una redazione anepigrafa dallo stesso ma 

embriologia e sviluppo dell ’ embrione noscritto che conserva l’excerptum di Physika, un breve riassunto del Dynameron, edito per la prima volta in Appendice all’edizione dell’opera completa (iii, 260-264 ed. Crismani), e il Dynameron stesso, attribuiti a Elio Promoto. Bibliografia. Crismani 2002a ; Ihm 1995, 79-89 ; Rohde 1901, 380-410  



Daria Crismani













di fuoco : e questo deve fare non solo l’uomo ma anche la donna. Infatti la crescita è in relazione non solo a ciò che proviene da individui maschili, ma anche ciò che proviene da donne […] ». [2] →Diocle di Caristo descrive la scansione temporale dello sviluppo embrionario e descrive il battito cardiaco fetale. →Galeno riprende la teoria ippocratica dei quattro stadi : coagulazione del seme come latte cagliato, agglomerato di sangue, enucleazione dei tre principi vitali (cuore, cervello, fegato) e successiva formazione delle membra. Galeno, in base alle osservazioni sugli animali, descrive in dettaglio la formazione delle singole parti : le vene e arterie del cordone ombelicale penetrano nell`involucro informe e si ramificano, generando il fegato, il cuore, il cervello e le altre parti molli ; le ossa dello scheletro postcraniale si formano dopo le parti molli ed intorno a esse, seguite dalle ossa del cranio, dai denti e dai peli. Il feto è alimentato dai vasi dell’utero che funzionano come le radici della pianta. Il feto si alimenta dal mestruo ma trae il principio vitale dal seme maschile. Il feto è fornito di anima ma non prima del terzo stadio, dato che non è in movimento e quindi non ha vita. Nella visione galenica l’unione dei semi maschile e femminile contiene in potenza l’energia per divenire un essere vivente che possiederà somiglianza non solo con i genitori ma anche con gli antenati, anche se per Galeno, come d’altronde per →Aristotele, ha il primato il seme maschile. Il feto trae nutrimento dal sangue mestruale, anche se il seme maschile fornisce il principio vitale, ma anche da altri escrementi che vanno a finire nelle membrane fetali. Galeno distingue anche funzionalmente i tempi di formazione del feto ; si rilegga un passo notevole dal De semine : « Riprendiamo il discorso dalla prima formazione dell’essere vivente, in modo che esso sia ordinato e chiaro, suddividiamo l’intera formazione del concepito in quattro tempi. Primo tempo è quello in cui, sia negli aborti, sia nelle embriotomie predomina l’aspetto del seme […] Il secondo tempo è quello in cui il concepito si è riempito di sangue, anche il cuore e l’encefalo e il fegato sono indistinti e amorfi, ma tuttavia il concepito ha una certa densità e grandezza apprezzabile […] il terzo tempo si verifica quando, come si è detto, si possono vedere nitidamente i tre organi fondamentali (cioè cuore, cervello e fegato) e inoltre un qualche abbozzo e come ‘un adombramento’ di tutte quante le altre  







Embriologia e sviluppo dell’embrione. 1. Fisiologia. – Aristotele sostenne la tesi che il sangue mestruale fosse il materiale biologico dal quale si formavano i tessuti e gli organi dell’embrione e che il maschio fornisse l’elemento dinamico germinale che dà forma all’elemento femminile passivo. Se la genesi dal sangue mestruale dei tessuti embrionali era accetta a molti autori greci, non così la tesi del potere informativo del seme maschile : per esempio il trattato ippocratico Peri; gonh`~ sostiene la ‘dottrina dei due semi’ (l’elemento germinale maschile e quello femminile), la cui origine peraltro risale ad →Alcmeone di Crotone, a →Parmenide di Elea, a →Democrito e ad →Empedocle di Agrigento. →Ippocrate divide la formazione dell’embrione in quattro stadi. Nel primo stadio c’è l’unione dello sperma maschile con quello femminile : lo sperma è un prodotto che proviene dall’intero corpo dei due genitori, sperma debole da membra deboli, sperma forte da membra forti. Nel secondo stadio si ha la formazione dell’embrione che è contenuto in una membrana e si accresce grazie al nutrimento fornito dal sangue materno che discende nell’utero. Nel terzo stadio, per discesa e coagulazione del sangue materno si forma la carne ed infine nel quarto stadio si formano le membra. [1] In Ippocrate è interessante la possibilità di determinare il sesso del nascituro : « Individui maschili e femminili si formano, dunque, in questo modo : le creature femminili, che hanno in misura maggiore l’elemento acquoso, si sviluppano in rapporto alle cose fredde, umide e molli, alimenti, bevande e attività ; gli individui maschili, che, al contrario, hanno una componente maggiore di fuoco, si sviluppano in virtù dei cibi e degli altri elementi della dieta secchi e caldi. Se dunque si desidera procreare una femmina, è necessario seguire una ‘dieta’ ricca d’acqua, se si vuole invece procreare un maschio, è da seguire un regime di vita ricco  

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embriologia e sviluppo dell ’ embrione

parti […] Quarto e ultimo tempo è quello in cui tutte le parti che si trovano nella regione delle membra, si articolano e il mirabile Ippocrate chiama il concepito non più soltanto ‘embrione’, ma ormai anche’ bambino’, quando dice che sobbalza e si muove, come un essere vivente, già completo […] ». [3]  

Note. [1] Hp. Nat. puer. 12 /7, 486-488 L. – [2] Vict. 1, 27 / 6, 500 L ; cfr. anche Mazzini 1997, 267. – [3] Gal. Sem. 1, 9 / 4, 542-543 K : vd. anche Mazzini 1997, 268-269.  



Fonti. Hom. Od. 9, 245 ; Arist. GA 2, 7, 745 b 35 ; HA 7, 3, 583 b 9-21 ; HA 7, 7, 586a 15-21 ; PA 3, 8, 671 b 6 ; PA 3, 15, 676 a 17 ; Aesch. Eum. 945 ; Hp. Aph. 5, 52 / 4, 550 L ; Vict. 1, 27 / 6, 500 L ; Nat. puer. 12 / 7, 486-488 L ; Nat. puer. 13-14 / 7, 490-492 L ; Nat. Puer. 18 / 7, 500 L ; Septim. 1 / 7, 436 L ; Carn. 19 / 8, 608 sgg. L.  

























Bibliografia. Bernier 1990, 363-380 ; Congourdeau 2004, 349-362 ; Garland 1990, 17-35 ; LeskyWaszink 1959 ; Lonie 1977, 123-135 ; Nickel 1989 ; Nickel 1991 ; Schubert-Huttner 1999, 98-149 ; 326-343.  















Fabio Cavalli 2. Embriulcia e embriotomia. – L’embriulcia (ejmbruoulkiva), cioè ‘l’estrazione del feto attraverso uncini o embriulci’, e, nel caso in cui tenda a non uscire intero, l’embriotomia (ejmbruotomiva), [1] cioè, nel linguaggio medico moderno, ‘l’incisione o sminuzzamento del feto’, specialmente morto, nel ventre materno, per farne diminuire il volume a scopo di espulsione o estrazione, sono due interventi strettamente collegati e che vengono spesso citati nei testi antichi medici e anche teologici, [2] a fronte del ‘taglio cesareo’. L’intervento suddetto è annoverato fra quelli di massima difficoltà a causa dell’alta probabilità che il feto morto nell’utero non esca se non attraverso le mani e attraverso l’utilizzo di un uncino. Trattazioni e tecniche descritte nei testi del Corpus Hippocraticum [3] costituiscono la base delle discussioni successive, di età ellenistica e romana, nel campo dell’ostetricia. [4] L’estrazione, con tenaglie o uncini, del feto morto rappresenta spesso una forma di extrema ratio per tentare di salvare la vita della partoriente. →Celso descrive accuratamente [5] le fasi di un’operazione di embriulcia/embriotomia, un intervento molto arduo, che richiede, da parte del chirurgo, grande abilità, cautela e comporta rischi notevoli. Posta la donna supina, il bambino viene  



spinto verso la bocca dell’utero, che comprime; la bocca dell’utero, tuttavia, a intervalli si apre. In uno di questi intervalli il medico introduce gradualmente la mano nell’utero. Introdotta la mano all’interno dell’organo, il medico tocca il corpo morto e si rende conto della sua posizione. Poi ha inizio l’estrazione vera e propria : se vicino alla bocca dell’utero è il capo, occorre introdurre un uncino assolutamente liscio, con la punta corta, che è opportuno agganciare ad un occhio o ad un orecchio o alla bocca o, in certi casi, alla fronte. L’uncino, una volta tirato, serve, in modo adeguato, ad estrarre il feto. In altre circostanze subentrano altre difficoltà varie. Ad es. può capitare che il bambino sia gonfio di liquido : in questo caso il corpicino va forato con il dito indice per fare uscire il liquido ; il corpo allora si rimpiccolisce e così si può estrarre il feto. Un bambino che si presenta di piedi viene estratto senza difficoltà : si afferrano i piedi con le mani e il corpicino viene estratto agevolmente. Ci sono invece problemi di vario genere per altre evenienze, ad esempio se il feto si trova in posizione trasversale, né si è riusciti a raddrizzarlo : in questo caso si deve troncare il capo dal corpo e poi si devono estrarre, separatamente, l’una e l’altra parte. Difficoltà notevoli si hanno quando il bambino, che non si riesce a far uscire intero, deve essere rimosso a pezzi. Questo intervento, descritto in modo puntuale e dettagliato da Celso, viene successivamente descritto, in modo ancora più preciso da→Sorano di Efeso, [6] da→Muscione, [7] da →Celio Aureliano, [8] da→Aezio [9] e, infine, da→Paolo d’Egina. [10]  

















Note. [1] Per un’attestazione di ‘embriotomia’ Marcovecchio 1993, 312, s.v. embryotomia richiama Gal. Exegesis glossarum Hipp., al lemma ijcquvhn. – [2] Ad es. Tert. anim. 25. – [3] Hp. Mul. 1, 70 / 8, 146 sg. L ; 3, 249 / 8, 462 L ; Superf. 7 / 8, 480 L ; Foet. exsec. 8, 512-518 L. – [4] Cels. 7, 29 / 356-358 M ; Sor. Gyn. 4, 7-13 ; in Gyn. 7, 11, 3 Sorano cita l’ejmbruotovmo~, uno strumento per praticare l’embriotomia. – [5] med. 7, 29 / 356-358 M cit. Per la traduzione dell’intero passo si veda Mazzini 1997, 379-381 ; per il commento 220-222. – [6] Sor. Gyn. 4, 9-13. – [7] Musc. 2,19, 26-30 / 90-94 R. – [8] Sor.-Cael. Aur. gyn. 2, 92-98; 103-106 D. – [9] Aët. 16, 23. – [10] Paul. Aeg. 6, 74-77.  











Fonti. Hp. Mul. 1, 70 / 8, 146 sg. L ; 3, 249 / 8, 462 L ; Superf. 7 / 8, 480 L ; Foet. exsec. 8, 512-518 L ; Cels. 7, 29 / 356-358 M ; Sor. Gyn. 4, 7-13 ; Gyn. 7, 11, 3 ; Musc. 2,19, 26-30 / 90-94 R ; Tert. anim. 25 ; Cael. Aur. gyn. 2, 92-98; 103-106 D ; Aët. 16, 23. Paul. Aeg. 6, 74-77.  



















empedocle Bibliografia. Gourevitch 2004, 239-264 ; Marcovecchio 1993, 312 ; Mazzini 1997, 379-381 ; Schäfer 1996.  





Sergio Sconocchia Empedocle. 1. Generalità. – Complessa figura di intellettuale e poeta, nato ad Agrigento intorno al 485 a.C. Della sua opera poetica sopravvivono quasi cinquecento versi in esametri epici. Diogene Laerzio (8,77) identifica due opere, Peri physeos e Katharmoi, ma la distinzione tra i due poemi è stata revocata in dubbio soprattutto a seguito della pubblicazione del papiro di Strasburgo nel 1999, che propone brani riferibili alle due opere e induce a pensare alla loro contiguità ; si tratta peraltro di una questione ancora aperta. Nei frammenti si notano molte e inequivocabili riprese di esametri parmenidei, e anche di idee svolte da →Parmenide. La circostanza fa pensare a una speciale vicinanza intellettuale tra i due, anche se E. appare molto sensibile anche a un’altra musa, quella di →Pitagora. La diversità di orientamento tra queste due scuole di pensiero si traduce nella problematica diversità di orientamento di porzioni diverse del poema (o dei poemi) di E. Da un lato abbiamo il maestro che ha una riserva infinita di teorie, osservazioni, spiegazioni e insegnamenti proposti come ragionevoli e l’intellettuale che fa appello al libero assenso dell’intelligenza (es. in 31B114 e B71 D.-K.) e, di conseguenza, si attende che il discepolo « veda, osservi, mediti, soppesi le sue parole e, compresane la valenza, le condivida »; [1] dall’altro abbiamo il vate, il profeta, il salvatore incline all’esoterismo e impegnato a suggestionare, creando il mito di se stesso. Mancando elementi per parlare di una sorta di conversione di E. dal razionalismo di stampo eleatico al misticismo di stampo pitagorico (o viceversa), sembra inevitabile disporsi a riconoscere che queste furono le due facce della sua personalità e che egli appare tante volte in bilico tra due atteggiamenti tendenzialmente incompatibili, mentre non è seriamente pensabile di effettuare una scelta e negare l’esistenza o la rilevanza della faccia con la quale il singolo ricercatore abbia maggiori difficoltà a entrare in sintonia. Significativamente, se non altro il fr. 100 D.-K. alterna una oscurità sicuramente intenzionale nei primi versi a un intero gruppo di altri versi nei quali, invece, il contenuto di 





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chiarativo raggiunge un alto tasso di chiarezza e immediata intelligibilità. Pertanto la molteplicità dei registri tra i quali oscilla la comunicazione impostata da E. impone di ritenere che la rilevanza di un particolare registro non ha titolo a mettere in dubbio la genuinità e la rilevanza dell’altro. [2] La breve rassegna che segue è comprensibilmente limitata ai testi che ci parlano di una offerta di teorie specifiche, nella tradizione dei →peri physeos. 2. Fisica e cosmologia. – La cosmologia di E. si fonda sull’alterno prevalere di Amore e Odio, che comporta una alternanza di fasi in cui prevale l’armonia fra i quattro elementi e si delinea un insieme ben strutturato che assume la denominazione unitaria di Sphairos (e lo status di divinità), e fasi in cui questo insieme ben strutturato subisce una progressiva decomposizione. L’assetto presente del nostro mondo si colloca in una fase intermedia di tale ciclicità, come se E. avesse riflettuto sulla strutturale, ineliminabile compresenza di ordine e disordine nel mondo a noi noto e avesse ritenuto che il solo possibile modo di rendere conto di tali caratteristiche del reale sarebbe consistito nel rappresentarsi il presente come un equilibrio relativamente precario e transitorio. Sembra, in effetti, che E. abbia teorizzato quattro fasi sul modello delle quattro stagioni, con due fasi intermedie rispetto alle situazioni di netta affermazione di Amore e Odio, Sfero e Antisfero. Una notevole disputa contrappone gli studiosi secondo i quali “siamo in presenza di un processo in cui l’alterno dominio di Amicizia e Contesa crea, uno dopo l’altro, due cosmi, uno per aggregazione, l’altro per disgregazione” e quelli per i quali E. avrebbe parlato dei “processi di aggregazione e di separazione all’interno di un unico mondo, processi che interessano elementi, cose, parti di animali, etc.”. [3] Quanto poi alla teoria dei quattro elementi, l’individuazione di aria, acqua, terra e fuoco come i quattro tipi di sostanza ai quali tutto si riduce, e che non sono ulteriormente riducibili, [4] ha notoriamente costituito un insegnamento mai più posto seriamente in discussione in Occidente per ben due interi millenni. Per E. i quattro elementi hanno l’ulteriore caratteristica di essere ingenerati, immutabili ed eterni (non troppo diversamente dall’essere di Parmenide), suscettibili però di aggregazione e disgregazione, cosicché la nascita è addirittura trattata come un’espressione impropria per aggregazione e la morte come un modo improprio di parlare  





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empirici

della decomposizione di un aggregato (questo viene detto molto esplicitamente nei frr. 8 e 9 D.-K.). Pure alquanto fortunata deve dirsi la teoria del ciclo cosmico, che non è documentata per i physiologoi anteriori, mentre è stata variamente ripresa in altre epoche. Un’altra tessera importante della cosmologia di E. è la teoria del vortice cosmico. Egli accoglie senza ulteriori esitazioni l’idea di una terra sferica posta al centro di un universo anch’esso sferico (o fatto di più sfere, oppure a forma d’uovo perché particolarmente alto sopra a noi : v. rispettivamente 31A49 e 50 D.-K.) ma, diversamente da →Parmenide, rilancia la teoria ionica del vortice, inteso come il protagonista e l’attore dei processi di aggregazione e disgregazione sopradescritti. In questa cornice prende forma l’indicazione del cielo come costituito di aria o acqua solidificata nel quale siano conficcate le stelle ma non anche i pianeti (31A54 D.-K.). Sembra che E. si sia interrogato, inoltre, sulla dinamica del vortice, chiedendosi come mai la terra stia ferma e come mai il vortice non produca solo una spinta centrifuga (per cui i corpi celesti non cadono) ma anche una spinta centripeta (per rendere conto dello stato di quiete della terra situata al centro dell’universo). Le risposte da lui offerte sembrano incentrate sull’analogia con il mestolo a forma di S che viene fatto ruotare tenendolo con un dito (Arist. Cael. 2, 13, 295a 13-25 = 31A67 D.-K.). [5] 3. Biologia. – Le testimonianze che sono concentrate in 31A78-86 D.-K. e il fr. 100 forniscono convincente prova della grande attenzione che E. ha dedicato agli aspetti più diversi del mondo della vita. In questa sede basti un breve giro d’orizzonte : A 77 : la digestione del cibo è una sorta di putrefazione; A 78 : tentativo di cogliere la specificità di nervi e ossa, partendo dal presupposto che ogni parte del corpo si fonda su una certa proporzione ; A 79 : il cordone ombelicale si diparte dal cuore ; A 80 : accade che il ciclo mestruale subisca accelerazioni e ritardi ; A 81 : la differenziazione dei sessi e l’affermarsi della somiglianza al padre o alla madre dipendono dalla temperatura dell’utero al momento del concepimento ; considerazioni sui parti mostruosi e sui parti gemellari ; A 82 (e B 92) : tentativo di spiegare perché i muli siano sterili ;  





















A 83 : nel feto la formazione degli arti ha luogo al trentaseiesimo giorno ; A 84 : nel feto si forma anzitutto il cuore ; A 85 : cause del sonno e della morte ; A 86 (è un’ampia sezione del De sensu di →Teofrasto) : teorie concernenti la sensazione, la vista, l’udito, la conoscenza, l’intelligenza, le percezioni, il piacere e il dolore e altri temi collegati ; B 100 : tentativo di spiegare come funziona la respirazione polmonare. [6] Se teniamo conto, come dobbiamo, del molto su cui non siamo informati, questa semplice elencazione fornisce una eloquente prova del grande sforzo compiuto da E. per tentar di capire la particolare dinamica di moltissimi aspetti del mondo della vita e renderne conto in maniera plausibile, solitamente a partire dal presupposto che la spiegazione è o dovrebbe essere semplice, quasi meccanica. Lo schema esplicativo appare coerente con gli orientamenti tipici dei milesi e tale da offrire una convincente rappresentazione del desiderio virtualmente inesauribile di offrire un sapere in grado di abbracciare gli aspetti più diversi del mondo fisico, così come del mondo della vita.  



















Note. [1] Laurenti 1999, 68. – [2] Il tema delle due ‘facce’ di E. ha alimentato una ricca letteratura e anche qualche clamorosa forma di unilateralità. Ricordiamo Gallavotti 1975, Kingsley 1995, Gemelli Marciano 2001, O’Brien 1969, Primavesi 2001, Kingsley 2002, Bollack 2003, Rossetti 2004a, Trépanier 2004. – [3] Cito da Santaniello 2004, 27. – [4] Un dubbio sulla loro irriducibilità venne notoriamente sollevato da Aristotele in De gen. et corr. 1, 1, 315a4-25 (non incluso in D.-K.). – [5] Sull’analogia con il mestolo vd. Tigner 1974 e Rossetti 2004a, 151-161. – [6] Su questo laborioso e suggestivo frammento vd. Rossetti 2004a, 161188. Si tenga presente che a lungo gli interpreti hanno interpretato il frammento come descrizione di una supposta respirazione cutanea. Bibliografia. Bollack 2003 ; Casertano 1983 ; Carini 1995 ; Gallavotti 1975 ; Gemelli Marciano 2001 ; Graham 2006 ; Kingsley 1995 ; Kingsley 2002 ; Laurenti 1999 ; Messina 2007 ; O’Brien 1969 ; O’Brien 1995 ; Perilli 1996 ; Primavesi 2001 ; Rossetti 2004a ; Santaniello 2004 ; Tigner 1974 ; Trépanier 2004.  

































Livio Rossetti









Empirici. La scuola degli Empirici si sviluppa tra il 270 e il 220 a.C. grazie all’iniziativa di →Filino di Cos e Serapione di Alessandria

enea tattico all’interno della stessa scuola alessandrina come risposta sia al dogmatismo dei successori di →Erasistrato ed →Erofilo sia all’eccessivo indirizzo sperimentale che aveva caratterizzato l’insegnamento e la ricerca in Alessandria sino ad allora. La scuola trae la sua denominazione da ejmpeiriva cioè ‘esperienza’, che assume una valenza centrale nello sviluppo teorico di questa. Gli Empirici, influenzati dalla filosofia scettica, ritengono la natura incomprensibile e credono che possiede una realtà solamente ciò che può essere osservato. [1] Inutile quindi sarebbe risultato lo studio dell’anatomia e della fisiologia, così come in genere le indagini sulle cose nascoste : solo l’esperienza sarebbe, quindi, il fondamento della medicina. L’esperienza si basa essenzialmente su tre punti : la diretta osservazione (aujtoyiva), la storia delle osservazioni proprie e altrui (iJstoriva), l’analogia ovvero il passaggio dal simile al simile. Gli esponenti di questa scuola si distinguono nella chirurgia (soprattutto cura di lussazioni e fratture, cataratta e calcoli), nel trattamento delle ferite e nella tecnica delle fasciature, anche se tralasciano completamente lo studio dell’anatomia e della fisiologia poiché le considerano di secondaria importanza rispetto al problema del malato. Perdono, quindi, di vista il concetto di malattia come espressione di un generale malessere dell’organismo : la malattia viene considerata solo la somma di sintomi e le sue cause evidenti sono il freddo, la fame, la sete, la fatica, etc. Nella scuola empirica ha una singolare importanza lo studio dei veleni : →Crateva, medico personale di Mitridate VI, re del Ponto, fu probabilmente lo scopritore della resistenza al veleno per assuefazione (mitridatismo), aprendo la strada alla composizione della teriaca, un tipo di farmaco che rimarrà in uso sino alle soglie dell’età contemporanea. A questa scuola appartengono Erofilo, Glaucia di Taranto, →Eraclide di Taranto, Attalo ii Filometore di Pergamo (Attalus medicus di Plinio), →Nicandro di Colofone, Dicearco di Messina, Zeuxi di Taranto, Andrea di Caristo, Megete di Sidone, Apollonio di Kition e Cassio medico. L’indirizzo empirico ebbe, però, la sua massima diffusione in era cristiana, fra il i e il ii secolo, soprattutto con Menodoto di Nicomedia, che di quella scuola rappresenta indubbiamente il vertice.  









Note. [1] Cels. Prooem. 27-44 / 22-24 M. Fonti. Plin. nat. 20, 120; 29, 5; S.E.P. 1, 34 / 236-241 Han; D.L. 9, 116; Gal. Meth. med. 2, 7 / 10, 126 sgg. K.

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Bibliografia. Gourevitch 1993, 127-129 ; Guardasole 2005, 254-255 ; Mazzini 1997, 194-200 ; Opsomer-Halleux 1991 ; Sconocchia 2002a, 310-311 ; 314-315 ; Stok 1993c, 600-645 ; Vegetti 2001, 718-723.  













Daniele Monacchini Enea Tattico [iv sec. a.C.]. Di questo autore conosciamo i Poliorketika, una delle opere più importanti che l’antichità ci abbia restituito in ambito militare. Lo scritto tratta di tutto quanto è indispensabile approntare per difendere una città in caso d’assedio. Vengono dunque affrontati temi fondamentali come la selezione delle truppe poste a difesa delle fortificazioni, le misure opportune per evitare complotti e ribellioni interni, i metodi per garantire una corretta sorveglianza delle posizioni. Molta attenzione viene – e deve essere – riservata all’equilibrata divisione dei compiti tra i cittadini, i quali sono i veri protagonisti della difesa, al fine di gestire al meglio la delicata vita delle città durante gli assedi. La notevole competenza dimostrata da Enea in materia induce a credere che sia stato un militare di professione. Del resto nel periodo in cui egli visse erano molti i greci che ispessivano le file degli eserciti mercenari al soldo dei vari tiranni locali o dei signori stranieri. Pare fosse originario del Peloponneso, come si evince dai richiami geografici e da certi usi linguistici presenti nell’opera. Una delle caratteristiche del trattato è il costante riferimento ad episodi di guerra realmente accaduti, chiamati in causa a titolo di esempio, i quali forniscono utili elementi per la datazione. I Poliorketika sono stati infatti composti non più tardi degli anni cinquanta del iv sec. a.C., sulla scorta del fatto che tali episodi riguardano operazioni militari avvenute fino al 360, mentre è assente ogni allusione all’ascesa della potenza macedone. [1] Secondo alcuni il nostro autore sarebbe da identificare con un certo Enea di Stinfalo (città dell’Arcadia), ricordato da Senofonte (hg 7, 3, 1), ma l’ipotesi rimane incerta. [2]  



Note. [1] Vd. Bettalli 1990 ; Oldfather-Oldfather-Pease-Titchener 1923 ; Whitehead 1990. – [2] Vd. Bettalli 1990 ; Loreto 1995.  





Bibliografia. Bettalli 1990 ; Dain 1967 ; Garlan 1992a ; Loreto 1995 ; Oldfather-Oldfather-Pease-Titchener 1923 ; Whitehead 1990  









Francesco Fiorucci

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entimema 1358b 1-1359a 29) : la retorica può essere deliberativa, giudiziaria ed epidittica. Questi tre tipi di retorica corrispondono a tre elementi della comunicazione : la retorica deliberativa è relativa a colui che parla, la retorica giudiziaria è relativa al contenuto del discorso e la retorica epidittica è relativa al destinatario del discorso. Un esperto di dialettica, sebbene non di retorica, sarà, così, anche un buon ‘costruttore’ di e. tanto da possedere l’arte di costruire argomentazioni retoriche fondate. La necessità e la validità dell’e. conseguono dall’insufficienza intrinseca alle argomentazioni logiche corrette in quei discorsi, come in particolare quelli preparati per il tribunale, perché da sole esse non garantirebbero la persuasione : è necessario che l’evidenza logica venga, per così dire, trasmessa attraverso discorsi in grado di convincere l’uditorio e, dunque, attraverso l’uso di nozioni comuni, non prettamente scientifiche. A tal riguardo, Aristotele considera l’e. come un sillogismo breve, ossia un sillogismo che, avendo come fine la persuasione, non è necessario svolgere in ogni suo passaggio.  

Entimema. Entimema è il nome del →sillogismo retorico in →Aristotele. Tale sillogismo costituisce la metodologia procedurale della retorica, arte che si occupa di nozioni comuni (ovvero quegli enunciati validi in ogni scienza: cfr. →assiomatica) e non ha, dunque, un ambito specifico di applicazione. L’argomentazione è una forma di dimostrazione e come tale deve seguire le regole di questa. È la →logica che stabilisce le regole della dimostrazione, e, dunque, le regole del sillogismo che la costituisce ; e poiché per essere davvero scientifica ogni disciplina deve confrontarsi con queste regole, anche la retorica non può sfuggire a questo controllo e potrà ricevere validazione disciplinare procedendo in forma sillogistica ; ovviamente il sillogismo di cui farà uso non sarà il sillogismo categorico, bensì il sillogismo retorico, o e. La retorica è analoga alla dialettica (è il suo ‘controcanto’: Rh. 1,1 1354a) in quanto entrambe riguardano oggetti non propri ad una disciplina (una scienza specifica) e la cui conoscenza è patrimonio di tutti (cfr. Rh. 1, 2, 1356b25-27 e 1, 4, 1359b 12-17). Eppure le due scienze si servono di due sillogismi differenti : la dialettica si serve del sillogismo dialettico e la retorica dell’entimema. Si tratta di sillogismi della possibilità in cui la premessa maggiore non è certa ma verosimile (le premesse probabili sono e[ndoxa). La diversità tra i due sillogismi è data dal diverso modo del costituirsi di questa possibilità nelle premesse : nel sillogismo dialettico la possibilità è espressa da premesse fondate sul senso comune generico, e dunque tali da rimandare ad ogni aspetto della vita reale del soggetto (Rh. 1, 2, 1356a 3134). Un e., invece, è costruito a partire non solo da premesse possibili ma anche da segni (Rh. 1, 2, 1357b 1-20). I segni sono premesse necessarie che connettono un fatto ad un altro riconoscendo l’uno come segno dell’altro (l’uno indica e richiama l’altro) : vi sono segni necessari (detti anche prove) e segni non necessari (che per questo possono venire confutati). Un e. è, come il sillogismo dialettico, costruito in base a dei luoghi (tovpoi) che sono comuni a tutte le scienze ma si differenziano per le specie (le specificità delle singole scienze) a cui fanno riferimento. In particolare, la retorica si fonda su tre specie che sono in grado di attuare una distinzione interna alla retorica stessa (Rh. 1, 3,  













Bibliografia. Berti 2004 (2) ; Bouton 1995 ; Burnyeat 1994 ; Calboli Montefusco 2004 ; Cortés Gabaudan 1994 ; Mesturini 1993-94 ; Mignucci 1992 ; Notsu 2002 ; Piazza 2000 ; Raphael 1974 ; Ryan 1984 ; Zanatta 2006.  





















Stefania Giombini Epicuro. 1. Generalità. – Ciò che sappiamo sul conto di E. deriva principalmente da due fonti. La prima è Diogene Laerzio che ad E. riserva l’intero decimo libro delle sue Vite, cosa che già istituisce una sorta di privilegio, condiviso solo con Platone (al quale è riservato il terzo libro). L’anomalia (in senso positivo) dipende dal fatto che nel libro x campeggiano le Massime capitali e tre epistole dottrinali pensate come esposizione sintetica delle teorie fisiche del maestro e riportate per esteso. La fonte laerziana costituisce una risorsa primaria, anche in virtù dei riscontri ‘indipendenti’ che affiorano dal poema di →Lucrezio e dalla grande iscrizione di Diogene di Enoanda. Un’altra straordinaria fonte di conoscenze su E. è costituita dai papiri di Ercolano. Dalla cosiddetta Villa dei Pisoni, intorno alla metà del Settecento, notoriamente emersero non solo decine di pregevolissime statue e busti, ma

epicuro anche e soprattutto un corpus di oltre millesettecento rotoli di papiro carbonizzato, tutti in greco, tutti di filosofia, tutti di ispirazione epicurea in virtù della personalità del caposcuola, Filodemo di Gadara. Immense difficoltà tuttora concernono, peraltro, la salvaguardia, lo svolgimento e la fruizione di questo strepitoso patrimonio librario [1] che in molti modi ci parla di E. In particolare sono emersi frammenti sia di svariate sue opere altrimenti ignote (si possono ricordare i molti spezzoni riconducibili ai 37 libri del suo Peri Physeos), sia di opere di suoi allievi (e, più raramente, avversari dottrinali), sia di moltissime lettere, per cui l’immagine di E. si è venuta e si viene ridefinendo via via che la fruizione dei papiri ercolanesi si fa più sistematica e le difficoltà tecniche ed ecdotiche vengono faticosamente superate. La nascita di E. a Samo, ma da genitori ateniesi, viene datata al 341 a.C., mentre il suo arrivo ad Atene dopo un soggiorno pluriennale a Lampsaco (sui Dardanelli) viene datato al 307 a.C. ed è dunque anteriore alla fondazione della Stoa nell’anno 300. E. dovette ben presto dar vita al kēpos e delineare uno stile di vita incentrato sulla coltivazione delle amicizie e relativamente appartato. È interessante constatare che in Diogene Laerzio (10, 6-12) si susseguono accuse roventi sull’aggressività scomposta con cui E. avrebbe criticato i maggiori filosofi e un’articolata apologia che rivendica al maestro il merito di una urbana mitezza nei modi, in palese contrasto con le accuse che precedono. Si ha notizia dell’incrinarsi delle buone relazioni con alcuni (pochi) discepoli, in particolare di una rottura con Timocrate, fratello di un personaggio molto legato ad E., Metrodoro di Lampsaco, rottura che diede luogo a ripetuti tentativi del maestro di superare il dissidio. La morte di E. risale al 270. 2. Il sistema. – Un primo punto da evidenziare nel caso di E. riguarda l’impegno posto nell’erigere il proprio insegnamento a sistema. Si suole pensare che, prima di lui, →Aristotele sia stato un pensatore sistematico, e altri prima di Aristotele (es. →Parmenide, →Melisso), ma è appropriato considerare che, se Parmenide propose non uno ma due nuclei dottrinali ammettendo esplicitamente l’asimmetria o discontinuità fra i due, se Melisso svolse la dottrina parmenidea dell’essere trattandola come un insegnamento virtualmente onnicomprensivo, ma di fatto occupandosi

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solo di questo particolare nucleo dottrinale, Aristotele ebbe certo l’ammirevole capacità di costituire il sistema delle discipline disposte in modo seriale e di dedicare inoltre opere memorabili – la Fisica, quella che per noi è la Metafisica nonché, in qualche misura, l’Organon – alla elaborazione dei principi sistemici del suo multiforme insegnamento, ma riconobbe ampiamente l’autonomia disciplinare dei vari ambiti, per ciascuno dei quali seppe coltivare un genuino interesse conoscitivo, e rifuggì da impropri condizionamenti tra ambito e ambito. Proprio questo è ciò che cambia quando da Aristotele passiamo ad E. in quanto E. si è proposto invece di ricondurre tutto ad unità e di assicurarsi che le varie parti del suo sapere fossero solidali, convergenti, interdipendenti, coese. Come è noto, questa idea di sistema ha avuto un successo strepitoso nella comunità filosofica greca, poi latina, poi più generalmente occidentale, ed è stato E. il primo a produrre ed accreditare un sapere eretto a sistema e ad esplorare con grande impegno le virtualità di una simile idea del sapere e del filosofare. Significativamente, anche gli Stoici si affrettarono ad erigere una sorta di controsistema avente caratteristiche manifestamente affini a quello di E. proprio dal punto di vista dell’idea di sistema. Rispetto ad Aristotele (sul conto del quale E. appare accettabilmente ben informato e col quale sa di doversi pur sempre confrontare) il nuovo principio di organizzazione del sapere si caratterizza per una molto maggiore compattezza, in particolare per il fatto di racchiudere in una sola architettura dottrinale tutto il sapere peri physeos, che va a costituire uno dei tre ambiti in cui l’intera filosofia di E. si articola. Pure interessante appare una rilevante caduta dell’interesse per ambiti disciplinari come, per un verso, le scienze della vita e, per l’altro, un intero gruppo di discipline umanistiche come la poetica, la retorica e la storia, che non trovano un posto preciso nella tripartizione dell’intero scibile in canonica-fisica-etica. La →fisica sembra aver difficoltà ad incorporare le scienze della vita ; l’etica ha analoghe difficoltà ad aggregare poetica, retorica e storia nel suo ambito peculiare. Significativo appare perciò che E. abbia potuto scrivere un trattato Sulla retorica, in cui svolgeva piuttosto una condanna della retorica, che a suo avviso non serve per la conquista della felicità, anche se offre un aiuto al sophos per il fatto di affinare  

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epicuro [2]

i suoi mezzi espressivi. L’idea di sistema elaborata da E. è appunto l’idea di un tutto molto coeso e quindi stabile, il che spiega la necessità di ricorrere talvolta ad argomenti anche un po’ contorti pur di mantenere tale stabilità. A sua volta la relativa stabilità del sistema epicureo ha permesso il suo perpetuarsi con modifiche e variazioni molto limitate anche a distanza di parecchi secoli (esemplare è il caso della grande iscrizione di Enoanda, posteriore di quasi mezzo millennio) ; inoltre ha permesso il decollo di forme di proselitismo precedentemente ignote, e così pure lo sviluppo di una certa propensione alla polemica tra scuole di pensiero altrettanto ben caratterizzate o verso eventuali dissidenti. Un interessante corollario di queste dinamiche è costituito dall’insistenza con cui E. ha raccomandato ai suoi di tenere ben presenti i suoi insegnamenti e quindi di mandarli a memoria, ravvisando nella capacità di richiamarli con prontezza una risorsa importante per riuscire a rimanere sereni e dunque godere del piacere catastematico (calmo, distaccato) anche nei momenti obiettivamente più difficili. Come è noto, E. propose una sintesi straordinariamente breve del suo insegnamento – il tetrafarmaco – e una sintesi comunque molto breve – le 40 Ratae sententiae – alle quali sembrano seguire, a titolo di formulazioni comunque sintetiche della ‘fisica’, due delle tre epistole riportate da Diogene Laerzio (l’Epistola a Erodoto e l’Epistola a Pitocle), mentre la terza (Epistola a Meneceo) verte sull’etica. Queste tre epistole, e sicuramente anche altri scritti, formarono insomma una sorta di ‘breviario’ o di ‘pronto soccorso’ ritenuto necessario per l’epicureo sinceramente desideroso di riuscire a vivere saggiamente e quindi lietamente. 3. Il canone. Le ‘prolēpseis’ – Procedendo ora a una breve esplorazione dei tre tipi di sapere, in cui si articola la filosofia epicurea, e sorvolando sulle considerazioni che si potrebbero addurre intorno alla priorità dell’una o dell’altra, sembra il caso di sottolineare un’idea ampiamente svolta nelle premesse epistemologiche, che vanno a costituire la ‘canonica’, ossia i prolegomena del sistema. E. trova una interessante via di mezzo tra le tendenze scettiche già ampiamente rappresentate ad Atene da Pirrone e la spinta a conferire uno statuto epistemico alto al suo stesso insegnamento. E. non è scettico, ma la capacità di conoscere, di cui si occupa, è qualcosa di funzionale alla sua dottrina: per 



ciò la sua canonica non verte sulla possibilità di venire a sapere in generale, non verte sul sapere degli specialisti, e nemmeno prende in considerazione saperi estranei a quello epicureo, mentre fa lodevolmente riferimento alle risorse conoscitive e di auto-orientamento che sono tipiche dell’uomo medio. Cardini del suo ottimismo epistemologico sembrano essere l’enargeia (l’evidenza immediata), l’epilogismos (stima della bontà, veridicità – o falsità – delle opinioni in base alle azioni che esse legittimano o delegittimano, inducono a compiere o dissuadono dal compiere) e le proleˉpseis (le anticipazioni). Le tre nozioni indirizzano verso una percezione intuitiva e intuitivamente valida dello stato delle cose. La nostra vita si svolge o può svolgersi in modo ordinato e senza troppi errori perché possiamo contare su tante ‘quasi-certezze’ immediatamente pronte per l’uso : ci sono cose che balzano agli occhi con piena evidenza; per orientarsi sul conto di opinioni e teorie c’è un criterio empirico che è quasi infallibile (le conseguenze operative derivanti dal fatto di adottare o non adottare una certa opinione), e soprattutto possiamo contare su innumerevoli ‘anticipazioni’ che ci permettono di capire d’intuito, di riconoscere immediatamente, di avere un’idea precisa di ciò che il singolo nome evoca. Questo insieme di risorse per sapere, capire e orientarsi ha il pregio di non fare riferimento al sophos, a chi ha studiato o allo specialista, ma alla condizione di ogni persona normodotata, che capisce, si orienta e può contare su valide risorse per orientarsi e decidere. In particolare le proleˉpseis delineano qualcosa come l’enciclopedia personale di ciascuno di noi, un patrimonio vasto o vastissimo, su cui mediamente far conto e che si rafforza continuamente grazie alla varietà delle esperienze quotidiane anche se non può propriamente fornire delle autentiche garanzie. In virtù di questa impostazione (enfasi sulle risorse su cui tutti possiamo mediamente contare), la canonica di E. presenta un ragguardevole tasso di novità rispetto agli schemi sillogistici o ad altri approcci all’epistemologia. 4. La fisica. – In fisica – ambito nel quale E. investì particolari energie – campeggia il controverso riferimento all’atomismo democriteo e, di nuovo, agli schemi accreditati da Aristotele, non senza recuperare elementi dottrinali riconducibili ad →Eraclito, →Empedocle, →Anassagora. L’atomismo di E. si propone  

epicuro come un atomismo ripensato ab imis, di cui si sottolinea l’indipendenza rispetto alla matrice democritea. Gli atomi si muovono nel vuoto e si muovono a velocità costante dall’alto verso il basso, entrando in contatto gli uni con gli altri grazie alla parenklisis (il clinamen di Lucrezio), la deviazione estemporanea e imprevedibile che innesca interi grappoli di collisioni. Come ebbe a mostrare Marx nella sua famosa dissertazione del 1841, l’introduzione di un tasso di imprevedibilità originario ed ineludibile serviva allo scopo di precludere ogni corollario deterministico a partire dalla teoria della collisione degli atomi. Se gli atomi si muovessero in più direzioni, la collisione sarebbe inevitabile, quindi prevedibile almeno in teoria, e il corso degli eventi potrebbe ritenersi predeterminato, il che aprirebbe la porta a un fatalismo che E. è impegnato a negare con ogni forza perché, se si potesse ipotizzare un destino predeterminato, in troppi casi la felicità sarebbe preclusa e prevarrebbe il timore per ciò che potrà accadere indipendentemente dalla volontà dei soggetti. Invece professare la casualità del clinamen equivale a prevenire un tipo di insicurezza e di timore particolarmente insidioso, quello legato alla piega che prenderanno gli eventi. Compare qui con ogni evidenza il meccanismo dell’interdipendenza delle varie tessere del sistema, nel senso che l’etica epicurea rischierebbe di non poter essere validamente accreditata se si potesse teorizzare qualche forma di determinismo. Del resto è la stessa adozione dell’atomismo a tradire una sua funzionalità all’etica in quanto ogni altra teoria avrebbe introdotto nel mondo elementi di razionalità e di progettualità teleologica, nonché l’intervento di forze superiori che possano aver presieduto alla stessa costituzione degli equilibri basici del mondo. Se ne inferisce che la scelta di prendere le distanze da →Platone ed Aristotele alimenta l’opzione a favore dell’atomismo quale schema esplicativo che sgombra il campo da ogni possibile entità o progettualità di dimensione cosmica. Lo stesso deve dirsi, del resto, della negazione della spiritualità e immortalità dell’anima che E. professa in nome dell’atomismo, una negazione in cui la fisica evidenzia tutta la sua funzionalità al messaggio etico. In tale cornice è degna di nota la maniera con cui E. imposta il discorso sugli dei. Che gli dei esistano non lo si può negare perché troppo radicate sono le proleˉpseis che li riguardano (la nozione stes-

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sa di divinità ha solide radici in questo nostro sapere di tipo intuitivo), così come è fin troppo radicata la prassi del culto per i defunti (che si lega perfino intuitivamente al culto divino), ma bisogna dimostrare che gli dei non interferiscono con la nostra esistenza. Partendo da un simile assunto E. da un lato nega con forza la religione astrale (la presunzione che i corpi celesti siano divini) e da un altro punto di vista riconosce appunto che gli dei esistono ma vivono beatamente in un loro mondo remotissimo (gli intermundia). Ne discendono la negazione dell’immortalità dell’anima e della provvidenza e una netta presa di distanza dalla ‘religione popolare’ che associa alla divinità speranze e timori ingovernabili. Sopravvive invece l’idea della homoioˉsis theoˉi, la somiglianza alla divinità che può essere raggiunta dal saggio. Come si vede già soltanto da queste brevi note, l’etica interferisce pesantemente nella costruzione della fisica epicurea e ne limita grandemente la portata, essendo E. troppo spesso preoccupato del corollario etico per poter sviluppare un genuino interesse conoscitivo verso il mondo fisico. Non sorprende perciò constatare il limitato respiro delle sue indagini sul mondo fisico. « Il nostro modo di vivere », leggiamo in Ep. Pyth. 87, a titolo di indicazione di metodo nell’accostarsi alla fisica, « non richiede speculazioni soggettive (idiologias) e vane opinioni, ma di condurre una vita senza inquietudini ». La luna, per esempio, è possibile che brilli di luce propria, ma è altrettanto possibile che brilli grazie al sole (Ep. Pyth. 94) ; il tuono potrebbe dipendere dal « roteare del vento nelle cavità delle nubi » (trad. Gigante) o anche da altre cause (ibid. 100) ; anche i lampi si formano per una varietà di cause (ibid. 101) e così di seguito. Ciò che campeggia nella fisica di E. è la sua virtuale dissoluzione, o almeno un suo drastico contenimento, in modo da non alimentare nemmeno particolari illusioni sulla possibilità di carpire i supposti segreti del cosmo. Degne di nota, in questo contesto, sono anche le considerazioni (svolte in Peri physeos 11) sugli organa, planetari meccanici da E. osservati a Cizico (sul mar di Marmara, dunque non troppo lontano da Lampsaco) e costruiti allo scopo di delineare un modello fisico dei movimenti astrali. La geniale invenzione non suscita la sua ammirazione ma viene trattata come velleitaria per l’impossibilità di arrivare a misurazioni precise intorno ai corpi celesti. Ugualmente in Ep. Pyth. 91 egli argomenta che,  















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epigene di bisanzio

siccome il sole ha sempre le stesse dimensioni apparenti da qualunque punto della terra lo si osservi, si ha motivo di ritenere che le dimensioni apparenti corrispondano alle dimensioni reali dell’astro. 5. L’etica – L’etica epicurea ha una connotazione terapeutica : dolori e paure (incluse le paure ingiustificate) sono una realtà importante della nostra vita e la gente rischia di vivere male, per cui ha bisogno di un aiuto e di una guida che apra gli occhi, che indichi la strada. Nella figura del sophos (o del philosophos) la funzione di guida spirituale, di maestro e modello per lo stile di vita (e quindi per la condotta abituale) tende a prevalere sulla funzione di detentore di conoscenze. L’etica epicurea ha una dimensione contestativa (la tesi secondo cui i maggiori timori, i timori ancestrali, sono infondati perché la morte non ci concerne e nessun fato o potenza sovrumana incombe sulla nostra vita) e una dimensione più chiaramente propositiva (l’ideale della vita beata, la teorizzazione del piacere catastematico). Un passaggio interessante riguarda la classificazione dei desideri (Ep. Men. 127 sg. e Sent. 29) in desideri naturali e necessari, naturali non necessari e non naturali non necessari (rispettivamente : desiderio di cibo, desiderio di una cucina elaborata e esteticamente gradevole, desiderio di affermazione sociale) allo scopo di spegnere, per quanto possibile, i desideri del secondo e terzo tipo. Ancora una volta si nota una idea della condizione umana ispirata alla prudenza di fronte all’enormità delle insidie che la vita può riservarci e alla costruzione di una sorta di oasi protetta che permetta l’effettivo raggiungimento della serenità. Un simile ideale trova il suo naturale fondamento nella fisica atomistica e nel contenimento dell’orizzonte delle prospettive, orizzonte che è marcato ‘a fuoco’ dalla riflessione sui limiti della condizione umana.

Bibliografia. Arrighetti 1960 ; Asmis 1984 ; Balaudé 1999 ; Bollack-Laks 1978 ; Erler 1994 ; Gigante 1998 ; Goulet 2005; Isnardi Parente 1974 ; Leone 2005 ; Leone 2007 ; Long-Sedley 1987 ; Marx 1841; Salem 1993 ; Sedley 1976.  



Note. [1] Sembra appropriato ricordare che da sempre si presume che la villa non potesse non contenere anche una sezione latina di tale biblioteca. Allo stato, però, la ripresa degli scavi presenta difficoltà ancora da superare e di tale patrimonio nulla è ancora emerso. – [2] Fa parzialmente (e comprensibilmente) eccezione il →diritto inteso come diramazione o sviluppo dell’etica. È significativo che le Massime capitali si concludano con dieci massime sul giusto che, a loro modo, delineano un embrione di filosofia del diritto.















Livio Rossetti









Epigene di Bisanzio. Autorevole astrologo del ii sec. a.C., si interessò di astrologia universale [→astrologiche previsioni, 5] e di astrologia genetliaca [→astrologiche previsioni, 2]. La sua opera, intitolata, forse, Fatti caldei, è andata perduta, ma sappiamo che si interessò del fenomeno delle comete. [1] Nell’ambito dell’astrologia individuale, E. ipotizzò che la vita umana potesse avere una durata massima di 112 anni. [2] →Plinio inoltre, a supporto dell’antichità delle osservazioni astronomiche e astrologiche dei Babilonesi, riferisce che secondo E. queste rimonterebbero a 720.000 anni prima. [3]  





Note. [1] Sen. nat. 7, 4-10. – [2] Plin. nat. 7, 160 ; Cens. 17, 4. – [3] Plin. nat. 7, 193.  

Bibliografia. Gundel-Gundel 1966, 106 ; Rochberg 2008, s.v. Epigeneˉs of Buzantion in EANS, 290 ; Schnabel 1923, 109-118 ; Urso 2002, 115-116.  





Carmelo Lupini Episintetici o eclettici. La scuola eclettica, detta anche scuola degli Episintetici, rappresenta un orientamento dottrinario all’interno della scuole mediche col quale gli antichi medici cercano di conciliare la terapia scientifica degli →pneumatici con quella degli →empirici. La scuola è fondata da Agatino di Sparta, attivo nel i sec. d.C. a Roma, come discepolo del filosofo stoico Lucio Anneo Cornuto e di Ateneo di Attalea, fondatore a sua volta della scuola degli →pneumatici e maestro di→Archigene. Fonti. Conosciamo alcuni titoli di opere di Agatino come De helleboro (Sull’elleboro) e peri; hJmitritaivwn (o Sulle febbri semiterzane) e possediamo da tradizione indiretta alcuni frammenti dello stesso Agatino da Galeno e da Oribasio, che ci ha tramandato un lungo passo frammentario dell’opera Peri; qermolousiva~ kai; yucrolousiva~ (Bagni caldi e bagni freddi). Bibliografia. Baldin 2002a, 350 ; Mazzini 1997, 52.  

Daniele Monacchini

equini Epistolografia (medica). Tra le varie forme di comunicazione scientifica, e medica in particolare [→medicina], quella epistolografica conobbe vasta fortuna nel mondo antico e alto medievale. Vari sono i fattori che riconducono certe opere al più ampio genere epistolare, come per esempio la presenza del destinatario, reale o fittizio, e la sua posizione nei confronti del mittente-scrivente, esplicitata in apertura di trattazione. Le lettere possono avere funzione proemiale, cioè anticipano il testo vero e proprio, essendone indipendenti dal punto di vista tematico, ma anche comunicare esse stesse contenuti dottrinali. Spesso gli autori vi indicano gli intenti perseguiti e il piano dell’opera, menzionando fonti ed autorità del passato. Tipico è il ricorso all’espediente della accomodatio, secondo cui lo scrivente deve adattare l’opera al destinatario, a volte rappresentato da un giovane (spesso un figlio o un allievo), o comunque da chi ha necessità di essere ammaestrato nell’ars. Da tale condizione, di cui è spesso difficile verificare la realtà storica, nasce anche un altro espediente, in base al quale è il fruitore stesso a richiedere la trattazione di un certo argomento, fatto che ha ovviamente lo scopo di esaltare il ruolo dello scrittore. Alcune lettere, infatti, hanno carattere didattico, come si evince anche dalla concisione dei contenuti e dalla semplicità formale che le caratterizza. Numerose sono le epistole pseudoepigrafe, cioè la cui titolatura riporta il nome di un famoso medico, sebbene appartengano a periodi successivi, per cui è certo che siano dei falsi. La frequente pratica delle lettere pseudoepigrafe è spiegabile col fatto che gli anonimi autori, celandosi dietro il nome dei grandi maestri del passato, assicuravano successo e diffusione ai propri scritti. In certi contesti anche il falso destinatario risulta illustre, secondo gli stessi principi. Tra questi si annoverano per esempio imperatori e re, oppure personaggi della cultura come Mecenate. Bibliografia. Boscherini 2000 ; Cugusi 1989 ; Garzya 1983, 113-148 ; Paolucci 2000 ; Segoloni 1990 ; Zurli 1990 ; Zurli 1992b.  











Francesco Fiorucci

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sulla base della documentazione paleontologica, che attesta la diffusione di cavalli nell’Europa occidentale e settentrionale, nell’Asia centrale e nell’Europa settentrionale, di asini selvatici in Asia, Nord Africa ed Europa centrale, e di asini domestici in Nord Africa e nel Vicino Oriente. Reperti e raffigurazioni rupestri e, dopo l’avvento della scrittura, documenti e testi letterari testimoniano della stretta convivenza dell’uomo con questi animali, in tutte le fasi della preistoria e della storia, nella vita quotidiana, rurale e urbana, nel lavoro, nei viaggi, in guerra, nelle competizioni agonistiche, nelle cerimonie sacre. Una tripartizione degli equini in tre branche è anche nelle fonti greco-romane, che distinguono una razza più nobile, quella dei cavalli, adatta ai giochi e alle gare, la razza dei muli, proficua per i guadagni che procura, e la razza volgare, che produce esemplari mediocri (Colum. 6,27,1). Anche la distinzione tra asini selvatici e asini domestici è chiaramente attestata dalle fonti (Varr. r.r. 2,6,2-3 ; Plin. nat. 8,174 ; Geop. 16,21,2-3). 2. Cavalli. – 2.1. Terminologia. Il greco híppos e il latino equus derivano da una comune parola indoeuropea, ricostruita come *ekwos, indice di una stretta continuità linguisticoculturale. A differenza del latino (equus, equa), il greco non conosce una differenza di genere per gli esemplari maschi e femmine, ma ha una pluralità di designazioni : a fronte del più generico híppos, il più specifico pólos indica il puledro, kéles è termine omerico e poetico, mentre kabálles è denominazione tarda, equivalente al lat. caballus, nome a sua volta popolare continuato nelle lingue romanze. 2.2. Specie, classificazione e caratteristiche. Sin dai reperti archeologici risalenti al 5000 a.C. è possibile distinguere una molteplicità di razze equine. Le razze attestate nell’antica Grecia si caratterizzano per orecchie relativamente corte, collo lungo, coda e criniera folte, taglia medio-piccola. I Greci distinguevano i cavalli principalmente sulla base del colore, fulvo (phoînix ; purrós), biondo (xanthós), marrone scuro (kyáneos), nero (mélas), pezzato (baliós). I colori più apprezzati sembrano essere stati il baio, il nero, il grigio e, più in generale, le pelli monocrome (chg 2,121,4 e 2,177,18-19 ; Verg. georg. 3,82-83 ; Geop. 16,2,1-3). I cavalli erano particolarmente apprezzati per la loro velocità, docilità ed eleganza nell’aspetto. Vivevano circa 20 anni, alcuni anche fino a 25-30, ma dopo  











Equini. 1. – La distinzione degli equini in tre principali branche, cavalli, asini selvatici e asini domestici, può farsi risalire al 5000 a.C. circa,

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equini

l’età di 15 anni non erano più considerati giovani e produttivi (Arist. HA 576a 26-31). Tra le caratteristiche fisiche del cavallo ‘ideale’, alcune, quali la testa piccola, gli occhi neri, la criniera folta, erano puramente estetiche, altre, come le orecchie dritte e il collo alto, erano ritenute indizio di un’indole scattante e coraggiosa, altre ancora presentavano invece una funzionalità pratica : le narici espanse e il petto ampio che favoriscano la respirazione, la criniera ripiegata a destra che possa essere afferrata dal cavaliere per salire in groppa al cavallo, la spina dorsale doppia che renda più agevole la cavalcata, la coda lunga che allontani gli insetti (Xen. Eq. 1,11 e 7,1 ; Varr. r.r. 2,7,5 ; Verg. georg. 3,80 sgg. ; Colum. 6,29,2-4 ; Geop. 16,1,9). Di fondamentale importanza per la necessità di una corretta cavalcata erano la conformazione e la solidità di zampe, cosce, unghia, zoccolo e della ‘rana’ (parte di difficile identificazione) del piede (Xen. Eq. 1,23 ; Geop. 16,1,9). Tra le qualità ‘morali’, le fonti insistono invece soprattutto sul temperamento intrepido e sul desiderio di primeggiare, caratteristiche necessarie soprattutto nel cavallo da guerra e da corsa (Xen. Eq. 3,9-12 ; Varr. r.r. 2,7,6 ; Verg. georg. 3,77-78 e 179-186 ; Colum. 6,29,1 ; Geop. 16,1,10). Si computava l’età di un cavallo sulla base dei tempi di caduta dei denti (Varr. r.r. 2,7,2-3 ; Colum. 6,29,5 ; Geop. 16,1,12-16). 2.3. Addomesticazione, allevamento e impieghi. Alcune raffigurazioni rupestri hanno fatto pensare a una protodomesticazione del cavallo risalente già all’età paleolitica. È probabile, tuttavia, che di una vera e propria addomesticazione si possa parlare solo a partire dal v-iv millennio a.C., ad opera di popolazioni indoeuropee che vivevano nella zona centrooccidentale dell’Asia : il cavallo, fino ad allora impiegato per usi alimentari, cominciò ad essere utilizzato come animale da soma o da traino, poi, verso l’inizio del ii millenio, ad essere montato, quindi, verso l’inizio del I millennio, ad essere aggiogato a carri da guerra. Durante l’età del bronzo cavalli addomesticati venivano impiegati dagli Ittiti, da altre popolazioni dell’Asia Minore e dagli Egiziani. Nei secoli xvi-xv tombe, scene di caccia e di battaglia, nonché i documenti in lineare B ne attestano la presenza tra i Greci della civiltà micenea. Nel mondo greco l’hippotrophia, ossia l’allevamento e il mantenimento di cavalli, era considerato appannaggio degli strati sociali alti. In molte  





















   

città la classe facoltosa dei cittadini era infatti quella denominata degli hippeis. Nei poemi omerici i cavalli sono rappresentati ancora nel loro impiego di trainare i carri da guerra, sebbene le modalità di questo impiego sembrino non essere più realmente comprese, accanto a sporadici accenni alla pratica di montare i cavalli (Il. 10). Già a partire dall’viii-vii sec. si era diffusa, a scopi militari e in tutto il mondo greco, la cavalleria, costituita da truppe di guerrieri armati a cavallo, mentre l’impiego dei cavalli aggiogati ai carri rimase per i trasporti di lusso, le competizioni agonistiche, le cerimonie religiose. L’impiego di singoli cavalli, oltre che alla guerra e alle gare, era destinato anche alla caccia e agli spettacoli. Nelle gare tre tipologie di corsa riguardavano i cavalli : la corsa con la quadriga (téthrippon), con la biga (synorís) e con il cavallo montato (kéles). Nel iv secolo alle gare con i cavalli adulti furono affiancate anche quelle con i puledri. Per quanto riguarda invece le cerimonie, nonostante alcune tracce di rituali, in cui i cavalli erano per lo più oggetto di abluzioni (Hom. Il. 21,130132 ; Hdt. 7,113 ; Paus. 8,7,2) o di particolari riti funerari (soprattutto a Cipro), generalmente in Grecia essi non venivano sacrificati, né le loro carni mangiate. Raramente i cavalli erano impiegati nei lavori agricoli (Babr. 29 = Aesop. 318 Perry), per ragioni pratiche (la corporatura medio-piccola e poco resistente dei cavalli greci) ma soprattutto ideologiche (il carattere di nobiltà comunemente associato dai Greci al cavallo). Diversi erano i tipi di addestramento, a seconda che i cavalli fossero maggiormente predisposti alla guerra, ai trasporti, alla monta o alla corsa (Varr. r.r. 2,7,15). Il compimento dei tre anni era considerato l’età adatta all’addestramento alla guerra e ai giochi equestri, ma per l’addomesticazione agli usi privati era ritenuta sufficiente l’età di due anni (chg 2,119,20 ss. ; Varr. r.r. 2,7,13-14 ; Verg. georg. 3,190 sgg. ; Colum. 6,29,4 ; Geop. 16,1,11). I Greci montavano i cavalli sedendo direttamente sul dorso dell’animale. Finimenti, briglie e morso erano del tutto simili a quelli moderni. Ad essi i puledri venivano abituati sin dai diciotto mesi d’età, quando veniva applicata loro la cavezza e si tenevano appesi alle mangiatoie dei morsi, perché essi si abituassero a vederli e a udire lo strepito dei freni bagnati (Varr. r.r. 2,7,12 ; Verg. georg. 3,184-189 ; Geop. 16,1,11). Documenti e fonti letterarie attestano che, oltre agli esemplari  

















equini maschi, anche gli esemplari femmine venivano ampiamente montati e aggiogati ai carri. Una particolare attenzione era riservata alla criniera e alla coda dei cavalli, che venivano accuratamente pettinate e, in occasione di cerimonie, spettacoli o impieghi militari, anche oleate e adornate. Per quanto riguarda l’alimentazione, erano foraggio per i cavalli orzo, avena, fieno, e inoltre frumento, sedano, prezzemolo, nonché gli erbaggi freschi. Xen. Eq. 4,4 raccomanda due pasti regolari al giorno, uno al mattino e uno alla sera. Scarsamente attestata è per il mondo greco la prassi della castrazione dei cavalli, di converso ampiamente praticata per i bovini, gli ovini e i suini (Xen. Cyr. 7,5,62 ; Str. 7,4,8). L’importanza degli equini nel mondo antico ha determinato un proliferare di rimedi, ora più o meno ‘scientifici’, basati sull’applicazione e la somministrazione di prodotti naturali, ora religiosi e folklorici, volti a preservarne la salute o a curarne malattie e ferite. Sulla semiotica e sulla cura delle malattie dei cavalli, che per vastità e importanza costituivano un’intera branca della veterinaria antica, chiamata hippiatriké dai Greci, mulomedicina dai Romani, vi è un ampio trattato, il Corpus Hippiatricorum Graecorum (chg), compilato nel ix sec., ma contenente estratti precedenti, risalenti fino all’inizio dell’era cristiana, sulle malattie dei cavalli e sui loro rimedi. Ampie trattazioni anche in Varr. r.r. 2,7,16, Colum. 6,30-35, Geop. 16,3-20. 2.4. Accoppiamento e riproduzione. Gli esemplari destinati a perpetuare la razza venivano accuratamente selezionati : si sceglievano cavalle robuste, di buona stazza, bell’aspetto, ventre e fianchi ampi, corporatura asciutta (chg 2,116,2-5 ; Varr. r.r. 2,7,4 ; Verg. georg. 3,129 sgg. ; Geop. 16,1,1), e di età compresa fra i due/ tre e i dieci anni (Varr. r.r. 2,7,1 ; Colum. 6,28 ; Geop. 16,1,1). Anche il cavallo destinato alla monta doveva essere sano, possente e robusto, armonicamente conformato in tutte le sue parti, (chg 1,80,17 sgg. e 2,115,15 sgg. ; Varr. r.r. 2,7,4 ; Geop. 16,1,2) e di età compresa fra i tre e i venti anni (Arist. HA 5,14,545 b 10-15 ; 6,22,575 b 21-26 ; Colum. 6,28). Il periodo adatto all’accoppiamento era fissato tra l’equinozio di primavera e il solstizio d’estate (Arist. HA 6,22,576 b 27-28 ; chg 1,81,9 ; Varr. r.r. 2,7,7 ; Geop. 16,1,3) al fine di far nascere i piccoli con clima mite e nutrimento abbondante. Per regolamentare gli accoppiamenti durante il solo periodo pri 



























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maverile, gli allevatori facevano pascolare gli esemplari maschi separatamente dagli esemplari femmine per un periodo di almeno 2-5 mesi o addirittura di un anno, durante il quale erano sottoposti a un regime alimentare volto a irrobustirli (chg 1,82,2 ; Colum. 6,27,8). Era considerato ottimale un numero di due monte al giorno, una al mattino e una alla sera, ma si riteneva che facendo montare i cavalli ad intervalli di un anno, in modo che le femmine partorissero un anno sì e uno no, la loro vita si sarebbe allungata e i puledri sarebbero stati di qualità migliore (Varr. r.r. 2,7,8-11 ; Colum. 6,27,12 e Plin. nat. 8,164 ; Geop. 16,1,4). Quanto alle proporzioni tra maschi e femmine all’interno della mandria, dalle fonti apprendiamo che uno stallone era considerato sufficiente a montare un numero di cavalle variabile tra dieci e trenta : Varr. r.r. 2,7,1 parla di una proporzione di 1 a 10, Arist. HA 6,18 di 1 a 30, Colum. 6,27,9 di 1 a 15-20, Pallad. 4,13,1 di 1 a 12-15. Una particolare attenzione era rivolta alle cavalle gravide, che dovevano essere preservate dalla fatica, dal freddo e dall’umidità per tutto il periodo della gestazione (chg 2,118,3; Varr. r.r. 2,7,11; Verg. georg. 3,139-145 ; Colum. 6,27,11 ; Geop. 16,1,6), e alla loro alimentazione, che non doveva essere né troppo abbondante né scarsa, e preferibilmente a base di erba fresca (Varr. r.r. 2,7,10 ; Colum. 6,27,10). 2.5. Metafore letterarie. Dalla stretta relazione che i Greci percepivano tra cavallo e cavaliere, e dalla proverbiale brama sessuale delle cavalle, tale che si riteneva potessero essere fecondate addirittura dal vento (Arist. HA 6,22,575 b 30-31 ; Verg. georg. 3,266 sgg. ; Colum. 6,27,7), derivano l’uso del linguaggio equestre per le relazioni erotiche tra gli esseri umani e le metafore dell’unione matrimoniale e sessuale come aggiogamento (zygón), della fanciulla non ancora sposata come puledra (pólos) non ancora aggiogata (cfr. ad es. Anacr. pmg 417), nonché di posizioni sessuali (keletízein). 3. Asini. – 3.1. Terminologia. Tanto il greco quanto il latino distinguono, nella terminologia, l’asino selvatico, chiamato ónos ágrios o ónagros in greco, onager, onagrus o asinus agrestis in latino, dall’asino domestico, ónos in greco, asinus o asellus in latino, senza distinzioni di genere. Si tratta di termini di origine non indoeuropea, probabilmente imparentati con il sumerico anse, indice dell’introduzione di asini ad opera di genti pre-indoeuropee ancor  

















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equini

prima di quella del cavallo ad opera degli Indoeuropei. 3.2. Specie, classificazione e caratteristiche. Alla sottospecie dell’asino selvatico, chiamata Equus hemionus onager, si affiancavano nell’antichità tre sottospecie di asino domestico, l’Equus asinus africanus, l’Equus asinus atlanticus, l’Equus asinus somalicus, così denominate in base alle regioni di provenienza. Gli asini del mondo greco-romano, di colore grigio o bruno, ma talvolta con striscie più scure lungo il dorso e sulle zampe, erano di corporatura più piccola e più tozza rispetto ai cavalli ma, più longevi di questi, erano considerati attivi fino all’età di trenta o addirittura di quaranta anni. Gli asini selvatici si distinguevano dagli asini domestici per le orecchie più lunghe. Apprezzati per la loro forza e resistenza, per la costanza nel lavoro e la capacità di adattamento, erano tuttavia considerati simbolo di stupidità e ignoranza, di curiosità invadente e inopportuna, ma anche di smodatezza sessuale. 3.3. Addomesticazione, allevamento e impieghi. L’asino selvatico sembra essere stato impiegato sin dal 2500 a.C. circa nel Vicino Oriente per usi innanzitutto alimentari, come dimostrano le raffigurazioni di caccia in Mesopotamia e Anatolia, ma anche nelle cerimonie religiose, come si evince da alcuni prodotti dell’arte sumerica. L’addomesticazione di questo animale sembra tuttavia aver avuto luogo prima nell’Africa settentrionale, da cui si sarebbe estesa all’Asia. Nel mondo greco-romano gli asini selvatici erano molto apprezzati come animali resistenti e di ottima qualità, e venivano spesso addomesticati e impiegati in tutte le attività solitamente riservate agli asini domestici (chg 1,82,14-16 ; Varr. r.r. 2,6,3 ; Verg. georg. 3,409 ; Plin. nat. 8,174 ; Geop. 16,21,2-3), talora anche per trainare carri nelle cerimonie religiose (Ath. 5,200f ; Cic. Att. 6,1,25). Gli asini domestici sembra invece fossero diffusi almeno sin dalla fine del terzo millennio nel Vicino Oriente, e circa dalla metà del secondo millennio in Grecia. Nel mondo greco-romano essi venivano domati e abituati ai vari lavori sin dal terzo anno di età (Varr. r.r. 2,6,4) : la maggior parte di essi veniva destinata a girare la macina, ai lavori nei campi, al trasporto di merce e persone e ad arare, ma anche alla guardia per tenere lontani volpi, lupi e serpenti dal bestiame. Si costituivano mandrie principalmente con quelli da soma (Varr. r.r. 2,6,5). Nella selezione  











dei capi per la costituzione di una mandria si prediligevano esemplari robusti e di giovane età, per lo più originari di quelle regioni, come l’Arcadia e l’Italia, da cui si riteneva provenissero gli asini migliori (Varr. r.r. 2,6,1-2). In età micenea sembra fossero impiegati anche nel culto e, per la stretta relazione con Dioniso, testimoniata dalle arti visive e in particolare dalla pittura vascolare. In età più tarda riacquistarono valenze magico-religiose, come è evidente, ad esempio, nelle Metamorfosi di Apuleio. Ben più modesto rispetto a quello riservato ai cavalli era il regime alimentare degli asini, che venivano nutriti per lo più di farro, crusca d’orzo, paglia, erba, foglie e spesso di scarti (Varr. r.r. 2,6,4 ; Colum. 7,1). 3.4. Accoppiamento e riproduzione. Il periodo dell’anno considerato il migliore per l’accoppiamento degli asini era quello immediatamente precedente al solstizio d’estate, per l’opportunità di far nascere i piccoli durante la stagione calda (Arist. GA 2,8; Varr. r.r. 2,6,4 ; Geop. 16,21,4). Si riteneva che per questi animali l’età adatta alla riproduzione fosse quella compresa fra i tre e i dieci anni (Varr. r.r. 2,8,2-3 ; Colum. 6,37,8 ; Geop. 16,21,8). Sebbene gli asini preferissero accoppiarsi tra di loro, venivano regolamentate unioni tra asini e cavalli, preferibilmente esemplari maschi dei primi ed esemplari femmine dei secondi, per ottenere muli (Colum. 6,37,5 ; Plin. nat. 8,174 ; Geop. 16,21,5), e inoltre tra asini domestici e asini selvatici. L’accoppiamento di asini selvatici maschi con asini domestici femmine era consigliato per ottenere una prole robusta e nel contempo docile. Gli esemplari maschi nati da tale unione erano a loro volta considerati ideali per accoppiarsi con la femmina del cavallo e originare un’ottima discendenza di muli (Colum. 6,37 ; Plin. nat. 8,69-70). Nella scelta della cavalla e dell’asino da cui far nascere i muli, si ricercava, in particolare, la robustezza tanto della prima, che doveva essere in grado di accogliere un seme estraneo e di portare nel ventre un essere appartenente a un genere diverso dal proprio, quanto del secondo (chg 1,78,20 sgg. ; Varr. r.r. 2,6,1-2 ; Colum. 6,36 ; Geop. 16,21,8). Meno ricercato era invece l’accoppiamento tra un’asina e un cavallo, da cui aveva origine la sottospecie equina ibrida del bardotto (chg 1,82,16-17 ; Colum. 6,37 ; Geop. 16,21,5). 4. Muli. – 4.1. Terminologia. Vi sono due termini, in greco, entrambi privi di distinzione di gene 























eraclide di taranto re, che designano il mulo, nato dalla fecondazione di una cavalla da parte di un asino, hemíonos, che lo individua nel suo essere per natura ‘metà asino’, e o(u)réus, da intendere forse nel senso di ‘animale montano’, a fronte dell’unico termine latino, provvisto di distinzione di genere, mulus/ mula. Il bardotto, invece, nato dalla fecondazione di un’asina da parte di un cavallo, è designato da uno stesso termine tanto in greco, gínnos/ innos, quanto in latino, ginnus/hinnus. 4.2. Specie, classificazione e caratteristiche. Provvisti della taglia del cavallo, ma della conformazione di testa, coda e zoccoli dell’asino, e di orecchie di media lunghezza, i muli erano animali longevi, capaci di vivere fino a trenta o quaranta anni, sebbene non manchino attestazioni di asini giunti persino ad ottanta anni di età (Arist. HA 6,577 b 28 ; Plin. nat. 8,69,175). Il bardotto differisce dal mulo per la taglia più piccola, più vicina a quella dell’asino che a quella del cavallo, e per una minore forza fisica. 4.3. Addomesticazione, allevamento e impieghi. Il procedimento di ibridazione tra le due diverse specie dell’asino e del cavallo ebbe probabilmente un inizio casuale in natura, ma fu poi regolamentato dall’uomo per i suoi numerosi vantaggi : i nati ripetevano infatti alcune caratteristiche positive dei due diversi progenitori, la corporatura robusta del cavallo e la resistenza al lavoro dell’asino. Vi sono tracce dell’allevamento di muli sin dalla metà del ii millennio a.C. tra gli Ittiti. Per ottenere animali forti e vigorosi, i Greci e i Romani selezionavano preferibilmente un asino di grossa taglia e una cavalla robusta (Varr. r.r. 2,6,1-2 ; Colum. 6,36 ; Plin. nat. 8,171). I prodotti di questa forzatura biologica, sebbene sessualmente attivi al pari degli altri equini, risultavano tuttavia nella maggior parte dei casi completamente sterili, e venivano sottoposti a castrazione in giovane età (Hes. op. 791), perché divenissero più docili e più facilmente gestibili. Nel mondo greco-romano il mulo era impiegato come bestia da soma per eccellenza, adibita ai trasporti civili e militari. Gli esemplari maschi venivano preferibilmente impiegati per trasportare merce e per l’aratura, gli esemplari femmine per trainare veicoli (Hom. Il. 17,742-47 ; Od. 6,66-74 ; 81-84 ; Colum. 6,37). In generale, ad eccezione dell’impiego nella cavalleria o nelle cerimonie nobiliari, i muli venivano coinvolti in tutte le attività fatte normalmente praticare ai cavalli e agli asini, da quelle agricole (Hes. op. 46 ;  















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600-607 ; 795-797) al trasporto di persone d’alto lignaggio (Hom. Il. 24,265-280 ; Od. 6,56-59), al servizio tanto dei poveri quanto dei ricchi e dei nobili, fino all’introduzione, nel iv sec. a.C., nelle corse ai giochi panellenici, occupando quindi una posizione intermedia e giocando quasi un ruolo di raccordo tra i cavalli, riservati ai soli impieghi ‘alti’, e gli asini, destinati unicamente a impieghi ‘bassi’. Quanto agli usi sacrificali, i muli ne erano tendenzialmente esclusi al pari degli altri equini. Per quanto riguarda invece il regime alimentare, pur variando a seconda del tipo di lavoro più o meno faticoso cui i muli erano adibiti, esso era molto simile a quello degli asini.  



Bibliografia. Anderson 1961 ; Clutton-Brock 1992 ; Dent 1972 ; Georgoudi 1990 ; Griffith 2006 ; Hodkinson 1988 ; Hyland 1990 ; Sestili 2006 ; Spence 1993 ; Vigneron 1968.  

















Giorgia Parlato Eraclide di Taranto. Medico di scuola empirica [→empirici], discepolo di Mantia. Per la sua conoscenza dell’anatomia, ha avuto larga influenza su →Celso; fu ammirato da →Galeno. L’acmè si può collocare nel 75 a.C. Compose opere di →chirurgia (Terapia delle affezioni esterne), sulla lussazione del femore, di chirurgia estetica; ma il campo in cui E. ha avuto grande fortuna è quello della →farmacologia. Il suo Sumpovsion servì da modello per i Sofisti a banchetto di Ateneo. Da →Celio Aureliano sono traditi rimedi per la frenite, il letargo, l’epilessia, le convulsioni, l’idropisia ed altre affezioni. Galeno tramanda ricette di E. tratte da un suo libro ad Antiochis (forse una medichessa). Dell’opera Sugli animali (Peri; qhrivwn pragmateiva~ o Qhriakav) è conservata la descrizione del cosiddetto ‘enneafarmaco’ (ricetta a nove ingredienti). Nell’opera Contro il trattato sui polsi di Erofilo (Pro;~ to; peri; sfugmw`n JHrofivlou) dà una definizione fenomenologica del polso. Da segnalare anche un’opera sulla scuola empirica (Peri; th`~ ejmpeirikh`~ aiJrevsew~) e commenti ad opere del Corpus Hippocraticum (l’elenco completo delle opere in Mazzini 1997, i, 34-35). Bibliografia. Adorno 1992, 45 ; Garofalo 1993, 345-368 ; Guardasole 1997 ; Mazzini 1987, 13131333 ; Mazzini 1997, 34-35 ; Nutton 1998e ; Sconocchia 2002a, 313-314 ; Stok 1993c.  













Maurizio Baldin

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eraclide pontico

Eraclide Pontico. Contemporaneo di →Aristotele e, come lui, molto vicino a →Platone. Il poco che affiora dai suoi molti dialoghi e trattati, non pervenuti, evidenzia una propensione a spiegare molte cose riconducendole all’intervento divino (non per nulla il suo nome figura nelle liste dei pitagorici). Indipendentemente da ciò, la sua fama è legata all’idea – su cui, peraltro, ci informa il solo Simplicio nel commento alla Fisica di Aristotele – che il moto apparente dei corpi celesti possa dipendere da un moto rotatorio in senso contrario (da ovest verso est) compiuto dalla sfera terrestre, idea che implica l’uso del principio di economia («è più semplice, più logico immaginare che si muova la terra ma non l’intero universo, anziché l’intero universo ma non la terra»). Si tratta di una intuizione su cui Aristotele significativamente tace e sul conto della quale sappiamo, tutto sommato, molto poco. L’idea dovette apparire così sconcertante da non poter essere presa sul serio, anche per via della religione astrale che, grazie soprattutto a Filippo di Opunte, si era affermata in ambiente accademico proprio all’epoca di E (vd. →cosmologia, 5). Della sua teoria troviamo di nuovo traccia nell’opera di →Aristarco di Samo, ma sembra che anche questi la recepì come una mera ipotesi che non fosse il caso di prendere troppo sul serio. E. risulta aver elaborato anche una pregevole descrizione dei movimenti di Venere e Mercurio. Bibliografia. Fortenbaugh-Pender-Schutrumpf 2008 ; Gottschalk 1980 ; Wehrli 1953 ; Wehrli 1983.  





Livio Rossetti Eraclito. 1. Il libro di E. – Vissuto a cavallo tra il vi e il v secolo, l’« oscuro » di Efeso è stato homo unius libri. Il suo unico scritto, verosimilmente piuttosto ampio, ci è notoriamente pervenuto in frammenti che rendono proibitivo ogni tentativo di rappresentarsi il continuum della trattazione. Il libro è redatto in una prosa molto elaborata, piena di risonanze interne e altamente evocativa. [1] Una svolta negli studi sul libro di E. è attualmente rappresentata dai volumi che il Mouraviev viene pubblicando dal 1999 sotto il titolo collettivo di Heraclitea. I nove volumi finora usciti (poco più della metà dell’intero progetto editoriale) includono i  





prolegomena, la serie completa delle fonti tradite, l’edizione dei frammenti (con molte novità interpretative) e l’edizione dei Placita (su cui vd. sotto al § 3). Il titolo Peri physeos sembra inscriversi in un genere letterario già consolidato, che da →Anassimandro ad →Epicuro si è caratterizzato per la propensione degli autori a esporre teorie plausibili sull’insieme dei fenomeni naturali e così dar vita a un sapere che ogni sophos provvede ad arricchire e riconfigurare (→Peri Physeos). Indizio convergente sembra essere il numero sorprendentemente grande di intellettuali che E. ha occasione di menzionare e, spesso, criticare. Egli menziona Omero ed →Esiodo, Archiloco e Alceo, →Talete [2] e Ecateo, →Pitagora e →Senofane, Ermodoro e Biante (ma è possibile che, se avessimo accesso all’intero suo testo, la lista non si fermerebbe a soli dieci nomi) ; inoltre parla espressamente di oJkovswn lovgou~ h[kousa (nel fr. 108 D.-K.) e, con riferimento a Pitagora, sia della selezionata scelta di compilazioni (suggrafaiv), che questi si era procurato, sia di historie, termine che indirizza verso la redazione di compilazioni a carattere informativo e ha attitudine a collegarsi alla tipica pretesa che la sapienza di Pitagora non sia genuina perché sarebbe mera polymathia. Tutto ciò è documento inequivocabile sia dell’esistenza, ai suoi tempi, di un embrione di comunità dei sophoi che si conoscevano e spesso competevano fra loro per l’eccellenza, sia del compiacimento con cui E. ha inteso segnalare la sua appartenenza a tale cerchia. Se ne inferisce che, almeno a grandi linee, anche il suo libro doveva inscriversi nell’orizzonte di quella cultura. 2. L’innovativa sapienza di E. – Rispetto a questo schema, ci sono indizi per pensare che E. abbia voluto discostarsi in misura significativa dagli standard delineatisi nel frattempo ed esperire un primo tentativo di ripensare radicalmente il modello di sapere delineato dai sophoi di Mileto. Basta infatti una scorsa ai frammenti per capire che c’è un insegnamento del tutto dissonante e sul quale E. insiste con speciale forza. Si tratta della correlazione, coincidentia, interdipendenza, interconnessione o equalizzazione [3] degli opposti, un tipo di relazione che viene riferita non a molte coppie di opposti, ma a una indefinita varietà di situazioni. Sono infatti espliciti e ripetuti gli inviti a generalizzare questo particolare insegnamento, a partire dal fr. 67 D.-K. : « Dio è giorno notte,  





eraclito inverno estate, guerra pace, sazietà fame, e muta come quando si mescola ai profumi e prende il nome di ognuno di essi ». Ora, se iddio è tutte le cose elencate, se il principio trova riscontro in tre eventi naturali e uno di carattere culturale, [4] se vale il paragone con il fuoco che si mescola a ogni specie di profumo, allora l’elenco deve ritenersi aperto e tutti sapremmo continuare con altri esempi pertinenti (anzi, l’autore potrebbe anche aver inteso dire : «adesso continuate voi !»). Anche il fr. 80 D.-K. su polemon xunon ha analoghe pretese di universalità ed è significativamente caratterizzato dall’iniziale eidēnai de chrē, « bisogna sapere che », anche se ora il Mouraviev ne propone una nuova lettura, [5] che dissolve la traccia della parola eidēnai senza però incidere significativamente sul senso del messaggio consegnato alla frase. A sua volta il fr. 88 D.-K. ci ricorda che, dal punto di vista dell’Uno (cioè alla luce del logos), vivente e morto, giovane e vecchio, sveglio e dormiente sono la stessa cosa. Anche sveglio e dormiente, anche cosciente e incosciente, anche consapevole e inconsapevole, e così pure una ulteriore serie di nozioni correlate, sono dunque ‘la stessa cosa’. Per di più il fr. 40 D.-K. esplicitamente condanna il mero sapere molte cose, intendendo che questo sapere perde valore se non è ricondotto ad unum, se non si integra in un principio unificatore. E che cosa i più – e con loro anche personaggi del calibro di Omero ed Esiodo – non riescono a capire, se non l’armonia nascosta, ossia l’universale interconnessione degli opposti ? Al confronto, l’enfasi su altre idee proposte come centrali o ‘riassuntive’ del sistema filosofico virtuale di E. – l’acqua, il fuoco, il logos – è molto minore e queste stesse idee hanno una minore capacità di rendere conto di to sophon, quell’intuizione complessiva che, agli occhi di E., marca la differenza tra chi ha capito e chi non ha capito il suo insegnamento. Che l’equalizzazione degli opposti sia proposta come un insegnamento centrale e primario si vede anche dalla cura posta nel ricondurre sotto il medesimo schema una impressionante varietà di esperienze che includono le modulazioni linguistiche (in su ~ in giù ; bíos ~ biós), gli alimenti, le gerarchie sociali, molti fenomeni ‘celesti’, i sentimenti, altre pratiche sociali e perfino delle polarità legate ad astrazioni, come la funzione che viene attribuita ad ogni punto del cerchio (o della ruota) quale inizio e, al tempo stesso,  















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fine del medesimo percorso circolare, oppure i segni tracciati da chi scrive, segni unitari anche se si compongono di tratti rettilinei e tratti curvilinei (frr. 103 e 59 D.-K.). [6] Se ne inferisce l’intenzione di trattare il principio come valido nella (e applicabile alla) più grande varietà dei casi, ossia universalmente o pressoché universalmente. Il tipo di sapere che in tal modo prende forma non si estrinseca in accertamenti particolari, ma consiste in una intuizione largamente autosufficiente che ha il potere di scatenare una sorta di cortocircuito nel sapere ordinario, un messaggio inedito e deviante rispetto alle caratteristiche del sapere peri physeos. Infatti il sapere peri physeos è più spesso pensato come un sapere che può solo precisarsi ed espandersi, così da diventare un patrimonio di conoscenze collettivo largamente collaudato, mentre la coincidentia eraclitea si configura come una intuizione che non ha attitudine a estrinsecarsi in accertamenti ulteriori e non si cumula con il sapere espresso dagli intellettuali della Ionia. Rispetto a quel tipo di sapere, la sua nuova sophia è, tutto sommato, destabilizzante. Si può capire, perciò, che E. fosse pronto a includere nella categoria di coloro che non capiscono la sua nuova verità anche i sophoi di Mileto, il loro seguace di Colofone e lo stesso Pitagora. Tale contrapposizione si manifesta in particolare nella probabile competizione con Talete a proposito delle dimensioni del sole. Mentre Talete sorprese i contemporanei e anche noi con la misurazione dell’ampiezza angolare del sole e la precisione del dato che ne seppe ricavare (1/720), E. si compiacque di affermare che l’ampiezza apparente del disco solare corrisponde, molto più semplicemente, all’ampiezza dei nostri piedi. [7] 3. Un sapere a strati. – Riconoscere la centralità dell’idea di coincidentia o equalizzazione è virtualmente inevitabile, ma solleva ardui problemi perché il libro di E. documenta una intera gamma di altri messaggi, pensieri, nuclei di sapere che sono, a vario titolo, refrattari ad ogni ipotesi di riconduzione sotto l’ombrello della teoria che si presume sia stata presentata come centrale. La gamma dei nuclei di pensiero che percorrono strade divergenti è considerevole. Tale è il caso, in primo luogo, delle molte massime apparentemente capaci di vivere di vita propria e che da sempre fanno la gloria di E., e in secondo luogo delle evidenze di un sapere peri physeos proposto da E. Il suo sapere peri physeos è documentato nel fr.  

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erasistrato

31 D.-K. e in svariate testimonianze già note da tempo, ma c’è ora un fatto nuovo, costituito dall’edizione 2008 dei Placita a cura di Mouraviev 1999-2008. L’opera propone oltre duecento ‘testimonianze’, molte delle quali vengono qui raccolte e editate per la prima volta, espandendo notevolmente le selezioni offerte in D.K. e in Mondolfo-Tarán 1972. La consistenza di questo insieme di testimonianze autorizza a pensare che l’affermazione del principio della coincidentia non ha impedito ad E. di elaborare una sua “fisica” relativamente organica e una generosa offerta di teorie sui temi che possiamo ben considerare “tradizionali” per la maggior parte dei Peri Physeos, come la teoria delle esalazioni, la problematica relativa ai corpi celesti, una riflessione sulla pubertà e sulla vecchiaia, una teoria dell’anima e della conoscenza e altri spunti diversi. L’eventualità che questi nuclei di sapere sembrino tanto eterogenei solo perché sottoposti a un processo di ‘normalizzazione’ da parte dei dossografi si direbbe esclusa ; pertanto diviene difficile rappresentarsi la coesistenza di tipi diversi di discorso all’interno del medesimo libro. Una possibilità (ma solo una possibilità) è che E. abbia avuto cura di ‘specializzare’ singole sottosezioni del suo libro, come fece anche Parmenide, e che non si sia troppo preoccupato di ricondurre le varie parti ad unum.  

Note. [1] Sull’originale modo di costruire la sua prosa vd. Kahn 1979 e Mouraviev 1999-2006, iii.3.A. – [2] Il riferimento a Talete è congetturale e si fonda sul frammento concernente le dimensioni del sole (su cui vd. più avanti). – [3] Sulla nozione di equalizzazione ruota gran parte di Rossetti 1992a. – [4] Si tratta di un abbinamento degno di nota in quanto nei trattati →Peri Physeos i temi culturali vengono sistematicamente tenuti fuori dallo spettro di fenomeni per i quali si ricerca una spiegazione. – [5] Mouraviev 1999-2008, iii.3.B/i, 195 sg. – [6] La fascinosa interpretazione tradizionale (gnafevwn nel senso di follatrice dotata di vite a legno) sembra ormai tramontata a favore di un riferimento al tipo di segni che vengono tracciati dagli scribi (grafevwn). In proposito vd. Mouraviev 1999-2008, iii.3.B/iii, 76. – [7] Se E. non fosse stato a conoscenza di ricerche volte a stabilire quanto è ampio il disco solare e del successo arriso per questo a Talete, difficilmente avrebbe potuto pensare al piede come strumento empirico e alternativo per la misurazione. Ora alla complessità delle procedure necessarie per impostare un calcolo che dia, come risultato, la cifra di 720 viene contrapposta una misurazione approssimativa che ognuno di

noi può fare agevolmente all’alba e al tramonto di ogni giorno. È pertanto verosimile non solo che la misurazione sia avvenuta e abbia fatto notizia, ma anche che egli intendesse coprire di ridicolo la ‘scoperta’ di Talete (con cui risulta essersi confrontato anche a proposito del novilunio). Il riferimento solepiede compare non soltanto in 22A3 D.-K., da Sesto Empirico, ma anche nel Papiro di Derveni, col. 4. Per dare un senso plausibile alla frase di Eraclito è sufficiente ipotizzare che l’osservatore stia sdraiato e sollevi il proprio piede, ponendolo di fronte al disco solare. Cfr. →cosmologia, 2.1. Bibliografia. Colli 1977-1980 ; Conche 1986 ; Finkelberg 1998 ; Graham 1997 ; Kahn 1979 ; Marcovich 1967 ; Mondolfo-Tarán 1972 ; Mouraviev 1992 ; Mouraviev 1999-2008 ; Ramnoux 1972 ; Robinson 1987 ; Rossetti 1983-1984 ; Rossetti 1992a ; Roussos 1975-76 ; Sider 1994.  



























Livio Rossetti Erasistrato. Moltissime le citazioni, i frammenti, i titoli conservati del medico di Ceo, figlio d’arte e apprezzato maestro di una scuola che vanta →Teofrasto tra i suoi allievi e che prosperò fino alle soglie del tardo impero, quando la critica feroce cui l’aveva sottoposto →Galeno sortì il suo effetto. Grande fisiologo, studiò l’anatomia del cuore e la circolazione del sangue, scoprì i meccanismi dell’inghiottimento e il ruolo dell’epiglottide, studiò la fisiologia del movimento ; almeno 12 i titoli citati dalle fonti di età imperiale, tra cui un celeberrimo trattato de febribus, per noi, come il resto della sua tradizione diretta, perduto.  

Bibliografia. Garofalo 1988; 1993, 345-368 ; Mazzini 1997, 30-31 ; Nutton 1998a, 41-43 ; Scarborough 1985b, 515-517; Sconocchia 2002a, 306307; von Staden 1989; von Staden 2001a; Vegetti 1995.  





Daria Crismani Eratostene di Cirene [iii sec. a.C.]. 1. Dati biografici. – La sua collocazione cronologica è abbastanza sicura, soprattutto grazie alle notizie che ricaviamo dalle fonti, che lo vogliono nato a Cirene durante la 126ª Olimpiade (276-272 a.C.) e morto a 80 anni compiuti, dopo l’inizio del regno di Tolomeo v, [1] probabilmente intorno al 195 a.C. ; anche nell’epigramma dedicatogli da Dioniso di Cizico, [2] infatti, si fa riferimento a una morte per vecchiaia. Si formò dapprima tra Cirene e Alessandria, sotto la guida di Litania e Callimaco, e in seguito ad Atene,  





eratostene di cirene dove conobbe e frequentò i filosofi Zenone di Cizico e Arcesilao, oltre che, probabilmente, il fisico Stratone di Lampsaco. [3] E. è ricordato come uno dei maggiori e più versatili eruditi dell’antichità ; tra i suoi soprannomi c’era anche quello di pevntaqlo~, [4] perché era riuscito a emergere intellettualmente in almeno cinque generi scientifici e culturali diversi. Infatti, oltre ad essersi occupato di poesia e di critica letteraria (è il primo a definirsi filovlogo~), si è interessato di matematica, astronomia, musicologia, geografia, cronologia e filosofia. Proprio la sua personalità assolutamente poliedrica gli valse l’onore di essere scelto da Tolomeo iii come direttore della biblioteca di Alessandria e precettore del futuro Tolomeo iv. Le sue competenze in ambito matematico sono testimoniate dalla tradizionale attribuzione, legata al suo nome, dell’invenzione del cosiddetto crivello, un procedimento che permetteva di isolare tutti i numeri primi di una serie numerica. 2. Opere e dottrina. – Delle opere di E. possediamo frammenti o titoli, talora incerti : 1) un Platwnikov~, [5] un trattato o, forse, un dialogo, [6] che esponeva i concetti fondamentali della matematica platonica, di cui doveva far parte anche l’esposizione della soluzione di E. al problema della duplicazione del cubo, riportata, oltre che da Teone di Smirne, anche da →Pappo ed →Eutocio. La soluzione al problema, che E. dedica a Tolomeo iii, si propone esplicitamente come una più agile alternativa al complesso di operazioni sui cilindri suggerite da →Archita, alle soluzioni per sezioni coniche di Menecmo e alla figura curvilinea tracciata da →Eudosso ; a questi metodi macchinosi, E. sostituisce tabelle di calcolo funzionali al disegno di un certo numero di medie proporzionali partendo da una piccola base. Il metodo risolutivo di E. è riportato da tutte le fonti sostanzialmente negli stessi termini. [7] 2) Un’opera Sui mezzi geometrici. 3) Un’opera di Geografia (Gewgrafikav) in tre libri, di cui riusciamo a ricostruire il contenuto grazie a frammenti pervenutici per tradizione indiretta, un gran numero dei quali traditi in →Strabone. [8] In questo trattato, di cui fanno probabilmente parte anche osservazioni già esposte da E. in un’opera più sintetica Sulla misurazione della Terra, la materia geografica è fondata su basi sostanzialmente matematiche e la descrizione fisica del pianeta è affrontata con l’ausi 

















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lio di teorie geometriche e stereometriche. Nel i libro si afferma il progresso delle conoscenze ellenistiche, conseguente anche alle conquiste territoriali di Alessandro, rispetto al sapere geografico tradizionale, analizzato a partire dagli elementi geografici che fanno da sfondo alle narrazioni epiche di Omero (che, secondo E., limita lo scenario del peregrinare di Ulisse al Mediterraneo orientale) e di →Esiodo (che amplia l’orizzonte facendo riferimento a località geografiche siciliane) ; inoltre, vi si espongono considerazioni sulle conseguenze dei fenomeni geologici sulla superficie terrestre e si mettono in connessione la rivoluzione lunare e le maree. Nel ii libro, E. riporta la dossografia sulla forma della Terra, si pronuncia in favore della sfericità del pianeta e fornisce le dimensioni dell’ecumene, da lui calcolate con approssimazione minima misurando l’arco di meridiano intercedente fra Siene (Assuan) e Alessandria attraverso il calcolo geometrico dell’inclinazione dei raggi solari con il sole allo zenit [→geografia, 9]. Il iii libro ha come oggetto la descrizione cartografica dell’ecumene e i criteri di rappresentazione utilizzati da E., tutti ascrivibili alle conoscenze astronomiche, geometriche e stereometriche alessandrine (calcolo della latitudine di alcuni punti, stima delle distanze, costruzione di una rete di meridiani e paralleli che prelude al moderno reticolato geografico). 4) Un’opera di Cronografia (Cronografivai), ricordata come il primo tentativo scientificamente fondato di stabilire un ordine cronologico preciso di avvenimenti politici e letterari. 5) Un’opera di mitografia astrale intitolata Catasterismi (Katasterismoiv), sulla cui attribuzione gli studiosi nutrono dubbi, in cui le costellazioni vengono classificate con notazioni di carattere eziologico. 6) Un componimento poetico di materia epica intitolato Hermes. 7) Un poemetto sulla morte di Esiodo e sulla punizione inflitta ai suoi uccisori, dal titolo Anterinys o Hesiodus. 8) Un componimento elegiaco intitolato Erigone, che narrava il mito di Icario e della figlia. 9) Un’opera di critica letteraria Sulla commedia antica, composta da almeno 12 libri, che conteneva considerazioni storico-letterarie, lessicali, antiquarie, di attribuzione e di autenticità.  

Note. [1] Vd. Suid. e 2898, 2, 403, 6-18 Adler ; Ps.Luc. Macr. 62, 27. – [2] Vd. AP 7, 78. – [3] Vd. Fraser 1971, 19. – [4] Vd. Suid. e 2898, 2, 403, 6-18 Adler. – [5] Fonti sul Platonicus e frammenti in Hiller  

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erbe

1870, 60-72. – [6] Vd. Hirzel 1895. – [7] Vd. Thomas 1957, 290-297. – [8] Vd. Berger 1964. Bibliografia. Berger 1964 ; Fraser 1970 ; Hiller 1870 ; Hirzel 1895 ; Thomas 1957.  







Livia Radici























Erbe. 1. Classificazione. – Nella divisione propria della botanica teofrastea, l’erba (pova) è una delle quattro classi vegetali : « l’erba nasce dalla radice con le foglie, non ha tronco, e il caule stesso porta i semi, come le biade e gli ortaggi » (HP 1,3,1). Dal punto di vista morfologico, gli erbacei si possono classificare in diversi gruppi (ibid. 7,13-15) : spigati (stacuwvdh), cicoriacei (skandikwvdh), erbe dalla radice carnosa o capitata (sarkovrriza, kefalovrriza). 2. Erbacei domestici. – Stando alla divisione fondamentale tra vegetali selvatici e domestici [→botanica], gli erbacei selvatici sono i meno conosciuti, quelli domestici i più noti (la maggior parte degli →ortaggi, per ogni specie dei quali si conoscono numerose varietà, e dei →cereali, fra i quali rientrano anche i →legumi). Tutti si riproducono per seme, e la scelta delle sementi è tra le operazioni più importanti in →agricoltura. Per talea si riproducono alcune specie : cavolo, ruta e basilico ; per radice (bulbo) aglio e cipolla : in questi erbaggi la radice è perenne (CP 1,4). Gli erbacei domestici, nella →botanica teofrastea, si dividono a seconda del periodo di semina e, conseguentemente, di raccolta (HP 7,1). Caratteristica (in generale) di questo genere vegetale è di rimettere fogliame una volta tagliato, nonché di avere un unico periodo di fioritura ; ma, come per i →fiori, non c’è stagione che non abbia le sue erbe fiorite e fruttifere. Amano l’acqua (fresca) e il →concime, più di ogni altro vegetale. Temono fortemente gli →insetti nocivi. 3. Erbacei selvatici. – Gli erbacei selvatici e le « erbe di campo » (ajrourai`a) sono meno conosciuti dei domestici, ed essere esperti di queste erbe è considerato segno di saggezza, finanche di magia. Tutte le specie domestiche si trovano anche allo stato selvatico, ma con caratteristiche in parte diverse. Le più note sono il cavolo selvatico, l’ipposelino, l’appio di palude e quello montano. Sotto la categoria di lavcana [→ortaggi], come spiega →Teofrasto (HP 6,7), rientrano volgarmente anche diverse erbe di campo della famiglia delle cicoriacee. Da altre erbe di campo si estraggono invece, per in 

fusione o cottura, diversi succhi commestibili o medicali : malva, lapazio, scilla, ortica, corcoro (proverbiale per la sua amarezza). I fiori di questi erbacei sono assai vari. Un binomio oppositivo trasversale agli erbacei è la differenza del caule : dritto e resistente in alcune, morbido in altre, ramificato in alcune, liscio in altre. Ancora una opposizione binaria : alcune specie hanno fogliame basilare, altre lungo il fusto ; alcune sono sterili, cioè non producono frutto ma solo foglie, altre fruttifere. L’uso medicale delle erbe alle quali veniva riconosciuta proprietà terapeutica è diffusissimo nell’antichità [→farmacologia] : le maggiori sezioni in →Plinio (libri xxii e xxv-xxvii) e →Dioscoride (iii-iv).  





Emanuele Lelli Erbe velenose. a. Aconito [ajkovniton, aconitum] 1. Identificazione della specie. – L’a. è generalmente identificato con l’Aconitum napellus, [1] pianta velenosa appartenente alla famiglia delle ranuncolacee. Il suo nome è accostato dalle fonti alla collina presso cui la pianta cresceva ( jAkovnai) [2] o al fatto che nasceva frequentemente sulle rocce nude (aconae). [3] 2. Descrizione. – Il fusto è di lunghezza media, leggermente irsuto e incurvato (forma da cui deriverebbe la denominazione kavmmaro~[4]). Le foglie, mai più di quattro, sono simili a quelle del ciclamino o del cocomero [5] e di sapore amaro. [6] L’a. era considerato già nell’antichità una pianta venefica molto potente, caratteristica confermata dalle diverse denominazioni attribuitegli ; è nota, infatti, anche con il nome di pardaliagcev~ (che strangola i leopardi), qhlufovnon (che uccide le donne), kunoktovnon (che uccide i cani), muoktovnon (che uccide i topi). [7] 3. Sintomatologia. – L’ingestione dell’a. provoca emicrania, irrigidimento muscolare del cavo orale e della parte superiore del torace, sudore, lacrimazione copiosa, senso di soffocamento e di vertigine, dolore acuto alla bocca dello stomaco, blocco intestinale. [8] Inoltre era diffusa la convinzione che, a contatto con i genitali di donne e animali di sesso femminile, ne provocasse la morte. [9] →Galeno riteneva che fosse un potente settico. [10]  















Note. [1] Vd. Touwaide 1997, 263 ; Wagler 1894, coll. 1178-1179. – [2] Vd. Theophr. HP 9, 16, 4. – [3] Vd. Plin. nat. 27, 10, 1. – [4] Vd. Plin. nat. 27, 9. – [5] Vd. Diosc. 4, 76 ; Theophr. HP 9, 16, 4 ; Plin. nat. 27,  





erbe velenose 9, 2. – [6] Vd. Nic. Al. 11-12 ; Scrib. Larg. 188. – [7] Vd. Diosc. 4, 76 ; Nic. Al. 36-42. – [8] Vd. Nic. Al. 1635 ; Scrib. Larg. 188. – [9] Vd. Theophr. HP 9, 18, 2 ; Plin. nat. 25, 122; 27, 9. – [10] Vd. Gal. 11, 820.  







Bibliografia. Touwaide 1997 ; Wagler 1894.  

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l’e. cresce in Colchide ed è tradizionalmente associato alla figura di Medea, che lo avrebbe scoperto e utilizzato per prima. [6] L’e. è un’erba velenosissima e di rapido effetto, tanto che il suo nome deriverebbe dalla capacità di uccidere nell’arco di un’unica giornata. [7] In piccole dosi, l’e. è utilizzato anche nella composizione di medicamenti. [8] 3. Sintomatologia. – L’assunzione di e. provoca un intenso prurito al cavo orale e la corrosione dolorosa dell’esofago, oltre a vomito, lesioni faringee e disturbi intestinali. [9]  



b. Doricnio [doruvknion, dorycnium]. 1. Identificazione della specie. – Arbusto erbaceo velenoso di difficile identificazione; [1] →Dioscuride [2] lo accosta ad un tipo di struvcnon detto aJlikavkabon o vesicaria [3] identificato con la Physalis alkekengi, [4] con l’Atropa belladonna o con la Datura stramonium, [5] mentre altrove è assimilato al piretro. [6] 2. Descrizione. – Del d. erano note almeno tre specie, due con foglie simili a quelle dell’edera e la terza, il cui succo provocherebbe la pazzia, con foglie simili a quelle del basilico. [7] L’aspetto e il sapore del succo estratto dalle foglie di d. sono simili al latte. [8] Secondo →Plinio, [9] con il d. nato da poco venivano strofinate le punte delle lance per avvelenarle, e da questo la pianta avrebbe tratto il suo nome. 3. Sintomatologia. – L’avvelenamento da d. provoca singhiozzo, dolori all’esofago e vomito sanguinolento, oltre a dolori allo stomaco, disturbi intestinali simili a quelli provocati dalla dissenteria, debolezza articolare e secchezza delle fauci. [10] Secondo la tradizione, inoltre, il d. avrebbe, tra i suoi effetti, allucinazioni, vaneggiamento e, se somministrato in dosi elevate, la morte. [11]  















Note. [1] Vd. Schmidt 1905a, col. 1577. – [2] Vd. Diosc. 4, 74, 1. – [3] Vd. Plin. nat. 21, 177. – [4] Vd. Schmidt 1905a, col. 1577. – [5] Vd. Touwaide 1997, 276. – [6] Vd. Ps. Diosc. 3, 73. – [7] Vd. Plin. nat. 21, 177-178. – [8] Vd. Nic. Al. 376-377. – [9] Vd. Plin. nat. 21, 179. – [10] Vd. Nic. Al. 376-384. – [11] Vd. Plin. nat. 21, 178. Bibliografia. Schmidt 1905a ; Touwaide 1997.  

c. Efemero [ejfhvmeron, ephemeron]. 1. Identificazione della specie. – Erba velenosa del genere Colchicum [1] appartenente alla famiglia delle liliacee, da alcuni identificata con il Colchicum autumnale. [2] 2. Descrizione. – L’e. ha foglie simili a quelle del giglio, ma più piccole, gambo di altezza pari a quella del giglio e fiori azzurri. [3] L∆e. era detto anche bolbo;n a[grion per la sua natura bulbosa, o kolcikovn ; [4] secondo le fonti, infatti,  







Note. [1] Vd. Touwaide 1997, 272 ; André 1956, 96 – [2] Vd. Schmidt 1905b, col. 2753. – [3] Vd. Plin. nat. 25, 170. – [4] Vd. Diosc. 4, 83. – [5] Vd. Paul. Aeg. 5, 48. – [6] Vd. Nic. Al. 249-250 ; Schol. Nic. Al. 249. – [7] Vd. Ps. Ael. Prom. 69, 11-2. – [8] Vd. Diosc. 4, 83. – [9] Vd. Nic. Al. 250-259 ; Scrib. Larg. 193.  





Bibliografia. André 1956 ; Schmidt 1905b ; Touwaide 1997.  



d. Cicuta [kwvneion, cicuta]. 1. Identificazione e descrizione della specie. – Erba velenosa appartenente alla famiglia delle ombrellifere identificata con la specie Conium maculatum. [1] 2. Descrizione. – La c., molto diffusa in Grecia, [2] ha il gambo liscio, nodoso e nerastro, foglie appuntite e odorose, simili a quelle del coriandolo, [3] frutti di forma allungata e fiori bianchi[4] ; da foglie, fiori e semi si ricava un succo estremamente venefico. [5] La sostanza contenuta all’interno del seme della c., ritenuta un potente coagulante, era tra le più temute nell’antichità per la sua efficacia, tanto da essere somministrata, in Atene, a chi era condannato alla pena capitale. Tuttavia, secondo le fonti, il gambo è edibile, mentre alle foglie, somministrate nella giusta misura, sono riconosciute proprietà refrigeranti. [6] 3. Sintomatologia. – L’assunzione di c. provoca oscillazioni della pupilla, debolezza articolare, sensazione di soffocamento, problemi cardio-circolatori, [7] raffreddamento delle membra, in particolare delle estremità, e conseguente perdita della sensibilità. [8]  















Note. [1] Vd. André 1985, 66 ; Touwaide 1994b, 245. – [2] Vd. Theophr. HP 9, 15, 8. – [3] Vd. Plin. nat. 25, 151. – [4] Vd. Diosc. 4, 78. – [5] Vd. Plin. nat. 25, 152. – [6] Vd. Plin. nat. 25, 151-152. – [7] Vd. Nic. Al. 188-194. – [8] Vd. Scrib. Larg. 179.  

Bibliografia. André 1985 ; Touwaide 1994.  

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erbe velenose

e. Papavero [mhvkwn, papaver]. 1. Identificazione della specie. – Pianta erbacea della famiglia delle papaveracee identificata con certezza con il Papaver somniferum. [1] 2. Descrizione. – Si conoscevano diverse specie di p., non tutte facilmente identificabili ; tra le più note il p. erraticum, [2] che nasce spontaneamente, ha foglie simili alla ruchetta e fiori rossi, e il p. sativum, distinto in p. album, i cui semi erano utilizzati anche come spezia, e p. nigrum [3] o ceratitis, [4] dal cui stelo si raccoglie un succo lattiginoso cui sono riconosciute proprietà sedative. Il succo ottenuto dai frutti immaturi (opium), condensato e seccato, era noto già nell’antichità per le sue proprietà narcotiche e sedative, e si riteneva che, in dosi elevate, fosse mortale ; [5] in dosi modeste, era utilizzato anche come anestetico o nella composizione di medicamenti. [6] 3. Sintomatologia. – L’assunzione di succo di p. provoca sonnolenza e irrigidimento e raffreddamento degli arti, disturbi alla circolazione, sudore, rigonfiamento delle labbra e difficoltà di respirazione ; ad uno stadio di avvelenamento avanzato vengono associati unghie livide e occhi infossati. [7]

Note. [1] Vd. Plin. nat. 16, 153 ; Theophr. HP 3, 18, 11; Diosc. 4, 79. – [2] Vd. Steier 1927, coll. 719-721. – [3] Vd. Plin. nat. 16, 153. – [4] Vd. Theophr. HP 3, 10, 12. – [5] Vd. Plu. Quaest. conv. 3, 647f. – [6] Vd. Nic. Al. 611-615. – [7] Vd. Touwaide 1997, 285.

Note. [1] Vd. Steier 1932a, col. 2435. – [2] Vd. Plin. nat. 19, 168-169 ; Steier 1932a, coll. 2433-2446. – [3] Vd. Plin. nat. 19, 168 ; 20, 198. – [4] Vd. Plin. nat. 20, 205. – [5] Vd. Plin. nat. 20, 199-200. – [6] Vd. Diosc. 4, 64 ; Gal. 12, 72-73. – [7] Vd. Nic. Al. 433-442.

Note. [1] André 1985, 127. – [2] Vd. Stadler 1914, coll. 192-195. – [3] Vd. Plin. nat. 25, 35 ; Scrib. Larg. 181. – [4] Vd. Diosc. 4, 68, Gal. 12, 147. – [5] Vd. Scrib. Larg. 181.







Bibliografia. Steier 1927 ; Touwaide 1997.  



















g. Giusquiamo [suoskuvamo~, uJoskuvamo~, hyoscyamus, altercum]. 1. Identificazione della specie. – Pianta erbacea appartenente alla famiglia delle solanacee identificata generalmente con lo Hyoscyamus niger. [1] 2. Descrizione. – Il g. ha fusto ramificato e foglie acuminate. [2] Gli effetti tossici del g. erano molto noti nell’antichità ; tra questi, anche il farneticamento, a cui il g. dovrebbe la denominazione di altercum. [3] La pianta era utilizzata, nelle dosi opportune, anche come anestetico e nella composizione di medicamenti. [4] 3. Sintomatologia. – L’assunzione di g. provoca appesantimento del capo, spasmi, disturbi del sistema circolatorio e nervoso. Ad uno stadio di avvelenamento avanzato sono associati stato comatoso e illividimento delle membra. [5]  













Bibliografia. André 1985 ; Stadler 1914.  

Bibliografia. Steier 1932a.

f. Tasso [(s)mivlax (s)mivlo~, smilax]. 1. Identificazione della specie. – Conifera originaria della Cilicia ma molto diffusa già nell’antichità in tutta la Grecia, in Italia, Spagna e Gallia Narbonese, [1] identificata con la Taxus baccata. [2] 2. Descrizione. – Il t. è descritto come molto simile all’abete sia nelle dimensioni che nella forma delle foglie, considerate, con i semi, sede di sostanze tossiche. [3] Con questo nome si indicava anche una pianta rampicante sempreverde simile all’edera [4] a cui non erano attribuite proprietà venefiche. Il tasso era ritenuto estremamente pericoloso, tanto che era diffusa la convinzione che, durante il periodo della fioritura, dormire alla sua ombra poteva essere causa di morte.[5] 3. Sintomatologia. – L’avvelenamento da t. provoca difficoltà respiratorie e ostruzione della faringe, [6] oltre che problemi digestivi e nervosi. [7]  









h. Coriandolo [korivannon, kovrion, coriandrum]. 1. Identificazione della specie. – Pianta erbacea velenosa appartenente alla famiglia delle ombrellifere, identificata con il Coriandrum sativum. [1] 2. Descrizione. – Il c. ha fusto eretto, foglie e fiori di piccole dimensioni, di cui le fonti ricordano l’odore sgradevole. [2] Alcune specie di c., come quello egizio, hanno uso terapeutico ; ne sono riconosciute le proprietà antinfiammatorie e antisettiche, oltre che l’efficacia nel trattamento di patologie intestinali e biliari. [3] 3. Sintomatologia. – L’assunzione di c. provoca disturbi al sistema nervoso, vaneggiamento e uno stato simile all’ubbriachezza[4] ; nell’antichità lo si riteneva un veleno mortale. [5]  











Note. [1] Vd. Touwaide 1997, 272. – [2] Vd. Nic. Al. 157-158. – [3] Vd. Plin. nat. 20, 216-218. – [4] Vd. Touwaide 1997, 269. – [5] Vd. Nic. Al. 157-161. Bibliografia. Touwaide 1997.

Livia Radici

ermete trismegisto Ermete Trismegisto. 1. Generalità. – Nome con cui i Greci designavano, assimilandolo al proprio dio, l’egizio Thoth, divinità locale dalla testa di ibis venerata in una città del medio Egitto, Khmonou, chiamata poi dai Greci Hermopolis. Inventore, secondo la tradizione, della scrittura e di tutti i settori delle scienze e delle arti collegati ad essa e al culto : magia, medicina, astronomia, astrologia, teosofia e alchimia [→Alchimisti antichi, Ermete Trismegisto]. Effettivamente la mitologia egizia presenta Thoth (raffigurato spesso nell’atto di scrivere) come l’inventore e il custode della scrittura per mezzo della quale l’umanità ha potuto ricevere e tramandare la scienza, dono divino, e per questo la scrittura egizia è stata definita dai Greci iJeroglufika; gravmmata o shvmata «segni sacri incisi» ispirandosi all’espressione egizia mdw-ntr ovvero ‘parole divine’, ‘parole di dio’. Per quanto riguarda l’attributo trismevgisto~, ‘tre volte grandissimo’, sappiamo che negli antichi testi geroglifici la triplice ripetizione di un segno era un modo per esprimere il plurale, ma nel caso di un titolo onorifico poteva avere valore superlativo ; dunque la triplice ripetizione dell’attributo ‘grande’ potrebbe essere stata interpretata inizialmente come ‘tre volte grande’ e successivamente come ‘tre volte grandissimo’. I papiri magici del periodo ellenistico e quelli più tardi usarono come sinonimi di trismevgisto~ gli appellativi trismevga~ e trismevgalo~. Nelle scritture egizie il titolo del dio Hermes-Thoth è attestato nelle forme e , cioè ‘Thoth due volte grande’, in cui il geroglifico ‘ ‘grande’ (cfr. copto ) è ripetuto due volte. È però possibile ipotizzare che vi sia stata anche una forma * o* , ‘Thoth tre volte grande’, che sta alla base del greco trismevga~ e trismevgisto~. Dunque la credenza in Ermete come rivelatore della scienza si diffuse ampiamente e durò a lungo al punto tale che egli divenne l’auctoritas cui viene attribuita una letteratura rivelata di contenuto vario che abbraccia tutto l’ambito della pseudo-scienza [→pseudoscienza e credenze], frutto di quel sincretismo greco-egiziano caratteristico di quell’epoca, terreno di coltura di quella che viene comunemente conosciuta come letteratura ermetica [→ermetica, letteratura], ispirata dallo stesso dio Hermes. 2. Le opere. – L’alto numero di scritti che viene attribuito ad E. e l’oscillazione del numero dei trattati, in qualche caso addirittura invero 



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simile, ha indotto gli studiosi moderni a dividere in due branche la sua produzione : da una parte una produzione con caratteristiche più schiettamente filosofiche, ‘the philosophical Hermetica’, con contenuti filosofici e religiosi, ‘the technical Hermetica’, dedicati alla magia, all’alchimia, all’astrologia in tutti i suoi aspetti, compresa la iatromatematica, i fenomeni naturali, la botanica astrologica. Tra questi scritti si ricordano le seguenti opere : uno Scritto sui tuoni (Brontolovgion), contenente la prognostica relativa alla significazione dei tuoni ; [1] un’opera Sui terremoti (Peri; seismw`n), [2] in cui la prognostica relativa ai terremoti è messa in relazione con le varie posizioni dello zodiaco ; vari scritti di iatromatematica, di cui ricordiamo l’opera intitolata Iatromathematica di Ermete Trismegisto all’egiziano Ammone, basata sulla →melotesia zodiacale, una branca dell’astrologia che studia l’influenza dei segni dello zodiaco su ciascuna parte del corpo umano, e che nel trattato è ulteriormente raffinata, nella misura in cui si prende in considerazione anche l’importanza dell’ora e del giorno di inizio della malattia ; vari erbari astrologici (Libro di Ermete ad Asclepio sulle piante dei sette pianeti; [3] Sulla Peonia ; [4] un libro di astrologia catarchica Metodo segreto di Ermete Trismegisto per tutte le iniziative (la Methodus Mystica) ; [5] il Libro sacro di Ermete ad Asclepio. [6] Il Libro di Ermete Trismegisto sui trentasei decani ; [7] un trattato intitolato Organon di Ermete Trismegisto, [8] che presenta un sistema di previsioni sulle sorti del malato, basato sull’utilizzo di uno strumento di calcolo, chiamato organon.  





















Note. [1] Ed. F. Boll, ccag 7, 226-230. – [2] Ed. F. Boll, ccag 7, 167-171. – [3] Ed. Pitra 1888, 279 sgg. ; P. Boudreaux, ccag 7, 3, 151-159. – [4] Edd. Heeg, ccag 8, 2, 166-171 ; F. Cumont, ccag 8, 1, 187-193 – [5] Ed. F. Cumont ccag 8, 1, 172-177. – [6] Ed. Pitra 1888, 284 sgg. e, secondo altri manoscritti, Ruelle 1908. – [7] Edd. Feraboli-Matton 1994 ; Hübner 1995b, cap. 25. – [8] Edd. Berthelot-Ruelle 1887, 23, 8-17 ; una variante è stata edita da A. Olivieri, ccag i, 128.  







Bibliografia. Berthelot-Ruelle 1887, 23, 8-17 ; Boll, ccag vii, 231 sgg. ; Bouché Leclercq 1899, 215 sgg., 307 sgg. ; Delatte 1942, 237 sgg. ; Ideler 1841, 387-396 ; 430-440 ; Feraboli-Matton 1994 ; Festugière 1950, 143 sgg. ; Friedrich 1968, 43 sgg. ; Garth 1993 ; Gribomont 2008, s.v. Hermēs Trismegistos, pseudo, in EANS 377 ; Gundel-Gundel 1966, 10 sgg. ; Hübner 1995b, cap. 25 ; Pitra 1888 ; Ruelle 1908 ; Urso 2002, 116-119.  





























Carmelo Lupini

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ermetica, letteratura

Ermetica, letteratura. 1. Generalità. – Secondo la mitologia egiziana Thoth era il dio inventore di numerose scienze e arti e, in particolare delle lettere dell’alfabeto e per questo motivo egli era considerato scriba degli Dei e, quindi, rivelatore e interprete del lovgo~ divino ; la scrittura egizia, infatti, venne definita dai Greci iJeroglufika; gravmmata o shvmata, «segni sacri incisi», espressione che voleva rendere l’egizio mdw-ntr ovvero ‘parole divine’. In seguito al sincretismo tra il dio greco Hermes, che aveva le medesima funzione di ‘messaggero divino’, e l’egiziano Thoth, venne concepita una divinità di grande nobiltà e potenza che secondo il pensiero antico fu alla base di ogni insegnamento esoterico : →Ermete Trismegisto cioè ‘tre volte grandissimo’, noto soprattutto nella letteratura astrologica e nell’ambito degli studi alchemici [→alchimisti antichi]. In età ellenistica, a partire dalla prima metà del iii secolo a.C., nacque e si sviluppò una ricca letteratura che si riteneva fosse stata ispirata, o meglio dire ‘rivelata’, dal grande Ermete in persona. La profondità e lo spessore di certe concezioni teologiche espresse in alcuni scritti ermetici indussero perfino i Padri della Chiesa, e in particolare Tertulliano e Lattanzio, a considerare questo personaggio ovviamente non un dio, ma un profeta che, sebbene pagano, aveva sorprendentemente intuito quelli che sarebbero stati gli insegnamenti di Cristo. Gli insegnamenti ermetici si presentano come un insieme di dottrine esoteriche che sarebbero state il frutto di una rivelazione divina e tali dottrine non vengono comunicate mediante dimostrazioni razionali o deduzioni logiche, bensì tramite una sorta di ‘iniziazione’ misterica ; evidentemente siamo di fronte a delle suggestioni che avranno grande espressione nello Gnosticismo. 2. Le opere. – La letteratura ermetica è costituita da scritti che si possono classificare come segue : [1] • opere dell’‘Ermetismo popolare’ riguardanti le scienze occulte, alcune delle quali possono risalire già al iii secolo a.C. ; • opere dell’‘Ermetismo dotto’ incentrate maggiormente su tematiche filosofiche e soprattutto teologiche e mistico-religiose: la maggior parte di queste risale ad un periodo compreso fra il ii e il iii secolo d.C. ; • Corpus Hermeticum, costituito da dicias 











sette trattati tra cui l’Asclepio, una traduzione latina, in passato attribuita erroneamente ad Apuleio, di un trattato composto in lingua greca risalente agli inizi del iv secolo d.C. che descrive la religione degli antichi Egizî e i riti magici che praticavano per controllare le potenze cosmiche volti all’animazione di statue. Tra questi trattati riveste particolare importanza il Pimandro (Poivmandre~) : una sorta di ‘cammino iniziatico’ attraverso il quale si viene condotti alla comprensione del nou`~ ed alla rinascita in Dio. Il testo così come è giunto fino ai nostri giorni si ritiene che risalga al 1050 circa, periodo in cui fu raccolto e ordinato dallo studioso bizantino Michele Psello ; è molto probabile che egli abbia rimosso elementi strettamente magici e alchemici al fine di rendere il Corpus più accettabile per la Chiesa ortodossa ; • numerose citazioni ed estratti presso Stobeo ; • testimonianze e frammenti presso autori cristiani. 3. Teologia e cosmogonia.[2] – Gli scritti ermetici sono composti da autori diversi e sono soprattutto l’espressione di una sapienza tardo-ellenistica piuttosto che egiziana, inoltre sono ‘pseudoepigrafi ’, cioè vanno tutti sotto il nome di Hermes-Thoth per conferire maggiore autorevolezza alle opere. Come sottolinea Festugière 1948, tali scritti sono accomunati dalla medesima idea che per comprendere le proprietà della Natura, dell’Universo e per avvicinarsi alla stessa divinità non è sufficiente la riflessione filosofica e scientifica personale, ma occorre una rivelazione che venga direttamente dall’alto. Questa crisi del razionalismo traspare con evidenza negli scritti dell’‘Ermetismo popolare’ che si occupano, oltre che di alchimia, anche di astrologia e scienze occulte. L’aspetto teoretico, contemplativo, speculativo e razionale della scienza greca viene sovvertito : questa scienza non si limita più ad indagare sul perché delle cose, ma pretende di agire sulla Natura stessa manipolandola e cercando di conoscerne le proprietà e le forze nascoste che legano ogni cosa, le leggi di ‘simpatia’ o di ‘antipatia’ [3] fra le sostanze, gli esseri e le stesse presenze celesti. Le opere dell’‘Ermetismo dotto’ insistono maggiormente sull’aspetto filosofico e presentano notevoli analogie col Medioplatonismo e col Neopitagorismo, ma alcuni aspetti vengono accentuati : in particolare il dualismo Dio-mondo che, come avverrà  











erodico di selimbria nello Gnosticimo, pone la divinità e l’universo divino in una condizione di ‘non conoscibilità’ e di mistero che può essere penetrato solo da una illuminazione diretta (gnw`si~). Anche il Corpus Hermeticum è in linea con questa concezione, tuttavia per certi aspetti la dottrina che esprime mostra una contraddizione di fondo : da un lato Dio viene estremamente spersonalizzato, posto al di sopra di tutto e concepito come totalmente estraneo al mondo della materia, dall’altro viene identificato col ‘Bene’, è ‘Padre di tutte le cose’ e quindi ‘causa di tutto’. Tipicamente medioplatonica è l’identificazione del Dio supremo con l’‘Intelletto supremo’, il Lovgo~, e per certi versi Egli è addirittura superiore allo stesso Lovgo~ in quanto è sua causa. Il Pimandro, che è il più organico dei trattati, chiarisce meglio la concezione della struttura dell’universo : l’idea di base, che verrà ripresa dallo Gnosticismo, è che l’universo sia organizzato in una struttura gerarchica costituita da varî livelli presieduti da una serie di ‘intermediarî’ (gli a[rconte~ degli gnostici) tra il Dio supremo e il Mondo : al vertice sta il Dio supremo, ineffabile e completo in sé stesso (‘maschile-femminile’), di seguito vengono il Lovgo~ (suo ‘figlio’ primogenito), l’Intelletto demiurgico (causa del mondo inferiore), l’“Anqrwpo~ (l’uomo idealizzato immagine perfetta di Dio stesso) e, infine, la ‘scintilla divina’ data all’uomo terreno, cioè lo pneu`ma che, secondo una tripartizione ricorrente anche nelle dottrine religiose ebraiche, viene distinto dall’anima (yuchv) e superiore ad essa. Il mondo materiale, la cui natura è maligna, è il prodotto di un drammatico processo di separazione che vede il costituirsi di un universo demiurgico che è copia di quello divino. In esso l’“Anqrwpo~ viene attratto verso il basso e, durante la sua caduta attraverso i varî livelli cosmici fino al cielo sublunare, resta ‘contaminato’ ; nasce in tal modo l’uomo terrestre, con la sua duplice natura, spirituale e corporea. La salvezza [4] consiste nel liberarsi delle ‘scorie’ che l’uomo ha assunto durante la caduta lasciando libero lo pneu`ma di ‘risalire’ alla sua patria celeste, ma tale liberazione può avvenire solo mediante un’illuminazione diretta e dunque coincide con la Gnosi. Innanzitutto, per sciogliere i legami con la materia, l’uomo deve conoscere sé stesso prendendo coscienza del fatto che la sua vera natura consiste nell’Intelletto, cioè in quella ‘scintilla’ divina che lo rende simile a Dio e parte di Dio stesso, non nel corpo materiale e  







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nemmeno nell’anima che è anch’essa un prodotto del mondo e senza la guida dell’Intelletto non è altro che una sostanza irrazionale. Il ritorno a Dio, dunque, è un percorso di risalita durante il quale l’uomo si spoglia via via di tutte le ‘scorie’ che ha accumulato durante la sua caduta. Successivamente il suo Spirito si unisce alle Potenze divine e, divenuto esso stesso Potenza divina, ritorna a Dio diventandone parte. Questa complessa visione appariva ai primi cristiani come una chiave di lettura in senso esoterico del messaggio di Cristo. Dovevano infatti apparire molto suggestivi gli accenni al ‘figlio di Dio’, al Lovgo~ divino che richiama il Vangelo di Giovanni. Inoltre il xiii trattato del Corpus Hermeticum afferma addirittura che l’opera di rigenerazione e di salvezza dell’uomo è dovuta al ‘figlio di Dio’ che è sceso nel mondo come uomo per liberare e recuperare ciò che gli appartiene, cioè lo Spirito di ciascun essere umano. Tutto questo costituirà non solo il nucleo principale del pensiero gnostico, ma sarà anche fonte di ispirazione per i secoli successivi, in particolare del pensiero ermetico e neoplatonico rinascimentale. Note. [1] Festugière 1991, 33-42 ; Festugière 1948, 3-6. – [2] Festugière 1991, 57 e sgg. – [3] Plin. nat. 20, 1 ; 37, 59. – [4] Festugière 1991, 51, 64 sgg.  



Bibliografia. Festugière 1948 ; Festugière 1981 ; Festugière 1991 ; Kremmerz 2000 ; Moreschini 1985 ; Ramelli 2005 ; Rotondi Secchi Tarugi 1998 ; Sfameni Gasparro 1982  













Carmelo Lupini Erodico di Selimbria. Erodico di Megara, divenuto in seguito cittadino di Selimbria, visse tra il 500 e il 430 a.C. ca.[1] e fu contemporaneo di Protagora. Fondatore della ginnastica medica e valorizzatore della →dietetica, era stato inizialmente paidotrivbh~ e aveva, in seguito, trasportato la competenza dietetica maturata in quel campo anche in ambito medico. Dall’→Anonymus Londinensis (ix 20-36) [2] sappiamo che, secondo E., la genesi dei processi patologici risiedeva nel venir meno del rapporto naturalmente equilibrato tra alimentazione ed esercizio fisico e che la medicina, prescrivendo «fatiche e pene» in misura conveniente, permetteva di riacquistare l’equilibrio perduto conducendo alla «condizione secondo natura», eij~ to; k(ata;) fuvsin. L’originalità delle sue misure terapeutiche pose E. in una

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erofilo di calcedonia

posizione di estraneità rispetto alla medicina ‘ufficiale’ del suo tempo e lo condannò ad aspre critiche : in un passo di Epidemie vi (3,18) [3] si legge che E. «uccideva i suoi pazienti con passeggiate, molte lotte, bagni di vapore». Ma è soprattutto →Platone a criticare fortemente E. e la «svolta dietetica» [4] avvenuta in quel periodo nella medicina. Nella Repubblica (404b408d) Platone lo critica ferocemente per aver snaturato l’originaria valenza terapeutica della medicina e averla resa una forma di controllo stretto e ossessivo del regime di vita dei pazienti. E. avrebbe, infatti, ‘mescolato’ medicina e ginnastica, eccedendo sia nella pratica fisica [5] che nel rigore della dieta (406a-b). Colpito egli stesso da una malattia, avrebbe usato tale metodo in primis su se stesso, riuscendo ad arrivare ad un’età avanzata solo attraverso l’impiego costante di tutte le sue energie nell’osservanza rigorosa delle pratiche terapeutiche (406b). Nell’ottica platonica la medicina dietetica di E. è interpretata come un espediente [6] escogitato al fine di occultare il male che aveva colpito lui stesso e coloro che si affidarono in seguito alle sue cure, una nosotrofiva che depaupera l’uomo di energie socialmente impiegabili e lo rende ossessionato dal suo stato di salute. Invece di combattere la malattia E. non faceva che occultarla temperandone la sintomatologia, facendo della vita una lunga morte, imponendo dure e continue restrizioni e rendendo del tutto improduttivi gli uomini anche dal punto di vista socio-politico, proprio perché privi di ogni vigore. La tirata platonica sembra influenzare anche Aristotele che nella Retorica (1361b 4-6) afferma : «Molti, infatti, sono sani nel senso in cui si dice sano Erodico ; nessuno invidierebbe la loro salute, perché devono astenersi da tutte le soddisfazioni umane o dalla maggior parte di esse». La critica platonica alla medicina fondata sulla divaita e la contrapposizione tra essa e la medicina iliadica sviluppata nella Repubblica è ripresa nello scolio omerico a L 515 [7] in cui viene attribuita alla medicina iliadica la conoscenza delle due branche canoniche della medicina (chirurgia e farmaceutica) mentre ad E. è fatta risalire l’introduzione della terza branca (dietetica). Lo scolio formula, inoltre, una serie canonica di medici citando E., →Ippocrate, →Prassagora e →Crisippo. Al di là delle posizioni critiche degli antichi, il metodo erodiano influenzò il pensiero e la trattatistica medica (si pensi allo scritto ippocratico Sulla dieta e al Regime [8]) e la scuola fon 





data da E. annoverò tra i suoi allievi lo stesso Ippocrate. Note. [1] La collocazione cronologica di E. è discussa. Jori 1993, 157-195 colloca E., sulla base delle testimonianze platoniche, tra il 460-450 e il 390-380 a.C. Per un quadro completo delle testimonianze relative ad E. cfr. Gossen 1912 e Grensemann 1975, 15 sgg. – [2] Anonymi Londinensis Iatrika, ed. Diels. – [3] Manetti-Roselli 1982. – [4] Cfr. Jori 1993, 157-195. – [5] Anche nel Fedro (227d) il metodo erodiceo delle lunghe passeggiate è ricordato in termini parodistici e criticato per la sua estrema radicalità. – [6] Nel Protagora Platone lo accusa di essere «sofista non inferiore a nessuno» (316c-e) ; sull’interpretazione platonica del metodo erodiano come ingannevole astuzia ed ‘eccesso di sofisticazione’ cfr. Jori 1993, 157-195. – [7] Cfr. Stok 1993b, 393-444. – [8] Cfr. Vegetti 1996a, 61-75 il quale ritiene che E., nell’opinione platonica, incarni il ruolo di ‘anti-Ippocrate’ e, proprio in virtù di tale opposizione, nega che Ippocrate possa essere l’autore del Regime, opera che risente chiaramente delle teorie di E. (sul rapporto tra E. e il Regime cfr. Joly 1967).  

Bibliografia. Dugand 1990, 151-166 ; Gossen 1912 ; Grensemann 1975, 15 sgg. ; Joly 1967 ; Jori 1993, 157-195 ; Kollesch 1989, 191-197 ; ManettiRoselli 1982 ; Rubin Pinault 1992 ; Stok 1993b, 393-444 ; Vegetti 1996a, 61-75 ; Wöhrle 1990.  



















Maria Nicole Iulietto Erofilo di Calcedonia [ca. 330-260 a.C.]. 1. Dati biografici. – Filosofo e naturalista alessandrino, discepolo di →Prassagora di Cos e di Crisippo, si occupò di fisica e medicina, in particolare di anatomia, rivestendo un ruolo di grande rilievo tra i medici e i chirurghi di età alessandrina. [1] Le sue scoperte in materia, numerose e importanti, sono dovute, oltre che al suo acume, anche alla spregiudicatezza che lo distingue dagli anatomisti a lui contemporanei. Insieme a →Erasistrato, infatti, fu il primo scienziato dell’antichità a praticare la dissezione di cadaveri umani, e, se si deve credere alle testimonianze di →Celso e →Galeno, praticò anche la vivisezione su corpi di criminali, giovandosi di permessi particolari concessi dal sovrano per osservare le caratteristiche delle parti di corpo ancora in vita. [2] E. accettò e applicò le teorie fisiopatologiche tradizionali, che volevano lo stato corporale dipendente dal flusso degli umori. 2. Opere e dottrina. – Il corpus degli scritti di E., non tradito integralmente, [3] comprendeva originariamente : 1) tre libri Sull’anatomia  







erofilo di calcedonia (∆Anatomikav), pervenuti in frammenti, in cui è manifesto il contributo in ambito anatomico e fisiologico maturato con l’esperienza acquisita con la dissezione su anatomia e fisiologia ; in particolare, E. espone le sue teorie sullo studio del cervello e del sistema nervoso, e giunge a sostenere per primo che la sede del pensiero, della sensibilità e del movimento è nel quarto ventricolo cerebrale, responsabile della coordinazione muscolare e del mantenimento dell’equilibrio ; nella stessa opera, E. distingue i nervi sensori da quelli motori (volontari), descrive le disfunzioni di almeno sette paia di nervi del cranio, definisce i ventricoli cerebrali, le membrane, il cervelletto, le meningi, la struttura dei nervi cerebrali (da quest’attenzione alla struttura cerebrale deriva la denominazione, ancor oggi vigente, di uno dei seni della ‘dura madre’, il lhnov~, come torcular Herophili) ; ad E. sono riconducibili importanti progressi anche nel riconoscimento e nello studio del midollo spinale, della struttura dei genitali maschili e femminili, giungendo probabilmente ad analizzare per primo le tube di Falloppio, pur senza intuirne pienamente il funzionamento ; distinse con chiarezza nervi, tendini, vasi sanguigni e arterie. Ancora oggi il lessico medico si giova in qualche caso della terminologia coniata da E. : sua è la definizione di una parte dell’intestino situata dopo lo stomaco come ‘duodeno’, giustificata dal fatto che questa sezione misura effettivamente circa dodici dita (dwdekadavktulo~) ; a lui si deve anche la definizione di ‘prostata’ per la parte anatomica posta davanti alla vescica e quella di ‘calamo’ per la cavità del quarto ventricolo cerebrale, che ha una forma identificabile con il solco ricavato nel calamo scrittorio ; [4] 2) un libro di argomento oculistico (Peri; ojfqalmw`n), nel quale E. espone le sue conoscenze relativamente all’apparato oculare, apportando un contributo rilevante anche agli studi di →ottica e di percezione del campo visivo : oltre a riconoscere le caratteristiche peculiari del nervo ottico, E. tentò per primo una distinzione delle parti che compongono il bulbo oculare, riconoscendo nella sclerotica la tunica esterna opaca dell’occhio, nella coroide la sottile membrana sede di piccoli vasi sanguigni che avvolge la sclerotica, nella retina la membrana più interna dell’occhio e nel cristallino la lente trasparente dell’occhio ; 3) un’opera Sulle pulsazioni (Peri; sfugmw`n) in due libri, nella quale le variazioni pressorie vengono spiegate attra 

















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verso la contrazione (sustolhv) e il rilassamento (diastolhv) delle pareti arteriose, attraverso le quali scorre per tutto il corpo sangue misto a pneuma. E. sostiene che questi impulsi involontari delle arterie sono cadenzati secondo ritmi regolari e li paragona ai metri prosodici ; 4) un’opera di ostetricia (Maieutikovn), nella quale E. espone la tesi secondo la quale l’utero è composto dalla stessa materia biologica del resto del corpo ; inoltre, sono affrontate questioni come il trattamento dei parti con complicanze e la possibile definizione del feto come essere vivente ; 5) un libro Contro le opinioni comuni (Pro~; ta;~ koina;~ dovxa~), nel quale si trattano specifiche questioni di anatomia e fisiologia ; 6) due libri Sulla terapia (Qerapeutikh; pragmateiva) ; 7) un libro Sulla dietetica (Diaithtikovn). [5] L’innovazione apportata da E. nel panorama scientifico alessandrino si fonda sull’attenzione particolare che egli riconosce all’esperienza e all’autopsia ; tra i suoi meriti, infatti, quello di essere un eccellente clinico, esperto nell’individuazione delle cause delle malattie e nella descrizione di quadri clinici.  













Note. [1] Vd. Michler 1968. – [2] Vd. von Staden 1975, 178-199. – [3] L’opera superstite di E., corredata da commento, in von Staden 1989. – [4] Vd. von Staden 1996b, 699. – [5] Vd. Sieveking 1912, 1104-1110. Bibliografia. Garofalo 1993, 345-368 ; Mazzini 1997, 29-30 ; Michler 1968 ; Sconocchia 2002a, 305-306 ; Sieveking 1912 ; von Staden 1975 ; von Staden 1989 ; von Staden 1996b ; Vegetti 1996c, 81-113.  















Livia Radici 3. La medicina. – Appartenne alla scuola di Cos, fu allievo di →Prassagora e maestro di →Filino, più tardi di Mantia ; fondatore dell’anatomia scientifica, gli dobbiamo importanti termini, tutt’ora in uso (aracnoide, coroide, calamus scriptorius, duodeno, prostata, torcular Herophili) ; le sue teorie fecero scuola fino al Medioevo nella medicina occidentale e araba ; molti i suoi titoli e i frammenti, raccolti in edizione da von Staden. Grande innovatore nella concezione della fisiologia umana (respirazione, riproduzione) e del ruolo dei medicamenti in terapia, studiò il cervello e il sistema nervoso, distinguendo per primo i nervi dai tendini e dai vasi sanguigni; illustrò l’anatomia dell’occhio, del fegato, dei genitali femminili; praticò, secondo  





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erone di alessandria

Galeno, la vivisezione sui condannati a morte, che gli permise fondamentali progressi; per primo introdusse la pratica del controllo delle pulsazioni arteriose. Bibliografia. Mazzini 1997, 29-30 ; Micheler 1968, 29-30 ; Sconocchia 2002a, 305-306 ; von Staden 1989 ; von Staden 2001b ; Vegetti 1996c, 81113.  









Daria Crismani





























Erone di Alessandria [i sec. a.C.]. 1. Dati biografici. – Della vita di E. e della composizione delle sue opere non si sa nulla di preciso e la stessa collocazione cronologica è molto dibattuta, [1] nonostante il dato certo che lo vuole testimone di un’eclissi di luna del 62 d.C. [2] E. è spesso assimilato, per l’oggetto della sua speculazione, a →Ctesibio e →Filone di Bisanzio, ed echi della sua dottrina sono riscontrabili nei testi di →Vitruvio. [3] 2. Opere e dottrina. – L’interesse di E. per diversi ambiti tecnico-scientifici è testimoniato dal corpus delle sue opere : [4] 1) un commento agli Elementi di Euclide ; [5] 2) un libro di Definitiones contenente un’efficace sintesi della disciplina di E. ad uso dei primi corsi della scuola da lui diretta ; 3) un’opera dedicata alla geometria delle misure (Metrica), riscoperta a Costantinopoli nel 1896 in un codice del xii sec., nella quale E. mostra di aver presente la grande tradizione matematica euclidea e archimedea, [6] ma rivela anche la sua mentalità di fisico pratico (vi sono fornite indicazioni per il calcolo di superfici piane e volumi di poliedri sia regolari che assolutamente irregolari quali si trovano in natura) oltre che di matematico (vi si enuncia il metodo generale per l’individuazione di un valore approssimato della radice quadrata di numeri che non sono quadrati perfetti e la formula dell’area del triangolo calcolata conoscendo la sola misura dei lati) ; 4) un’opera di geometria piana (Geometrica) ; 5) un’opera di geometria solida (Stereometrica) ; 6) un De mensuris ; 7) un’opera intitolata Geodaesia, che si occupa di stabilire forma e dimensioni della superficie terrestre ; 8) un De speculis (o Catottrica), che, pur occupandosi principalmente degli specchi e degli effetti mirabolanti che si possono ottenere col loro attento impiego, contiene però un gran numero di osservazioni sperimentali, fisiche e fisiologiche ; 9) un trattato intitolato Pneumatica, nel quale, oltre  

all’enucleazione di principi fisici, si riportano informazioni sulla costruzione di pompe antincendio [7] e di un congegno (eolipila) veramente funzionante che si basava sugli stessi principi fisici delle macchine a vapore moderne ; 10) tre libri di Meccanica, che ci sono noti nella loro interezza grazie alla traduzione araba di Kosta ben Luka (ix sec. d.C.), il cui testo originale è pervenuto in frammenti per tradizione indiretta : nel primo di essi sono trattati principi fisici indispensabili alla trattazione di questioni meccaniche, come la definizione delle medie proporzionali, il moto dei cerchi, il moto d’un peso su piani inclinati, elementi necessari per il bilanciamento dei pesi su supporti, l’individuazione di centri di gravità dei solidi ; il secondo tratta della costruzione e dei meccanismi fisici che consentono il funzionamento delle cinque macchine semplici (argano, leva, bozzello, cuneo e vite), integrate da E. con la trattazione della vite combinata con la ruota dentata ; il terzo libro si configura come un trattato di meccanica applicata; [8] 11) un’opera di meccanica militare nella quale si descrive il funzionamento della balestra (Cheiroballistra) e dell’artiglieria a torsione (Belopoeica). [9]  







Note. [1] Sulla collocazione cronologica di E. vd. Heath 1921, 2, 300-306 ; Morrow 1970, 34. – [2] Vd. Argoud 1995. – [3] Vd. Fleury 1994a, 67-77. – [4] Vd. Schmidt 1899 ; Nix-Schmidt 1903 ; Schoene 1903 ; Heiberg 1912 ; Heiberg 1914. – [5] Ulteriori informazioni sul commento ad Euclide in Heath 1926, 21-24. – [6] Vd. Vitrac 1994. – [7] Vd. Her. Pneum. 1, 28. – [8] Vd. Argoud 1994a. – [9] Vd. Marsden 1971, 17-60.  









Livia Radici 3. Per quel che concerne la →polemologia, di Erone conosciamo i Belopoeica, un trattato in cui vengono descritti sistemi di progettazione per efficaci e complesse armi da getto. [1] L’opera, che dipende in larga misura dai Belopoeica di →Ctesibio, [2] presenta diverse analogie anche con quella di→Filone di Bisanzio e con il libro x del De Architectura di →Vitruvio. Ad Erone è stato attribuito anche il Cheiroballistra, un trattato su un particolare tipo di →balista e pensato per essere parte di un dizionario sulle catapulte [→catapulta].  



Note [1] Giardina 2003. – [2] Vd. Marsden 1971, 1-2.

Lucio Benedetti

esecuzione musicale Bibliografia. Argoud 1994a ; Argoud 1995 ; Fleury 1994a ; Giardina 2003 ; Heath 1921 ; Heiberg 1912 ; Heiberg 1914 ; Marsden 1971 ; Moreno Gallo 2006 ; Morrow 1970 ; Nix-Schmidt 1903 ; Schmidt 1899 ; Schoene 1903 ; Tybjerg 2004 ; Vitrac 1994.  



























Livia Radici-Lucio Benedetti Esaustione (metodo di). Il metodo di esaustione è un procedimento adoperato per determinare le aree e i volumi delle figure curve. In linea generale esso si caratterizza per l’inscrizione e la circoscrizione di poligoni regolari alla figura in esame al fine di approssimarne l’area, la quale risulta essere il limite delle aree dei poligoni. Il metodo prevede dunque la costruzione di una successione di poligoni che convergono alla figura data. Non a caso il termine ‘esaustione’ deriva dal fatto che i poligoni progressivamente inscritti esauriscono l’area del cerchio. Il metodo si presenta come assolutamente rigoroso e non approssimativo, in quanto non comporta un esplicito passaggio al limite; al contrario esso si pone come procedimento indiretto di dimostrazione. Storicamente il merito di aver intuito il metodo di esaustione spetta ad →Antifonte di Atene, sofista operante nella seconda metà del v secolo, il quale considerò la possibilità di effettuare la quadratura del cerchio, adoperando poligoni inscritti coincidenti al limite con il cerchio [→Antifonte sofista, 5]. La strategia messa in atto sollevava tuttavia una serie di problemi già emersi nel dibattito sull’infinito che coinvolse sophoi come →Zenone, →Anassagora e →Democrito. Un apporto decisivo all’introduzione sistematica del metodo di esaustione nella matematica fu fornito da →Eudosso di Cnido, il quale se ne servì per dimostrare che le aree di due cerchi stanno fra loro come i quadrati dei loro raggi, che i volumi di due sfere stanno fra loro come i cubi dei loro raggi, che il volume di una piramide è un terzo del volume di un prisma che possieda stessa base e stessa altezza, che il volume di un cono è pari ad un terzo del volume del rispettivo cilindro. Le proprietà verificate da Eudosso confluirono largamente nella stesura di Elementi xii, composto da 18 teoremi riguardanti le aree e i volumi. Il libro si contraddistingue per l’applicazione costante del procedimento di esaustione. La dimostrazione, ad esempio, della

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proprietà di due cerchi di essere in proporzione tra loro come i quadrati dei loro diametri è effettuata mediante esaustione, approssimando le aree dei due cerchi con poligoni regolari inscritti. Poiché il teorema in questione risulta verificato per i poligoni, esso risulta vero anche per i cerchi. →Archimede infine si segnala per le numerose e disinvolte applicazioni del metodo di esaustione, ormai annoverato tra i ragionamenti matematici rigorosi finalizzati alla dimostrazione degli enunciati geometrici. Esso si accompagna quindi a metodi meccanici e conferisce validità agli assunti precedentemente reperiti in via informale, come attestato nell’opera Sulla quadratura della parabola. Edizioni : Acerbi 2007b ; Diels-Kranz 1951-1952 ; Heiberg-Stamatis 1910-1915 ; Lasserre 1966.  







Bibliografia : Boyer 1989 ; Heath 1921 ; Mugler 1958-1959.  





Piero Tarantino Esecuzione musicale. Le esecuzioni musicali [→musica] si distinguono in base al modo di esecuzione, al genere del componimento e all’occasione. L’esecuzione può essere solo vocale, solo strumentale, vocale con accompagnamento strumentale. La prima si verifica nei gorgheggi ed in assenza di uno strumento musicale che accompagni il canto, come, ad esempio, in alcuni canti di lavoro o in canti eseguiti durante i giochi dei bambini. Termine tecnico per « gorgheggiare » è teretivzein (Ps. Arist. Pr. 19, 10, 918a 30), voce onomatopeica del grido della cicala o di un uccello. In alcune circostanze si sopperisce alla mancanza dello strumento riproducendone mimeticamente il suono. È questo il caso della voce onomatopeica thvnella, con cui Archiloco pose rimedio alla mancanza di una cetra (schol. Pi. O. 9, 1c, f, h, i, pp. 266-268 Drachmann). L’esecuzione vocale si distingue in canto a voce spiegata e in recitativo. Le più antiche esecuzioni erano effettuate per mezzo della cetra o dell’aulo. Esse si classificavano in strumentali (yilh; kiqavrisi~, suono della cetra senza canto; yilh; au[lhsi~, suono dell’aulo senza canto), vocali con accompagnamento strumentale (kiqarw/ diva, canto accompagnato dal suono della cetra, aujlw/diva, canto accompagnato dal suono dell’aulo). Una forma particolare di esecuzione era la sunauliva consistente : nell’uso combinato di cetra e aulo, nel suono contemporaneo di due auli, nel suono dell’aulo accompagnato  





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esecuzione musicale

dalla voce umana che però non utilizza parole articolate, nel canto con aulo – in tal caso sunauliva è equivalente ad aujlw/diva – (Ar. Eq. 9 ; Scholl. ad loc., pp. 8-9 Jones; Semus, FGrH 396 F 11, ap. Ath. 14, 618a; Ps.Arist. Pr. 19, 39, 921a 26). L’esecuzione vocale poteva essere affidata ad un solo cantore o ad un coro, che a sua volta poteva essere maschile, femminile o misto. Riguardo all’età dei coreuti si distinguono cori di pai`de~, maschi o femmine fra la pubertà e l’adolescenza, cori di fanciulle, designate con i termini kovrai, parqevnoi, neavnide~, nuvmfai, cori di donne adulte, gunai`ke~, cori di efebi, e[fhboi, hji?qeoi, kou`roi, cori di uomini adulti, a[ndre~, cori misti di adolescenti e cori misti di adulti. La performance era generalmente accompagnata dalla danza. Il recitativo (parakataloghv o kataloghv) era accompagnato dall’aulo o dal kleyivvambo~. Canti venivano eseguiti durante le cerimonie religiose, pubbliche e private ; accompagnavano circostanze gioiose e tristi della vita dell’uomo ; erano legati non solo alle feste, ma anche al duro lavoro. La musica, infatti, svolgeva un ruolo fondamentale nella vita dei Greci : non c’è attività umana, come rileva Aristide Quintiliano (Mus. 2, 4, p. 57 WinningtonIngram), che non sia compiuta senza la musica (ou[koun e[nesti pra`xi~ ejn ajnqrwvpoi~ h{ti~ a[neu mousikh`~ telei`tai). I modi di esecuzione e le caratteristiche dei generi letterari in cui trovava spazio la musica variarono nel tempo, per cui non si può prescindere da un’attenta analisi del contesto storico e dell’evoluzione dei costumi. Un quadro chiaro ed articolato di modalità, scopi e occasioni emerge fin dai poemi omerici. Per questo vale la pena soffermarvisi un po’. Durante un rito religioso viene innalzato il peana che si configura come un canto corale in onore di Apollo eseguito da giovani allo scopo di placare il dio e conseguentemente di allontanare la peste (Il. 1, 472-474). Un diverso aspetto del peana emerge da Il. 22, 391-394, dove esso appare come canto corale processionale di ringraziamento per lo scampato pericolo dopo il duello di Achille con Ettore, terminato con l’uccisione dell’eroe troiano che costituiva il più grande ph`ma per gli Achei. Al rituale riconduce anche il ‘coro’ di Arianna (Il. 18, 590-606), nel quale fanciulli e fanciulle, guidati da due acrobati, si esibiscono con figure orchestiche molto simili alla ‘danza della gru’ eseguita a Delo durante gli Afrodisia. La performance ri 







sulta interessante non solo per la danza alquanto articolata, ma anche per l’abbigliamento dei coreuti. I veli e le corone delle fanciulle, i chitoni ben tessuti e le spade d’oro, appese a cinture d’argento, evidenziano l’armonia fra elementi maschili e femminili e presentano analogie con la ‘danza della collana’ di cui dà notizia Luciano (Salt. 12). Fra l’altro le spade d’oro inducono a registrare il primo esempio di danza in armi (Eust. 1166, 15, iv, 267, 19 van der Valk). Numerosi sono i passi in cui il simposio si presenta come occasione privilegiata per la performance aedica. Negli ambienti aristocratici, infatti, la giornata si concludeva con la cena seguita da danze e canti (Od. 1, 339-340, 421-423 ; 8, 87-89 ; 17, 605-606), ritenuti ajnaqhvmata daitov~ (Od. 1, 152 ; 21, 430). In tale occasione l’aedo cantava in un assolo argomenti epici accompagnandosi con la kivqari~. Una particolare forma di citarodia è fornita dall’esecuzione di Demodoco all’aperto, davanti ad un vasto pubblico. Mentre egli canta sulla fovrmigx gli amori di Ares e Afrodite, un coro muto mima l’episodio con figure orchestiche di carattere iporchematico (Od. 8, 256-369). Altri canti riconducono alla vita privata. Apollo durante il banchetto nuziale per Peleo e Teti suona la fovrmigx in onore degli sposi (Il. 24, 63). Per festeggiare le nozze dei figli di Menelao un aedo, dopo il banchetto, canta accompagnandosi con la fovrmigx, mentre due acrobati danno inizio alla danza (Od. 4, 15-19). Da Od. 23, 147 si deduce che il coro conclusivo del banchetto nuziale era di consuetudine misto. Anche il momento più spettacolare della cerimonia, quello della numfagwgiva che avveniva la sera, alla luce delle fiaccole, era allietato da canti e danze. La performance, anche se non del tutto chiara, in quanto dal testo omerico non è possibile sapere né chi intonasse l’imeneo né se con il termine uJmevnaio~ si debba intendere il componimento lirico o l’invocazione rituale, risulta egualmente importante perché testimonia l’uso combinato di aujloiv e fovrmigge~ (Il. 18, 490-496). In occasione delle celebrazioni funebri veniva intonato il qrh`no~, come è attestato da Il. 24, 719-723 e da Od. 24, 58-62, in riferimento, il primo al funerale di Ettore, il secondo a quello di Achille. La performance dei canti in onore di Ettore non è però ben chiara perché il testo è incerto e non esplicito. Risulta comunque che il qrh`no~ (o i qrh`noi) è affidato ad aedi professionisti a cui le donne rispondono con gemiti. Durante le  





esecuzione musicale onoranze funebri per Achille le Nereidi, appartenenti alla famiglia del defunto, innalzano il lamento e le Muse eseguono il qrh`no~. Anche in questo caso la modalità di esecuzione lascia spazio a dubbi, perché non risulta evidente se le Nereidi eseguissero un lamento indipendente dal canto delle Muse o se rispondessero al loro canto e se le Muse si alternassero fra loro eseguendo più qrh`noi. Al lavoro è connesso il livno~ (Il. 18, 567-572) eseguito durante la vendemmia. Un pai`~ canta in registro acuto accompagnandosi con la fovrmigx, mentre un coro misto di parqenikaiv e hji?qeoi esegue una danza circolare fortemente mimetica e risponde con grida rituali di carattere trenodico. La compresenza di gioia e dolore trova una spiegazione logica se si tien conto che la vendemmia è connessa con la passione di un dio e che Lino è un’antica divinità della vegetazione. Al lavoro sono connessi il canto, monodico e privo di accompagnamento musicale, di Calipso (Od. 5, 61-62) e quello di Circe (Od. 10, 221-223), intente al telaio, e la melodia eseguita sulla su`rigx dai pastori mentre portano il gregge di pecore e le mandrie di buoi ad abbeverarsi (Il. 18, 525-526). All’ambito bellico afferisce il canto eseguito al suono di aujloiv e suvrigge~ dai guerrieri troiani che bivaccano davanti al fuoco (Il. 10, 11-13). Del tutto privato e con scopo consolatorio è il canto eseguito da Achille sulla fovrmigx (Il. 9, 186-189). Il canto aveva come contenuto le imprese gloriose di eroi, argomento, quindi, epico come quello della maggior parte dei canti di Femio e di Demodoco. Dai poemi omerici emerge dunque che prima di Omero esisteva una poesia melica peraltro ampiamente attestata anche dall’arte figurativa. Nella produzione antecedente ad Omero si possono, infatti, distinguere composizioni meliche che nelle epoche successive mantennero la loro caratteristica di poesia cantata e poesia epica che da cantata diventò recitata. Questi dati sono in parte confermati ed in parte arricchiti dallo Ps.Plutarco (Mus. 3, 1131f-1132b), il quale cita come fonte Eraclide Pontico (fr. 157 Wehrli). Egli dice che Anfione, figlio di Zeus e Antiope, inventò la citarodia, compose poesie e le cantò al suono della cetra ; Lino compose qrh`noi ; Ante inni ; Piero carmi in onore delle Muse ; Filammone di Delfi per primo istituì i cori nel tempio di Delfi e cantò le peregrinazioni di Latona e la nascita di Apollo e Artemide ; Tamiri compose una Titanomachia ;  











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Demodoco un’opera sulla distruzione di Troia e una sulle nozze di Afrodite ed Efesto ; Femio cantò il novsto~ dei compagni di Agamennone da Troia. Lo Ps.Plutarco precisa per di più che questi autori componevano in versi non liberi da responsione strofica, simili a quelli di Stesicoro, e accompagnati dal canto. La poesia epica, quindi, con Omero mutò performance, ma Stesicoro la riportò alla forma originaria. Omero menziona solo due volte l’aulo, la prima in riferimento all’imeneo (Il. 18, 495), la seconda in relazione ai canti dei soldati durante il bivacco (Il. 10, 13). Questo secondo dato è messo, però, in dubbio da Anderson 1994, 32, il quale ipotizza che l’espressione omerica aujlw`n surivggwn te indichi un unico strumento e precisamente gli aujloi; suvrigge~, cioè il flauto di Pan. Gli scarsi riferimenti all’aulo si motivano con il fatto che questo era uno strumento di origine orientale, utilizzato in Grecia più tardi rispetto agli strumenti a corda. L’origine orientale è confermata dallo Ps.Plutarco (Mus. 5, 1132f ). Sulla scorta di Alessandro Poliistore (FGrH 273 F 77), egli afferma che il primo a suonare l’aulo fu Iagni, poi il figlio Marsia e successivamente Olimpo, tutti originari della Frigia. Pausania (2, 31, 3), presenta Ardalo di Trezene quale inventore dell’aulo, ma la notizia va corretta nel senso che Ardalo fu l’inventore dall’aulodia, cioè del canto eseguito con l’accompagnamento dell’aulo, performance che esigeva il concorso di un auleta (strumentista) ed un aulodo (cantore). L’aulo, come la lira, veniva utilizzato dagli antichi, secondo quanto attesta Proclo (Chrest. ap. Phot. 320a 33-b 4), per accompagnare il novmo~ che, originariamente, era un canto corale in onore di Apollo e che fu trasformato da Crisotemi di Creta in canto assolo accompagnato dalla kiqavra. Con questa forma di nomos egli fu il primo vincitore nel più antico ajgwvnisma di Delfi ed ebbe un tale successo che da allora si continuò a gareggiare con un canto eseguito da un solista che suonava la cetra. Il secondo vincitore fu Filammone ed il terzo Tamiri (Paus. 10, 7, 2). Terpandro, primo vincitore nell’agone citarodico delle Carnee istituito nella ventiseiesima Olimpiade (676-673) e fondatore della prima katavstasi~ (scuola musicale) a Sparta (Ps.Plu. Mus. 9, 1134b), normalizzò e perfezionò i nomoi citarodici, introducendo l’esametro dattilico e assegnando a ciascuno di essi un nome. Secondo Eraclide Pontico (ap.  

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esecuzione musicale

Ps.Plu. 4, 1132d), Terpandro utilizzò sette nomoi i cui nomi sono : boiwvtio~, Aijovlio~, Trocai`o~, ∆Oxuv~, Khpivwn, Terpavndreio~, Tetraoivdio~. A questi Polluce (4, 65), aggiunge il novmo~ “Orqio~, da identificarsi molto probabilmente con il novmo~ ∆Oxuv~. Il novmo~, il cui significato originario è « legge », in ambito musicale assume la valenza di « norma ». Lo Ps.Plutarco (Mus. 6, 1133b), afferma, infatti, che i novmoi derivavano il loro nome dal fatto che non era consentito trasgredire il modo di accordatura stabilito per ciascuno di essi. Il boiwvtio~ novmo~ presentava un inizio tranquillo e proseguiva in modo più veloce (Soph. fr. 966 Radt ; Zenob. 2, 65), il Trocai`o~ utilizzava il ritmo trocaico, l’∆Oxuv~ era composto secondo il modo lidio ed era in tonalità acuta, il Tetraoivdio~ era probabilmente formato da quattro parti, eseguita ciascuna in una tonalità diversa (Gostoli 1990, xx-xxi). West 1971, 307, ipotizza che era suonato su quattro note ed era utilizzato come accompagnamento ai proemi. Quanto agli altri novmoi, l’Aijovlio~ prendeva il nome, come il boiwvtio~, da arie musicali tipiche delle popolazioni omonime, il Khpivwn, secondo Polluce (4, 65), dall’eromenos di Terpandro, secondo Lasserre 1954, 24, da kh`po~, per cui il Khpivwn sarebbe il Nomos del Giardino. Secondo Wilamowitz 1903, 90 n. 1, invece, esso deriverebbe da khpivon, un tipo particolare di acconciatura dei capelli, con allusione alla struttura elaborata di tale novmo~. Il Terpavndreio~ prende il nome da Terpandro. Il novmo~ “Orqio~ era un canto in registro acuto di argomento funesto e luttuoso (Aesch. Ag. 1150-1153). Polluce (4, 66), attribuisce a Terpandro la divisione del novmo~ in sette parti : ajrcav, metarcav, katatropav, metakatatropav, ojmfalov~, sfragiv~, ejpivlogo~. Tale divisione non doveva essere presente in tutti i novmoi, come si evince dal Tetraoivdio~ composto da quattro parti. Probabilmente le quattro parti corrispondevano alle varie sezioni in cui era articolato il novmo~, come lasciano intendere i termini ajrcav, ojmfalov~, sfragiv~ ed ejpivlogo~, ma non è escluso che esse alludessero anche alla struttura metrico-ritmica del novmo~, come inducono a pensare i termini ajrcav, metarcav e katatropav, metakatatropav segnalanti, verosimilmente, una responsione strofica. Certo questo sembra essere in contraddizione con lo Ps.Aristotele (Pr. 19, 15, 918b), là ove dice che i novmoi non erano composti in forma strofica, ma l’affermazione potrebbe riguardare la  













struttura complessiva, che per la maggior parte era astrofica, dal momento che astrofici erano l’ojmfalov~, la sfragiv~ e l’ejpivlogo~ (Gostoli 1990, xxiii-xxv). Nel passo in esame, infatti, si evidenzia la difficoltà dell’esecuzione di un testo astrofico rispetto ad uno strofico, per cui il primo richiede l’abilità di un professionista, l’altro no. Il novmo~, quindi, era affidato ad un professionista proprio per la presenza di parti astrofiche. Lo Ps.Plutarco (Mus. 4, 1132d), attesta, inoltre, che Terpandro compose proemi citarodici in metri epici, e (al capitolo 6, 1133c) precisa che tali proemi avevano la funzione di invocare la protezione divina prima dell’esecuzione della poesia di Omero o di altri poeti. Ora, tali proemi non sono altro che inni citarodici introduttivi alla successiva citarodia e corrispondono esattamente agli inni rapsodici, cioè agli inni omerici che fungono da proemi all’esecuzione della successiva rapsodia. Lo Ps.Plutarco (Mus. 3, 1132c), afferma che Terpandro, poeta di nomoi citarodici, applicava ai versi epici suoi e a quelli di Omero la melodia adatta a ciascun novmo~. Risulta evidente che il prooivmion è un canto distinto dal novmo~ e non può essere identificato con l’ajrcav del novmo~. Clona, secondo lo Ps. Plutarco (Mus. 3, 1132c), operò, a proposito del novmo~ aulodico, una riforma simile a quella messa in atto da Terpandro nella citarodia e per primo stabilizzò anche i prosodi. Egli prepose un prosovdion al novmo~ aulodico, come Terpandro prepose il prooivmion al novmo~ citarodico. A Clona sono attribuiti i seguenti novmoi aulodici : ∆Apovqeto~, “Elegoi, Kwmavrcio~, Skoinivwn, Khvdeio~ e Trimelhv~ (Ps. Plu. Mus. 4, 1132d ; per l’∆Apovqeto~ e lo Skoinivwn cfr. anche Poll. 4, 79, che però li considera auletici). Questi stessi novmoi furono impiegati anche da Polimnesto, come asserisce lo stesso Ps.Plutarco (Mus. 3, 1132c). Molte ipotesi sono state formulate sia sulla natura di questi canti sia sulle occasioni durante le quali essi venivano eseguiti, ma tutte le ipotesi rimangono tali. Solo per il Trimelhv~ (o Trimerhv~) disponiamo di alcune informazioni certe dalle quali si apprende che esso deriva il suo nome dal fatto che la melodia passava da un modo musicale all’altro. Era, infatti, composto di tre strofe, di cui la prima veniva cantata nel modo dorico, la seconda in quello frigio, la terza in quello lidio (Ps.Plu. Mus. 8, 1134a-b). La paternità di tale nomos non è certa, come risulta dallo Ps.Plutarco. Questi riferisce che Clona è menzionato,  



esecuzione musicale nell’iscrizione di Sicione sui poeti, quale inventore del novmo~ Trimelhv~ che altri attribuiscono, invece, a Sacada di Argo, esponente, come Polimnesto, della seconda scuola musicale di Sparta. Quanto all’auletica, la sua origine, come si è detto, si fa risalire al mitico Olimpo. A lui lo Ps.Plutarco (Mus. 7, 1133d), ascrive la composizione del novmo~ Polukevfalo~, ma poi (7, 1133e) informa che altri ne attribuiscono la paternità a Cratete, mentre Pratina l’assegna ad Olimpo il giovane. Secondo il mito, invece, fu Atena ad inventare il novmo~ Polukevfalo~ ad imitazione del lamento delle Gorgoni, Euriale e Steno, quando Perseo recise il capo della Medusa (Pi. P. 12, 7-27 e schol. 35c, ii, 268 Drachmann). Il novmo~ Polukevfalo~ era ritenuto quindi antichissimo e consisteva in una melodia volta a riprodurre con il doppio aulo il pianto delle due Gorgoni. Ad Olimpo (resta il dubbio circa l’esistenza di due auleti di nome Olimpo) lo Ps.Plutarco attribuisce l’invenzione del novmo~ ‘Armavteio~ (7, 1133e-f ), il novmo~ di Ares in ritmo prosodiaco (29, 1141b), il novmo~ di Atena in tono frigio del genere enarmonico, genere da lui inventato, unito al peone epibato (33, 1143b) e lo spondei`on, cioè il canto delle libagioni, la cui melodia poggiava su di un sistema di cinque note – quattro ne costituiscono la struttura di base – caratterizzato da un grande intervallo di terza maggiore indiviso (11, 1135 a-b). All’epoca di Sacada la musica per aulo fece molti progressi ed assunse una dignità pari a quella composta per la kiqavra, tanto che nel 582 a.C. nelle feste Pitiche, durante le quali orignariamente erano previste solo gare citarodiche, furono introdotte anche gare per auleti solisti, oltre alle gare citaristiche e aulodiche, ed il primo vincitore nella gara auletica fu proprio Sacada. Egli, in questa occasione, eseguì il novmo~ Puqikov~ (Paus. 2, 22, 8), un pezzo strumentale fortemente mimetico con il quale si riproducevano le varie fasi della lotta di Apollo contro il serpente Pitone. Il novmo~, infatti, come attesta Polluce (4, 84) era composto di cinque parti : nella prima, pei`ra, Apollo esaminava il luogo per vedere se era adatto alla lotta ; nella seconda, katakeleusmov~, il dio sfidava Pitone ; nella terza, ijambikovn, era raffigurato il combattimento ; nella quarta, spondei`on, si mostrava la vittoria del dio ; nella quinta, katacovreusi~, il dio festeggiava la vittoria danzando. La fortuna di questo nomos è attestata dal fatto che circa trenta anni dopo fu eseguito negli agoni  









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Pitici un novmo~ citaristico sullo stesso tema (Paus. 10, 7, 7), diviso anche questo in cinque parti : a[gkrousi~, a[mpeira, katakeleusmov~, i[amboi kai; davktuloi, suvrigge~ (Str. 9, 3, 10). L’influenza dell’aulo sulla cetra è testimoniata anche dall’innovazione di Epigono di Ambracia, consistente nella e[naulo~ kiqavrisi~, espressione che non deve essere intesa con il significato « cetra suonata con l’accompagnamento dell’aulo », ma, come vuole Barker 2002, 43, con quello di « suonare la kithara alla maniera di un aulo ». Questa innovazione fu praticata anche da Lisandro di Sicione, il quale non solo modificò l’assolo di cetra aumentando la tensione delle corde e dando più volume al suono, ma realizzò sulla cetra iamboi e magadis, detto anche syrigmos (Philoch. FGrH 328 F 23 ap. Ath. 14, 637f ). Questi termini con cui vengono designati gli effetti musicali, richiamando gli i[amboi e le suvrigge~ del nomos Pitico, confermano che con la cetra si creava una musica di carattere mimetico simile a quella ottenuta con l’aulo. La pratica della parakataloghv, cioè la recitazione o declamazione con accompagnamento strumentale, per la performance di alcuni giambi e la pratica del canto per altri giambi furono un’invenzione di Archiloco, come sostiene lo Ps.Plutarco (Mus. 28, 1141a), che però non precisa nè a quali generi letterari corrispondeva tale pratica né gli strumenti utilizzati per le due diverse esecuzioni. Si deve a Fillide (fr. 2 Müller, FHG iv, ap. Ath. 14, 636b), l’informazione secondo cui i giambi cantati erano eseguiti al suono delle ijambu`kai, quelli recitati al suono dei clepsiambi, ma egli non fa riferimento ad alcun poeta. Ad Archiloco sono attribuite molte innovazioni metriche e ritmiche (Ps.Plu. Mus. 28, 1140f-1141a ; Mar. Vict. GL 6, 141-142 Keil ; Diomed. GL 1, 509-510 Keil), le quali inducono a ritenere che egli abbia composto opere citarodiche aediche non esametriche, la cui performance era affidata al canto. La notorietà e l’importanza delle sue innovazioni sono testimoniate dal fatto che Taleta di Gortina, esponente della ii scuola musicale di Sparta, imitò ed ampliò i mevlh di Archiloco (Ps. Plu. Mus. 10, 1134d) e dal fatto che il mevlo~ in onore di Eracle (fr. 324 West) continuò ad essere cantato per lunghissimo tempo ad Olimpia in onore dei vincitori, come attestano Pindaro (O. 9, 1) e Callimaco (fr. 384, 39 Pfeiffer) Caratteristica di questo mevlo~ è l’impiego della voce  













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onomatopeica thvnella inventata da Archiloco, come si è detto, per sopperire alla mancanza dello strumento musicale. Questo ragguaglio è in linea con la tradizione che presenta Archiloco particolarmente attivo nelle innovazioni ritmiche e musicali. Poco si sa tuttavia della sua produzione melica, che dalle poche testimonianze rimaste appare legata al culto di Demetra e di Dioniso. Archiloco stesso afferma di saper comporre ditirambi (fr. 120 West) e dalla iscrizione di Mnesiepes (seg 15, 517), contenente la biografia del poeta, è possibile desumere alcuni caratteri del ditirambo archilocheo : per il contenuto e l’aspetto linguistico, ritmico e musicale esso era simile alla poesia giambica, era corale ed aveva una parte riservata all’improvvisazione. Non si può dire se Archiloco abbia o no composto peani, ma è certo che egli se ne occupò, poiché nel fr. 121 West fornisce il ragguaglio secondo il quale a Lesbo il peana veniva eseguito con l’accompagnamento dell’aulo. La performance dell’elegia di Mimnermo era affidata al canto e al suono dell’aulo, come attestano Cameleonte (fr. 28 Wehrli, ap. Ath. 14, 620c) e lo Ps.Plutarco (Mus. 8, 1134a). Mimnermo, infatti, come si desume da Ermesianatte (fr. 7, 37-38 Powell), era auleta, ma talvolta ricopriva la funzione di aulodo, cioè cantava le sue elegie mentre altri suonavano l’aulo. Aulodico era il novmo~ Kradiva~ di Mimnerno (Ps.Plu. loc. cit., il quale cita come fonte Ipponatte), intonato durante la cerimonia dei farmakoiv, quando questi venivano fustigati con rami e foglie di fico (Hsch. k 3918 Latte s.v. kradivh~ novmo~). Per la melica corale ed in particolare per la composizione di parteni è famoso Alcmane, che operò a Sparta dopo la seconda katavstasi~ musicale. La sua produzione si inserisce quindi in un ambiente particolarmente attento alla funzione civica e paideutica della musica. A Sparta, infatti, nel vii secolo non solo erano attive scuole musicali, ma furono istituite feste durante le quali si esibivano cori che cantavano e danzavano. Le Carnee, dedicate ad Apollo, prevedevano concorsi musicali e ginnici organizzati per giovani non sposati che dovevano essere inseriti nella vita adulta. Durante le Gimnopedie avevano luogo esecuzioni di cori di fanciulli, efebi, e adulti. Secondo la testimonianza di Polluce (4, 107), Tirteo sarebbe stato l’iniziatore della tricoriva, cioè della ripartizione dei cori in tre classi di età. Compose mevlh  

polemisthvria (Sud. t 1205 Adler, s.v. Turtai`o~) o ejmbathvria (Ath. 14, 630f ) in versi anapestici

cantati dai soldati in marcia al suono dell’aulo. Famoso è il Kastovreion, una melodia dal ritmo definito da Polluce (4, 78) ejmbathvrion, intonato sull’aulo dagli Spartani (Plu. Lyc. 22, 4 ; Ps.Plu. Mus. 26, 1140c). In quella Sparta che coniugava la disciplina militare ed il valore bellico con il culto delle Muse, tanto che prima di attaccare battaglia il re sacrificava ad esse (Plu. Apophth. Lac. 221a ; Institut. Lac. 238b), Alcmane svolse la sua attività come didavskalo~ di fanciulle ed efebi, componendo carmi per cori, il cui valore civico è esplicitato dal sintagma patriv[oi~ / coroi`~ in POxy 2506, fr. 1, 33-34. Le sue composizioni sono legate alle feste ed ai culti di Sparta e i suoi parteni sono connessi con i riti di iniziazione delle fanciulle alla vita adulta. Il partenio, canto corale eseguito da fanciulle, di genere misto, come sostiene Proclo (Chrest. ap. Phot. 320a 3), in quanto il coro celebrava la divinità e le fanciulle, in Alcmane ha una forma solenne. Era composto, infatti, come rileva lo Ps.Plutarco (Mus. 17, 1136f ), in armonia dorica. Alcmane da una parte sembra inserirsi nel solco della tradizione dal momento che cita Polimnesto, come ricorda lo Ps.Plutarco (Mus. 5, 1133b) dall’altra rivendica la novità della sua arte, disconoscendo in un certo senso i modelli umani là ove afferma di aver trovato i versi e le melodie componendo la voce delle pernici mutata in linguaggio (fr. 39 Davies) e di conoscere le melodie di tutti gli uccelli (fr. 40 Davies). Il carattere innovativo della musica di Alcmane fu riconosciuto anche dallo Ps.Plutarco (Mus. 12, 1135c). Inoltre Imerio (Or. 39, 2, p. 160 Colonna) riferisce che Alcmane eseguì sulla lira dorica canti lidi ed il poeta stesso dice di aver suonato sull’aulo una melodia frigia (fr. 126 Davies). A Lesbo, isola che aveva dato i natali a Terpandro, si svolse l’attività di Saffo nell’ambito del tiaso, definito dalla poetessa casa moisopovlwn « delle ministre delle Muse » (fr. 150 Voigt), termine che sottolinea la centralità della musica, del canto e della danza nell’educazione da impartire alle fanciulle dell’aristocrazia lesbia e ionica giunte alla sua scuola. Le poesie di Saffo sono strettamente legate ai rituali del tiaso. Sono per lo più monodiche, ma gli epitalami dovevano essere corali. Inoltre dall’epigramma 9, 189 dell’Anthologia Palatina, contenente la descrizione di un coro di fanciulle che si di 







esecuzione musicale rigono a ritmo di danza verso il tempio di Era mentre Saffo canta accompagnandosi con la lira, si evince che alcune odi prevedevano un tipo di performance in cui un coro danza mentre la corega canta e suona. Quanto agli epitalami, di cui rimangono pochi frammenti, alcuni erano destinati a veri e propri riti nuziali, altri alle cerimonie di iniziazione (Him. Or. 9, 4, p. 75 sg. Colonna). Aristosseno (fr. 81 Wehrli, ap. Ps.Plu. Mus. 16, 1136d), attribuisce a Saffo l’invenzione del misolidio, aggiungendo il ragguaglio secondo il quale da lei lo appresero i tragediografi. Al capitolo 28, 1140f, però, lo Ps.Plutarco attribuisce l’intera armonia misolidia a Terpandro. In un punto le due testimonianze concordano e cioè nella connessione di tale armonia con la citarodia lesbia. Ciò non di meno, chiunque sia stato l’inventore, resta certo che Saffo utilizzò l’armonia misolidia, capace, come precisa Aristosseno, di suscitare pathos. Risulta inoltre che Saffo subì l’influenza delle melodie dell’Asia Minore, dal momento che l’armonia misolidia deriva il suo nome dalla Lidia e la pettide, strumento citato dalla poetessa (frr. 22, 11 e 156, 1 Voigt), era di origine lidia. La produzione poetica di Alceo è connessa con la sua attività politica e le sue poesie erano destinate ai compagni di lotta. Il luogo privilegiato della performance era il simposio. I canti simposiali di Alceo avevano una struttura molto semplice, erano monodici ed accompagnati dal suono del bavrbito~ o bavrmo~ (fr. 70, 4 Voigt). Rispondevano soprattutto all’esigenza di propaganda ideologica e politica, ma nel contempo, celebrando il vino e l’amore, ben si adattavano all’esigenza di svago e piacere. Alceo non fu certo l’inventore degli skolia; mevlh, la cui paternità fu attribuita da Pindaro a Terpandro (Ps.Plu. Mus. 28, 1140f ), ma continuò la loro antichissima tradizione. Lo stretto legame fra musica e simposio emerge chiaramente in Anacreonte, fr. 33 Gentili, nel quale il simposio smodato degli Sciti, accompagnato da una musica trasgressiva di carattere orgiastico (ajna; … bassarhvsw, v. 6), viene contrapposto al simposio greco, accompagnato invece dai bei canti (kaloi`~ … ejn u{mnoi~, vv. 10-11). Nella Magna Grecia svolse l’attività di poeta e musicista Stesicoro di Imera. Il suo vero nome era Tisia, ma fu chiamato Stesicoro, « ordinatore di cori », perché, come si legge nella  



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Suda (s 1905 Adler, s.v. Sthsivcoro~) per primo kiqarw/diva/ coro;n e[sthsen. Luciano (vh 2, 15) lo pone fra i poeti che introdussero il coro nei simposi. Numerosi frammenti papiracei, ritrovati a partire dalla metà circa del secolo scorso, hanno confermato l’uso della struttura triadica da parte di Stesicoro. Rimane però ancora aperto il problema relativo alla performance delle sue opere, perché la struttura triadica non implica necessariamente una esecuzione corale. D’altra parte numerose testimonianze antiche presentano Stesicoro quale citarodo. Non risulta quindi improbabile per alcuni componimenti l’esecuzione di un canto assolo sulla cetra accompagnato da un coro muto danzante e per altri l’esecuzione corale. Lo Ps.Plutarco (Mus. 3, 1132b-c), come abbiamo già detto, ricollega Stesicoro all’epica cantata preomerica e, nel punto in cui cita come fonte Glauco di Reggio (7, 1133e), attesta che questi imitò il novmo~ aJrmavteio~ di Olimpo, che era aulodico, e che da Olimpo derivò l’uso dei ritmi dattilici, propri del novmo~ o[rqio~. I ritrovamenti papiracei confermano la natura epico-mitologica degli argomenti trattati da Stesicoro e l’uso di metri dattilici e anapestici e di dattilo-epitriti. L’allusione alla musica di Olimpo da parte di Glauco rende verosimile l’ipotesi secondo la quale Stesicoro utilizzò nelle sue melodie il genere enarmonico e introdusse nella citarodia elementi della tradizione aulodica. Il ditirambo, fra le odi corali, fu la specie che assunse un rilievo maggiore e subì trasformazioni particolarmente significative. Erodoto (1, 23) dice che Arione fu l’inventore del ditirambo. La Suda (a 3886 Adler, s.v. ∆Arivwn) afferma che Arione per primo istituì un coro al quale fece cantare un ditirambo. Proclo (Chrest. ap. Phot. 320a 31-33), che cita come fonte Aristotele (fr. 677 Rose3), additò Arione quale inventore del coro ciclico. Queste notizie vanno intese nel senso che Arione rinnovò il ditirambo dandogli una veste letteraria e ne fissò la performance : i coreuti danzavano disposti in cerchio. Sebbene la danza circolare accompagnasse anche l’esecuzione di altri canti, l’espressione coro ciclico divenne sinonimo di ditirambo (schol. Aeschin. in Tim. 10 : levgontai d∆ oiJ diquvramboi coroi; kuvklioi kai; coro;~ kuvklio~ ; cfr. anche Ar. Nu. 333, Av. 918, Ra. 366). La Suda (l 139 Adler) informa che Laso per primo organizzò un agone ditirambico. Con Laso, quindi, il ditirambo, da canto rituale, diventò canto spettacolare, pur  





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rimanendo nell’ambito delle feste per Dioniso. Era composto in armonia frigia (Arist. Pol. 8, 1342b 7), un’armonia di carattere orgiastico e patetico (1340b 5) ed era accompagnato dall’aulo e da una danza impetuosa chiamata turbasiva (Poll. 4, 105 ; Hsch. t 1668 Schmidt). Lo Ps.Plutarco (Mus. 29, 1141c), attesta che Laso trasformò la musica precedente (eij~ metavqesin th;n prou>pavrcousan h[gage mousikhvn) adattando i ritmi al movimento del ditirambo (eij~  

th;n diqurambikh;n ajgwgh;n metasthvsa~ tou;~ rJuqmouv~). Il significato di questa espressione è

piuttosto dubbio. Ci si chiede, infatti, se la trasformazione riguardasse composizioni liriche differenti dal ditirambo o il ditirambo stesso. Nella prima ipotesi Laso avrebbe utilizzato il ritmo del ditirambo per odi diverse dal ditirambo (Privitera 1965, 75-76), nella seconda avrebbe trasformato il ditirambo rendendone più rapido il ritmo (Pickard-Cambridge 1962, 14) e modificando lo stile della parte vocale, in modo che fosse più rapido e vario (West 1992, 343, Barker 2002, 55-56). Lo Ps.Plutarco aggiunge, poi, che Laso operò la trasformazione imitando la polifonia degli auli (th/` tw`n aujlw`n polufwniva/ katakolouqhvsa~). A tal proposito Lasserre 1954, 37, nota che la molteplicità dei suoni dell’aulo si ottiene con l’otturazione parziale dei fori dello strumento – cosa che permette la realizzazione di suoni intermedi – e sostiene che Laso riuscì ad effettuare un’analoga varietà di suoni con la cetra, poggiando il dito sull’estremità della corda. Lo stesso Ps.Plutarco precisa che Laso usò pleivosiv te fqovggoi~ kai; dierrimmevnoi~, parole, anche queste, di difficile interpretazione in quanto potrebbero alludere o al frazionamento dei semitoni nei quarti di tono o anche alla pratica della modulazione. Comunque sia, rimane certo il carattere innovativo della musica di Laso, che era non solo un abile musicista, ma anche un teorico, come attesta la Suda (l 139 Adler s.v. La`so~ prw`to~ de; ou|to~ peri; mousikh`~ lovgon e[graye). La novità musicale di Laso non fu sempre apprezzata dal pubblico che gli preferì Simonide assegnandogli la vittoria su Laso in un agone ditirambico (Ar. V. 1410-1411). Lo stile musicale di Simonide è considerato come esempio di buona musica antica da Aristofane (Nu. 1356) e da Aristosseno (fr. 82 Wehrli) il quale lo presenta come autore di parteni, prosodi e peani in armonia dorica, un’armonia dal carattere virile e austero (Pl. R. 3, 399a; Heraclid. Pont.

fr. 163 Wehrli, ap. Ath. 14, 624d). Simonide, comunque, non fu un conservatore, anzi introdusse innovazioni anche ardite accostando cola ritmici fra loro contrastanti per conferire maggiore movimento ed emozionalità al testo. Discepolo di Laso fu, secondo la tradizione, Pindaro (V. Thom. i, p. 4 Drachmann ; Eusth. iii, p. 296 Drachmann), notizia questa in linea con le parole dello stesso Pindaro che rivendica il carattere innovativo del proprio canto là ove invita a lodare il vino vecchio e gli inni nuovi (O. 9, 4849) e proclama la novità del suo canto alato (I. 5, 63). Innovativo è il modo di esecuzione di alcune sue odi, il cui accompagnamento era affidato alla sunauliva di lira e aulo, come emerge da O. 3, 8-9 ; 7, 11-12 ; 10, 93-94 ; P. 10, 39 ; N. 3, 12 e 79 ; 9, 8-9 ; I. 5, 27. Elementi nuovi e musica tradizionale coesistono e si armonizzano perfettamente nelle odi pindariche. Così, il poeta, che proclama la novità dei suoi inni, afferma anche il suo legame con i novmoi tradizionali nel momento in cui asserisce, nell’Olimpica 1, 100-103, di incoronare il vincitore con il novmo~ i{ppio~ nella melodia eolica, nella Pitica 2, 69, di inviare il kastovreion intonato sulle corde eoliche e quando nel fr. 128e Maehler cita il novmo~ o[rqio~ ijavlemo~. Secondo l’armonia eolica, maestosa, imponente e altera, utilizzata anche da Laso per l’inno a Demetra e Core (Heraclid. Pont. fr. 163 Wehrli, ap. Ath. 14, 624e-f ), era intonata la Nemea 3, come esplicita Pindaro al v. 79 ; secondo l’armonia dorica, solenne e nobile, erano intonate l’Olimpica 3 (v. 5) e l’ode di cui resta il fr. 191 Maehler ; secondo l’armonia lidia, molle e rilassata, le Olimpiche 5 (v. 19), 14 (v. 17) e le Nemee 4 (v. 45) e 8 (v. 15). Le odi erano cantate da un coro ed il numero dei coreuti variava a seconda dei generi. Riguardo al ditirambo lo scoliasta ad Eschine (in Tim. 10), attesta che il coro era composto da cinquanta elementi. La maggior parte degli epinici, come emerge dai testi stessi, era eseguita da un coro che procedeva in corteo festoso verso l’altare o verso la casa del vincitore. Alcuni epinici erano, però, eseguiti anche durante il simposio. In questo caso il canto poteva essere un assolo. Dal ditirambo nacque la tragedia. Secondo la Suda (a 3886 Adler) Arione sarebbe stato l’inventore del modo tragico e avrebbe introdotto satiri che recitavano versi. Fra gli elementi costitutivi della tragedia, come rileva Aristotele (Po. 6, 1450a 10), trova posto anche la melopoiiva. Nella tragedia, infatti, molte sono  

















esecuzione musicale le parti liriche : la pavrodo~, il canto d’ingresso del coro nell’orchestra, per lo più in metri anapestici, ma talvolta in sistemi lirici cantati ; l’ejpipavrodo~, il canto del secondo ingresso del coro ; lo stavsimon, il canto del coro disposto nell’orchestra in formazione rettangolare ; il kommov~ e l’ajmoibai`on, dialogo lirico fra coro e attore ; monodie liriche o canti dalla scena, la cui struttura può essere monostrofica o libera da responsione o epodica o proodica o mesodica ; canti corali infraepisodici ; l’e[xodo~, il canto d’uscita del coro. Inizialmente la parte affidata al coro aveva una rilevanza notevole, ma essa con il passar del tempo si ridusse ad un interludio utilizzato da un dramma all’altro (Arist. Po. 18, 1456a 29 definisce questi canti ejmbovlima). Il coro, composto di dodici elementi, con Sofocle raggiunse il numero di quindici. Si ritiene, infatti, priva di fondamento la notizia riportata da Polluce (4, 110) secondo cui il coro, in origine di cinquanta elementi, fu ridimensionato dopo la rappresentazione delle Eumenidi a causa dello spavento suscitato negli spettatori dall’ingresso delle cinquanta Erinni. Quando il coro entrava sulla scena a ritmo di marcia, la parodo era eseguita molto probabilmente in recitativo (parakataloghv) con l’accompagnamento dell’aulo. Va rilevato, però, che non vi sono testimonianze precise per la parakataloghv dei metri anapestici, mentre l’accompagnamento con l’aulo dei tetrametri trocaici nella tragedia è attestato da Senofonte (Smp. 6, 3). Le testimonianze concordano nell’indicare come tipica del coro drammatico – tragico, satiresco e comico – la disposizione rettangolare (Poll. 4, 108-109 ; Tzetz. Prol. ad Lycophr. p. 33 Kaibel ; An. Graec. p. 746, 27 Bekker ; EM 764, 5 Gaisfond). La danza eseguita dal coro tragico era l’ejmmevleia, solenne e dignitosa, con lunghe pause all’interno dei movimenti, come attesta l’autore anonimo del trattato peri; tragw/diva~ 11. Polluce (4, 105), descrive le varie figure della danza tragica : la mano all’insù, il panierino, la mano all’ingiù, la danza del bastone, il passo doppio, il passo delle tenaglie, la capriola, lo scavalcaquattro. Ignoriamo, però, in quale epoca e da chi siano state eseguite queste figure orchestiche. L’importanza della danza nella tragedia è, tuttavia, ben documentata : Frinico in Plutarco (Quaest. Conv. 8, 732f ) si vanta di saper realizzare tante figure di danza quante onde sul mare forma d’inverno la notte tremenda ; Ateneo (1, 21d-f ) riporta le testimonianze di Cameleonte e di  

























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Aristofane relative all’invenzione di figure di danza da parte di Eschilo ; di Sofocle si dice che fosse un abile ballerino (Ath. 1, 20 e-f ). La danza del dramma satiresco era la sivkinni~, la sicinnide (Aristox. fr. 104 Wehrli; Anon. peri; tragwdiva~ 11), una danza dal ritmo rapidissimo, che accompagnava il canto dei satiri. Quanto alla musica, Aristosseno (fr. 81 W.2, ap. Ps.Plu. Mus. 16, 1136d) attesta che i modi caratteristici della tragedia erano il dorico, solenne e nobile, ed il misolidio, particolarmente adatto a suscitare emozioni. A questi Sofocle aggiunse le melodie frigie e ditirambiche (Vita Soph. 23). L’anonimo autore del peri; tragw/diva~ (5), informa che la melopea tragica utilizzò il genere enarmonico puro ed un genere misto di enarmonico e diatonico e che nessuno prima di Euripide utilizzò il genere cromatico. Nel tragiko;~ trovpo~ l’altezza dei suoni, e quindi delle voci, è grave, mentre nel nomos è acuta e nel ditirambo è intermedia. Lo strumento tipico della tragedia era l’aulo, ma in base alle esigenze venivano utilizzati anche altri strumenti sia a corde sia a percussione. La nascita della tragedia coincise con un momento particolarmente attivo e ricco di mutamenti nel modo di eseguire la musica. Un’eco significativa delle polemiche relative al predominio dell’aulo a discapito del canto e della danza si coglie nel fr. 3 Snell (TrGF 1) di Pratina, considerato da Ateneo (14, 617c) un iporchema, dove il poeta invita a cacciar via l’aulo, lo strumento lalobaruvopa parameloruqmobavtan (che balbetta nei toni bassi e che viola melodia e ritmo, v. 13). Ma purtroppo non è certo che questo Pratina sia il Pratina al quale la Suda (p 2230 Adler) attribuisce l’invenzione del dramma satiresco, per cui non è possibile dire quando e contro chi siano mosse critiche così aspre. Rimane quindi il dubbio se l’espressione to;n fruneou` poikivlan pnoa;n e[conta (v. 10) sia riferita a Frinico e sia un attacco contro la tragedia che aveva perso il carattere dionisiaco. La dolcezza dei canti di Frinico viene lodata, invece, da Aristofane (V. 220 e Av. 750). Nelle sue tragedie Frinico dava più spazio alle parti cantate che a quelle recitate (Ps.Arist. Pr. 19, 31, 920a 11), ma dai pochi frammenti rimasti non è possibile individuare il tipo di musica. Nelle tragedie di Eschilo la musica si mantiene nel solco della tradizione e non risente delle nuove idee musicali che circolavano ad Atene. Il tragediografo cita i novmoi ionici (Supp. 68), lo ijalv emo~ (Supp. 115, Ch. 424), il novmo~ ojxuv~  

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(Th. 954) e quello o[rqio~ (A. 1153). Nei Persiani, vv. 939-940, fa riferimento al Mariandunou` qrhnhth`ro~ … poluvdv akrun ijacavn, canto trenodico di origine asiatica intonato nell’armonia ionica sull’aulo mariandino, come si evince dallo scolio al luogo, che cita un verso del Carm. pop. 878 Page. Le melodie ed i novmoi cui allude Eschilo sono tutti di carattere lamentoso e quindi particolarmente adatti ad un contesto drammatico. L’armonia ionica utilizzata nei Persiani non è certo quella recente, molle e rilassata, ma quella antica di cui parla Eraclide Pontico (fr. 163 Wehrli, ap. Ath. 14, 624d) un’armonia dal carattere austero e duro, con un o[gko~ definito non privo di nobiltà. La menzione da parte di Eschilo di tali melodie e canti non ha solo funzione evocativa, ma anche allusiva al tipo di musica e ritmo realizzato, una musica solenne e monotona come mostrano le lunghe sequenze metricamente omogenee delle parti liriche. Questa monotonia è stigmatizzata dall’onomatopea flattoqrattolattoqrat, con cui Aristofane, Ra. 1286, 1288, 1290, 1292, 1295, paròdia l’accompagnamento musicale ai vv. 109-112 dell’Agamennone di Eschilo, paragonati dal commediografo a iJmoniostrovfou mevlh, « canti di coloro che intrecciano funi » (v. 1297). I canti di Eschilo sono quindi sentiti monotoni come i canti di lavoro e lunghi come le funi trascinate dai lavoratori. La monotona ripetitività delle melodie è messa in luce anche al v. 1250 delle Rane, nel quale Eschilo è definito da Euripide cattivo poeta perché non fa che ripetersi. Questi giudizi sono, però, di parte e non rendono giustizia ad Eschilo, il quale, anche quando utilizzò moduli tradizionali, li variò adattandoli alle esigenze dell’azione scenica. Ad esempio il kommov~, l’amebeo lirico di carattere trenodico, che nell’esodo dei Persiani (vv. 1038-1077) è intonato da Serse mentre il coro assolve alla funzione di rispondere, nei Sette a Tebe (vv. 9611004) presenta un’esecuzione completamente corale eseguita dai due semicori che si alternano e nelle Coefore (vv. 306-478) è affidato al coro, all’assolo di Oreste e all’assolo di Elettra. Il lamento funebre tradizionale presenta, quindi, tre modalità diverse di esecuzione. Nell’età di Pericle cambia notevolmente il modo di eseguire e fruire la musica e la costruzione dell’Odeion, luogo chiuso riservato agli agoni musicali, voluta da Pericle, ne dà testimonianza (Plu. Per. 13, 9-11). Se da una parte l’iniziativa periclea rispondeva all’esigenza di  



democratizzazione della cultura, dall’altra favorì la separazione fra esecutore e pubblico. Con l’Odeion, inoltre, la musica si svincolò da ogni finalità religiosa. Paradigmatica è, al riguardo, l’affermazione di Pericle secondo il quale l’istituzione degli agoni e delle feste è nata dall’esigenza di concedere sollievo alle fatiche (Th. 2, 38, 1). In tale contesto, quindi, la musica veniva fruita in sé e per sé, per cui perse progressivamente la sua funzione educativa per diventare musica di intrattenimento. Questo favorì il virtuosismo e lo sperimentalismo. Il testo finì per svolgere un ruolo secondario, mentre l’interesse si concentrò soprattutto sulla partitura e sugli strumenti musicali. Tale tipo di musica non incontrò il favore di tutti, ma fu disprezzato e ostacolato dai conservatori in quanto il mutamento generava confusione. Le forme musicali e gli schemi di danza, prima nettamente distinti, non lo sono più e così si mescolano i treni con gli inni, i peani con i ditirambi e si imitano le aulodie con le citarodie (Pl. Lg. 3, 700d). Il testo poetico, composto in funzione della musica, divenne spesso solo una sequela di parole. Lo Ps.Plutarco (Mus. 30, 1141d) informa che, mentre fino a Melanippide, compositore di ditirambi, gli auleti ricevevano la mercede dai poeti, perché la poesia occupava il primo posto, successivamente questa consuetudine fu abbandonata. Ferecrate (fr. 155 K.-A.) presenta la Musica che denuncia lo scempio cui è stata sottoposta. Il primo a farle violenza fu Melanippide, poi Cinesia, Frinide e Timoteo. Melanippide, come attesta Aristotele (Rh. 3, 1409b 26) introdusse nel ditirambo le ajnabolaiv, cioè gli assolo lirici astrofici. L’assenza di responsione strofica permetteva varietà di ritmi e melodie, nonché il passaggio da un’armonia all’altra così che la musica poteva adeguarsi alle emozioni. A Melanippide è attribuito anche l’incremento del numero delle corde della lira. Contemporaneo di Melanippide fu Pronomo di Tebe che contribuì moltissimo all’evoluzione della musica, inventando auli adatti ad ogni forma di armonia, che pemettevano modulazioni all’interno dello stesso brano [→strumenti musicali]. Cresso, secondo la testimonianza dello Ps.Plutarco (Mus. 28, 1141b) introdusse la parakataloghv nel ditirambo ad imitazione della tragedia. Il recitativo, infatti, come rileva lo Ps.Aristotele (Pr. 19, 6, 918a) per la sua stessa natura anomala accresce il carattere tragico, suscitando pavqo~.

esecuzione musicale Cinesia, ridicolizzato da Aristofane (Pax 827831, Av. 1383-1390) per le sue ajnabolaiv, produsse uno sconvolgimento nell’esecuzione dei ditirambi accentuandone la mimesi orchestica. Diomede (GL 1, 475 Keil) connette con Cinesia una danza pirrica chiamata cinesia, riconoscibile in quella descritta da Ferecrate quando questi accusa il ditirambografo di aver usato violenza alla musica (fr. 155, 8-12 K.-A.). Frinide utilizzò più armonie nella stessa composizione e Ferecrate, fr. 155, 14, gli attribuisce l’invenzione dello strovbilo~, una specie di capotasto con cui modificava l’intonazione della cetra. Non si può, però, escludere che con il termine strovbilo~ Ferecrate alludesse ad un irregolare movimento della danza. Caratteristiche della musica di Frinide sono le kampaiv (Tim. fr. 802 Page ; Ar. Nu. 969-973 ; Poll. 4, 66), variamente interpretate o come vocalizzi canori e virtuosismi strumentali o come rapidi passaggi da un tono all’altro (cfr. Restani 1983, 158-166). Filosseno di Citera, che la Suda (f 393 Adler) presenta quale schiavo di Melanippide, forse per sottolineare il legame culturale e professionale fra i due ditirambografi, fu aperto ad ogni forma di sperimentalismo, tanto che, come attesta Aristotele (Pol. 8, 1342b 9) osò comporre un ditirambo nell’armonia dorica, anche se poi desistette da tale assurda impresa. Modificò, inoltre, il ditirambo introducendo gli assolo nel canto del coro (Ps.Plu. Mus. 30, 1142a), introdusse, cioè, il dialogo lirico. Aristosseno fr. (76 Wehrli, ap. Ps.Plu. Mus. 31, 1142c), e Filodemo (Mus. 4, 31 Delattre) contrapponendo lo stile nuovo di Filosseno a quello antico di Pindaro, sanciscono in un certo qual modo il valore della nuova musica di Filosseno, una musica ricca di metabolaiv e cromatismi, presentandolo così quale simbolo di un’epoca. L’importanza di Timoteo è evidenziata da Aristotele (Metaph. 1, 993b 15), il quale afferma che se non ci fosse stato Timoteo non ci sarebbe stata una così grande ricchezza di canti ed aggiunge che senza Frinide non ci sarebbe stato Timoteo, indicando in tal modo una continuità nella sperimentazione musicale. È Timoteo stesso, fr. 796 Page, a rivendicare la novità del suo canto. Avendo elevato ad undici il numero delle corde della cetra, come egli stesso afferma (fr. 791, 229-231 Page), potenziò lo strumento, per cui gli fu possibile realizzare melodie del genere diatonico, enarmonico e cromatico all’interno dello stesso canto. La sua musica complessa,  



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caratterizzata da cromatismi, microintervalli e metabolaiv, viene icasticamente paragonata ai tortuosi percorsi delle formiche (Pherecr. fr. 155, 23 K.-A.). Timoteo operò quindi una modifica profonda nell’esecuzione del testo poetico : mentre prima ritmo e metro coincidevano, con lui il ritmo si svincola dal metro e si conforma mimeticamente alle esigenze del testo. I generi letterari non mantennero distinte le loro caratteristiche, come risultava già dai primi novmoi citarodici che egli, secondo quanto attesta lo Ps.Plutarco (Mus. 4, 1132d-e) per non apparire un trasgressore delle norme dell’antica musica, compose ejn e[pesin, ma vi mescolò una levxi~ ditirambica. Nei Persiani la ditirambizzazione del novmo~ citarodico appare completa. Nello stesso componimento vennero riunite le caratteristiche del novmo~ e quelle del ditirambo, la struttura astrofica e l’esecuzione corale, e, accanto a versi dattilici, furono utilizzati dimetri coriambici, metri giambici, trocaici, cretici, il gliconeo ed il ferecrateo. Con i suoi ritmi e metri Timoteo si vanta, così, di aver schiuso il tesoro degli inni fino ad allora nascosto nel talamo delle Muse (fr. 791, 229-233 Page). Sofocle, come egli stesso afferma, iniziò la sua attività di drammaturgo tenendo presente come modello Eschilo, di cui in un primo momento cercò di imitare la solennità, poi usò uno stile aspro e artificioso e alla fine modificò l’ei\do~ della levxi~, rendendola adatta alla caratterizzazione dei personaggi (Plu. prof. virt. 79b). Non fu solo un tragediografo, ma fu anche un teorico della musica, come attesta la Suda (s 815 Adler) che ne ricorda il trattato peri; tou` corou`. Egli operò alcune significative innovazioni nell’esecuzione delle opere tragiche : aumentando il numero dei coreuti a quindici, rese più agevole il dialogo del corifeo con gli attori e potè dividere il coro in due semicori con lo stesso numero di coreuti. Questa innovazione, che rappresenta certo un ridimensionamento dell’importanza che il coro aveva in Eschilo, non è però una diminuzione del ruolo della musica, ma piuttosto un potenziamento del ruolo dell’attore a cui non sono affidati solo la recitazione e il recitativo, ma anche il canto assolo. E dettati proprio da un’esigenza di aumentare l’efficacia espressiva dell’attore appaiono sia il modo innovativo con cui talvolta Sofocle realizza il dialogo lirico epirrematico, affidando all’attore la parte cantata e al coro il recitativo, sia le monodie dell’attore, come  



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quella eseguita da Elettra (vv. 86-120) nell’omonima tragedia sia i frequenti canti amebei. Le variazioni dei moduli espressivi della musica e del canto in Sofocle appaiono di diversa natura. Utilizzò le ‘strofi a distanza’, cioè canti che si corrispondono metricamente, separati da un dialogo in trimetri (Ph. 391-402=507-518), si servì anche di particolari canti corali generalmente identificati con gli ‘iporchemi’ che il grammatico Euclide, secondo quanto attesta Tzetzes (De trag. 94 =An.Ox. 3, 346 Cramer), poneva fra gli elementi strutturali della tragedia. Sono canti con cui il coro, ignaro della catastrofe imminente, esprime la sua gioia per quello che, illudendosi, interpreta quale esito felice della vicenda, accompagnando il canto con una danza fortemente mimetica, del tutto diversa dalla consueta emmeleia (vd. ad esempio Tr. 205-224). L’iporchema era un mezzo molto efficace per creare quell’atmosfera di ‘ironia tragica’ tipica di Sofocle. Egli, allo scopo di rendere più evidenti alcune situazioni particolari, utilizzò l’armonia frigia in « modo piuttosto ditirambico », come dice l’anonimo autore del peri; tragw/diva~, 5 (vd. anche Vit. Soph. 23), e l’armonia lidia che aveva note più acute rispetto al trovpo~ tragico e a quello ditirambico. Anche per quanto attiene alla metrica si rilevano in Sofocle volontà e capacità di innovazione : i suoi metri e ritmi sono, infatti, più variati e presentano modulazioni e mimetismo. Sofocle, come Eschilo, fa riferimento ai novmoi tradizionali : l’ai[lino~ (Aj. 627), i krektoi; novmoi (fr. 463 Radt), lo ijhvio~ (fr. 632 Radt), il kwkutov~ (frr. 849, 852 Radt), novmoi tutti di carattere trenodico. Cita anche il boiwvtio~ novmo~ e lo descrive come lento all’inizio e poi sempre più veloce (fr. 966 Radt). Le citazioni di novmoi, almeno per quanto è rimasto dell’opera sofoclea, sebbene non molto numerose, risultano comunque significative, dal momento che attestano un legame con la tradizione. Anche Euripide, amico e sostenitore di Timoteo – il più illustre rappresentante della ‘nuova musica’ – (Satyr. Vit. Eur. 39 xxii; Plu. an seni resp. 795d), cita novmoi e melodie tradizionali di varia natura : di carattere trenodico sono gli ijhvlemoi govoi (hf 109), il mevlo~ dell’Ade (hf 1025, El. 141), gli a[luroi e[legoi, i khvdeioi oi\ktoi (it 146 e 147), l’ai[lino~ (Ph. 1519), il mevlo~ aJrmavteion (Or. 1384) e gli inni asiatici (it 179) ; di carattere trionfale è il kallivniko~ (El. 865, Ba. 1161) ; di carattere orgiastico sono le  













arie frigie delle Baccanti (v. 159). « Raccoglitore di monodie cretesi » è definito Euripide da Aristofane nelle Rane al v. 849, e, ai vv. 1301-1303, viene accusato di prendere dovunque canti di ogni genere : le canzoni delle prostitute, i canti conviviali di Meleto, le melodie carie per auli, i lamenti funebri e le arie per le danze. Euripide è, per Aristofane, un poeta che non disdegna nulla e, ai vv. 1304-1306 delle Rane, è presentato come uno che non ha bisogno nemmeno della lira e che si accontenta anche delle nacchere. La tirata di Aristofane stigmatizza così la peculiarità della musica di Euripide, una musica nuova, nata dalla mescolanza delle forme tradizionali e popolari. Euripide compie un’operazione per certi aspetti simile a quella di Timoteo. L’anonimo autore del peri; tragw/diva~, al paragrafo 5, dice che Euripide per primo usò il genere cromatico e che si servì di un maggior numero di suoni, realizzando un tipo di melopea denominato dagli antichi musici ajnavtrhto~, cioè « sforacchiato », termine questo che evoca la metafora dei sentieri di formiche utilizzata da Ferecrate (fr. 155, 23 K.-A.) in relazione a Timoteo. In entrambi i poeti, infatti, la parola si adegua alla musica, non la musica alla parola. Dionigi di Alicarnasso (Comp. 11, 63) esaminando i vv. 140-142 dell’Oreste, mostra che la melodia non tiene conto degli accenti delle parole : sivga sivga leukovn (Dionigi legge sivga sivga per si`ga si`ga) sono cantate su una sola nota, nonostante siano tre parole che, per di più, nel parlato presentano toni gravi e acuti ; ajrbuvlh~ ha la terza sillaba in tono acuto come la precedente, cosa che non accade mai nel parlato ; tivqete ha la prima sillaba più grave, la seconda e la terza acute e omofone, per cui presenta un’inversione totale rispetto al parlato ; in ktupei`t(e) il circonflesso è scomparso (annullamento dell’acuto-grave) e le due sillabe sono cantate sul medesimo tono ; in ajpoprovbat(e) – Dionigi legge ajpoprovbat∆ per ajpopro; ba`t∆ – il tono della terza sillaba viene spostato sulla quarta. I suddetti versi sono in responsione con i vv. 153-155, che, però, non presentano la medesima posizione degli accenti delle parole. Euripide compone anche canti corali astrofici, che per la loro struttura libera offrono variazioni di tonalità ed hanno carattere mimetico. Questi canti assolvono alla funzione di separare gli episodi, come il quarto stasimo dell’Ippolito, il quarto dell’Ecuba, il secondo dell’Elena, il quarto dello Ione ed  



















esecuzione musicale il quinto delle Baccanti. In Euripide i canti corali sono meno numerosi e più brevi rispetto a quelli dei tragediografi precedenti e talvolta sono svincolati dall’azione drammatica. Più numerosi sono, invece, gli amebei fra coro e attore o fra due attori sia nella forma che vede alternarsi versi lirici e trimetri giambici sia in quella puramente lirica caratterizzata da polimetria e da assenza di uno schema definito. Frequente è l’uso delle monodie che diventano sempre più elaborate e presentano virtuosismi canori, tanto da suscitare la parodia di Aristofane (Ra. 1314 e 1349) volta a scimmiottare le fioriture melismatiche delle vocali. Con Agatone il canto del coro diventa un intermezzo (ejmbovlima) del tutto svincolato dalla vicenda drammatica (Arist. Po. 18, 1456a 29-30). Egli fu un innovatore non solo nella struttura della tragedia, ma anche nella musica. Utilizzò, infatti, per primo le armonie ipofrigia e ipodorica tipiche del ditirambo (peri; tragw/diva~ 5) e contraddistinte da carattere mimetico (Ps. Arist. Pr. 19, 30, 920a 8). Aristofane (Th. 100) paragona i suoi canti ai sentieri di formiche e lo scoliasta ad loc. aggiunge che erano molli, raffinati e pieni di tortuosità. Un processo evolutivo subì anche la commedia. Qualunque sia stata la sua origine e chiunque il suo inventore, indubbiamente il coro, costituito di ventiquattro elementi (Poll. 4, 109), ricopriva all’inizio un ruolo molto importante via via ridottosi, fino ad assumere, nella commedia nuova, la semplice funzione di dividere gli atti dell’azione drammatica. La parabasi, che era recitata, cantata e danzata dal solo coro e che costituiva l’elemento strutturale più significativo della commedia, non fu più utilizzata già da Aristofane nelle Ecclesiazuse e nel Pluto, segno evidente della diminuita importanza del coro. Aumentò invece lo spazio dei canti lirici degli attori. Le varie forme di canto spiegato ed il recitativo (parakataloghv), che come nella tragedia affiancavano la pura recitazione, erano affidati sia al coro sia agli attori. Lo strumento che accompagnava il canto era l’aulo. La danza tipica della commedia era il cordace, kovrdax, come attestano Aristosseno (fr. 104 Wehrli) e Polluce (4, 99) una danza volgare che, a giudicare da Cratino (fr. 234 K.-A.) era caratterizzata da tre figure : lo xifismov~, la danza delle spade, il podismov~, un movimento del piede ed il diarriknou`sqai, il torcersi drizzandosi. Nelle commedie Aristofane critica ed imita parodicamente le innovazioni musicali di Euri 

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pide e di Agatone, ma la sua poesia, in realtà, risente molto dell’influenza di Euripide, tanto che Cratino (fr. 342 K.-A.) lo potè accusare di eujripidaristofanivzein. Del resto, il canto dell’Upupa (Av. 227-262) è un pezzo virtuosistico che, con la varietà dei metri, riproduce la varietà del canto degli uccelli. Aristofane utilizza una varietà di componimenti, quali il peana, l’inno cletico, il prosodio, l’iporchema, il partenio, l’encomio, l’imeneo, i canti di beffa, i canti lamentosi, i canti di lavoro, il paraklausivquron, talvolta con intenti parodici, altre volte riadattandoli e trasformandoli metricamente e musicalmente. Tanta varietà comporta una grande varietà metrico-ritmica. Nelle commedie di Menandro si verifica un drastico ridimensionamento della musica e della danza, ma non tale da determinarne la scomparsa : il coro esegue intermezzi svincolati dall’argomento della commedia ; il recitativo accompagnato dal suono dell’aulo è attestato, per il Duvskolo~, dall’indicazione aujlei`, posta nel Papiro Bodmer prima del v. 880. In questa stessa commedia risulta evidente anche il ruolo della danza nei festeggiamenti per la felice conclusione della vicenda. Non mancano nemmeno esempi, seppure rari, di esametri lirici cantati (Theoph. 6-11 ; 20 ; 22 ; 26 Arnott), che si alternano con trimetri giambici (Theoph. 1-5 ; 12-19 ; 21 ; 23-25 ; 27 Arnott). Dal iv secolo a.C. si diffuse un nuovo genere di spettacolo, il teatro di intrattenimento, durante il quale un professionista, virtuoso del canto, cantava e mimava, con l’accompagnamento della cetra o dell’aulo, brani lirici e drammatici. I ritrovamenti papiracei confermano la circolazione di antologie di passi lirici tratti dalle tragedie accompagnati da notazioni musicali. La scelta antologica poteva essere operata in base a ragioni strettamente musicali, per cui si riunivano insieme canti corali secondo i gusti del pubblico, oppure poteva essere dettata dall’argomento. In questo caso le parti scelte vertevano su di un tema con valenze gnomiche ed etico-sociali. Ad esempio il PStrassb. W.G. 304-307, della metà del iii sec. a.C., offre un’antologia di canti lirici tratti dalle Fenicie, dalla Medea e da un’altra tragedia sconosciuta di Euripide e dall’Ettore di Astidamante ; il PBerol. 9772, del ii sec. a.C., contiene un’antologia di passi, tratti da poeti comici e da tragedie di Euripide, sul tema della donna. Certamente è difficile stabilire quali siano stati i fruitori di questi testi che potrebbero essere  



















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esiodo

antologie scolastiche, ma anche copioni per le compagnie teatrali, destinazione ovvia nel caso dei papiri provvisti di notazione musicale. Nel iii sec. a.C. in varie parti della Grecia si costituirono corporazioni dei cosiddetti tecni`tai (artisti) di Dioniso. Le iscrizioni relative ai Soteria delfici, feste istituite nel 279 a.C., forniscono elenchi dei membri di queste corporazioni. Sono nominati rapsodi, citarodi, citaristi, auleti, coreuti fanciulli, coreuti adulti, compagnie tragiche e comiche, ma è assente il coro tragico. Tuttavia, in decreti relativi ad altre feste, compaiono anche i cori tragici. Questa oscillazione circa la presenza o meno del coro tragico è indice, e nello stesso tempo conseguenza, del depotenziamento del canto corale e della preferenza accordata ai solisti per il loro virtuosismo, per cui anche passi composti in trimetri giambici destinati alla recitazione furono eseguiti in assolo. L’importanza sempre crescente della musica è, inoltre, documentata da Ateneo (14, 620c), il quale attesta che furono messi in musica i poemi omerici e le composizioni di Esiodo. Ciò che il pubblico ammira è l’abilità nella esecuzione, per cui i compositori, adeguandosi ai nuovi gusti, realizzano melodie ricche di modulazioni per le quali si richiede l’uso combinato di strumenti a fiato e di strumenti a corda. L’esecuzione diventa sempre più complessa con l’impiego di un numero crescente di strumentisti, come dimostrano gli Inni delfici, un prosodio ed un peana, composti da Limenio, cantati nel 128 a.C. a Delfi durante le audizioni offerte dai tecni`tai dionisiaci dell’Attica. Essi furono eseguiti con l’accompagnamento di sette cetre e di due auli (fd iii, 2 n° 47). Bélis 1988, 17, identifica il peana di Limenio con quello divenuto tradizionale ed entrato nel repertorio dei tecni`tai, eseguito in modo solenne a Delfi nel 97/96 a.C. La sua esecuzione fu senza dubbio spettacolare se si considera che il coro era composto da settantaquattro coreuti, accompagnati da cinque kiqaristaiv, da tre potikiqarivzonte~, da sei auleti, sotto la direzione di un corodidavskalo~ (fd iii, 2 n° 48). Che essa sia stata piuttosto complessa lo dimostra anche la distinzione fra kiqaristaiv e potikiqarivzonte~ (Bélis 2001, 102-104). Il numero degli strumentisti e quello imponente dei coreuti sono il segno tangibile di una trasformazione della musica. Così, il virtuosismo dell’esecuzione solistica da una parte e la realizzazione di veri e propri concerti dall’altra

costituiscono una significativa testimonianza dell’importante ruolo che la musica continuava a svolgere nella cultura greca. Bibliografia. Anderson 1994 ; Barker 2002 ; Bélis 1988 ; Bélis 2001 ; Bessi 1997 ; Borthwick 1968 ; Calame 1977 ; Cassio 1971 ; Ceccarelli 1998 ; Centanni 1991 ; Cerbo 1994 ; Cingano 1993 ; Comotti 1989a ; Comotti 1989b ; Comotti 1991 ; Dale 1950 ; Dale 1968 ; D’Alfonso 1995 ; Del Grande 1932 ; Delavaud-Roux 1995 ; Di Benedetto-Medda 1997 ; Di Marco 1973-1974 ; Di Marco 2000 ; Düring 1945 ; Gentili 1960 ; Gentili 1988 ; Gentili 1995 ; Gentili 2006 ; Gentili-Lomiento 2003 ; Gostoli 1990 ; Gostoli 1998 ; Grandolini 1996 ; Grandolini 2007 ; Grieser 1937 ; Koller 1956 ; Koller 1963 ; Kranz 1933 ; Lawler 1964 ; Lawler 1965 ; Lasserre 1954 ; Marzi 1972 ; Michaelides 1978 ; Mosconi 2000 ; Murray-Wilson 2004 ; Musti 2000 ; Pickard-Cambridge 1962 ; Pickard-Cambridge 1996; Pintacuda 1978 ; Pintacuda 1982 ; Pöhlmann 1988 ; Pöhlmann 2005 ; Privitera 1965 ; Privitera 1988 ; Restani 1983 ; Richter 1983 ; Rossi 1988; Sifakis 1967 ; Tedeschi 2002 ; West 1971b ; West 1982 ; West 1992 ; Wilamowitz 1903.  





















































































































Simonetta Grandolini Esiodo. 1. Pastore e poeta. – Stando ai dati biografici ricavabili da quanto lui stesso ci dice di sé nelle sue opere, Esiodo sarebbe stato originario di Cuma Eolica. Di lì la sua famiglia, probabilmente di nobili origini ma decaduta, si sarebbe trasferita nella cittadina di Ascra in Beozia, regione le cui risorse economiche erano confinate alla coltivazione del grano e all’allevamento del bestiame. Qui Esiodo trascorse la vita, probabilmente nella seconda metà dell’viii sec. a.C., coltivando i campi ereditati dal padre insieme al fratello Perse. Ma proprio l’eredità paterna sembra sia stata causa di contese giudiziarie tra i due fratelli : dopo un primo giudizio favorevole a Perse (forse dovuto a corruzione), che privò Esiodo di parte delle terre a lui assegnate, ebbe forse luogo un secondo processo di cui ignoriamo quale sia stato l’esito. Esiodo esercitò probabilmente il ‘mestiere’ dell’aedo : nel proemio della Teogonia, primo tentativo di sistemazione razionalistica del mondo divino attraverso il succedersi degli eventi cosmogonici e delle generazioni degli dei, egli si presenta come poeta ispirato. Ad Esiodo nell’antichità erano attribuite numerose altre opere : lo Scudo, pervenutoci integro, il Catalogo delle donne o Eoie, le Grandi Eoie,  





esiodo Ornitomanteia, Melampodia, Precetti di Chirone, Egimio, Le nozze di Keyx, Catabasi di Piritoo, Dattili Idei, Astronomia ; di tutte ci sono giunti i soli titoli o brevi frammenti, di molte si mette oggi seriamente in dubbio l’autenticità. 2. La prima opera ‘agronomica’ della civiltà occidentale. – Sullo sfondo della misera Ascra, popolata da pastori e contadini oppressi dai re « divoratori di doni », e condannati al lavoro e alla povertà, nelle Opere e i giorni (circa 800 versi) una materia ‘pratica’ e vasta, fatta di miti, precetti e istruzioni tecniche, viene per la prima volta raccolta, ordinata in un sistema coerente, e nobilitata dalla lingua e dal verso dell’epos, anch’essi per la prima volta – e già sapientemente – piegati alle esigenze dell’epica didascalica. L’opera segue gli schemi e la struttura dei poemi del vicino oriente antico che rientrano nel genere della ‘letteratura sapienziale’ e che risalgono all’incirca al iii-ii millennio a.C., rivelando un retroterra culturale orientale, mediato con tutta probabilità dalle origini micro-asiatiche del poeta : poemi sumeri come le Istruzioni di Šuruppak e le Istruzioni di Ninurta, opere accadiche come i Consigli di saggezza, composizioni egizie come le Istruzioni di Ptahhotep, le Istruzioni di Kagemni e le Istruzioni di Hordedef, presentano un impianto etico-didascalico strutturato per consigli, esortazioni e affermazioni di carattere generale, una materia tecnica, o quanto meno ‘pratica’, relativa alla condotta da tenere in determinate situazioni, e un locutore che ammaestra un interlocutore (per lo più padri che si rivolgono ai figli, o saggi che si rivolgono ai re), tutti elementi con i quali le Opere e i giorni condividono innegabili analogie, tra le quali ad esempio la continua allocuzione al fratello Perse, filo conduttore del poema. La giustizia e il lavoro, d’altro canto, sono i principali temi che si intrecciano e si dipanano lungo tutta l’opera : affetto egli stesso da circostanze private che lo avevano visto vittima dell’avidità del fratello, e in forte polemica con i grandi proprietari terrieri e i corrotti amministratori di giustizia a lui contemporanei, in una società che per giunta apprezzava unicamente la ricchezza della nobiltà e la gloria delle imprese guerriere, Esiodo esalta la giustizia, parimenti imposta a tutti da Zeus, che inesorabilmente premia chi la rispetta e punisce chi la viola, e valorizza il lavoro, la cui faticosa necessità è nobilitata da una concezione etico-religiosa che ne fa l’unica possibilità di riscatto e di vera gloria a fronte  









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delle colpe umane e del castigo divino. Dopo un breve proemio di invocazione alle Muse e a Zeus garante di giustizia, e una preliminare distinzione tra la cattiva e la buona contesa, quest’ultima da identificare con la competizione positiva che sprona il povero a emulare il ricco (vv. 1-91), nell’opera si susseguono il mito di Pandora, quello della successione delle razze (d’oro, d’argento, di bronzo, degli eroi, di ferro), esemplificativo della progressiva degenerazione umana, la favola dello sparviero e dell’usignolo, exemplum negativo di violenza e prevaricazione del più forte (vv. 47-213), quindi la vera e propria parte tecnica dell’opera, definibile propriamente erga, distinta in due sezioni, una più ampia sul lavoro dei campi (vv. 383-617) e una più breve sulla →nautica (vv. 618-691), cui seguono una serie di precetti, divieti e istruzioni sul comportamento religioso, pubblico e privato, ed infine una sorta di →calendario dei lavori, con i giorni sacri e i giorni fausti e infausti per compiere i vari lavori nei campi, le operazioni di navigazione ed altre azioni in ambito domestico-familiare (vv. 695-828). Le istruzioni tecniche impartite nella sezione propriamente dedicata all’→agricoltura riguardano, nella più ampia cornice e nell’ordine cronologico dell’avvicendamento delle stagioni, i tempi e i modi dell’→aratura (dal taglio della →legna necessaria a costruire un aratro fino alla scelta dei buoi da lavoro e degli uomini adatti), della semina, della mietitura, della trebbiatura e della →viticoltura, ed inoltre i rimedi per fronteggiare il gelo invernale e il caldo estivo. La sezione dedicata alla navigazione riguarda invece principalmente i tempi, le modalità e le stagioni adatte per praticare fruttuosamente il commercio via mare. Il binomio agricoltura-navigazione della parte tecnica dell’opera riflette probabilmente i cambiamenti economico-sociali in atto nella realtà in cui viveva il poeta : pur riconoscendo di non intendersi di navigazione, e diffidandone per i rischi da essa comportati, egli doveva tuttavia evidentemente riconoscere la crescente importanza del commercio marittimo a fronte della miseria dei contadini e dell’indebitamento degli stessi nobili.  

Bibliografia. Burn 1937 ; Cozzo 1985 ; Foraboschi 1984 ; Marsilio 2000 ; Martin 1971, 53-58 ; Nelson 1998 ; Walcot 1970 ; Wallinga 1993 ; West 1978.  













Giorgia Parlato



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esplorazioni estreme

Esplorazioni estreme. L’esplorazione verso le aree estreme dell’ecumene – rimaste, ancorché note, periferiche rispetto a una indiscussa centralità dell’area mediterranea – si svolsero prevalentemente lungo le rotte millenarie, vie di scambio privilegiate in età storica. 1. La scoperta del Nord. – Da Gibilterra verso Nord navigò Coleo di Samo che, nel vii sec., provenendo dalla Cirenaica, avrebbe raggiunto lo scalo di Tartesso alla foce del Guadalquivir (Hdt. 4, 52) mentre del focese [1] Midacrito Plinio (nat. 7, 197) dice che plumbum ex cassiteride insula primus adportavit. Il cartaginese Imilcone è considerato contemporaneo di Annone ancora da Plinio (nat. 2, 169), che ne fissa la data a un periodo di floridità economica di Cartagine (v sec. a.C.). Imilcone navigò dalla fenicia Gadir-Gades (od. Cadice) sulla rotta dell’argento iberico e dello stagno della Cornovaglia. Fu il primo a raggiungere le isole Oestrymnides, localizzabili nell’area del Finisterre bretone, secondo la testimonianza di R. Festo Avieno (iv sec. d.C.) che, a tre riprese (vv. 114-129 ; 380389 ; 406-415) nell’Ora maritima, cita Imilcone. Questi avrebbe narrato di aver navigato per circa quattro mesi sull’Atlantico finché difficoltà insormontabili (mancanza di vento, bassi fondali, presenza di alghe e di mostri marini) avrebbero posto fine all’impresa. I problemi di interpretazione del testo avieneo, considerato da alcuni la rielaborazione più o meno stratificata (Antonelli 1998, 71-84) di un antico periplo massaliota (Schulten 1955, 43 sgg. ; Peretti 1979, 25 sgg.), da altri un mero centone (Berthelot 1934, 132 sgg. ; González-Ponce 1995, 95 sgg.; Id. 2008, 75-115), non impediscono di cogliere in esso la traccia di antiche informazioni atlantiche e di intermittenti livelli di conoscenza, correlabili alla politica di Cartagine tesa al monopolio delle rotte e dei commerci marini. Della vita di Pitea di Massalia, il quale riprese e ampliò il viaggio di Imilcone, nulla è noto anche per la censura messa già in atto da Polibio e amplificata da →Strabone, nei confronti dell’incredibile impresa giunta « ai confini del mondo » (Str. 2, 4, 2 = fr. 21 Bianchetti). La personalità di P., astronomo prima che navigatore, è ricostruibile esclusivamente dall’opera. Il libro di Pitea, L’oceano, ci è pervenuto in una manciata di frammenti ed è frutto di una humus scientifica improntata dalla personalità  













di →Eudosso di Cnido. Questi aveva tentato di rispondere al quesito posto da →Platone ai matematici e che consisteva nel trovare ipotesi in grado di « salvare, attraverso i moti circolari e uniformi, i fenomeni osservati relativamente ai pianeti ». [2] Nei Fenomeni Eudosso insegnava infatti a leggere la sfera celeste mediante un modello geometrico consistente in sfere omocentriche e nel quale gli astri erranti (planetes) si muovevano a velocità non uniforme lungo orbite concentriche alla terra. L’assimilazione eudossiana del cielo a una sfera – sphairopoiia o geometria della sfera è infatti detta l’→astronomia dai Greci – consentiva di tradurre in geometria i problemi astronomici, come si ricava da →Euclide che, nella I Proposizione, assimilava la terra al centro della circonferenza-cosmo, rendendo così possibile lo studio del cosmo mediante i teoremi della geometria piana. La formazione scientifica di P. emerge nel fr. 1 (= Hipparch. In Arat. 1, 4, 1) nel quale è contenuta la « correzione » della posizione del polo nord di Eudosso, contestata su base geometrica. Quella che si può considerare la prima diorthosis-correzione in senso scientifico consente di datare l’opera del massaliota successivamente a quella di Eudosso (la cui akme si fissa intorno alla metà del iv sec.). La ricerca di P. risulta nota a Dicearco (Str. 2, 4, 2 = fr. 111 Wehrli), allievo di →Aristotele, che alla fine del iv sec. ne contestava i risultati, e a Timeo di Tauromenio (Diod. 4, 56 = FGrHist 566 F 85), il quale faceva navigare gli Argonauti, di ritorno dalla conquista del vello d’oro, su una rotta che sembra ricalcare quella piteana, dal Tanais a Gades e poi fino a Gibilterra e al Mediterraneo. È anche verosimile che lo scritto piteano fosse noto agli storici di Alessandro della prima generazione, i quali sembrano aver riletto le imprese del macedone in un quadro geografico dilatato verso le aree settentrionali rese note dall’opera del massaliota. Per →Strabone (11, 7, 4) sarebbero stati gli adulatori di Alessandro – e in particolare Policleto di Larissa, alessandrografo della prima generazione – a chiamare Tanais il Iassarte raggiunto dal sovrano e a dare inizio a una propaganda – iniziata con Clitarco (Goukowski 1978, 149-165) – che mirava alla costruzione e alla diffusione del mito di Alessandro-kosmokrator. Il fatto poi che →Tolomeo affermi (Geog. 3, 5, 12) che Alessandro aveva innalzato altari nel punto più settentrionale da lui raggiunto e fissato a un  









esplorazioni estreme Tanais la cui latitudine (63° 53’) coincideva con l’estremo settentrionale dell’ecumene (Thule) scoperto da P., permette di intravedere gli esiti di quella sovrapposizione tra le spedizioni del macedone e quella di P., che già gli storici di Alessandro avevano messo a punto e che →Eratostene criticava (Str. 11, 7, 4). È dunque verosimile che l’opera piteana circolasse già nell’ultimo quarto del iv sec. e che l’esplorazione si fosse svolta negli ultimi anni di Alessandro al quale riporta il desiderio di conoscenza sull’effettiva estensione della terra e dell’oceano, le cui acque definivano i confini del mondo e quelli della sua eventuale conquista. Il titolo dell’opera, L’oceano, è tramandato da Gemino e da Cosma Indicopleuste. [3] Difficile ricavare dagli scarsi frammenti giuntici l’impianto del racconto che, secondo Marciano di Eraclea (ggm i, 565, 23 = fr. 23), era un periplo, del quale manteneva il criterio unidimensionale e la misura delle distanze in giorni e notti di navigazione per trasformare, in realtà, il diario di bordo in una sorta di dimostrazione empirica delle leggi della sphairopoiia secondo le quali i fenomeni atmosferici mutavano in relazione all’aumento della latitudine. Proprio la centralità dell’Oceano inserisce l’opera nel filone di ricerca – iniziato a Mileto nel vi sec. – sull’Ozeanfrage e cioè sul rapporto terre-mare dal quale dipendeva direttamente il quesito dell’estensione della terra abitata e della sua forma. →Aristotele immaginava nei Meteorologica [4] che la terra abitata fosse localizzata nella sezione della sfera compresa tra equatore e un circolo artico fissato in rapporto a Rodi e che si estendesse tra il tropico del cancro (24° N) e il 54° N, dove era fissato il circolo artico dei Greci. Si tratta di una concezione derivata dalla scansione della sfera terrestre in zone – di probabile matrice parmenidea – e destinata a godere di fortuna ancora con Strabone che ritiene inabitabili le terre oltre Ierne-Irlanda. La sfida di P. consiste nel verificare autopticamente quelle leggi della sfera che consentono di stabilire un valore assoluto anche per il circolo artico, fissato a 66°, e che giustificano i fenomeni – tutt’altro che misteriosi – osservabili alle latitudini più settentrionali : il cammino del sole sulla banda dello zodiacoeclittica provoca infatti la diversa durata del giorno e della notte, che è massima nei giorni dei solstizi. La diversa lunghezza degli archi di circonferenza percorsi dal sole varia in relazio 



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ne alla latitudine : a 66°, dove il tropico è tangente all’orizzonte e coincide con il circolo delle stelle sempre visibili, nel solstizio, il sole compie tutta la sua rivoluzione sopra l’orizzonte provocando il fenomeno del sole a mezzanotte. Al di sopra di questa latitudine il sole resta sull’orizzonte una o più settimane, fino ai sei mesi che caratterizzano la latititudine del polo, cioè 90°. Se quindi la durata del rapporto tra il giorno più lungo e quello più corto varia in relazione alla latitudine, ne consegue che questa potrà essere misurata in relazione alla durata del giorno, computata con l’ora equinoziale (= dodicesima parte del giorno – o della notte – equinoziale, quando il sole si trova nei punti di intersezione tra eclittica ed equatore, e giorno e notte hanno la stessa durata). L’altezza del sole nel solstizio d’inverno, la durata del giorno più lungo e la distanza da Massalia sono i tre criteri di misurazione della latitudine (klima) che Strabone attribuisce a Ipparco [5] e che risalgono, almeno in parte, a un sistema che per l’Europa settentrionale fa capo a P. Questi doveva aver computato le tappe del viaggio in giorni e notti di navigazione e doveva aver annotato anche, per i diversi luoghi toccati, l’altezza del sole nel solstizio invernale e la durata del giorno solstiziale estivo : l’aumento della durata del giorno in estate e la diminuzione dell’altezza del sole nel mezzogiorno invernale verso nord sono infatti due fenomeni, che non potevano essere sfuggiti a chi aveva ‘corretto’ la posizione del polo. La successiva conversione delle distanze in stadi, operata da →Eratostene che costruì sui dati piteani la carta di un’ecumene estesa fino a 66° N, e la obiettiva sfasatura di circa 2°, tra la definizione delle latitudini computate in base alla distanza in stadi da Massalia e quella in base a coordinate astronomiche, permette di intuire i livelli di rielaborazione cui la ricerca piteana fu sottoposta e che, nella testimonianza di Strabone (2, 1, 18), risulta criticata anche per la difficoltà di verifica dei dati. Il fatto comunque che Strabone riferisca in particolare le osservazioni riportate a tre latitudini nordiche (54° ; 58° ; 61°) lascia intravedere il metodo di P., che traduceva in precise coordinate astronomiche i diversi « livelli di nordicità » osservati nel viaggio. Di queste notazioni Eratostene e →Ipparco, geografi ‘scienziati’, si sarebbero serviti per giungere a quella tabella di klimata-latitudini che, partendo dalla equivalenza ipparchea 700 stadi = 1° (risultato della divisione della cir 











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conferenza terrestre – 252.000 stadi – per l’angolo giro di 360°), consentiva di scandire le latitudini dei luoghi distanti 700 stadi l’uno dall’altro, dall’equatore al polo. Partito da Massalia, P. dovette dirigersi verso le Colonne d’Eracle di Gibilterra. Mancano in realtà testimonianze relative a questa prima parte del viaggio che si sarebbe svolta, per alcuni studiosi, per via di terra a causa del blocco dello Stretto conseguente al secondo trattato romanocartaginese e che avrebbe coinvolto anche i Massalioti, alleati dei Romani. Oggi si concorda (Scardigli 1991, 89-127) tuttavia sul fatto che che le fonti non parlano di un blocco conseguente al trattato del 348 ; appare perciò probabile che la missione abbia seguito, fin dall’inizio, la via del mare. In particolare la distanza Massalia-Colonne (7000 stadi) che →Strabone [6] attribuisce a →Eratostene, contrapponendo il dato dell’alessandrino a quello di Polibio (che aveva parlato di 9000 stadi per lo stesso tratto), sembra rifarsi a P. al quale Eratostene a più riprese attinse. Il passaggio delle Colonne segna dunque l’inizio di una avventura che si svolge sulla rotta dello stagno, nota ai mercanti, custodi di antiche conoscenze nautiche, e già percorsa dal cartaginese Imilcone fino alle isole Oestrimnydes. Strabone, [7] che ci trasmette gran parte dei frammenti, dice che da Gades, dove furono effettuate importanti osservazioni sulle maree, P. puntò al Promontorio Sacro (Capo S. Vicente), il cui aggetto sull’oceano fu rilevato dal massaliota e correlato con quello degli altri promontori iberici che sembravano in qualche modo delineare una linea sovrapponibile a un meridiano in nuce. Dalla Penisola Armoricana, P. si diresse verso il Capo Belerion (Land’s End), cioè verso la Britannia della quale precisò il perimetro e i nomi degli altri due capi – Cantion (North Foreland) e Orcas (Capo Duncansby) – che delineavano la forma triangolare dell’isola visitata « in tutti i suoi luoghi accessibili ». [8] Gli studiosi non sono concordi [9] sull’itinerario del massaliota che per alcuni potrebbe aver seguito il lato meridionale dell’isola e poi quello orientale, mentre per altri potrebbe essersi svolto in senso antiorario. Altri hanno poi ipotizzato una rotta che, dal lato occidentale della Britannia, avrebbe puntato su Capo Orcas e Thule. A favore di questa ipotesi vanno le tracce di una descrizione di Ierne-Irlanda che potrebbe costituire la tappa successiva alla sosta al Capo Belerion nonché le osser 









vazioni sulle maree di Capo Orcas, in un racconto che sembra seguire la barra di un timone volta costantemente a nord. Questa rotta, tenacemente perseguita, spiega le coordinate di Thule, localizzata in relazione alla Britannia e considerata l’isola dove « il tropico estivo si identifica con il circolo artico », [10] a sottolineare il raggiungimento attraverso la via più rapida – quella dello stagno – di una meta intesa come l’estrema propaggine dell’Arcipelago Britannico. Thule è stata diversamente identificata : una delle Shetland, l’Islanda, le isole Fär Øer, la Finlandia, un fiordo norvegese a favore del quale può andare la contiguità con terre che si estendevano ancora oltre « dove il sole andava a dormire » 11] e delle quali i compagni di P. ricevettero lì informazioni. A un giorno di navigazione dall’isola P. osserva il « mare congelato », [12] identificabile probabilmente con il mare del Nord, e riguadagna di qui la punta settentrionale della Britannia, costeggiata poi nel suo lato orientale fino al Cantion. Con quella che costituisce la sezione britannica si chiude la parte del racconto segnata da un filo conduttore costituito dallo stagno e che si annoda poi a un altro filo costituito dall’ambra, il cui commercio costituiva la ricchezza dell’Europa nord-orientale : la via dell’ambra sembra saldarsi infatti nel racconto piteano a quella dello stagno in una sorta di corona che circonda le coste dell’Europa settentrionale. Nonostante i tentativi di chi ha fatto arrivare P. al Mar Baltico, [13] connettendo i riferimenti di alcuni Frammenti all’ambra baltica, appare più verosimile pensare che P. si sia fermato al M. del Nord, la cui ambra risulta nota – a differenza di quella baltica – già prima dell’età di Nerone. In questo senso pare andare il riferimento riassuntivo, riportato da Strabone (2, 4, 1 = fr. 8d), a un viaggio lungo la costa oceanica tra Gades e il Tanais. Questo fiume, che sfociava nel Ponto Eussino e non nell’Oceano, doveva avere nel racconto piteano un significato che ritorna in Timeo, il quale faceva navigare gli Argonauti sul Tanais fino all’Oceano e di qui proseguire fino a Gibilterra. Il Tanais di P. sembra in sostanza la prosecuzione della linea del fiume che segnava il confine Europa-Asia e che era immaginato allineato con un altro fiume (l’Elba ?), la cui foce oceanica segnava l’ultima meta del viaggio, in senso longitudinale. Si tratta di un tentativo di precisare il punto della parokeanitis raggiunto e indi 























esplorazioni estreme cato con il nome di un fiume – il Tanais – noto per la sua valenza politica. Utilizzando il Tanais – il cui andamento longitudinale torna nella carta di Eratostene – è probabile che il massaliota volesse indicare la continuazione della linea del corso del fiume fino all’Oceano e suggerire così una sorta di linea parallela a quella segnata dai promontori lusitani. Tra questi due meridiani in nuce si era svolta la sua esplorazione (Bianchetti 2004, 1-10). 2. La scoperta del Sud. – Contemporanea a quella di Imilcone e diretta invece verso sud sarebbe stata secondo Plinio (nat. 2, 169) l’esplorazione di Annone. Erodoto, che nel iv libro cita una serie di testimonianze a dimostrazione che l’Africa-Libye era circondata dal mare, non menziona invero il cartaginese. Lo storico afferma che Sataspe, nipote di Dario, per aver violentato una fanciulla fu condannato da Serse a fare il giro della Libye. In un periodo compreso tra il 478 – quando viene sottratta ai Persiani Samo da cui proviene lo schiavo fonte diretta di Erodoto – e il 465, data di morte di Serse, si svolse dunque l’impresa che portò il persiano a varcare le Colonne d’Eracle e a navigare lungo la costa africana per diversi mesi, fino a scoprire « luoghi abitati da uomini piccoli che usavano vestiti di foglie di palma, i quali quando essi (scil. Sataspe e i suoi) approdavano con la nave, immancabilmente fuggivano sui monti, abbandonando i loro paesi ». Sataspe, tornato in patria, confessa al suo sovrano di non aver potuto portare a termine la missione perché la nave si era bloccata. L’impossibilità di navigare a latitudini estreme è, in realtà, un topos che ricorre nei diversi racconti e che nasce forse dal tentativo cartaginese di non alimentare iniziative competitive nei traffici di materie preziose (lo stagno a nord, l’oro, l’avorio e i legni pregiati a sud). Erodoto cita quella che pare un’autogiustificazione di Sataspe ma che non legittima il fallimento di quella circumnavigazione che lo storico considera possibile, essendo la Libye perirrhytos, cioè circondata dal mare. Già l’impresa dell’egizio Neco (faraone tra il 610 e il 595) andava, per Erodoto, in tal senso : navigando infatti sul Mar Rosso e poi lungo quello meridionale, i Fenici di Neco sarebbero rientrati nel Mediterraneo da occidente con un viaggio durato quasi tre anni e che tratteggiava la sagoma tringolare – scandita dai tre mari citati – di quel continente africano che ancora Eratostene avrebbe così immaginato.  





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Gli esploratori avrebbero poi raccontato che « mentre giravano intorno la Libye, avevano avuto il sole alla loro destra ». Lo scetticismo di Erodoto è condiviso da parte dei moderni ( Janni 1978, 87-89 ; Desanges 1978, 7-16) che considerano il racconto erodoteo incoerente con l’idea dell’estensione del continente africano da parte dello storico, il quale difendeva tuttavia la circumnavigabilità di una Libye che sarebbe stata bagnata da un oceano australe. Erodoto, che non menziona Annone, cita « i Cartaginesi » (4, 43) a conferma di una Libye-perirrhytos : nell’espressione si potrebbe cogliere, invero, un riferimento a quell’Annone del quale la tradizione manoscritta ci ha tramandato un Periplo (cod. di Heidelberg del ix sec.) che dovrebbe essere la traduzione greca dell’originale depositato dal suffete a Cartagine al ritorno dal viaggio. Attendibilità del testo, fedeltà all’eventuale originale, paternità della traduzione, data di pubblicazione della versione greca sono problemi a tutt’oggi irrisolti e con i quali si deve confrontare la qualità dell’informazione contenuta nei pochi paragrafi dell’opera (González-Ponce 2008, 77-115). Essa pare nota a Palefato (fine iv sec.), all’anonimo compilatore del De mirabilibus auscultationibus pseudoaristotelico e gode di notorietà soprattutto tra il i sec. a.C. e il i d.C. Mela e Plinio, in particolare, citano Annone in due versioni indipendenti, delle quali quella di Mela pare derivare da Cornelio Nepote e confermare l’elaborazione/fraintendimento cui, soprattutto in contesti mitografici, fu sottoposto il riferimento – che costituisce peraltro un hapax nella nostra tradizione – alle femmine di gorilla, divenute Gorgades-Gorgoni, con una evidente banalizzazione dell’originale gorivlla (Bianchetti 1989, 235-247). La peculiarità di alcune informazioni e la verosimile utilizzazione dei dati contenuti nel Periplo (v. l’isola di Cerne) da parte di Eratostene lasciano intravedere perciò un’opera che, al di là degli echi e delle inevitabili reinterpretazioni in chiave mitografica (soprattutto da parte di autori come Dionisio Skytobrachion, vissuto nel i sec. a.C.), descrisse, in termini risultati attendibili (vulcani, pigmei, gorilla), realtà ignote ai Greci fino al iv sec. Non abbiamo elementi per fissare l’esplorazione di Eutimene di Marsiglia prima o dopo quella di Annone : il fatto che Elio Aristide, autore di un Discorso egizio composto in età antoniniana, affermi che Eforo dipendeva da Eutimene per  













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il problema delle piene del Nilo e il fatto che lo stesso Aristide citi le acque dolci dell’Oceano in contrasto con le descrizioni dei Cartaginesi che « pure avevano navigato oltre Gades e fondato città nelle regioni deserte della Libia » può far pensare a un’allusione alla traduzione greca dell’opera di Annone, già nota a Eforo che, in effetti, cita Cerne (Plin. nat. 6, 198). L’opera di Eutimene, che faceva derivare il Nilo dall’Oceano, considerato causa ultima delle piene del fiume, presenta analogie con quella piteana nella spiegazione delle maree causate dalla luna (Gal. Hist. phil. 88, in Diels 1879, 634) e una vicinanza cronologica alle concezioni eforee (sottolineata da Elio Aristide) che non consentono di escludere una cronologia bassa (iv sec.). [14] Il binomio Eutimene-Pitea affiancherebbe in questo caso quello Annone-Imilcone a sottolineare, da un lato, la matrice focese della scoperta della via dell’oro e, dall’altro, quella cartaginese per la via dello stagno. 3. La scoperta dell’Oriente. – A seguito della conquista del regno di Lidia da parte di Ciro il Grande (546 a.C.) i Greci d’Asia, divenuti sudditi del Gran Re, parteciparono a quel grande progetto di conquista del mondo cui si legarono anche i primi tentativi di « disegnare » carte. Scilace di Karianda (presso Alicarnasso), ammiraglio di Dario I, fu da questi incaricato (tra il 519 e il 513) di esplorare l’Indo, partendo da Kaspatiros, sul Kophen-Kabul, per scendere verso oriente e poi fino al mare. Navigando quindi sull’Oceano verso occidente per circa trenta mesi Scilace e i suoi sarebbero giunti in Egitto, da dove era partito Neco. « Dopo che costoro ebbero compiuto il viaggio, Dario assoggettò gli Indi e si servì di questo mare. Così anche dell’Asia, tranne le regioni verso oriente, per tutto il resto si è scoperto che è simile alla Libia », afferma Erodoto (4, 44) che descrive, nel iv libro delle Storie, le esplorazioni che dimostravano quell’insularità dell’ecumene che i filosofi ionici avevano teorizzato e che lo storico condivideva. La narrazione di Scilace, giuntaci in pochi frammenti, è stata contestata da Berger (19032, 73 n. 1) il quale rilevava l’erronea direzione del primo tratto dell’Indo, che scorre in effetti verso sud, nonché il silenzio sul Golfo Persico da cui dipenderebbe la non corretta idea erodotea del Golfo Arabico-Mar Rosso. Se a queste critiche si può obiettare che Scilace può aver percorso l’affluente di destra dell’Indo, noto come Kophen e rivolto verso est fino alla confluenza  













con l’Indo, nonché il fatto che Erodoto può aver ricavato – forse indirettamente – da Scilace informazioni parziali sul Mar Rosso, va altresì notato che Ecateo di Mileto riporta già notizie sulla pianta kynara e su aspetti dell’idrografia e orografia indiana che sono presumibilmente riconducibili a Scilace. Sulla rotta di Scilace, ancora in un binomio che sembra confermare e integrare i dati dell’esplorazione più antica, naviga Nearco, compagno d’arme di Alessandro e ammiraglio della flotta inviata a esplorare l’Oceano Indiano. Del diario di bordo, successivamente rielaborato in un’opera letteraria intrisa di reminiscenze omeriche, abbiamo un riassunto nell’Indiké, che costituisce la parte finale dell’Anabasi di Arriano. È in particolare la seconda parte dell’Indiké (§§ 18-43) quella che contiene il racconto di viaggio diviso, a sua volta, in due parti : la prima che segue la navigazione oceanica dalla foce dell’Indo fino al porto di Harmozeia, sulla costa della Carmania, la seconda che arriva al Golfo Persico e a Susa. La cesura tra le due parti è segnata dall’incontro in Carmania tra Nearco e Alessandro (§§ 33-35) che, riconoscendo l’amico provato da esperienze odissiache, conferma ufficialmente la sua fiducia all’ammiraglio. Questi contrasta perciò le obiezioni di Onesicrito, comandante in seconda, sulla rotta da seguire nel Golfo Persico e raggiunge Susa, dove si riunisce con il resto delle forze macedoni. L’incontro con le balene, lo sbarco nell’isola del Sole dove si diceva che una Nereide trasformasse i marinai in pesci e tutte le difficoltà legate a un viaggio lungo coste ignote e all’impatto con i popoli più diversi (Ittiofagi, etc.) scorrono in una descrizione che del periplo conserva il criterio unidimensionale e la misurazione delle distanze in giorni e notti di navigazione, ma che si connota di una originalità che è il segno della duttilità di un genere (periplografico), plasmabile in relazione alla personalità dell’autore. Il titolo dell’opera nearchea – verosimilmente Paraplo-navigazione costiera dell’India con riferimento alla navigazione dall’Indo all’Eufrate ­– risponde a una doppia esigenza, di ordine politico e letterario. Se infatti, come probabile, l’opera trovò la sua forma definitiva dopo la morte di Alessandro, si potrà anche pensare che essa rientrasse in una rilettura globale dell’intera avventura orientale e che fosse suggestionata, almeno in parte, dalle diverse versioni sulla morte del sovrano, alcune delle  

esplorazioni estreme quali coinvolgevano i suoi più stretti collaboratori. [15] L’importanza del resoconto scritto da un militare-geografo si coglie nella ricchezza dei dati : la precisione delle coordinate astronomiche, l’individuazione di realtà geografiche fino allora incerte (vd. il Golfo Persico e la Penisola Arabica), la probabile messa a punto di un sistema frazionato della nychthemeria (= un giorno e una notte di navigazione equivalente circa a 1000-1300 stadi : Peretti 1979, 35) sembrano confluire nel disegno delle sphragides orientali di Eratostene che molto debbono agli esploratori di Alessandro, in particolare a Nearco (Geus 2002, 269). La tradizione[16] ci conserva anche i nomi di Archia di Pella e Androstene di Taso (entrambi trierarchi dell’Idaspe) che nel 324/3 navigarono nel Golfo Persico, e quello di Ierone di Soli che nell’estate 324 fu incaricato di circumnavigare la Penisola Araba, entrare nel Mar Rosso e giungere fino a Suez. La spedizione, incompiuta, rientrava nel progetto di circumnavigazione dell’Arabia messo a punto dal Macedone (dic. 325-estate 324) di concerto con Nearco, al quale si deve verosimilmente la definizione di « Golfo Persico » con la conseguente precisazione del concetto di Penisola Araba. L’importanza del commercio con l’Oriente, fonte di inesauribili ricchezze indispensabili ai progetti di conquista, costituisce un nodo essenziale dell’economia ellenistica che trasse grande vantaggio dall’utilizzazione del monsone nella rotta delle spezie che collegava l’India all’Africa. La nostra tradizione – Strabone (2, 3, 4-5) in particolare – connette a Eudosso di Cizico la scoperta della via dell’India e l’utilizzazione di quei venti periodici che, rendendo possibile la navigazione d’altura, ridussero la durata e i rischi di viaggi altrimenti soggetti alla pirateria e ai balzelli delle popolazioni arabe. È in realtà →Posidonio a narrare gli eventi appresi durante il soggiorno a Gades (fine ii sec. a.C.) e ripresi poi dal geografo augusteo nel contesto dell’Ozeanfrage, risolta già da Eratostene nel senso della circolarità dell’oceano. Eudosso aveva tentato quattro volte di navigare alla volta dell’l’India partendo, le prime due volte da Alessandria con il sostegno dei Tolemei, [17] poi da Pozzuoli passando da Marsiglia e da Gibilterra, infine dall’Iberia dove non era ancora tornato quando →Posidonio raccolse notizie sull’impresa. Che questo mancato Vasco da Gama dell’antichità sia stato effettivamente lo scopritore della rotta oceanica che univa il Corno d’Africa  











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all’India è stato sottolineato dai moderni i quali hanno riferito la menzione di Ippalo del Periplo del Mar Rosso, 57 (su cui Casson 1984, 473-479 ) al pilota di Eudosso : da esso avrebbe preso infatti nome il vento di sud-ovest. Nonostante le obiezioni di chi (Mazzarino 1982-1987, vii-xiv, seguito da De Romanis 1992, 248-250) riteneva Ippalo non un nome proprio ma un aggettivo (u{faloı = «vento da sotto mare») indicativo del vento proveniente dal mare, cioè da sud-ovest, è verosimile che con Ippalo, come con Eudosso, la tradizione identificasse il momento in cui l’utilizzazione dei monsoni, già nota ad →Aristotele (Mete. 2, 363 a) e a Nearco (Arr. An. 6, 21 ; Ind. 21), ricevette un netto impulso, determinato dall’infittirsi dei traffici con l’Oriente. La rotta delle spezie produsse di fatto un notevole ampliamento degli orizzonti geografici : nella Geografia (1, 9 su cui Aujac 1993, 326-330) →Tolemeo descrive la navigazione di un certo Diogene che, spinto dal monsone di N.E., salpò dall’India per giungere al c. Rhapta (presso Dar es Salaam) mentre un tal Teofilo avrebbe seguito la direzione inversa spinto dal vento del Sud e Dioscoro avrebbe valutato in 5000 stadi la distanza tra Rhapta e c. Prasone (forse Capo Delgado). Si tratta di esplorazioni alle quali le fonti danno un nome – quello del navigatore – ma che sembrano strettamente funzionali, almeno nella Geografia, alla definizione della lunghezza e della larghezza dell’ecumene, diversamente computate da Marino di Tiro e da Tolemeo. La tensione verso la carta, già intravista con Erodoto, evidente in Eratostene e Tolemeo, influenza in sostanza la lettura delle esplorazioni che vengono inserite in un quadro geografico preventivamente orientato e debitamente corretto in relazione a quello del predecessore. Diverso da questi il caso del monaco alessandrino Cosma Indicopleuste (ca. 540 d.C.), che doveva il soprannome a un ipotetico viaggio verso l’India dove, in realtà, non sembra essere mai giunto. Nella Topografia cristiana (in 12 libri) Cosma tratteggiava una carta dell’ecumene immaginata distesa sulla base rettangolare del tabernacolo cui era assimilato il cosmo [18] e costruita sull’idea eforea dei quattro popoli che bordavano i lati della figura (Etiopi e Sciti sui lati lunghi, Indi e Celti su quelli corti). La rivendicata esperienza personale doveva, in questo caso, avvalorare la ricostruzione, fondata peraltro su informazioni superate (di matrice eforea) e tesa a dimostrare l’attendibilità del Genesi. Anche le navigazioni verso le aree  





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nord-orientali sono inserite, nella nostra tradizione, all’interno dell’Ozeanfrage che investe, nel caso specifico, il problema della forma del mar Caspio, considerato un golfo dell’Oceano dalla dottrina ionica e dallo stesso Eratostene, seguito da Tolemeo, un mare chiuso da Erodoto, forse sulla scorta di informazioni di matrice persiana, e da Aristotele. Alessandro (Plu. Al. 44) aveva inviato un certo Eraclide a verificare la conformazione del Caspio senza riuscire a dirimere il problema, se è vero che Patrocle fu inviato con la stessa missione da Seleuco I Nicatore. [19] L’esploratore descrisse il Caspio come un golfo probabilmente perché giunse a esplorare solo le regioni sud-occidentali (forse fino a Baku) e sud-orientali (fino al Golfo di Kara Bogaz) e intese il restringimento compreso tra le due aree come un istmo che univa le acque del Caspio a quelle dell’Oceano. Strabone (11, 6, 1) riporta una descrizione che salda quella di Patrocle, relativa alla sezione meridionale del Caspio, con l’esposizione di chi era giunto – evidentemente navigando nell’Oceano settentrionale – da nord e si trovava sulla destra e contigui agli Sciti e ai Sarmati d’Europa, gli Sciti e i Sarmati, in gran parte nomadi, che vivono tra il Tanais e il Caspio. A sinistra individuava, invece, gli Sciti orientali, anch’essi nomadi, che si estendono fino al mare orientale e fino all’India. Nell’esposizione straboniana vengono chiaramente a saldarsi i dati provenienti da Patrocle e quelli rielaborati da Eratostene in funzione di una carta che tratteggiava anche la costa nord-orientale dell’Asia, immaginata come la lama di un coltello da cucina. Quanto la testimonianza di Strabone, peraltro critica nei confronti di Eratostene che aveva utilizzato Patrocle per disegnare la carta, possa effettivamente riportare del racconto dell’esploratore è difficile dire anche perché l’assunto condiziona – qui come altrove – l’esposizione che rischia di riportare i dati selezionati in rapporto alla tesi da dimostrare. Sempre all’interno dell’Ozeanfrage rientra la testimonianza di Mela (3, 45) sull’episodio riportato da Cornelio Nepote e tratto dall’esperienza di Quinto Metello Celere, che avrebbe avuto in dono da un rex Boiorum/Botorum (Sueborum in Plin. nat. 6, 52) due Indiani giunti dal loro paese in Germaniae litora. Le testimonianze di Mela e →Plinio – risalenti entrambe a Cornelio Nepote – suscitano quesiti di difficile soluzione sulla storicità dell’evento e sull’eventuale genesi di una costruzione  

che Biffi (2003, 146-153) riconduce a invenzioni di Nepote, dettate dalla teoria della circolarità dell’Oceano di matrice posidoniana. La notizia della navigazione oceanica dall’India alla Germania – della cui storicità è lecito dubitare – va verosimilmente letta in rapporto con il racconto dell’esperienza di Eudosso di Cizico, narrata anch’essa da Mela (3, 92) e da Plinio (nat. 2, 169 ; 6, 188), oltreché da Strabone. I due racconti lasciano intravedere infatti una organizzazione speculare dei contorni dell’ecumene, nella quale alla costa africana sud-occidentale corrisponde quella asiatica nord-orientale. Anche in questi casi, dunque, come già in quelli descritti da Erodoto, la sottesa concezione dell’ecumene e delle sue singole parti sembra quasi dettare un’esposizione che disegna, con le rotte degli esploratori, le linee di continenti già tratteggiate per via teorica.  

Note. [1] Sull’importanza dei Focesi nella « scoperta » dell’estremo Occidente cfr. da ultimo Antonelli 2008 con ampia bibliografia. – [2] Simpl. In Arist. de caelo 493, su cui cfr. Lloyd 1993, 435-474. Su Eudosso : Lasserre 1966, passim ; Repellini 1985, 126-162. – [3] Gem. isag. 6, 8-9 = fr. 13a ; Cosma Ind., top. chr. 2, 80 = fr. 13b, su cui Bianchetti 1998, 189192. – [4] Arist. Mete. 2, 5, 362b, su cui Aujac 1987, 145. – [5] Fr. 58 Dicks = Pyth. fr. 11 = Str. 2, 1, 18, su cui Bianchetti 1998, 180-182. – [6] Str. 2, 4, 4, su cui vd. Prontera 1996, 334-341. – [7] Str. 1, 4, 5 = fr. 6a su cui Bianchetti 1998, 126- 133 per i problemi della rotta. – [8] Str. 2,4,1 = fr. 7b – [9] Sulle diverse ipotesi cfr. Bianchetti 1998, 58-62. – [10] Frr. 8c = Str. 2, 5, 7-8 ; 8d = Str. 2, 4, 1 ; 8e = Str. 4, 5, 5 ; 8f = Plin. nat. 4, 104. – [11] Frr. 13 a = Gem. isag. 6, 8-9 ; 13 b = Cosma Ind. top.chr. 2, 80. Sulle diverse localizzazioni di Thule vd. Bianchetti 1998, 61-62. – [12] Frr. 8a = Str. 1, 4, 2-5 ; 8f = Plin. nat. 4, 104, su cui Bianchetti 1996, 73-84. – [13] In questo senso Magnani 2002, 225-233 con bibliografia. – [14] In questo senso Bianchetti 2002, 442-447. Per una datazione al vi sec. a.C. cfr. Desanges 1978, 17-27 ; Peretti 1979, 42-54. – [15] Zambrini 2007, 212-215 con riferimenti bibliografici. – [16] Arr. An. 7, 20 ; cfr. Ind. 43 : Högemann 1985, 89 ss. ; Sisti-Zambrini 2004, 637-638. – [17] Sulla cronologia dei viaggi di Eudosso : Laffranque 1964, 167 ; Desanges 1978, 151-173. – [18] Wolska-Conus 1962, 245-271 ; Ead. 1968, 396-397. – [19] Str. 11, 6, 1 ; Neumann 1884, 165-185.  



































Bibliografia. Antonelli 1998 ; Antonelli 2008 ; Aujac 1966 ; Aujac 1987 ; Aujac 1993 ; Aujac 2001 ; Berger 1966 ; Berthelot 1934 ; Bianchetti 1989 ; Bianchetti 1996 ; Bianchetti 1998 ; Bianchetti 2002 ; Bianchetti 2004 ; Biffi 2003 ;  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

euclide Cadelo 2009 ; Casson 1984 ; De Romanis 1992 ; Desanges 1978 ; Dicks 1960 ; Diels 1879 ; Franco Repellini 1985 Geus 2002 ; Gonzàlez-Ponce 1995 ; Goukowski 1978 ; Högemann 1985 ; Janni 1978 ; Janni 1984 ; Laffranque 1964 ; Lasserre 1966 ; Lloyd 1993 ; Magnani 2002 ; Mazzarino 1982-87 ; Neumann 1884 ; Peretti 1979 ; Prontera 1996 ; Scardigli 1991 ; Schulten 1955 ; SistiZambrini 2004 ; Wehrli 1967 ; Wolska-Conus 1962 ; Wolska-Conus 1968 ; Zambrini 2004 ; Zambrini 2007.  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Serena Bianchetti Euclide. 1. Generalità. – Riceviamo informazioni su E. principalmente da →Proclo (412485 d.C.), che in In Euc. 68 lo lega al regno di Tolemeo I (367 a.C. ca.-283 a.C.) e lo vuole tra i discepoli più giovani di Platone ; secondariamente da →Erone di Alessandria (i d.C.), che scrisse un commento agli Elementi intitolato, nella compilazione bizantina, Definitiones, e da →Pappo nella Collectio 7, 35 (iv secolo). Citazioni sparse si trovano anche in PHerc. 1061 e in Cicerone (de orat. 3, 132). Volendo ricorrere a fonti più alte, di particolare importanza sono due ostraka di Elefantina del iii sec. a.C., i quali riportano contenuti affini al libro xiii degli Elementi e fisserebbero un convincente termine ante quem. Si potrebbero anche considerare i riferimenti sparsi in Aristotele e relativi ad alcuni contenuti degli Elementi, sebbene la trattazione sia differente. Anche →Archimede (287212 a.C.) riporta sovente passi euclidei, nonché →Apollonio (iii-ii a.C.). Si arriverebbe così al termine del sec. iii a.C., cosa che potrebbe avvalorare la testimonianza di Proclo. La tradizione lo accredita all’anno 300 a.C., e su questo c’è sostanziale unanimità tra gli studiosi. È stata invece rimessa in dubbio l’idea che E.abbia fondato una scuola ad Alessandria. [1] Controversa è anche la notizia secondo cui egli sarebbe stato un platonico convinto. Oggi prevale anzi la tendenza a considerare questo giudizio come privo di fondamento e dettato verosimilmente dal desiderio di Proclo di annettere il più grande matematico dell’antichità alla schiera dei neoplatonici a cui egli stesso apparteneva. La vicenda della tradizione papiracea degli Elementi è complessa e ha vissuto diversi colpi di scena. Per la tradizione manoscritta in generale sappiamo che per secoli si è fatto riferimento a Teone di Alessandria (iv d.C.), ripreso da Bartolomeo Zamberti, che lo pubblicò nel 1505 a Venezia traducendo direttamente  



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dal greco ; contestava così l’edizione latina di Campano da Novara (1220-1296), edita nel 1482 sempre a Venezia, che era basata su fonti arabe. Nel 1516, Jacques Lefèvre d’Étaples ( Jacobus Faber Stapulensis) raccolse le due versioni in un unico testo, in cui esse figuravano una di seguito all’altra : su questo testo lavorò il Maurolico (1494-1575), producendo la sua versione dei vari libri degli Elementi (i primi dieci libri risalgono al 1567). Sappiamo però che il manoscritto teoniano apportava modifiche ed integrazioni al testo euclideo, allo scopo di renderlo più chiaro. Solo all’inizio dell’800, ad opera di Peyrard, è stato ritrovato un manoscritto degli Elementi più antico (Ms. Vaticano 190) in cui apparve subito chiaro che il copista teneva ben presenti sia l’edizione teoniana che una edizione più antica, dando la preferenza a quest’ultima. Dopo l’edizione di Peyrard ne seguirono diverse con miglioramenti successivi (Camerer-Hauber, 1824, August 1826-1829) fino a quella di Heiberg, che integrò il manoscritto con altre fonti papiracee. Ad oggi su questa edizione sono stati sollevati ulteriori dubbi e discussioni. [2] 2. Corpus euclideo. – Le opere pervenuteci sotto il nome di E. sono Elementi, Data, Ottica, Catottrica, Fenomeni, Sectio canonis. A E. vengono attribuite (ma non sono state tramandate) anche opere intitolate Porismi, Luoghi su superficie, Pseudaria, Coniche, Sulle divisioni e Trattato elementare di meccanica. Risulta con ciò il carattere enciclopedico di tutto il corpus. [3] Quanto alle opere tramandate, ci dilungheremo maggiormente sugli Elementi, l’opera più nota di E. Delle altre si può dire brevemente quanto segue : nei Data E. fornisce le abilità necessarie alla risoluzione dei problemi geometrici mediante analisi (ovvero la tecnica opposta alla →sintesi) e nella quale si studiano oggetti matematici (domini, linee, angoli, punti, cerchi, rette, grandezze, …) in quanto ‘dati’ (e dunque in quanto ‘esistenti’ e ‘unici’ piuttosto che ‘astratti’ ed ‘universali’) ; l’Ottica e la Catottrica trattano di problemi legati alla visione, e si basano sui presupposti che saranno alla base dell’ottica geometrica fino al sec. xix (ovvero che i raggi visivi [4] viaggiano in linea retta e a velocità finita e che la figura compresa dai raggi visivi è un cono che ha il vertice nell’occhio e la base a margine dell’oggetto guardato) [→ottica] ; i Fenomeni si occupano di levate e tramonti delle stelle [→astronomia] ; la Sectio canonis studia gli intervalli musicali [→acustica, 4; →musica].  















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euclide

Nelle opere possedute si nota una certa difformità di stile, percepibile soprattutto quando si passa dalle opere di geometria (Elementi e Data) a quelle relative a scienze maggiormente empiriche (Fenomeni, Sectio canonis). Lo stile matematico euclideo dipende ampiamente da una struttura dimostrativa che non sempre rende espliciti tutti i passaggi, non sempre giustifica tutti i contenuti, né tanto meno definisce tutti gli elementi. Pur essendo il procedere linguistico e contenutistico essenzialmente dimostrativo, non vi è alcuna discussione circa i fondamenti epistemologici delle dimostrazioni stesse né tanto meno dei termini coinvolti in esse, come poteva avvenire invece in →Aristotele. Di conseguenza, la struttura sistemica poggia profondamente sul carattere non analitico (perché sostanzialmente intuitivo) dei termini euclidei, nonostante in essa – soprattutto negli Elementi – permanga uno sforzo ragguardevole per dominare i contenuti in ogni loro aspetto : con E. si è presa consapevolezza che una dimostrazione può darsi solo all’interno di un sistema, tanto da costruirne uno che dia conto di molteplici risultati, pur se al nostro autore non interessa la discussione epistemologica circa i fondamenti di tale sistema (→assiomatica). L’intero corpus non è avulso, però, da procedure di analisi oltre che di sintesi, in particolare nei Data. 3. Gli Elementi : tradizione e commenti. – Gli Elementi (Stoicei`a), l’opera più importante di Euclide, si sono imposti nei secoli rappresentando un paradigma per la matematica e per la scienza. Già fin dall’antichità il suo autore viene appellato stoiceiwthv~, ‘uomo degli Elementi’, come a riconoscere fin da subito la sua grandezza nel componimento di quest’opera. I tredici libri (più due spuri) degli Elementi compongono un’opera monumentale, il cui tentativo è di escludere ogni contaminazione della geometria pratica per restituire alla disciplina un’atmosfera puramente astratta. 4. Gli Elementi : i contenuti. – È una consuetudine interpretativa ritenere che E., venendo dopo →Eudosso e dunque dopo la cosiddetta ‘svolta assiomatica’ avvenuta nell’Accademia, raccolse discussioni ed esiti sulla questione della sistemazione della geometria ; approfittò così per fornire una sua soluzione, che dovette imporsi abbastanza rapidamente se è vero che →Archimede, →Apollonio, →Erone rielaborarono la loro scienza tenendo bene in mente contenuti e forma degli Elementi.  







Euclide attua comunque anche un’opera di esclusione delle conoscenze del tempo : ad esempio non ammettendo gli angoli curvilinei, che invece Aristotele menziona ; così anche è il caso del teorema di Pitagora esteso alle lunule [→geometria, 5] e usato da →Ippocrate di Chio. È opinione condivisa tra gli studiosi che E. abbia voluto selezionare gli ‘ingredienti’ fondamentali ritenuti capaci di erigere un sapere geometrico compiuto e autosufficiente. I tredici libri contenuti negli Elementi (più due spuri [5]) sono organizzati secondo modalità affini e presentano i risultati secondo un carattere rigorosamente deduttivo. Eccone brevemente i contenuti : libri i-iv, geometria piana senza teoria delle proporzioni ; libri v-vi, teoria delle proporzioni e sue applicazioni ; libri vii-ix, libri aritmetici su grandezze commensurabili (numeri interi) ; libro x, irrazionalità, incommensurabilità ; libri xi-xiii, geometria solida. 5. La struttura assiomatica. – Il titolo dell’opera, ‘Elementi’, già indica un sistema correlato di singoli componenti. In realtà sappiamo che questo titolo già si confaceva a raccolte di argomento matematico, ed è noto che a comporre i primi Elementi fu Ippocrate (42A1 D.-K.). È comunque interessante leggere quanto scrive Proclo : « Il termine ‘elemento’ si può usare in due sensi, come dice Menecmo : secondo il primo, ciò che dimostra è elemento di ciò che è dimostrato, così come in Euclide la prima proposizione è elemento della seconda, e la quarta della quinta. Allo stesso modo molte proposizioni possono esser dette elementi le une alle altre, perché si dimostrano fra loro reciprocamente. (…) Ma in un altro senso si dice ‘elemento’ la parte più semplice nella quale si risolve il composto. Peraltro non ogni cosa potrà esser detta elemento di un tutto, ma solo le più originarie fra le cose ordinate in ragione di un risultato, come per esempio i postulati sono elementi dei teoremi. È questo il significato di ‘elemento’ secondo cui Euclide ha coordinato gli Elementi, alcuni relativi alla geometria del piano, altri alla stereometria » (Comm. Eucl. 72, trad. Timpanaro Cardini). In senso moderno, il termine ‘elementi’ rimanda all’idea di un sistema di proposizioni legate e che si richiamano l’una all’altra, ovvero una struttura di tipo assiomatico [→assiomatica]. I principi premessi alla dimostrazione possono essere per Euclide di tre tipi : i termini (o{roi), i postulati (aijthvmata) e le nozioni comuni (koinai; e{nnoiai). Queste componenti del sistema sono fissate una volta  























eudemo di rodi per tutte e non c’è spazio nell’opera euclidea, così come ci è tramandata, per eventuali analisi circa la loro natura e il loro contenuto. Questo fa sì che il sistema euclideo si possa caratterizzare come categorico-deduttivo. La metodologia deduttiva euclidea si configura mediante l’impostazione di problemi e teoremi e l’uso di quadrati logici, pur lasciando spazio a particolarità deduttive come la consequentia mirabilis (Elem. 9, 12 [6]). 6. Proclo sul platonismo di Euclide. – Proclo commenta gli Elementi da un pulpito neoplatonico, coerentemente alle sue ispirazioni filosofiche : il suo Commento al I libro degli Elementi di Euclide, per alterne vicende di carattere storico, ha guidato la lettura degli Elementi quando quest’opera tornò a circolare in Europa. [7] C’è ormai parere unanime sulla necessità di adoperare con cautela la lettura procliana. [8]  



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1818 ; Rommevaux-Djebbar-Vitrac 2001 ; Russo 1998a ; Simon 1988 ; Szabó 1964 ; Vitrac 1990-2001 ; Vitrac 2003 ; Wagner 1983 ; Wolff 2000 ; Zamberti 1558.  

















Flavia Marcacci Eudemo. Nato nella prima metà del i secolo d.C., il medico appartenne alla setta dei →Metodici ; abbiamo notizia indiretta di una sua opera sull’idrofobia (Cael. Aur. acut. 3, 11, 105 ; 12, 107 sgg. ; 15, 125 ; 16, 134) ; ne leggiamo frammenti. In rapporto con l’imperatore Tiberio, E. è ricordato sia da Plinio (nat. 29.20) che da Tacito (ann. 4, 3-11).  









Bibliografia. Marasco 2005, 279 ; Nutton 1998d, 219.  

Daria Crismani



Note. [1] Cfr. Acerbi 2007a ; Acerbi 2007b, 177200, in particolare 183-194 ; Canfora 1995. – [2] Un lavoro di revisione del testo greco, confrontato ed integrato con quello delle traduzioni arabe e latine, è stato svolto in Knorr 1996 recuperando Klamroth 1881 e poi seguito in RommevauxDjebbar-Vitrac 2001. – [3] Al quale va probabilmente aggiunto un trattato di meccanica (cfr. Acerbi 2007b, 731). – [4] I raggi visivi si distinguevano dai raggi di luce : cfr. Lindberg 1976, Simon 1988, Incardona 1998. – [5] I libri xiv e xv non sono autentici. Il libro xiv è attribuito a Ipsicle e tratta principalmente di stereometria, studiando il dodecaedro e l’icosaedro. Il libro xv fu scritto almeno in parte da un allievo di Isidoro di Mileto ed affronta problemi di inscrizione di poliedri regolari. – [6] Si tratta di un ragionamento che fa discendere una proposizione dalla sua negazione : (non-p →p) →p. – [7] Non a caso il matematismo seicentesco è una riproposizione dell’ideale neoplatonico di matematica. – [8] Cambiano 1967; Marcacci 2009.  







Bibliografia. Acerbi 2007a ; Acerbi 2007b ; August 1826-1829 ; Cambiano 1967 ; Cambiano 1985 ; Camerer-Hauber 1824 ; Campano 1482 ; Canfora 1995 ; Cateni – Fortini 1976 ; Cavallo 1993 ; Caveing 1982 ; Caveing 1994 ; Cellucci 1967 ; De Angelis 1964 ; Enriques 1912 ; Enriques 1919 ; Enriques 1923 ; Enriques 1925-1935 ; Enriques 2000 ; Frajese-Maccioni 1970 ; Gardies 1994 ; Gavagna 2004 ; Heath 1956 ; Hogendijk 1987 ; Høyrup 2002 ; Incardona 1996 ; Itard 1967 ; Klamroth 1881 ; Knorr 1975 ; Knorr 1983a ; Knorr 1993 ; Knorr 1996 ; Lefèvre 1516 ; Lindberg 1976 ; Marcacci 2008 ; Maurolico 1575 ; Müller 1981 ; Mugler 1959 ; Netz 2001 ; Netz 2003 ; Peyard 1814 















































































Eudemo di Rodi. E. è nato intorno al 350 a.C. ed è stato uno dei più giovani allievi e collaboratori di →Aristotele. Si è ritagliato una specializzazione in storia delle ‘scienze esatte’, ma è stato anche autore di un Peri lexeos e di opere di logica, geometria (Peri gonion), fisica, metafisica, zoologia. Dei suoi scritti possediamo numerosi frammenti, pubblicati nell’ottavo fascicolo di Wehrli, Die Schule des Aristoteles (1955). Oltre ad evidenziare una sostanziale comunità di intenti e di idee con →Teofrasto e con il comune maestro, essi recano la traccia di scambi epistolari fra i tre. Se ne inferisce che E. dovette ben presto stabilirsi a Rodi e lì fondare una vivace propaggine del Liceo. E. dà prova di una sicura conoscenza di Aristotele e di molti →Presocratici (in particolare →Parmenide, →Zenone, →Melisso e →Anassagora, di cui si è occupato a lungo nella Fisica). Sappiamo inoltre che ha condotto ricerche specialistiche confluite nella Geometrike historia, nell’Arithmetike historia e nell’Astrologike historia e che con queste ricerche si è spinto oltre le conclusioni raggiunte da Aristotele. In particolare per quanto riguarda la →matematica di vi-v secolo gran parte di quel che sappiamo si fonda sulle sue ricerche. Nonostante la sua attendibilità media, si osserva con sorpresa che egli avrebbe attribuito la scoperta del teorema delle rette parallele tagliate da una diagonale sia a →Talete (11A20 D.-K.) che ai Pitagorici (58B20 D.-K.). A questi ultimi avrebbe attribuito inoltre l’elaborazione delle nozioni di parabola, iperbole ed ellisse (58B20-21 D.-K.). Significativa appare anche la cura nell’individuare

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eudosso

il prōtos heuretēs, chi per primo scoprì, arrivò a capire, dimostrò singoli teoremi. Bibliografia. Bodnar-Fortenbaugh 2002 ; Wehrli 1955.  

Livio Rossetti Eudosso. 1. Vita e opere – Nella straordinaria fase di sviluppo della matematica, cui si assistette tra il v e il iv secolo, un ruolo decisivo fu svolto da Eudosso di Cnido, il quale contribuì in modo determinate alla crescita ed alla formalizzazione della geometria e dell’aritmetica. Nonostante il prestigio di cui E. fu circondato presso i contemporanei e soprattutto presso i successori, non è stato tramandato alcun suo scritto originale e la scarsa documentazione pervenuta a proposito della sua opera non è sempre attendibile, con la conseguenza di rendere poco agevole il lavoro di ricostruzione della biografia scientifica del matematico. Così come nel caso della quasi totalità degli studiosi pre-euclidei, punto di partenza per ogni tentativo di precisazione dei risultati raggiunti da E. è il noto resoconto di →Eudemo, rielaborato da →Proclo. Questi attribuisce al matematico di Cnido l’incremento dei teoremi detti generali, l’aggiunta di altre tre medie proporzionali alle tre già note, l’aumento delle proposizioni sulla sezione aurea mediante l’adozione di un metodo definito analitico (Eudem. Rhod. Hist. geom. ap. Procl. Diad. In prim. Eucl. elem. lib. comm. p. 67 Friedlein = D 22 Lasserre). Lo scarno e piuttosto vago elenco di Proclo non include il tentativo di soluzione del problema della duplicazione del cubo, riportato da Eratostene (Eratosth. ap. Eutoc. Comm. in Archimed. p. 96 Heiberg = D 24 Lasserre ; [Eratosth.] Epist. ad Ptolom. ap. Eutoc. Comm. in Archimed. p. 88 Heiberg = D 25 Lasserre). In linea generale i principali contributi di E. possono essere individuati nella stesura di una nuova teoria delle proporzioni e nella formulazione del metodo di esaustione. Tra le conquiste ascritte a suo nome un posto di primo piano spetta inoltre alla dottrina delle sfere omocentriche, la quale fornì un modello geometrico di interpretazione astronomica, che si impose come punto di riferimento per tutte le successive indagini sulle sfere celesti. Meno chiare appaiono invece le vicende che caratterizzarono la sua esistenza, in quanto disponiamo di versioni non sempre concordanti a proposito dei rapporti tra E. e →Platone ed a proposito della collocazione  

del primo nell’ambito dell’→Accademia. Le fonti attestano unanimemente la conoscenza diretta tra i due studiosi, sebbene alcune si limitino ad indicare E. come contemporaneo di Platone (Suid. e 3429 Adler = T 8 Lasserre ; Str. 14, 2, 15 = T 9 Lasserre), altre come suo maestro (Schol. in Eucl., ibid. p. 280 = D 33 Lasserre), altre ancora come compagno dei discepoli di Platone (Eudem. Rhod. Hist. geom. ap. Procl. Diad. In prim. Eucl. elem. lib. comm. p. 67 Friedlein = D 22 Lasserre). Nonostante nette divergenze in merito a questioni di natura filosofica, legate all’impostazione della dottrina delle idee (D 1-5 Lasserre), è probabile che tra Platone ed E. si fosse instaurato un rapporto di reciproco scambio intellettuale, a motivo dell’interesse che ciascuno nutriva verso gli studi coltivati dall’altro. Si tramanda inoltre nella Vita Aristotelis Marciana, che E. abbia assunto la funzione di scolarca dell’Accademia intorno al 367 a.C., sostituendo provvisoriamente Platone, impegnato nel suo viaggio in Sicilia (Vita Aristotelis Marciana 10, p. 98 Düring = T 6a Lasserre). Sembra così attendibile ritenere che E. abbia preso parte attivamente alla vita dell’Accademia, occupando al suo interno una posizione di preminenza e non di semplice partecipazione alla stregua di uditore, se non altro a riconoscimento dei suoi indiscutibili meriti scientifici. 2. Matematica – Due scolii riportati nei manoscritti degli Elementi euclidei associano il nome di E. al libro v, dedicato ad illustrare una teoria generale delle proporzioni (Schol. in Eucl. lib. v prooem. p. 282 Heiberg (Eucl. op. v) = D 32 Lasserre ; Schol. in Eucl., ibid. p. 280 = D 33 Lasserre). Il primo scolio in particolare fornisce un resoconto più dettagliato, in quanto, a differenza del secondo, non si limita semplicemente a collegare i contenuti trattati all’opera di E., ma riconosce allo stesso tempo l’opportunità dell’attribuzione del testo ad →Euclide : E. infatti formulò la teoria delle proporzioni che Euclide organizzò in maniera sistematica nel libro v. Sebbene lo scolio distingua con precisione il lavoro svolto dai due matematici, attribuendo ad uno la scoperta ed all’altro l’esposizione assiomatica della dottrina delle proporzioni, è difficile fissare in modo netto il confine tra i contributi effettivamente apportati da ciascuno. Se appare innegabile l’originalità di E. nell’intuire un nuovo concetto di proporzionalità, è impegnativo stabilire la forma logica con cui furo 





eudosso no per la prima volta illustrati i risultati raggiunti. Euclide, preso atto della solidità logica delle argomentazioni della teoria, potrebbe semplicemente essersi limitato ad assimilare in modo quasi integrale la stesura eudossiana negli Elementi, cercando di saldare il libro v con l’opera nel suo complesso, in modo da fornire una presentazione il più possibile organica e coerente dell’universo matematico. Il libro v degli Elementi non a caso è dotato di struttura piuttosto autonoma rispetto alle sezioni precedenti dell’opera, in quanto i teoremi esposti nei primi quattro libri non intervengono di fatto nella formulazione della teoria delle proporzioni. Sembrerebbe allora plausibile non solo assegnare la definizione generale di proporzionalità insieme alla sua applicazione ad E., ma anche immaginare il libro v come una fedele trascrizione della dottrina del matematico di Cnido. L’autore anonimo dello scolio sottolinea tuttavia il non trascurabile contributo di Euclide e quindi appare improbabile che il matematico alessandrino abbia semplicemente inserito lo scritto eudossiano nel corpus degli Elementi, senza mettere mano almeno ad una rielaborazione della teoria, allo scopo di adattarla all’impianto espositivo generale. La dottrina illustrata nel libro v si caratterizza per un elevato grado di generalità, dal momento che essa è indifferentemente valida per ogni tipo di quantità. Il punto nodale dell’impostazione di E. è la formulazione di una nozione altamente astratta di grandezza (mevgeqo~), sulla quale è calibrato il nuovo concetto di proporzione : « Sono dette avere rapporto tra loro grandezze (megevqh) che, se sono presi multipli, possono eccedersi tra loro » (Eucl. El. 5, def. 4, trad. Acerbi). È tuttavia la proposizione successiva a contenere la celebre definizione di proporzionalità : in essa viene stabilito quando due grandezze sono poste nello stesso rapporto che intercorre tra altre due grandezze. Si tratta in altre parole dell’enunciazione delle condizioni che sovrintendono all’uguaglianza di due rapporti : « Grandezze sono dette essere nello stesso rapporto, prima rispetto a seconda e terza rispetto a quarta, quando, secondo quale si voglia multiplo, gli equimultipli della prima e terza o eccedano insieme rispettivamente gli equimultipli della seconda e quarta, oppure siano insieme uguali, oppure facciano insieme difetto presi in ordine corrispondente » (trad. Acerbi). →Aristotele mostra di  













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essere a conoscenza della teoria eudossiana e soprattutto di apprezzarne la versatile applicazione sia alle quantità discrete sia alle quantità continue. La teoria di E. non prevede l’assunzione e la trattazione separata del numero in quanto numero, della linea in quanto linea, del solido in quanto solido e del periodo di tempo in quanto periodo di tempo, dal momento che ciascun tipo di quantità è considerato in quanto grandezza. Numeri, lunghezze, solidi e periodi di tempo possono essere oggetto di una trattazione che prescinde dalla rispettiva specificità costitutiva (Arist. APo. 74a17 = D 48 Lasserre). Il libro v può così procedere ad illustrare le leggi di proporzionalità, come l’alternanza, valide universalmente per ciascun tipo di grandezza, senza necessità di introdurre alcuna particolarizzazione. Aristotele contrappone l’impostazione adottata da E. ad una dottrina delle proporzioni cronologicamente anteriore, di origine pitagorica, rielaborata da Euclide nel libro vii degli Elementi. Essa si caratterizza per la trattazione selettiva di un determinato tipo di grandezza, in quanto appare esclusivamente valida per i numeri interi. Al confronto, la dottrina pitagorica corrisponde ad uno stadio ingenuo del pensiero scientifico poiché, limitando il concetto di proporzione al caso delle grandezze commensurabili, esclude dall’ambito della scienza un cospicuo settore della matematica, rappresentato dagli irrazionali. La formulazione di questa teoria è antecedente alla scoperta dell’incommensurabilità, la quale impose ai matematici una revisione complessiva del sistema teorico fondato sui numeri interi. Stesso discorso può essere condotto a proposito di una ulteriore teoria della proporzionalità, sempre precedente a quella eudossiana, basata sul procedimento dell’antiaferesi o sottrazione reciproca, anch’essa applicabile esclusivamente a grandezze commensurabili. Il contributo di E. acquista pertanto un grande significato, dal momento che solo con l’elaborazione della teoria delle proporzioni fondata sul concetto di grandezza fu possibile aggirare in modo elegante l’ostacolo rappresentato dagli irrazionali, permettendo al ragionamento matematico di abbracciare qualsiasi tipo di quantità, commensurabile o incommensurabile. Difficilmente si può negare la genialità di E. nell’elaborare una dottrina il cui fascino è stato riconosciuto dai maggiori matematici di ogni epoca, alcuni dei quali hanno trovato nel

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v libro l’anticipazione di principi su cui si fonda la matematica moderna. Alcune precise indicazioni militano a suffragare l’ipotesi che E. sia autore anche di una considerevole quantità dei contenuti raccolti nel libro xii degli Elementi. →Archimede nella prefazione al libro I del testo Sulla sfera e il cilindro ascrive ad E. prove equivalenti a quelle illustrate nel libro xii in riferimento ai seguenti teoremi : il volume di una piramide è la terza parte del volume di un prisma avente la stessa base della piramide e uguale altezza ; il volume di un cono è la terza parte del cilindro avente la stessa base del cono e uguale altezza (De sphaer. et cyl. i prooem. p. 4 Heiberg = D 61b, D 62b Lasserre). Sempre Archimede nella lettera di prefazione a Il Metodo sostiene che le due proprietà furono scoperte da →Democrito e dimostrate per la prima volta in modo rigoroso da E. (Ad Eratosth. prooem. p. 430 = D 61c Lasserre). Anche Erone nella prefazione alla Metrica conferma l’attribuzione ad E. delle prime prove di una delle due proposizioni in questione, insieme alla verifica del teorema contenuto in Elem. 12, 2 (Her. Alex. Metr. i prooem. = D 59b, D 62d Lasserre). Maggiori dettagli si possono ricavare dalla lettera di prefazione alla Quadratura della Parabola (Archim. Quadr. parab. Prooem. p. 264 Heiberg = D 59a, D 60a, D61a, D62a Lasserre) in cui Archimede sostiene di aver condotto la dimostrazione del teorema secondo cui l’area di un segmento parabolico è pari a 4/3 dell’area del triangolo in esso inscritto, mediante l’intervento di una proposizione che egli identifica con il nome di ‘lemma’. Essa è attualmente nota come ‘assioma di Archimede’ ed una formulazione equivalente si ritrova nella proposizione 10,1 degli Elementi : « Fissate due grandezze disuguali, qualora dalla maggiore sia sottratta maggiore che la metà e da quella restata fuori una maggiore che la metà, e questo risulti in successione, sarà restata una certa grandezza, che sarà minore della minore grandezza fissata » (trad. Acerbi). Archimede continua precisando che anche i primi studiosi di geometria hanno adoperato lo stesso lemma per provare i seguenti teoremi : i cerchi sono tra loro in proporzione come i quadrati dei loro diametri (Eucl. El. 12, 2) ; le sfere sono reciprocamente in proporzione come il cubo dei loro diametri (Eucl. El. 12, 18) ; ogni piramide è una terza parte del prisma che ha la stessa base della piramide ed ugua 















le altezza (Eucl. El. 12, 7) ; ogni cono è la terza parte del cilindro avente la sua stessa base e uguale altezza (Eucl. El. 12, 10). Sulla base delle testimonianze precedentemente citate, l’elaborazione delle dimostrazioni degli ultimi due teoremi è ascrivibile ad E. Si può pertanto concludere a ragione che questi si avvalse del lemma in questione, o almeno di una proposizione ad esso equivalente, nella formulazione delle due prove, le quali sono condotte attraverso una tecnica rigorosa di indefinita approssimazione ad una data grandezza. Per provare ad esempio che le aree di due cerchi stanno tra loro come i quadrati dei loro diametri, Euclide procede approssimando progressivamente le aree dei due cerchi mediante l’inscrizione di poligoni regolari e, poiché il teorema risulta verificato per i poligoni, allo stesso modo risulterà verificato anche nel caso dei cerchi. Si chiarisce così la caratteristica denominazione di metodo di esaustione, in quanto il procedimento descritto consiste propriamente nell’esaurire il cerchio mediante reiterate inserzioni di poligoni. I principali risultati del libro xii sono stabiliti attraverso il metodo di esaustione. La possibile attribuzione dell’origine di questo caratteristico espediente ad E. richiede alcune precisazioni. Secondo la testimonianza di Eudemo, riportata da Simplico nel noto frammento sulla quadratura delle lunule, la dimostrazione del primo dei teoremi menzionati da Archimede, secondo cui i cerchi sono in proporzione con i quadrati dei rispettivi diametri, risalirebbe ad →Ippocrate di Chio (Simp. in Phys. 60,2269,34). Inoltre il riferimento di Archimede ai primi studiosi di geometria nell’adozione del lemma, lascerebbe ipotizzare che lo stesso Ippocrate potrebbe aver escogitato ed adottato la proposizione. Gli studiosi tuttavia manifestano parecchie riserve a proposito della ricostruzione fornita da Simplicio, dal momento che attesterebbe un livello parecchio avanzato del ragionamento matematico, non effettivamente riscontrabile nella seconda metà del v secolo. Essi pertanto ritengono che la prova rielaborata da Simplicio nel vi secolo d.C. sulla scorta della testimonianza di Eudemo riproponga i tentativi di quadratura effettivamente perseguiti da Ippocrate, ma adotti argomentazioni sostanzialmente differenti rispetto all’originaria formulazione. Il duplice rimaneggiamento del lavoro di Ippocrate da parte di Eudemo e di Simplicio avrebbe inevitabilmente risentito  

eutocio di ascalona dell’acquisizione di una concezione più articolata della prova matematica. Sembra dunque più plausibile, senza voler ridimensionare il contributo di Ippocrate, che E. debba essere considerato colui che per primo ha formulato in modo rigoroso ed applicato scientificamente il metodo di esaustione, rifacendosi probabilmente ad un procedimento vagamente simile, abbozzato dal matematico di Chio. Vd. anche →geometria, 7. 3. Astronomia – Ad E. spetta infine la paternità del primo sistema geometrico finalizzato alla comprensione dei movimenti del sole, della luna e dei pianeti. Lo scopo del modello è ricondurre le traiettorie irregolari ed apparentemente inspiegabili degli astri al principio generale dell’uniformità del moto circolare. L’originalità dell’approccio eudossiano è ravvisabile nella descrizione puramente matematica dei fenomeni celesti, vale a dire nell’adozione della geometria sferica per la descrizione del cosmo. La teoria fu illustrata in un testo, non più disponibile, intitolato Sulle Velocità. Dalla lettura del libro xii della Metafisica di Aristotele si possono attingere notizie relative ai numeri ed alle posizioni delle sfere celeste ipotizzate da E. (Arist. Metaph. 12, 8, 1073b 171074a 14). La principale fonte per la ricostruzione del sistema delle sfere omocentriche è tuttavia un ampio passo del commentario di Simplicio al De caelo di Aristotele (Simpl. In Arist. de caelo comm. p. 492 Heiberg = fr. 124 Lasserre). Simplicio afferma di attingere dal resoconto di Sosigene il Peripatetico (ii d.C.), il quale si basa sulle informazioni contenute nel secondo libro della Storia dell’Astronomia di →Eudemo. L’ingegnoso modello di ventisette sfere omocentriche, aventi cioè tutte la Terra come centro, era fondato sui principi del moto circolare uniforme e della velocità assolutamente costante degli astri e si poneva come costruzione capace di unire rigore, semplicità ed eleganza. Il modello di E. cercava di coniugare gli eventi osservabili con un sistema aprioristico di natura matematica allo scopo di ‘salvare i fenomeni’ alla luce di principi razionali. La dinamicità del movimento dei corpi celesti, in

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particolare il moto retrogrado di alcuni pianeti, suscitava non poco difficoltà ai fini di una sua trasposizione in un modello geometrico, poiché difficilmente i comportamenti astrali, così come quelli naturali, esibivano lo stesso rigore di una formulazione matematica. Ne derivava una semplificazione della complessità dei problemi che scaturivano dall’osservazione, allo scopo di salvaguardare una coerenza tra ragionamento ed esperienza. Non a caso il punto debole del sistema eudossiano è ravvisabile nell’inadeguatezza nel dare conto in modo completo dei fenomeni visibili : le deviazioni planetari dall’orbita circolare e i moti retrogradi, causa della variazioni di luminosità di alcuni pianeti come Marte, erano difficilmente inquadrabili in una teoria fondata sul movimento circolare generato da corpi celesti che si spostavano a velocità uniforme.  

Edizioni. Acerbi 2007 ; Diels 1882 ; Diels-Kranz 1951-1952 ; Lasserre 1966 ; Lasserre 1987.  







Bibliografia. Dicks 1970 ; Gardies 1988 ; Huxley 1963 ; Lasserre 1964 ; Müller 1981 ; Müller 2006 ; Stein 1990 ; Waschkies 1977.  













Piero Tarantino Eutocio di Ascalona. Fu un matematico greco vissuto nella prima età bizantina (v-vi sec. d.C.). Della sua vita si conoscono poche notizie. Nato ad Ascalona verso il 480, pare sia stato discepolo di Ammonio di Ermia ad Alessandria. Di lui ci restano commentarî ai primi quattro libri delle Coniche di →Apollonio di Perga e a tre opere di →Archimede : [1] Sull’equilibrio delle figure piane, Sulla sfera e il cilindro, Sulla misura del cerchio. Gli è stata attribuita anche un’introduzione al primo libro dell’Almagesto, giunta anonima. Si interessò di astrologia e va sotto il suo nome un trattato dal titolo Astrologumena. [2]  

Note. [1] Mugler 1972. – [2] Ed. A. Olivieri, ccag i, 170-171. Bibliografia. Bernard 2008, s.v. Eutokios of Askalōn, in EANS 324-325 ; Gundel-Gundel 1966, 247 ; Mugler 1972 ; Urso 2002, 119.  





Carmelo Lupini

F Farmacologia. 1. Introduzione. – Anche per la Farmacologia sono da tenere presenti le precisazioni che sono state fatte per la Medicina : la scienza farmacologica è soprattutto greca ; la farmacologia di età romana è in pratica una scienza ereditata dalle dottrine e dalla scienza ellenistica. Diversamente dal significato concettuale moderno che il termine Farmacologia ha, per il greco è opportuno tener presenti significati ambivalenti sia per il termine favrmakon (rimedio utile ed efficace, ma anche dannoso), sia per farmakeiva (uso di rimedi, veleni o incantesimi ; in senso più ristretto impiego di medicamenti, anche di purgativa). [1] È poi attestato il termine farmakeutikhv (scil. tevcnh),  







che indica appunto l’antica Farmacologia, quella parte della prassi terapeutica incentrata sui medicamenti, che, con la dietetica e la chirurgia, costituisce la base della realtà terapeutica. Come confermano in modo chiaro →Celso, Prooem. 9 [2] e →Scribonio Largo 200. [3] Celso accenna anche [4] al problema della concezione unitaria della Medicina : dai trattamenti dietetici non devono essere mai separate le terapie farmacologiche e viceversa. Alle stesse problematiche accenna anche Scribonio. [5] Le trattazioni dei due autori sono, anche da un punto di vista formale, tanto affini, anche con coincidenza ad uerbum di sintagmi fondamentali, che si debba postulare la dipendenza di entrambi da una fonte comune o una derivazione di Scribonio da Celso : [6]  



Celso 5 Praef. 2 Illud ante omnia scire conuenit, quod omnes medicinae partes ita innexae sunt, ut ex toto separari non possint sed ab eo nomen trahant, a quo plurimum petunt. Ergo et illa, quae uictu curat, aliquando medicamentum adhibet. Et illa, quae praecipue medicamentis pugnat, adhibere etiam rationem uictus debet, quae multum admodum in omnibus corporis malis proficit.

Scrib. c. 200 Implicitas medicinae partes inter se et ita conexas esse [constat], ut nullo modo diduci sine totius professionis detrimento possint, ex eo intelligitur, quod neque chirurgia sine diaetetica neque haec sine chirurgia, utraque sine pharmacia, id est sine ea parte, quae medicamentorum utilium usum habet, perfici possunt, sed aliae ab aliis adiuuantur et quasi consummantur.

Si notino anche le diverse soluzioni adottate per le denominazioni. [7] Nel testo di Scribonio è attestato pharmacia, che poi, sempre con il valore di regula / ratio di medicamenti, ricompare nuovamente in età tardo-antica, con →Celio Aureliano. Tenendo presente che medicamentum è indubbiamente quod medetur, ne consegue che i medicamenti sono di varia natura, dunque anche alimentare (cibo e vino). Cenni numerosi e interessanti leggiamo in vari scritti del Corpus. Così apprendiamo, per riferirci a passi richiamati da Mazzini 1997, che « medicamento è tutto quello che è in grado di modificare la situazione attuale del malato. Tutto ciò che possiede una qualche forza ha la capacità di indurre miglioramenti […] nel caso in cui non si voglia ricorrere a farmaci, si può cercare di curare e ottenere miglioramenti anche attraverso l’alimentazione »; [8] ancora : « Non tutti i rimedi arrecano giovamento in tutti i casi ; alcuni rimedi sono opportuni in un caso, altri in un altro. Ci sono poi differenze anche in relazione alla somministrazione, se anticipata o ritardata ; si possono inoltre trattare e modi-

ficare i rimedi, ad es. seccare, pestare, cuocere. Ometto poi altre osservazioni di tenore simile, ad es. relative alla dose per i farmaci, al tipo di affezione, al periodo dell’anno, all’età del paziente, all’aspetto del corpo e alla dieta del malato, alla stagione dell’anno […] e ad altri fattori simili ». [9] Inoltre, mentre secondo la scuola ippocratica i medicamenti sono sempre positivamente efficaci, poiché attirano a sé l’umore più affine alla propria natura [10] →Asclepiade e, dopo di lui i →Metodici, tentano di sovvertire ogni fondamento dell’arte con la teoria dei poroi e degli atomi; il caposcuola si sforza di persuadere che i medicamenti attirano l’umore che è loro simile per natura, ma lo trasformano, lo modificano e lo alterano. [11] Queste posizioni di Asclepiade, evidentemente portate all’estremo dal suo allievo Temisone e da un’ala evidentemente più radicale dei Metodici [12] possono darci ragione della proteste appassionate di Scribonio Largo, presenti nell’Epistula contro i medici che vorrebbero bandire l’uso dei medicamenti : questi sbandierano a sostegno delle loro posizioni, Asclepiade, [13] ma a torto, perché Asclepiade utilizzava, accanto a























farmacologia rimedi naturali come cibo e vino, ampiamente anche i medicamenti ; Scribonio si sofferma a ‘discolparlo’ [14] La f. è rappresentata nel Corpus Hippocraticum attraverso una varietà abbastanza ristretta di medicinali, soprattutto di Simplicia, di derivazione specialmente animale o vegetale ; sono quasi del tutto assenti i prodotti minerali. Nel Corpus non troviamo trattati farmacologici, né descrizioni di semplici ; nei trattati cnidi troviamo invece ricette. La trattatistica farmacologica di livello scientifico inizia nel sec. iv e ha fioritura e incremento per tutto il periodo ellenistico (dal iv al i sec. d.C.), fino alla sua ripresa e continuazione nella grande tradizione romana ; in età ellenistica “non v’è medico illustre o caposcuola che non tratti delle virtù dei semplici, che non raccolga ricette o non ne componga di nuove”. [15] La fioritura e la diffusione della produzione e della relativa letteratura farmacologica di età ellenistica e romana sono anche, in qualche modo, il prodotto della diffusione della medicina pubblica e di massa, causate, a loro volta, da fenomeni sociali e politici imponenti quali l’urbanesimo, la nascita di grandi entità statali, guerre di ampio coinvolgimento e durata, che producono “lo spostamento e l’incontro di grandi masse di uomini e insieme la diffusione di malattie ed epidemie”. [16] Tra gli autori più celebri, per gli erbari annoveriamo →Diocle Caristio, →Prassagora, →Teofrasto, →Crateva, →Sestio Nigro ; tra gli autori di ricettari e antidotari Erasistrato, →Filino di Cos, Mantia, Andrea di Caristo, →Apollonio Mys, →Eraclide di Taranto, →Temisone di Laodicea e altri. In epoca ellenistica anche sovrani e regine raccolgono ricette e compongono medicamenti : basterà citare Mitridate vi Eupatore, re del Ponto, Attalo iii di Pergamo, la regina Cleopatra. Fioriscono anche trattati in versi : si pensi a →Nicandro, Erennio Filone, Damocrate etc. La produzione di farmaci, soprattutto di medicamenti composti, spesso di sostanze esotiche, si diffonde dovunque ; si diffonde ampiamente l’uso di sostanze minerali, in forma naturale e in composizione ; fioriscono anche i relativi trattati. L’età romana (i-v sec. d.C.) vede la ripresa, la prosecuzione e l’elaborazione delle dottrine e delle conoscenze farmacologiche ellenistiche. Gli autori più rappresentativi nel genere sono, come è noto, →Celso, →Scribonio Largo, →Dioscuride, →Andromaco,  





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padre e figlio, →Plinio il Vecchio, →Rufo e →Sorano di Efeso, →Archigene, naturalmente →Galeno, →Gargilio Marziale, →Sereno Sammonico, →Teodoro Prisciano, →Cassio Felice, →Marcello Empirico, con riprese della tradizione farmacologia in Medicina Plinii e in Physica Plinii. Le presente sezione è articolata come segue : 2. Sostanze semplici più diffuse e loro valenze terapeutiche (2.1. Rimedi dal mondo vegetale ; 2.2. Rimedi dal mondo minerale ; 2.3. Rimedi dal mondo animale); 3. Alcuni tipi di medicamenti composti; 4. Altri ‘Realien’; cfr. anche →veleni e contravveleni e →contravveleni composti.  





















Note. [1] Hp. Aph. 1, 24 / 4, 470 L. – [2] med. Prooem. 9 / 18 M : Isdemque temporibus in tres partes medicina diducta est, ut una esset quae uictu, altera quae medicamentis, tertia quae manu mederetur. Primam diaithtikhvn, secundam farmakeutikhvn, tertiam ceirourgivan Graeci nominarunt. Eius autem quae uictu morbos curat, longe carissimi auctores etiam altius quaedam agitare conati, rerum quoque naturae sibi cognitionem uindicarunt, tamquam sine ea trunca et debilis medicina esset. – [3] Per Scribonio si veda testo e discussione su c. 200 / 92, 11-16s, infra. – [4] med. 5 Praef. 2 / 190 M. – [5] Scrib. c. 200. – [6] Vd. Sconocchia 2003 in Lippi-Sconocchia 2003, 4849. – [7] In Celso abbiamo qui perifrasi descrittive, mentre in Prooem. 9 abbiamo grecismi ; grecismi di prestito si hanno invece in Scribonio, utilizzati direttamente, con neoattestazioni, come diaetetica e pharmacia, che, è bene ricordarlo, arrivano fino ai giorni nostri. In Scribonio, poi, per i tre rami della medicina, si veda anche Ep. 1 / 1-2 S. e Ep. 11 / 14, 5 S. Secondo Mudry 1985, 329-336, nondimeno, la terminologia di Celso e di Scribonio rivelerebbe non una tripartizione, ma una bipartizione originaria che corrisponde alla visione antica della medicina, attestata con precisione presso Eraclide di Taranto, tra affezioni interne ed esterne. Galeno richiamerà ancora questa unità (Comp. med. gen. 3, 2 / 13, 604, 7 sqq. K), ma dopo più di un secolo e da un punto di vista diverso, in cui la componente dottrinale conta meno che la constatazione della straordinaria degradazione scientifica e deontologica che la specializzazione ha, secondo lui, introdotto nella professione medica. – [8] Hp. Loc. hom. 45 / 6, 340 L : vd. Mazzini 1997, 384-385. – [9] Hp. Epid. 2, 3, 2 / 5, 104 L : vd. Mazzini 1997, 385. – [10] Hp. Nat. hom. 5 / 6, 44-6 L. – [11] Gal. Elem. sec. Hp. 2, 32 / 1, 499 K. – [12] Si pensi, in età neroniana, a Tessalo di Tralle e alle tirate di Plinio nat. 29, 9 e di Galeno contro di lui in Meth. med. 1, 2 sgg. / 10, 4-6-8 sgg. K ; 52 K ; inoltre Adu. Iul. 1 / 18, 1, 247-252  











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farmacologia

sgg. K. – [13] Scrib. Larg. Ep. 7-9 / 3-4 S. – [14] Su Asclepiade cfr. Sconocchia 2002a, 326-327. – [15] Vd. Mazzini 1997, 383. – [16] Mazzini 1997, 384. Fonti. Fonti per lo studio della F. sono sia le raccolte di simplicia (semplici), sia i ricettari e le sillogi di medicamenti classificati in rapporto alle varie patologie. Per un elenco utile delle fonti rinvio anche a Mazzini 1997, 390. Per le raccolte di simplicia si richiameranno : Dioscuride, De materia medica ; Plinio, Nat. hist., ll. 20-32 ; Galeno, De simplicium medicamentorum temperamentis ac facultatibus ; Gargilio Marziale, Medicinae ex oleribus et pomis ; Oribasio, Collectiones, ll. i-xiv ; i libri secondi di Synopsis ed Euporista ; Ps. Apuleio, Herbarius ; Anonymi de taxone liber ; Ps. Antonio Musa, De herba Vettonica ; Sextus Placitus, Liber medicinae ex animalibus ; Ps. Teodoro Prisciano, De virtutibus pigmentorum uel herbarum aromaticarum. Per i ricettari e le sillogi di medicamenti si ricorderanno : Celso, De medicina, ll. v e vi ; Scribonio Largo, Compositiones ; Galeno, soprattutto De compositione medicamentorum secundum locos libri x ; De compositione medicamentorum per genera libri vii ; Oribasio, Collectiones, ll. viii-x ; Synopsis, ll. i e iii ; Euporista l. iv ; Cassio Felice, De medicina, Teodoro Prisciano, Euporiston libri iii. In effetti la letteratura farmacologica è documentata soprattutto attraverso Simplicia e ricettari.  





































Bibliografia. Artelt 1968 ; Krug 1993a ; Mazzini 1997, 382-384 ; Mudry 1985 ; Schmitz 1998, 170 ; Sconocchia 1993a ; Sconocchia 1993b ; Sconocchia 2000a ; Sconocchia 2003 ; Stamatu 2005b, 96-98 ; Thür 2000.  



















2. Sostanze semplici più diffuse e loro valenze terapeutiche. – In questa sezione si analizzano i simplicia, cioè le sostanze ‘semplici’ usate sia di per sé, per i loro riconosciuti effetti terapeutici, come risulta dalla trattazione seguente, sia come ingredienti, variamente miscelati con altre sostanze, per la preparazione di composti. Si prendono in esame i simplicia, sostanze medicamentose appartenenti ai tre regni, vegetale, minerale e animale. Si è dato soprattutto risalto alla documentazione della medicina del periodo romano, erede diretta della medicina di età ellenistica, che rappresenta un’evoluzione rispetto a quella della medicina greca più antica, con particolare riferimento all’opera di Celso, Scribonio Largo e Plinio il Vecchio. Sergio Sconocchia 2.1. Rimedi dal mondo vegetale. Origini ed evoluzione. – Descrivere l’uso medicinale delle

erbe negli scrittori antichi presenta l’indiscutibile problematica di enucleare, dalla grande quantità delle esemplificazioni, quelle più significative che, attraverso gli ultimi epigoni dell’Umanesimo-Rinascimento, sono giunte fino ai nostri giorni ; oggi il loro impiego se in alcune zone o strati sociali persegue per così dire una moda, al contrario in alcune sacche di territorio ha il sapore di una lunga tradizione popolare che non si è mai interrotta. Sono state qui di seguito elencate alcune erbe officinali, indicate in ordine alfabetico con la denominazione in italiano, trascegliendo quelle ancora diffusamente utilizzate in epoca moderna. 1. Abrotano [ajbrovtonon, abrotonum o habrotonum]. L’artemisia Abrotanum L. è un calco del greco ajbrovtonon. Scribonio impiega questa pianta per curare l’asma (78) e per combattere l’avvelenamento da aconito (188) ; Celso (4, 8, 3 / 160 M) la utilizza per l’asma o per la dispnea in un malagma. Plinio descrive natura e varie proprietà dell’abrotano efficace per i nervi, per la tosse, per l’ortopnea, per le convulsioni e per le fratture (nat. 21, 160 ; vedi inoltre Dioscuride 3, 24, 1-2). Il rimedio vegetale è presente in→Oribasio, in→Teodoro prisciano e in→Marcello. 2. Acacia [ajkakiva, acacia]. Scribonio utilizza l’acacia per alcuni colliri (23), per curare gli orecchioni (41), per le emorragie (85) e per il mal di pancia (112-113, 115). Inoltre Scribonio ne fa uso per un tenesmo (142), nell’antidoto di Mitridate (170), per la zona (247-248) e in un emolliente (256). Plinio ricorda che si utilizza il succo di acacia essiccato al sole in vasi per la preparazione di pastilli e in particolar modo per curare le malattie degli occhi (24, 109). Il minerale viene utilizzato da Celio Aureliano (chron. 2, 13, 165 ; acut. 2, 37, 197). Distinguiamo l’acacia cirra, l’acacia nigra, l’acacia rufa e l’acacia Galactica, una specie di astragalo dell’Asia Minore (cfr. inoltre Diosc. 1, 133). Il rimedio vegetale è presente, inoltre in→Teodoro prisciano, in →Marcello e in→Cassio felice. 3. Aceto [o[xo~, acetum]. L’aceto di vino è un prodotto antichissimo conosciuto sin dagli antichi Egizi. L’aceto è di primaria importanza per il condimento dei cibi →Apicio. Dell’aceto dà una precisa definizione Isidoro di Siviglia. [1] L’aceto per il suo effetto astringente viene usato in molti rimedi medici con acqua, con il miele, con il nitrato e con piante aromatiche. Viene utilizzato da Scribonio nella preparazio 









farmacologia ne di numerosi remedia : gli ingredienti possono essere cotti nell’aceto (2-3), ammorbiditi (131), addirittura bruciati in esso (4-5, 9, 45, 58, 175, 201) o diluiti (260). Scribonio impiega l’aceto in alcune ricette, mentre solo in pochissimi casi l’aceto è utilizzato direttamente : versato dentro l’orecchio per tamponare le emorragie (46), bevuto come rimedio contro l’asma (76). Plinio utilizza in molte ricette l’aceto (cfr. 23, 54), come refrigerante e risolvente molto potente e, soprattutto, in unione con altri ingredienti. Se usato da solo arresta il singhiozzo, elimina la nausea e gli starnuti, se viene respirato. Viene, inoltre utilizzato per i dolori di stomaco, contro l’effetto irritante di punture e morsi di animali, per le emorragie e in molti altri casi. Nella sua casistica o enumeratio caotica Plinio annovera l’aceto come antidoto al veleno dell’aspide, perché dopo aver versato un otre di aceto un uomo che aveva calpestato un aspide sentiva, mancando l’aceto, ancora il morso del serpente (23, 56). Infine l’enciclopedista lo definisce dannoso per la vescica e per le infiammazioni ai tendini. Galeno (Simpl. med. temp. 1, 21 / 11, 418-419 K) ricorda l’efficacia dell’aceto contro le scottature. Il rimedio vegetale è presente in →Oribasio, in →Teodoro Prisciano, in →Marcello e in →Cassio Felice. Si veda anche la trattazione molto documentata ed esaustiva di Livia Radici in →veleni e contravveleni. 4. Aconito [ajkovniton, aconitum]. Pianta dalle radici tossiche. Si tratta per Scribonio di un veleno. [2] Plinio fornisce l’origine di questa sostanza dal nome di una roccia, acona, ossia ‘priva di polvere’, donde aconito (anche Isid. orig. 17, 25, 9). Probabilmente non è una pianta italiana (Verg. georg. 2, 152). 5. Agarico [ajgarikovn, agaricum]. Celso e Plinio (nat. 16, 33 e 25, 103) considerano questa pianta una specie di fungo che, in Plinio, è dal colore bianco. Per André (1956: 20) la pianta corrisponde all’Armillaria mellea Vahl o al Cantharellus olearius (vedi inoltre Ps. Theod. Prisc. simpl. med. 13 ; Orib. Syn. 1, 17). Scribonio utilizza l’agaricum in due antidoti (106 e 177). Per Isidoro (orig. 17, 9, 84) la radice è quella della vitis alba. Il rimedio vegetale viene usato da →Oribasio. 6. Aglio [skovrdon, alium]. Si tratta dell’alium sativum indicato per l’ipertensione e il mal di gola, il suo effetto terapeutico consiste nell’essere vasodilatatore periferico e in un antiset 







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tico. È citato da Celso per curare il kuniko;~ spasmov~ (Cels. 4, 4 / 154 M), come rimedio per la cura della tenia e della tosse ; mentre l’aglio è usato da Plinio il Vecchio per molteplici usi medicinali nella campagna (nat. 19, 111 e nat. 20, 50-57) e soprattutto come antidoto per le ferite provocate dai morsi dei serpenti (cfr. anche Nic. Ther. 282-308 e Diosc. 2, 152, 1), per curare gli idropici, contro i vermi intestinali, per il mal di denti, per il male all’orecchio e in molti altri rimedi e tenesmi. Anche Scribonio Largo (140) lo consiglia come ingrediente da ingerire quando si voglia guarire dalla tenia, ossia contro i vermi intestinali (a tal proposito vedi anche Marcell. med. 4, 2) ; inoltre usa l’aglio come composto per la cura delle ulcere e delle ferite da fuoco (174 ; 231). L’aglio come rimedio vegetale è variamene presente negli autori tardo-antichi. 7. Agnocasto [a[gno~, agnos]. La pianta così chiamata viene citata in età tardo imperiale da molti autori di letteratura medica greca (Orib. Syn. passim) e latina (Cael. Aur. acut. 2, 37 e Marcell. med. 20, 115). Plinio (nat. 13, 14 e 24, 59) considera questa pianta come l’agnocasto (vitex agnus castus), ossia il pepe selvatico, con il quale le vergini ateniesi ricoprono i letti per mantenere la castità durante le Tesmoforie, donde ne deriverebbe il nome. Plinio elenca i molteplici usi della sostanza in particolar modo per i forti mal di testa. Scribonio, invece, usa i grani di agnocasto (2). 8. Alloro [davfnh, laurus]. Per alloro s’intende generalmente la Laurus nobilis, ossia la pianta consacrata al trionfo (Plin. nat. 15, 127). Celso utilizza l’olio di alloro per la cura degli orecchi (6, 7, 8b / 280 M). Scribonio utilizza le bacche dell’alloro per il mal di testa (3, 5 e 10). Anche Plinio elenca i diversi tipi di alloro (nat. 15, 127-132) e ne sottolinea l’efficacia per curare il mal di testa, mentre l’olio e le foglie di alloro hanno, per esempio, un potere lenitivo (nat. 23, 156-158). Il rimedio vegetale è presente in vari autori medici tardo antichi, come in→Teodoro Prisciano, in →Marcello e in→Cassio Felice. 9. Aloe [ajlovh, aloe]. L’aloe, conosciuta anche dagli antichi Egizi, è un’erba dalle proprietà astringenti e cicatrizzanti, della quale veniva utilizzato anche in medicina il succo. La migliore qualità è data dall’Aloe Indica (vedi Plin. nat. 27, 14-20 e Chiron. 940). L’aloe viene utilizzata da Dioscuride (3, 22), è citata da Scribonio per  





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comporre un collirio proveniente dalla sopraccitata Aloe Indica (21) e in molti altri contesti come rimedio o in emplastra e è menzionata in più occorrenze da Celso (5, 20, 2 / 206 M). Plinio la ritiene buona tra gli altri usi (come astringente, addensante e leggermente riscaldante) per il male agli occhi (nat. 27, 14-18). L’aloe è molto utilizzata anche in età tardo antica (Oribasio, Marcello, Cassio Felice, Teodoro Prisciano). 10. Anice [a[nison, anisum o anesum]. L’anice (pimpinella Anisum L.) può provenire da varie parti del Mediterraneo e della Gallia (Plin. nat. 20, 188). Scribonio la utilizza in molte ricette, ad esempio, per curare il raffreddore (52), l’angina (70), le coliche (113), i dolori intestinali (120), i dolori del fegato (126), i dolori alle reni (144) i calcoli renali (145 e 152). Viene inoltre utilizzato dall’autore per alcuni antidoti (170, 173 e 177) e in un emolliente per il ventre (260). Per Plinio (nat. 20, 185-189) è un ottimo rimedio per la dissenteria e il tenesmo. 11. Aristolochia [ajristolovceia, aristolochia]. Scribonio (206) e Plinio (nat. 25, 95) distinguono l’aristolochia in più tipi (essenzialmente l’Aristolochia clematitis L., l’Aristolochia longa e l’Aristolochia rotunda L.) e ne individuano gli ambiti di utilizzo. Secondo la testimonianza di Plinio (nat. 25, 95) e di Scribonio (202) i Romani chiamano questa pianta malum terrae (25, 95). Scribonio usa la suddetta pianta per curare l’angina (70) per le malattie ai calcoli (153). L’aristolochia è una pianta molto efficace contro i morsi di serpenti (Plin. nat. 25, 99-102) e in ambito ginecologico per le mestruazioni, per l’espulsione della placenta e per arrestare il prolasso dell’utero (nat. 26, 154). L’aristolochia è usata, inoltre, anche nel periodo tardo antico. 12. Artemisia [ajrtemivsia, artemisia absinthium]. ‘La pianta di Artemide’ o artemisia arborescens è una pianta impiegata in ginecologia, dall’effetto tonico e digestivo contro i disturbi di stomaco e dell’apparato digerente ; Scribonio lo identifica con il dictamno (106), mentre lo Pseudo Apuleio (herb. 62, 18) lo cita con il nome artemideion. Plinio considera l’artemisia arborescens di due varietà (nat. 25, 73-74) e riporta la tradizione che la vuole utile per curare le malattie delle donne. 13. Assa fetida [ajmmwniakovn, ammoniaci gutta]. L’assa fetida è una gomma chiamata ammoniaca, prodotta dalla ferula marmarica africana e utile contro nevrosi ed asma, antispasmodica ed espettorante. Celso la utilizza  

come purgativo (5, 5, 2 / 191 M). È segnalata più volte da Scribonio, per le sue qualità emollienti (255, 260, 262, 264 e 266 bis). 14. Assenzio [ajyivnqion, absinthium]. L’Artemisia absinthium è utilizzata da Celso per lo stomaco e per i malati alla milza, da Plinio (nat. 27, 45) e da Scribonio Largo che se ne serve contro l’avvelenamento da ixia o da una pianta chiamata chamaleon, ossia la carlina officinalis ; Scribonio ne fa uso anche per curare le emorroidi. Questa erba viene citata anche da Dioscuride (3, 23). Si distingue l’absinthium Afrum (Pelagon. 252), l’absinthium Gallicum (Marcell. med. 15, 86), l’a. Italicum (Plin. nat. 27, 45), l’a. Ponticum (Plin. nat. 11, 194 e 27, 45), l’a. Syriacum (Pelagon. 367) e inoltre l’a. marinum (Plin. nat. 27, 53 e 32, 100 : seriphum) l’a. rusticum (Pelagon. 235) l’a. terrestre. Il rimedio vegetale è presente, inoltre in →Teodoro Prisciano, in →Marcello e in →Cassio Felice. 15. Bacca del grano di Cnido [kovkko~ Knivdio~, coccum Cnidium]. Lo gnidio è la bacca della Daphne gnidium, un’erba sempreverde, diffusa nella macchia mediterranea con foglie oblunghe, fiori bianchi, frutto baccaceo e gialliccio dal sapore acre che Scribonio destina agli idropici in una ricetta (134). Plinio ne descrive le caratteristiche, indicando che il grano di Cnido si utilizza nei rimedi medici (nat. 13, 114). Nei fatti è un purgante ad azione violenta. Il rimedio vegetale viene utilizzato nel tardo impero. 16. Balsamo [bavlsamon, balsamum]. Il balsamo è considerato uno dei più rari e più costosi prodotti della farmacopea antica proveniente da due giardini del re della Giudea (cfr. Thphr. HP 9, 6 e Str. 16, 2, 763) o viene importato dalla penisola arabica (Plin. nat. 12, 119-123). Conosciamo il succo del balsamo (ojpobavlsamon) della pianta Commiphora opobalsamum (cfr. Cels. 5, 23, 1b / 210 M ; Plin. nat. 13, 15 ; 15, 30 e 16, 135). Plinio (nat. 12, 111 sgg.) e Dioscuride (1, 19, 1-5) descrivono in modo accurato il balsamo e i suoi molteplici usi in campo farmacologico. Scribonio utilizza una pianta simile al balsamo che Plinio ricorda essere stata portata a Roma nel 71 d.C. durante il trionfo dell’imperatore Vespasiano e del figlio Tito dopo la distruzione del tempio di Gerusalemme (70 d.C.). La pianta menzionata da Scribonio è probabilmente la Chrysanthemum balsamita L. utilizzata contro l’ingrossamento del fegato e della milza e contro l’idropisia (126). Il balsamo entra anche  







farmacologia nella composizione dell’antidoto di Mitridate e nell’antidoto di Marciano (170 e 177). In età tardo antica il balsamo in ambito medico è usato da Oribasio. 17. Batracium [batravcion, batracium]. Pianta nota a Dioscuride (2, 175), è identificabile con il ranuncolo. Scribonio Largo usa la pianta per tamponare le ferite (174), Plinio descrive il potere caustico delle varietà di questa pianta officinale (nat. 27, 112). 18. Bdellio [bdevlla, bdevllion, bdellia, bdellium]. È una gommoresina che secerne dagli alberi della famiglia indigena dell’Oriente (Commiphora), molto ricchi di elementi balsamici e diffusi nelle zone tropicali e subtropicali del mondo antico. Usata contro tosse e mal di gola, la pianta è un antinfiammatorio. Celso lo usa con effetti purgativi e lassativi (Cels. 5, 4, 1 / 191 M, 5, 5, 2 / 191 M e 5, 12 / 193 M e 5, 15 / 193 M), mentre Scribonio lo consiglia come emolliente e nella confezione di pillole purgative. Per l’origine e le differenti denominazioni vedi Dioscuride (1, 67) che lo raccomanda per alcune malattie della pelle e Plinio (nat. 12, 35), che ne descrive la provenienza dalla Battriana e dalle regioni indiane e dalla Media. Cassio Felice, medico africano della metà del v sec. d.C., lo usa in un antidoto contro l’elefantiasi. 19. Calamo aromatico [a[koron, acorum]. L’Acorus calamus è una erba officinale efficace in contravveleni o antidoti (Cels. 5, 23, 1 b e 3 / 210 M), in un catapozio da ingerire per lenire i dolori (5, 25, 3 / 212 M), mentre Scribonio la utilizza come rimedio contro le coliche (121), per problemi al fegato o ai reni (126) e, come avviene per Celso, in alcuni antidoti. 20. Camaleonte [camailevwn, chamaeleon]. Si tratta della Atractylis gummifera, efficace come medicina che viene identificata sia da Scribonio (192) che da Plinio (nat. 22, 45). 21. Canna odorata [calamus]. Indica in generale lo stelo dei cereali (e per estensione di altre piante) che viene importato per costruire frecce, flauti e più specificamente, almeno in Plinio lo stelo del grano (nat. 18, 61 ; 18, 64 e 18, 69). Ne esistono innumerevoli tipi, ad esempio il calamus agrestis e il calamus creticus; ma per l’utilizzo in ambito medico conosciamo il calamus odoratus, radice dell’acoro originario della Siria o della Giudea. Scribonio (269) indica che la canna odorata è utilizzata dagli unguentarii e in un medicamento per calmare i nervi (Marcell. med. 35, 7).  

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22. Cannella [kinnavmwmon, cinnamomum]. Contro influenza e colite spastica, antipiretico e diuretico. Numerose occorrenze in Celso e in Scribonio, citiamo le possibili fonti : Teofrasto (HP 4, 4, 14) e Dioscuride (1, 14). Celso usa il cinnamomum come diuretico (3, 21, 7 / 132 M), come risolvente (5, 11 / 193 M), in pozioni per la vescica e per espellere i calcoli (4, 27 e / 181 M e, 5, 20, 6 / 207 M), per la podagra (5, 18, 33 / 200 M), contro i morsi delle vipere e le emorroidi (5, 27, 7 / 233 M). Scribonio impiega il cinnamomum casia in un emolliente contro le contusioni (265). A sua volta Scribonio impiega la cassia rufa in un collirio (36), la cassia nigra in un antidoto (177) e la cassia daphnitis in un rimedio per i calcoli (152) e in un acopum (269). Inoltre Scribonio impiega la casia per l’angina, per la tosse, per curare il fegato o i reni. Plinio descrive il cinnamomum zeylanicum o cinnamomo e il cinnamomum cas(s)ia, identificabile con l’albero della cannella, piante vegetali difficilmente distinguibili. 23. Carota [dau`ko~, daucus]. I Greci e i Romani conoscevano alcune varietà di questa pianta, inclusa tra le ombrellifere, e le nominavano come di consueto secondo il luogo di origine e provenienza. Dioscuride ne indicava tre tipi : daucus Creticus identificabile con la comune carota (Athamanta cretensis), l’Athamanta cervaria e la Seseli ammoides. Celso (5, 23, 3b / 211 M) usa il daucus Creticus nel composto di Mitridate contro l’avvelenamento e Scribonio ne fa uso, ad esempio, in alcuni antidoti (176-177). Pelagonio e Marcello, che ne fa uso in vari antidoti, come l’antidotum Philonianum (med. 20, 34, 20, 128 ; 26, 31 e 29, 11-12), conoscono questa pianta. Teodoro Prisciano ci parla della varietà di daucus agrestis e di daucus domesticus. Cassio Felice confonde il daucus con la pastinaca hortensis, la comune carota[3] usata in un composto per l’apostema al fegato. 24. Carta [charta]. La pianta del papiro viene utilizzata da Scribonio sotto forma di cenere (charta combusta) nella preparazione di alcuni pastilli per curare il cancro all’intestino (114) e contro le ulcere (237). 25. Celidonia [celidovnion, chelidonium]. Dioscuride parla del celidovnion mevga. Plinio distingue due tipi di questa pianta, utilizzati nella composizione di colliri (nat. 25, 89). Scribonio, invece, cita la pianta officinale per curare le ferite (174).  





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26. Centaurea [kentauvreion, centaurium]. La centaurea o ‘erba del centauro Chirone’ può indicare la centaurea officinale (o Grande centaurea) o la piccola centaurea indicata dal nome tecnico di Erythraea centaurium L. Scribonio e Plinio si riferiscono alla piccola centaurea chiamata fel terrae a causa del sapore amaro (Plin. nat. 25, 68). Scribonio utilizza questa pianta per curare le emorroidi (227). 27. Cicuta [cicuta]. Il Conium Maculatum è un veleno, che viene estratto dal seme della pianta. Dell’avvelenamento da cicuta parlano Scribonio (179) e Plinio (nat. 25, 151 sgg.). Scribonio usa la cicuta per curare la zona (247). Plinio descrive gli ambiti di utilizzo della pianta. Rinfrescante, viene utilizzata al posto dell’acqua per diluire i medicamenti, tuttavia facendo coagulare il sangue, provoca la morte se assunta in dosi eccessive. La cicuta è variamente usata nella medicina tardoantica. 28. Cipero [kuvpero~, cyperus]. Questa pianta è identificabile con la Cyperus L. e con la Cyperus esculentus L. Individuato da Dioscuride con lo xivfion (4, 20) e citato da Varrone e da Columella, il cipero in medicina viene impiegato da Scribonio per la pulizia e la cura delle gengive (61), per il curare l’ugola (71), in alcuni acopa per i nervi e le gengive (269, 271) e per comporre alcuni emollienti (257, 258, 265). Plinio (nat. 21, 115) distingue il cipero dal cipiro, identificando l’uno con il giunco, l’altro con il gladiolo. Mentre il cipero è usato in medicina come simplex applicato sugli pterigi, malattia consistente nella formazione di tessuti connettivi tra palpebra e cornea, e, in composti, con funzione diuretica, il gladiolo, invece, è ottimo per i calcoli renali e per l’utero. Il cipero e in particolar modo l’olio di questa pianta è utilizzato anche nella medicina tardo imperiale, ad esempio, da Oribasio, Teodoro Priscano, Marcello, Celio Aureliano e in Cassio Felice. Marcello, tra gli autori succitati, nel suo De medicamentis, elenca in differenti ambiti l’utilizzo del cipero dalle ricette per la cura delle affezioni alla testa come ulcere e lendini (med. 4, 31) alla cura dei dolori intercostali e al fegato in differenti acopa. 29. Coriandolo [korivandron, coriandrum]. Il seme di coriandolo è usato da Celso in un malagma (5, 18, 1 / 194 M) sotto forma di seme e per curare la fistola lacrimale, una pustola ; mentre è utilizzato da Scribonio per curare il fuoco sacro (244) e in un veleno (185).  

30. Costo [kovsto~, costum o costus]. La radice di questa pianta (identificabile con la Saussurea lapis) viene usata da Celso in vari malagmata, in una ricetta per l’intestino, in un pastillus per espellere i calcoli dalla vescica (5, 20, 6 / 207 M), in antidoti come l’antidotum Mithridatis (5, 23, 3 / 210 M), in acopa, in catapozi e, in generale, come lassativo (5, 5 / 191 M). Scribonio usa il costo per curare l’angina (70), le coliche (121), il mal di fegato, il mal di milza (125-126) e i dolori ai reni (144). La pianta viene, altresì, impiegata in antidoti e in una medicina per i nervi (269). Plinio afferma che questa pianta proviene dall’Arabia e che in ambito medico se ne usa la radice (nat. 12, 41). Il costo è un’erba aromatica conosciuta nella medicina di età tardo imperiale e tardo antica da Marcello, da Teodoro Prisciano e da Cassio Felice, che, tra gli altri usi, la impiega in una ricetta per curare le ulcere della cavità orale (36, 3) e nella cura delle malattie al fegato (44, 1). 31. Cumino [git] : si tratta della Nigella sativa. Scribonio la impiega, ad esempio, contro l’angina (69-70) e per il gonfiore allo stomaco (109). Quanto a cuminum viene utilizzato spesso per la cura dei malati di idropisia (vd. ad es. 134). 32. Edera [kittov~, hedera]. L’Hedera helix è usata contro bronchiti e nevralgie come espettorante balsamico. Citata da Teofrasto (HP 3, 18, 1) come pianta di molte varietà e usata da Celso come calmante (2, 33, 4 / 98 M) e sotto forma di hedera nigra citata in un farmaco (5, 28, 4 E / 239 M), l’edera è indicata da Plinio (nat. 24, 75), che ne distingue una ventina di tipi (nat. 16, 145), mentre da Scribonio (2 e 7) è prescritta per curare il mal di testa. L’hedera agrestis è usata da Teodoro Prisciano (eup. faen. 56), mentre un altro tipo di edera selvatica, l’hedera silvatica nigra, è usata da Marcello (med. 23, 60). 33. Fico [sukh`, ficus]. Numerose sono le varietà della Ficus carica L. conosciute. Spiccano, tra le altre, la siriana, l’egizia, la cipria e la varietà di fico proveniente dal Monte Ida. Celso usa specialmente i fichi secchi bolliti, i fichi verdi e la crema di fico per curare l’infiammazione agli occhi (6, 6, 26 / 270 M). Scribonio usa il fico secco (ficus arida) in un composto per la suppurazione della gola (66). Inoltre nelle Compositiones ha effetti curativi contro l’avvelenamento da bupresto (190). Plinio, invece, segnala le proprietà mediche del fico contro il sangue del toro, la cerussa e il sangue coagulato. Il fico è impiegato in autori del tardo impero romano,  

farmacologia come, ad esempio, Oribasio, Marcello, Medicina Plinii e Celio Aureliano. 34. Finocchio [mavraqon, feniculum]. Il succo e il seme di finocchio (generalmente da intendere come Feniculum uulgare) sono usati in composti medici in modo vario. Celso utilizza il finocchio come calmante (2, 33, 3 / 97 M). Scribonio ne fa uso in un collirio contro le cataratte (38), in cataplasmi per la gola (159-160) e in antidoti ; Plinio (nat. 20, 254) elenca gli ambiti di utilizzo del finocchio in particolar modo della fava (e del succo) del finocchio in rapporto al mondo animale : si usa contro i morsi dei serpenti, che si cibano di questa pianta selvatica, nonché contro il morso del cane con miele e contro il millepiedi. In Dioscuride (3, 70, 2) e in Marcello (med. 8, 17) è impiegato il succo della parte verde del finocchio. La radice e il seme del finocchio sono utilizzati nella medicina di età tardo imperiale. 35. Galla [khkiv~, galla]. La galla o cecidio è la ghianda (o bolla) della dimensione di una noce o di una fava prodotta da piante o da alberi, come la quercia. Celso utilizza la galla come purgante (5, 5 / 191 M), come corrosivo (5, 6 e 7 / 192 M), in alcune pasticche, in miscugli di medicine, in malagmata per riscaldare (5, 18, 1 / 194 M), in colliri e in altri ambiti, come nella cura delle ulcere della bocca (6, 11, 2 / 286 M) o nella cura delle malattie dei denti (7, 12, 1e / 328 M). La galla viene variamente utilizzata da Plinio che descrive la formazione di queste bolle, prodotte dalle querce o Quercus infectoria (nat. 16, 26) e nel libro ventiquattresimo descrive le proprietà terapeutiche della stessa. Scribonio usa ampiamente la galla, ad esempio per curare il mal di testa o per le emorragie (46), mentre dagli autori del tardo impero e dell’età tardo antica è impiegata in molti farmaci. 36. Gemma [kavcru~, cachrys]. Da Teofrasto (HP 3, 5, 5) abbiamo la notizie che questa gemma nasce d’inverno in piante come il pino. Da Plinio (nat. 16, 30) sappiamo che ha proprietà caustiche e che nasce da diverse piante (l’abete, il larice, la picea, il tiglio e il noce). Scribonio utilizza questa bacca per curare l’angina (166) e in un emolliente contro le contratture muscolari (255). 37. Genziana [gentianhv, gentiana]. La genziana viene utilizzata contro astenia e febbre, stimola i succhi gastrici e difende dalle malattie infettive. Probabilmente il nome deriva da gevnti~, sovrano dell’Illiria. Usata nella medici 



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na dell’età imperiale da Celso nell’Antidotum Mithridatis (5, 23, 3a / 211 M), la genziana è presente in Plinio (nat. 25, 71) e in alcuni antidoti di Scribonio (170, 176-177). La genziana, inoltre, compare in molti trattati medici dell’età tardo imperiale e in alcuni antidotari del Medioevo, come, per esempio, l’Antidotario di Reichenau, l’Antidotario di Berlino e l’Antidotario di San Gallo. 38. Ghianda [bavlano~, balanus]. Glans unguentaria o noce di Behen. Dioscuride (4, 157) lo considera frutto della tamerice o tamarisco. Teofrasto dice che la pianta prende il nome dal frutto e che la utilizzano gli unguentarii (HP 4, 2, 6). Celso fa uso della buccia della ghianda denominata balanus myrepsicus per curare la milza (5, 18, 4 / 195 M). Scribonio lo utilizza per la milza in una pozione (Scrib. Larg. 129 : … balani quo unguentarii utuntur). 39. Giunco [iuncus]. Assimilabile al cipero, il giunco viene utilizzato da Celso nelle sue varietà di giunco quadrato e giunco rotondo oltre all’utilizzo del fiore del giunco. Il giunco quadrato viene usato, per esempio, in una ricetta per lenire il dolore (4, 21, 2 / 175 M) e in un malagma per agevolare la digestione (5, 18, 8 / 196 M). Il giunco rotondo viene utilizzato da Celso in un malagma per i dolori del fegato (5, 18, 3 / 195 M), per curare la podagra (5, 18, 33 / 200 M), in un acopum (5, 24, 1 / 211 M) e in un rimedio per la colica (5, 25, 12 / 214 M). Il fiore del giunco rotondo è impiegato da Celso in alcuni antidoti (5, 23, 1-2 / 210 M), in un acopum, ossia in un composto lenitivo. Il giunco è utilizzato, infine, da Scribonio per pulire le gengive (61). 40. Giusquiamio [uJoskuvamo~, altercum, hyoscyamus]. L’altercum è il nome latino della pianta (in greco uJoskuvamo~), che veniva riallacciato per etimologia popolare a altercari. Celso utilizza la scorza di questa pianta per curare i dolori articolari (5, 18, 29 / 200 M) e in un unguento per gli occhi (6, 6, 9 / 265 M). Si distingue l’altercum album a fiori e a grani bianchi, quest’ultimo utilizzato da Scribonio contro la tosse, in antidoti e in rimedi dall’altercum aureum. La giusquiamio in questo autore può risultare anche un veleno (181). Plinio distingue quattro tipi di giusquiamio (nat. 25, 35 ss. e al proposito vedi anche Dsc. 4, 68; Orib. Syn. 2,56) ; tuttavia a differenza di Scribonio (90), Plinio considera simili altercum e Apollinaris herba. 41. Gomma [commi, cummi, gummi]. Le fonti parlano di due tipi di gomma, la gummis Ale 



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xandrina e la commi olivae Aethiopicae. Celso usa la gomma come antiemorragico (5, 1 / 190 M) come cicatrizzante (5, 2 / 191 M), in un malagma (5, 18, 1 / 194 M) in un pastillus (5, 20, 5 / 206 M), in antidoti al veleno (5, 23, 3 / 210 M) e variamente nei farmaci per curare le malattie degli occhi per esempio nei colliri (6, 6, 3-4 / 262 M). La gomma (gummis Alexandrina) viene variamente utilizzata da Scribonio nella composizione di colliri (21, 23, 24). Plinio parla, invece della gomma proveniente dall’Egitto, ricavata dall’acacia spinosa, che è conosciuta a partire dal vii sec. a.C. La gomma viene ininterrotamente utilizzata nella medicina di età tardo imperiale e in alcuni antidotari medioevali. 42. Issopo [u{sswpon, hyssopum o hysopum]. Le numerose varietà di issopo servono contro bronchiti, raffreddori e artriti. L’issopo è antisettico, digestivo e espettorante. Celso usa l’issopo, ad esempio, per la polmonite (4, 14, 2 / 168 M), per la cura dell’intestino (4, 24, 1 / 177 M), in un catapozio con mirra e resina (5, 25, 11 / 214 M) e sopra una ulcera assieme ad altri rimedi (5, 28, 13c / 246 M). Scribonio, invece, lo indica come emolliente delle vie respiratorie e dell’intestino (49 e 121). L’issopo è molto utilizzato per comporre farmaci in vari autori di età tardo imperiale, come, ad esempio, Marcello, Teodoro Prisciano e Cassio Felice. 43. Lapazio [lavpaqon, lapathum]. Con il nome lapazio si indicano due erbe del genere rumex, la pazienza (Rumex patientia) e la romice (Rumex crispus) utilizzate come lassativo. Plinio considera il lapazio fra le erbe quella dotata di radice più lunga (nat. 19, 98) e ne elenca le varietà (oxalide, oxilapato, idrolapato, etc.). L’enciclopedista ne elenca gli ambiti di utilizzo (nat. 20, 231-235). Celso usa il lapazio per il mal di stomaco e contro la stitichezza. Scribonio utilizza questa erba per il mal di denti (57) e, inoltre, lo prescrive da mangiare con dei legumi dopo una purga con l’elleboro (99). 44. Lenticchia selvatica [o[robo~, eruum]. Identificata con la Vicia Eruilia L. è usata in medicina e considerata nociva come alimento da Plinio (nat. 22, 151). Scribonio ne fa uso per gli idropici, per problemi al fegato, ai reni (126) e in una teriaca (165). Celso usa la lenticchia selvatica come lassativo e purgante, da spalmare assieme ad altri rimedi sopra le ulcere (5, 27, 13b / 235 M e 6, 15, 2 / 289 M). Sempre per curare ulcere o cicatrici Celso usa la farina di lenticchia (6, 5, 3 / 258 M), spesso usata assieme alla

farina di farro, di orzo e di loglio diluita con acqua. 45. Lentischio [lentiscus]. Il lentischio ha proprietà corrosive in Celso (5, 6 / 192 M), che, per esempio lo impiega per la cura dell’orecchio (6, 7, 2b / 277 M), mentre usa la resina di questa pianta in alcune ricette per tumori o escrescenze (5, 18, 22 / 198 M). Le foglie essiccate sono utilizzate per l’igiene dentale da Scribonio (61). Plinio descrive le numerose proprietà del lentischio e del frutto di questa pianta (vd. anche Diosc. 1, 42 e 1, 70) e ne sottolinea l’utilizzo come diuretico, come collutorio per le gengive e, nel caso delle foglie, per il mal di denti (nat. 24, 42). 46. Mandorla [ajmugdalh`, amygdala amara, nux amara]. La mandorla trova un suo sinonimo nella nux amara utilizzata da Celso (3, 10, 2 / 117 M) e da Scribonio (3) per il mal di testa. Anche Plinio denota che la mandorla amara viene utilizzata per indurre il sonno, stimolare l’appetito e come diuretico e, inoltre, in applicazioni, per il mal di testa e per la febbre (nat. 23, 144). La mandorla amara è prescritta in ricette anche in autori dell’età tardo imperiale (cfr. Cael. Aur. acut. 2, 111 ; Cass. Fel. 9, 3). 47. Marrubio [marrubium]. Utile contro le malattie delle vie respiratorie, espettorante e sedativo. Celso lo nomina più volte, ad esempio, come corrosivo e efficace per la pelle (5, 7 / 192 M e 5, 16 / 193 M) e per la cura del cancro (7, 27, 2 / 353 M). Bollito nell’acqua il marrubio ha effetti contro l’asma (100) e si rivela decongestionante dell’intestino in Scribonio (106). Il marrubio è citato anche da Plinio, che lo considera una pianta molto importante e molto usata in medicina (nat. 20, 241 sgg.). 48. Menta [mivnqh, menta]. Contro spasmi digestivi e contratture muscolari, digestivo e analgesico. Celso la utilizza come analgesico per la tosse (4, 10, 2 / 161 M), per le malattie allo stomaco e al fegato (4, 15, 3 / 169 M), nella cura del colera (4, 18, 3 / 172 M) e, in generale, a livello superficiale, delle ulcere (6, 11, 5 / 286 M). Scribonio indica la menta per il mal di testa (2), mentre Plinio descrive l’origine della menta e gli effetti se bevuta con il latte (nat. 20, 147). La menta è usata in ambito medico anche nei secoli successivi. 49. Mirra [muvrra, smuvrna, myrrha]. L’origine e la descrizione della pianta della mirra e del prodotto ottenuto dall’incisione della pianta occupa alcuni capitoli della Naturalis Historia di Plinio, che si rifà a Teofrasto (HP 9, 4,) e a  

farmacologia Dioscuride (1, 77). L’enciclopedista distingue la mirra coltivata da quella selvatica. La mirra spontanea è chiamata stacte dall’aggettivo greco staktov~ e dal verbo stavzw, significante «colare goccia a goccia» (la mirra peraltro è menzionata anche nel Genesi 37, 25). La mirra coltivata è di molte specie, come, per esempio, la trogloditica e la minea). La migliore mirra è biancastra e di forma irregolare. Si veda anche la trattazione molto documentata ed esaustiva di Livia Radici in →veleni e contravveleni. 50. Nardo [navrdo~, nardus]. Esistono alcune varietà di nardo tuttavia il nardo usato dai Romani è una valeriana, lo Nardostachys Jatamansi (de Candolle). L’enciclopedista Plinio descrive il nardo e le sue specie (nat. 12, 42-47). Celso utilizza la spiga di questa pianta, spica nardi, identificabile con il nardo indiano (Cels. 4, 27 e / 181M) e ne fa un composto in un contravveleno o antidoto (Cels. 5, 23, 1 B / 210 M). Chi usa in molte ricette questa pianta è Scribonio. L’autore delle Compositiones utilizza le nardi spicae, per la preparazione di un collirio (36), per dentifrici (59-60), per l’angina (70), per la tosse (93), per l’intestino (106), contro la coliche nelle ricette di Cassio e Basso (120-121) e in un emolliente per il dolore (258). Scribonio impiega anche le parti di questa pianta per comporre i farmaci. Le foglie del nardo vengono impiegate per comporre un antidoto (176), il nardum Indicum in una bevanda per i reni (144), nell’antidoto di Marciano (177) e, per concludere, il nardum Syriacum è utilizzato in un rimedio per lo stomaco, per le coliche in antidoti (173, 176) e in un acopo (271). Marcello, Oribasio e Alessandro di Tralle usano questa pianta medicinale. Si veda anche la trattazione esaustiva di Livia Radici in →veleni e contravveleni. 51. Olivo/a [olea o oliua]. L’olivo/a viene usato/a contro l’ipertensione e l’alterazione della flora batterica intestinale, come astringente e depurativo. Celso usa l’oliua alba (4, 27 e / 181 M). Le olive si rivelano utili per tutto l’apparato digerente in Scribonio (104), che prescrive, i rami d’olivo con un fascio di mirto per accompagnare una pastiglia contro le coliche (114). Infine Scribonio (142) ci dice che l’acqua stessa dove è stato lasciato il ramo d’olivo è utilizzabile per medicamenti all’ano in caso di tenesmo. Plinio considera le foglie dell’olivo selvatico un antinfiammatorio e dall’effetto

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cicatrizzante, il fiore utile per applicazioni sui condilomi e sulle epinittidi, mentre i germogli della pianta dell’olivo servono, se cotti e applicati, a riconnettere il tessuto del cuoio capelluto (nat. 23, 78-79). Celio Aureliano usa l’olivo in ricette per l’emicrania. 52. Origano [ojrivganon, origanum]. Si tratta dell’origano, anche se non esiste una corrispondenza negli autori che descrivono le piante officinali tanto che si potrebbe parlare anche della maggiorana. Generalmente l’origino viene impiegato contro l’ansia, l’insonnia cefalea, quale anticatarrale, come digestivo e sedativo. Si parla di questa pianta nelle opere di Plinio, che ne distingue alcune specie (nat. 20, 175) e di Scribonio che usa l’origano in un composto contro l’avvelenamento da gesso e dall’aconito (182 e 188). Si servono di questa pianta in composti medicinali numerosi autori del tardo impero e dell’Alto Medioevo. 53. Pepe [pevperi, piper]. Denominato pepe bianco o pepe nero, se decorticato o non decorticato, oppure piper longum (cfr. Dsc. 2, 188), il pepe è usato contro insonnia e irritabilità ed è un anticonvulsivo e un rilassante. È largamente citato da Celso, che lo presenta in molti contesti come nella cura della febbre quartana (3, 16, 2 / 121 M), nella cura della letargia (3, 20, 1 / 129 M), in un malagma, uno dei topici più frequenti (5, 18, 30 / 200 M), in alcuni catapozi contro i dolori ai fianchi e contro la tosse e, più in generale (5, 25, 1 / 212 M), come sostanza dalle proprietà corrosive (5, 6 / 192 M) e da Scribonio, ad esempio, per il mal di testa (9 e 10), per la tosse (94) e per le affezioni agli occhi (26, 32, 33, 34). Plinio (nat. 12, 26) descrive l’origine dell’albero del pepe dall’area del Caucaso. Il pepe continua ed essere utilizzato nei secoli successivi nella cucina e nella confezione dei farmaci. 54. Piantaggine [plantago]. Il nome latino plantago deriva dalla pianta del piede. Impiegato contro la colite, la piantaggine è un lassativo e un calmante. È citata molto spesso da Celso (4, 11, 6 / 163 M), che la utilizza, ad esempio, per curare l’elefantiasi (3, 25, 3 / 141 M) o alcune affezioni all’ano (6, 18, 10 / 296-297 M). Scribonio la utilizza variamente per le sue proprietà calmanti, ad esempio, in un collirio (21). Plinio ricorda la pubblicazione di un libro sulla piantaggine da parte di Temisone, fondatore della scuola metodica (nat. 25, 80). Nell’età tardo imperiale e nel Medioevo si fa uso della piantag-

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gine (vedi tra gli altri Medicina Plinii, Marcello e Teodoro Prisciano). 55. Poligonia o Sanguinaria [polygonos o polygonium, polygonum]. La poligonia è una pianta appartenente alle papaveracee ; denominata altresì sanguinaria, viene impiegata contro emorragie, emorroidi e convulsioni. Celso la cita come refrigerante, calmante e antiemorragico (2, 33, 2 / 97 M). Plinio la consiglia come antiemorragico, emostatico, astringente e rinfrescante (nat. 27, 113-118), mentre Scribonio la prescrive per il mal di testa (2). 56. Ranuncolo [batravcion, batracium o batrachium]. Il batracium, pianta nota a Dioscuride (2, 175), è identificabile con il ranuncolo. Scribonio Largo lo usa per tamponare le ferite (174), mentre Plinio descrive il potere caustico delle varietà di questa pianta officinale (nat. 25, 175 e 27, 112). 57. Resina di Terebinto [rJhtivnh terminqivnh, resina terebinthina]. La resina di terebinto (pistacia terebinthus L., al proposito vedi Thphr. HP 9, 2, 2) è utilizzata fin da Ippocrate per curare le ferite. Nella medicina dell’età imperiale Celso usa la resina per la sua proprietà di purgante e di cauterizzante (5, 5-6/ 191-192 M), in alcuni malagmata (Cels. 5, 18, 3 / 195 M), in emplastra (5, 19, 11 / 202 M), in ricette di vario genere, in contravveleni o antidoti (5, 23, 1b / 210 M), in acopa e in catapozi. Scribonio Largo impiega la resina t. nella cura della gola (66), della trachea e dei problemi all’arteria (75), dei tumori (82), della tosse e dell’asma (89), per il rilascio del ventre (135), in un emolliente per i dolori lombari (157) e in molti altri contesti di utilizzo. Plinio, infine, sottolinea che le proprietà curative di questa resina è di essere un emostatico e di pulire e ridurre gli accessi e le ulcere e, inoltre, di essere efficace per curare le malattie del petto e del seno (Plin. nat. 16, 55). 58. Rosa [rJovdon, rosa]. Impiegata dagli Egizi come farmaco e usata generalmente contro astenia e ansia, la rosa è un antinfiammatorio e un antibatterico. I migliori tipi di rosa provengono da Preneste e dalla Campania, dove troviamo la Rosa centifolia. In Celso esistono numerose citazioni degli impieghi medici di rosa, come ad esempio, per la febbre (3, 10 / 117 M), per altre affezioni, quali il delirio (3, 18, 8b / 124 M), la letargia (3, 20, 4 / 129 M), i dolori allo stomaco (4, 12, 1 / 164 M), in alcuni malagmata (cfr. 5, 18, 9 / 197 M ; 5, 18, 20 / 198 M e 5, 18, 35 / 200 M), in alcuni emplastra, come l’enneaphar 



macum (5, 19, 10 / 202 M) e in ricette di vario genere (5, 21, 3 / 207 M). Ha varie applicazione per Scribonio per il mal di testa (4), per le ulcere al naso e per la gola in caso di presenza di pus o ascessi. I medici antichi impiegavano, peraltro, le foglie di rosa essiccate, quelle fresche e i petali di rosa. Inoltre distinguiamo la Rosa silvestris o selvatica dalla Rosa canina di uso molto frequente. La rosa, i petali di rosa e le foglie della rosa continuano ad essere utilizzati nella medicina dell’età tardo imperiale e dell’Alto Medioevo. 59. Sambuco [sabucum o sambucum]. La pianta è la sambucus nigra, arbusto diffuso in Asia e in Europa impiegato dal punto di vista medico contro tosse, asma, reumatismi e come emolliente e antinevralgico. Per Scribonio il sambucum viene impiegato in un cataplasma (160). 60. Sedano [sevlinon, apium]. Il sedano viene impiegato contro la cefalea e l’artrite come antiflogistico e antispasmodico. Esistono alcune occorrenze in Celso, che usa il sedano in un catapozio (5, 25, 2 / 212 M) ; mentre ha numerose applicazioni in Scribonio, come ad esempio per l’angina (70), per la composizione di una pastiglia contro la tosse sotto la forma di semi di sedano (92), contro le coliche (120) e per rendere molle il ventre (120). 61. Semola di grano [a[lix, alica o halica]. Si tratta del triticum dicoccum (semola di grano). Scribonio impiega questa sostanza con l’aceto per la cura della scabies (251) e la considera adatta per lo stomaco. L’alica viene citata da Isidoro, che ne distingue tre tipi (orig. 17, 3, 9). Il rimedio è utilizzato anche da Teodoro Prisciano, autore di un compendio di terapeutica in tre libri denominato Euporista. 62. Silfio [sivlfion, laser]. Si tratta del succo della pianta del silfio, [4] da identificare probabilmente con la Ferula tingitana, proveniente dalla Cirenaica (laser Cyrenaicum), descritta da Teofrasto (HP 6, 3, 1). Quando questa pianta scompare a causa del commercio e dell’esaurimento conseguente tanto che un unico esemplare superstite viene offerto a Nerone, viene sostituita dalla resina di una pianta della Persia (laser Syriacum), come afferma Plinio (nat. 19, 38). Per quanto riguarda l’utilizzo in ambito farmacologico Celso impiega il silfio per combattere la febbre quartana, nel caso di kuniko;~ spasmov~ (4, 4 / 154 M), nel caso di tetano o opistotonia e in altri ambiti, come contravveleno dei morsi dei serpenti (5, 27, 8 b / 233 M), se si beve la cicuta (5, 27, 12 b / 234 M), se attaccati  



farmacologia da una sanguisuga (5, 27, 12 c / 235 M). Scribonio impiega il succo di silfio (preferibilmente il laser Cyrenaicum) per una teriaca (165), in alcuni antidoti e in caso di avvelenamento, per esempio, dovuto al sangue di toro (196). Infine anche Columella (6, 17, 7) usa la radice del silfio (laserpicium) per le malattie agli occhi. Si veda anche la trattazione molto documentata ed esaustiva di Livia Radici nella voce →veleni e contravveleni. 63. Verbena [uerbena]. Contro reumatismi, bronchite e mal di gola, la verbena attutisce febbre e nevralgie. Celso utilizza questa pianta aromatica nel caso di frenesia (3, 18, 8 a / 123 M), nel caso di dissenteria, nel tetrapharmacum (4, 25, 2 / 178 M), per curare condilomi (6, 18, 8 a / 295 M), il prolasso dell’ano, della vulva (6, 18, 10 / 296 M) e le ulcere delle dita (6, 19, 2 / 297 M). In Scribonio è usata cotta con rami di mirto e di olivo per curare l’ano (142 e 232) e guarisce le ulcere lievi (205). 64. Zenzero [ziggivberi, zingiber]. Lo zingiber officinale è efficace contro la senescenza e l’ipertensione e accelera il metabolismo, efficace contro astenia e acidità dello stomaco. Questa pianta officinale è presente sia in Celso nell’Antidotum Mithridatis (5, 23, 3b / 211 M) che in Plinio (nat. 12, 28) e in Scribonio (165), quando lo elenca nella preparazione di una teriaca. Lo zenzero è usato anche nelle medicina di età tardoimperiale e nell’Alto Medioevo. 65. Elenchiamo, infine con il nome latino alcune piante officinali presenti in più di un autore romano, di solito, Celso, Plinio e Scribonio che sono state trattate solo in parte nel presente lavoro : abrotonum, acacia, acorum, amomum, amygdala amara, anesum, aristolochia, balanus, balsamum, batracium, cachrys, calamus odoratus, centaurium, chamaelon, charta, chelidonium, cicuta, coccum Cnidium., commi, coriandrum, costum, cuminum, cypirus, daucus, elaterium, eruum, feniculum, ficus, galbanum, galla, gentiana, git, iuncus, lapathum, laser, laurus, lentiscus, linum, lycium, malua, myrrha, myrtus, nardum, omphacium, papauer nigrum, peucedanum, plantago, polium, portulaca, puleium, pyrethrum, quinquefolium, resina terebinthina, ruta, sagapenum, satureia, scamonia, scilla, scoenus, sertula Campana, solanum, staphis, stoechas, styrax, tamariscus, thapsia, thymum, trifolium, tus, ueratrum, uiscum, uitis alba, urtica, uua.  

Note. [1] Isid. orig. 20, 3, 9 : « […] acetum, uel quia acutum, vel quia aquatum ; uinum enim aqua mixtum  





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cito in hunc saporem redigitur. Inde et acidum, quasi aquidum… ». – [2] Scrib. Larg. 188 : « […] aconiti gustus est auster et subamarus ». – [3] Andrews 1949a, 185. – [4] Nencioni 1939, 30.  







Fonti. Per singole fonti relative soprattutto alla medicina del periodo romano si vedano autori e opere citati nella trattazione della presente microvoce. Per le raccolte di simplicia si richiameranno : Dioscuride, De materia medica ; Plinio, Nat. hist., ll. 20-32 ; Galeno, De simplicium medicamentorum temperamentis et facultatibus ; Gargilio Marziale, Medicinae ex oleribus et pomis ; Oribasio, Collectiones, ll. i-xiv ; i libri secondi di Synopsis ed Euporista ; Ps. Apuleio, Herbarius ; Anonymi de taxone liber ; Ps. Antonio Musa, De herba Vettonica ; Sextus Placitus, Liber medicinae ex animalibus ; Ps. Teodoro Prisciano, De virtutibus pigmentorum uel herbarum aromaticarum.  





















Bibliografia. André 1956 ; André 1961 ; Andrews 1949a ; Andrews 1949b ; Baader 1967a ; Baader 1967b ; Baader 1967c ; Baader 1967d ; Baader 1967e ; Baader 1967f ; Berendes 1902 ; Bocquet 1988 ; Colin 1966 ; Fraisse 2002 ; Gaide 1995 ; Gaide 1996 ; Gutsfeld 1998 ; Hünemörder 1997; Hurschmann C. 1996 ; Hurschmann R. 1996 ; Hurschmann 1997; Kislinger 2005b ; Nencioni 1939 ; Orth 1899 ; Orth 1912 ; Pease 1937 ; Raeder 1964a ; Rinne 1896 ; Scheller 1967 ; Sigerist 1977 ; Stadler 1907 ; Stadler 1910 ; Steier 1932b ; Van Wyk-Wink, 2004 ; Wagler 1897 ; Wellmann 1907.  

































































Daniele Monacchini · Maria Antonietta Cervellera 2.2. Rimedi del mondo minerale. – Le sostanze minerali da noi trattate sono state scoperte nella maggior parte dei casi prima di Celso, tuttavia dal momento che solo nel De medicina di Celso, nelle Compositiones di Scribonio Largo e nell’opera enciclopedica di Plinio, la Naturalis Historia, compaiono, in modo sistematico, ci limitiamo a citare i passi delle opere suddette. È altresì noto che l’utilizzo di queste sostanze ricorre in altri autori di epoca più tarda. Descriviamo di seguito alcune sostanze minerali : 1. Acqua [u{dwr, aqua]. L’acqua è l’elemento di amalgama dei farmaci e Celso la utilizza nei medicamenti per le ferite e in molti altri ambiti, ad esempio bollita per l’epilessia. Scribonio Largo impiega l’acqua per i farmaci o per bagnare le parti malate del corpo. [1] L’acqua può essere fredda (frigida), tiepida (tepens), calda e bollente. Inoltre possiamo distinguere l’acqua  



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farmacologia

salata del mare, l’aqua pluvialis e l’acqua con miele utilizzata da Scribonio per diluire e far assorbire le medicine (Scrib. Larg. 66, 79-80). Scribonio, tra l’altro, raccomanda l’acqua marina per la podagra. Per Plinio (nat. 31, 59) l’acqua sulfurea è utile ai tendini, quella ricca di allume ai paralitici, l’acqua bituminosa o con il nitro per le purghe. L’acqua salina era prescritta per i tisici tanto che veniva ordinato loro un viaggio per mare. L’acqua viene utilizzata per mescolare emplastra e per eliminare le verruche (Plin. nat. 31, 72). L’uso medico riguarda anche le acque calde e le acque piovane (aqua pluvialis e caelestialis). Vino e acqua piovana vengono impartiti per la dissenteria (nat. 20, 104). Vengono utilizzate a scopi medici le acque frigidae (nat. 20, 153), marinae (nat. 31, 97), mulsae (nat. 20, 126), con nitro (nat. 31, 59), sulphuratae (nat. 23, 5) e tepidae (nat. 23, 5 ; 26, 74). In seguito l’acqua nei suoi vari generi è utilizzata a scopi medici e in composti da Marcello, in Medicina Plinii (ricettario del iv sec. d.C.), in Celio Aureliano, in Oribasio, in Esculapio, nello Pseudo-Teodoro Prisciano e in Dioscuride. Sono a tutti ben noti a Roma la frequenza e l’uso delle thermae (Plin. nat. 35, 26) e delle proprietà curative delle sue acque. 2. Allume [alumen]. Si possono distinguere l’allume colato (colatum), l’allume crudo (crudum), l’allume fisso (fissum), l’allume liquido (liquidum detto phorimon contrapposto al paraphoron) con proprietà astringenti, indurenti e corrosive (Plin. nat. 35, 184), l’allume spissum, l’allume rotondo (rotundum), l’allume scissum e sciccum o tritum (in Columella 6, 13, 1), l’allume scistovn, candidum e nigrum (Plin. nat. 35, 184 e 186). L’allume di miglior qualità viene estratto in Egitto. Ippocrate lo utilizza come sostanza astringente per il catarro e per la gola. L’allume scissile o liquidum viene utilizzato in Celso per il tenesmo (4, 25, 2 / 178 M), per rimarginare le ferite (5, 2/ 191 M) e per la sue capacità corrosive (5, 6/ 192 M). In Celso, inoltre, compare l’alumen scissile (5, 8 / 192 M), che viene utilizzato nei pastilli (5, 20 1 a / 206 M). L’alumen fissum viene utilizzato in Scribonio Largo per il mal di testa (4), per la preparazione di un collirio (31), per l’orecchio (41 e 42), per l’infiammazione alla gola (65), per l’angina (70), per l’asma (77), per il sangue nell’urina (149), per il male alla gola (158) e per alcuni emplastra. L’allume liquido viene utilizzato nelle Compositiones di Scribonio per bloccare le emorroidi  

(227) e le emorragie (47, 86). L’allume rotondo viene utilizzato in un collirio (30), in differenti emplastra, in un remedium contro l’herpes. Plinio lo descrive come prodotto dai raggi del sole, dopo essersi sedimentato nell’inverno e come ‘trasudamento’ della terra, composto di acqua e fango. [2] L’allume liquido misto al miele (nat. 35, 184), cura le ulcere nella bocca, le bolle e i pruriti ; viene utilizzato contro i cattivi odori delle ascelle. Inoltre l’alumen viene assunto in pillole per il mal di milza e per le tracce di sangue nelle urine. L’alumen solido o scistovn ha una minore capacità di tamponare l’umore dei corpi, ma presenta molteplici usi (ulcere, bocca, denti, occhi e genitali). Plinio ricorda l’allume dell’isola di Melos per la proprietà astringente e indurente e quello dell’Egitto con i rimedi animali per l’alito cattivo (nat. 28, 100), per l’alopecia (nat. 28, 164), per le ulcere con fegato bruciato di animali (nat. 28, 214). L’allume scistoso viene utilizzato in medicamenti per l’idrocele. Inoltre Plinio ricorda la funzione colorante dell’allume per pelli. L’allume fisso o liquido viene frequentemente utilizzato da Marcello. L’alumen scissum è usato in medicamenti da Marcello e Teodoro Prisciano. 3. Antracite (pietra) [gagavth~, gagates]. Questa pietra è chiamata gagates perché la si trova sulle rive dell’omonimo fiume, come emerge nel De simplicium medicamentorum temperamentis ac facultatibus di Galeno (vd. Gal. Simpl. med. temp. 9, 10 / 12, 203 K) Si tratta di una pietra nera composta di antracite, impiegata per i condilomi da Scribonio, che, per primo, usa questo termine (225). Plinio ne descrive la provenienza, la natura di pietra friabile e dall’odore acuto e l’utilizzo come medicinale (nat. 36, 141). La pietra gagates è usata frequentemente da Pseudo-Teodoro Prisciano. Plinio utilizza anthracitis a nat. 36, 148; 37, 99 e sgg. 4. Argento [a[rguro~, argentum]. Sotto la forma di spuma argenti l’argento viene utilizzato in vari autori per alcune ricette (come in Celso, che, in generale, lo usa frequentemente in 5, 19, 1b / 201 M per le purghe) e in emplastra. Plinio ne descrive l’impiego in ambito medico (nat. 33, 105) sotto la forma di scoria (o skwriva) di argento per cicatrizzare le ferite e sotto la forma di spuma argenti come essiccante, emolliente e refrigerante. 5. Arsenico [auripigmentum]. L’arsenico, identificato da Celso (5, 2 / 191 M), Scribonio Largo (227, 230), Plinio (nat. 6, 98) e Dioscuri 



farmacologia de (5, 120) con l’auripigmentum e con l’arsenicum album è un elemento di ricette per le emorroidi, per l’intestino e per ripulire le pustole o le ulcere. Celso lo utilizza per le sue proprietà cauterizzanti, ammorbidenti e di pulizia. In Plinio (nat. 34, 178) l’arrhenicum è utilizzato per la preparazione dei rimedi caustici e dei depilatori. L’arsenico viene utilizzato da Oribasio, da Paolo d’Egina e da Alessandro di Tralle. Dioscuride distingue due tipi di auripigmentum, uno proveniente dalla Misia, l’altro proveniente dal Ponto e dalla Cappadocia. L’auripigmentum viene equiparato da Celso (5, 5, 1 / 191 M) e da Scribonio (114) all’arsenico e viene utilizzato per le emorroidi (227 e 230). Celso (5, 5, 1 / 191 M; 5, 22, 2 B / 208 M) lo utilizza in medicamenti con facoltà purgative, cauterizzanti, oltre che per le ulcere e per le emorroidi (6, 18, 9 C / 296 M). L’auripigmentum corrisponde, in sostanza, al solfuro d’arsenico ossia ad un minerale naturale usato come colore (Plin. nat. 35, 30). Oltre a questo conosciamo l’arsenico bianco per via dell’anidride contenuta nell’arsenico acido. Nell’età tardo imperiale e nel Medioevo l’auripigmentum viene utilizzato, tra gli altri, da Teodoro Prisciano e in Physica Plinii Bambergensis. 6. Atramento [cavlkanqo~, atramentum]. L’atramento è una vernice nera ottenuta da fuliggine (atramentum fornacis) e ceneri di diverse sostanze (Plin. nat. 34, 114 e 35, 41-43). Può derivare dal rame o dal ferro. Lo stesso Vitruvio descrive in modo dettagliato i differenti modi per ottenere tale colorante nero mescolandolo con la resina, con i carboni dei tralci, con i trucioli del pino e con le vinacce seccate e cotte. Celso distingue l’atramentum sutorium (in greco cavlkanqo~), «nero da calzolaio» dallo scriptorium e lo utilizza, tra le altre cose, con funzione curativa per le ferite, con funzione cauterizzante (5, 19, 19 / 204 M), nei colliri e nelle infiammazioni agli occhi (6, 6, 27 B / 270 M). →Scribonio Largo[3] lo utilizza in ricette destinate alle verruche (come Plinio, nat. 20, 123), alle voglie, ai calli e per le emorroidi (Scrib. Larg. 228 e 230). L’atramentum viene utilizzato anche nella letteratura medioevale, ossia nei Dynamidia pseudo-galenici. Per la differenza tra cavlkanqo~, cioè atramentum sutorium, e calkou` a[nqo~, cioè aeris flos, vd. Sconocchia 2007, 328-333. 7. Biacca [yimuvqion, cerussa]. La biacca è considerata uno dei composti più importanti della medicina egiziana e della medicina greca. Cel-

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so la utilizza, ad esempio, per i dolori alla testa e per le infiammazioni (3, 10, 2 / 117 M), nella cura dei tumori, nella cura dei calli (5, 18, 36 / 201 M), in vari emplastra (5, 19, 2 / 201 M), in pastilli, per l’erisipela, in colliri per gli occhi (6, 6, 3 / 262 M), per l’ombelico (6, 8 / 281 M) e per le escrescenze della pelle (6, 18, 8 B / 295 M) o per trattamenti estetici e cosmesi del volto come in Ovidio (medic. 73). Scribonio impiega il nome greco (184) e il nome latino e utilizza la biacca per la cura degli occhi (32-33) delle orecchie (45), delle ulcere nasali (49), negli emplastra, nella cura delle eruzioni cutanee (246247, 252) ed in pomate. Si tratta di acetato di piombo (Cels. 5, 18, 36 / 201 M, Plin. nat. 34, 175 per gli usi e 5, 88; 5, 103), che è utilizzato come rimedio esterno in Teofrasto, Plinio, Marcello, Cassio Felice (v sec. d.C.) e Dioscuride (autore del De Materia medica) tradotto in latino nel vi sec. d.C.. [4] Si veda anche la trattazione molto documentata ed esaustiva di Livia Radici nella voce →veleni e contravveleni. 8. Bitume [pissavsfalto~, bitumen]. Il bitume è impiegato da Celso (5, 3 / 191 M ; 5, 11 / 193 M) per ferite, per emplastra vari e per rimuovere il pus. Da Scribonio è utilizzato per curare il raffreddore (52) e per il mal di denti (54). Il bitume è distinto da Scribonio in Iudaicum (207 e 209) e Zacynthium (208) [5] ed è utilizzato negli emplastra (vd. anche Plin. nat. 35, 178-181). Plinio stesso, nei passi citati, distingue il bitume liquido dal bitume che si è solidificato e dal bitume grasso della consistenza dell’olio ; considera bitume migliore quello iudaicum (oltre al siriano e al fenicio). Infine, l’enciclopedista descrive i molteplici usi del bitume (ad esempio per la tosse e per le malattie croniche). Il bitumen viene usato, inoltre, da Marcello, da Celio Aureliano, nel De morbis di Esculapio e da Dioscuride. Viene citato da Isidoro di Siviglia messo in correlazione alle proprietà inquinanti del mestruo femminile (orig. 16, 2,1 : pissavsfalto~) 9. Calce [calx]. In Celso la calce viene utilizzata in vari medicamenti per la sua capacità cauterizzante (5, 6, 2 / 192 M ; 5, 7 / 192 M ; 5, 8 / 192 M), in varie compositiones (5, 22, 5-6 e 5, 22, 6 / 209 M), per le ulcere che portano al cancro (6, 15, 1 / 289 M ; 6, 18, 3 B / 293 M), in medicamenti per le malattie alle ossa (8, 1, 27 / 373 M), nel caso dello spostamento delle vertebre (8, 14, 3 / 401 M) o nelle distorsioni alle caviglie e alle mani (8, 22, 1 e 8, 23 / 408-409 M).  













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In Scribonio Largo la calce viva viene utilizzata in clisteri per l’intestino (114), in pozioni per le emorroidi (228, 230), per le escrescenze della carne (239) o in rimedi per le affezioni cutanee (248). La calce è utilizzata in molti composti medici anche in Plinio (nat. 36, 174 e 180) come, ad esempio, per le ulcere. Vedi in proposito anche Vegezio (mulom. 2, 49,4), Sereno Sammonico (1046), Dioscuride (5, 141), Pelagonio, Chirone e la Synopsis di →Oribasio. 10. Calcite [mivsu, misy]. La sostanza è identificabile, in Scribonio, con la calcite o con la pirite di rame (come in Dioscuride e in Galeno). Celso la utilizza come purgante, cauterizzante, antiemorragico e in differenti emplastra o in colliri. In Scribonio questo minerale viene utilizzato per curare le orecchie (42) i polipi (51) e l’ulcera nella bocca ; inoltre, è presente nell’antidoto di Mitridate (170), nell’antidoto di Cassio (176) e nell’antidoto di Marciano (177) ; inoltre viene impiegato negli emplastra (208), per le ragadi (223), per le emorroidi (227), per le escrescenze della carne (240), per cicatrizzare (241) e per l’herpes zoster (248). Plinio lo considera derivato dal sory e ne descrive l’utilizzo per le orecchie e per le ulcere alla testa, mentre Galeno ne descrive l’impiego e l’origine da una miniera di Cipro dove si trovano sory, misy e chalcitis. Misy viene utilizzato per le affezioni agli organi sessuali maschili e al flusso mestruale ; è citato in Oribasio e in Paolo Egineta. 11. Creta [creta]. La creta è una terra bianca di origine argillosa, collegabile al gesso. Distinguiamo, infatti, la creta Samia, la creta Cimolia, la creta sutoria o chalcitis. Celso esalta la capacità repressiva della creta Cimolia per le emorragie e per la diarrea e la capacità refrigerante (2, 33, 3 / 97 M e 5, 1 / 190 M). La creta viene usata in medicamenti per l’erisipela, per le scottature della pelle e nelle piaghe. La creta Samia è impiegata in Scribonio per un collirio (24), per curare le emorragie, in una pastiglia per il mal del ventre (112) e per curarsi dall’avvelenamento da coleotteri. Plinio segnala le proprietà medicinali della creta Samia soprattutto nei colliri (nat. 35, 191-195) ed elenca diverse specie di creta e differenti modalità di utilizzo (mescolata con aceto o spalmata). La sostanza viene usata, inoltre, nel De acutis passionibus di Aurelio, tratto dall’omonima opera di Celio Aureliano. 12. Ematite [haematites lapis]. Traslitterazione dal greco l’haematites lapis è una pietra così  





nominata per via del colore rosso (ma può essere nera) contenente ferro e dura di consistenza. L’haematites viene utilizzato da Celso come purga, come astringente con capacità cauterizzanti (5, 7 / 192 M) oppure in vari colliri (Euelpidis collyrium, sphaerion, etc.) come in Scribonio (26). Plinio elenca più varietà di ematite e i corrispettivi utilizzi (nat. 36, 144-148). Anche Marcello, Oribasio e Paolo d’Egina usano tale pietra contenente minerale di ferro. 13. Feccia [faecula]. La feccia del vino è prescritta da Celso per bloccare le emorragie (2, 33,4 / 98 M) e per la sua facoltà cauterizzante (5, 8 / 192 M : vedi faex). La feccia viene utilizzata mescolata con altre sostanze. Può essere utilizzata a fini terapeutici anche la feccia dell’aceto come avviene nel composto denominato malagma Niconis ; è utilizzata in altri medicamenti da Scribonio, ad esempio in pozioni per la cura dei tumori (82), per le escrescenze della pelle (228) e per trattare le emorroidi. La feccia del vino viene utilizzata come farmaco in un miscuglio comprendente lievito, vino acido, scarti e pigmenti. Questa bevanda dal colore bianco veniva anche bevuta calda (cfr. Oribasio). 14. Ferro [ferrum]. Il ferro è utilizzato da Ippocrate e nella medicina ippocratica, sotto forma di calamita ridotta a pezzi e polverizzata, come lassativo per l’intestino, ma può essere utilizzato anche come astringente. Celso utilizza il ferro per rapprendere il sangue, come cauterizzante e come squama ferri. Scribonio Largo utilizza il ferro bruciato per trattare dell’avvelenamento attraverso l’aconito : il ferri stercus ustum chiamato dall’autore scoria (Scrib. Larg. 188) mescolato con miele, ferro e aceto. L’autore delle Compositiones, inoltre, utilizza l’aqua ferrata per i bambini ammalati alla milza. Plinio parla degli usi del ferro nella medicina popolare (ad esempio, contro il malocchio) e della squama ferri (nat. 34, 46). Anche la ruggine o il ferro a scaglie hanno un uso medico per cicatrizzare, essiccare e arrestare (vedi Dioscuride). Infine l’acqua ferrosa è usata in ambito medico (vedi Celso e Oribasio). 15. Gesso [guvyo~, gypsum]. Il gesso, spesso bruciato, è utilizzato come polvere di gesso sciolta nell’acqua. A Roma questa sostanza viene utilizzato da Catone (agr. 39, 2), da Vitruvio (7, 3, 3) e da Celso come rinfrescante (2, 33, 3 / 97 M) e come composto in medicamenti da Scribonio per evitare i sanguinamenti del naso e in un medicamento per i bambini. Un capitolo  





farmacologia intero è dedicato dall’autore all’avvelenamento da tale sostanza (182). Questo minerale è simile per utilizzo alla calce ; è in uso nello Pseudo Teodoro Prisciano e in Dioscuride Lombardo. 16. Malachite [crusovkolla, chrysocolla]. Calco dal nome greco di un metallo (crusovkolla), è identificabile con la malachite [6] o con il borace. Per altri trattasi di una mescolanza di borato, carbonato e silicato di rame. Viene utilizzato in composti da Celso per la sua proprietà cauterizzante e corrosiva (5, 6 / 192 M) e da Plinio con la ruggine e il nitrato di potassio (nat. 33, 93). 17. Molibdeno [moluvbdaina, molybdaena lota]. Il molibdeno ‘piombo lavato’ viene utilizzato come astringente da Scribonio, che, per primo, impiega questo termine (220), e da Plinio (nat. 34, 173-174) negli emplastra per le ulcere che cicatrizzano con difficoltà. L’enciclopedista descrive origine e utilizzo del minerale (nat. 25, 155). Il molibdeno è utilizzato da Oribasio e da Paolo Egineta. 18. Neve [nivis glaebulae]. Sono piccole particelle di neve utilizzate da Scribonio contro l’avvelenamento da sanguisughe (199). Il rimedio è usato a scopi medicinali anche in Celio Aureliano e nella Synopsis di Oribasio. 19. Nitrato [nivtron, nitrum]. Calco dal greco nivtron, il nitrato di potassio (o salnitro o bicarbonato di sodio o soda) proveniva dall’Egitto ed era chiamato spuma o flos nitri, costituendone la parte migliore. Strabone (17, 1) parla di nitrivai, ‘saline’ in Egitto. Inoltre si distingue un nitrum ustum usato in composti e un nitrum rubrum. Ovidio utilizza la spuma nitri per la cura del volto (medic. 73 ; 85). Celso utilizza il minerale in molte ricette (5, 18, 20 / 198 M) e nella cura del paziente perché refrigerante e perché capace di arrestare o di curare la febbre. Lo utilizza, inoltre, nella cura della leucophlegmatia, del morbus comitialis, in unguenti per la pelle (3, 27, 1 D / 142 M) o sciolto nell’acqua con il sale. Il nitrato di potassio ha la capacità, inoltre, di riscaldare, di far vomitare, di ammorbidire e di purgare. Questo minerale è prescritto in numerose ricette anche in Scribonio, come, ad esempio, per il mal di testa (8), per l’angina pectoris (70), per l’asma (78), per la tosse (89), per il mal di pancia (135), per i calcoli (153) e per l’avvelenamento da bupresto (190). Inoltre, Scribonio lo utilizza in emplastra per pulire, per sfiammare le emorroidi, le escrescenze, le malattie della pelle e in un emolliente per  



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il ventre. In Plinio (nat. 31, 106-110) il nitrato è usato per ridurre le ulcere e in vari composti, ad esempio lo si inietta, sciolto nel vino, per le orecchie purulente (Plin. nat. 31, 116). Ampiamente usato in ricette, in molti opere come in Medicina Plinii e in Cassio Felice. 20. Nitrato di potassio [aphronitrum]. Nelle culture mediterranee, il nitrato, termine di origine egiziana, indicava vari sali quali il nitrato di potassio, il carbonato di potassio e il carbonato di sodio. La schiuma di salnitro, rintracciabile sotto la formula chimica Cs (No3)2, è riconosciuta da Plinio come la parte più preziosa del minerale e utilizzata in medicina per ridurre le bolle o le pustole. Inoltre l’aphronitrum è utilizzato in molti medicamenti con altre sostanze naturali (nat. 31, 119-121). Frequente l’utilizzo in ricette in Scribonio, Marcello, Teodoro Prisciano, Cassio Felice, Oribasio, Alessandro di Tralle e Paolo d’Egina. 21. Ocra [w[cra, ochra]. Traslitterazione dal greco w[cra corrispondente alla voce latina sil come attesta Vitruvio. [7] Il termine ochra ricorre spesso in Celso (5, 7 / 192 M) che lo utilizza per la proprietà corrosiva attribuitagli in alcuni composti ; mentre omette il termine sil, perché Celso vuole evitare di confondere questo con un vegetale dello stesso nome. Sil nel ‘significato’ di ochra compare in Scribonio (126), in Plinio (nat. 33, 158 ; 33, 160 ; 33, 164) e in Gargilio Marziale. 22. Ossido di potassio [pompholix]. Si tratta dell’ossido di zinco o dell’arsenico bianco tratto dalle fonderie di rame attraverso un lavaggio. La sostanza viene impiegato da Scribonio, che per primo usa questo termine, in un collirio per le ferite alle narici e in un impiastro per le ulcere (26 e 220). In Plinio la sostanza è impiegata per i disturbi anali, per il fuoco sacro (nat. 30, 69 e 106) e nelle affezioni della vista (nat. 34, 128). È usata anche nella Synopsis di Oribasio. 23. Ossido di zinco [kadmeiva, cadmia]. Il termine tecnico proviene dal greco kadmeiva (vd. Gal. Simpl. med. temp. 9, 11 /12, 219 K). Si tratta probabilmente dell’ossido di zinco. Celso ne valuta l’utilizzo in medicina (5, 7 / 192 M). Scribonio lo impiega in un impiastro cicatrizzante (242), per preparare dei colliri, sotto forma di cadmia usta, nella cura degli occhi (Scrib. 21, 23, 27, 33 e 34). L’autore sottolinea l’importanza e la qualità della cadmia botroitis, cioè a forma di grappolo, che è presente in un collirio (24) e in  







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farmacologia

un emplastrum (220). Plinio distingue due tipi di cadmia (artificiale e naturale) ; descrive questo minerale come scarto di produzione del rame, denominato in greco kapnivti~ (Plin. nat. 34, 100 ; Dsc. 5, 84), come una lega di zinco e piombo e in vasa stagnea, ossia come lega di zinco (in realtà si tratta dell’ossido di zinco) e lo utilizza per le cicatrici. Inoltre la cadmia è usata da Cassio Felice e Oribasio. 24. Pece [pix]. La pece è un minerale liquido, derivante dal legno di pino, di cedro o di abete con proprietà vasodilatatorie (aumento della circolazione e riscaldamento), disinfettanti e cicatrizzanti (in Celso e in Plinio). Esistono due tipi di pece : quella densa e quella liquida. Scribonio cita anche, in vari emplastra, la pix Bruttia, una pece ispanica, una pece proveniente dal cedro e una pece liquida che viene cotta nell’olio (157). La pece densa viene utilizzata in Plinio in vari medicamenti con altri rimedi di origine vegetale ; quella liquida viene usata per la vagina, per dolori auricolari e per la tosse bevendone ogni tre giorni e succhiando un uovo (nat. 38, 138). La pece è utilizzata anche da Marcello, in Medicina Plinii, da Rufo d’Efeso e in altre opere. 25. Pietra di Asso [lapis Assius o Asius]. Rhode proponeva di leggere Assius lapis, ossia pietra proveniente da Assos (tra gli altri autori vedi Plinio [8]). Si tratta di una pietra riscaldata che consuma la carne ; per questa proprietà viene chiamata sarkofavgo~ (cfr. al proposito Celso 4, 31, 7 / 185 M). Celso usa l’Assius lapis per le ferite e per i dolori alle ossa (5, 19, 19 / 204 M). Il simplex viene impiegato da Scribonio Largo per curare i tumori (82) e in un emolliente per la gotta (267). Plinio vanta la qualità eccellente della pietra d’Assos (nat. 36, 13, 1). Le pietre, in generale, possono avere differenti usi medicinali (per esempio, la pietra di Tenaro o la pietra fenicia, nat. 36, 157). Il lapis Asius viene utilizzato, inoltre, da Marcello, da Oribasio, da Alessandro di Tralle e da Dioscuride. 26. Pietra pomice [lapis Phrygius]. La pietra pomice, una pietra poco dura e leggera, viene estratta in Frigia e in Cappadocia. Plinio afferma che questa pietra non viene utilizzata solo come colore, ma viene impiegata come medicina. Celso e Dioscuride lo utilizzano per le sue capacità di coagulante, di astringente e di eliminazione delle pustole. Il lapis Phrygius è usato anche da Paolo Egineta. 27. Pietra scissile [lapis scissilis]. Questa pietra  









viene estratta nella penisola iberica ; sembra essere di colore giallo zafferano, fragile e friabile. Mostra affinità con l’ematite della quale Plinio distingue più varietà (etiopica, arabica e africana). Celso inserisce questa pietra tra i minerali con proprietà cauterizzanti (5, 7 / 192M). 28. Pirite di rame [calki`ti~, chalcitis]. È difficile identificare tale sostanza con sicurezza. Sembra che si tratti di pirite di rame, parzialmente decomposta, o di un minerale di ferro o di una mescolanza di solfato di rame e carbonato di rame. Celso la utilizza per bloccare le emorragie da ferite (5, 1 / 190 M) e per delle infezioni (5, 3 / 191 M). Scribonio la impiega per curare gli occhi, per il sanguinamento del naso (46, 47), per i polipi (51), negli emplastra (208, 223), per il trattamento delle ferite (223, 226, 227) e per la riduzione o la cicatrizzazione delle escrescenze della pelle (rispettivamente 239 e 240-242, 248). Plinio descrive la sostanza come pietra friabile originata da tre minerali : rame, misy e sory (nat. 34, 117), utile per arrestare il sangue. Il simplex è utilizzato da Oribasio, Alessandro di Tralle e Paolo d’Egina. 29. Rame [calkov~, aes]. Il rame (adatto per la cura degli occhi) veniva già utilizzato dagli Egiziani. Isidoro di Siviglia lo fa derivare dal risplendere dell’aria. [9] Ippocrate lo utilizza come calko;~ kekaumevno~ (aes ustum) ; come aeris flos rivela una capacità astringente. Il termine squama aeris è attestato in Celso in 48 occorrenze. Il rame viene utilizzato per tamponare il sangue (5, 1 / 190 M), come purgante (5, 5 / 191 M), con capacità corrosive (5, 6 / 192 M), per bruciare le ferite (5, 7 / 192 M), sotto forma di aeris flos per le ulcere (5, 9 / 192 M). Inoltre Celso lo utilizza in differenti malagmata (5, 18, 2 / 195 M), per favorire la digestione (5, 18, 11 / 197 M), in emplastra (5, 19, 2 / 201 M), in pastilli (5, 20, 1a e b / 206 M), in mescolanze di medicine (5, 22, 1 / 208 M), per le ulcere, (5, 28, 2 f / 237 M), per le malattie degli occhi (6, 6, 5 a, b / 262 M), per la cura dei condilomi (7, 30, 2 / 359 M). Scribonio Largo impiega la sostanza bruciata per alcuni colliri (aes ustum ; vd. 23, 26, 28 e 36), per altre affezioni, per differenti impiastri e per gli eccipienti. L’aeris flos viene utilizzato sovente da Scribonio Largo, che lo impiega in ricette per il mal di testa (7), in colliri (34), per sgonfiare le ghiandole dell’orecchio (45), per guarire dall’avvelenamento da funghi (198), dai polipi (51), dall’ulcera del cancro (63), in un medicamento per le emorroidi (227), per  









farmacologia le escrescenze della pelle, in una pozione per la scabies (254), per la cura delle cataratte. In Scribonio aeris squama è attestata al capitolo 133. [10] La aeris squama è ottenuta da rame fuso secondo un metodo descritto da Plinio. [11] La scaglia di bronzo (come attestano Dsc. 5, 88 e Plin. nat. 34, 107-109) veniva grigliata, lavata e poi ridotta in una poltiglia per essere utilizzata per usi medicali. Scribonio impiega, inoltre, il simplex in composti per attutire l’odore fetido del naso, i polipi, l’idropisia, per sgonfiare e curare le ferite (201, 202, 205 e 213), per le emorroidi (227) e per le ulcere (237, 239). Distinguiamo l’aes Cyprium (16, 25, 37), l’aes ustum (21, 23, 26, 28, 36, 71) o aes combustum (per esempio in Celso, 5, 6 / 192 M), l’aeris flos in Scribonio e la succitata squama aeris (Scrib. Larg. 50, 51, 133, 201, 202, 205, 213, 227, 237 e 239 per le ulcere). Plinio (nat. 34, 100 ss.) descrive gli usi del rame (sotto forma di cadmia) nella preparazione dei medicinali per combattere le ulcere di ogni tipo. Oltre alla squama aeris Plinio descrive l’aeris flos (nat. 34, 107) e lo stomoma utili per curarsi dalle escrescenze carnose delle narici, dell’ano e a guarire dalla sordità, se vengono insufflati con una cannuccia nelle orecchie (nat. 34, 109). Il rame, inoltre, viene utilizzato come composto (aeris flos, aes ustum e squama aeris) abbastanza frequentemente da Marcello e da Teodoro Prisciano. 30. Sale [a{l~, sal]. Sal hammoniacum, sal nitrum, sal candidum e sale marino sono le varietà del cloruro di sodio. Celso impiega il sale come composto con acqua, olio e vino per la febbre (1, 3, 5 / 33 M). Il sale viene impiegato da Scribonio in alcuni malagmata (come nel malagma di Andrea sotto la forma di sal Hammoniacum), in emplastra, in catapotia e nelle ferite. Scribonio lo impiega per il mal di testa (8), per l’angina (68), per gli idropici (133), per il ventre (135 e 136), per i dolori ai fianchi (154) e per la gotta (160). Tra i medicamenta simplicia più diffusi il sale ammoniaco o sale di Libia è utilizzato in ricette mediche, come il cosiddetto antidoto di Cassio (Scrib. Larg. 175) e in alcuni impiastri (203-204). Il sal fossicium viene prescritto da Scribonio in alcuni dentrifici (59-60). Plinio ricorda che i tipi di sale naturale si formano per condensazione o per essiccamento del liquido ; ne descrive le proprietà e i tipi partendo dalla loro natura astringente, disseccante, purgativa, ustionante e riducente e ne elenca gli utilizzi (nat. 31, 98-101). Il sal Hammoniacum viene usa 





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to, anche, nel De medicamentis liber di Marcello, in Teodoro Prisciano e in Cassio Felice. 31. Sandracca [sandaravkh, sandaraca]. La sandaraca è il (di)solfuro d’arsenico rintracciabile nelle mine d’oro o d’argento ; tuttavia l’interpretazione è incerta, perché potrebbe trattarsi di una resina di una conifera nordafricana. Celso parla della sandaraca come cauterizzante e cicatrizzante ; ne fa uso, ad esempio, nel malagma di Crisippo e per curare le pustole e le vene. Scribonio evidenzia le proprietà di detersione e di riscaldamento (vedi anche Plin. nat. 34, 177) ; impiega questa sostanza per le ulcere alla bocca, nelle gengive e per la gotta (114). Plinio evidenzia come capacità precipua della sandracca quella di essere settica. La sostanza è usata in molte ricette in Medicina Plinii, da Teodoro Prisciano, da Marcello, da Cassio Felice, da Oribasio, da Pelagonio e da Isidoro di Siviglia. 32. Schiuma d’argento [liqavrguro~, spuma argenti]. La sostanza viene indicata da Scribonio nel caso di avvelenamento (183). Inoltre la spuma argenti viene utilizzata per le ferite e per le bruciature. Plinio, invece, lo descrive come protossido di piombo (nat. 33, 106). Usato in moltissimi autori e, in particolar modo in Marcello, Teodoro Prisciano, Mustione e Dioscuride. Si veda anche la trattazione esaustiva di Livia Radici nella voce →veleni e contravveleni. 33. Scoria del piombo [skwriva, plumbi stercus]. Il termine stercus, viene utilizzato in modo ambivalente in latino perché i due termini appartengono alla stessa area semantica (‘scoria’ o ‘escremento’). Come il rame e i suoi derivati ha funzione astringente e disinfettante. Celso utilizza il plumbum combustum per arrestare le emorragie e come composto in un collirio per gli occhi ; mentre il plumbi recrementum viene usato per le ulcere al naso o come elemento per ammorbidire (5, 15 / 193 M). L’enciclopedista inoltre fa uso del piombo lavato e depurato da scorie, per esempio per i denti. Scribonio Largo lo impiega per le narici (48). Anche Plinio utilizza la scoria di piombo in ambito medico e ne descrive la preparazione in acqua con la riduzione della scoria a pezzettini (nat. 34, 171). Il plumbum elotum viene utilizzato come composto per curare le cicatrici, per le ulcere e in un collirio per gli occhi. 34. Scoria del rame [diphryges]. Generalmente è la scoria di rame fusa due volte, provenien 







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farmacologia

te dal forno (Plin. nat. 34, 135 e Dsc. 5, 103). Viene impiegata da Celso per l’effetto cauterizzante (5, 7 / 192 M) e come ammorbidente ; da Scribonio Largo per le emorroidi (227), per l’herpes zoster, ossia un’affezione cutanea (247). Plinio sottolinea le proprietà della sostanza di essiccare, detergere e togliere le escrescenze. La scoria di rame viene inoltre usata come composto nella Synopsis di Oribasio. 35. Sory [sw'ru, sory]. Si tratta di un minerale derivato da calcitide, efficace contro le escrescenze ulcerose, per arrestare il sangue, sulle gengive, nell’ugola e sulle tonsille (Plin. nat. 34, 117-118). Scribonio lo utilizza per i polipi al naso e per le emorroidi e come astringente. Il simplex è usato inoltre in Oribasio. 36. Stibi [stivbi, stibium o stibi]. Elemento metallico utilizzato per truccare gli occhi è usato da Scribonio per preparare i colliri. Celso ne descrive la proprietà di ammorbidire, l’utilizzo in vari emplastra e in colliri di vario genere. Plinio definisce lo stibi (identificabile con il piombo) come schiuma pietrificata bianca e splendente (nat. 33, 101) con proprietà astringenti. L’enciclopedista distingue dallo stibi il fiore unito a sterco o grasso che va a formare pastiglie, impiastri e colliri. La sostanza è usata da Marcello, Cassio Felice e Oribasio. 37. Terra [terra]. Distinguiamo almeno tre tipi di terra : Eretria, Melia e Samia. La terra Eretria o creta Eretria viene utilizzata da Celso, da Plinio e da Dioscuride nella preparazione di medicinali composti. In Celso la Melia terra, proveniente dall’isola di Melos e contenente allume e cenere vulcanica, e la creta Cimolia, proveniente dall’Isola delle Cicladi, Kimolos, sono usate per le loro proprietà cicatrizzanti (5, 1 / 190 M) o, più semplicemente, per le lentiggini e per le voglie delle donne. La terra Samia, in una sua varietà chiamata aster, è dura e appiattita ed è, in Celso, una componente di un collirio per gli occhi. 38. Terra Rossa [rubrica]. Si tratta della terra rossa di Sinope utilizzata in ricette contro le emorroidi e le escrescenze della pelle. La terra di Sinope viene utilizzata per le orecchie, mentre la terra di Lemnos viene utilizzata nell’antidoto di Mitridate e, in generale, come astringente ed emostatico. In Plinio c’è la descrizione di differenti tipi di terra e del loro utilizzo a fini terapeutici (Plin. nat. 35, 191). Tra di esse la rubrica è dotata di proprietà essiccante così da essere utilizzata negli emplastra, nel  



trattamento del fuoco sacro (nat. 35, 33-35) e delle ulcere (nat. 28, 241). 39. Verderame [aerugo]. Il verderame deriva da un processo di ossidazione dei metalli e ha funzione astringente e leggermente disinfettante come i suoi derivati (ossido, solfato e allume di rame). Ippocrate utilizza l’acetato basico di rame con funzione astringente per le malattie agli occhi e nelle ferite. Vitruvio (7, 12, 1) afferma che i Romani chiamano la ruggine aeruca, ‘verderame’ o carbonato basico o acetato basico). Questa sostanza viene impiegata da Dioscuride che mette in evidenza il processo di formazione del verderame da rame messo sotto aceto e lo usa per i reumatismi. In Plinio, che sottolinea l’enorme uso del verderame (nat. 34, 110 : « […] aeruginis quoque magnus usus est ») viene individuato una ruggine chiamata scolex che è un tipo di verderame (nat. 34, 116), ossia carbonato di rame. Il verderame, data la sua capacità corrosiva, viene utilizzato per la preparazione di colliri (nat. 34, 114) ; per la preparazione di emplastra per le ferite, per le ulcere della bocca, per le callosità delle fistole, per le ferite dell’ano come supposta, per le dermatiti scagliose e per le affezioni dermatologiche (nat. 34, 115). Celso utilizza l’aerugo come cauterizzante ; in medicamenti per le ferite (5, 2 / 191 M), per la pulizia dell’orecchio (5, 5 / 191 M), per la sua capacità corrosiva (5, 8-9 / 192 M), purgativa per la pelle con il miele (5, 16 / 193 M), in emplastra per fistole callose e non (5, 28, 12 g-h / 244 M), in emplastra per altre ferite (5, 19, 2 / 201 M) ed in pillole per ferite fresche e ulcere (5, 20, 5 / 206 M e 6, 7, 4 e 7 / 278-279 M con il miele). Celso utilizza, inoltre, l’aerugo per combattere la tigna o la scabbia (5, 28, 16 c / 250 M). Scribonio Largo impiega l’aerugo in colliri (35-36) e in differenti emplastra (203-209); la sostanza è rintracciabile come aerugo rasa (34, 203, 206) e come aeruginis flos. Inoltre viene utilizzata da Marcello, Prisciano, Cassio Felice e in Physica Plinii. 40. Vetro [uitrum]. Il vetro bianco viene utilizzato da Scribonio come ingrediente in un dentifricio (60). Tale sostanza viene utilizzata nel De medicamentis liber di Marcello, in Physica Plinii, in Oribasio e in altri autori. La sostanza è valorizzata da Scribonio e ci risulta utile per confermare la cronologia delle Compositiones. 41. Zolfo [sulphur]. Lo zolfo è un minerale usato in molti composti e in molti medicamen 









farmacologia ti. Celso usa lo zolfo in composti per combattere il kuniko;~ spasmov~, per il mal di stomaco (4, 13, 3 / 167 M) e per le ulcere (4, 27, 1d / 180 M) ; inoltre ne mette in evidenza la proprietà riscaldanti e cauterizzanti (5, 3 / 191 M). Plinio descrive due tipologie di zolfo : lo zolfo a blocchi o sulphur uiuum, utilizzabile in medicina (in Grecia a[puron) e vari tipi di zolfo liquido. Questo minerale ha in generale la proprietà di riscaldare, di cuocere e di ridurre gli ascessi nel corpo. La sua azione è talmente rapida da essere chiamato harpax (Plin. nat. 35, 176). Lo zolfo è inoltre presente come zolfo liquido in composti con rimedi di origine animale e vegetale. Scribonio utilizza il sulphur vivum per far scomparire l’asma, la tosse, l’ignis sacer e prescrive il sulphur nigrum per la scabbia. Lo zolfo è usato frequentemente in Physica Plinii, nella Synopsis di Oribasio, in Paolo Egineta e in altri autori medioevali.  



Note. [1] Vd. anche Plin. nat. 31, 1 : aquatilium secuntur in medicina beneficia e cfr. nat. 31, 2, 3 per i tendini, i piedi, le anche, per liberare l’intestino e per le piaghe del corpo. – [2] Vd. Plin. nat. 35, 183-186 : quod intellegitur salsugo terrae e nat. 32, 52, 1. – [3] Vd. Sconocchia 2007, 317-343. – [4] Vd. anche Vitr. 12, 1 sgg. per la trattazione dei colori nella pittura. – [5] Sconocchia 2007, 317-343. – [6] Vd. Th.L.L. 2513-2515. – [7] Vd. Vitr. 7, 7, 1 : Haec vero multis locis, ut etiam in Italia, inuenitur. – [8] vd. Plin. nat. 2, 211 : […] at circa Asson Troadis lapis nascitur quo consumuntur omnia corpora. – [9] vd. Isid. orig. 16, 20, 1 : […] aes a splendore aeris uocatum. – [10] Scrib. Larg. 133 : […] squama aeris quam lepida Graeci uocant. – [11] Plin. nat. 34, 107-109 : […] squamae aeris quam uocant lepida. Vd. anche Dsc. 5, 88.  













Fonti. Per singole fonti relative soprattutto alla medicina del periodo romano si vedano autori e opere citati nella trattazione della presente microvoce. Per le raccolte di simplicia si richiameranno : Dioscuride, De materia medica ; Plinio, Nat. hist., ll. 20-32 ; Galeno, De simplicium medicamentorum temperamentis et facultatibus ; Gargilio Marziale, Medicinae ex oleribus et pomis ; Oribasio, Collectiones, ll. i-xiv ; i libri secondi di Synopsis ed Euporista ; Ps. Apuleio, Herbarius ; Anonymi de taxone liber ; Ps. Antonio Musa, De herba Vettonica ; Sextus Placitus, Liber medicinae ex animalibus ; Ps. Teodoro Prisciano, De virtutibus pigmentorum uel herbarum aromaticarum.  





















Bibliografia. Albutt 1970 ; André 1987 ; Boscherini 1993b ; Capitani 1972 ; Capitani 1978 ; Daremberg-Saglio-Potter 1969, 1669-1700 ; Deich 











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gräber 1950, 855-879 ; Dierbach 1824 ; Flemming 2000 ; Gourevitch 1999 ; Gourevitch 2003 ; Grmek 1993; Hünemörder 1997 ; Krug 1990 ; Künzl 1983 ; Leven 2005a ; Leven 2005c ; Leven 2005d ; Le Verme Crum 1934 ; Marsili 1956 ; Mosino 2005 ; Mudry 1982a ; Mudry 1990 ; Mudry 1993b ; Nielsen 2002 ; Panagos 1998 ; Parroni 1989 ; Pigeaud 1972 ; Riha 2005; Rinne 1896 ; Scarbarough-nutton 1982 ; Scheller 1967 ; Schonack 1912 ; Schwerteck 1997b ; Sconocchia 1993a ; Sconocchia 1993b ; Sconocchia 2007 ; Skoda 1988 ; Stevenson 1949 ; Svennung 1935 ; Touwaide 1993 ; Touwaide 2000a ; Touwaide-Kramer 2002a ; van der Eijk 1999a.  

















































  



















Daniele Monacchini 2.3. Rimedi dal mondo animale. Dopo aver passato in rassegna i rimedi tratti dalle piante, Plinio nei ll. 28-32 della Naturalis historia fornisce un’ampia rassegna di quelli offerti dal regno animale, elencando proprietà ed applicazioni terapeutiche sia di secrezioni (quali ad es. latte e derivati) che di componenti organici degli animali. Non sorprende che Plinio dedichi ad essi ampio spazio, data la loro diffusione e il loro uso, ormai divenuto comune, come eccipienti. Nella sua narrazione Plinio vuole sottolineare l’infinita ricchezza offerta all’uomo dal mondo naturale. Ovviamente non tutte le notizie riportate – specie i rimedi più raccapriccianti (cfr. e.g. nat. 28, 4-9) sono approvate incondizionatamente : anzi, l’autore si dimostra talora scettico e polemico, soprattutto nei confronti dei Magi, da cui molta parte di quel materiale proviene attraverso la mediazione di Anassilao e Senocrate. [1] Certo le parti più attendibili, dal punto di vista scientifico, sono quelle che si rifanno ad →Ippocrate, →Aristotele, →Teofrasto e →Celso, utilizzati direttamente o indirettamente. Non mancano poi riferimenti a terapie magico-superstiziose, come quella della transplantazione della malattia, che sembra, in taluni casi, ammessa da Plinio ; [2] a principi che potremmo definire ‘omeopatici’ ; [3] alla teoria della ‘antipatia naturale’ tra creature. [4] Accanto ad animali esotici (elefante, leone, cammello, coccodrillo, camaleonte, ippopotamo, iena) trovano più ampio spazio, nella narrazione pliniana, animali della fauna occidentale da cui sono tratti rimedi testimoniati nella medicina ufficiale, che spesso diventano ingredienti di ‘ricette’ : latte, grasso, midollo, fiele, sangue. I rimedi offerti dagli animali acquatici sono esposti nei ll. 31 e 32.  











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Vale la pena ricordare il garum (nat. 31, 93-95), condimento ottenuto dalla fermentazione del pesce in sale, e l’allex (scarto del garum), impiegati anche in medicina (nat. 31, 96-97). L’ultima parte del l. 31 è dedicata alle spugne [5] : in essa la materia medica propria è disposta in buon ordine e la fonte è Celso. Al corallo, infine, sono dedicati alcuni paragrafi (nat. 32, 21-24) che riportano indicazioni terapeutiche ricorrenti anche in →Dioscoride (5, 121). Molti animali acquatici (ma non solo) elencati nella narrazione pliniana presentano difficoltà di identificazione : luce sul problema è stata gettata dagli studi di D’Arcy Thompson, [6] De Saint-Denis, [7] Leitner. [8] Risulta impossibile, in questa sede, una trattazione esaustiva della farmaceutica di origine animale nell’antichità. Scorrendo gli Indices pliniani della Naturalis historia il numero di notizie, osservazioni e rimedi tratti dagli animali risulta essere enorme : 1682 in nat. 28 ; 625 in nat. 29 ; 854 in nat. 30 ; 924 e 990 in nat. 31 e 32 (rimedi, notizie e osservazioni tratti dagli animali acquatici). Si dà qui di seguito una panoramica di varie sostanze, impiegate da sole o come eccipienti nei vari tipi di medicamento (acopo, antidoto, arteriaca, impiastro, malagma), presenti soprattutto nell’opera di Celso[9] (per lo più ll. 5-6) ; nelle Compositiones di Scribonio Largo [10] e nella Naturalis historia. Una menzione a parte merita il trattato ippocratico La natura della donna (peri; gunaikeivh~ fuvsio~) in cui ricorrono con grande frequenza, soprattutto nella confezione di pessari (una sorta di supposte vaginali di preparazione domestica), sostanze di derivazione animale. [11] Nel trattato in questione i prodotti di derivazione animale che entrano in preparazioni terapeutiche di uso ginecologico sono numerosissimi (e alcuni di essi si ritroveranno negli scrittori successivi) : sterco ed escrementi di vari animali ; latte (di donna, di cagna, di asina, di vacca nera) ; pelo di lepre ; castoreo ; cantaride ; bile di vari animali ; grasso (di cervo, di capra, di pecora, d’oca) ; uova (tuorlo ed albume) ; fegato ; urina ; olio di foca ; burro. Risultano essere queste le sostanze del regno animale più usate e diffuse nella terapeutica. Accanto ad esse ne ritroviamo altre, soprattutto in Plinio, tratte da animali esotici ed anche dall’uomo (p. es. la saliva, il sangue, il cerume, il sudore raccolto dal corpo dei ginnasti, l’urina etc.).  













































1. Burro [bouvturon, butyrum]. Definito barbararum gentium lautissimus cibus da Plinio (nat. 28, 133), che distingue quello di latte vaccino (il più usato), di pecora (il più grasso) e di capra, « ha azione astringente, emolliente, proprietà di rigenerare i tessuti, effetto detergente ». [12] Tali proprietà sono presenti anche in Celso (5, 14-15 / 193 M) e in Dioscuride (2, 71, 1). Scribonio lo impiega misto al cervello di civetta ad parotidas (c. 43) e in unione ad altre sostanze animali (c. 238) in un medicamento per detergere e cicatrizzare le ferite e per disinfettare le ulcere. 2. Cantaride [kanqariv~, cantharis (lytta vesicatoria)]. Coleottero della famiglia dei meloidi. Fin dai tempi di Ippocrate era usato in dosi minime. [13] La sua azione revulsiva e vescicatoria fa sì che venga ricercato per l’uso che se ne fa tuttora in medicina ; contiene la cantaridina, un energico revulsivo e vescicante, un tempo utilizzata quale afrodisiaco, ma pericolosa per i suoi effetti irritanti sui glomeruli e tubuli renali (nefrite e nefrosi da c.). In Scribonio troviamo un antidoto contro l’avvelenamento da questo insetto (c. 189), che è comunque ingrediente anche di un rimedio per le ustioni (c. 231). Questo utilizzo si ritrova in Celso, che presenta anche un antidoto contro l’avvelenamento da c. (5, 27, 12A / 234 M). Plinio parla delle cantaridi in nat. 29, 93-96 (antidoto per le salamandre; [14] loro uso come lenitivo ; parte del corpo in cui si trova il loro veleno ; loro nascita ; varie specie ; loro proprietà). 3. Castorio [kastovrion, castoreum]. Liquido untuoso dall’odore penetrante e alquanto sgradevole, prodotto dalla secrezione di ghiandole che si trovano nelle vicinanze degli organi genitali del castoro (Plin. nat. 32, 36 chiama castorio anche i testicoli dell’animale), in passato usato come antispastico. È impiegato da Celso nella cura della febbre quartana (3, 16, 2 / 121 M). Plinio ne precisa l’origine in nat. 8, 109. In nat. 32, 26-31 parla dell’impiego terapeutico dei testicoli del castoro : conciliano il sonno, svegliano i letargici, eliminano le soffocazioni uterine, provocano le mestruazioni e l’espulsione della placenta ; possono inoltre curare la vertigine, l’opistotono, i tremiti, i crampi, le malattie dei tendini, le sciatiche, i dolori di stomaco, la paralisi, l’epilessia, le flatulenze, le coliche intestinali, i veleni (Plinio ricorda che negli antidoti viene usata anche l’urina del castoro, che ha, in questo caso, proprietà analo 





















farmacologia ghe a quelle dei testicoli). Utili anche per il mal di denti e il mal d’orecchi ; spalmati sugli occhi con miele attico rendono chiara la vista; con aceto fermano il singhiozzo. Scribonio utilizza il castorio in molti preparati e con svariate finalità : per il mal di testa, per la tensione dei nervi, per i dolori al fianco, in rimedi di Cassio e di Tullio Basso contro le malattie del colon (cc. 120 e 121), in teriache, in antidoti e nella cura dell’avvelenamento da ixia (pianta delle Iridacee, c. 192). 4. Cera [cera]. È secreta dalla superficie ventrale degli ultimi quattro segmenti dell’addome dall’Apis mellifica (la più pregiata). Viene impiegata anche nella medicina popolare contemporanea, nella cosmesi e in farmacologia, per la preparazione di pomate, unguenti e altri prodotti cosmetici. Celso prescrive la cera come discussivo, per disperdere materia raccoltasi in qualche parte del corpo (5, 11 / 193 M e 5, 18, 11 / 197 M) ; come emolliente (4, 27, 1C / 180 M ; 5, 15 / 193 M ; 3, 10, 4 / 117 M); per la preparazione di un topico per la pelle ulcerata (5, 22, 1). La cera è impiegata da Scribonio in numerosi malagmi/impiastri ed emollienti (cfr. cc. 201-213 ; 215-216 ; 255-262) ; la cera Pontica è raccomandata per le sue proprietà emostatiche (c. 86). Un topico di una certa consistenza (anche se minore dell’impiastro), a base di cera d’api alla quale si aggiungevano olio ed altre sostanze medicinali polverizzate o liquide, da utilizzare nella fase conclusiva della cura, è il ceratum (cerotum). [15] Celso prevede frequentemente l’uso di cerata (cfr. 4, 6, 3 / 156 M ; 4, 8, 3 / 159 M ; 4, 14, 4 / 168 M ; 4, 26, 4 / 179 M ; 4, 27, 1B / 180 M). Scribonio li consiglia contro la colica (c. 120) e per dolori di vario genere (cc. 130, 132, 258). Per altri usi cfr. cc. 242 e 252. In Ippocrate la khrwthv è impiegata soprattutto nelle lussazioni e nella riduzione delle fratture : cfr. Art. 9 / 4, 100 L e Fract. 4, 3, 430 L. 5. Cervo [cervus]. Plinio (nat. 28, 149-151) si dilunga sulle virtù di questo animale (desumendo le notizie da →Sestio Nigro per le parti più tecniche, da Senocrate e Anassilao per le terapie magico-superstiziose [16]). Da vivi i cervi sono nemici dei serpenti ; alcune parti del loro corpo costituiscono potenti antidoti : l’odore di corno bruciato di cervo scaccia i serpenti, come pure la loro pelle usata come giaciglio ; il presame bevuto con l’aceto preserva dal morso dei rettili. I testicoli, somministrati nel vino, sembrano agire da profilattico (cfr. Dsc. Eup. 2,  

































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135) ; in 2, 41 e in Eup. 2, 122, 1 i genitali del cervo sono prescritti come medicina contro il morso, in particolare della vipera. In Celso (5, 5, 2 / 191 M) il corno di cervo compare tra i purgativi ; [17] in 6, 9, 2 / 283 M la raschiatura del corno di cervo è usata nella cura del mal di denti (contro l’instabilità dei denti Plinio suggerisce il frizionamento degli stessi con polvere di corna di cervo) ; in 6, 6, 16C / 268 M il corno di cervo è ingrediente di un collirio (chiamato dia tu ceratos). Scribonio utilizza il corno di cervo in tre preparazioni : c. 60 (un dentifricio) ; c. 122 (un rimedio contro le malattie del colon) ; c. 141 (un preparato contro i vermi dell’intestino). Numerose le attestazioni, nel Corpus Hippocraticum, di corno di cervo bruciato. La sostanza rientra anche in preparati ginecologici. [18] 6. Coccodrillo [krokovdeilo~Ékrokovdilo~, crocodilus]. Plinio (nat. 28, 107-111) parla diffusamente di questo animale, [19] soffermandosi sulle sue virtù, in particolare sulla crocodilea, sostanza contenuta nell’intestino di certi gechi, che si depositava e veniva raccolta tra gli interstizi delle piramidi, « utilissima per le affezioni oculari, in unzione sugli occhi col succo di porro, come pure contro le cateratte e gli offuscamenti della vista ». Notevole è l’uso (riportato da Plinio) ‘anestetico’ della cenere della pelle bruciata di coccodrillo, spalmata con aceto sulle parti che devono essere incise, che risulterebbero così insensibili al bisturi. Il crocodili testiculus è utilizzato nel trattamento contro l’epilessia da Scribonio, c. 14. 7. Colla di toro [gluten/glutinum taurinum]. È la colla di toro, chiamata talora xylocolla o taurocolla (Dsc. 3, 87) ; la migliore è ottenuta con gli orecchi e gli organi genitali dell’animale. Questa preparazione, a detta di Plinio, si presta a contraffazioni (cfr. nat. 28, 236). È consigliata nell’emottisi cronica (28, 195) ; per la guarigione delle ustioni senza lasciare cicatrici (28, 236). Celso elenca il g.t. tra i purganti (5, 5, 2 / 191 M) ; in Scribonio è ingrediente in un preparato contro la scabbia (c. 254). 8. Fiele [colhv, fel]. Il fiele è, a detta di Plinio (nat. 28, 146), tra tutti i rimedi comuni quello che si distingue per la sua efficacia, agendo come riscaldante, mordente (cfr. Cels. 5, 6, 2 / 192 M ; 5, 7 / 192 M), dissolvente, e possedendo proprietà estrattiva (cfr. Cels. 5, 12 / 193 M) e risolutiva ; quello degli animali più piccoli si ritiene più adatto per i preparati oftalmici (in Sesto Placito, con questa stessa funzione,  





























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sono presenti preparati a base di fiele di volpe, di lepre, di capra selvatica, di cane, di toro) ; il fiele di coccodrillo è utilissimo nella cura delle cateratte ; il fel taurinum è il più potente e compare in tre compositiones di Scribonio : 68 e 70 per la cura dell’angina ; 230 per la cura delle emorroidi. [20] 9. Formaggio [caseus]. Celso (6, 11, 6 / 287 M) sostiene che talora è utile, somministrato con miele, per purgare le ulcere. Scribonio consiglia il caseus mollis per la podagra (c. 158) e nella cura contro tenie e vermi intestinali (c. 140). Plinio (nat. 28, 131) scrive che i formaggi freschi si confanno allo stomaco (Celso invece, 2, 25, 1 / 94 M, considera nocivo per lo stomaco qualsiasi tipo di formaggio). In nat. 28, 132 ne elenca le seguenti proprietà : « il formaggio fresco mescolato al miele fa scomparire le ecchimosi, quello tenero arresta la diarrea ; confezionato in rotolini cotti nel vino aspro poi tostati col miele in una padella, calma le coliche addominali. Chiamano aspro quel formaggio che pestato col vino insieme al sale e alle sorbe secche e preso in bevanda guarisce chi soffre di male celiaco. Il formaggio caprino pestato e applicato esternamente, come pure quello acido, cura le pustole nere degli organi genitali. Si spalma durante il bagno sulle chiazze della pelle insieme all’ossimele alternandolo all’olio ». 10. Grasso [adeps]. Il grasso animale è usato in svariate preparazioni presenti in Celso, Scribonio (in emplastra, malagmata e acopa) e in Plinio. Esso può essere di vari animali (di cagna, di vitello, di toro, di maiale, d’oca) ; riscaldato e versato nell’orecchio, il grasso di ghiro o di gallina giova ad aurium dolorem (c. 39). Il grasso migliore, a detta di Plinio, è quello di porco (axungia suilla, nat. 28, 135 ss.), usato come emolliente, riscaldante, risolutivo e detergente (cfr. Cels. 5, 15 / 193 M ; Dsc. 2, 76 ; Cels. 5, 5, 2 / 191 M). Scribonio (c. 160) lo utilizza in un cataplasma per curare frigidam podagram. Al grasso degli altri animali corrisponde il sego dei ruminanti (sebum), a detta di Plinio di uguale efficacia terapeutica : in nat. 28, 143 viene descritta la sua preparazione e in nat. 28, 169 il suo impiego. Celso cita più volte il sebum taurinum, uitulinum, caprinum : 5, 18, 6 / 196 M in un composto di Apollofane ad laterum dolores ; 4, 27, 1C / 180 M e 5, 18, 23 / 199 M come emolliente ; 5, 18, 27 / 199 M nella preparazione di un malagma ; 5, 19, 9 / 202 M in un tetrafarmaco per la suppurazione, composto, oltre che da s.t. da cera,  

































pece, resina ; 5, 19, 11A / 202 M in un impiastro per le ferite. 11. Lana [lana]. In Plinio la descrizione di questo derivato animale e delle sue virtù terapeutiche costituisce un excursus (29, 30-35). Plinio distingue la lana depurata (pura vellera), la lana non sgrassata (lana sucida) e l’oesypum (untume di lana di pecora) : le ultime due sostanze sono trattate separatamente (nat. 28, 246 e 29, 30 sgg.) ; Celio Aureliano, invece, chron. 2, 1, 57, identifica i due prodotti. La lana migliore è quella ottenuta dal collo delle bestie. La lana sucida offre molti rimedi, intrisa di olio, vino e aceto, a seconda che debba fornire un effetto emolliente, irritante, astringente o rilassante (proprietà emollienti anche in Celso, imbevuta di olio, aceto o vino, 2, 33, 2 / 97 M). Può essere applicata sulle membra lussate (cfr. Cels. 7, 1, 2 / 302 M) ; giova a contusioni ed edemi (Dsc. 2, 73) ; guarisce le ferite (imbevuta nel vino o nell’aceto o nell’acqua fredda o nell’olio e poi strizzata, cfr. Cels. 5, 2 / 191 M ; 5, 26, 23H / 222 M ; 5, 26, 27C / 224 M ; 7, 16, 5 / 334 M ; Dsc. 3, 73, 1) ; arresta le emorragie (cfr. Cels. 4, 11, 6 / 163 M). Strettamente connesso alla lana è l’oesypum (esipo), « lo sporco incorporato nel grasso degli ovini e il sudore del cavo femorale ed ascellare aderenti alla lana ». In nat. 29, 35 Plinio ne descrive la preparazione e in 29, 36-37 ne indica gli usi terapeutici : utilissimo contro le infiammazioni delle palpebre, per le piaghe della bocca e dei genitali, per le infiammazioni dell’utero, le ragadi anali e i condilomi. L’esipo si ritrova in Cels. 5, 19, 10 / 202 M in un empiastro (un enneafarmaco) ; in 6, 18, 8A / 295 M ; in 6, 18, 7A /294 M (cura delle malattie dell’ano). La lana depurata (pura uellera), da sola o impregnata di zolfo allevia i ‘dolori sordi’; [21] la cenere da essa ottenuta guarisce le affezioni genitali e si rivela utile per gli animali restii al pascolo. Scribonio prescrive l’uso di lana sucida per proteggere le orecchie trattate con un medicamento (c. 41 ; cfr. anche Marcell. med. 15, 93) ; come emostatico (c. 47) ; nella cura della podagra (cc. 158, 161) ; in un impiastro (c. 209). L’uso di lana depurata è prescritto invece in c. 40 (ad aurium dolorem) ; in c. 56 nella cura del mal di denti ; per coprire l’ano dopo una cura per le emorroidi (c. 227) ; per avvolgere una ‘sonda’ (auriscalpium), c. 230. In c. 43 la lana sulphurata entra nella cura del mal d’orecchi. 12. Latte [gavla, lac]. Il latte di donna è salutare nelle febbri croniche e per chi soffre di  











































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mal celiaco, oltre ad essere utile per molte altre patologie (cfr. nat. 28, 72-75). Alcuni rimedi per patologie oculari o per patologie degli orecchi rimandano a Celso (cfr. 6, 6, 8B / 263 M ; 6, 6, 12 / 266 M ; 6, 6, 14 / 266 M). È inoltre efficace contro il veleno della lepre marina (Scrib. c. 186) e del bupreste (bouvprhsti~, Scrib. c. 190). Spalmature di latte di donna e cicuta o esipo erano utili ai malati di gotta. Nat. 28, 123130 è una sezione in cui Plinio esamina il latte di vari animali e le sue proprietà terapeutiche, mettendo in evidenza che il più indicato per ciascuno è quello materno e sostenendo che il più nutriente è quello umano « qualunque sia la sua qualità ». Vengono poi citati il latte di capra, di cammello, di vacca, di pecora. Il latte si usa per tutte le ulcerazioni interne, per il prurito cutaneo. Il latte d’asina cura gotta e chiragra (cfr. Cels. 4, 31, 2 / 183 M). Clisteri di latte sono utili ai malati di dissenteria (cfr. Cels. 4, 22, 3 / 176 M) ; il latte agisce come antidoto contro i veleni di vari animali (bupreste o cantaride) ; [23] contro la biacca (cerussa, cfr. Scrib. c. 184). È inoltre eccipiente per colliri (cfr. Cels. 6, 6, 9C / 265 M). L’uso di latte risulta poco indicato per i dolori di testa (cfr. Hp. Aph. 5, 64 e Cels. 3, 22, 10 / 136 M), per i malati di fegato e di milza (cfr. Cels. 4, 16, 1 / 170 M) , per i febbricitanti (cfr. Hp. Aph. 5, 64 ; Cels. 3, 22, 10 / 136 M). Per altri usi del latte in Scribonio vd. cc. 26 ; 132 ; 135 ; 179 ; 181 ; 186 ; 191. Lo schistos (scisto;n gavla, lac schiston, latte separato in due parti, coagulato e siero, cfr. Dsc. 2, 70, 3 ; Gal. 12, 292K) viene somministrato agli epilettici, ai malati di atrabile, ai paralitici, nelle dermatiti scagliose, nella lebbra, nelle artriti (nat. 28, 126-130). Ha azione purgativa (cfr. Cels. 2, 12, 1A / 81 M). Contro l’odontalgia Plinio sostiene la validità di lavaggi con latte di capra o di asina e con fiele di toro (nat. 28, 182). Un’altra pratica contro il mal di denti proposta da Plinio consiste nell’instillare a livello endoauricolare latte di capra o presame di lepre mescolato a ingredienti particolari (28, 178-180). [24] 13. Lepre di mare [lagw;~ qalavttio~, lepus marinus]. Identificabile con l’aplysia depilans, un grosso mollusco gasteropodo (cfr. De SaintDenise 1947, 54). Sugli avvelenamenti prodotti dalla lepre di mare vd. nat. 9, 155 ; 32, 8-9 ; cfr. anche Ael. NA 2, 45 « se mangiata provoca spesso la morte e causa ad ogni modo gravi dolori di stomaco ». Plinio, 32, 70 sostiene che « la lepre marina è, in sé, velenosa, ma la sua cenere  











































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sulle palpebre impedisce la ricrescita dei peli superflui dopo strappati ; per questo impiego le più utili sono le lepri più piccole » ; in 32, 104 la consiglia, tritata con miele, ai malati di ernia intestinale ; (per un altro uso) cfr. anche 32, 110. Scribonio utilizza la lepre di mare ad strumas (c. 80), raccomandando però di non sporcarsi le mani col medicamento e di portarle alla bocca solo dopo averle ben lavate. Questo animale non è presente in Celso. 14. Miele [mevli, mel]. Anche Plinio (nat. 11, 30) è propenso a credere che il miele sia una sorta di rugiada celeste (cfr. Arist. HA 5, 22, 553b, 31 ; Colum. 9, 14, 5 ; Verg. georg. 4, 1). Plinio, al di là del paese di origine (da cui comunque dipende la qualità), distingue tre tipi di miele : m. primaverile (anthinum) ; m. estivo (horaeon) ; m. selvatico, il meno apprezzato, (ericaeum). [25] Sono molteplici le virtù medicinali del miele : « è molto utile per la gola, le tonsille, l’angina e tutti i bisogni della bocca, e per la lingua quando è riarsa a causa della febbre ; poi ancora, bollito (decoctum), per la polmonite e la pleurite, come anche per le ferite, per i morsi di serpente e contro i veleni e i funghi ; a chi è colpito da paralisi si dà nel vino melato […]. Il miele si instilla nelle orecchie con l’olio di rose, uccide i lendini e i parassiti del capo. È sempre meglio usare il miele dopo avergli tolto la schiuma (despumatum) ». [26] A molti effetti positivi si associano però anche controindicazioni : gonfiore di stomaco, aumento della bile, senso di nausea. Celso distingue tra m. crudum (5, 5, 2 / 191 M ; 5, 6, 2 / 192 M ) ; m. coctum (2, 30, 3 / 96 M ; 5, 2, 1 / 191 M ; 5, 23, 2 / 211 M ; 5, 28, 12I / 245 M ; 12N / 246 M ; 6, 7, 8B / 280 M ; 6, 18, 2E / 291 M ; 6, 18, 5 / 293 M ; 6, 18, 6A / 294 M) ; m. album (5, 26, 20B / 218-219 M). Scribonio usa assai frequentemente il miele nelle sue ricette, distinguendo fra m. bonum e m. optimum, m. decoctum e m. despumatum e prevedendo un campo di applicazione più ampio di quello pliniano. [27] 15. Presame [coagulum]. Si tratta di una “sostanza estratta dallo stomaco dei giovani ruminanti, ma presso gli antichi anche da altri animali, come la lepre, ancora poppanti. È costituita dal caseum del latte mescolato al succo gastrico” (cfr. nat. 8, 118 e 28, 150). Il coagulum cervi, mescolato ad aceto, preserva dal morso dei serpenti (cfr. anche Ser. med. 838-839.). Il miglior antidoto contro il veleno dei serpenti, in assoluto, è rappresentato dall’hinnulei coa 

























































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gulum matris utero exsecti (presame di cerbiatto tirato fuori dal ventre della madre, nat. 8, 118 e 28, 150). Il presame d’agnello, infine, è un ottimo emostatico (nat. 30, 112). In Scribonio tale sostanza è presente in c. 13 (hinnulei cervi coagulum) contro l’epilessia ; in c. 175 (leporis coagulum), un empiastro la cui composizione Scribonio dice di aver appreso da Trifone ; in c. 188 (coagulum leporis, hinnulei et porci) per l’avvelenamento da aconito ; in c. 197 (coagulum agninum, leporinum, porcinum), ad lac potum. 16. Propoli [provpoli~, propolis]. Sostanza coroide-balsamico-resinosa di colore variabile, con tonalità dal giallo bruno fin quasi al marrone scuro, che le api raccolgono dalle gemme dei pioppi, dei castagni e di altre piante. Dotata di elevato potere antisettico è composta al 50% di resina aromatica, al 40% di cera e al 10% di olio essenziale. L’uso della propoli come medicamento e per impedire processi di putrefazione risale ad epoche molto antiche (in Egitto veniva utilizzata dai sacerdoti, allora detentori della medicina, non solo quale rimedio curativo, ma anche per la mummificazione delle spoglie dei faraoni). Greci e Romani apprezzavano particolarmente le qualità terapeutiche di questa sostanza (i soldati romani ne ricevevano una piccola quantità per disinfettare eventuali ferite sul campo di battaglia). Aristotele la ricorda nella Storia degli animali (pissovkhro~ 624a, 17) quale rimedio efficace per la cura di alcune affezioni della pelle. Virgilio, Varrone (rust. 3, 16, 23), Dioscuride (2, 84) concordano sulle sue proprietà. Galeno la cita raccomandandone l’uso nella cura dei guerrieri feriti dalle frecce nemiche ed indicandola come un ottimo rimedio naturale contro le infezioni e la febbre ; più avanti il medico persiano Avicenna ne descrive le proprietà nel Canone della scienza medica, Plinio ne esalta le virtù terapeutiche : « serve a estrarre i pungiglioni e qualsiasi corpo estraneo penetrato nella carne, fa scomparire le protuberanze, ammorbidisce gli indurimenti, lenisce i dolori dei tendini e chiude le piaghe della cui cicatrizzazione si dispera ». [28] Celso cataloga la propoli tra i ‘suppurativi’ (5, 3 / 191 M) ; tra gli ‘aperienti’ (5, 4 / 191 M) ; tra gli ‘espulsivi’ (5, 12 / 193 M) ; è ingrediente di un impiastro epispastico (5, 19, 15 / 203 M) e di un cataplasma per gli ascessi (5, 28, 11C / 242 M). Da Scribonio sappiamo che la p. era chiamata anche ‘cera sacra’ (c. 82). È impiegata in due malagmata (cc. 82, 262) ; in due impiastri (cc. 209, 214) ; nella cura dei condilomi (c. 224). [29]  



























17. Sangue [ai|ma, sanguis]. Già Ippocrate prescriveva la somministrazione di sangue nel trattamento dell’epilessia. Tale prescrizione è ripresa da Celso (3, 23, 7 / 139 M), che sembra comunque scettico sulla sua efficacia : Quidam iugulati gladiatoris calido sanguine epoto tali morbo se liberarunt ; apud quos miserum auxilium tolerabile miserius malum fecit. Ancor più scettico sul rimedio si dimostra Scribonio (c. 17) : quaeque eiusdem generis sunt, extra medicinae professionem cadunt, quamvis profuisse quibusdam visa sint. La ripresa di Plinio (nat. 28, 4, sanguinem quoque gladiatorum bibunt, ut uiuentibus poculis, comitiales morbi) [30] è inserita in un elenco di rimedi macabri e raccapriccianti “di cui l’uomo è al tempo stesso soggetto ed oggetto”. [31] Contro tale pratica (riportata anche da Areteo di Cappadocia) si scaglia Tertulliano (apol. 9, 3). Se l’uso del sangue umano era visto come rimedio raccapricciante, abbiamo comunque ampia documentazione dell’uso terapeutico del sangue di altri animali : cfr. Celso che consiglia, in vari preparati, sangue di rondine, di colombaccio, di colomba (6, 6, 39A / 274 M ; sulle proprietà del sangue di questi animali vd. 5, 5, 1-2 / 191 M). Scribonio, oltre a quanto detto in c. 17, prescrive sangue di testuggine e di colomba (c. 16, sempre per l’epilessia) ; di cagna (c. 175, in un impiastro) ; di anatra, capretto, oca e tortora (c. 177, Antidotos Marciani). Per il sangue umano in Plinio cfr. nat. 28, 43 ; per il sangue di altri animali cfr. nat. 28, 88 (di elefante), 147 (di cavallo/toro), 161 (di capra), 202 (di cervo), 242 (di cavallo), nat. 29, 132 (di pipistrello), nat. 32, 135 (di tonno, di polmone marino). 18. Secrezioni [sordes]. Rientrano nelle sordes sia secrezioni ed escrezioni del corpo umano (cerume, saliva, sudore, urina) che certe sue parti (ritagli delle unghie, capelli, denti), utilizzate non solo in molte pratiche magiche descritte da Plinio ma anche in preparati della medicina tradizionale. In nat. 28, 50-51 Plinio si sofferma sullo sporco che si forma sulla pelle (sordes hominis), sostanza che « ha un’azione emolliente, riscaldante, risolvente e il potere di rigenerare i tessuti ». Ancor più efficaci risultano le sordes raschiate subito dopo i bagni o provenienti dalle sale di esercizi: “È noto come l’impasto di sudore e olio che si formava sul corpo degli atleti dopo lo sforzo fisico venisse prelevato e raccolto con speciali spazzole, oltre che direttamente sulla pelle degli stessi, dal pavimento dei bagni e delle palestre dove si era depositato  























farmacologia oppure dalle pareti di questi ambienti su cui si era stratificato. Dioscoride (1, 30, 6) attribuisce un’azione riscaldante, emolliente, dispersiva in particolare alle sordes provenienti dai bagni” ; [32] sappiamo da Plinio, nat. 15, 19, che il commercio di questo ‘sporco’ era assai lucroso. Le sordes ex gymnasio compaiono anche in Celso tra le sostanze ad discutienda ea, quae in corporis parte aliqua coierunt (sostanze che dissipano gli umori, 5, 11 / 193 M) e tra quelle con effetto emolliente (5, 15 / 193 M). Scribonio Largo (c. 163) consiglia di tenere alla cintura le cervi sordes virosi odoris (secrezione dell’occhio del cervo) per allontanare i serpenti (il rimedio rientra nella teoria della ‘simpatia’ e ‘antipatia’, vd. supra). 19. Spugne [spovggo~, spongeae]. I capitoli conclusivi di nat. 31 (123-131) sono dedicati da Plinio alle spugne e al loro uso in medicina (la loro descrizione occupa i capp. 148-150 del l. 9 ; sulle spugne cfr. anche Arist., HA 5, 16, 548b-549a). Plinio riprende, senza dimostrare alcuno scetticismo, quanto dicevano i medici, che « lo spirito vitale non si mantiene in nessun altro essere più a lungo : è così che le spugne giovano ai corpi, perché mescolano il loro spirito al nostro ». I ‘pennelli’ (la varietà più pregiata di s.), sono usati per le affezioni oculari (gonfiori, congiuntiviti). In genererale le s. sono dissolventi (discutiunt, cfr. gr. diaforevw ‘disperdere un’infiammazione, un tumore’) ; seccano le ulcere senili, assorbono il sangue nelle incisioni ; agiscono da emostatico (soprattutto la loro cenere, cfr. Dsc. 5, 120, 2). Si applicano agli idropici (cfr. Scrib. c. 133 : dopo la purga bisogna applicare spugne con aceto e sale sul ventre). Generalmente le s. sono imbevute di vino melato, acqua (spesso salata), aceto, miele, olio. La loro applicazione risulta utile ai malati di milza e contro il fuoco sacro ; sono inoltre usate nelle ‘vaporazioni’ (terapia assai diffusa nella medicina greca, cfr. anche Scrib. c. 20); nell’igiene della persona sostituiscono lo strigile e le salviette nella pulizia dei malati. Fonte di Plinio in questa sezione, ove la materia medica risulta ben disposta, come ha osservato Garofalo, è Celso, che nella sua opera si diffonde ampiamente sull’impiego terapeutico delle spugne (cfr. e.g. 2, 33, 3 / 97 M reprimunt et refrigerant ; 4, 7, 2 / 158 M inzuppate nell’olio caldo sono usate come fomenti, nei malati di angina, per facilitare il respiro ; 4, 31, 6 / 184 M da apporre nelle infiammazioni dolorose che si sono indurite ; 5, 28, 12H / 244 M  























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bagnate con l’aceto, nella cura delle fistole ; 5, 28, 12N / 246 M unte di miele cotto facilitano la cicatrizzazione). Scribonio consiglia l’uso di spugne nei gonfiori delle orecchie (c. 43 ; cfr. 6, 7, 1B / 275 M) ; come emostatico (c. 46) ; per le lesioni (c. 84) ; per la gotta (c. 158) ; per le ulcere (c. 205). [33] 20. Sterco / escrementi [stercus / fimum]. L’uso di sterco /escrementi è attestato in vari autori. Ippocrate, impiega frequentemente lo sterco di vari animali : di vacca (bovlbiton) Nat. mul. 2 ; [7, 314] ; Mul. 1, 85 e 89 [8, 210 ; 8, 212] ; Loc. hom. 6, 346. Tale sostanza rientra tra quelle emmenagoghe in fumigazioni, bagni di vapore, pessari); di capra (Nat. mul. 7, 350, 372) ; d’asino (Nat. mul. 7, 406, preparazione di un pessario con proprietà emostatiche, cfr. Dsc. 2, 80) ; di mulo (Nat. mul. 7, 408, bruciato e diluito nel vino). [34] In nat. 28, 44 Plinio scrive che Eschine di Atene curava angine, tonsilliti, abbassamenti di ugola e ulcere cancerose con la cenere di escrementi (cfr. anche Dsc. 2, 80, 5 : spalmature di escrementi seccati, impastati col miele, nella cura dell’angina). Il medicamento era chiamato botryon. In nat. 28, 153 lo sterco di capra (ma non solo) cotto nell’aceto è antidoto contro i morsi di serpente e per le punture di scorpione ; lo sterco di vitello è rimedio per i malati di atrabile (nat. 28, 230). Per gli idropici risulta utile la cenere di sterco di porco o di bue (bolbiton, nat. 28, 232 [35]). Ancora spalmazioni di sterco fresco di bue (o di vitello) per il fuoco sacro (nat. 28, 233). Sterco di capra o di bue negli ‘ingorghi purulenti’ (nat. 28, 234) ; di cinghiale o di porco per le ustioni (nat. 28, 235). La cenere di sterco d’asino, di cavallo, di vitello, di capra è un emostatico (nat. 28, 239). Per ulcere e ferite giova lo sterco di porco o di capra (nat. 28, 241) ; escrementi di capra e di gatto per l’estrazione di schegge conficcate nella carne (nat. 28, 245) ; urina e sterco di capra per le emorragie uterine (nat. 28, 256; ma in Sesto Placito, 5a 18, l’urina di capra provoca le mestruazioni). Escrementi di topo contro i calcoli (cfr. Dsc. 2, 80, 5) ; sterco di pecora (30, 114) per i gonfiori delle piaghe (cfr. Ser. med. 960-965), di topo o di donnola per rodere le escrescenze. Nelle malattie delle donne (in muliebribus malis) lo sterco di ovino ha gli stessi vantaggi delle membrane del parto delle pecore (nat. 30, 123) : l’impiego di questo elemento, dunque, risulta essere ampio e variegato (anche se molti usi sono riconducibili alla pratica magico-superstiziosa). Più limitata  











































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farmacologia

la sua presenza (e il suo uso) in Celso : 5, 5, 1 / 191 M lacerti stercus ‘sterco di lucertola’ (è tra i purgativi) ; 5, 8, 1 / 192 M tra i caustici ; 5, 12, 1 / 193 M tra le sostanze che evocant et educunt (attrattivi ed espulsivi) ; 5, 27, 8 / 233 M stercus caprinum ‘sterco di capra’ cotto nell’aceto, da applicare sulle ferite del chelidro (serpente acquatico) ; 6, 18, 5 / 293 M ovillum stercus ‘sterco di pecora’ per la cura di patologie dei genitali maschili ; 5, 18, 15 / 197 M sterco di scimmia nella preparazione di un malagma ad strumam. In Scribonio un’unica ricorrenza (c. 127), ove lo stercus caprae montanae è usato nella cura dell’itterizia. 21. Torpedine [navrkh, torpedo]. Pesce cartilagineo di forma appiattita caratterizzato dalla presenza, ai lati del corpo, di un organo in grado di produrre un campo elettrico la cui scarica, a seconda della specie, può arrivare a 200 volt. Il nome scientifico torpedo fu usato per la prima volta da Plinio (ma cfr. anche Varrone, ling. 5, 12, 1) ed è la traduzione del greco ‘nárke’, per evidenziare il torpore prodotto dalla scarica elettrica. Plinio ci fornisce alcune notizie in nat. 9, 143 [36] e in 32, 7 dice che « anche da lontano e a distanza, e pur toccata con un’asta o un bastone, intorpidisce le braccia più robuste, paralizza i piedi ancorché veloci alla corsa ». Plinio e Celso non offrono indicazioni terapeutiche derivate dalla torpedine, che invece si ritrovano in Scribonio Largo: consiglia, contro il mal di testa, di appoggiare una torpedo nigra viva (c. 11) ; di mangiarla, mista a verdure, dopo una purgazione (c. 99) ; infine, in c. 162 è rimedio per la gotta : ad podagram torpedinem nigram vivam subicere pedibus oportet. Per l’uso cfr. anche Dsc. 2, 17 e Paolo Egineta (7, 3), che la raccomandano nel mal di testa. 22. Uovo [w/jovn, ouum]. Le virtù terapeutiche dell’uovo sono descritte da Plinio in un lungo excursus (nat. 29, 39-51). Esso viene impiegato sia intero che nelle sue parti (albume, tuorlo, guscio – usato, p.es., nella ricetta per un dentifricio – pellicola interna del guscio) ; vengono usate anche le uova divenute ‘tutte tuorlo’ (quelle in cui l’embrione è già formato). Nella trattazione pliniana – impiegato sia da solo che in unione a vari altri ingredienti – rappresenta quasi una panacea. Le sue virtù terapeutiche si rivelano nella cura delle patologie oculari, del fuoco sacro, [37] delle ustioni ; favorisce l’espulsione dei calcoli, è un lenitivo della tosse, è impiegato negli antidoti contro il veleno dei  

























serpenti il cui morso provoca emorragie, per i reni e la vescica, per il mal celiaco, nella cura dell’utero, nelle malattie dell’ano, per facilitare il parto, per eliminare la scabbia e il prurito, per l’espettorazione di sangue e pus, per le affezioni ai genitali maschili ; viene ribadito altresì il suo alto valore nutritivo : « riescono infatti a passare [scil. le uova] anche attraverso la gola gonfia, esercitando su di essa, al passaggio, un benefico effetto col loro calore. Non vi è altro elemento che, quando siamo malati, nutra altrettanto senza aggravare e riunisca in sé i vantaggi di bevanda e di sostanza solida » (nat. 29, 48). Anche in Celso l’uovo trova molteplici applicazioni (cfr. 5, 2 / 191 M ; 4, 10, 4 / 161-162 M ; 6, 18, 9B / 296 M), sia nella parte del tuorlo (vitellus 5, 21, 2 / 207 M ; 6, 6, 1K / 261 M ; 6, 6, 9A / 265 M), sia in quella dell’albume, usato però, per lo più, come eccipiente per colliri in varie affezioni oculari : 6, 6, 1H / 260 M ; 6, 6, 1K / 261 M ; 6, 6, 8B / 263 M ). Analogamente Scribonio (cc. 20, 23, 24, 26, 27), Marcello (8, 4-6) ; Cassio Felice, Prisciano.  























Note. [1] Cfr. Capitani-Garofalo 1986, 7. – [2] Cfr. nat. 28. 86 ; sul problema vd. Stemplinger 1925. – [3] Similia similibus curantur ; cfr. nat. 29, 69. – [4] Cfr. e.g. nat. 28, 149-151, i paragrafi dedicati al cervo, nemico dei serpenti ; su ‘simpatia’ e ‘antipatia’ cfr. Capitani-Garofalo 1986, 10 ; GaillardSeux 2003. – [5] Sulle spugne cfr. anche Arist. PA. 4, 5, 681a. – [6] D’Arcy Thompson 1947. – [7] De Saint-Denis 1947. – [8] Leitner 1972. – [9] I rimedi tratti dal mondo animale sono molto più numerosi di quelli qui indicati : per Celso si rinvia a Scheller 1967. – [10] Per Scribonio Largo cfr. Rinne 1896. – [11] Cfr. Hanson 1990, 310. – [12] Nat. 28, 134 ; tr. di U. Capitani. Le traduzioni di Plinio sono di U. Capitani (libri 28 e 29) e di I. Garofalo (libri 30-32). – [13] La cantaride veniva già utilizzata nella medicina egizia ; sono numerose le ricorrenze in Ippocrate Nat. mul. cfr. anche Celio Aureliano, De chronicis passionibus 3, 140 e Plu. Quomodo adolescens poetas audire debeat 22a ove il paragone tra la poesia e la cantaride “nasce dalla considerazione che come la cantaride, che fornisce da sola l’antidoto al suo veleno, così anche la poesia, se ‘velenosa’, contiene in sé il suo contravveleno”, Pisani 1990, 214. Per le ricorrenze in Ippocrate (e in Galeno) cfr. Andò 2000, 223-224. Le cantaridi (alle quali, talvolta, sono state tolte le ali, la testa e le zampe) entrano nella terapia ginecologica e in preparati contro l’idropisia ; hanno potere emmenagogo e diuretico ; cfr. Davies-Kathirithamby 1986, 9294. [14] La notizia è ricavata da Senocrate. – [15] Mazzini 1997, 389. – [16] Cfr. Capitani-Garofalo  

















farmacologia 1986, 141 (per il cervo). – [17] Sono molte le sostanze animali che compaiono tra i purganti in Cels. 5, 5, 1-2 / 191 M : lacerti stercus, sanguis columbae et palumbi et hirundinis ; […] coagulum, sed maxime leporinum [cui eadem quae ceteris coagulis facultas, sed ubique validior est], fel, uitellus crudus, cornu ceruinum, gluten taurinum, mel crudum ; […] sebum, adeps. – [18] Cfr. Andò 2000. 267, 310. – [19] Anche se, come ha notato Capitani (Capitani-Garofalo 1986, 107), Plinio designa con questo nome anche animali che, pur appartenendo alla stessa classe sono di generi diversi quali i gechi, i varani della sabbia etc. Cfr. Leitner 1972, 103. – [20] Molto usato anche il fiele di vari pesci : cfr. e.g. nat. 32, 135, ove compare il fiele di tonno come depilante. – [21] Così traduce caecis doloribus (nat. 29, 38) Capitani. Cfr. Ser. med. 883-885. – [22] Cfr. anche Cels. 4, 19, 2 / 173 M e Marcell. 27, 68. Va detto che il morbo celiaco di cui parlano gli antichi non corrisponde alla patologia odierna (malattia di Gel-Hester). – [23] Cfr. Cels. 5, 27, 12A / 234 M ; Scrib. c. 189. – [24] “Sulla base dell’appurata connessione tra apparato uditivo e boccale, ignota agli antichi”, Capitani 1986, 169. – [25] La digressione sul miele in nat. 11, 30-45. – [26] Nat. 22, 108-109 ; (tr. di A. M. Cotrozzi). – [27] Plinio non omette la notizia che il miele, data la sua natura, impedisce la putrefazione dei corpi (nat. 22, 108 e 7, 35). Erodoto (1, 198) attesta l’uso tra i Babilonesi di seppellire i morti nel miele. – [28] Plin. nat. 22, 107. – [29] La medicina contemporanea ha riscoperto il notevole potere battericida della propoli soprattutto su streptococchi e stafilococchi ; contro le infiammazioni/infezioni del cavo orale (stomatiti), nonché lo spiccato effetto fungicida. – [30] Sulla terminologia cfr. Capitani 1975, 470. – [31] Capitani-Garofalo 1986, 7 ; sulla pratica cfr. Stemplinger 1925, 61 e Capitani 1972, 123. – [32] Capitani-Garofalo 1986, 61. – [33] È certo che le spugne possiedono delle proprietà terapeutiche eccezionali, favoriscono la circolazione, puliscono a fondo i pori della pelle, non mantengono impurità all’interno degli alveoli, evitando cosi il formarsi di muffe e batteri che potrebbero causare allergie a pelli sensibili e facilmente irritabili. – [34] Per l’uso di escrementi e, più in generale di sostanze immonde nella terapia ippocratica cfr. von Staden 1991b, 42-61 e Id. 1992, 7-30. – [35] Per bolbitos/on, ‘sterco di bue seccato’ cfr. Lucilio in Festo p. 32 Müller. – [36] Sulla torpedine cfr. Arist. HA 9, 37, 620b e Plu. De sollertia animalium 27. – [37] “Per ignis sacer alcuni intendono l’erisipela, ma Cels. 5, 26, 31B e 5, 28 4AB distingue tra le due malattie e tratteggia della prima un quadro clinico assai affine a quel che oggi viene chiamato ‘fuoco di Sant’Antonio’ o herpes zoster; vedi anche Plin. nat. 26, 121”: Capitani-Garofalo 1986, 79 (nota).  















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Bibliografia. Albutt 1970 ; Andò 1995, 33-44 ; Andò 1999, 255-270 ; Andò 2000, 5-65 ; André 1986 ; André 1987 ; Beagon 2001 ; Boscherini 1993b ; Capitani 1972 ; Capitani 1975-1976, 449-518 ; Capitani 1978 ; Capitani-Garofalo 1986 ; Capponi 1986 ; Capponi 1991 ; Capponi 1994 ; Conte 1986 ; Cotrozzi 1985 ; Cotte 1944 ; D’Arcy Thompson 1947 ; Davies-Kathirithamby 1986 ; De Saint-Denis 1947 ; Di Benedetto 1986 ; Ernout 1964 ; Flemming 2000 ; Gaillard-Seux 1998 ; Gaillard-Seux 2003 ; Garofalo-Lami-Manetti-Roselli 1999 ; Gourevitch 2003 ; Grmek-Gourevitch 1985 ; Grmek 1985 ; Grmek 1993 ; Hanson 1990, 310 ; Joly 1965 ; Jouanna 1994 ; Krug 1990 ; Kudlien 1968b ; Lanata 1967 ; Langslow 2000 ; Leitner 1972 ; Lenz 1966b ; Leven 2005a ; Marsili 1956 ; Martini 1977 ; Mazzini 1997 ; Mosino 2005 ; Mudry 1982a ; Mudry 1990 ; Mudry 1993a ; Parroni 1989, 469-505 ; Pigeaud 1972 ; Pisani 1990, 214 ; Rinne 1896, 1-99 ; Scarborough 1986, 59-85 ; Scarborough-nutton 1982, 187-227 ; Scheller 1967 ; Sconocchia 1987 ; Sconocchia 1993a, 845-922 ; Sconocchia 1993b, 133-159 ; Sconocchia 2007, 317-343 ; von Staden 1991b ; von Staden 1992, 7-30 ; Stemplinger 1925 ; Touwaide 1993, 349-369 ; Touwaide 2000d, 746748 ; van der Eijk 1999a ; Wolters 1935.  

































































































































Maurizio Baldin 3. Alcuni tipi di medicamenti composti. – I medicamenti composti, realizzati mescolando in vario modo con eccipienti e amalgamando con dosi precise e procedimenti rigorosi i simplicia, cioè le sostanze semplici appartenenti alle tre categorie del mondo vegetale, minerale e animale di cui si è detto, sono catalogabili per denominazione, inventore o valorizzatore, indicazioni terapeutiche, natura e ingredienti, preparazione e aspetto (spesso è indicato il colore). Il maggior numero di composti viene ad essere definito e corrente praticamente a partire dall’epoca ellenistica e poi romana, ben oltre Galeno, fino agli autori tardi, in pratica fino al Medioevo : ha, in genere, nomi greci, adottati come prestiti, non di rado trascritti in lettere greche. La categoria comprende diverse tipologie di medicamenti, di solito consapevolmente accolti e utilizzati dagli autori antichi, che tendono spesso, già nella denominazione, a evidenziare indicazioni, ingredienti, inventore, forma, colore etc. Nella prima parte della trattazione discuterò di alcune tipologie abbastanza affini per funzione e caratteristiche più ricorrenti e note, almeno nella realtà romana del i sec. d.C., che riprende, come è noto, spes 

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farmacologia

so attraverso fonti dichiarate, autori di epoca ellenistica spesso vicini nel tempo all’introduzione della scienza medica greca a Roma e, in diversi casi, addirittura contemporanei, o di poco anteriori, a Celso, Scribonio e Plinio. Le tipologie più comuni sono emplastra (liparae), malagmata, pastilli e acopa ; ai pastilli andranno aggiunti globuli, pilulae e catapotia. Si riserva alla seconda parte della trattazione una rassegna su altre forme medicamentose composte, in taluni casi meno frequentemente usate rispetto alle precedenti, come antidoti, arteriacae, collyria e altre meno correnti. In un contributo di qualche anno fa [1] lo scrivente si era riproposto di indagare attraverso lo studio circostanziato delle attestazioni del De medicina di Celso, delle Compositiones di Scribonio e della Naturalis historia di Plinio su alcuni rimedi fondamentali della terapeutica del i sec. d.C., come emplastra (liparae), malagmata, pastilli e acopa, con qualche cenno anche a globuli, pilulae, catapotia, cataplasmata etc. La preparazione e la diffusione di tali rimedi trova applicazione regolare e ampia nella medicina romana, in pratica, a partire dall’età Giulio-Claudia. Nonostante l’impiego ad es. di emplastrum [2] sia attestato in Catone e Columella, Celso, come è noto, sente il bisogno di precisare le differenze di sostanze componenti e preparazione tra emplastra, malagmata e pastilli ; Scribonio poi si diffonde spesso a descrivere esplicitamente la preparazione. Solo con Plinio, in età flavia, questi medicamenti dovevano avere a Roma diffusione ormai riconosciuta : lo provano le citazioni nella Naturalis historia, che, per quanto rapide, presuppongono conoscenza piuttosto ampia e diffusione sul piano commerciale di questi prodotti. Indagini recenti sottolineano, da un lato, la consapevolezza e il rigore professionale del medico antico a Roma, [3] dall’altro lo sdegno degli autori antichi per il problema, attuale allora, come oggi, delle alterazioni e delle frodi, nella preparazione, produzione e commercio dei medicamenti. Scribonio Largo, ad esempio, insiste molto sulla precisione di pondera atque mensurae. [4] Sulle falsificazioni e le adulterazioni dei medicamenti in età romana c’è un’ampia letteratura. [5] Per limitarci solo al periodo classico fino al i sec. d.C., contro i pharmacopolae si scagliano Catone, [6] Scribonio ; [7] Orazio ; [8] Galeno [9] e altri autori. Contro i pharmacopolae circumphoranei, cioè i ‘commercianti ambulanti’, si  

















veda Cicerone, che condanna l’operato di Lucio Clodio durante uno dei suoi viaggi da Ancona a Larinum. [10] Contro altre categorie di fornitori, come unguentarii, pigmentarii, seplasiarii, si vedano Scribonio [11] e Plinio. [12] Analizzerò i medicamenti composti nelle varie categorie, emplastra (liparae), malagmata, pastilli, acopa etc., cercando di distinguere l’impiego nei tre autori. Gli emplastra sono tra i medicamenti più noti e citati nei trattati medici e farmacologici del i sec. a.C. Caratteristiche costitutive e modalità d’uso sono descritte soprattutto in Celso e Scribonio, mentre nella Naturalis historia abbiamo, come si è detto, solo accenni rapidi e riferimenti occasionali. Un quadro ampio e organico è in Celso, una trattazione più ordinata e, per molti aspetti, più esaustiva, nelle Compositiones di Scribonio. Celso scrive nel suo De medicina [13] la trattazione più organica e pertinente : « Gli unguenti poi e gli empiastri e le pasticche che i Greci chiamano pillole, pur avendo moltissime caratteristiche identiche, differiscono in questo, che gli unguenti vengono costituiti soprattutto da essenze odorose e soprattutto derivate da germogli, gli empiastri e le pasticche di più da alcuni materiali metallici ; inoltre gli unguenti, se compressi abbondantemente, si ammorbidiscono : infatti sono applicati sopra la pelle nuda : le sostanze di cui sono costituiti empiastri e pasticche sono poi pestate con molta cura, perché non arrechino lesioni alle ferite, quando vengono applicati. Tra l’empiastro poi e la pasticca c’è questa differenza, che mentre l’empiastro accoglie in ogni caso qualcosa di liquido, nei pastilli vengono aggiunte soltanto sostanze medicamentose secche con un po’ di liquido. Poi l’empiastro si prepara in questo modo : sostanze medicamentose secche vengono pestate di per sé, di poi a queste sostanze mescolate viene istillato o aceto o c’è qualche altro liquido, purché non grasso, e di nuovo gli ingredienti vengono pestati con quel liquido. Quegli ingredienti poi, che possono essere liquefatti, vengono contemporaneamente liquefatti al fuoco, e, se deve essere mescolato un po’ d’olio, allora viene mescolato. Nel frattempo anche ciò che è arido e secco viene cotto nell’olio ; come sono stati preparati tutti gli ingredienti che dovevano essere approntati separatamente, tutto quanto viene mescolato insieme. Invece la preparazione della pasticca è la seguente : sostanze medicamentose aride  

















farmacologia vengono riunite insieme, pestate con liquido non grasso, come vino o aceto, e di nuovo riunite insieme, sono fatte seccare di nuovo e, quando poi è il momento di usare il preparato, sono diluite di nuovo con liquido dello stesso genere. Inoltre l’empiastro viene applicato sopra, il pastillus viene spalmato, o mescolato ad altra sostanza più molle, come il ceratum ». Per la trattazione degli emplastra (e[mplastra) in Celso e in Scribonio si veda un contributo di Sergio Sconocchia, [14] con confronti tra ricette comuni (ad es. tra Cels. 5, 19, 1B / 201 M e Scrib. c. 207 / 96, 5 S per emplastrum barbarum o barbara ; o tra 5, 19, 3 / 201 M nigrum est, quod basilice nominatur e c. 210 / 97, S per emplastrum nigrum Tryphonis, basilice appellatur ; tra 5, 19, 9 / 202 M tetrapharmacon a Graecis nominatur e c. 211 / 98, 5-6 S. per emplastrum nigrum Aristi chirurgi quod tetrapharmacon dicitur ; tra 5, 19, 12 / 203 M quae ipsa quoque ejpispastikav nominantur e c. 216 / 99, 20-21 per emplastrum […] epispastice o epispasticon). Per Scribonio specificamente si possono fare alcune osservazioni interessanti : [15] 1. la trattazione di Scribonio ubbidisce ad un criterio sistematico che Celso non segue ; è indicato con notevole regolarità il colore dei medicamenti ; 2. è indicato quasi sempre il nome dell’autore, spesso un chirurgus (Aristius, Dionysius, Euelpistus, Glycon, Meges, Thrasea, Tryphon etc.) ; 3. sono di norma specificati usi e caratteristiche del medicamento ; 4. dopo res e pondera sono minuziosamente precisate le modalità di preparazione ; 5. la veste linguistica degli emplastra rivela in genere una ‘traduzione’ o, comunque, un riferimento immediato e preciso da parte di Scribonio al testo originale della fonte, palesemente greca. Le citazioni di Plinio sono meno professionali rispetto a quelle di Celso e soprattutto a quelle di Scribonio, anche se presuppongono applicazioni terapeutiche più ampie rispetto a Scribonio, in cui sono prevalentemente ‘chirurgiche’ ; i nomi degli auctores sono citati assai di rado, come pure le qualità cromatiche ; non sono, di solito, specificate le indicazioni ed è per lo più citata solo la sostanza più rappresentativa del rimedio senza che si specifichino le altre ; sono del tutto ignorate le modalità di preparazione ; l’uso linguistico rientra nella norma. [16] Agli emplastra saranno da aggiungere anche in Plinio le liparae (liparaiv) ; altra categoria affine agli emplastra sono i cataplasmata (kataplavsmata). Per concludere la trattazione sugli em 

































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plastra si aggiungerà che per questo tipo di medicamenti topici più usati nella farmacologia antica, tra gli ingredienti ci sono sostanze animali (sebum di toro, caprone, maiale, etc.) ; vegetali (incenso, mirra, mandragora etc.) e minerali (scaglie di rame, litargirio, allume, ruggine di rame, rame bruciato etc.) ; come eccipienti sono usati alcuni liquidi. L’empiastro si prepara, come si è visto in Celso, triturando prima, a parte ingredienti medicamentosi solidi, aggiungendo poi un liquido (aceto o olio) e mescolando di nuovo i componenti. Viene applicato direttamente sulla parte malata, per lo più ferite o piaghe purulente, ha proprietà di sfiammare, favorire la cicatrizzazione delle ferite, disinfettare. Segue nel suddetto lavoro una trattazione sui malagmata (malavgmata), cioè agli unguenti: [17] tra le sostanze impiegate si può notare, in Scribonio più frequentemente che in Celso, presenza di ingredienti minerali anziché fiori o piante come nel De medicina. I malagmata sono composti, in prevalenza, appunto di sostanze vegetali profumate (come bdellio, mirra, amomo, cardamomo, opopanace e altre), con presenza anche di sostanze minerali, come scaglie di rame, e anche animali, come diverse qualità di sebum ; come eccipiente è utilizzato oleum. Il malagma, una volta preparato, è piuttosto molle ; viene applicato direttamente sull’epidermide ; ha prevalentemente funzione riscaldante, ma anche dissolvente, e, tra altre qualità, ha anche quella di ‘aspirare’ la materia malata : viene spalmato specialmente sulle articolazioni e sui nervi ; viene utilizzato soprattutto per le malattie contrassegnate da accumulo di umori (come pleurite, gonfiori o tumori, affezioni al fegato o alla milza). Per quanto attiene, per pastilli, a Celso, Scribonio e Plinio si veda il seguito della trattazione ; [18] si discute poi di globuli, pilulae, trocisci e catapotia ; [19] di acopa. [20] In Celso i pastilli appartengono, prevalentemente, alla categoria dei medicamenti applicabili per via esterna, epidermica ; sono diluiti talvolta con aceto o vino e vengono poi spalmati, inlinuntur ; possono essere, come talora in Scribonio, fatti assumere per via orale. In Scribonio l’utilizzazione dei pastilli sembra più ampia ; talvolta sono somministrati anche sotto forma di clistere. In Plinio si trovano occorrenze di pastillus con valori diversi e ampi ; il composto può equivalere anche a collirio ed è impiegato come medicamento per diversi organi interni ed esterni.  

























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farmacologia

Globulus e pilula, trocivskoi sono attestati spesso in Scribonio. In Celso i due tipi di medicamento non sono attestati, forse perché sono termini non esclusivamente medici. Anche in Plinio globulus non è attestato ; frequenti sono invece le attestazioni per pilulae. Trociscus è attestato in Celso, ma non in Scribonio né in Plinio. Catapotium (katapovtion), sinonimo di pilula, è attestato spesso in Scribonio, meno frequentemente in Celso, che lo usa per primo, e solo occasionalmente in Plinio ; il medicamento è indicato come sonnifero contro fastidi o inconvenienti che impediscono di prendere sonno : dolori vari, ad es. uterini, difficoltà di respirazione, tosse, emottisi, ma anche più banali, come mal di denti, etc. Tra gli ingredienti più comuni sono specialmente opium, murra e nardum ; come eccipienti sono utilizzati miele, vino vecchio, succo di papavero e altre sostanze. Si conoscono numerose qualità di catapotia, specificate in base a colore, effetti, indicazioni etc. ; le dimensioni possono essere quelle di una faba, latina o egizia, o di un ervo. Il catapotium viene ingoiato intero – in senso lato ogni medicamento ingoiato è un catapotium –, oppure sciolto in acqua e bevuto, o anche applicato sulla parte malata. Acopum (a[kopo~) : in Celso troviamo solo due citazioni. Abbiamo invece una trattazione organica e sistematica in Scribonio nelle cc. 268-271, con specificazione di composizione, qualità ed effetti. In Plinio i cenni agli acopa sono accidentali e non comportano descrizioni dettagliate. L’acopo contiene eccipienti piuttosto grassi e spalmabili, come olio, cera, miele, etc. ; è consigliabile per malattie articolari, sclerosi e per altre affezioni. Veniamo ora ad altri composti terapeutici talvolta ricorrenti come i precedenti ; precisamente, andando in ordine alfabetico, antidoti, arteriacae, cataplasmata, colliri ; discuterò infine di altri medicamenti in alcuni casi meno noti, come adurenti o cauterizzanti ; antere ; cerati (da cui i moderni ‘cerotti’) ; la cosiddetta colice etc. L’antidotos (hJ ajntivdoto~, lat. antidotus o antidotum), è un composto con ingredienti in genere molto diversi ; è indicato contro i veleni, ma anche contro dolori di varia natura ; è da assumere per via orale, diluito in acqua. Da antidotos / antidotus derivano le raccolte di antidotari, che, tra tardo antico e Medioevo equivalgono a Ricettari. Arteriaca (ajrteriakhv) : fondamentalmente rimedio per la trachea, lat. arteria ; è medicamento indicato per trachea  































infiammata o arrossata, malattie da raffreddamento, tosse, catarro ; viene assunto in pillole che devono essere sciolte in bocca ; gli ingredienti più comuni sono oppio, miele, amomo e altri. Cataplasma (kataplavsmata) : è un composto solido topico ; sostanze componenti fondamentali : farine di tipo vario ; semi di lino e fieno greco cotti in acqua, vino con miele ; vino aspro e aceto ; viene prescritto di solito per infiammazioni, gonfiori, dolori articolari, affezione e pus alle gengive, malattie oftalmiche, ferite etc. ; ha proprietà svariate : riscaldanti, refrigeranti, emollienti, astringenti. Se ne conoscono dei più svariati autori. Collirio (kolluvrion, collyrium) : è un composto di larga diffusione nell’antichità ; medicamento fondamentalmente solido che va applicato sia in sé come tale, introducendolo come un tampone o una supposta in cavità strette e allungate, come il canale auricolare etc. sia, quando si tratti di affezioni agli occhi, diluito per lo più in acqua, latte, uovo, aceto etc. ; è utilizzato soprattutto per gli occhi, ma anche per affezioni di altro tipo, emorragie dal naso, ulcere e altri mali. Va preparato con gli ingredienti più diversi : nel caso degli occhi è fondamentale la papaueris lacrima (terminologia di Celso), cioè l’opium, sostanza, come è noto, anestetica e lenitiva ; come eccipiente è utilizzata la gomma; svariate, e spesso caratteristiche, le denominazioni : ‘cinereo’, ‘dia libanu’, ‘sferico’, ‘pixino’, in relazione appunto a ingredienti, colore, forma, contenitore, inventore etc. : cfr. anche Mazzini 1997, 388-389. Altri composti usati in età ellenistica e romana : ‘adurenti’ (kaustikav, adurentia), con valenze disinfettanti o corrosive ; antera (ajnqhrav, antera), un composto antinfiammatorio contro le ustioni, sotto forma di polvere o di pomata ; cerato (khvrwma o khrwthv, ceratum), l’antenato del nostro ‘cerotto’ : medicamento, come rivela il nome stesso, a base di cera e di olio ; topico di consistenza notevole, anche se minore rispetto all’empiastro, di azione piuttosto blanda, da applicare sulla parte o sull’organo dolorante o malato soprattutto nella fase di risoluzione del dolore o della malattia ; colice (kwlikhv, lat. colice) : rimedio da assumere specialmente per via orale, efficace soprattutto per le malattie del colon e, più in generale, dell’intestino.  















































Note. [1] Sconocchia 1993b. – [2] Come è noto, nelle Compositiones emplastrum è spesso, come la forma greca hJ e[mplasto~, attestata frequentemen-

farmacologia te ad es. in Galeno e alternativa a to; e[mplastron, concordato con il gen. femminile : si veda Sconocchia 1981, 63 e nota 57. – [3] Cfr. Krug 1993a, passim ; Sconocchia 1993a, 863-865 ; Sconocchia 2003, in Lippi-Sconocchia 2003 39-109. – [4] Si veda Praef. 9 / 3, 27 -4, 4 S : [ … ] habeantque omnes pondera atque mensuras exactas, ne quid errorum in rebus non necessariis accidat. Si vedano anche alcuni passi significativi, dell’Antidotos hiera Paccii Antiochi, c. 97 / 51-58 S, soprattutto p. 51. Si vedano inoltre passi di 199 / 91, 25-92, 4 S : Medicamentorum malorum non nocet nominum aut figurarum notitia, sed ponderis scientia. hanc porro medicus nec quaerere nec nosse debet, nisi diis hominibusque merito uult inuisus esse et contra ius fasque professionis egredi. illas autem figuras et nomina, necesse est ei scire, ut et ipse deuitet, ne per ignorantiam aliquam sumat et aliis idem praecipere possit: hoc enim proprium est medicinae et illud execratissimi pharmacopolae contrario oppositi uirtuti eius, ut et in ceteris artibus animaduertitur. Come è noto, a causa di pesi o dosi errate, alcune sostanze o composti farmacologici potevano divenire da positivi negativi e velenosi. – [5] Sconocchia 1993a, 863-869 e soprattutto, per la polemica contro le adulterazioni nella medicina romana, 869-870. – [6] frg. Orat. 121 ap. Gell. 1, 15, 9. – [7] Cfr. c. 199 / 92 S cit. – [8] Serm. 1, 2, 1-2. – [9] Sconocchia 1993a, 870, nota 110. – [10] Pro Cluentio 40. – [11] Vd. 22 / 22-23 S ; 38 / 27-28 S ; 97 / 51 S ; cfr. anche 271 / 116-117 S. – [12] nat. 16, 40 ; 34, 108. – [13] med. 5, 17, 2A e B / 194 M. La traduzione è di S. Sconocchia. – [14] Sconocchia 1993b, 136150. – [15] Si vedano, ivi, 147-149. – [16] Per occorrenze e caratteristiche degli emplastra in Plinio si vedano 148-149. – [17] Per Celso, Scribonio e Plinio si veda Sconocchia 1993b, 150-154 con confronto tra Celso e Scribonio (ad es. tra med. 5, 18, 5 / 195 M e Scrib. Larg. 255 / 110 S. ; tra med. 5, 18, 10 e Scrib. Larg. 266 / 114 S). – [18] Sconocchia 1993b, 155-157. – [19] 157-158. – [20] 158-159.  



















Fonti. Per le fonti si vedano gli autori richiamati nella presente microvoce. Più in generale, per i ricettari e le sillogi di medicamenti si ricorderanno, come si è già avuto modo di accennare nella parte introduttiva di questa sezione : Celso, De medicina, ll. 5 e 6 ; Scribonio Largo, Compositiones ; Galeno, soprattutto De compositione medicamentorum secundum locos libri x ; De compositione medicamentorum per genera libri vii ; Oribasio, Collectiones, ll. viii-x ; Synopsis, ll. i e iii ; Euporista l. iv ; Cassio Felice, De medicina, Teodoro Prisciano, Euporiston libri iii.  















Bibliografia. Artelt 1968 ; Gourevitch 1999 ; Gourevitch 2003 ; Grmek-Gourevitch 1985 ; Krug 1993 ; Mazzini 1997, 386-389 ; Mudry 1985 ; Schmitz 1998 ; Sconocchia 1981 ; Sconocchia 1993a ; Sconocchia 1993b ; Sconocchia 2003 ; Stamatu 2005b, 96-98 ; Thür 2000.  

























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4. Altri ‘Realien’. – Qualche parola, ora su alcuni Realien farmaceutici, soprattutto sui ‘laboratori’ o ‘officine’ utilizzate per la preparazione dei farmaci e sui contenitori in cui le sostanze medicamentose venivano conservate. Nei locali utilizzati per predisporre all’uso simplicia e preparare composti, laboratori sempre più organizzati con il passare del tempo – un’anticipazione delle nostre farmacie – c’erano, fin dall’età classica e poi ellenistica, strumenti atti a trattare sostanze e ingredienti medicinali : mortai con pestelli per ridurre in polvere le specie medicinali, cucchiai di varie fogge e dimensioni, bilancini e altri strumenti per dosare le polveri e per somministrare i rimedi, recipienti lignei per conservare semi e sostanze aromatiche etc. I vasi per riporre i composti medicamentosi, in origine fittili (anche anfore di varia dimensione), sono poi di ferro o di piombo o lignee, a partire dalla metà circa del i sec. d.C., come attestato da Scribonio Largo passim e da autori successivi. Sui contenitori dei rimedi c’era l’uso di apporre il nome dei medicamenti, con un’etichetta, su cartigli di papiro o con vere e proprie iscrizioni, testimonianze che, tuttavia, in genere non ci sono pervenute perché annotate su materiali deperibili. [1] Contenitori di medicamenti molto diffusi in età romana imperiale sono anche cofanetti di forma rettangolare, di dimensioni piuttosto ridotte, con coperchio scorrevole, su cui talora sono raffigurati Esculapio o il serpente. Internamente c’erano scomparti con piccoli sportelli a cerniera. [2] Alle analisi effettuate modernamente sui residui di alcuni di questi cofanetti, è risultato che le sostanze meno deteriorate erano sostanze metalliche, componenti comuni, come è noto (→farmacologia, 2.2, a cura di D. Monacchini e le voci →contravveleni composti e →veleni e contravveleni, a cura di Livia Radici), di vari preparati e composti. I metalli più comuni, in linea con le fonti rappresentate da opere e trattati vari [3] sono il rame, il piombo, lo zinco e il ferro, utilizzati variamente sia come simplicia che in diversi composti. Queste sostanze minerali sono infatti di impiego comune, come è noto, per il trattamento di uulnera o ulcera, come rimedi emostatici o astringenti o caustici etc. e figurano come componenti tipici dei collyria.  





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febbre sa viene indicato, accanto alla bile, il muco, [5] oppure anche una sorta di rigonfiamento (gr. plethora). [6] Insorgere della febbre e susseguenti brividi vengono spiegati con raffreddamento e successivo riscaldamento del sangue ; [7] lo scorrimento incrementato di sangue poteva portare al delirium. [8] La cessazione dello stato febbrile viene messa in relazione con ‘cozione’ ed essudorazione. [9] Durante il decorso dello stato febbrile è da evitare la somministrazione di vitto ; [10] parimenti misure terapeutiche devono essere impiegate soltanto in fase di ‘remissione’ della febbre. [11] La febbre è intesa come malattia unica; [12] ma, oltre al kausos (febbre ardente), che arroventa il corpo internamente, mentre la superficie rimane fredda, [13] sono appunto distinti i vari tipi già menzionati a seconda della loro periodicità (continua, quotidiana, terzana, quartana). Nelle età successive a Ippocrate si registrano trattazioni e sezioni specifiche : cfr. Diocle ; Erasistrato ; Asclepiade ; Celso ; Rufo ; Galeno ; Ps. Galeno. Secondo Asclepiade causa della febbre è l’occlusione dei pori. Per Celso la febbre ha diverse tipologie : c’è ad es. quella quotidiana, la terzana, la quartana, inoltre il tipo hemitritaion e così via. Le cause non sono sempre manifeste. [14] Secondo Rufo [15] esistono anche la febbre quintana, la febbre di sette e quella di nove giorni ; causa della febbre è il ‘flegma’, la quartana ha origine dalla milza. In effetti dalla medicina ippocratica, attraverso i secoli, si vengono formando definizioni diverse. Per Ps. Galeno « la febbre è, secondo alcuni, passaggio dal calore innato in uno stato contro natura, con pulsazioni più forti e frequenti ; è calore contro natura del cuore e delle arterie ; arreca danno alla forza vitale, sale dal profondo […] procura disordine alle pulsazioni, in rapporto alla tipologia della febbre […] Secondo altri la febbre è eccesso patologico di calore, specialmente di quello che viene dal profondo, con modificazione delle pulsazioni che si fanno più frequenti e più intense ; per altri ancora la febbre sarebbe mancanza di equilibrio nell’aria che si respira, verso il caldo e il freddo ». [16] Con il tempo si sono venute formando anche altre denominazioni diverse ; si sono venuti precisando alcuni caratteri collaterali : urine, pulsazioni, ittero e così via. Parallelamente, specialmente dall’età ellenistico-romana viene inventata tutta una serie di medicamenti e terapie, come quella di Galeno a base dietetica.  

Note. [1] Un vaso fittile ritrovato a Pompei reca tuttavia un’iscrizione con il nome di un preparato attribuito ad Antonio Musa, medico di Augusto, la faecula Aminaea, a base di vino Amineo, misto a polveri aromatiche e medicinali. – [2] Una di queste thecae uulnerariae, rinvenuta nella grande palestra di Pompei, in legno, con cerniere in ferro, di dimensioni ridotte, a due scomparti sovrapposti, contiene, nella sezione superiore, strumenti vari, come bisturi, pinzette, uncini vulnerari e anche un ago per ‘cataratta’ ; nello scomparto inferiore sono state ritrovate scatolette con medicinali, cinque astucci cilindrici con coperchio a pressione, che contengono, quelli più grandi, vari tipi di sonde, mentre negli astucci più piccoli sono stati rinvenuti resti di colliri in forma di bastoncini e alcuni linimenti. – [3] Vd. anche Fonti citate nella sezione introduttiva di questa voce.  

Fonti. Si vedano le fonti citate per la parte introduttiva di questa voce. Si tengano presenti soprattutto le opere di Celso, di Scribonio Largo, di Plinio e di diversi autori successivi. Inoltre si faccia costante riferimento alle testimonianze archeologiche, per le quali si rinvia alla bibliografia citata. Bibliografia. D’Amato 1993, 82-85 ; Debru 1997 ; Krug 1993b ; Mazzini 1997, 382-392 ; Pardon 2003 ; Schmitz 1998 ; Sconocchia 1993a, 865-876 ; Sconocchia 1993b ; Stamatu 2005b, 96-98 ; Thür 2000; Watson 1966.  

















Sergio Sconocchia Febbre. La febbre (pu'r, puretov~, febris) o riscaldamento abnorme dell’intero corpo, [1] è, in genere, per la medicina antica non un sintomo – lo è tuttavia in Erasistrato – ma una malattia vera e tra le più frequentemente menzionate (cfr. ad es. Gal. caus. morb. 2 / 7, 4 K). Nel Corpus Hippocraticum sono già acquisite conoscenze precise: [2] nasce per lo più dalla bile. I tipi sono in pratica quattro : febbre continua, che proviene dalla bile più abbondante e meno temperata ; quotidiana, che dipende da bile un po’ meno abbondante, più lunga della febbre continua ; terzana, che viene da bile in quantità ancora minore, ma di durata ancora più lunga della quotidiana ; quartana, che segue le stesse proporzioni. [3] La febbre può essere acuta o cronica e accompagnata da una serie di disturbi (vertigini, convulsioni, dolori, paralisi, disturbi mentali etc.) ; con la febbre si registra una variazione nelle urine : liquide, dense, oleose etc. Ancora nel Corpus Hippocraticum è spesso sintomo di malattie acute ;[4] come cau 



































































fegato

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su animali, erano noti i poroi, attraverso cui il fiele penetra nell’intestino. [7] Con Erofilo abbiamo, per la prima volta, una descrizione del fegato umano che si fonda su sezioni di cadaveri umani. [8] La cistifellea viene distinta dal fegato : attraverso questa e il coledoco la bile è riversata nel duodeno. Erasistrato conosce la ‘cirrosi’ (gr. skirros, ‘indurimento’). Per Celso [9] il fegato, situato sotto il diaframma inferiormente ai precordi, è concavo nella parte inferiore e convesso nella parte superiore ; inoltre sporgendo si appoggia lievemente sopra il ventricolo e si divide in quattro lobi. Per Plinio la posizione del fegato è a destra. Secondo Rufo di Efeso [10] la vena attraverso cui giunge nutrimento al fegato, di colore simile a una lenticchia, è la porta del fegato. In Galeno, che trae le sue informazioni da esperimenti su animali [11] abbiamo vari scritti e studi. [12] Per lo studioso, nel fegato risiede un’anima nutritiva (psychē threptikē), con energie (dynameis) corrispondenti. Altre ricerche importanti sono documentate in altre opere ; Galeno si sofferma sulla vena che proviene dall’ombelico : « La sostanza tipica del fegato che si forma tutt’intorno (alla vena) e colma gli spazi vuoti tra le vene […] Per questo motivo i feti sono muniti di due porte del fegato. Infatti dalla grande vena che attraversa l’ombelico si ramificano e nascono tutte quante le vene che si trovano nel corpo […] ». [13] Altri studi importanti troviamo in Oribasio. Affezioni gravi al fegato procurano, secondo il medico antico, come secondo il moderno, malattie gravi e spesso la morte (cfr. supra la ‘cirrosi’ in Erasistrato).  

Note. [1] Hp. Vict. 2, 66 / 6, 586 L ; Cael. Aur. acut. 2, 16, 100 ; Gal. Morb. caus. 2 / 7, 4 K ; Puls. caus. 4, 7 / 9, 166 K. – [2] Hp. Nat. hom. 15 / 6, 66-68 L. – [3] Cfr. anche Morb. sacr. 1/6, 354 L. – [4] Hp. Acut. 2 sgg. / 2, 232 sgg. L ; Aff. 7 ; 9 ; 10 ; 11 / 6, 214-220 L. – [5] Morb. 1, 23 / 6, 188 L ; Aff. 18/ 6, 226s. L. – [6] Morb. 4, 49 / 7, 578 sg. L. – [7] Morb. 1, 24 / 6, 188 sg. L ; Flat. 7 sg. / 6, 98-104 ; cfr. Morb. 4, 52 sg. / 7, 590-594 L etc. – [8] Morb. 1, 30 / 6, 200 L. – [9] Morb. 3, 15 / 7, 140 L ; VM 16 ; 19 / 1, 608 ; 616-620 ; Vict. 2, 66 / 6, 582-586 L. – [10] Acut. (Sp.) 20 /2, 498 L. – [11] Int. 3 / 7, 174-178 L ; Epid. 7, 43 / 5, 410 L. – [12] Flat. 6 / 6, 96 sg. L. – [13] Aff. 11 / 6, 218 L. – [14] Med. 3, 3, 1-4 / 103-104 M. – [15] 348 ; 438 ; 515-516. 609 D R – [16] Def. med. 185 / 19, 398 K ; cfr. anche Mazzini 1997, 326.  



































Fonti. Hp. vm 16 ; 19 / 1, 608 ; 616-620 ; Acut. (Sp.) 2 sgg. ; 20 / 2, 232 sgg. L ; 52 /2, 498 L ; Epid. 7, 43 / 5, 410 L ; Nat. hom. 15 / 6, 66-68 L ; Flat. 6 / 6, 96 sg. L ; 7 sg. / 6, 98-104 ; Morb. 1, 23 / 6, 188 L ; 1, 24 / 6, 188s L ; 1, 30 / 6, 200 L ; Aff. 7 ; 9 ; 10 ; 11 / 6, 214-220 L ; Aff. 18/ 6, 226s. L ; Morb. sacr. 1/6, 354 L ; Vict. 2, 66 / 6, 582-586 L ; Morb. 3, 15 / 7, 140 L ; Int. 3 / 7, 172-178 L ; Morb. 4, 49 / 7, 578 sg. L ; Morb. 4, 52 sg. / 7, 590-592 L ; Cels. med. 3, 3, 1-4 / 103-104 M; Ruf. 348 ; 438 ; 515-516. 609 D R. Gal. Caus. morb. 2 / 7, 4 K ; Caus. puls. 4, 7 / 9, 166 K. Ps. Gal. Def. med. 185 / 19, 398 K ; Cael. Aur. acut. 2, 16, 100.  























































Bibliografia. Gundert 2005e, 299-301 ; Mazzini 1997, 323-327 ; Nutton 1998b, 510s. ; Potter 1989, 9-19 ; Puschmann 1978 ; Smith 1981, 1-18 ; Wittern 1989.  











Sergio Sconocchia Fegato. 1. Anatomia. – Il termine italiano ‘fegato’ è un’evoluzione di iecur ficatum, ‘fegato ingrassato con fichi’. L’organo è al centro di attenzione particolare anche nella religione e nella mantica fin dai tempi dei Babilonesi, poi degli Etruschi (aruspicina), dei Greci e dei Romani. Di Babilonesi ed Etruschi ci sono pervenuti modelli plastici di fegato. [1] Nei poemi omerici ferite al fegato sono ritenute mortali. [2] L’organo viene studiato anche prima di Ippocrate. Empedocle lo ritiene ricco di sangue (gr. polyhaimaton). [3] La conoscenza del fegato diviene più precisa con la medicina ippocratica, che si fonda anche su esperimenti su animali. Si pensi, nel Corpus Hippocraticum, a vari passi, [4] alla descrizione di hēpatitis phleps [5] e a diverse opere. Si conosce che l’organo è formato di vari lobi, che è costituito da tessuti diversi ; che ha superficie e forme diverse nelle diverse sezioni. Ad Aristotele, che compie esperimenti  





















Note. [1] Sono conservati modelli babilonesi al British Museum ; bm Bu 89-4-26, 238 ; per gli Etruschi a Piacenza. – [2] Hom. Il. 2, 579 ; Od. 9, 301 – [3] D.-K. 31 B 150). – [4] Ad es. Hp. Oss. i. / 9, 168 L. – [5] in Hp. Epid. 2, 4, 1 / 5, 120 L ; si veda anche Hp. vm 22 /1, 632 L ; Alim. 31 / 9, 110 L. – [6] HA 1, 17. 496b 15-33. – [7] PA 2, 15. 506 b 11- 13). – [8] F 60 von Staden. – [9] med. 4, 1, 15/ 150 M. – [10] 176-178 D R. – [11] Anat. admin. 6, 11s. / 2, 575-579 K. – [12] Qui ricordiamo solo Plac. Hp. et Pl. 6, 8 / 5, 570 K. ; Anat. admin. 2, 7 / 2, 316 sg. K. ; cfr. anche 15, 385 K. e Ps. Gal. Def. med. 51 / 19, 360 K). – [13] Foet. form. 3 / 4, 667-668 K.  













Fonti. Per modelli babilonesi al British Museum si veda bm Bu 89-4-26, 238 ; Hom. Il. 2, 579 ; Od. 9, 301 ; D.-K. 31 B 150. ; Hp. vm 22 / 1, 632 L ; Epid. 2, 4, 1 / 5, 120 L ; Alim. 31 / 9, 110 L ; Oss. 1 / 9, 168 L ; Arist. HA 1, 17. 496b 15-33 ; PA 2, 15. 506 b 11- 13 ; He 



















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fegato

rophil. fr. 60 von Staden ; Cels. 4, 1, 5 / 150 M ; Ruf. 176-178 D R. Anat. admin. 6, 11 sg. / 2, 575-579K ; Foet. form. 3 / 4, 667-668 K ; Plac. Hp. et Pl. 6, 8 / 5, 570 K ; In Hp. Alim. comm. 4, 5 / 15, 385 K. e Ps. Gal. Def. med. 51 / 19, 360 K.  









Bibliografia. Burkert 1984a, 48-54 ; Laser 1983, 46 ; Mazzini 1997, 222-223 ; Oser-Grote 2004 ; von Staden 1989, 162-164.  







Sergio Sconocchia 2. Fisiologia. – Il Corpus Hippocraticum ci riporta che il fegato è il centro di produzione e deposito della bile gialla. [1] Nel pensiero medico successivo e specialmente in Galeno il fegato riveste un ruolo centrale nel processo della digestione, con funzione di eseguire la seconda cottura del materiale proveniente dalla cottura ed elaborazione del cibo proveniente dallo stomaco e dall’intestino e di distribuire a tutto il corpo il materiale purificato attraverso il sangue, di cui si alimenta e che nel contempo produce e distribuisce, attraverso le vene. I residui della seconda cottura vengono eliminati nella cistifellea, che è ricettacolo della bile gialla o nella milza, che attrae la bile nera. Il fegato è anche sede dell’anima concupiscibile, cioè quella che opera i desideri, le aspirazioni e molte altre azioni della vita di relazione. [2]  



Note. – [1] Gal. Hp. nat. hom. 2,6 / 15, 145-146 K. – [2] Gal. Meth. med. 1, 10 / 10, 635-636 K. Fonti. Hp. Nat. hom. 1 / 6, 32 L ; Alim. 31 / 9, 110 L ; Oss. 1 / 9, 168 L ; Cels. 4, 1, 5/ 150 M ; Anat. admin. 6, 11 sg. / 2, 575-579 K ; Foet. form. 3 / 4, 667-668 K ; Plac. Hp. et Pl. 6, 8 / 5, 570 K ; Gal. Meth. med. 1, 10 / 10, 635-636 K ; Comp. med. sec. loc. 8, 6 / 13, 193-194 K ; In Hp. Nat. hom. 2, 6 / 15, 145-146 K ; In Hp. Alim. comm. 4, 5 / 15, 385 K e Ps. Gal. Def. med. 51 / 19, 360 K ; Orib. Coll. 33-35 / 22, 8, 3 ; Coll. 356-358 / 24, 25 B D M ; Orib. Coll. 22, 1 / 3, 34-37 B D M cfr. Gal. Us. part. 4, 1-7 ; 12 / 3, 266-282 ; 296-300 K.  





























Bibliografia. Burkert 1984a, 48-54 ; Laser 1983, 46 ; Leven 2005a, 559-562 ; Mazzini 1997, 281-284 ; Oser-Grote 2004 ; von Staden 1989.  









Fabio Cavalli 3. Patologia. – Per questo organo invece si rinvengono conoscenze definite già nel Corpus Hipp., come idropisia (acqua nel fegato), ascessi, gonfiore etc. Le conoscenze divengono più approfondite con Erasistrato, al quale sono noti

ad es. morbo epatico acuto e cronico, erisipela, malattie causate da squilibrio ormonale etc. Fonti. Cels. 3, 21, 14-17 / 134 M ; 4, 15 / 169-170 M ; Aret. 27-28 H ; Gal. Plen. 4 / 7, 530 K ; In Hp. Aph. comm. 55 / 18, 1, 165-167 K.  







Bibliografia. Mani 1965-1967 ; von Staden 1989.  

4. Terapeutica. – Per il fegato, già gli autori del Corpus Hippocraticum, a differenza di altri organi interni, individuano una serie di patologie non solo di carattere esterno, come ferite e traumi, con relative terapie, ma cure adeguate per ascessi, →idropisia, gonfiori etc. Le conoscenze terapeutiche divengono più approfondite con la medicina di età ellenistica e poi romana. Celso, che eredita la scienza medica greca classica ed ellenistica, accenna diffusamente all’organo e a relative terapie. [1] Scribonio Largo, autore del primo trattato farmacologico in lingua latina, accenna diffusamente al fegato e alle sue affezioni, [2] prescrivendo anche simplicia, come, a c. 123, Ad tumorem, dolorem iocineris et duritiem, lupi iecur, prima in aquam demissum e poi arefactum, oppure, c. 124 la satureia, ma soprattutto catapotia, potiones e composti vari.  



Note. [1] Ad es. in Cels. 4, 1, 5 / 150 M c’è un cenno a iecur, poi in 4, 1, 6 / 150 M a stomachus, in 4, 1, 7 / 150-151 M all’intestino ; in 4, 15, 1-4 / 169-170 M abbiamo ampie descrizioni di un’affezione per la quale iecur aeque modo longus, modo acutus esse consueuit, un uitium definito in greco epatikón e delle terapie relative ; le terapie per le affezioni al fegato consistono soprattutto in salassi e imposizione di cataplasmata e malagmata ; inoltre sono consigliati simplicia e terapie dietetiche (serenità, evitare ansie) ; inoltre →Bagni e unzioni e, se necessario, specie in caso di suppurationes, interventi chirurgici. – [2] Le affezioni citate da Scribonio sono diverse : ad es. si danno prescrizioni per duritia (o durities) a cc. 89 ; 110 ; 125 ; 126 ; 159 ; 170 ; per iecoris dolor si danno prescrizioni come vari tipi di colice, potiones diverse e composti vari a cc. 120 ; 125 ; 173 ; 206 ; 258 ; 259 ; per iecoris tumor, c. 144, è indicata una potio ; per tumor et dolor, cc. 123 e 125, sono consigliati rimedi e composti vari.  



































Fonti. Troviamo citazioni varie nel Corpus Hippocraticum. Riprendono l’eredità terapeutica della medicina greca classica ed ellenistica Celso, mentre richiama soprattutto rimedi sperimentati da medici contemporanei o di poco precedenti Scribonio Largo : per entrambi si vedano i passi già citati. Si terranno anche presenti diversi altri autori  

filolao della tarda latinità, come Medicina Plinii, Physica Plinii, Celio Aureliano, Marcello Empirico e altri. Bibliografia. Laser 1983, 46 ; Mani 1965-1967.  

Sergio Sconocchia Filino di Cos [iii sec. a.C.]. 1. Dati biografici. – Medico allievo di →Erofilo, F. sarebbe, secondo le fonti, concordi a eccezione di →Celso, [1] il fondatore della scuola empirica. [2] Nei suoi scritti, che non ci sono pervenuti, pare fossero evidenti le divergenze tra il suo indirizzo e quello di Erofilo ; F., infatti, secondo la tradizione, rigettò per buona parte l’impianto dottrinario di Erofilo, [3] soprattutto in relazione alla diagnosi e alla prognosi. Tra i suoi interessi principali è anche la farmacologia, con particolare attenzione ai nomi e all’identificazione degli elementi e delle erbe utilizzate per le composizioni. Resta dubbia l’identificazione tra F. e un Filino autore di materia iologica. [4] 2. Opere. – La tradizione attribuisce a F. la composizione di un’opera in sei libri in risposta al lessico ippocratico composto da Bacchio. [5]  











Note. [1] Vd. Cels. Prohoem. 10 / 20 M. – [2] Vd. Leven 2005h, 694-695. – [3] Vd. Diller 1938, 2193. – [4] Vd. von Staden 1996a, 1160. – [5] Vd. von Staden 1996a, 1160 ; Leven 2005h, 695.  

Bibliografia. Diller 1938 ; Leven 2005h, 694695 ; von Staden 1996a.  



Livia Radici Filolao. 1. Generalità. – Nativo di Crotone e contemporaneo di Socrate (ca. 470-395 a.C.), F. ha prodotto teorie filosofiche, cosmologiche e matematiche. Delle sue opere ci è pervenuta una traccia piuttosto confusa, con testi autentici e testi probabilmente spuri, e con la prevedibile difficoltà di mettere a punto dei criteri per discernere. La comunità scientifica da tempo riconosce al Burkert il merito di aver individuato un tale criterio. Le fonti non indicano nessun particolare titolo. La teoria del limite e dell’illimitato intesi come principi generativi del reale, e del numero inteso come principio di armonia, sembra essere stata ideata da F. Un possibile criterio per discernere tra illimitato e limite consiste nell’intendere che illimitata è la materia prima mentre le forme, e in particolare le forme geometriche, avrebbero la funzione di introdurre il limite. [1] È possibile che queste sue teorie abbiano influenzato il  

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→Platone tardo e le sue cosiddette dottrine non scritte. 2. Cosmologia/Astronomia. – Sorvolando sull’eventualità che il numero uno potesse identificare il fuoco centrale (che viene denominato, con nostra sorpresa, hestia, termine che evoca non soltanto il focolare domestico in quanto luogo e apparato per la produzione della fiamma e del calore, ma anche il focolare inteso come fulcro delle relazioni tra i membri della medesima famiglia), osserviamo che l’→astronomia di F. parte dal presupposto che la terra sia sferica e i corpi celesti si muovano di moto circolare, e dal più completo silenzio sull’idea di vortice. Al pari di →Parmenide, F. ha elaborato un tipo di sistema cosmico per il quale non era previsto alcun percorso evolutivo. L’intuizione che ha reso famosa la sua idea di mondo è lo ‘spodestamento’ della terra dalla posizione, divenuta già tradizionale, al centro del cosmo a favore di un fuoco che noi non vediamo. Due testi, uno dei quali dovuto ad →Aristotele (si tratta di 44A16 e 58B37a D.-K.), sono inequivocabili nel farci sapere che, secondo F., anche la terra ruota attorno a un fuoco centrale al pari di ogni altro corpo celeste, ed è bilanciata da una anti-terra collocata dalla parte opposta del fuoco centrale, verosimilmente per evitare squilibri al sistema dei corpi celesti, squilibri che sarebbero derivati dalle dimensioni particolarmente grandi della terra. Apprendiamo inoltre che F. si rappresentava il cosmo come una serie di nove corpi celesti che ruotano attorno al fuoco centrale. Nell’ordine, si tratta di anti-terra, terra, luna, sole e i ‘cinque pianeti’erratici [2] nonché, all’esterno, le stelle fisse. I suoi corpi celesti si muovono ordinatamente nello spazio cosmico, ognuno a una velocità differente dagli altri. Non è chiara la coesistenza di queste intuizioni con gli intendimenti lato sensu religiosi, mitologici, rituali che pure emergono dal tipo di sapere da lui elaborato. Note. [1] È questa l’interpretazione proposta in Barnes 1979, i 85-90. – [2] Poiché F. denomina Olimpo la sfera delle stelle fisse, non è inverosimile che sia stato lui anche a stabilire gli abbinamenti tra i cinque pianeti e alcune divinità olimpiche. Bibliografia. Burkert 1972 ; Barnes 1979 ; Huffman 1993 ; Kirk-Raven-Schofield 1983 ; Zhmud 1997 ; Zhmud 1998.  









Livio Rossetti

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filone di bisanzio

Filone di Bisanzio. Tra le opere di argomento bellico una posizione di tutto rilievo spetta al Trattato di meccanica di Filone di Bisanzio, composto in nove libri, ma di cui rimane solo un parte. L’autore è attivo probabilmente poco dopo →Ctesibio, che viene citato, cioè tra la fine del iii e l’inizio del ii sec. a.C. Nelle sezioni dedicate alla →meccanica applicata alla guerra (belopoiikav) si espone una serie di macchine di varia natura, pezzi d’artiglieria come catapulte [→catapulta]. Altrove, trattando di questioni di poliorcetica [→polemologia], si affrontano le questioni inerenti la logistica delle macchine ed il loro impatto sull’urbanistica delle città destinate ad accoglierle. Una parte dell’opera è inoltre dedicata alla descrizione di complessi congegni idraulici [→idraulica], come le fontane, adatti all’abbellimento delle ricche capitali ellenistiche. Lo scritto, infatti, appare come un tipico prodotto della scienza ellenistica, realizzato cioè in un ambiente cortigiano e con ogni probabilità destinato proprio ai regnanti, alle cui dipendenze operavano uomini di cultura e ingegneri come lo stesso Filone. Bibliografia. Drachmann 1948 ; Ferrari 1984 ; Franco Repellini 1993 ; Gabba 1980b ; Garlan 1974.  







Francesco Fiorucci Filosofia. 1. Un’etichetta fortunata. – 1.1. Sappiamo che i molti autori di (proto)-trattati →Peri Physeos del vi e v secolo a.C. coltivarono l’aspirazione (almeno l’aspirazione !) a capire e spiegare un varietà di fenomeni naturali. I loro libri costituirono – certo con molte importanti differenze l’uno dall’altro – una prima forma di trattato inteso come deposito ordinato di conoscenze, ossia di teorie che l’autore professa apertamente, ravvisando in esse il nocciolo della sua epistēmē e del suo insegnamento. Con le loro opere prese forma un modello, il prototipo di ciò che, col tempo, è diventato il trattato. Inoltre i loro scritti vennero ben presto qualificati come testi filosofici o, come minimo, come un essenziale passo preliminare verso la filosofia. Ma la qualifica di questi autori fu di sophoi, non di philosophoi. Merita una segnalazione, al riguardo, la notizia, riportata soltanto in Diog. Laert. 1, 22, secondo cui nell’anno 582-81 a.C. la città di Atene conferì anzitutto a →Talete la qualifica di sophos, per  

poi estenderla ad altri eminenti intellettuali, fino a costituire il gruppo o collegio dei Sette Sapienti. [1] L’uso di estendere agli autori di trattati Peri Physeos (e a non molti altri intellettuali) la qualifica di filosofi si è verosimilmente affermato solo alla fine del v secolo, quando ormai si erano affermate anche altre forme di sapere considerate attinenti alla filosofia. Significativamente nella sezione iniziale dell’Ippia Maggiore (281c-283b) il Socrate platonico si diffonde sul rilevante progresso che la Sofistica ha rappresentato rispetto al tipo di sapere prodotto da intellettuali del periodo che va da →Talete ad →Anassagora parlando sempre e soltanto di sophia e non risulta che i Sofisti o →Democrito abbiano insistito nel considerarsi e chiamarsi filosofi, [2] mentre è molto probabile che abbia cominciato Socrate a fare un largo e compiaciuto uso di questa denominazione e che il successo arriso al suo insegnamento abbia dato un contributo decisivo alla fissazione della nozione e della corrispondente qualifica. In effetti, se nel Carmide (153d) →Platone riferisce che Socrate, di ritorno dalla battaglia di Potidea (anno 432 a.C.), cominciò a fare domande sulla filosofia, se c’erano novità in proposito (peri; filosofiva~ o{pw~ e[coi ta; nu`n), nel Fedone (97d-98d) egli mostra chiaramente di trattare le teorie di →Anassagora come filosofiche anche se riferisce che Socrate non le condivise e anche se non menziona esplicitamente la f. in quanto tale. A sua volta →Senofonte nel Simposio (1, 5) propone un Socrate che, prendendo le distanze dai Sofisti più celebrati, afferma : « noi, invece, ci vedi fare filosofia da autodidatti » (aujtourgou~ … th`~ filosofiva~). Ma è soprattutto grazie a Platone e ad →Aristotele (in misura molto più ridotta grazie agli altri Socratici) che il termine è entrato stabilmente nell’uso, riempiendosi di connotazioni solo positive e inglobando nella sua tradizione tutti gli autori di trattati →Peri Physeos (e, più in generale, il sapere sulla natura che era decollato a Mileto) ma lasciando decisamente ai margini i Sofisti, sui quali ha notoriamente pesato quella sorta di verdetto di indegnità che Platone ha insistentemente proposto e argomentato e che Aristotele ha sanzionato per il semplice fatto di intitolare una sua opera Sophistikoi Elenchoi, «Confutazioni sofistiche». Il prestigio associato alla qualifica di filosofo fu straordinariamente alto durante tutto il iv secolo. Il prestigio personale di ma 









filosofia estri come Socrate, Platone e Aristotele ebbe il potere di ‘consacrare’ questo nome come idoneo a identificare un ideale di vita nobilissimo e una creatività che, per lungo tempo, non ebbe concorrenti di sorta. 1.2. Alcune circostanze meritano di essere richiamate quale indizio del prestigio di chi, all’epoca, poteva rivestirsi della qualifica di filosofo. (A) In una sua orazione logografia Lisia difende gli interessi di un banchiere apparentemente accusato da uno dei socratici, Eschine di Sfetto, e riferisce che il banchiere ritenne di poter dare fiducia a Eschine e accordargli un prestito dato che questi « era stato discepolo di Socrate ed era andato facendo molti solenni discorsi sulla giustizia e sulla virtù (semnou;~ lovgou~ periv dikaiosuvnh~ kaiv ajreth`~), per cui non si sarebbe mai permesso di compiere atti che solo gli uomini più disonesti si azzardano a compiere ». Lisia mostra dunque di pensare che il dicasta medio, l’ateniese medio, non avrebbe ritenuto anomalo per un banchiere (che non era esattamente un intellettuale) conoscere i Socratici, il loro diffuso prestigio, e perfino certi temi ricorrenti dei loro logoi, né dar loro fiducia. [3] (B) Aristotele e il suo allievo →Teofrasto si professarono philosophoi, ma non anche giuristi. Nondimeno essi poterono pubblicare anche una impressionante quantità di testi giuridici prestigiosi, [4] apparentemente senza suscitare né proteste, né critiche, né manifestazioni di gelosia. Ciò significa che la loro qualifica di philosophoi implicava una legittima presunzione di autorevolezza anche in campi tradizionalmente lasciati fuori dalla sfera della F. (C) Il memorabile sforzo di rappresentarsi il sapere e le sue aree come un tutto organico è indissolubilmente legato alla figura di Aristotele anche se specifiche benemerenze in tal senso si devono riconoscere in particolar modo a Democrito. È stato infatti lo Stagirita a delineare per primo una disposizione seriale degli ambiti disciplinari, in modo che dove finisce l’uno possa cominciare l’altro ambito, senza soluzione di continuità. Questa impostazione non è stata esplicitamente teorizzata (egli parla semmai di scienze teoretiche, pratiche e poietiche), ma è nelle cose quando si osservi la distinzione tra Fisica, De Caelo e Meteorologica, oppure tra Poetica, Retorica, Politica e Etica (o altri ambiti disciplinari percepiti anch’essi come contigui), ed è significativo che anche ai nostri giorni venga sostanzialmente mantenu 







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to l’impianto concepito da Aristotele, anzi non di rado perfino la terminologia che identifica le singole aree disciplinari e lo stesso criterio di delimitazione delle aree. [5] 2. La vocazione ‘architettonica’ della filosofia. – L’ambito delle competenze toccate dalla f., i fattori di prestigio della f. e i significati accessori associati alla qualifica di filosofo sono così multiformi che non vale quasi la pena di tentarne una rassegna. In breve si può osservare che la f. si è caratterizzata sia come ideale di vita, sia come la disciplina maggiormente dotata di virtualità ‘architettoniche’. La f. intesa come ideale di vita si è fondata, inizialmente, sulla contrapposizione alla Sofistica e alla retorica per il fatto di aspirare alla verità, alla conoscenza, al sapere, a un sapere disinteressato, alla vita contemplativa, alla saggezza, eventualmente a forme non banali di potere politico : aspirazioni e orientamenti che lasciano facilmente intravedere un denominatore comune, ma per poi interpretarlo e modularlo in molti modi e con una considerevole varietà di sfumature a seconda degli autori e dei contesti. La nuova forma di eccellenza chiamata f. dimostrò una netta propensione ad accogliere come eminentemente filosofici gli scritti e le teorie dei sophoi che coltivarono l’indagine sulla natura (da Talete a Democrito), mentre qualche tenace riserva ha riguardato l’opera dei Sofisti, ma non perché le loro teorie e invenzioni comunicazionali non fossero giudicate rilevanti per la f., bensì quasi soltanto per l’accusa di commercializzare il proprio sapere e di fare discorsi interessati (in funzione degli interessi del singolo committente). [6] Invece non venne fatto, nel periodo considerato, nessun tentativo per inglobare nella f. anche la storia, la →medicina, la →geografia [7] o la →matematica. [8] Sporadica rimase anche la polemica dei medici contro un modo ritenuto ‘filosofico’ o ‘troppo filosofico’ di accostarsi a quella scienza. Nelle condizioni indicate, la f. è potuta emergere come una forma eminente di eccellenza e dispiegare una funzione ‘architettonica’ che si è manifestata soprattutto ad opera di Aristotele. Questi infatti si è presentato come filosofo, ha definito l’ambito più proprio del filosofare come ‘filosofia prima’, ha esercitato una sorta di supremazia sulla retorica facendola mero oggetto di studio, e soprattutto ha dato vita a una straordinaria serie di discipline del tutto nuove che andavano dall’etica alla  







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politica, dalla sillogistica (o, come poi si disse, la →logica) al →diritto (peri nomōn), dal sapere su piante e animali al sapere su moltissimi altri aspetti del mondo della vita, intendendo che si trattava di ambiti distinti e distinguibili dalla →medicina. Ricordiamo inoltre la storia della f. in quanto esposizione e discussione del pensiero di singoli autori o ricerca comparativa (come nel caso delle Physikon doxai di Teofrasto). Pure significativo è che, nel caso della →cosmologia, Aristotele da un lato ha recepito e ripensato alcune teorie d’avanguardia (dovute a →Eudosso e Callippo), dall’altro ha elaborato una intera infrastruttura concettuale – la teoria della quinta essenza incorruttibile che si muove unicamente di moto circolare – in grado di sostenere in modo determinante la loro plausibilità. È grazie a scelte di questo tipo che si è definitivamente affermata la funzione ‘architettonica’ della f. La gamma, considerevolmente vasta, degli intellettuali che vennero considerati sophoi (o philosophoi) da una tradizione millenaria non impedisce di rilevare gli indizi di una rapida evoluzione nel modo di concepire la f. A questo riguardo, dalla metà dell’Ottocento e per circa un secolo, si è parlato di cinque grandi periodi e cinque principali modalità del filosofare nel mondo greco. Nella limpida formulazione di Rodolfo Mondolfo una prima fase fu caratterizzata dal « predominio del problema cosmologico » ; la seconda (Sofisti e Socrate) dal « predominio del problema antropologico » ; la terza dai « grandi sistemi » ; la quarta dal « predominio del problema etico » e la quinta dal « predominio del problema religioso ». [9] Ovviamente predominio non significa azzeramento di ogni altro interesse, ma soltanto propensione a privilegiare determinati atteggiamenti. Nondimeno lo schema, come ogni schema, rischia di appiattire e far perdere di vista connotati importanti delle varie fasi. Pertanto, in considerazione della notorietà di quello schema, qui di seguito si procederà a ripensarlo e rilevare un certo numero di altri tratti peculiari alle singole fasi. 3. Modi diversi di essere filosofi. La stagione dei Peri Physeos. – Osserviamo per cominciare che la prima fase coincide con la ‘stagione’ dei trattati che vanno sotto il titolo di Peri Physeos. Tra il vi e il v secolo se ne scrissero circa venti e per lungo tempo coloro che poi vennero unanimemente considerati filosofi concen 



























trarono il loro sapere in questo tipo di opere redatte normalmente in prosa (con tre memorabili eccezioni : →Senofane, →Parmenide e →Empedocle) e, nel lungo periodo che va da →Anassimandro ad Anassagora – è accaduto molte volte che ciascuno di loro sia stato autore di una sola opera (spesso conosciuta con il medesimo titolo). Il sapere espresso da questo variegato gruppo di intellettuali (noti anche con la qualifica di →presocratici) si caratterizza per la tendenza a proporsi come detentori di un sapere che si distingue dalla tradizione poetica e sottolinea la maggiore propensione a spiegare, rendere conto e assicurare l’intelligibilità di ciò che viene affermato, e per la connessa propensione ad astenersi dall’affabulazione. In secondo luogo si osserva una diffusa propensione ad accreditare spiegazioni semplici, anche riduttive, come quando si è affermato che l’eclisse è dovuta alla mera interposizione della luna (cui accadrebbe dunque, per brevi intervalli di tempo, di fungere da diaframma), che la terra non cade solo perché non c’è una direzione privilegiata verso cui possa eventualmente cadere, che il calore è condizione non solo necessaria ma anche sufficiente per la comparsa di forme di vita, che tuoni e fulmini sono il mero frutto dello scontro e dell’attrito fra le nubi. Questo tipo di spiegazioni delinea un modo molto caratterizzato di ‘demitizzare’ i problemi : essi vengono addirittura banalizzati e la spiegazione banalizzante diviene oggetto di un insegnamento tendenzialmente ‘freddo’. Ricordiamo inoltre che questo tipo di libri costituì il primo modello di trattato scientifico, inteso come esposizione ordinata di un sapere già disponibile. In tali opere è dato rilevare solo labili tracce di un sapere nato altrove, verosimilmente in quanto questi autori si adoperarono a costruire un sapere in qualche misura condiviso e eminentemente ellenico. Peraltro la linea di tendenza indicata ha saputo far posto a moltissime innovazioni di peso, non solo per quanto riguarda le singole teorie (es. spiegazioni diverse e concorrenziali dei terremoti, o delle piene periodiche del Nilo), ma anche per le forme di superamento dell’orizzonte naturalistico che emergono inequivocabili nel caso di →Eraclito, Parmenide, →Zenone e per la ripresa della volontà di intrattenere e suggestionare l’uditorio che si osserva in modo particolare nel Peri Physeos di Empedocle. [10] Fermo  





filosofia rimane, per le ragioni richiamate al § 1, che la connotazione di tutti questi autori come ‘filosofi ’ ha qualcosa di stipulativo, anche se si conviene di riconoscere l’inequivocabile rilevanza filosofica di autori come Parmenide, Eraclito o Anassimandro, e così pure il potenziale filosofico di molte delle idee messe in circolo da buona parte di questi intellettuali. 4. Modi diversi di essere filosofi tra il v e il iv secolo. – 4.1. Il modello rappresentato dai trattati Peri Physeos ha subito una temporanea ma rilevante battuta d’arresto a partire dalla metà del v secolo, quando, più o meno contemporaneamente, Protagora e Zenone idearono una creativa (e fortunata) alternativa all’offerta di sapere e al libro inteso come trattato. Il nuovo modello ebbe, a quanto pare, un notevole successo perché contribuì all’ideazione e al riconoscimento di una nuova figura professionale, quella del Sofista, e diede luogo a una produzione decisamente vasta, nella quale molti Sofisti (più di tutti Gorgia) investirono energie considerevoli, creando alcune essenziali precondizioni anche per la successiva fioritura del dialogo socratico. L’innovazione è data dal fatto che tanto nelle Antilogie del primo quanto nell’anomalo Peri Physeos del secondo non vennero proposte ulteriori teorie o dottrine, ma vennero rappresentate situazioni, e più precisamente situazioni problematiche, paradossali, prive di una spiegazione, soluzione o insegnamento espliciti. In effetti nella logica dell’→antilogia era iscritta la rinuncia dell’autore a prendere posizione pro o contro ; del pari nella logica dei paradossi zenoniani era iscritta la rinuncia a decodificarli o ricavarne un insegnamento esplicito. Pertanto questi autori scrissero libri che non proponevano teorie, si presentarono come intellettuali (noi diremmo ‘filosofi ’) privi di un insegnamento esplicito da proporre, ma non sfiorati dal timore che il carattere eminentemente obliquo della loro sophia potesse compromettere il riconoscimento della loro eccellenza come sophoi. L’innovazione deve dirsi cospicua sia in relazione al fatto che da un buon secolo si era stabilito l’uso di associare la qualifica di sophos all’offerta di teorie e spiegazioni, sia in relazione alla cultura degli enigmi, in larga misura anteriore, che si era caratterizzata per la disponibilità di una ed una sola chiave di decodifica, ritenuta inequivocabilmente risolutiva. Si può dire pertanto che il nuovo tipo di comunica 

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zione si sia articolato su due livelli, dichiarato e non dichiarato, intendendo che ciò che veniva messo per iscritto delineava il problema, ma senza propriamente fornire né la soluzione né un insegnamento. In questi scritti, infatti, soluzione e insegnamento rimangono letteralmente fuori dal dichiarato e non di rado è lecito dubitare che l’autore fosse pronto a dare una decodifica risolutiva dei problemi da lui stesso sollevati. [11] È invece pertinente, malgrado intuitive differenze, un accostamento non solo dell’antilogia ma anche dei paradossi zenoniani al teatro tragico che, in effetti, proponeva già da oltre mezzo secolo una molteplicità di agoni : situazioni di tensione drammatica che potevano anche configurarsi come tensione tra due punti di vista o due logiche irriducibili l’una all’altra. [12] In effetti il testo paradossale istituisce ogni volta una situazione o evento in virtù del quale l’uditorio si sente indotto a ricercare quella spiegazione o conclusione che non viene data. Può pertanto essere legittimamente considerato una prima forma di ‘teatro filosofico’. Rispetto alla fase dei Peri Physeos la discontinuità è vistosa, anzitutto, perché viene intaccato il principio secondo cui il sophos si caratterizza per il suo sapere e, quindi, per la funzione esplicitamente didascalica che gli compete e si attribuisce. Rilevante è però anche l’individuazione di temi che prescindono dal riferimento al mondo fisico, al cosmo, al mondo della vita (o trascendono tale riferimento) a favore di altri tipi di interesse che, nel caso di Protagora, vanno chiaramente verso la vita associata e le sue problematiche peculiari, favorendo lo sviluppo di competenze eminentemente metacognitive. [13] Dall’insegnamento dei Sofisti presero forma anche modalità inedite di retribuzione dell’insegnamento, la retorica e la professione di logografo. A vario titolo queste innovazioni favorirono il primo insorgere di un rilevante pregiudizio anti-sofistico che la testimonianza di Aristofane e Tucidide induce a collocare il 427 e il 423 a.C. Tale pregiudizio ha probabilmente avuto un ruolo importante nel non far notare la creatività del testo paradossale (o ‘teatro filosofico’) alla cui ideazione quasi tutti i Sofisti dedicarono energie di prim’ordine e, di riflesso, nell’occultare gli elementi di continuità riscontrabili fra le tante situazioni paradossali ideate dai Sofisti e il dialogo socratico in cui Socrate pure si dedica a disorientare il suo interlocutore. [14] Eppure  









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nella storia della filosofia occidentale non c’è un altro periodo in cui, per almeno tre quarti di secolo, moltissimi ‘filosofi ’ si siano dedicati all’ideazione di situazioni e discorsi dai quali quasi mai scaturiva un insegnamento positivo ben identificato. 4.2. La figura di Socrate sembra affondare le sue radici nella cultura sofistica, salvo a dar vita alla pratica del dialogo che, anche in connessione con una rilevante svolta nella percezione dei valori, [15] ha reso possibile la fioritura dei dialoghi socratici nei decenni immediatamente successivi alla sua morte (spec. tra il 395 e il 370 a.C.). Un tratto saliente della prima ondata di dialoghi socratici (e una delle ragioni del loro successo) è stata la rappresentazione del pensiero in movimento, ossia di persone colte nell’atto di elaborare e affinare le loro idee in virtù di una conversazione che ha luogo mentre il mondo esterno tace quasi del tutto. Un secondo tratto saliente è la frequente assenza di conclusione o insegnamento finale, nel presupposto che il dialogo sia interessante non per il suo esito ma per il percorso che viene fatto, per i frammenti di mondo che vengono portati alla luce e quindi per l’educazione della mente che riesce ad aver luogo in virtù di tale percorso. Anche i dialoghi sono stati perciò ‘teatro filosofico’ e solo in una seconda fase (indicativamente dopo il 375) Platone e altri avvertirono invece il bisogno di accedere a delle conclusioni e, di riflesso, svilupparono la tendenza a ravvisare nei dialoghi ‘aperti’ un indizio di incompiutezza, immaturità, minorità rispetto al bisogno di pervenire a un assestamento delle dottrine e, di nuovo, a degli insegnamenti espliciti. Nel frattempo, però, il dialogo socratico aveva verosimilmente incontrato un successo travolgente, se è vero che nei primi decenni del secolo non si pubblicò nessun libro ispirato a Gorgia, Anassagora, l’Eleatismo o altre scuole di pensiero che pure avevano verosimilmente raggiunto una considerevole notorietà ma, oltre a qualche centinaio di dialoghi socratici, solo il Peri Physeos di Metrodoro di Chio ispirato all’atomismo. Rilevante è anche la tendenza a distanziare Socrate dai Sofisti, mettendo questi ultimi in cattiva luce. 4.3. Nei circa tre quarti di secolo che sono intercorsi tra il decollo del movimento sofistico e il graduale abbandono del carattere aporetico dei dialoghi socratici a favore dell’offerta  

di alcune verità e insegnamenti tutto sommato positivi (non soltanto da parte di Platone) si è avuta, insomma, una nettissima affermazione del ‘teatro filosofico’ in due forme principali, mentre la tradizione naturalistica, pur continuando anche ad opera di alcuni Sofisti, ha sofferto di un processo di emarginazione come forma di sapere secondaria e meno creativa rispetto a quella che si manifestava con testi paradossali e dialoghi più o meno disorientanti. A proporre comunque un insegnamento positivo in questo stesso periodo furono, da un lato, alcuni sofisti e Democrito, dall’altro gli storici, i medici, i matematici e altre figure specialistiche che subirono in misura minima l’egemonia esercitata dalla f. 5. Le filosofie ‘sistematiche’ di Platone e Aristotele. – Dopo la formidabile ondata asistematica di cui sono stati protagonisti i Sofisti, Socrate e la prima fase dei dialoghi socratici, una inversione di tendenza è stata legata notoriamente a Platone ed Aristotele. In particolare la fondazione, ad Atene, di più scuole filosofiche da parte di alcuni Socratici (oltre all’→accademia platonica, si ha notizia della fondazione di scuole concorrenti ad opera di Antistene, Aristippo, Euclide e Fedone) ha costituito una forte (e comprensibile) spinta a definire le posizioni di ciascun maestro e quindi a esprimere comunque un insegnamento positivo. 5.1. In particolare Platone ha ideato, nella sua maturità, un tipo di dialogo strutturalmente diverso da quello aporetico, un dialogo nel quale lo stesso Socrate ammetteva di aver elaborato una teoria e la esponeva con calma, entrando in molti dettagli, mentre il suo interlocutore di turno cercava di capire ma non si azzardava ad improvvisare delle obiezioni né era portatore di sue teorie ma, tutt’al più, di circoscritte obiezioni (come accade già nel Fedone). Il cambiamento è rilevante, perché nei dialoghi aporetici si partiva invece dalle idee dell’interlocutore e si ammetteva che i parlanti improvvisassero (proprio per questo potevano venire rappresentati nell’atto di pensare, ossia di costruire il loro punto di vista e affinarlo sul momento). In questo modo il dialogo si fa più austero, il consenso offerto in maniera un po’ ripetitiva dall’interlocutore serve per acclimatare e ‘addomesticare’ anche uditori e lettori, e l’autore ha modo di gettare le basi o dare un’idea non troppo approssimativa di certe sue convinzioni o insegnamenti, come accade

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per esempio nella Repubblica. Nondimeno Platone ha cura di mantenere sempre aperta la porta della ricerca e della indeterminazione del discorso. Lo fa in primo luogo assicurandosi che nessun dialogo sia perfettamente simmetrico con almeno un altro, in secondo luogo introducendo scompensi diversi (nel Fedone si precisa che l’autore non ha personalmente assistito alla conversazione ; nella Repubblica la conclusione è volutamente asimmetrica rispetto al proposito di ‘definire’ la giustizia nella città ; nel Timeo si comincia con un quanto mai mediocre riassunto della Repubblica e si procede con alcune fantasticherie, ad es. quella che concerne l’Atlantide, prima che prenda la parola Timeo, e l’effetto di tutto ciò è di dissuadere dal prendere il dialogo come l’equivalente di un trattato ; nel Parmenide l’intensa diatribē dell’antico intellettuale approda a una conclusione che, almeno in prima istanza, deve dirsi oltremodo deludente, etc.). Proprio per questo il tentativo di rendere conto delle sue dottrine è esposto a innumerevoli insidie ed a endemici fattori di instabilità. Si può ben dire, pertanto, che l’autore, pur avendo fatto passi decisivi verso la costruzione di un edificio dottrinale organico, e pur dando l’impressione di avere almeno in mente un tale edificio, [17] si sia mantenuto lontano da ogni ipotesi di ‘chiusura del cerchio’, ritrovando in ciò una sorta di sua personale fedeltà residua alla logica della provocazione intellettuale che aveva caratterizzato la prima fase della sua attività di scrittore. Dalla lettura di molti suoi dialoghi scaturisce pur sempre una impressione di coerenza e organicità sostanziale del suo punto di vista, e non senza motivo, ma la dimensione esplicita dei suoi scritti immancabilmente introduce sempre nuovi intoppi a chiunque ricerchi un raccordo effettivo, non solo virtuale e di larga massima. 5.2. Il caso di Aristotele è differente perché è vistoso l’impegno con cui egli si è dedicato a delineare un apparato dottrinale in grado di trascendere la specificità degli ambiti dottrinali. Un primo fattore di unità del suo insegnamento è dato dalla duttilità con cui le sue opere di logica analizzano modalità differenti di costruzione del sapere, dall’induzione alla deduzione sillogistica, dalla deduzione a partire da premesse che siano più note della conclusione, anteriori ad essa e causa di essa, alle premesse che sono proprie di una sola scienza,  









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dalle dimostrazioni valide sempre a quelle valide per lo più, dalle nozioni universali e dagli entimemi all’argomentazione dialettica. In questo modo prende forma una legittimazione teorica dei molti tipi di sapere che vengono nel frattempo elaborati, ciascuno con le limitazioni dovute alle specifiche del suo oggetto proprio. Con ciò si delinea, peraltro, uno spazio programmaticamente aperto alla molteplicità e relativa indipendenza delle discipline, molte delle quali infatti, e non a caso, procedono per proprio conto, iuxta propria principia, senza interagire con le articolazioni specifiche di una qualunque altra area disciplinare. [18] Nondimeno, partendo dalla convinzione che la scienza sia costruzione dei principi, Aristotele dà prova di grande sistematicità nel ricercare i principi più generali e, a seguire, i principi particolari di singole tipologie del reale. Nella Fisica egli parte dall’esame del movimento, inteso come un connotato universale della realtà e interpretato in termini di atto e potenza, per poi trattare dell’infinito e del tempo, delle forme di mutamento e quindi del motore immobile. Su questa base, nel De caelo viene svolta la teoria della ‘quinta essenza’ incorruttibile, dove regna soltanto un moto circolare in grado di continuare indefinitamente. Su questa base egli notoriamente procede alla elaborazione della nota teoria delle sfere concentriche. Alla trattazione sul cosmo segue quella sui quattro elementi (il De generatione et corruptione), quindi il vasto gruppo di trattazioni che vertono sui vari tipi di esseri viventi, dall’anima umana agli animali (mentre lo studio del mondo vegetale venne notoriamente affidato al suo discepolo Teofrasto). Sempre procedendo nella direzione dell’universale, è poi la volta della ‘filosofia prima’ che verte sulle cause prime e divine, sull’ente in quanto ente, e dunque trascende l’ambito della fisica (ed è ‘meta’). In questo contesto vengono riprese alcune nozioni svolte, in particolare, nelle Categorie. A margine delle scienze teoretiche (conoscitive) Aristotele istituisce inoltre le scienze pratiche (relative all’azione, alla condotta) che spaziano dall’etica alla politica, alla retorica, alla poetica. Si delinea, in tal modo, un percorso comprensibile, una collocazione ragionevole dei vari ambiti di ricerca, e anche un sistema di raccordi fra alcune nozioni ricorrenti. La struttura che prende forma in virtù di tale processo è, nondimeno, di tipo meramente architettonico in quanto  

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non comporta condizionamenti di rilievo sui principi particolari che vengono sviluppati nell’ambito delle singole aree disciplinari. Di conseguenza i nuclei dottrinali propri di ciascuna disciplina sono quelli che sono per ragioni intrinseche e solo in minima parte per ragioni sistemiche. Va detto inoltre che l’impressione di sistematicità dell’insegnamento aristotelico probabilmente deve non poco al riordino delle sue opere che venne attuato da Andronico di Rodi all’epoca in cui questi mise mano alla costituzione del corpus delle sue opere (alla fine del i secolo a.C.). [19] Pertanto ai due maestri si può ascrivere un pensiero eminentemente sistematico solo a condizione di tener conto di precisazioni che limitano in misura rilevante la portata di tale affermazione. 6. Non solo Platone ed Aristotele. – La superiore notorietà dei due maestri non implica che la f. del iv secolo si possa identificare con il loro insegnamento. L’identificazione è un errore facilmente indotto dalla sproporzione nella documentazione primaria disponibile e nel prestigio delle varie figure. Infatti il panorama dei filosofi contemporanei e allievi diretti dei due grandi maestri include una vasta gamma di altre figure, tra le quali non poche di considerevole rilievo. Una sommaria elencazione impone di menzionare : - Antistene, Aristippo, Euclide di Megara, Fedone, Eschine di Sfetto, Simone il calzolaio e altri quali Socratici allievi diretti di Socrate ; - →Eudosso di Cnido, →Archita di Taranto e Metrodoro di Chio in quanto intellettuali dei tempi di Platone che furono considerati filosofi o assimilati ai filosofi ; - Speusippo, Senocrate, →Eraclide Pontico, Filippo di Opunte in quanto allievi diretti di Platone ; - Diogene di Sinope ; Eubulide di Mileto, Diodoro Crono e Stilpone in quanto allievi diretti di altri Socratici ; - Pirrone di Elide, contemporaneo di Aristotele e supposto fondatore della scuola scettica (su cui v. qui sotto) ; - →Teofrasto, Aristosseno di Taranto, →Eudemo di Rodi, Demetrio Falereo, Dicearco di Messene e altre figure forse minori in quanto allievi diretti di Aristotele. Quanto meno a Eudosso e Archita, a Diogene e Pirrone, a Eubulide e Diodoro Crono, a Teofrasto si deve riconoscere una statura intellettuale decisamente alta.  















7. Una nuova idea di filosofia a partire da Epicuro. – “Aristotele, precettore di Alessandro, è agli occhi degli storici della filosofia un filosofo classico, mentre Pirrone, che elaborò il suo sistema dopo aver accompagnato il sovrano in Asia, è un filosofo ellenistico” (Lévy 2002, xi). In effetti gli indizi di discontinuità prevalgono nettamente sogli indizi di continuità, fermo restando che non è facile rendere conto del cambiamento. Per esempio non dovette essere un evento caratterizzante la migrazione di buona parte della biblioteca del Liceo in Asia Minore per iniziativa dell’erede di Teofrasto, Neleo, perché il fatto (su cui riferisce Diog. Laert. 5, 52) si verificò intorno al 286, ossia vent’anni dopo la fondazione della scuola di →Epicuro ad Atene e vent’anni dopo l’avvio della migrazione di svariati intellettuali da Atene ad Alessandria d’Egitto. È alla figura di →Epicuro che sembra spettare un ruolo di grande rilievo nel delineare la fisionomia della f. ellenistica [20] in quanto i criteri da lui elaborati per riposizionare la f. in rapporto ai saperi particolari ha poi marcato la f. greca e romana per secoli. L’innovazione in oggetto è la tripartizione della f. in canonica, fisica ed etica, tripartizione che rivoluziona il sistema dei saperi ed esercita una formidabile compressione su interi gruppi di conoscenze che si erano già configurate come discipline nel Liceo e forse anche in ambienti diversi dalla scuola di Aristotele. L’identificazione della canonica come oggetto primario di indagine riflette la diffusa attenzione prestata ai temi di logica e, come diremmo noi, di epistemologia da parte dello stesso Aristotele così come da parte dei megarici e di Pirrone, mentre l’effetto di compressione si evidenzia soprattutto nella sfera peri physeos, ossia nella →fisica intesa come ambito unico del sapere riguardante il mondo nella varietà delle sue articolazioni e nella molteplicità dei filoni d’indagine sui quali già si era fatta non poca strada (Epicuro scrisse fra l’altro un Peri physeos in ben 37 libri di cui sono emerse tracce significative tra i papiri di Ercolano). Quanto poi all’etica, questa appare centrale perché, secondo Epicuro, è centrale l’idea di un’esistenza piena di insidie, dalla quale si può sperare di uscire indenni solo grazie a una strategia molto precisa. Ora Epicuro si affretta a delineare una ortodossia, e soprattutto una pressoché totale subordinazione del sapere allo schema ‘filosofico’ da lui adottato. Il livello di subordinazione così rag-

filosofia giunto appare, invero, senza precedenti. Riguarda del resto anche gran parte delle discipline ‘umanistiche’ diverse dall’etica, come ad es. politica, storia e poetica. Non è infatti casuale che la canonica epicurea accordi una specialissima attenzione alle prolēpseis, ‘anticipazioni’, ‘forme di precomprensione’, idee già disponibili, capacità di riconoscere persone, cose e atteggiamenti grazie all’esperienza. Le prolēpseis, intese quale quel sapere diffuso e magari un po’ approssimativo che è continuamente all’opera in ognuno di noi è decisivo nel guidare all’interpretazione della realtà così come degli eventi, hanno una evidente attitudine a sgombrare il campo dalla ricerca della certezza garantita da inferenze impeccabili così come dai dubbi ipercritici di chi, come gli scettici, si soffermano sulla frequente impossibilità di raggiungere la certezza adamantina. A maggior ragione la fisica epicurea appare rigorosamente funzionale al compito di confermare la validità dell’opzione etica. Funzionale è la scelta di un riferimento privilegiato all’atomismo, peraltro alla luce delle critiche formulate da Aristotele, in modo da fugare ogni ipotesi di determinismo o fatalismo. Funzionali appaiono anche il deciso diniego della divinità dei corpi celesti (con connessa elaborazione della tesi secondo cui sarebbe vano tentare delle misurazioni) e il diniego dell’immortalità dell’anima umana. Ma non meno funzionale è la caduta dell’interesse sul mondo della vita, una caduta dell’interesse senza della quale sarebbe stato probabilmente inevitabile prendere in considerazione la logica che presiede alla costituzione delle varie specie di esseri viventi, quindi qualche forma di intenzionalità ben difficile da raccordare con l’idea di una esistenza priva di coordinate che non siano il prodotto della riflessione. A sua volta l’etica appare orientata, in assoluta prevalenza, verso le direttive per vivere in maniera relativamente felice, con conseguente contenimento dell’attenzione per altri aspetti della condotta e della vita di relazione. Nell’insieme questa impostazione esalta la coerenza e interdipendenza dei vari nuclei dottrinali, ma al tempo stesso paga un prezzo molto alto in termini di semplificazione dell’immagine del mondo. Il medesimo prezzo è stato notoriamente pagato anche dalla Stoa, che ha elaborato una sua visione del mondo per più aspetti invertita rispetto all’epicureismo, ma da un lato ha rapidamente definito una sua contro-ortodossia

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e dall’altro ha riproposto la distinzione delle tre grandi aree, attuando una parallela ipersemplificazione della fisica a favore dell’idea di un continuum materiale in cui il pneuma permea ogni cosa e rende conto del corso degli astri così come del modo d’essere di piante ed animali. È semmai singolare che gli stoici abbiano elaborato una fisica di impianto deterministico, con la conseguente necessità di teorizzare la distinzione fra cause interne e cause esterne. Al di là di questi ed altri dettagli, sembra importante osservare che il denominatore comune appena rilevato e l’accesa disputa fra queste e altre scuole filosofiche ha avuto il potere di delimitare un orizzonte e di imporlo per circa tre secoli, quasi che non vi fossero serie alternative tra l’adesione all’una o all’altra ortodossia. Fu così che l’ambizione (degli uni e degli altri) di proporre un sistema logicamente coerente di dottrine in grado di rispondere a ‘tutte’ le domande finì per esercitare una vera e propria egemonia. Nella fase ellenistica della f. greca si è assistito anche a una vasta proliferazione delle affiliazioni filosofiche, proliferazione che ha anche dato luogo a un’attività storiografica ad hoc, unica nel suo genere, le “Successioni dei filosofi ”. Specialmente nel ii secolo a.C. e specialmente a Rodi venne avviata la produzione di tali Diadochai ad opera di Antistene, Sosicrate, Stratocle e Panezio di Rodi. La traccia più nitida di questa produzione si deve ai papiri ercolanesi contenenti porzioni della cosiddetta Storia dei filosofi. [21] 8. Il periodo religioso. – Passando ora alla fase successiva, osserviamo che è molto più complicato renderne conto perché si tratta di una fase fortemente segnata dall’intreccio tra F. greca, ebraismo, cristianesimo e le molteplici sette che si formarono in età imperiale, così come dalla considerevole produzione sia di commenti (soprattutto ad Aristotele) sia di opere apocrife alle quali non fu estraneo il mito di →Pitagora. Uno dei primi collanti del nuovo orientamento del pensiero prese forma grazie ad Antioco di Ascalona (prima metà del I secolo a.C.) ed Eudoro di Alessandria (seconda metà del I secolo a.C.). Se il primo seppe accreditare l’idea che Platone avesse elaborato una f. non meno compiuta e organica, nella quale lo stesso Aristotele si sarebbe riconosciuto, il secondo contribuì a teorizzare sia la convergenza fra Pitagora e Platone sia un embrione di metafisica fondata sulle nozioni  

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di Monade e Diade. Un potente crogiuolo fu poi la scuola di Ammonio Sacca ad Alessandria nella prima metà del iii secolo d.C., scuola in cui si formarono, in particolare, →Plotino e il cristiano Origene. Ma intanto si era affermata l’istituzione di vere e proprie cattedre di f. per iniziativa delle maggiori città dell’impero o della stessa autorità imperiale (quest’ultimo è il caso delle quattro cattedre istituite ad Atene da Marco Aurelio nel 176 d.C. in funzione delle quattro principali tradizioni filosofiche allora note : quella stoica e quella epicurea, quella platonica e quella aristotelica). La propensione ad accogliere all’incirca la medesima tradizione (Pitagora-Platone-Aristotele) rappresentò una costante per secoli. Anche i primi intellettuali cristiani guardarono con sostanziale favore a quella tradizione che sentivano quanto meno più vicina, secondo una linea di pensiero che aveva già preso forma in un filosofo e biblista di fede ebraica, Filone Alessandrino. Non è inverosimile che il ‘nuovo platonismo’ di Plotino sia stato alimentato da una non dichiarata competizione con gli embrioni di ‘filosofia cristiana’ che all’epoca cominciavano già a delinearsi. L’uso di caratterizzare questa lunga fase in termini di ‘predominio del problema religioso’ non sembra prestare il fianco a precisazioni di particolare rilievo. 9. La chiusura della Scuola di Atene ; la prima migrazione di filosofi e libri di filosofia in Siria. – Appare significativo che in particolare la Scuola filosofica di Atene con i suoi scolarchi (denominati diadochi, successori) poté conoscere una notevole vitalità (e anche la prosperità economica) fino ai tempi dell’Imp. Giustiniano (primi decenni del vi secolo d.C.), diventando un forte centro di resistenza all’omologazione sotto l’egida del Cristianesimo. [22] Come è noto, nel 529 Giustiniano arrivò alla decisione di chiudere la scuola, ottenendo una temporanea migrazione di Damascio, del suo coltissimo allievo Simplicio, di Prisciano e di altri filosofi in Persia, nella sfera di influenza del re sasanide Cosroe, con il risultato di dare un decisivo impulso alla conoscenza di sostanziosi polloni della cultura filosofica, medica, astronomica e matematica dei Greci in ambiente siriaco e quindi persiano, quindi arabo. [23] Sembra che il soggiorno in territorio persiano sia stato breve, dopodiché Simplicio e gli altri ebbero la possibilità di rientrare entro i  







confini dell’impero e di professare liberamente le proprie posizioni (sia pure, si ritiene, senza riaprire la scuola), ma dove si recarono i filosofi dopo la forzata diaspora del 529, se si divisero e si dispersero, o se continuarono a formare una comunità è ignoto. [24] Rimane il fatto, abbastanza straordinario, della irreversibilità del ‘trapianto’, per effetto del quale il panorama degli autori greci noti in ambiente persiano e poi islamico è rimasto confinato agli autori considerati significativi da Simplicio e dai suoi contemporanei : Aristotele, →Euclide, →Archimede, →Tolomeo, →Galeno, Diogene Laerzio e non molto altro. Poté così accadere che la civiltà greco-romana si identificasse, in larghissima misura, con questo gruppo di autori e con il loro sapere.  



Note. [1] La data è significativa, perché nel 583-582 terminò l’auto-esilio decennale di Solone, mentre era passato il tempo appena necessario perché la notizia della previsione di una eclissi da parte di Talete avesse adeguata circolazione. La notizia è stata sistematicamente trascurata come del tutto inverosimile (Sassi 2009, 60 sg. costituisce un raro esempio di attenzione per questa notizia), ma è verosimile che meriti di essere ripresa in attentissima considerazione. – [2] Una scorsa al Wortindex che campeggia in Diels-Kranz 1951-1952 permette di constatare che le parole philosophia e philosophos sono ben scarsamente attestate in tutta l’area dei →presocratici, Sofisti inclusi. – [3] Sul testo di Lisia vd. Rossetti 2007b, 39 sg. – [4] Su questa produzione vd. Aristotele, →diritto e Teofrasto. – [5] In proposito vd. Aristotele. – [6] Ciò spiega come mai i ‘sofisti’ del iv secolo (es. Isocrate) finirono per chiamarsi retori. – [7] Un tentativo di stabilire relazioni privilegiate tra F. e geografia si deve peraltro a →Strabone. – [8] Un timido tentativo in tal senso si deve peraltro a Platone. – [9] Mondolfo 1950. L’ediz. 1950 dell’opera incorpora una ‘sintesi storica’ che rimodula solo leggermente lo schema, costituito dal titolo dei cinque ‘libri’ in cui si articola la storia attraverso le fonti. – [10] Un approfondimento di questi punti figura in →Peri Physeos. Vd. inoltre la Einleitung che figura in Gemelli Marciano 2007. – [11] In proposito vd. Rossetti 2008e. – [12] Su questa relazione ben poco si è scritto. Vd. spec. Capizzi 1990, che si concentra sull’analogia primaria tra dilemma tragico e antilogia. – [13] In proposito vd. Rossetti 2008a. – [14] Un breve profilo di questa complessa dinamica è stato proposto in Rossetti 2008e. – [15] In proposito vd. Rossetti 2008b. – [16] In proposito vd. Rossetti 1996. – [17] Platone si è trovato a

fiori costruire quasi da zero l’idea di f. come un sapere organico, unitario e comprensivo, e così pure l’apparato dottrinale più famoso e caratteristico (dottrina della reminiscenza e dell’immortalità, dottrina delle idee, dottrina dell’anima tripartita, teoria del re-filosofo, dottrina della dialettica, mito della caverna, miti escatologici…). Egli ha anche suggerito varie possibili connessioni fra queste teorie. Ma si cercherebbe invano un punto di equilibrio, un assetto positivo che prenda forma almeno una volta senza dar luogo a residui scompensi, a riformulazioni, a forme di rimozione di singoli nuclei dottrinali. Una testimonianza tra le moltissime possibili : “È chiaro che con questa piramide ontologica [monade e diade] Platone tenta di mitigare quell’opposizione tra mondo delle idee e mondo dei fenomeni di cui si parla nei dialoghi (ad esempio nella Repubblica) e che suscita tanti problemi agli interlocutori di Socrate” (Erler 2008, 169). – [18] Una meditata riflessione sul tasso di autonomia che Aristotele lascia alle singole discipline prende forma in Berti 1965. – [19] “L’aristotelismo di quest’epoca si caratterizza principalmente per una tendenza che può essere definita come volontà di ortodossia (…) L’insegnamento di Aristotele non appare come una dottrina di cui appropriarsi per progredire ulteriormente, non si presenta come il punto di partenza per un proprio filosofare : è considerato piuttosto come fonte della verità in generale” (Moraux 2000, 6). – [20] Un diverso punto di vista, anch’esso degno di nota, è stato formulato da Lévy 2002, 4, quando ha affermato : “Pirrone fu il primo filosofo ellenistico. Egli ha espresso, prima degli Epicurei o degli Stoici, l’ideale di una serenità assoluta derivante dalla comprensione, da parte dell’uomo, della vera natura delle cose”. Molto più radicale è stato però Hadot 1995 e 2002 per il fatto di sostenere che la ricerca e professione di una saggezza che stupisce i profani costituisce l’essenza della filosofia antica e non solo una caratteristica di alcune filosofie e di alcune epoche. – [21] In proposito vd. Dorandi 1991 (per il cosiddetto Academicorum Index Herculanensis) e Dorandi 1994 (per il cosiddetto Stoichorum Index Herculanensis, dove si fa parola dei repertori allestiti da Panezio e Stratocle). – [22] In proposito vd. ora Di Branco 2006. – [23] Ci è pervenuta la versione latina di Prisciani philosophi solutiones eorum, de quibus dubitavit Chosroes, Persarum rex, nove quaestiones che sarebbero state discusse nel 531. Sull’eventualità che, siccome tanto Damascio quanto Simplicio erano di origini siriache e Prisciano di origini anatoliche, i loro contatti con le autorità persiane fossero iniziati già prima del 529 si può solo speculare, data la mancanza di indizi specifici. – [24] In proposito vd. Melasecchi 1996.  





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Bibliografia. Berti 1965 ; Berti 2004-2008 ; Cambiano 1996b ; Canto-Sperber 1997 ; Capizzi 1990 ; Di Branco 2006 ; Donini-Ferrari 2005 ; Dorandi 1991 ; Dorandi 1994 ; Erler 2008 ; Flashar 1983-2008 ; Gemelli Marciano 2007 ; Giannattasio Andria 1989 ; Hadot 1995 ; Hadot 2002 ; Lévy 2002 ; Melasecchi 1966 ; Mondolfo 1950 ; Moraux 2000 ; Rossetti 1996 ; Rossetti 1998 ; Rossetti 2007b ; Rossetti 2008a ; Rossetti 2008b ; Rossetti 2008e ; Vegetti 2003.  

















































Livio Rossetti Fiori [a[nqo~, flos]. 1. Morfologia e classificazione. – « Non c’è nessuna stagione senza fiori », afferma decisamente →Teofrasto (HP 6,8), a conferma dell’estrema varietà floreale di cui gli antichi avevano percezione, in un paesaggio che sicuramente comportava, qualitativamente e quantitativamente, odori e colori diversi dal paesaggio moderno. Nella →botanica teofrastea il fiore è un elemento stagionale della pianta, che consta di buccia, di vene e di carne, a loro volta elementi costitutivi della sostanza delle piante (HP 1,10,10). Posto che sull’identificazione in diverse specie di alcuni elementi morfologici come fiori o altro non c’era accordo tra gli antichi (cfr. Theophr. HP 3,3,8), sembra che i fiori venissero distinti prevalentemente in base alle caratteristiche morfologiche (forma, grandezza, lanuggine, carnosità), all’odore, al colore e al succo (così in Plin. nat. 21,35), ed inoltre in base alla posizione rispetto al caule o al →frutto. Gli antichi li distinguevano anche in base ai luoghi di provenienza, alle modalità di →riproduzione vegetale e alle proprietà terapeutiche (per le quali vd. Plin. nat. 21,121-184). Altro criterio distintivo utilizzato nell’antichità sembra essere stato quello basato sul tempo di fioritura (Plin. nat. 21,14-34) : i fiori venivano distinti a seconda che avessero fioritura primaverile o estiva. Tra quelli a fioritura primaverile si distinguevano poi quelli che fioriscono per primi in primavera, le viole, da quelli che fioriscono per ultimi, le rose, passando per quelli che fioriscono nel periodo intermedio, come il narciso, il giglio d’oltremare, l’anemone, l’enante (Spiraea filipendula), il melanio (Nigella sativa), l’eliocrisio (Helichrysum orientale) e il gladiolo, e fino ad arrivare a quelli che fioriscono due volte l’anno, come il ciclamino. Tra quelli a fioritura estiva si segnalano invece la rosa cosiddetta greca, il  





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fiore di Giove (di incerta identificazione), il tifio (pianta indeterminata), la maggiorana, il poto (di incerta identificazione), l’iris, il croco. A questo criterio distintivo se ne accompagna un altro ad esso strettamente legato, quello della durata di fioritura, secondo cui si distinguevano i fiori più duraturi, come il giacinto, la viola bianca e l’enante, da quelli che sfioriscono più rapidamente, come le rose. Sul profumo dei fiori (bruciati, sfregati, seccati o pestati, vicini o lontani, novelli o invecchiati, in primavera e al mattino, nei siti caldi o freddi) cfr. Arist. Pr. 12,4 e 9-11, Plin. nat. 21,35-39. Antichissimo era l’uso di far macerare i fiori, in particolare le rose, nell’olio (cfr. già Hom. Il. 23, 186 sgg., Plin. nat. 21,15), per ricavare profumi (Plin. nat. 21,15) [→cosmetica]. Sui colori, sfruttati a fini suntuari nelle tre principali varietà del rosso scarlatto, dell’ametista e del conchiliaceo (con sfumature dal porpora al viola), vd. Plin. nat. 21,45-46. 2. Rosa. – La rosa (rJovdon, rosa) nell’antichità era senza dubbio considerata il fiore più pregiato e il più apprezzato. Simbolo del divino nell’antica Persia e attributo di Afrodite in Grecia, nell’immaginario mitico greco se ne spiegava variamente il colore : questo fiore, originariamente bianco, sarebbe divenuto rosso perché intriso del sangue di Afrodite, puntasi con le spine, o perché tinto dal nettare del cratere degli dei rovesciato da Eros (Geop. 11,17). Ve ne erano diverse specie, che si distinguevano per località di appartenenza (prenestina, campana, milesia, trachinia, greca, cirenaica), luoghi di crescita spontanea (rosa di macchia), quantità di petali (da un minimo di cinque fino alla rosa ‘centifoglie’ ; cfr. Theophr. HP 6,6,4), ruvidezza, levigatezza, colore (ad esempio la rosa pallida), odore. Su tutte queste specie si intrattiene ampiamente Plin. nat. 21,14-21. Ancora da Plinio (nat. 14,21) apprendiamo che già nell’antichità la rosa traeva vantaggio dall’essere bruciata, potata, trapiantata. Oltre ai fini cosmetici (per oli, unguenti e profumi ; già in Hom. Il. 23,186-187), conosceva impieghi culinari e proprietà terapeutiche (a questo proposito vd. Hippocr. mul. 2,135 ; Diosc. 1,43 ; Plin. nat. 21,15 e 121-125 ; Geop. 11,18,6 e 11). Già in età antica si era raggiunta una notevole perizia nella piantagione, coltivazione e riproduzione delle rose, come si evince dalle fonti (Plin. nat. 21,20-21 ; Geop. 11,18). Nella tarda antichità la rosa fu considerata simbolo della caducità  













della vita (Aus. id. 14,40) e venne conseguentemente impiegata come fiore funerario per le morti precoci. 3. Giglio. – Individuato come fiore grande, molto alto, dalla forma a calice ed eccezionalmente fecondo per la sua straordinaria capacità di riproduzione (Verg. ecl. 10,24-25 ; Plin. nat. 21,23-24), nell’antichità il giglio (krivnon, leivrion, lilium) fu considerato simbolo di fertilità e, attributo delle Grandi Madri, fu impiegato come fiore sacro nei culti femminili, come testimonia già l’arte decorativa minoico-micenea. Secondo i Greci avrebbe avuto la sua origine mitica dal latte di Era che, succhiato da Eracle bambino, sarebbe caduto sulla terra fecondandola (Geop. 11,19). Per la sua fecondità i Romani lo consacrarono a Giunone, ma anche, per il suo candore, a Pudicitia, ed inoltre alla dea Spes. Di questo legame con le divinità femminili, e in particolare con Era-Giunone, testimoniano i gigli votivi rinvenuti nei santuari dell’Italia meridionale. Si classificava per località e per colore : da →Plinio (nat. 21,24-25) apprendiamo che erano considerati particolarmente pregiati i gigli di Antiochia, Laodicea di Siria, Faselide e quelli italiani, ed inoltre che, sebbene si identificasse il giglio come un fiore generalmente bianco, si riteneva ne esistesse anche una varietà rossa, chiamata crino o cinorrodo, e una varietà purpurea, confusa con il narciso. →Virgilio ne distingue una varietà selvatica (ecl. 10,24-25) e una varietà coltivata (georg. 4,130-131). Sulle tecniche di piantagione, coltivazione, riproduzione e colorazione del giglio vd. Plin. nat. 21,26, Geop. 11,20, sulle proprietà terapeutiche vd. Ath. 15,681c e ancora Plin. nat. 21,126-127. 4. Viola. – La viola (i[on, viola) deriverebbe il suo nome da Io, amata da Zeus e trasformata in vacca : la terra avrebbe generato questo fiore in suo onore mentre Io pascolava. Secondo un’altra tradizione, le viole sarebbero sorte dal sangue del frigio Attis, eviratosi perché reso folle dalla dea Agdístis, che non voleva si sposasse con Atta (Arnob. nat. 5,7,5 sgg.). In connessione con questo mito, nella Roma imperiale la viola aveva un uso cultuale nella processione sacra che si teneva in onore di Attis durante il dies violae che coincideva con il 22 marzo (ibid.). Nell’antica Grecia la viola era strettamente legata anche al mito di Ione (le viole erano chiamate ànthe Iaonínthe, cfr. Ath. 15,681d e 15,683a), e alla città di Atene (chiama 





fiori ta ijostevfanoi jAqh`nai in Pind. fr. 76 Sn.). Nella mitologia greca, inoltre, « coronate di viole » erano anche molte dee : Afrodite, le Muse, Thetis, Core. Da →Plinio (nat. 21,27) si evince che in età antica la viola veniva classificata in base al colore (purpurea, gialla, bianca, cfr. Theophr. HP 6,6,7, Verg. ecl. 2,47 e 10,39, Plin. nat. 21,27, Isid. or. 17,9,19), alla località (tuscolana, marina) e al profumo (la calatina, ad esempio è inodore). Colum. 10,101, in particolare, si sofferma su una varietà pallida e bassa (variamente identificata con la violetta bianca o viola alba, la viola mammola o viola odorata o con la viola gialla o viola lutea) e una folta e gialla (forse una violacciocca o più probabilmente la viola del pensiero o viola tricolor). Sulla piantagione della viola vd. Geop. 11,23. Ha anch’essa proprietà terapeutiche, per le quali vd. Plin. nat. 21,130-131, Geop. 11,23,2. 5. Narciso. – Secondo la mitologia greca, il narciso (navrkisso~, narcissus) avrebbe avuto origine dalla trasformazione in fiore del giovane Narciso che, follemente innamorato di se stesso, trascorreva il suo tempo a contemplare la propria immagine riflessa nelle acque di una fonte respingendo tutti gli amanti, e fu per questo punito con la morte (Geop. 11,24 ; Ov. met. 3, 339-510). Secondo un’altra tradizione attestata negli Inni omerici (HHom. Cer. 8), il narciso sarebbe un fiore infero generato dalla terra per compiacere il dio dei morti, ed inoltre legato al culto di Demetra e Persefone, come si evince da Sofocle (OC 681-685), e aveva pertanto un uso cultuale per l’intreccio di diademi funebri, come testimoniano le iconografie delle tombe dell’Italia meridionale. Era considerato nell’antichità una varietà di giglio, e confuso con esso (cfr. Theophr. HP 6,6,9). Se ne individuava il cromatismo acceso (Verg. ecl. 5,38) e le proprietà mellifere (Verg. georg. 4,160). Sulla piantagione del narciso vd. Geop. 11,25, sulle proprietà terapeutiche vd. Diosc. 1, 53 ; 4, 158, Plin. nat. 21,128-129. 6. Croco. – Menzionato già da Omero insieme al loto e al giacinto (Il. 14,348-349), il croco (krovko~, crocus) si osservava crescere copioso lungo i sentieri e presso le fonti, ed essere in fiore per pochi giorni all’inizio dell’inverno. Secondo la mitologia greca, sarebbe sorto dalla trasformazione in fiore del giovane Krókos, di cui gli dei ebbero pietà in quanto vanamente innamorato della ninfa Smîlax (Ov. met. 4,283 ; Plin. nat. 21,17). Pertanto il fiore venne a simbo 











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leggiare il desiderio d’amore e fu impiegato dai Greci e dai Romani sulle tombe degli amanti morti per amore (Nonn. D. 12, 85). Secondo un altro mito, il croco avrebbe avuto origine dal sangue di Krókos colpito inavvertitamente da Hermes durante una gara del lancio col disco. Utilizzato come fiore sacro già nella civiltà minoica, in cui compare come motivo ornamentale, il croco compare nei misteri eleusini per la preparazione di prodotti e corone impiegati nei riti, ed era strettamente legato a divinità famminili, quali Ecate, Atena, Eos, Imene, e considerato pertanto nel contempo fiore infero e nuziale. Da →Plinio (nat. 21,30) apprendiamo che questo fiore veniva classificato in base al tipo di crescita (selvatico o coltivato) e al luogo d’origine (croco di Cilicia, dell’Olimpo, di Centuripe, di Tera, di Cirene). Da →Teofrasto (HP 6, 8) e ancora da →Plinio (nat. 13,17) sappiamo che la bellezza del fiore era accresciuta schiacciandone la radice. In Italia sembra aver avuto difficoltà di acclimatazione, ma risulta poi diffuso negli orti in Colum. 3,8,4 e 10, 169-170. Sulla piantagione del croco vd. Geop. 11,26, sulle proprietà terapeutiche vd. Plin. nat. 21,137-139, Diosc. 1,25. →Virgilio ne evidenzia le proprietà mellifere (georg. 4,109) e tintorie (Aen. 9,614). 7. Giacinto. – Secondo la mitologia greca il giacinto (uJavkinqo~, hyacinthus) sarebbe nato dalla metamorfosi in fiore di Giacinto, il giovane amato da Apollo e involontariamente ucciso da quest’ultimo durante una gara del lancio col disco (Ov. met. 10,162-219 ; Nonn. D. 3,156 ; 10,250), oppure, secondo un’altra tradizione mitica, sarebbe sorto dal sangue di Aiace suicida (Ov. met. 13,382-398). Nell’antichità era individuato come fiore delicato e fragile (cfr. Verg. ecl. 6,53), dalla forma ricurva (cfr. Hom. Od. 6,231) e dalla caratteristica struttura a calice, che lo portava ad essere associato al giglio (cfr. Ov. met. 10,212). Se ne individuava una varietà di colore tenue (Verg. ecl. 3,63) e una di colore acceso (Ov. met. 10,213). Sull’utilizzazione come pianta melifera vd. Verg. georg. 4,183. 8. Iris. – Così chiamato dal nome di Iris, messaggera degli dei, nel mondo antico l’iris (i[ri~, iris) era considerato un fiore funereo piantato sulle tombe, in quanto Iris era la dea che accompagnava le anime delle donne nell’Ade (cfr., ad esempio, Verg. Aen. 4,700-704). Era usata nei profumi, negli unguenti e in medicina, e classificata in base alla località (iris illirica,  



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di Macedonia, d’Africa, di Pisidia) e al colore dei fiori (l’iris rossastra era considerata quella di miglior qualità). Sulla piantagione dell’iris vd. Geop. 11,21, sulle proprietà terapeutiche vd. Plin. nat. 21,140-144. 9. Papavero. – Il papavero (mhvkwn/mavkwn, papaver) era associato nell’antica Grecia al sonno e alla morte (Hom. Od. 4,220-229) e, strettamente legato a Demetra, era impiegato nella decorazione degli altari della dea e probabilmente anche nei Misteri eleusini per la preparazione di cibi e bevande per gli iniziati. Fu introdotto a Roma in seguito alla conquista della Grecia. Nell’antichità se ne evidenziava il cromatismo appariscente (Theoc. 7,157 ; Verg. Aen. 9,433 ss.) e lo stelo molto lungo (Verg. ecl. 2,47). Gli si riconoscevano effetti nocivi per il terreno (Verg. georg. 1,78) e proprietà narcotiche (Verg. georg. 4,545). Teofrasto e Plinio enumerano tre specie di papavero selvatico : kerati`ti~/cereatis (Theophr. HP 9,12,3 ; Plin. nat. 20,205), hJrakleiva/heraclium (Theophr. HP 9,12,5 ; Plin. nat. 20,207), mhvkwn rJoiav~/tithymalon o mecona (Theophr. HP 9,12,4 ; Plin. nat. 20,209). Plin. nat. 19,168, individua anche tre specie di papavero coltivato : bianco (di cui parla anche Cat. agr. 79 ; 84), nero (anche in Theophr. HP 1,12,2) e rhoeas, che cresce spontaneamente nei campi e ha impieghi alimentari. →Virgilio ne distingue invece due sole specie, album o officinale in georg. 1,212 e 4,131, Aen. 4,486, nigrum o silvestre in ecl. 2,46, ma sembra alludere anche ad altre specie di papavero, per alcune delle quali sono stati effettuati tentativi di identificazione : i papaveri di campo di ecl. 2,47, georg. 4,131, e Aen. 9,436, identificabili con il papaver rhoeas per la crescita spontanea nei campi e per l’uso alimentare ; i papaveri di georg. 1,78 e 4,545, identificabili con il papaver somniferum per gli intensi effetti ipnotici ; il papaver cereale di georg. 1,213 (menzionato anche da Colum. 10,314) e il papaver vescum di georg. 4,131, specie sicuramente coltivate, ma di dubbia identificazione. 10. Folklore floreale. – Non solo i fiori più noti avevano un’origine mitica : la ninfea, ad esempio, sarebbe stata una ninfa trasformata in fiore dagli dei (Ov. met. 10,300-560 e 710-740) ; il garofano sarebbe stato originato dagli occhi di un pastore amato da Diana, che la dea gli avrebbe strappato per gelosia ; l’orchidea sarebbe nata dal sangue del giovane ermafrodito Orchide, morto suicida ; nella peonia sarebbe stato mutato Peone, figlio di Ade ; l’anemone  





























sarebbe nato dalla trasformazione in fiore della ninfa Anemone, o secondo un’altra tradizione, del giovane Adone morente, fatalmente conteso dall’amore di Afrodite e di Persefone. Il colore rosso dell’anemone sarebbe legato al colore del sangue del giovane tragicamente morto. All’anemone, inoltre, gli antichi attribuirono una forte valenza funebre (già gli Etruschi lo coltivavano attorno alle tombe), ed inoltre proprietà magiche e apotropaiche (cfr. Plin. nat. 21,94). Quanto al simbolismo dei fiori, l’amaranto presso i Greci era simbolo di eternità e di perpetua amicizia per la sua proprietà di mantenere il colore rosso una volta seccato ; presso i Romani fu impiegato come amuleto contro la maldicenza. L’asfodelo era considerato invece un fiore infero sin da Omero (Od. 11,487-491) : nella Grecia antica si credeva che una delle parti del mondo infero fosse costituita dai Prati di asfodelo, e asfodeli venivano piantati sulle tombe ; a Roma, invece, gli asfodeli si piantavano davanti alle porte delle case come rimedio contro i sortilegi. Come amuleto contro i malefici i Romani utilizzavano anche il ciclamino (Plin. nat. 25,115). 11. Ghirlande. – La più estesa trattazione sulle ghirlande nell’antichità è in Plin. nat. xxi. A parlarne ampiamente è anche Ath. 15,669c686c. Precedentemente, tuttavia, ne avevano già trattato i medici greci Mnesiteo (iii sec. a.C.) e Callimaco (iii-ii sec. a.C.), citati da Plin. nat. 21, 12. Sebbene gli antichi considerassero relativamente recente l’uso di intrecciare corone di fiori (per la prima volta Ar. Lys. 601-602, lo attesta nel 411 a.C. ; Plin. nat. 21,4 lo attribuisce al pittore Pausia di Sicione vissuto nel iv sec.), i reperti archeologici testimoniano dell’esistenza di ghirlande floreali già nel mondo miceneo. Da Ateneo (15,677a) sappiamo che in Grecia il nome originariamente dato alle ghirlande, stevfano~, designava tanto le vere e proprie ghirlande di fiori, propriamente chiamate stevfh, quanto le corone, anche dette stevmmata. Da Plinio (nat. 21,3-5) apprendiamo che a Roma, invece, in origine le ghirlande si chiamavano stroppi, da cui il nome strophiola, erano fatte di rami di alberi e si usavano per incoronare i vincitori dei giochi sacri. In un secondo momento si diffuse il termine coronae, precedentemente circoscritto alle ghirlande impiegate nei sacrifici e per gli onori militari, ed inoltre il nome di serta, quando le ghirlande cominciarono ad essere fatte anche di fiori  







firmico materno intrecciati. In seguito si diffusero a Roma anche le denominazioni corollae e corollaria per le corone ‘invernali’ fatte, in assenza di fiori, con trucioli di corno e lamine di bronzo, mentre il termine verbenae era riservato alle ghirlande impiegate per gli altari. Nel mondo greco le ghirlande, oltre che come premio concesso ai vincitori dei giochi panellenici (di olivo quella olimpica, di alloro quella pitica, di apio quella nemea, di pino e poi di apio quella istmica), erano impiegate anche nei riti simposiali e bacchici e nelle cerimonie religiose. L’uso simposiale e bacchico delle ghirlande è chiaramente attestato da Ateneo (rispettivamente in 15,669c-671f e in 15,675a-675d, 15,685c-686c), quello durante le feste religiose è invece testimoniato, ad esempio, da Anacreonte (pmg 410) e dallo stesso Ateneo (15,674b-674f ), il quale distingue le ghirlande che cingevano il capo (per le quali cfr. ad es. Sapph. fr. 81 Voigt ; Aesch. fr. 68 Radt) da quelle che si ponevano intorno al collo e scendevano sul petto, chiamate hypothymidas (cfr. Alc. fr. 362 Voigt ; Sapph. fr. 94,15-16 Voigt ; Anacr. pmg 397). Altri particolari tipi di ghirlande, legati a determinati riti, cerimonie, eventi o composizioni, sono elencati ancora da Ateneo (15, 677d-681c), ciascuno con la propria denominazione : antinoeios, pileon, thyreaticos, melilotinon, epithymis, hypoglottis, pothos, philygrinos, heliktos, synthematiaios, choronon, akininos, kosmosandalon. Nel mondo romano, oltre che agli dèi, ghirlande erano offerte ai lari pubblici e privati, ai sepolcri, ai Mani, e venivano inoltre conferite come onore militare. Nelle cerimonie religiose romane, pubbliche e private, in particolare, si ‘incoronavano’, in segno di ringraziamento o a scopo propiziatorio, edifici cultuali (cfr. ad es. Plu. Aem. 32,3 ; Sil. It. 12,743 ; Iuv. 12,84), statue e loro piedistalli (cfr. ad. es. Ov. fast. 3,253 ; Tib. 2,1,59-60), altari (cfr. ad. es. Hor. carm. 1,19,14), arredi e utensili religiosi (cfr. ad. es. Ov. met. 2,713), pietre e alberi sacri (cfr. ad. es. Apul. apol. 56,6) ed infine vittime sacrificali (Verg. Aen. 7,488). Molto antico, in particolare, era l’uso di consacrare ghirlande alle divinità, risalente già all’età micenea, ed inoltre l’uso, di origine egiziana, delle ghirlande funerarie, impiegate, tanto nel mondo greco quanto in quello romano, per incoronare i defunti e adornarne le tombe (uso, quest’ultimo, attestato, ad esempio, in Luc. Luct. 11,19 ; Nigr. 30 ; cont. 22 ; Artem. 2,49 ; Long. 4,32 ; Ael. VH 12,7).  























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Proprio questi usi molto antichi testimoniano dell’originario significato religioso-cultuale delle ghirlande. Più recenti erano invece gli usi profani delle corone : in particolare, tra questi, l’uso ornamentale delle ghirlande come decoro dei palazzi reali, attestato per la prima volta in età ellenistica, e l’uso delle ghirlande durante le feste profane e gli spettacoli del mondo romano, uso quest’ultimo che aveva tuttavia originariamente valenza religiosa. Le ghirlande erano principalmente di due tipi : di fiori e di foglie. Fiori da ghirlanda erano la rosa, la viola, il giglio, la calta, il baccaro, il croco, l’amaranto (una spiga più che un fiore) il petellio (di incerta identificazione), il bellio (sconosciuto), la ginestra, l’oleandro, il giuggiolo, il ciclamino (ad elencarli sono Theophr. HP 6,6,11, Ath. 15,681c685c e Plin. nat. 21,14-34). Foglie da ghirlanda erano invece la smilace (Smilax aspera), l’edera, il melotro (Bryonia dioica), la spirea (Ligustrum vulgare), l’origano, il cneoro nero (Thymelaea hirsuta) e bianco (Daphne oleides), la coniza maschio (Inula viscosa) e femmina (Inula graveolens), il melissofilo, il meliloto, il trifoglio, il marato (Foeniculum vulgare), l’ippomarato, il miofono (entrambi di incerta identificazione), il timo, il fiore di Giove, la maggiorana, l’emerocallide (un giglio), l’abrotano (Santolina chamaecyparissus), l’elenio (di incerta identificazione), il sisimbrio (dall’identificazione equivoca), il serpillo (appartenente al genere Thymus), il nittegreto (pianta sconosciuta) (ad elencarli sono ancora Theophr. HP 6,6,11, Ath. 15,681c-685c e Plin. nat. 21,52-63). Sugli impieghi farmaceutici delle ghirlande vd. ancora Ath. 15,675e : ghirlande di rose, ad esempio, erano usate per lenire il mal di testa, quelle di mirto per attenuare lo stato di ebbrezza.  





Bibliografia. Amigues 1992 ; Andorsen 1956 ; Baumann 1993 ; Cabellat 1992 ; Dierbach 1981 ; Ducourthial 2003 ; Guyot-Gibassier 1960 ; Manessy-Guitton 1993 ; Mello 2003 ; Nencini 2004 ; Poletti 1988 ; Turcan 1971.  





















Giorgia Parlato Firmico Materno. Forse originario di Siracusa, fu uno scrittore di cui restano pochissime notizie biografiche, per lo più desumibili dai suoi testi. Nato all’inizio del iv secolo, fu senatore e per qualche tempo avvocato, ma abbandonò la professione per le inimicizie da essa procurategli. La successiva condizione di otium gli

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permise di coltivare i suoi interessi. Di lui ci è pervenuto quello che costituisce il più vasto trattato astrologico tramandatoci dall’antichità, scritto tra il 335 e il 337, intitolato De Nativitatibus sive Matheseos libri viii. [1] L’opera, frutto di esperienze maturate in campo neoplatonico, è costituita da otto libri. Di essi il primo raccoglie una serie di argomentazioni in difesa dell’astrologia ritenuta invece una disciplina per iniziati che pone in costante contatto con la divinità ; gli altri sette libri, che nel numero simbolizzano i sette pianeti, sono caratterizzati dall’esposizione di aspetti più tecnici relativi alla materia. [2] Di stile prettamente compilatorio, l’opera ha il pregio di costituire un prezioso raccoglitore della tradizione precedente sia greca che romana. Da sottolineare anche il contributo dato da Firmico alla costruzione di un lessico tecnico astrologico latino.  





Note. [1] Per le edizioni vd. Kroll-SkutschZiegler 1897-1913 ; Monat 1992-1997. – [2] Gundel-Gundel 1966, 227 sgg.  

Bibliografia. Gee 2008, s.v. Iulius Firmicus Maternus, in eans, 328-329 ; Kroll-Skutsch-Ziegler 1897-1913 ; Monat 1992-1997 ; Gundel-Gundel 1966, 227 sgg. ; Urso 2002, 119-120.  







Carmelo Lupini































Fisica [fusikav, physica]. 1. Premessa. – Il termine ta; fusikav, «aspetti attinenti alla natura» «trattato di scienza della natura», è testimoniato da →Aristotele (Metaph. 6, 1, 1026a 4-6) : «risulta allora evidente il modo in cui si deve ricercare l’essenza e formulare la definizione nell’ambito delle cose naturali (ejn toi`~ fusikoi`~) e per quale motivo rientri nei compiti dello «studioso della natura (tou` fusikou`) » estendere l’indagine anche su alcuni aspetti dell’anima che non siano concepibili come indipendenti dalla materia» ; (Ph. 8, 10, 267b 20-21) : «[…] dunque non può avere grandezza infinita : è stato dimostrato prima nei Trattati di scienza della natura (ejn toi`~ fusikoi`~)» ; (Metaph. 8, 1, 1042b 7-8) : «quale sia, però, la differenza tra la generazione assoluta e quella non assoluta è stato detto da noi nei Trattati di scienza della natura (ejn toi`~ fusikoi`~) [1] »; il termine latino physica è testimoniato da Cicerone (orat. 34, 119) : […] quem etiam, quo grandior sit et quodam modo excelsior, ut de Pericle dixi supra, ne physicorum quidem esse ignarum volo. [2] Se consideriamo gli ambiti tradizionali della fisica  

moderna (meccanica, termodinamica, elettromagnetismo, idraulica e fisica dei fluidi, ottica, acustica, problemi correlati con la fisica delle particelle, etc.), è evidente che il campo d’indagine della ‘fisica’ antica non potrebbe che essere più ristretto. In tale contesto, però, punto importante è stabilire se gli antichi ebbero una ‘scienza fisica’, ed eventualmente in quale fase storica si realizzò questo disegno. Una rubrica, dedicata alla fisica, pubblicata in un’autorevole enciclopedia presenta un quadro sintetico, molto critico, sul problema dell’esistenza di tale disciplina nel mondo antico : è il riflesso di una impostazione piuttosto parziale e fuorviante, che caratterizza molta parte della storia della scienza del secolo xx. Quindi, nel 1932 (anno di pubblicazione del volume contenente la rubrica) gli elementi per un giudizio negativo sono essenzialmente questi : 1. la moderna geometria deriva da quella antica : le relative opere di →Euclide e di →Apollonio di Perga rappresentano dei modelli non superati ; 2. per la fisica i Greci crearono il vocabolo ma non la disciplina : questa è un prodotto del Rinascimento italiano ; 3. i Greci non ebbero modo di utilizzare il metodo scientifico, cioè lo studio sistematico (sperimentale e quantitativo) di fatti riproducibili ; 4. il trattato di →Archimede (Sui piani in equilibrio), nel quale vengono fissate le proprietà delle leve, sarebbe di carattere puramente matematico ; inoltre il principio d’idrostatica, che porta il nome dello scienziato, sarebbe prodotto da semplici ragionamenti e non da un procedimento sperimentale ; 5. il bilancio della ‘fisica’ antica sarebbe piuttosto povero ; in questo senso vengono individuate poche esperienze significative : le leggi delle vibrazioni delle corde sonore, riconducibili ai pitagorici di Crotone e di Metaponto ; alcuni principi di statica ; la legge della riflessione della luce attribuita ad Euclide. Si tratta di un giudizio riduttivo e sostanzialmente inaccettabile. [3] Se si prende in considerazione, ad esempio, il trattato aristotelico dedicato alla ‘fisica’, che rappresenta l’ultimo prodotto di una lunga speculazione sui fatti della natura, prima della fase ellenistica, si può affermare che esso non presenta una ‘fisica’ in senso moderno, dal momento che il tema principale della ricerca aristotelica è l’essere nel divenire : è un aspetto, che la fisica moderna esclude dalla propria indagine, in quanto lo considera come tema di pertinenza filosofica. Per tale  















fisica motivo è evidente che il trattato aristotelico non presenta un’analisi ‘fisica’ dei problemi, ma una indagine di carattere metafisico. Da questo fatto deriva anche la condanna, che la ‘fisica’ moderna, sin dai primordi, elevò contro Aristotele e l’aristotelismo, appuntando gli strali soprattutto contro l’opera, che rappresenta l’interpretazione della natura : questa interpretazione, che prescinde da una esigenza di formulare in termini matematici la sostanza dei fenomeni fisici, è il punto di discrimine rispetto alla fisica moderna. [4] 2. Storia e problemi. – Per definire correttamente il quadro di una possibile ‘scienza fisica’ nell’antichità, non si può prescindere dal considerare i parametri, cioè le caratteristiche essenziali, che L. Russo ha delineato per definire la realtà di una ‘teoria scientifica’ : 1. “Le affermazioni ‘scientifiche’ non riguardano oggetti concreti, ma enti ‘teorici’ specifici” : 2. “La teoria ha una struttura rigorosamente deduttiva ; è costituita cioè da pochi enunciati fondamentali (‘assiomi’, ‘postulati’, o ‘principi’) sui propri enti caratteristici e da un metodo unitario e universalmente accettato per dedurne un numero illimitato di conseguenze” ; 3. “Le applicazioni al mondo reale sono basate su regole di ‘corrispondenza’ tra gli enti della teoria e gli oggetti concreti. […] Il metodo fondamentale per controllare la validità delle regole di corrispondenza, cioè l’applicabilità della teoria, è il metodo sperimentale”. [5] La chiarezza di questi enunciati è veramente molto utile per comprendere la questione della ‘fisica’ dell’antichità e i vari stadi di evoluzione. La ‘fisica’ della fase pre-socratica è fondamentalmente →cosmologia : il pensiero filosofico e ‘scientifico’ di quell’età fu impegnato nella definizione della causa e del principio naturale delle cose e dell’origine del mondo, cioè identificazione dell’elemento primitivo e formatore della realtà universale, teoria dei quattro elementi, atomismo di Leucippo e Democrito (quest’ultimo, per motivi cronologici, vive anche nella fase storica postsocratica). L’analisi delle scarse fonti (molto di quel poco, che è pervenuto, è dovuto alla tradizione indiretta mediante citazioni di scrittori e commentatori posteriori) [6] consente di fare l’unico bilancio possibile : i filosofi pre-socratici non sembrano avere formulato ‘teorie scientifiche’ nel senso sopra delineato, rimanendo la speculazione all’interno della metafisica. Ovviamente, all’interno di tale panorama ‘pre 

















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scientifico’, si possono segnalare alcune intuizioni su fatti, che la scienza posteriore ha considerato come presupposti necessari per la definizione di alcune teorie della fisica : in alcuni casi, però, si è data poca o eccessiva importanza (secondo i vari punti di vista degli storici della filosofia e della scienza) a tali intuizioni come momenti precursori della fisica moderna. In tale linea d’indagine viene posta l’attenzione su alcune affermazioni di →Democrito (forse già di Leucippo), desumibili da un passo di Cicerone, che farebbero pensare all’intuizione del principio d’inerzia : [7] il medesimo principio viene individuato ancora in →Platone (Ti. 15, 43b), in un passo di esegesi controversa, che sembrerebbe ora sufficientemente chiarito. [8] Questo principio, che è alla base della dinamica moderna, considera il fatto che la materia, sulla quale non vengono ad agire forze, persevera nello stato di quiete o di moto indefinitamente, poiché le forze non sono causa della velocità del corpo mosso, ma della variazione di questa velocità. Inoltre, in questa ottica di ampliamento della influenza della ‘fisica’ greca su quella moderna, ed anticipandone la fase cronologica rispetto all’età ellenistica, si inserisce il tentativo di sopravvalutare una sorta di ‘momento sperimentale’, che avrebbe caratterizzato l’attività di alcuni filosofi pre-socratici. Così, ad esempio, si riconosce forma di ‘esperimento’ alla testimonianza del fatto che →Anassagora (59A68 D.-K., che deriva da brani di Aristotele), al fine di dimostrare che l’aria è ‘qualcosa’, si serva della ritenzione dell’aria all’interno delle clessidre, oppure che la miscela dei colori bianco e nero, realizzata goccia su goccia, dimostra la nostra incapacità nel riconoscere le differenze minime (59B21 D.K., recuperabile tramite un passo di Sesto Empirico). [9] Nello stesso modo si ipotizza e si sopravvaluta un momento ‘sperimentale’, in relazione ad alcune affermazioni di →Empedocle (31B100 D.-K. = fr. 96 Gallavotti, recuperato tramite un passo di Aristotele), che spesso non sono state correttamente intese : si tratta di un famoso ‘esperimento’ circa il meccanismo della respirazione, il cui contenuto ‘fisico’ è stato posto in relazione con le esperienze di Galilei e di Torricelli circa l’elasticità ed il peso dell’aria. [10] La ‘meccanica’ di →Archita di Taranto, contemporaneo di Platone, e di Zopiro, che appartiene alla cerchia di Archita, [11] dimostra che in questo periodo è vitale una fase tec 













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nologica, la quale non può prescindere da una ‘sistemazione’ di alcuni problemi teorici di carattere ‘fisico’ : anche in questo caso, però, per quanto è possibile ricavare dalle fonti superstiti, non è possibile parlare di una ‘scienza fisica’. Il pensiero ‘scientifico’ di →Platone, in rapporto alla ‘fisica’, è analizzato attentamente da Ch. Mugler : in particolare l’attenzione è focalizzata sulla ‘fisica generale’ del Timeo, che rappresenta il panorama più completo e sistematico delle idee ‘fisiche’ e cosmologiche del filosofo, sul libro x delle Leggi, che rappresenta una revisione di tale sistema, sull’Epinomide, che si configura come una ulteriore revisione (quest’opera, considerata spuria da parte della critica, viene assegnata a Filippo di Opunte, scolaro di Platone). [12] Lo studioso stabilisce una sorta di contatto tra alcune intuizioni platoniche e principi della fisica moderna ; in particolare, nelle conclusioni della sua analisi, viene posto il problema, che l’influenza della lettura di Platone avrebbe esercitato su Galilei. L’indagine è meritevole e suggestiva, ma occorre valutare che cosa possa essere in realtà la ‘fisica’ di Platone. Il filosofo, sicuramente per influenza di Archita, riconosce una grande importanza alla matematica, come scienza pura, che opera su concetti definiti esattamente (nega quindi valore alle nozioni empiriche, alla sperimentazione pratica e di conseguenza alla tecnica). Tale assetto d’indagine, all’interno della teoria delle idee, produce queste conseguenze : viene riconosciuta grande importanza alla matematica, in quanto processo logico di somma purezza, vengono negati statuto e valore scientifici alla fisica, in quanto considerata come studio dei ‘fenomeni nel loro fluire empirico’ ; in sostanza Platone combatte, in antitesi con il pensiero democriteo proprio quel tipo di ricerca, che cerca di definire i fenomeni tramite cause fisiche e meccaniche. [13] Con Aristotele muta del tutto la prospettiva d’indagine. Egli e la sua scuola, intanto, allargarono in notevole misura i limiti della ricerca ‘naturalistica’ precedente, assegnando lo statuto di ‘scienza’ alle ‘scienze del particolare’, sia pure subordinate alla ‘scienza prima’, che è la filosofia. Il filosofo nei Fusikav / Fusikh; ajkrovasi~ (Physica) pone al centro della ricerca la ‘scienza’, che ha per oggetto la fuvsi~ (physis) : [14] in questo contesto il nucleo è rappresentato dal tema, cui si era dedicata la quasi totalità della filosofia pre-socratica ; all’interno di questa linea di svolgimento, che va da  

















→Talete ad Aristotele, si colloca una interruzione rappresentata dal pensiero di →Parmenide e di Platone. Risulta chiaro però che l’analisi di Aristotele fa riferimento ai medesimi contenuti della quasi totalità della filosofia presocratica : rappresenta, però, anche il punto di rottura e di superamento della speculazione precedente. Il filosofo peripatetico stabilisce infatti, a differenza dei pre-socratici, che la ‘natura’ non costituisce la totalità del reale ma è solo un aspetto particolare, che ha come punto di riferimento il divenire : in questo modo viene ad essere definita nel mondo antico la ‘rivoluzionaria’ differenza tra ontologia e scienze del particolare, tra cui la ‘fisica’, che come altre discipline è ‘scienza’ di una parte. [15] In questa prospettiva avviene una netta separazione tra metafisica e fisica : questa si configura come una sorta di “filosofia seconda, in quanto si occupa delle sostanze sensibili che dalla sostanza prima dipendono”. [16] Come è evidente la ‘fisica’ non è ancora una scienza secondo i canoni, che si assegnano tradizionalmente ad una disciplina scientifica in termini moderni, in quanto rimane nell’alveo della speculazione filosofica : [17] Aristotele ha compiuto un primo timido passo verso una parziale autonomia della ‘scienza’, e per alcuni singoli aspetti rappresenta il punto di passaggio verso il realizzarsi della ‘scienza’ antica nell’età successiva, reagendo alla mistica di ambiente pitagorico e platonico. In particolare, è interessante riflettere su alcuni punti di questa ‘fisica’. Ancora una volta, come per Platone, gli elementi di polemica sono contro la ‘visione’ della natura, atomistica e meccanicistica, di Democrito : a) polemica verso il ‘principio d’inerzia’ (intuito da Democrito) e di contro la teoria aristotelica dei moti naturali, che fu aspramente combattuta da Galilei e dai suoi contemporanei in funzione dei principi della ‘dinamica’ moderna ; b) polemica contro il concetto di ‘vuoto infinito’, sostenuto da Democrito, per spiegare il moto degli atomi di contro alla negazione del ‘vuoto’ sostenuta da Aristotele ; c) opposizione alla possibilità della riduzione delle ‘differenze qualitative’ a ‘differenze quantitative’, propugnata da Democrito ; d) opposizione netta tra ‘meccanicismo’ democriteo e ‘finalismo’ aristotelico (e già platonico) ; etc. Questi elementi pongono Aristotele in posizione divergente rispetto ai concetti di una ‘fisica’ come ‘teoria scientifica’ (e moderna, che presuppone proprio il rifiuto della ‘vi 





















fisica sione’ aristotelica e platonica). In definitiva si può affermare che l’attività del filosofo tende alla formazione ed alla sistemazione di una enciclopedia dei vari ‘saperi’, all’interno di una sintesi speculativa, la quale tiene conto del pensiero, che si è delineato nell’ambito di un preciso percorso storico. In questo processo di sistemazione, in modo opposto all’atteggiamento di Platone, il filosofo tratta ogni singola ‘scienza’ come un tutto organico, indipendente e conforme alla natura della specificità di ciascun sapere ‘scientifico’, tenendo conto della varietà dei fenomeni e trasmettendo una larga messe di osservazioni ed informazioni. [18] L’impulso di Aristotele produce frutti interessanti : già in →Teofrasto, successore di Aristotele alla guida del Peripato, il campo della ricerca extra-filosofica sembra restringersi, riducendosi quasi prevalentemente alla botanica. Quindi cambia il modello di prospettiva : da questo momento filosofia e scienza non si presentano unite nell’attività di una stessa persona, come era accaduto nella filosofia pre-socratica, in Platone ed in Aristotele. Dal panorama tracciato emerge che il pensiero filosofico e ‘scientifico’ preellenistico ha prodotto una serie di intuizioni e di riflessioni in materia di ‘fisica’, senza giungere però alla formazione di una vera ‘teoria scientifica’ basata sui parametri sopra indicati. [19] Posizioni teoriche, ‘esperimenti’, costruzioni di ‘macchine’ rappresentano il bagaglio di un lungo cammino iniziato con la filosofia ionica e conclusosi con la sintesi sistematica della ‘dottrina’ aristotelica. La fase ellenistica muta la prospettiva della ricerca filosofica e scientifica, in quanto mutano le condizioni socio-culturali della nuova età : subentra una fase di razionalismo ‘positivista’, di ricerche specializzate, che è condizione necessaria per regolare in un sistema compiuto, anche attraverso la sperimentazione, la ‘scienza fisica’ (e le altre scienze). Quindi verso il iv sec. a.C., all’interno della fase ellenistica, si può collocare la nascita della ‘scienza fisica’, corrispondente a quei parametri, che definiscono correttamente una ‘teoria scientifica’ : avviene una sorta di ‘rivoluzione’ delle idee e del processo scientifico, che ha come punto principale di riferimento il Museo di Alessandria, per così dire, ‘centro di eccellenza’ della ricerca e della sperimentazione. [20] Il problema posto dalla presenza di una ‘scienza fisica’ nell’età ellenistica non è, comunque, di semplice soluzione : esiste una  















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corrente di pensiero, che nega questa possibilità. Questo fatto è indotto anche dalla tradizione dei testi scientifici di questa età : solo una piccola parte è pervenuta, e spesso la loro ripresa in età successiva, da parte di commentatori, ha prodotto guasti concettuali. [21] L. Russo chiarisce i termini generali della questione. [22] Lo studioso (in polemica con S. Sambursky, il quale esamina pre-socratici, Platone, Aristotele, limita l’importanza della fase ellenistica, e nega ai Greci una ‘scienza fisica’ e la capacità di sperimentare) osserva che in questa età : “[…] certamente non nacque allora una ‘fisica’ come scienza unitaria e autonoma dalla matematica. Una delle caratteristiche della scienza antica è, infatti, l’unità di tutta la scienza esatta, che, mentre si era resa autonoma dalla filosofia naturale e dalle attività professionali, non aveva creato al suo interno la divisione tra matematica e fisica. La scienza esatta ellenistica era strutturata essenzialmente come un insieme di teorie scientifiche […]. Va detto che la linea di divisione tra ‘fisica’ e ‘matematica’ non è stata neppure nella scienza moderna così ovvia e stabile come forse appare a molti ed è probabilmente in rapido movimento in questi anni”. Si tratta di una posizione di grande importanza ed equilibrio. Ad esempio, all’interno della ‘speculazione matematica’ di Archimede la sua ‘statica’ (che rientra nel campo della fisica) è una vera ‘teoria scientifica’, con cui è possibile risolvere i medesimi problemi della statica moderna. [23] In questa linea di necessario recupero della ‘fisica’ in età ellenistica (anche come sviluppo di teorie ‘pre-scientifiche’ precedenti) è importante osservare che in questa fase della ricerca non mancò l’uso del ‘metodo sperimentale’, che alcuni tendono a sottovalutare o a negare. [24] Bisogna anche confessare, per dovere di obiettività, che spesso un cultore di discipline umanistiche non sempre è in grado di individuare esattamente nelle stesse fonti letterarie, oggetto di esegesi, spunti di riflessione scientifica, che invece un cultore di ‘discipline esatte’ può cogliere con maggiore chiarezza. [25] A questo punto è possibile affermare, per quanto lo consentono le fonti superstiti, che almeno tre ‘sezioni’ della fisica raggiunsero un grado di dignità scientifica : →ottica (geometrica), →meccanica, →acustica (con rappresentanti significativi, quali →Euclide, →Archimede, →Erone, →Tolemeo). [26] Questi risultati della ‘fisica’, ed in generale i vari aspetti  

















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della scienza ellenistica, furono accompagnati da una progressiva parcellizzazione e specializzazione dei vari ‘saperi’ scientifici. Questo fatto fu un elemento di stimolo e di crescita, ma nel contempo fu la causa di una precoce sterilità del progresso scientifico, in quanto la scienza, per quanto evoluta ed utile in svariate applicazioni, divenne sempre più e quasi esclusivamente un fatto ‘accademico’ senza utili rapporti con la società, che è l’elemento vitale per la produzione di ogni evoluzione scientifica : lo studio e la ricerca si chiusero in se stessi, quasi un mondo separato. Inoltre la progressiva caduta dei regni ellenistici sotto il dominio dei Romani e lo spirito utilitaristico di questi, portati verso un uso pragmatico dei risultati scientifici, contribuirono a sterilizzare l’avanzamento della ‘speculazione’ scientifica. Per tale motivo la successiva età greco-romana mostra la decadenza dello ‘spirito’ scientifico e della ricerca dopo i notevoli risultati realizzati nella prima età ellenistica (nel campo della matematica, fisica, astronomia, medicina) ; quindi tra il ii secolo a.C. ed il v secolo d.C. si assiste al progressivo formarsi di una letteratura manualistica ed enciclopedica, che intende recuperare antiche conoscenze e volgarizzare i dati delle singole scienze : questa fase è importante, in quanto trasmette ai secoli seguenti il frutto di almeno una parte della ‘speculazione’ scientifica greca. [27] In questo contesto si possono segnalare come fatti di rilievo solo l’opera di Erone (i secolo d.C., ma esistono problemi per la datazione) [28] sulla ‘meccanica’, che espone la teoria delle cosiddette ‘macchine semplici’, e quella sulla ‘pneumatica’, dove sono studiati apparecchi mossi dalla pressione atmosferica, dall’energia eolica, dall’energia termica ; quindi le opere di Tolemeo dedicate all’acustica ed all’ottica. Per l’ambito latino non è possibile parlare dell’esistenza di una ‘fisica’ come scienza. Lo studio della natura ed i fenomeni correlati non attrassero l’attenzione dei Romani ; invece è evidente l’utilizzazione delle varie applicazioni da parte del loro spirito pragmatico : si può affermare che per questi la conoscenza delle ‘scienze esatte’, di derivazione greca, ebbe una notevole importanza soprattutto nel campo dell’ingegneria.  













Note. [1] Vd. anche Metaph. 6, 1, 1025b 20-29 : «anche la scienza della natura (hJ fusikh; ejpisthvmh) si occupa di un certo genere dell’essere : essa ha infatti come suo oggetto quel genere di sostanza,  



che ha in se stessa il principio del movimento e della quiete ; […] se ogni attività del pensiero è pratica o produttiva o contemplativa, la scienza della natura non potrà non essere attività contemplativa, ma contemplativa di quel genere di essere, che ha la possibilità di muoversi, e di una sostanza, che ha per lo più una sua forma : soltanto non è separabile dalla materia» ; sulle prerogative della ‘scienza della natura’ cfr. Metaph. 4, 3, 1005a 291005b 2 : «[…] nessuno, che si occupi di indagini scientifiche parziali (ad esempio uno studioso di geometria e di aritmetica), osa proporre qualche sua teoria circa gli assiomi, affermando che siano veri o falsi : lo hanno osato alcuni studiosi della natura (tw`n fusikw`n e[nioi), ed è naturale che l’abbiano fatto, poiché erano convinti di essere i soli a svolgere la loro osservazione su tutta intera la natura e sull’essere ; esiste però qualcuno, che sta più in alto dello studioso della natura (tou` fusikou`) (infatti la natura è solo un genere dell’essere) : solo a costui, che si occupa di indagare sull’universale e sulla sostanza prima, è riservato appunto lo studio degli assiomi ; tuttavia anche la scienza della natura è una certa specie di sapienza, ma non è la prima (e[sti de; sofiva ti~ kai; hJ fusikhv, ajllVouj prwvth)» : ovviamente il riferimento è alle teorie di Eraclito, Empedocle, Anassagora e Democrito. Per il termine oJ fusikov~, come ‘studioso della natura, filosofo naturalista’, vd. ancora Arist. Ph. 2, 7, 198a 22 ; Metaph. 4, 2, 1005a 34, etc. – [2] Vd. anche Cic. nat. deor. 1, 30, 83 (physicum, id est speculatorem venatoremque naturae) ; orat. 4, 15 (quod is Anaxagorae physici fuerit auditor) : è evidente che il termine non ha valore specifico, in senso moderno, ma definisce, soprattutto tramite il riferimento ad Anassagora, chi ha interessi peri; fuvsew~, conservando il valore che ha nei testi aristotelici. – [3] Vd. ei, xv, 473, s.v. Fisica, di cui è difficile condividere le argomentazioni ; per le fonti e la letteratura relativa vd. re, xx 1, 1034-1063, s.v. Physik (la rubrica redatta, nel 1941, da H. Leisegang si articola in 5 sezioni : Meccanica (Cinetica, Statica), Acustica, Ottica, Termodinamica, Elettricità e magnetismo (di diverso spessore e con analisi non sempre condivisibili) ; per un’equilibrata panoramica sui problemi posti dalla fisica e dalla tecnica antiche vd. EnriquesDe Santillana 1932, 478-540 ; sulla scienza, sulla fisica e sulla tecnologia antiche vd. Russo 1998b, 21-153 ; sull’evoluzione del pensiero scientifico vd. Geymonat 1970, 233-300 ; sulla possibilità che l’acustica pitagorica derivi dallo studio sperimentale delle corde sonore vd. Geymonat 1970, 44-45. – [4] Per comprendere, ad esempio, la diversità di approccio tra la ‘fisica’ di Aristotele e quella di Galilei vd. le osservazioni di Heisenberg 1959, 12. – [5] Vd. Russo 1998b, 32, e 35-36, in cui opportunamente si dissente dal cosiddetto ‘paradigma’  



































fisica di Kuhn [vd. Kuhn 1969], che tende a fare rientrare nel panorama di una storia della scienza antica aspetti e forme di conoscenza, che di fatto non possono appartenere all’alveo della scienza. – [6] Vd. Lami 1991, 49-50, 75-83 : le citazioni derivano soprattutto, in un arco temporale che va da Platone (iv secolo a.C.) a Simplicio (vi secolo d.C.), da Platone, Aristotele, Plutarco, Sesto Empirico, Ippolito, Diogene Laerzio, Simplicio, oltre al dossografo Aezio ed altre sparse testimonianze. Per una sobria e pregevole bibliografia sul rapporto tra filosofia e scienza in questa età vd. ancora Lami 1991, 100-101. – [7] Vd. Cic. fin. 1, 6, 17 : ille [Democritus] atomos quas appellat, id est corpora individua propter soliditatem, censet in infinito inani, in quo nihil nec summum nec infimum nec medium nec intimum nec extremum sit, ita ferri, ut concursionibus inter se cohaerescant, ex quo efficiantur et quae sint quaeque cernantur omnia, eumque motum atomorum nullo a principio, sed ex aetherno tempore intellegi convenire [= Dem. test. 56, ii 98 D.-K.]. Enriques-De Santillana 1932, 147-150, 480, spiegano chiaramente il rapporto, che può intercorrere tra l’affermazione di Democrito (attraverso la citazione di Cicerone) e la ‘prima legge fondamentale del moto’, che è alla base della dinamica di Galilei e di Newton ; e chiosano : “Democrito aveva genialmente intuito il principio d’inerzia. Ma questa intuizione dovette sembrare troppo ardita e metafisica ai posteri : le apparenze del moto sopra la Terra la contraddicono” ; sulla questione vd. anche Geymonat 1970, 178 e 274. Prudentemente ed opportunamente Russo 1998b, 251, concorda con la presenza di tale principio in Democrito, e definisce l’affermazione del filosofo come una teoria ‘pre-scientifica’, in base ai parametri da lui delineati per la corretta definizione di una vera ‘teoria scientifica’. – [8] Vd. il contributo di Viera Pinto 1952, e le osservazioni di Mugler 1960, 254 : lo studioso condivide l’analisi di A. Viera Pinto, e considera il passo del Timeo come uno dei notevoli esempi, in cui Platone avrebbe intuito ‘leggi’ della fisica moderna (vd. anche l’intera sezione di Mugler 1960, 246-258) ; cfr. anche Mugler 1960, 76 nt. 3, a proposito del tentativo, piuttosto forzato, di intravedere in un passo del Fedone elementi di ‘vitesse acquise’, ‘inertie’. – [9] Vd. le osservazioni di Lami 1991, 4546. – [10] Vd. la corretta analisi di Gallavotti 2001, 252-260, con bibliografia relativa ; cfr. Lami 1991, 402 n. 128. – [11] Vd. Lami 1991, 504 n. 1. – [12] Vd. Mugler 1960. – [13] Vd. le osservazioni di Geymonat 1970, 214-216 ; per l’importanza della matematica in Platone vd. lo studio di Lasserre 1990 : al tempo del filosofo si realizza un progresso così imponente, che i matematici di quell’età (Archita, Teeteto, Eudosso) possono essere considerati come i fondatori della matematica moderna ;  























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inoltre questa ricerca matematica influenza profondamente le indagini filosofiche di Platone e della sua scuola. – [14] Nei manoscritti il titolo del trattato è Fusikh; ajkrovasi~ (Lezioni di fisica), oppure Fusikh; ajkrovasi~ h] peri; ajrcw`n, con titolo doppio, Lezioni di fisica o intorno ai principi (vd. apparato a i 184 ediz. Bekker) ; l’opera in 8 libri, dopo una introduzione storica tratta gli argomenti seguenti : a) natura e concetto del corpo e movimento (iiii) ; b) spazio e tempo (iv) ; c) forme del movimento (v-viii). – [15] Vd. Arist. Metaph. 4, 1, 1003a 21-26 : «esiste una scienza (ejpisthvmh), che studia l’essere in quanto essere e le proprietà che gli competono per questa sua natura ; questa scienza non si identifica con nessuna delle scienze particolari : infatti nessuna delle altre considera l’essere in quanto essere in universale, ma ciascuna ne ritaglia una qualche parte e ne studia le caratteristiche, come fanno, ad esempio, le scienze matematiche». – [16] Vd. Ruggiu 1995, xvi. – [17] Per un’analisi delle questioni poste dai Fusikav (Physica) di Aristotele vd. le osservazioni di Geymonat 1970, 267-275, e di Ruggiu 1995, v-lxiii. – [18] La considerazione del filosofo verso le discipline ‘empiriche’ e ‘settoriali’ (‘fisica’ e ‘scienze naturali’, quale riflesso dell’indagine sulla ‘filosofia della natura’) è documentata dai numerosi trattati e trattatelli, presenti nel corpus a noi pervenuto. Basta qui ricordarne alcuni : de anima (sull’anima considerata dal punto di vista biologico come causa degli esseri viventi oltre che sotto il profilo filosofico), de coelo (su problemi di cosmologia), metereologica (sui fenomeni celesti ed i problemi generali dell’aria e dell’acqua), de audilibus / de physico auditu (su problemi di acustica ; forse opera non del filosofo ma della sua scuola), quaestiones mechanicae (su problemi di ‘meccanica’ ; trattato probabilmente pseudo-aristotelico, che parte della critica assegna a Stratone di Lampsaco, scolaro di Teofrasto, successore di Aristotele nella guida del Peripato : vi si delinea anche il principio della ‘miracolosa eccezionalità dei risultati delle macchine’, oggetto di critica nelle Meccaniche di Galilei), historia animalium (descrizione di 581 specie diverse di animali, distinti in animali forniti di sangue e privi di sangue), etc. Comunque, queste opere, importanti per delineare la pluralità degli interessi di Aristotele e della sua scuola, non hanno la struttura di una trattazione scientifica ; sull’organizzazione della ricerca scientifica nel Peripato vd. Jaeger 1935, 440-465. – [19] Vd. Russo 1998b, 36-39. – [20] L’analisi di Russo 1998b, 42-48 (a partire dal titolo del volume) delinea perfettamente l’importanza di questa età ; cfr. anche Geymonat 1970, 280-300. – [21] Sul problema della scienza ellenistica perduta e delle alterazioni subite da alcuni principi vd. Russo 1998b, 235-284. – [22] Vd. Russo 1998b, 46, e la linea diversa di analisi tracciata nel contributo di Sambursky 1956. –  

























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fisiognomica

[23] Vd. Russo 1998b, 35. – [24] Vd. le giuste osservazioni di Russo 1998b, 47. In questo contesto non si può negare dignità di ‘teoria scientifica’ e presenza di ‘metodo sperimentale’ all’ottica (geometrica) di Euclide, alla meccanica ed all’idrostatica di Archimede, alla pneumatica di Ctesibio : vd. l’analisi dei vari problemi in Russo 1998b, 79-99 ; in questa direzione non può essere ignorata la ‘scienza applicata’, quale si desume dai due libri di Pneumatica e dal trattato Sulla costruzione degli automi del maggiore ‘meccanico’ dell’antichità Erone (con la descrizione di alcuni geniali apparecchi); è utile anche sottolineare che le applicazioni delle ‘teorie scientifiche’ hanno importanza sul piano dello sviluppo tecnologico : vd. l’analisi di Russo 1998b, 117-153. – [25] Esempio interessante di questa difficoltà è il recupero del ‘concetto di attrito’ e di ‘accelerazione di gravità’, che a partire da un passo della Meccanica di Erone (a confronto con una sezione dei Problemi meccanici pseudo-aristotelici) può essere sufficientemente chiarito tramite alcune indicazioni presenti in Plutarco e in Simplicio : vd. l’analisi di Russo 1998b, 251-257 ; sull’idea di gravità (da Aristotele ad Ipparco) vd. ancora Russo 1998b, 272-281. – [26] Vd. anche le osservazioni di Enriques-De Santillana 1932, 478-484 ; ovviamente restano fuori da questa rubrica altri insigni studiosi, che si segnalarono in altri campi della scienza ellenistica : Aristarco di Samo, Ctesibio, Erofilo di Calcedonia, Eratostene, Apollonio di Perge, Ipparco di Nicea (per i quali si rinvia alle rispettive voci). – [27] Ad eccezione delle opere strettamente tecniche di matematici ed astronomi, non semplici per essere epitomate e volgarizzate, grandissima parte di questa produzione è nota attraverso epitomi e rifacimenti posteriori. Sulla crisi della scienza ellenistica vd. Russo 1998b, 222-234 ; sull’impoverimento e sul progressivo abbandono della ricerca scientifica vd. Geymonat 1970, 344-351 ; cfr. anche Enriques-De Santillana 1932, 574-583. – [28] Sono state suggerite datazioni diverse (i secolo a.C., i oppure ii secolo d.C., iii secolo d.C.) : vd. bibliografia relativa in EnriquesDe Santillana 1932, 386 nt. 1.  



















Bibliografia. Berti 1941; ei, s.v. Fisica; EnriquesDe Santillana 1932; Gallavotti 2001; Geymonat 1970; Heisenberg 1959; Jaeger 1935; Kuhn 1969; Lami 1991; Lasserre 1990; Leisegang 1941; Mugler 1960; Pellerin 2005; Ruggiu 1995; Russo 1998b; Sambursky 1956; Viera Pinto 1952.

Silvio Mario Medaglia Fisiognomica. Le testimonianze più antiche sulla fisiognomica risalgono alla tradizione babilonese, nella quale l’osservazione dei tratti fisiognomici era utilizzata a scopo divinatorio, per determinare il futuro di un individuo : evi 

denziano questo tipo di tecnica numerose tavolette in cuneiforme, predisposte forse per la consultazione manualistica, nelle quali da una determinata caratteristica o postura del corpo viene dedotta una specifica predizione (Kraus 1935 ; Bottero 1974). Non è forse casuale che all’Oriente rinvii anche la prima apparizione della fisiognomica in Grecia, nell’aneddoto relativo a Socrate di cui è protagonista un certo Zopyros, senz’altro physiognomon nella versione che ne dà Cicerone (fat. 10 ; anche Tusc. 4, 80), ma mago «proveniente dalla Siria» nella versione di Diogene Laerzio (2, 45). Le due versioni differiscono peraltro nel tipo di fisiognomica che sarebbe stata esercitata da Zopyros : nella versione ciceroniana è di tipo descrittivo, per cui Zopyros, osservando i tratti di Socrate, ne deduce i vizi di cui sarebbe stato affetto (stupidità, libidine, etc.) ; nella versione di Diogene, oltre a diagnosticare i vizi di Socrate, Zopyros ne avrebbe anche predetto la morte imminente. Ma è rilevante, nell’aneddoto, la reazione suscitata dall’intervento del fisiognomo : egli è deriso dai discepoli di Socrate, in particolare da Alcibiade, ma lo stesso Socrate prende in parte le difese di Zopyros, osservando che si trattava effettivamente di vizi in lui connaturati, ma che egli li avrebbe eliminati grazie all’uso della ragione. L’aneddoto evidenzia l’interferenza che la pratica fisiognomica aveva con la riflessione filosofica sull’anima, in relazione al problema del condizionamento esercitato dal corpo sull’anima, o su parte dell’anima. La posizione di mediazione attribuita a Socrate, che in una certa misura valorizzava la fisiognomica, venne probabilmente ripresa da Fedone di Elis, autore di un dialogo Zopyros, in cui doveva esser narrato l’aneddoto citato (vd. Rossetti 1980). Ostile alla fisiognomica, ed ad ogni possibilità di inferenza del carattere dai tratti fisiognomici, era invece un altro allievo di Socrate, Antistene, fondatore della tradizione cinica, a cui è attribuito un’opera sui ‘sofisti fisiognomici’. Polemico nei confronti della fisiognomica appare anche Platone, che sembra escudere, nei suoi dialoghi, la possibilità che la natura corporea possa determinare il carattere di un individuo (cfr. per es. symp. 215a, dove Alcibiade mette in netta opposizione l’apparenza esteriore di Socrate e le caratteristiche del suo animo). È ipotizzabile che la pratica fisiognomica suscitasse un certo interesse anche negli ambienti della medicina ippocratica, per l’interesse che  









fisiognomica essa aveva nei confronti del corpo e dei particolari anatomici, ed anche per la metodologia d’inferenza che essa utilizzava, non molto diversa da quella della semiotica medica. Galeno fa senz’altro di Ippocrate il fondatore della fisiognomica (anim.mor.corp.temp. 7 [iv 797 K.]), ma i soli riscontri utili, nel Corpus Hippocraticum, sono aer. 12-13 [ii 52-58 L.], per le diverse caratteristiche fisiognomiche e caratteriali di Asiatici ed Europei, ed epid. 2, 5 [v 128-139 L.], dove è rilevato il carattere prognostico di alcuni tratti tipicamente fisiognomici e dove compare anche la più antica attestazione del termine fusiognwmwnikav. Lo stesso Galeno, pur valorizzando la fisiognomica nel citato contesto in cui evidenzia l’influenza somatica, non ne accoglie in realtà l’ispirazione, alla quale rimprovera (cfr. Temp. 2, 6 [i 624 K.]) il disinteresse per il fattore causale delle corrispondenze fra fisiognomia e carattere, che nell’impostazione teorica di Galeno è costituito dagli umori. In seguito proprio la tipologia fondata sugli umori (melancolico, flemmatico, bilioso, sanguigno) costituirà una sostanziale alternativa a quella praticata dalla fisiognomica. Alla tradizione medica antica è stato fatto risalire Loxus, sulla base della qualifica di medicus assegnatagli dall’anomino autore del De physiognomonia 1, che sembra anche considerarlo prearistotelico (ma recentemente Boys-Stone 2007 lo assegna senz’altro alla scuola peripatetica) e che gli attribuisce la teoria per cui il sangue, in quanto sede dell’anima, determinerebbe le corrispondenze fra tratti fisionomici e carattere in conseguenza della sua maggiore o minore fluidità. Oltre che dall’anomino, Loxus è citato da Origene (Cels. 1, 53 : ca. 220 d.C.), che lo cita come fisiognomista assieme a Zopyrus e a Palemone. Oltre che ad Ippocrate, la fondazione della fisiognomica è attribuita anche a Pitagora, da Gellio (1, 9, 2, in dipendenza da Calvenus Taurus), Porfirio (VP 13), Giamblico (VP 17, 74) ed altre fonti, in relazione ad un aneddoto per cui Pitagora avrebbe scelto gli allievi, fra i giovani che si presentavano davanti a lui, scrutandone il volto. Porfirio, in particolare, sembra collocare la fisiognomica nell’ambito di una serie di tecniche divinatorie apprese da Pitagora nel corso dei suoi viaggi in Oriente, a conferma di una connotazione ‘orientale’ della disciplina che pare ricorrente. Con maggior sicurezza la fisiognomica trovò una ricezione favorevole in ambiente peripatetico, come evidenzia il trat 

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tato attribuito ad Aristotele (ed. Vogt 1999), in realtà una conflazione fra due trattati distinti, comunque di scuola aristotelica. L’interesse dello stesso Aristotele è comunque attestato da APr. 2, 27, 70b, su fisiognomia e carattere del leone, e da GA 4, 3, 769b, dove si fa riferimento ad un fisiognomo che avrebbe ricondotto le espressioni umane a due o tre tipi animali. Tratto distintivo della scuola peripatetica era forse proprio la comparazione fra tipi umani e tipi animali : fra i tre metodi che, secondo il citato trattato, caratterizzerebbero la fisiognomica, uno è appunto quello zoologico, per i tratti fisiognomici umani correlabili con i tipi animali ; gli altri sarebbero quello etnografico, che correla i tipi umani con quelli etnici (tiene conto, si direbbe, della citata elaborazione ippocratica), ed il metodo ‘anatomico’, sostanzialmente quello evidenziato da Zopyros, volto a correlare caratteristiche fisiognomiche con tratti del carattere. Alla tradizione aristotelica si deve l’acquisizione della fisiognomica nella cultura dell’età ellenistica e romana, nonostante siano rilevabili riserve e ripulse di questa dottrina da parte di svariati autori e tendenze culturali. Ostile alla fisiognomica era in linea generale lo Stoicismo, anche se nel suo ambito essa trovò un sostenitore in Posidonio. Nell’ambito dello stesso Aristotelismo la dottrina non doveva godere di un favore unanime : i Caratteri di Teofrasto delineano una tipologia che sembra prescindere deliberatamente dal riferimento ai tratti fisiognomici. Presa di distanza dalla fisiognomica è stata segnalata in Plutarco (Sassi 1992), mentre una più favorevole ricezione evidenzia Dione di Prusa (Bost-Poderon 2003). Altre ricadute della fisiognomica sono rilevabili in ambiti diversi, per l’interesse che poteva presentare la descrizione dettagliata dei tratti fisiognomici : così per es. negli ambiti della ritrattistica (Winkes 1973 ; Elsner 2007), delle maschere teatrali (Raina 1989), dell’attestazione giuridica (Caldara 1924) e della biografia (Stok 1998). Al di là della contrastata ricezione della dottrina in ambito culturale, la fisiognomica mantenne una fortuna che sembra esser stata pressoché ininterrotta quale pratica, spesso di carattere divinatorio : un epigramma dell’Antologia Palatina dà l’epitafio di un certo Eustene, «fisiognomo capace di capire dallo sguardo anche il pensiero» (7, 661) ; ad un certo Melampo sono attribuiti due trattati divinatori a base fisiognomica (sulle palpitazioni e sui nei)  













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fisiologia

datati al iii sec. a.C. (sono pubblicati nella raccolta curata da J. G. F. Franz nel 1780) ; a Roma è ben testimoniata l’attività dei metoposcopi (cfr. Plin. nat. 35, 88 ; Svet. Tib. 2, 1 ; Petr. 126, 3) ; alla fisiognomica divinatoria fa riferimento polemico (a favore di un diverso tipo di divinazione) Artemidoro (onir. 2, 69); pratiche di questo tipo sono testimoniate dai rotoli del Mar Morto (Popovic 2007). In età imperiale il principale esponente della fisiognomica fu Polemone di Laodicea (circa 110-144 d.C.), autore di un trattato di cui restano una traduzione araba e la parafrasi curata nel iv secolo da Adamanzio. Retore ed esponente di rilievo della Seconda Sofistica, rivale di Favorino ed amico dell’imperatore Adriano, Polemone (su di lui cfr. Philostr. VS 1, 23 ; cfr. Gleason 1995 e Swain 2007) riprende, per l’attenzione prestata ai tratti del volto e alle analogie con i tipi animali, la tradizione peripatetica, ma prevede anche l’uso divinatorio della fisiognomica (come del resto, secondo quanto afferma l’anonimo autore del trattato latino, anche il citato Loxus). Nella tarda antichità la fortuna della fisiognomica è attestata, oltre che da Adamanzio, anche dal citato autore del De physiognomonia, databile al iv secolo (del tutto infondata appare l’attribuzione ad Apuleio, che ha avuto una certa fortuna ancora nel secolo scorso) : si tratta in larga parte di una traduzione latina degli autori citati, con pochissime integrazioni attribuibili al compilatore (Stok 1992). L’interesse tardoantico per la fisiognomica è confermato dalla documentazione letteraria (per es. in Darete Frigio : cfr. De Biasi 1979), anche cristiana (Parsons 2006). Trasmessa al Medioevo anche dalla tradizione araba, la fisiognomica continuerà a godere di una fortuna notevole fino almeno al sec. xviii.  













Bibliografia. André 1981b ; Barton 1994a ; Bost-Pouderon 2003 ; Bottero 1974 ; Boys-Stones 2007 ; Caldara 1924 ; Daris 1993 ; De Biasi 1979 ; Elsner 2007 ; Evans 1969 ; Foerster 1893 ; Gleason 1995 ; Kraus 1935 ; Mac Armstrong 1958 ; Magli 1988 ; Marganne 1988 ; Parsons 2006 ; Popovic 2007; Raina 1989 ; Raina 1993 ; Rossetti 1980 ; Sassi 1988 ; Sassi 1992 ; Stok 1988 ; Stok 1992 ; Swain 2007 ; Villari 2003 ; Vogt 1999 ; Winkes 1973.  





















































Fabio Stok Fisiologia. 1. – Premessa storica. – Nell’antichità l’idea di fisiologia, a differenza della concezione moderna, intesa come disciplina relativa

alle principali funzioni vitali, è basata sull’accezione più alta, di scienza della natura. [1] Nel contesto della medicina antica l’idea di fisiologia con accezione moderna si incontra per la prima volta in uno scritto ps.-galenico. [2] Osservazioni e teorie sui modi di funzionamento dell’organismo umano e delle sue parti risultano spesso un po’ affastellate, farraginose e in contrasto tra loro. Si sono avuti anche per la fisiologia trattati o opere perdute relative ai principali problemi fisiologici : in queste indagini si cercava per lo più di spiegare fenomeni singoli, come umori, circolazione sanguigna, respirazione, digestione, funzionamento di organi, invecchiamento, etc. La fisiologia degli antichi è condizionata dalla mancanza di strumentazione oggettiva per lo studio delle funzioni degli organi interni : così gli scienziati ricorrono soprattutto ai sensi, come attestano alcune fonti importanti. [3] I →Presocratici, definiti da Aristotele physiologoi, [4] postulano analogie fra strutture del Macrocosmo e quelle del Microcosmo. Assistiamo poi alla evoluzione della fisiologia con →Alcmeone di Crotone, un contemporaneo, ma più giovane, di →Pitagora, di cui è scolaro, che conferisce vera dignità di scienza alla medicina. Scopre i nervi ottici e la tromba di Eustachio. È il primo a localizzare nel cervello le sensazioni e il pensiero. Si rende conto di tre fattori fondamentali per la vista : la luce esterna, il fuoco interno e il liquido delle membrane oculari. Maestro dell’anatomia e della fisiologia, compie il primo passo nello studio della circolazione sanguigna, distinguendo le vene dalle arterie. [5] Secondo Alcmeone, la salute è uno stato di perfetta armonia : la malattia è la manifestazione del perturbamento di questo stato e la guarigione, quindi, il ritorno all’armonia. Su questo principio si fonda la patologia umorale. Alcmeone smentisce che il cuore sia la sede delle sensazioni e dell’intelligenza e afferma che il pensiero risiede nel cervello. Affida tutto il suo sapere all’opera Della natura, di cui sono conservati solo frammenti in opere di scrittori posteriori, soprattutto nel Fedro di Platone. Importante è la ‘teoria dei numeri’, o, meglio, ‘teoria dell’armonia’, derivata da Pitagora. Salute e malattia dipendono da coppie di elementi opposti, come caldo e freddo, umido e asciutto, dolce e amaro, e via di seguito. La malattia trae origine dal venir meno del rapporto di equilibrio reciproco tra  

















fisiologia questi elementi. Occorre dunque evitare che un elemento prevalga sull’altro. Caratteristiche dei modelli speculativi di Alcmeone e di altri modelli simili sono rappresentazione di ritratti di coppia, opposizioni, mescolanza ed equilibrio. Nel Corpus Hippocraticum si rintracciano, accanto a imitazioni esplicite di modelli precedenti, [6] anche critiche esplicite ai modelli fisiologici precedenti ; [7] si approfondiscono studi con analogie stabilite con l’àmbito della sfera della cucina. [8] Funzioni fisiologiche fondamentali come la respirazione e la nutrizione non trovano alcun chiarimento soddisfacente. Con Aristotele, nella concezione fisiologica assumono un ruolo fondamentale cuore, sangue e vasi sanguigni. [9] Le scoperte anatomiche e fisiologiche del primo ellenismo raggiungono risultati importanti e avranno influssi notevoli sulle discipline nelle età successive ; lo sviluppo di queste branche della ricerca nel periodo ellenistico resta fondamentale. Gli studi anatomici dell’ellenismo, con trattazioni i cui contenuti sono non di rado conservati attraverso l’opera di Celso e la tradizione scientifica posteriore, contribuiscono a fornire importanti risposte a problemi fisiologici, come ad es. sviluppo degli embrioni, processi della digestione, fisiologia della respirazione, formazione e funzione degli umori etc. In →Erofilo, per le percezioni dei sensi, ruolo fondamentale ha non il cuore, ma il cervello ; lo scienziato studia la funzione fisiologica di nervi, polmoni, vasi sanguigni e del polso. [10] Nella fisiologia di →Erasistrato segno distintivo è il principio dell’horror uacui. [11] La fisiologia avrà sviluppo a Roma con →Asclepiade di Prusa, poi con gli →Stoici e gli →pneumatici, che sostengono il ruolo centrale dello pneuma per le funzioni fisiologiche. →Galeno otterrà risultati importanti nello sviluppo della disciplina. [12] Punto di partenza è la patologia umorale ritrovata in uno scritto del Corpus Hippocraticum, [13] che Galeno risistema e rinnova, collegandolo con la concezione aristotelica di ‘elementi’ e ‘qualità’. Galeno finisce, come →Aristotele, per attribuire una pluralità di funzioni fisiologiche al calore innato. Lo scienziato di Pergamo distingue tre sistemi corporali dipendenti da cervello, cuore e fegato : questi sistemi riconducono di fatto pensieri e sensazioni al sistema nervoso, al moto alle arterie e al nutrimento alle vene. Galeno distingue due specie di pneuma : accanto all’elemento vitale / animale (gr.  























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zotikón), viene a giocare un ruolo importante anche l’elemento psychikón. In questo lavoro si prenderanno in esame sia alcune funzioni più ampie dell’organismo, come 2. Digestione ; 3. Respirazione ; 4. Concepimento ; →embriologia ; 5. Crescita e invecchiamento, sia funzioni degli organi principali : →cervello ; →occhio ; →polmoni ; →cuore ; →stomaco ; →fegato ; →milza ; →intestino ; →sessualità; →liquidi organici.  

























Note. [1] Cfr. Arist. Sens. 442b, 25 ; Epicur. Ep. 1, 33, 78 ; 2, 85. – [2] Intro. 7 / 14 p. 689 K. – [3] Si veda ad es. Hp. Nat. puer. 12 / 7, 486-488 L (per la respirazione del feto) ; Hp. Carn. 6 / 8, 593 L ; Gal. Us. part. 3, 6 / 3, 274-275 K (per elaborazione e assimilazione del cibo) ; Gal. Mar. 3 / 7, 672-674 K ; 8, 3 : cfr. Mazzini 1997, 253. – [4] Cfr. p. es. An. 3, 2, 426 a 20. – [5] Vd. Sconocchia 2002, 284-285. – [6] Vict. i, 2-10 / 6, 468-486 L. – [7] vm 1 sg. / 1, 570-574 L ; Nat. hom. 1 sg. / 6, 32-36 L. – [8] Per es. Hp. vm 11 / 1, 594 L ; Flat. 8 / 6, 102 L. – [9] Vd. Distelrath 2005, col. 705. – [10] von Staden 1989. – [11] Fr. 93-96 Garofalo. – [12] Cfr. Gal. Nat. fac. /2, 1-214 K. – [13] Precisamente Nat. hom. / 6, 32-68 L.  

















Fonti. Hp. vm 1 sg. / 1, 570-574 L ; vm 11 / 1, 594 L ; Nat. hom. / 6, 32-68 L ; Hp. Flat. 8 / 6, 102 L ; Vict. i, 2-10 / 6, 468-486 L ; Hp. Nat. Puer. 12 / 7, 486-488 L ; Carn. 6 / 8, 593 L. ; Arist. An. 3, 2, 426 a 20 ; Arist. Sens. 442b, 25 ; Epicur. Ep. 1, 33, 78 ; 2, 85) ; Erasist. fr. 93-96 Garofalo ; Gal. Nat. fac. /2, 1-214 K ; Gal. Us. Part. 43, 6 / 3, 274-275 K ; Gal. Mar. 3 / 7, 672-674 K ; Ps. Gal. Intro. 7 / 14, 689 K.  





























Bibliografia. Distelrath 2005 ; Garofalo 1988 ; Grmek 1996a ; Harris 1973 ; Jouanna 1996 ; Kudlien 1962 ; Mazzini 1997, 253-287 ; von Staden 1989 ; Vallance 1990 ; Vegetti 1996c.  

















Sergio Sconocchia 2. Digestione. – Uno dei campi da cui i medici greci attingevano i fatti visibili per dedurre per analogia il funzionamento interno del corpo umano era la cucina, nella sua accezione più vasta e nei suoi meccanismi fondamentali : ‘cottura’ o ‘cozione’, ‘vaporizzazione’, ‘condensazione’, ‘coagulazione’. La digestione è vista da →Ippocrate come una cottura dovuta all’azione del calore corporeo sui cibi ingeriti. →Celso [1] ci ricorda come esistessero altre teorie, come per esempio quella della putrefazione (Plistonico), della triturazione grazie ai movimenti dello stomaco ed allo pneuma [→Erasistrato], della ripartizione in tutto il corpo dei cibi nello stato in cui sono inge 

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fisiologia

riti [→Asclepiade] : « (I Dogmatici) chiamano funzioni naturali dell’organismo quelle per cui inspiriamo ed espiriamo l’aria, per cui assumiamo e digeriamo cibi e bevande […] Poiché tra queste funzioni la digestione sembra essere, rispetto a tutte le altre, fondamentale per la cura delle malattie, a questa rivolgono la loro attenzione più grande. Alcuni, seguendo la dottrina di Erasistrato, ritengono che la triturazione del cibo avvenga nell’apparato digerente, altri, seguendo i principi di Plistonico, discepolo di Prassagora, ritengono che il cibo imputridisca ; altri ancora ritengono, con Ippocrate, che la ‘cozione’ dei cibi avvenga per il calore ; a queste opinioni si aggiungono quelle dei seguaci di Asclepiade, che affermano che tutte queste teorie sono fallaci e inutili : (essi pensano che) non vi sia alcuna digestione, ma che la materia, cruda e non digerita, come è stata acquisita, venga distribuita in tutto il corpo. E certo i dogmatici, se non hanno opinioni concordi su queste teorie, concordano tuttavia su un punto, cioè che ai pazienti, se coglie nel vero una teoria, deve essere somministrato un determinato cibo, se è vera un’altra, un altro […] ». Ma è in→Galeno [2] che troviamo l’assunto teorico più articolato : il cibo dopo una prima trasformazione nella bocca grazie alla saliva passa nello stomaco, dove è trasformato attraverso movimenti di contrazione e dilatazione e dove subisce una prima cottura. Il cibo così elaborato passa nel fegato attraverso le vene mesenteriche, la vena porta ed i vasi chiliferi, già descritti da Erasistrato come ‘vasi lattei’, mentre le impurità e i residui non cotti finiscono nell’intestino, che continua l’azione di cottura, trasformazione e passaggio al fegato tramite altre vene, separando alla fine gli ultimi residui che vengono eliminati. Il fegato è la sede della seconda cottura : qui il chilo subisce una « fermentazione e bollitura », diventando « sangue perfetto o nutritivo ». Per mezzo delle vene epatiche « il sangue nutritivo lascia il fegato e si riversa nelle vene cave » [lett. « in una vena grandissima »] attraverso le quali giunge in tutte le parti del corpo, superiore e inferiore ; « Ippocrate chiama questa vena ‘veicolo di nutrimento’ mostrando già dalla stessa denominazione anche la sua utilità : il cibo, infatti, non sarebbe stato facilmente accolto dallo stomaco nelle vene, una volta trasformato in ‘chimo’ dai cibi, né sarebbe stato facilmente accolto nelle vene del fegato, che sono numerose  





































e strette, se non si fosse aggiunta un’umidità leggera e acquosa che funge da veicolo ». Le impurità vengono eliminate dagli organi cavi che hanno il compito di attirare gli scarti degli umori per poi espellerli attraverso dei canali. Così la cistifellea attira la bile gialla ; i polmoni, lo stomaco, il cervello e le articolazioni attirano il flegma ; la milza attira la bile nera. L’urina invece rappresenta una impurità sistemica formata dal fegato a partire dalle ‘superfluità’ del sangue e degli altri umori. L’urina viene attirata nei reni dalle vene emulgenti (vene renali). Dai reni attraverso l’uretere l’urina raggiunge la vescica. Dato che attraverso questo processo di ‘cottura’ e scomposizione degli alimenti negli umori fondamentali vengono nutrite e rigenerate tutte le membra, l’alimentazione è fondamentale nel processo di mantenimento della salute.  





Note. [1] Cels. 1, Prooem. 19-22 / 20-21 M ; si veda anche Mazzini 1997, 255-256. – [2] Gal. Us. part. 4, 6 / 3, 274-275 K ; si veda anche Mazzini 1997, 256258 ; cfr. anche Gal. Us. part. 4, 3 / 3, 269-270 K ; Comp. med. sec. loc. 8, 6 / 13, 187-198 K.  







Fonti. Hp. Vict. 3, 80 / 6, 626 L ; Arist. PA 2, 3, 650 a 2-31 ; Somn. Vig. 3, 456b 3s. ; Cels. 1, Prooem. 19-22 / 20-21 M ; Gal. Nat. fac. 2, 9 / 2, 140 K ; 3, 4 / 2, 155 K ; Us. part. 4, 6 / 3, 274-275 K ; Consuet. 2, cmg Suppl. 3, [1941] 16-20.  













Bibliografia. Althoff 1997, 351-364 ; Mazzini 1997, 254-258 ; Stamatu 2005r, 893-894.  



3. Respirazione. – Per Ippocrate la respirazione ha la duplice funzione di nutrire e di raffreddare il calore interno, [1] teoria condivisa da Aristotele (e Diocle) per i quali questa serve a raffreddare il calore del cuore : quando il cuore è pieno di calore si espande, cedendo il calore ai polmoni che a loro volta si espandono richiamando aria fredda dall’esterno. L’antiaristotelismo di Erofilo lo portava invece a negare qualunque funzione di raffreddamento : la respirazione aveva dunque il solo ruolo di rifornire l’organismo di pneuma. L’aria esterna veniva inalata in seguito alla dilatazione dei polmoni e del torace ; di qui iniziava la distribuzione – secondo un meccanismo non chiaro – dello pneuma a nervi ed arterie. Lo pneuma in eccesso veniva espirato mediante la contrazione dei polmoni. Galeno [2] crede che i polmoni abbiano la duplice funzione di trasformare l’aria esterna in pneuma e di permettere  





fisiologia la fonazione. Lo pneuma così ottenuto passa nel cuore, che l’attira per diastole dal polmone quando questo inspira o espira e di qui viene distribuito nelle arterie e nei nervi (non dalle vene che sono impegnate nella distribuzione dei processi di digestione). Una parte di pneuma che dal cuore va alle meningi e nei nervi diviene pneuma psichico, veicolando così sensazioni e volontà. Le arterie, quindi, pulsano in conseguenza della spinta di pneuma dal cuore ; secondo Erasistrato (ed in parte anche secondo Erofilo) la loro diastole è in corrispondenza con la sistole del cuore.  

Note. [1] Hp. Morb. sacr. 4 / 6, 368 L. – [2] Gal. Resp. us. 1, 5 / 4, 501-515 K. Fonti. Emp. (D.-K. 31 B 100) ; Hp. Prog. 5 / 2, 122 L ; Morb. sacr. 7 / 6, 372 L ; Pl. Ti. 79 b 1 – c 9, 801 ; Arist. Resp. 2 sg. / 470 b 28 – 471 b 29 ; Resp. 8 / 474 b 13-24 ; Gal. Us. part. ll. 4-6 / 3, 266-515 K ; Us. part. 6, 10 / 3, 448-449 K ; Resp. us. 1-5 / 4, 470-511 K ; Mot. musc. 2, 6 / 4, 448 sg. K ; Ps. Gal. Intro. 11 / 14, 713-714 K.  



















Bibliografia. Furley-Wilkie 1984 ; Kurz 2005a, 122-123 ; Mazzini 1997, 258-261, Siegel 1968.  



4. Concepimento. – Il mondo antico è consapevole che il concepimento risulta dalla mescolanza dello sperma maschile e di quello femminile che devono unirsi per dare vita all’embrione. Il particolare interesse per il concepimento in sé è una costante ovvia in tutte le civiltà, con il risultato di complesse usanze e tradizioni talora incrociatesi che vanno ad influenzare il pensiero scientifico antico. In estrema sintesi si riteneva che i giorni più fecondi fossero quelli immediatamente successivi alla cessazione del flusso mestruale ; il seme dell’uomo e quello della donna non devono uscire dopo il coito ma mescolarsi tra loro, per cui può essere opportuno assumere determinare posizioni durante il coito. Per Diocle concepiscono meglio le donne robuste e virili, mentre per Sorano i corpi dei due partners non devono essere affamati, appesantiti dal cibo o ubriachi. Esistono inoltre stagioni favorevoli al concepimento, come la primavera. Le cause di sterilità femminile possono essere molteplici : di tipo anatomico-malformativo o per anomalie di temperamento che possono essere corrette mediante l’applicazione di pessari, suffumigazioni, farmaci e apposito regime. Anche il seme dell’uomo può essere inadatto a generare. [1]  





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Note. [1] Sor. Gyn, 1, 11-15 / 1, 30-43 B G M. Fonti. Hp. Aër. 21 / 2, 74-76 L ; Nat. mul. 109 / 7, 424 ; Septim. (Sp.) 8-9 / 7, 446-448 L ; Oct. 13 / 7, 458 L ; Nat. puer. 15 / 7, 492-496 L ; Hp. Mul. 1, 24 / 8, 62-64 L ; Hp. Virg. 1 / 8, 468 L ; Gal. Nat. fac. 3, 3 / 2, 150 K ; Sor. Gyn, 1, 11-15 / 1, 30-43 B G M.  















Bibliografia. Flemming 2000 ; Garland 1990, 23-25 ; Hanson 1987 ; Leven 2005i, 252-253 ; Mazzini 1997, 261-264 ; Schubert-Huttner 1999, 98-149 ; Stol 2000.  











5. Crescita e invecchiamento. – Esiste un sostanziale accordo nel mondo antico sul fatto che la crescita e l’invecchiamento siano un processo costante di modificazione della composizione del corpo, sia a livello umorale che, specialmente in Galeno, delle qualitates del temperamento. In sostanza si passa da un temperamento freddo-umido del neonato (che ha le caratteristiche della costituzione flemmatica) al temperamento freddo-secco del vecchio. La teoria dell’invecchiamento ha in Galeno un ulteriore perfezionamento teorico : l’invecchiamento è un processo di essiccamento progressivo che porta, alla fine, al dissolvimento dell’unità delle membra e quindi alla morte. In questo senso la vecchiaia non è una malattia ma una condizione naturale. Si rilegga un importante passo di Galeno : « L’embrione, in seguito al calore, a poco a poco prende una certa conformazione ; poi, diventato più secco, acquisisce come dei lineamenti e abbozzi incerti delle singole parti […] Una volta partorito, il concepito risulta sempre più secco e più forte, fino a che giunga al fiore dell’età […] Nel tempo che segue, tuttavia, divenendo tutti gli organi più secchi, le energie assolvono peggio alle loro funzioni ; l’individuo diviene più magro e debole rispetto a come era in precedenza ; divenuto poi ancora più secco e macilento, ma anche più rugoso, gli arti divengono senza forza e instabili nel movimento. Questo stato è la vecchiaia […] ed è il risultato dell’eccessiva siccità. » [1] Il rallentamento del processo di invecchiamento può essere possibile attraverso un regime appropriato (alimentazione, esercizi, bagni, etc.) di natura tale da contrastare la costante diminuzione del calore e dell’umidità naturali.  













Note. [1] Gal. San. tu. 1, 2 / 6, 4 K. Fonti. Hom. Od. 13, 398 ; Hp. Nat. hom. / 6, 32-68 L ; Morb. 1, 22 / 6, 184-186 ; Oct. / 7 / 452-460 ; Arist.  







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frutti

Long. 5, 466 b 9-13 ; Cels. 2, 1, 5 / 46 M ; 2, 1, 22-23 / 50 M ; Iuv. 10, 188-201 ; Aret. 3, 6, 2 ; Gal. Temp. 2, 2 / 1, 581-582 K ; San. tu. 1, 2 / 6, 4 K ; 5, 4 / 6, 330 K ; Mar. / 7, 666-704 K.  















Bibliografia. Brandt 2002 ; Byl 1988a ; Deissmann-Merten 1996 ; Garland 1990 ; Horstmanshoff 2005, 32-33 ; Grmek 1958 ; Gutsfeld-Schmitz 2003 ; Mazzini 1997, 270-273 ; Minoïs 1987 ; Orth 1963.  

















Fabio Cavalli Frutti. 1. Morfologia e classificazione. – « Il sapore, la figura e la forma dei frutti sono cose a tutti così note, che non hanno bisogno d’essere esposte », afferma →Teofrasto, evidenziando la notevole familiarità dell’uomo antico con la flora circostante (HP 1, 12,1). Il frutto, nella botanica teofrastea, è una parte stagionale della pianta, ed ha la caratteristca di possedere un succo, piacevole o meno (è la vicinanza o meno di un frutto all’apparato radicale di una pianta che ne determina la minore o maggiore dolcezza : Arist. Pr. 20,25 ; Theophr. CP 6,10,7). Sempre Teofrasto aveva scritto un trattato Sui succhi (HP 1,12,1), che non ci è pervenuto. La produzione di frutti (karpotokiva) è diversa da specie a specie : la differenza fondamentale consiste nello sviluppo del frutto da germogli novelli o da germogli dell’anno precedente (HP 1,14,1-2). A livello di botanica ‘scientifica’ si sottolinea come il periodo di fruttificazione è diverso, per la maggior parte delle piante, da quello di germogliamento : ciò perché il processo di maturazione del frutto richiede un più lungo sforzo della pianta (Theophr. CP 1,15,1-2). Le ragioni per cui alcune piante selvatiche non portano a compimento la fruttificazione sono diverse : l’abbondanza incontrollata di frutti, la mancanza di adeguato innaffiamento, l’ostacolo di altre piante (ibid. 1,15,3-4). Il rapporto che lega maturazione del frutto, conservazione del pericarpio e formazione del seme sono piutttosto chiari alla botanica antica (Theophr. CP 1,17-21 ; Plin. nat. 16, 105-117). 2. Frutta e alimentazione. – Dal punto di vista agroalimentare, i frutti sono generalmente distinti in ‘freschi’ e ‘secchi’ (cfr. Geop. 10,74) ; più precisa la classificazione di Plin. nat. 15 : mala (mele, pesche, melagrane, prugne, pere), ficus, nuces (mandorle, noci, castagne), carnosi fructus (more, ciliegie, bacche). La frutticoltura ha in origine un carattere ausiliario rispetto sia alle  



















colture estensive di granaglie sia a quelle di vite e olivo, ma col tempo si guadagna un suo ruolo nel mercato, e nella trattatistica agronomica (da →Columella a →Palladio). Frequente è l’accostamento del frutteto all’hortus, cioè al →giardino cittadino o suburbano. Al di là delle fonti letterarie, diversi elementi per la ricostruzione del consumo di frutta nell’antichità possono venire dall’approccio iconografico, che ricava dagli ex voto fittili rinvenuti nei santuari antichi (a volte utilmente comparabili con la produzione del folklore meridionale italiano) notizie sulla diffusione e sul consumo di diverse qualità di frutta (Meirano 2000). Bibliografia. De Angelis 1995, 13-120.

Emanuele Lelli Funghi [muvkhte~, bwli`tai, fungi, boleti]. 1. Classificazione. – Non sono molte le riflessioni sulla natura dei funghi che il mondo greco e romano ci ha lasciato e su questo tema botanico [→Botanica] siamo debitori soprattutto a →Plinio il vecchio. Lo scienziato latino attesta la grande varietà delle specie micologiche, individuandone l’origine nell’umore viscoso degli alberi. [1] Prima di lui già →Teofrasto aveva tratteggiato una meno precisa classificazione dei funghi, ponendoli insieme ai tartufi tra le piante prive di alcune parti come le radici, le foglie e i frutti (HP 1, 1, 11), sostenendo al contempo che nascono dalle radici e tra le stesse degli alberi (HP 3, 7, 6). Pochi sono anche gli accenni degli autori classici sulle tecniche di coltivazione dei funghi, che rimasero quindi un prodotto considerato selvatico. A proposito sappiamo tramite Ateneo (2, 61a) che →Nicandro, mettendo in guardia sulla pericolosità di certe specie, consigliava di coprire con del letame un tronco di fico e lasciarlo macerare con dell’acqua per ottenere funghi innocui. Nei →geoponica (12, 41, 2) leggiamo invece che i funghi nascono spontaneamente dalla terra di montagna, sulla quale si ammassano legna secca e altro materiale combustibile da incendiare poco prima dell’arrivo della pioggia. Agli Antichi non era infatti sfuggito il fatto che i funghi hanno il loro habitat ideale nella terra umida e marcescente, sviluppandosi di norma in seguito alle piogge (Ov. met. 7, 393 ; Plin. nat. 22, 94). Tra i vari tipi di miceti di cui abbiamo notizia solo pochi possedevano un proprio nome, mentre per la maggior parte essi erano  



funghi designati da un aggettivo o da un genitivo che ne specificava l’habitat (es. fungus albus o ferulae fungus). [2] Come per molti altri prodotti, infatti, gli Antichi basavano le loro suddivisioni su più o meno oggettive caratteristiche come il colore o la forma, pratica del resto invalsa anche nella scienza moderna. Il colore soprattutto sembra essere la peculiarità discriminante, fondamentale anche quando si tratta di distinguere i funghi velenosi (Plin. nat. 22, 92). Sotto la nomenclatura di boletus (bwlivth~) gli Antichi identificavano probabilmente parecchie specie di miceti, appartenenti alle Amanitae, di cui esistono tipi sia mangerecci che tossici. Già →Plinio (nat. 22, 92-93) descrive alcune caratteristiche degli uni e degli altri. Con ogni probabilità il tipo prelibato di cui parla →Apicio (7, 15) è la Amanita caesarea, cioè il nostro ovolo buono. [3] Il mussirio, non altrimenti noto, è annoverato da Antimo (38) tra i boleti migliori. Interessante soprattutto notare che proprio dal termine antimiano deriva la voce inglese mushroom (‘fungo’). [4] I boleti sono infine protagonisti del grave episodio di avvelenamento che portò alla morte dell’imperatore Claudio (vd. infra, 3. Tossicità dei funghi). Un’altra tipologia importante è il fungus farneus, da identificare forse con il nostro ‘gallinaccio’ (l’attributo farneus indica la pianta dove il fungo, secondo le credenze antiche, nasceva. Si tratta forse del frassino). [5] Anche l’agaricum (ajgarikovn) è ben noto agli autori classici, soprattutto per le sue doti curative (vd. sotto la sezione Funghi in medicina). Il nome deriva forse dalla ’Agariva, regione della Sarmazia [→Dioscoride (3, 1, 2)], ed in effetti anche Plinio (nat. 25, 103) individua nella zona del Bosforo l’origine della qualità migliore. [6] Secondo le nozioni botaniche antiche [→botanica], ricavabili dagli stessi passi, questo era di colore candido e se ne distinguevano due specie : una maschio, dalle fi bre più forti e dal sapore più amaro ; una femmina, più morbida. Va identificato col Laricifomes officinalis (o Polyporus officinalis), cioè il nostro ‘fungo del larice’. Il suillus, corrispondente al moderno porcino, deriva il nome dal lat. sus, cioè «maiale». Secondo Plinio (nat. 16, 31) nasce tra le radici delle piante, da cui deriva le proprie caratteristiche. I suilli delle querce sono infatti i migliori, mentre quelli del rovere, del cipresso e del pino risultano tossici. A questi miceti è legata la morte per avvelenamento di Anneo Sereno (vd. infra, 3. Tossicità dei fun 













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ghi). Ancora, il fungus albus (cioè ‘bianco’), così chiamato per la sua colorazione, era noto altrimenti come pratensis e corrisponde al nostro ‘prataiolo’, molto comune nei campi lavorati (Hor. sat. 2, 4, 20 ; Ov. fast. 4, 697). Dall’aspetto cromatico deriva anche il nome del fungo qui rubet callo (‘fungo dalla pelle rossa’), la cui identificazione non è certa. [7] Tra gli altri tipi va inoltre ricordata almeno la pezica (gr. pevzi~), appartenente al grande genere dal nome scientifico Pezica, che annovera circa cento diverse specie, o a quello Lycoperdon, di cui gli Antichi notarono la caratteristica assenza di radici e gambo (Teophr. HP 1, 6, 5 ; Plin. nat. 19, 38). Infine, ancora Plinio (nat. 19, 63) ci parla della spongea, una tipologia di fungo che nasce dall’umidità dei prati, appartenente al genere scientifico Morchella, le cui varie specie sono note in italiano col nome di ‘spugnole’. Tra i miceti va annoverato anche il tartufo (u{dnon, tuber), sebbene la speculazione botanica dei Classici non si esprima apertamente in tal senso. Sia Teofrasto (HP 1, 1, 11) sia Plinio (nat. 19, 63) ne trattano comunque nelle sezioni dedicate ai funghi. Il primo lo considera un vero e proprio ‘miracolo’ della natura, perché capace di nascere e svilupparsi senza radici. Secondo Diosc. 2, 145, 1, invece, lo stesso tartufo sarebbe proprio una radice. 2. Uso culinario. – Greci e Romani ebbero una diversa stima dei funghi in cucina. Fu solo con i secondi, infatti, a partire soprattutto dal i sec. d.C., che questi assunsero il ruolo di pietanza nobile e particolare. Presso i Greci, invece, compaiono nel misero pasto di poveri personaggi. [8] Una specie estremamente prelibata era senz’altro il boletus, che accompagna in importanti occasioni conviviali cibi raffinati come ostriche, tordi e cacciagione (Sen. ep. 95, 26 ; Mart. 7, 78 ; 13, 50). Petronio, nel descrivere il cattivo gusto e le vanagloriose imprese culinarie tentate da Trimalcione per impressionare i suoi ospiti, ci racconta di semi di boletus fatti addirittura giungere dall’India (38, 4). Anche l’imperatore Tiberio doveva esserne un estimatore, se donò una somma considerevole ad Asellio Sabino per aver scritto un dialogo in cui questi erano protagonisti insieme ad altre prelibatezze (Svet. Tib. 42, 2). Il suillus doveva essere invece meno pregiato, se Marziale gli preferirebbe i boleti (3, 60, 5). Molto apprezzato in cucina era anche il fungus farneus, come  











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funghi

sappiamo da Apicio (7, 15), il quale ci restituisce alcune ricette. Questo veniva bollito e poi lasciato essiccare con garum e pepe, oppure cucinato con sale, olio [→olivicoltura], vino puro [→viticoltura] e coriandolo tritato. [9] Più complessa la preparazione dei boleti, per i quali conosciamo due diverse ricette per due differenti parti del fungo. Le cappelle, infatti, erano asperse di sale e cucinate con garum, mentre i gambi erano posti in padella con un sofisticato miscuglio di pepe, levistico officinale, [10] miele ed un poco di olio (Apic. 7, 15). Esattamente come oggi, anche sulle tavole degli Antichi i tartufi godevano di grande nomea. Come gli altri funghi venivano cucinati con parecchi condimenti, quali sale, garum, olio e pepe (Apic. 7, 16, 316-317). Curiosa infine è la notizia restituitaci da Ateneo (3, 113c), secondo cui il boletus dava il nome ad un tipo di →pane fatto a forma del fungo. 3. Tossicità dei funghi. – Gli Antichi si dimostrano pienamente coscienti della pericolosità che l’uso culinario dei funghi comportava. Per esempio Dioscoride spiega che anche i funghi mangerecci, se consumati in quantità eccessive, possono provocare disturbi intestinali, essendo per natura difficili da digerire (4, 82). Nell’immaginario collettivo del passato è soprattutto un episodio ad essere connesso a questo aspetto negativo del consumo di certi miceti, cioè quello dell’avvelenamento dell’imperatore Claudio (41-54 d.C.) da parte della moglie Agrippina. Pare infatti che questa si servì proprio di un boletus, di cui Claudio andava ghiotto, per uccidere il coniuge (Plin. nat. 22, 92 ; Svet. Claud. 44, 2 ; Tac. ann. 12, 66-67). Normalmente il boletus era uno dei funghi più apprezzati (vd. supra, 2. Uso culinario), perciò commestibile, e fu opportunamente trattato allo scopo di risultare letale (in Svetonio leggiamo infatti boletus medicatus, cioè ‘avvelenato’). Nonostante ciò, grande fu l’eco dell’episodio, tanto che Plinio, riferendosi proprio alla sorte toccata a Claudio, giudica tali funghi tra i cibi cui bisogna accostarsi con cautela (nat. 22, 92). Secondo altre fonti (Mart. 1, 20, 4 ; Iuv. 5, 147), sarebbe stato un semplice boletus la causa del decesso, quindi un fungo di per sé velenoso, identificato da alcuni nella Amanita muscaria, ma la prima ipotesi rimane più probabile. [11] Quindi la fama di cibo infido accompagnò sempre i miceti, perché a volte tossici per loro stessa natura, o capaci di nascondere altri vele 











ni e perciò adatti a scopi nefandi. Funghi considerati invece più sicuri erano quelli dalla pelle rossa, mentre anche i suilli erano tristemente noti come causa della strage, accorsa durante un banchetto, in cui perì Anneo Sereno, alto funzionario imperiale sotto Nerone (Plin. nat. 22, 96). Per quanto concerne l’origine della velenosità dei funghi, gli Antichi avevano un’opinione radicata in credenze popolari tramandate fino ad oggi. Secondo i greci Nicandro (Al. 521 sgg.) e Dioscoride (4, 82), le sostanze venefiche penetravano nelle fi bre di quei miceti nati in prossimità delle tane dei serpenti o di ferri arrugginiti ; opinioni riproposte successivamente anche da Plinio (nat. 22, 94-95). Era quindi l’habitat a determinare certe caratteristiche. A causa di tale latente pericolosità, anche alcuni procedimenti culinari adottati nella preparazione dei funghi avevano il duplice fine di rendere più appetitose le portate, ma anche e soprattutto di garantire un margine di sicurezza contro le intossicazioni. Il ricorso all’ebollizione, secondo le avvertenze di Plinio (nat. 22, 99), era un utile strumento per distinguere le qualità più pericolose. Le ricette che prevedono la cottura promiscua di funghi, carne [→carne, consumo di] e picciolo di pera [→frutti] si rivelano più sicure (Plin. nat. 22, 99). →Celso spiega che i funghi perdono ogni tossicità se fatti bollire in olio o se vi si aggiunge un ramoscello di pero (5, 27, 12). Sull’efficacia delle pere selvatiche si pronuncia Dioscoride (1, 116). Validi contravveleni erano reputati anche l’aceto ed il miele (Plin. nat. 22, 10 ; Ath. 2, 61d), così come utile era l’uso del coriandolo e del porro (Plin. nat. 20, 47). 4. Funghi in medicina. – L’uso dei funghi nella →medicina greca e romana è piuttosto limitato. Un’importante eccezione è il caso dell’agaricum, che invece compare numerose volte in →Plinio il vecchio con varie finalità, per esempio come antidoto contro le punture degli scorpioni [→animali velenosi] (nat. 25, 119) [12] o come aiuto alla funzionalità dei →reni (nat. 26, 38). Lo stesso ha inoltre funzione lassativa (nat. 26, 54), permettendo di evacuare i cattivi umori (Marcell. med. 30, 34). In certi casi deve essere assunto con acqua o vino, insieme al sale, mentre mangiato secco è efficace contro le patologie dello →stomaco (Plin. nat. 26, 32). Ancora, il fungus caninus (letteralmente ‘fungo del cane’, di difficile identi 



fuochi e tecniche incendiarie ficazione) compare in un composto adatto alla cura degli occhi [→Pelagonio, 443]. Tra le doti del suillus si possono ricordare quelle contro i reumatismi e le imperfezioni della pelle (Plin. nat. 22, 98). Note. [1] Vd. Maggiulli 1977, 23 sgg. – [2] Vd. Maggiulli 1977, 31 sgg. – [3] Vd. Maggiulli 1977, 45 sgg. – [4] Dalby 2003, 224. – [5] Vd. André 1981a, 87 sgg. ; Maggiulli 1977, 113 sgg. – [6] Maggiulli 1977, 87 sgg. – [7] Maggiulli 1977, 61 sgg. – [8] Vd. Maggiulli 1977, 151 sg. – [9] Il coriandolo (coriandrum, korivandron) è una pianta i cui semi sono usati in cucina per aromatizzare i cibi. – [10] Il levistico officinale (ligusticum) era una pianta aromatica usata anche in Medicina. – [11] Vd. Maggiulli 1977, 54 sgg. – [12] Vd. anche Diosc. 3, 1, 5.  

Bibliografia. André 1981a ; Dalby 2003 ; DosiSchnell 1986a e b ; Garnsey 1999 ; Maggiulli 1977 ; Wrobel-Creber 1998.  









Francesco Fiorucci Fuochi e tecniche incendiarie. Il fuoco fu da sempre considerato un’arma dalle potenzialità distruttive enormi. Già un poeta e filosofo latino come →Lucrezio (5, 1281-1286) era ben cosciente delle ancestrali connessioni tra l’uomo ed il fuoco come strumento di potere e morte. Nell’immaginario culturale dell’Antichità greca e romana il fuoco incuteva terrore nei nemici e la sua azione era indissolubilmente legata alla distruzione delle città. Infatti, benchè quest’ultimo potesse essere usato anche negli scontri campali, fu soprattutto in occasione degli assedi che i grandi conquistatori del passato se ne servirono. Già gli Assiri vantavano l’uso del fuoco contro le città ostili nel ix sec. a.C., mentre Erodoto (8, 52) ricorda le frecce incendiarie rivolte dai Persiani contro i difensori di Atene nel 480. I suoi effetti devastanti erano ben conosciuti sia dagli assedianti che dagli assediati ed un suo corretto impiego poteva anche cambiare le sorti dello scontro. Molte parti delle fortificazioni e delle case, infatti, come anche delle macchine poliorcetiche [→polemologia], erano costruite in →legno e quindi particolarmente vulnerabili al fuoco. Secondo →Enea Tattico (33, 1), per esempio, bisognava gettare materiale adatto alla combustione contro le macchine in avvicinamento, per poi incendiarle con l’aiuto della pece. Per proteggersi invece dai tentativi di incendio dei nemici era necessario servirsi dell’aceto, al quale era-

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no attribuite particolari doti ignifughe. [1] Sull’uso bellico del fuoco siamo informati da numerose fonti storiche, che abbracciano l’intero arco cronologico dell’Antichità, fatto che dimostra la fortuna di cui tale arma godette nel tempo (vd. Th. 2, 77, 2-6 ; →Senofonte (HG 3, 1, 7) ; Plin. nat. 35, 174-177 ; Tac. hist. 4, 23 ; Amm. Marc. 20, 11, 19). Per incrementarne l’azione distruttiva venivano aggiunte paglia, la già ricordata pece e varie sostanze bituminose. [2] →Vegezio (mil. 4, 8, 1) suggerisce la preparazione di bitume, zolfo, pece liquida ed olio contro le macchine d’assedio nemiche. Una delle prime occasioni in cui fu usato un congegno incendiario fu durante l’assedio di Delio da parte dei Beoti (424 a.C.), che proprio grazie a quest’astuzia riuscirono ad impadronirsi della città. Gli assalitori distrussero infatti le palizzate lignee degli assediati servendosi di una specie di grosso mantice che soffiava dentro un calderone pieno di carboni e pece, collegato a sua volta ad un tubo che produceva così una fiammata (Th. 4, 100, 1-4). Anche nella guerra navale le frecce ed altri sistemi per propagare il fuoco erano largamente utilizzati. Sappiamo per esempio da Frontino (strat. 4, 7, 8) [→stratagemmi : Frontino e Polieno] che l’ammiraglio romano Gneo Scipione fece scagliare delle anfore ricolme di pece e resina sulle navi cartaginesi per alimentarne l’incendio. La flotta fu ancora il bersaglio dei famosi specchi ustori ideati da →Archimede in occasione della difesa di Siracusa, assediata dai Romani nel 214-212 a.C. Sebbene sulla realtà storica di tali macchine, di cui siamo informati da fonti piuttosto tarde, non sussista piena evidenza, resta il fatto che il matematico greco escogitò un artificio per incendiare le navi avversarie. [3] Gli stessi vascelli potevano trasformarsi in enormi bombe incendiarie da scagliare contro i nemici. →Arriano (An. 2, 19) ci racconta nei particolari che i difensori della città di Tiro, cinta d’assedio da Alessandro  















Fig. 1. ‘Fuoco greco’, rappresentazione bizantina (da Mayor 2005).

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fuochi e tecniche incendiarie

Magno nel 332 a.C., riempirono con materiali combustibili una grande nave da trasporto, attesero un vento favorevole e salparono alla volta del terrapieno fatto innalzare dal Macedone, su cui erano sistemate le torri e le macchine poliorcetiche, che vennero così distrutte dal gigantesco incendio che ne seguì. [4] Non solo il fuoco, ma anche il fumo poteva rivelarsi un pericoloso alleato, se correttamente incanalato e rivolto contro i nemici impegnati nello scavo di una galleria sotto le mura, secondo le avvertenze di Enea Tattico (37, 3). Tra le armi incendiarie un posto d’onore spetta senz’altro al cosiddetto ‘fuoco greco’, l’arma più potente di cui gli arsenali dell’Impero Bizantino potessero disporre, che consentì alla flotta imperiale di garantirsi un predominio indiscusso sul Mediterraneo per circa cinque secoli e respingere i ripetuti tentativi di conquista araba. [5] Venne infatti utilizzato per la prima volta nel 673 d.C. dall’imperatore Costantino iv Pogonato nella battaglia di Cizico contro la flotta araba che assediava Costantinopoli. Si trattava di una miscela esplosiva, liquida o semiliquida, estremamente infiammabile e resistente all’acqua, che solo l’aceto e la sabbia potevano estinguere, usata per incendiare le navi avversarie o qualunque altra cosa che poteva essere aggredita dal fuoco. La definizione f. g. veniva usata non dai Greci, ma dagli stranieri ; infatti i Greci utilizzavano l’espressione uJgro;n pu`r, «fuoco liquido, fuoco marittimo», oppure, poiché si consideravano eredi diretti dei Romani, rJwmai`on pu`r «fuoco romano». In merito alla sua composizione, tra le teorie avanzate recentemente, v’è l’ipotesi secondo la quale esso era costituito da petrolio grezzo unito a fosfuro di calcio, materiali che i Bizantini ottenevano sfruttando i loro giacimenti di idrocarburi. Sembra che la miscela avesse anche la capacità di provocare irritazioni agli occhi e alle mucose. È molto probabile che l’idrocarburo utilizzato fosse in realtà nafta e che le altre sostanze mescolatevi fossero soprattutto salnitro e calce viva. L’utilizzo di quest’ultima sostanza spiegherebbe il perché l’acqua non possa spegnerlo : infatti la calce viva (ossido di calcio, CaO) è altamente igroscopica, cioè ha una notevole capacità di assorbire l’umidità circostante in modo tale da mantenere inalterato il punto di infiammabilità della miscela. Le notizie riguardanti l’esatta composizione del fuoco greco sono scarse, perché esso fu posto tra i segreti di  







Stato da Costantino Porfirogeneto ; lo stato bizantino, infatti, lungi dal rivelare i suoi segreti militari, impose il silenzio su tutto ciò che riguardasse una simile arma. Anche se l’invenzione del fuoco greco viene attribuita agli artiglieri bizantini, in particolare ad un certo Callinico, un ingegnere di Eliopoli (Siria), che casualmente nel corso dei suoi esperimenti di →alchimia ottenne questa miscela; da certe notizie storiche e letterarie sembra che si tratti in realtà solo dell’ultima ‘fase’ di una ‘ricerca’ intrapresa in Oriente già ai tempi dell’antico Impero Persiano e continuata da altri popoli tra cui i Greci dell’Asia minore. Già ai tempi della guerra tra Achei e Troiani, Omero fa riferimento ad un micidiale ‘fuoco eterno’ e ‘fuoco instancabile’ lanciato dai difensori contro le navi greche e capace di produrre una ‘inestinguibile fiamma’. [6] La storia di quest’arma chimica sembra dunque legata ad alcuni dei primi esperimenti condotti dall’uomo sugli idrocarburi, in particolare sul petrolio, già utilizzato agli albori della civiltà in Mesopotamia. Si parla dell’uso bellico di sostanze infiammabili infatti già durante le guerre persiane, come anche nella conquista della Grecia da parte di Roma (che chiamava la nafta ‘olio di Media’). Una testimonianza molto importante è quella di Giulio Africano (iv secolo d.C.), che descrive una formula per la preparazione di un ‘fuoco automatico’ a base di nafta (o bitume), zolfo, pirite, tutto pestato in un mortaio, cui si aggiunge succo latteo di sicomoro nero e il preparato va chiuso in vasi di rame al riparo dai raggi solari. La sua è l’unica testimonianza sulla preparazione di qualcosa di molto simile al fuoco greco che ci è giunta. L’utilizzo di una simile miscela micidiale richiedeva la messa a punto di strumenti e macchinari adeguati per lanciarla. Le uniche testimonianze dirette pervenuteci sono delle illustrazioni presenti in alcuni codici bizantini che mostrano una sorta di ‘lanciafiamme’ rudimentale, posto sulle imbarcazioni e capace di colpire e infuocare il fasciame delle navi nemiche che, anche per il modo stesso con cui venivano costruite [→nautica], cioè coi comenti (interstizi) dello scafo impermeabilizzati tramite calafataggio (applicazione di pece) e fibre vegetali, erano ancor più facilmente attaccabili dal fuoco greco Secondo l’imperatore Leone vi nei suoi Tactica, il fuoco greco veniva  



fuochi e tecniche incendiarie lanciato contro il nemico attraverso dei tubi di rame. Il lancio era preceduto da uno scoppio che incendiava ed espelleva la sostanza. Dunque questo lanciafiamme rudimentale era forse costituito da un tubo in bronzo e da una sorta di ‘otre’ applicato alla parte opposta alla bocca da fuoco che veniva pressato per fare fuoriuscire la miscela dopo essere stata incendiata. Si tratta di una ipotesi verosimile, ma presumibilmente la gittata sarebbe stata troppo corta, per cui si è ipotizzato l’uso di caldaie che dovevano portare la miscela fino all’ebollizione per garantire un getto a pressione costante e quindi una lunga gittata ; tutto questo, ovviamente, presupponeva un sofisticato sistema di valvole e pompe, ma soprattutto avanzate nozioni di fisica dei liquidi [→idraulica] da parte degli ingegneri bizantini. Queste, nono 

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stante le notizie pervenuteci, restano purtroppo soltanto ipotesi, dato che non risultano ritrovamenti archeologici di alcun tipo, mentre è più che certo che il fuoco greco venisse lanciato anche scagliando con le catapulte vasi di terracotta pieni della sostanza già incendiata mediante uno stoppino. Note. [1] Vd. Bettalli 1990, 321 sgg. – [2] Vd. Forbes 1936. – [3] Vd. Dijksterhuis 1956, 26 sgg. – [4] Vd. anche Curzio Rufo (4, 2, 24). – [5] Vd. Partington 1999. – [6] Hom. Il. 15, 592-599 ; 16, 122-129.  

Bibliografia. Bettalli 1990 ; Crosby 2002 ; Davidson 1973 ; Dijksterhuis 1956 ; Forbes 1936 ; Garlan 1974 ; Grmek 1979 ; Mayor 2003 ; Partington 1999 ; Pasch 1998, 359-368.  

















Francesco Fiorucci · Giuseppe Lupini

G Galenismo. 1. La fortuna e l’eredità dell’opera di Galeno. – In vita →Galeno conosce fama e gloria in tutti i campi dello scibile, dall’esercizio della professione medica allo studio da teorico, filosofo e filologo, e si presenta come modello da seguire, rivelando i suoi problemi di salute e le lezioni che ne ha tratto. Galeno diventa così fonte e summa di tutta la letteratura medica precedente, favorendo l’imporsi del principio di autorità e del dogmatismo. [1] È ad Alessandria che, dopo la morte, Galeno diventa punto di riferimento grazie alle basi teoretiche della sua dottrina, alla sua costante relazione con il naturalismo, con la dottrina dei quattro elementi e con la teleologia di Aristotele ; Galeno supera la dialettica tra le scuole mediche scegliendo gli elementi più validi e funzionali alla sua dottrina da autori e scuole differenti, tanto che nella speculazione fisiologica entra in contraddizione con Aristotele avvicinandosi a Platone per la concezione di uno penuma tripartito maturata a seguito delle pratiche vivisettorie e per la collocazione delle funzioni vitali nel cervello, nel cuore e nel fegato. L’insicurezza metodologica e le discrasie tra ricerche anatomiche, osservazioni cliniche e schemi teorici influiscono sulla mancanza di sistematicità della sua produzione. Proprio nella scuola medica di Alessandria si avverte l’esigenza di dare un ordine alle opere di Galeno e si crea un canone di sedici scritti dalla successione prestabilita : sono i celebri Summaria Alexandrinorum. La scuola di Alessandria è fonte, inoltre, di un certo numero di commenti antichi : a Palladio è attribuito un frammento manoscritto in greco databile al vi sec. con la lista delle sètte mediche e con la divisone e della medicina nelle sue varie parti e a Agnello da Ravenna è attribuito un codice della Biblioteca Ambrosiana (Codex Ambrosianus Gr. 108), contenente dei commenti latini (De sectis, Ars Medica, De pulsibus ad Teuthram e Methodus medendi). [2] Tuttavia è la tradizione araba ad aver tradotto e conservato meglio l’opera di Galeno rispetto alla tradizione alessandrina, a quella siriana e a quella bizantina. La monumentale opera di traduzione di Galeno in arabo è compiuta nel ix sec. da Ḥunayn ibn Isḥāq. Di origine arabo-cristiana, Ḥunayn studia a Costantinopoli e segue le lezioni del maestro Yuḥannā. Se la medicina erudita professionale  





è, nel ix sec., dominio dei medici siriani, inizia contemporaneamente una ricezione in arabo di Galeno ad opera di burocrati e alti funzionari del califfato soprattutto per soddisfare tra i musulmani più influenti il desiderio di sapere enciclopedico. Grazie all’opera di Ḥunayn e della sua scuola si pongono le basi per lo sviluppo del pensiero scientifico arabo che nei secoli successivi apporta elementi innovativi rispetto alla medicina galenica nella fisiologia umorale e nella sintesi tra filosofia, naturalismo aristotelico e fisiologia galenica operata da Avicenna (980-1037), autore, in ambito medico, del Canone della Medicina. Punto di riferimento degli studi medici e filosofici fino al xvi sec., l’opera di Avicenna tenta di conciliare Aristotele e Galeno, filosofia e medicina, affidandosi, ad esempio, in ambito anatomico, alla descrizione delle parti del corpo in base alle loro funzioni, senza aver mai praticato dissezioni. Nella Spagna musulmana Averroè segna una inversione di tendenza rispetto ad Avicenna, respingendo le innovazioni di Galeno apportate ad Aristotele e le ambizioni filosofiche del Pergameno. [3] Note. [1] L’autorità di Galeno inizia ad imporsi già nell’opera di Oribasio (iv sec. d.C.), vd. Collectiones medicae. – [2] Vd. Temkin 1973 e JacquartMicheau 1990, 57-80. – [3] La fama di Avicenna e Averroè è testimoniata da Dante, che nel quarto canto dell’Inferno (Inf. 4, 115-144), inserisce i due filosofi tra gli ‘spiriti magni’. Bibliografia. Garofalo 2005, 319-321 ; GarofaloVegetti 1978 ; Jacquart-Micheau 1990 ; Strohmaier 1993, 167-215 ; Temkin 1973.  











Daniele Monacchini Galeno. 1. Vita – Abbiamo ampie notizie della vita di G. dai suoi stessi scritti ; [1] ma, se per molti autori classici la scarsità d’informazioni rende accidentata la ricostruzione della biografia, nel caso di G. è proprio l’abbondanza di testimonianze biografiche a imporre prudenza. G. scrive in una epoca nella quale la medicina è dominata dai conflitti tra scuole mediche e nella quale ogni discorso medico è frutto di questa polemica ; pertanto nessun dato biografico è neutro. [2] Nato a Pergamo intorno al 129, [3] dall’architetto chiamato Nicone, influente personaggio della realtà municipale, G. conta tra i suoi avi geometri e appassionati  







galeno di calcolo. Intraprende gli studi di medicina e filosofia all’età di sedici anni su invito del padre per essere avviato, [5] dapprima, agli studi della filosofia platonica, stoica, epicurea e, soprattutto, aristotelica e, in seguito, allo studio delle sectae medicae (dogmatica, empirica e pneumatica). G. inizia a viaggiare per approfondire le sue conoscenze di medicina, prima a Smirne, con Pelope, poi a Alessandria, dove si dedica allo studio dell’anatomia e della farmacologia, seguendo le lezioni di Numisiano. Nel 157, ritornato a Pergamo, diviene medico della scuola dei gladiatori e acquisisce ampie conoscenze nel campo della chirurgia. In questi anni G. inizia a viaggiare a scopi scientifici (Cipro, Palestina, Lemno, intorno al 162), Conosce e si procura alcuni prodotti rari di origine vegetale e animale. [6] Nel 162 si reca a Roma, dove acquista fama tra gli aristocratici grazie a una serie di dimostrazioni pubbliche in cui ricorre alla vivisezione e alla dissezione (→chirurgia). A seguito di una epidemia di vaiolo torna a Pergamo nel 166. [7] Nel 169 viene richiamato a Roma da Marco Aurelio e cura una virulenta peste dilagata nell’accampamento dell’esercito romano ad Aquileia, dove l’imperatore (il fratello Lucio Vero era morto alla fine del 168) sta preparando una spedizione contro i Germani. Il secondo soggiorno a Roma segna l’inizio di un’attività scientifica molto intensa, tra il 169 e il 180 (morte di Marco Aurelio), come archiatros del medico dell’imperatore. [8] G. continua ad esercitare l’attività come medico di corte anche sotto il successore di Marco Aurelio, Commodo (180-192), sotto Settimio Severo (192-211) e sotto Caracalla (211-217). Muore intorno al 215. 2. Opere. – La produzione scientifica è la più vasta e varia dell’antichità. Non si sono conservate tutte le sue opere, specie quelle non di carattere medico. G. stesso, nel De libris propriis, [9] ricorda che una parte consistente dei suoi scritti venne distrutta durante l’incendio del Tempio della Pace (192). Le opere di G. sono divise da lui stesso in sette gruppi : anatomia, patologia, terapeutica, diagnostica e prognostica, commentari degli scritti del Corpus Hippocraticum, filosofia e grammatica-filologia. Il Corpus Galenicum raccoglie più di 440 trattati galenici e pseudo-galenici. Gran parte degli scritti sono giunti a noi in greco, alcuni in traduzioni latine o arabe, altri in frammenti. Di questi 72 appartengono alla categoria dei [4]













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commentari. Testi in traduzione araba o latina [11] continuano a essere rinvenuti: lo studio del manoscritto Vlatadon 14, che ha conservato alcuni trattati o parti di trattati, come ad esempio il De Libris propriis, alimenta la speranza che altri se ne aggiungano, come nel caso del De Hippocratis scriptis genuinis, del De experientia medica, del De empirica subfiguratione e dell’opera In Hippocratis de äere aquis locis librum commentaria. L’edizione di Kühn (182133) continua ad essere di riferimento per tutte le edizioni critiche recenti. Le opere edite nel Corpus Medicorum Graecorum contano diciannove volumi (ai quali si debbono aggiungere quattro volumi nel Supplementum e quattro nel Supplementum Orientale). Tra le più rappresentative includiamo : la Qerapeutikh; mevqodo~, Methodus medendi, il più noto testo terapeutico dell’antichità, conosciuto come Megatechne, e la Tevcnh ijatrikhv o Ars medica, nota come Microtechne, in cui è condensato tutto il sistema di G., e che ha rappresentato il testo fondamentale per l’insegnamento della medicina per secoli. All’inizio dell’Ars Medica G. distingue i tre modi d’insegnamento della medicina (didaskalivai) : il primo parte dalla nozione e procede per analisi (ajnavlusi~), il secondo parte dalla sintesi (suvnqesi~), il terzo parte dalla scomposizione della definizione (hJ ejk o{rou diavlusi~), e G. dichiara di utilizzare quest’ultimo nel trattato per perseguire l’obiettivo della medicina, ossia la salute. [12] 3. Anatomia-fisiologia. – G., come la sua educazione e la sua formazione possono testimoniare, attinge alla tradizione filosofica platonica, alla fisica aristotelica e, per quanto riguarda la medicina, nonostante gli errori e le omissioni, al costante confronto con l’autorità di Ippocrate. Infatti da un lato, nel De placitis Hippocratis et Platonis, il Pergameno mette in relazione l’anatomia con la filosofia platonica, dall’altro, nel testo intitolato De usu partium, si confronta con la filosofia aristotelica. Nell’ambito della fisiologia è importante il De facultatibus naturalibus, con nozioni rilevanti, relative a vasi sanguigni, vene e arterie. La fisiologia di G. si basa, dunque, su un principio ‘simpatetico’ consistente nell’armonia tra gli elementi e le parti del corpo: le attività fisiologiche rispondono a leggi di attrazione e repulsione reciproca dei contrari e le facoltà naturali sono i mezzi con cui la natura agisce: emopoietica nelle vene e nel fegato, digestiva nello stomaco, pulsativa nel cuore. Tuttavia il Pergameno si distacca, nel complesso della sua ope 







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galeno

ra, dal Maestro di Cos, non considerando più la malattia come una perturbazione dell’armonia, ma come un’alterazione dei singoli organi. Per questo G. non riconosce più l’azione riparatrice della natura, ma indaga i sintomi della malattia e, trovati tali segni, ricorre all’uso di farmaci per bilanciare lo squilibrio degli umori (bile gialla, bile nera, flegma e sangue). Basilare appare nelle teoria di G. la dottrina dello pneuma, costituito da psychicón (psichico o animale), che governa il cervello e il sistema nervoso, zōtikón (vitale), che regola il funzionamento delle arterie, e physikón (naturale), che controlla fegato e vene. Un altro contributo importante di G. riguarda l’anatomia, dove il Pergameno supera gli Alessandrini. Per quanto riguarda il sistema nervoso, G. descrive i nervi cerebrali e distingue i nervi motori dai nervi sensori. Nella circolazione del sangue, distingue vasi sanguigni, vene e arterie (sangue venoso e sangue arterioso). [13] G. sistema le conoscenze precedenti, grazie al controllo autoptico e tramite la dissezione e la propria esperienza di medico e chirurgo. L’importanza dello studio complessivo dell’anatomia e della fisiologia risiede nella definizione ‘teleologica’ della natura, secondo la quale parti del corpo e facoltà naturali attendono ad un loro preciso fine, strumento di una efficace polemica contro le altre scuole mediche (in primis con Asclepiade di Prusa). 4. Chirurgia. – Il ruolo di G. nell’ambito della chirurgia medica è oggetto di ricerca. Galeno concorda con Ippocrate nel definire la chirurgia come la terza via di cura, dopo la dieta e i farmaci. Tuttavia, la secondaria importanza della chirurgia in G. deriva dal suo metodo terapeutico : da un lato G. crede nell’unità della medicina e non nella medicina specialistica (dietetica, farmacologia e chirurgia), dall’altro per il Pergameno la medicina deve conservare o ripristinare lo stato naturale, cosicché sbaglia il chirurgo che è solito tagliar via le parti naturali del corpo e ostacolare le naturali facoltà espulsive del corpo stesso: per G., solo i calcoli vescicali o i tumori andrebbero operati e asportati. G., inoltre, ritorna alle pratiche ippocratiche di amputazione dell’arto alla giuntura, anziché segare l’osso, come raccomanda Celso, e di trattamento delle emorragie mediante pressione, piuttosto che con la legatura dei vasi. [14] Per questo l’opera decisiva per tramandare le pratiche chirurgiche nel Medioevo non è G., ma l’Epitome di →Paolo di egina, un compendio di testi medici redatto nel settimo secolo.  





5. Il progetto culturale di G. – La necessità di praticare un’arte insegnata ai giovani, l’utilità della riflessione sull’arte stessa nella vita quotidiana e il valore delle arti in generale per il raggiungimento della vita felice costituiscono il ‘marchio’ aristotelico e il progetto culturale del metodo medico, come emerge dal Protrepticon. [15] Il metodo nuovo iniziato da G., preso poi come esempio dalla medicina dell’età tardo-imperiale, risiede proprio nella ricerca condotta su solide basi dottrinali, e si fonda sull’esperienza, tanto che il medico non si ferma alle disquisizioni delle scuole, ma parte dallo studio della natura stessa. Il ruolo del medico deve essere, dunque, riqualificato: da uno status di puro operatore specialistico a modello d’intellettuale con un sapere universale. Così il progetto galenico si definisce nella fondazione di un sapere scientifico ricostruito sulla pluralità di tradizioni mediche, di conoscenze empiriche e di strumenti concettuali, nei quali la dimensione etica è strettamente connessa a quella scientifica.  

Note. [1] Gal Libr. Propr. / 19, 8-48 K. – [2] Boudon 2000, 119-133. – [3] Sulla cronologia di Galeno vd. Schlange-Schöningen 2003 e Nutton 1973, 157171. – [4] Gal. Libr. Propr. 11 / 19, 40 K. – [5] Nutton 1977, 191-226. – [6] De simplicium medicamentorum temperamentis ac facultatibus (Simpl. med. temp. / 12, 1-377 K) ; l’opera non apporta nuovi contributi rispetto alla farmacologia precedente, ma rappresenta uno sforzo di classificazione e di inventario dei rimedi medici. – [7] Gal. Libr. Propr. 2 / 19, 16 K ; per altri l’effetto dell’epidemia viene amplificato da Galeno, vd. Nutton 1973, 159. – [8] Nutton 1977, 191-226 e Buodon Millot 2007, lxxiv. – [9] Libr. Propr. 2 / 19, 19 K. – [10] Sulle testimonianze dei papiri Andorlini Marcone 1993, 458-562. – [11] Garofalo 1999, 9-19. – [12] Boudon 1993, 120141. – [13] Gal. Nat. Fac. 3, 11 / 2, 181 K ; Temp. 2, 3 / 1, 602 K. – [14] Mc Vaugh 1993, 375-376. – [15] Gal. Protr. 6-9 / 1, 9-21 K.  





Bibliografia. Andorlini-Marcone 1993 ; Boudon 1993 ; Boudon 1994 ; Boudon 2000 ; Boudon 2002 ; Boudon Millot 2007 ; Garofalo 1994 ; Garofalo 1999 ; Garofalo-Roselli 2003 ; Garofalo-Vegetti 1978 ; Gourevitch 1987a, 267290 ; Hankinson 1992, 3505-3522 ; Hülser 1992 ; Kollesch-nickel 1994, 1351-1420 ; Kühn 1821-1833 ; Manuli-Vegetti 1977, 211-262 ; Nutton 1973 ; Nutton 1977 ; Nutton 2004, 216-247 ; SchlangeSchöningen 2003; Tieleman 2005a, 315-319 ; Vegetti 1994 ; Vegetti 2001.  









































Daria Crismani · Daniele Monacchini

gastraphetes Gargilio Marziale. 1. L’autore. – Le fonti epigrafiche e letterarie designano G. M. con diversi nomi (Gargilius, Gargilius Martialis, Martialis o Marsial) e lo presentano come uno scrittore e un cavaliere romano della Mauritania Sitifensis (Auzia, oggi Sour el-Ghozlan in Algeria), che ricoprì diverse cariche del cursus militare nonché altre funzioni proprie ad un notabile locale. Si suole situare la sua nascita intorno al 210 e la sua morte nel 260 d.C. 2. L’opera. – G. M. fu un poligrafo e scrisse trattati tecnici di economia rurale come il De hortis e forse anche una lista molto breve ed eterogenea di rimedi contro le malattie dei buoi e delle bestie da soma, che costituì la fonte delle Curae boum, uno dei primi trattati di veterinaria antica. G. M. scrisse inoltre dei trattati medico-dietetici, tra i quali il Medicinae ex holeribus et pomis, forse anche altri due testi che trattano delle erbe e della frutta di cui ci sono pervenuti solo dei frammenti. G. M. potrebbe anche essere l’autore del De herbis femininis attribuito allo Pseudo-Dioscoride e considerato una traduzione latina rimaneggiata ed arricchita con sinonimi africani e punici di certe piante della Materia medica di Dioscoride. Gli è stata ancora attribuita una biografia di Alessandro Severo per noi perduta. Di tutte queste opere le uniche che ci sono pervenute e che sono attribuite all’unanimità a G. M. sono il De hortis e il Medicinae ex holeribus et pomis. Ciò che Servio e Palladio scrivono sul De hortis ci permette di supporre che la stesura completa comprendeva una seconda parte, oggi perduta, che trattava dell’orticoltura. La prima parte dell’opera riguarda la coltura degli alberi da frutto. Solo i capitoli sul cotogno (De cydoneis), sul pesco (De persicis) sul mandorlo (De amygdalis) e sul castagno (De castaneis) ci sono pervenuti. Il De hortis e il Medicinae ex holeribus et pomis costituivano probabilmente all’inizio un’opera unica ; le due sezioni trattavano degli stessi ortaggi, delle stesse verdure e degli stessi frutti, ma con due finalità distinte : la loro coltura per il De hortis e il loro uso a scopo terapeutico per il Medicinae. Il De hortis e il Medicinae sono a loro volta divisi in due parti : coltura degli alberi da frutto (De hortis) ed orticoltura (parte perduta del De hortis) ; effetti salutari di diverse erbe e verdure (Med. ex holeribus et pomis, capp. 1-39) ed effetti salutari di diversi frutti e verdure (Med. ex hole-

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ribus et pomis, capp. 40-60). Il Medicinae conta sessanta capitoli di varia lunghezza compilati a partire da fonti scritte (soprattutto i libri 19, 20 e 23 della Historia naturalis di Plinio e la Materia medica di Dioscoride, ma anche alcuni trattati di Galeno) ed orali (credenze popolari). Il Medicinae tratta degli effetti provocati da certe erbe, certe verdure e certi frutti su un organo o una parte del corpo, e descrive l’uso dei vegetali a scopo curativo. Nel Medicinae non figura nessuna descrizione botanica di queste piante ; se ci fidiamo dei pochi capitoli del De hortis che ci sono pervenuti, è molto probabile che tale descrizione dovesse trovarsi nei passi perduti di questo trattato. I rimedi prescritti e le pratiche terapeutiche contenuti nel Medicinae rientrano nella pratica di una medicina immediata (euporista). Le medicine più potenti – cui è dedicato il iv libro della Materia medica dioscoridiana di cui, però, G. M. non tiene conto – sono deliberatamente lasciate da parte perché questi preparati sono spesso complessi e potenzialmente pericolosi. G. M. si preoccupa di segnalare al lettore dei preparati ben noti che sono già stati sperimentati, piuttosto che delle ricette rare dall’efficacia non garantita. Le affezioni prese in considerazione sono anch’esse semplici, facili da diagnosticare e da curare (p. es. coliche, stitichezza, dissenteria, tosse, mal di testa, etc.). G. M. non ha dunque l’ambizione, a differenza di Celso, di comporre una summa medica, ma decide di rivolgersi ad un lettore profano che s’interessa alla medicina e che desidera curare se stesso o i suoi familiari. G. M. scrive insomma un manuale pratico ed utile in parecchie situazioni della vita quotidiana.  

Edizioni. Maire 2002a ; Mazzini 1988.  

Bibliografia. Maire 1997 ; Maire 1999 ; Maire 2000 ; Maire 2002a ; Maire 2002b ; Maire 2002c ; Maire 2003a ; Maire 2003b ; Maire 2007.  















Brigitte Maire









Gastraphetes [gastrafevth~, gastraphetes]. Il gastraphetes rappresenta, dopo l’arco, il primo strumento adatto a scagliare una freccia a lunga gittata e può essere quindi considerato l’antesignano di tutti i pezzi d’artiglieria. Come spiega già →Erone di Alessandria nel suo manuale Belopoeica (75 sgg.), dove ne viene descritta la costruzione, il suo sviluppo deriva proprio dall’arco a mano, di cui sfrutta il medesimo principio. Il gastraphetes è infatti costi-

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gemino di rodi gni avevano dimensioni maggiori rispetto alla prima versione ed erano pertanto muniti di un piedistallo per essere manovrati e di un argano per permettere il caricamento della corda. I pezzi più imponenti erano lunghi anche 5 m ed erano in grado di scagliare proiettili di pietra di oltre 20 kg. Note. [1] Marsden 1969, 5 sgg. Bibliografia. Campbell D. B. 2003b ; Marsden 1969 ; Marsden 1971 ; Russo 2004 ; Sàez Abad 2005b.  







Fig. 1. Gastraphetes (da Russo 2004).

tuito da un’asta di legno, su cui si innesta orizzontalmente il vero e proprio arco composito, con i due flettenti e la relativa corda. La forma dell’arma ricorda quindi quella della balestra medievale. Caratteristica è la parte finale, rappresentata da una sezione lignea semicircolare, contro cui si appoggiava il ventre dell’arciere nell’operazione di caricamento e da cui deriva anche il nome dell’attrezzo (da gasthvr, «stomaco, ventre»). Una delle grandi innovazioni tecniche del gastraphetes consisteva proprio in questo diverso sistema di caricamento, tramite il quale la tensione della corda raggiungeva livelli impossibili con l’arco a mano, aumentando di conseguenza in modo notevole la potenza di rilascio della freccia. Inoltre il corpo del mezzo, sul quale veniva poggiato il dardo (all’interno di una scalanatura), garantiva una maggiore stabilità e quindi una migliore precisione nel puntamento. Migliorata risultava anche la fase di rilascio, che spettava ad un meccanismo a grilletto e non più alla sola mano dell’arciere. Probabilmente tutte le parti vitali, compresi i flettenti, erano costruite in legno ed altri materiali che assicuravano resistenza ed elasticità, sebbene alcune interpretazioni abbiano tentato di dimostrare che fosse invece impiegata una lega d’acciaio. [1] L’impatto del gastraphetes sui primi campi di battaglia, che lo videro operativo, dovette essere non indifferente, poiché la sua gittata massima è stata calcolata in circa 200 m., una distanza ben maggiore rispetto a quella coperta da un arco da guerra. Sotto la medesima nomenclatura conosciamo anche altre macchine [→meccanica] ben più complesse, di cui ci parla →Bitone (61 sgg.). Sappiamo infatti di due tipi di gastraphetes ideati da Zopiro di Taranto, che ebbero reale impiego in occasioni di scontri a Cuma e Mileto. Questi conge 

Francesco Fiorucci Gemino di Rodi. Astronomo, matematico, geografo ed astronomo greco, vissuto nel i sec. a.C., oltre ad opere non pervenute, di cui rimangono pochi frammenti, scrisse una Isagoge o Introduzione ai Fenomeni. L’opera, scritta probabilmente tra il 70 ed il 55 a.C., [1] è ispirata dall’intento di assimilare nell’ambiente greco saperi e tecniche babilonesi. Composta da diciotto capitoli, il suo contenuto riguarda la struttura della sfera celeste, elementi di geografia astronomica, i movimenti della Luna e del Sole, la variabilità della durata del giorno e delle stagioni. L’opera è conclusa da un calendario astrometeorologico, la cui attribuzione a G. non è però del tutto sicura. G. scrisse inoltre un’epitome ai Meteorologica di →Posidonio, di cui Simplicio riprende un importante passaggio nel commento alla Fisica di →Aristotele, ed un’opera, anch’essa perduta, Sulla teoria delle scienze matematiche, strutturata in dodici libri.  

Note. [1] Aujac 1975, xix sgg. ; Bowen-Todd 2008, 344-345.  

Bibliografia. Aujac 1975 ; Bowen-Todd 2008, s.v. Geminus, in EANS 344-345 ; Gundel-Gundel 1966, 103 sg. ; Urso 2002, 120.  





Carmelo Lupini Geografia. 1. Geografia e cartografia. – Sulla scienza geografica antica dice già qualcosa il termine che la Grecia coniò (è attribuito per primo a →Democrito), e che ha lasciato in eredità alla nostra cultura : non scienza o studio della terra, ma per l’appunto ‘geo-grafia’, disegno della terra, in forma di carta geo-grafica. Cosí va inteso l’ambiguo elemento gravf-, «disegnare» o «scrivere», nel composto gewgrafiva, che al suo etimo rimase sempre piú vicino del nostro geografia, anche se conobbe poi un uso  

geografia piú esteso. In esso fu sempre avvertito l’elemento gh`, «terra», inteso come tutta la terra : cosí ne codificò l’uso ancora →Tolomeo, tanti secoli dopo, riservando la definizione di gewgrafiva alla carta di tutta l’ecumene, non di sue parti limitate, oggetto della corografia (cwrografiva v ). Le testimonianze di una primitiva attività cartografica nell’età arcaica e nella prima età classica, in piccolo numero ma altamente istruttive, segnano i primordi della nostra storia. Esse attestano gli inizi di un vivo interesse che accompagnerà la g. greca (e poi europea) per tutto il suo svolgimento, pur nell’assai diverso status che ebbe la carta nell’Antichità, in confronto all’età moderna. Oggetto di infiniti sforzi e di accalorate discussioni fra i dotti, essa rimase in sostanza estranea agli usi pratici in cui oggi la incontriamo quotidianamente. Beninteso, assai diverso è il caso della cartografia di aree molto piccole a grande scala, quella degli agrimensori romani, o dei catasti, o delle piante urbane. Questa è cosa di tutt’altro genere, riproduzione di opere umane, o guida per l’intervento umano sul territorio (p. es. la centuriatio romana), quindi attività concettualmente diversa da quella del geografo, che vuole riconoscere e far conoscere una realtà naturale, non operare su di essa (vd. Dilke 1988 a). Il punto debole della cartografia antica, se cosí si vuol dire, sembrano essere state le carte a scala intermedia, proprio quelle che noi usiamo piú spesso a fini pratici. Se pur ce ne furono, esse non raggiunsero mai un’attendibilità sufficiente a farle prendere sul serio come guida dell’azione, militare o di altro genere (vd. Janni 1984 ; Brodersen 1995). Di una cartografia nautica, che sarebbe stata tanto importante per una civiltà marina e marinara come quella antica nel suo insieme, non c’è infine alcuna menzione, neppure la minima traccia. Il parlare che qualche volta se ne è fatto non si fonda su alcuna testimonianza (vd. Janni 1998). 2. Per cominciare : l’epos arcaico. – I due poemi che vanno sotto il nome di Omero rappresentano per noi la piú antica visione del mondo attraverso occhi europei, cosí come per gli antichi rappresentavano il primo e piú augusto incunabolo della loro cultura. Molti di loro, armati di fede inconcussa nel ‘Poeta’ per eccellenza, come maestro di ogni sapere e di ogni arte, gli attribuirono profonde conoscenze geografiche, anche se nascoste sotto il velame, sebbene non mancasse chi giunse  





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a concetti piú moderni, distinguendo chiaramente poesia da scienza. Ne nacque in età ellenistica un vero contrasto di scuole, fra gli Alessandrini che, con →Aristarco di Samotracia ed →Eratostene, negavano a Omero altro intento che quello del diletto poetico, e i Pergameni, rappresentati dallo stoico Cratete, che con lo strumento dell’interpretazione allegorica scoprivano nei suoi poemi tesori di recondita sapienza, anche geografica. Noi ci limiteremo a osservare che tanto l’Iliade quanto l’Odissea mostrano una buona familiarità con i mari e le terre piú ‘di casa’, cioè in sostanza col mondo che si affaccia sull’Egeo e con la madrepatria greca fino alle isole Ionie e a Creta, piú qualche estensione fino all’Egitto, alla Libia e alla Fenicia, anche se fra immaginabili incertezze. Al di fuori di questa cerchia, che chiameremo piccola o grande secondo il metro con cui la misuriamo, sembra estendersi il buio dell’ignoto, dove si possono allogare le fantasie piú mirabolanti, pur rispettando certe concezioni tradizionali, da classificare piuttosto come cosmologia mitica : il fiume Oceano che circonda la terra, e simili. È la situazione di tante culture arcaiche, che possiedono spesso una conoscenza minuziosa e sorprendente delle regioni immediatamente circostanti alla propria, e nessuna di quelle piú lontane. Tale è almeno il quadro che il poeta o i poeti adottano convenzionalmente, ma che di certo non esaurisce quello che del mondo geografico si sapeva all’epoca in Grecia. Occorre distinguere la ‘geografia omerica’ nel senso di immagine del mondo quale è concepita convenzionalmente nei poemi, dalle conoscenze realmente possedute al tempo in cui essi si formarono, fra viii e vii secolo, pur se sul fondamento di materiali piú vecchi. Il quadro epico convenzionale era certamente in ritardo sulla realtà ; cosí, i mari di occidente, siciliani e italiani, che nell’Odissea rappresentano l’ignoto piú leggendario, erano in realtà frequentati da gran tempo dai navigatori, commercianti e colonizzatori greci : in Sicilia, c’era la colonia corinzia di Siracusa (733 a.C. !), non Polifemo, e qualche accenno a una Sicilia reale, non favolosa, scappa di bocca almeno a uno fra i poeti dell’Odissea (20, 383 ; 24, 211 etc.), forse quello che le diede l’ultima mano. E nel vii sec. era già in atto la penetrazione dei Milesii nel Mar Nero (vd. Cordano 1992, 17-28). È possibile che l’epoca precedente, quella in cui si formò la materia dei poemi,  









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geografia

avesse visto un restringimento dell’orizzonte geografico, in confronto ai piú intensi traffici e navigazioni praticati nel ii millennio, nella cosiddetta età micenea ; ad essa era succeduto un periodo di arretramento economico e culturale, l’‘età oscura’. Riflessi di conoscenze acquisite in una fase di maggior espansione e vivacità economica possono essersi conservati nell’epos in veste favolosa (vd. Dihle 1997, 9-12). Qualcosa di piú sull’Occidente mediterraneo mostra di sapere →Esiodo (vissuto nell’viii sec., secondo l’opinione più accettata), pur se in un oscuro linguaggio mitico, quando nella Teogonia (1011-1016) nomina i due figli che Circe avrebbe avuto da Ulisse, Agrio e Latino (Lati`noı), che « nelle recondite isole divine dominano sui Tirreni ». In questi accenni ai mari di occidente si è riconosciuto un ‘riorientamento’ della materia epica, in origine proiettata in direzione orientale, per effetto di una nuova familiarità con l’area occidentale, frutto del movimento di colonizzazione, forse proveniente dall’Eubea (vd. Braccesi 1993). 3. Alla scoperta del mondo. – La vera storia della g. dei Greci, il progresso e l’accumulo delle conoscenze che noi possiamo seguire e descrivere, comincia con la grande colonizzazione, fra viii e vi secolo, quella che li vide spargersi e radicarsi dalla Crimea a Cirene, dall’Anatolia a Marsiglia, sempre con occhi ben aperti sui mari e sulle terre, sul mondo della natura e su quello degli uomini. La prima notizia di un’attività intesa a registrare le nuove conoscenze, dapprima in forma grafica, cioè carto-grafica, viene dalla Grecia d’Asia, da quella Ionia che nell’età arcaica fu la vera culla della rivoluzione intellettuale greca. →Anassimandro di Mileto (intorno alla metà del vi sec.) avrebbe per primo «osato» (ejtovlmhse, dice la fonte) raffigurare la superficie terrestre su una tavola, un pivnax, come i Greci avrebbero sempre chiamato la carta geografica in quanto oggetto materiale (Agathem. 1 [1-2], in ggm 2, 471). «Osò» : nessun verbo appare piú appropriato, se pensiamo a quello che significava inaugurare una ‘vera’ cartografia (pur con tutta la sua immaturità), rompendo con gli astratti schemi mitici o leggendari, teologici o favolosi, oltre i quali altre culture non andarono mai (vd. Gehrke 1998). Incaute fantasie sono quelle di chi ha cercato accenni a primitive carte in Omero, come nella descrizione dello scudo di Achille, adorno di una raffigurazione del co 







smo (Il. 18, 468-608). Sull’aspetto della carta di Anassimandro non sappiamo nulla, ma il suo carattere di novità è attestato implicitamente da tutte le testimonianze, che raccontano di variazioni e perfezionamenti apportati a questo incunabolo di una scienza in nuce, e lo attesta soprattutto il seguito della storia. Per Anassimandro, il cui nome spicca fra quelli che la nostra storiografia filosofica usa chiamare →presocratici, la cartografia doveva essere inseparabile dalla →cosmologia, essere parte di tutta una costruzione del cosmo, fondata, come sempre nel caso di quegli antichi sapienti, su pochissimi dati positivi di osservazione. In misura molto maggiore essa era frutto di deduzione da concetti aprioristici : un modo di procedere per via speculativa da cui la scienza antica non si liberò mai del tutto (ma neppure quella medievale : i principi metafisici dell’immutabilità e incorruttibilità dei cieli, o della ‘superiorità’ del moto circolare su ogni altro, furono refutati solo dalla scienza moderna, dai Galileo e dai Keplero). Presto arriva anche la testimonianza del limite entro cui sempre restò la carta antica, oggetto di vivo interesse intellettuale e di scarsissimo interesse pratico. Erodoto racconta di un piano strategico che il Greco di Ionia Aristagora illustrò a Sparta con un pivnax geografico alla mano (inizi del v sec.), con ogni probabilità la carta di Anassimandro o un suo derivato, ma lo fa nel tono di chi riferisce una bizzarra singolarità, che risultò controproducente e non ebbe seguito (5, 49, 1). Aristofane presenterà la carta geografica, che faceva bella mostra nel frontisthvrion, il «pensatoio» del suo comico Socrate, come un’astruseria buona solo a sbalordire un ingenuo campagnolo (Nu. 206-217). La discussione attorno ai prodotti della piú arcaica cartografia si accenderà presto. Erodoto stesso riderà (letteralmente : gelw`, 4, 36, 2) delle carte di tradizione ionica, tonde come fatte al tornio, cioè ispirate a quello schematismo geometrico e preconcetto cui la geografia antica rimase sempre affezionata (compreso Erodoto stesso !), e un secolo piú tardi →Aristotele gli farà eco (Mete. 2, 326 b). 4. Itinerari e peripli. – Una prima letteratura geografica compare assai presto come descrizione di itinerari, percorsi attraverso il mondo conosciuto : si chiamerà perivodo~ (th`ı gh`~), piú di rado perihvghsi~, «giro (guidato) del mondo», se si va per terra, perivplou~, «peri 









geografia plo», se si va per mare, e si racconta una navigazione lungo costa [→peripli]. Il termine periplo è quello che più spesso capita di impiegare parlando della geografia greca, il cui punto di vista fu sempre prevalentemente marittimo, e le cui conoscenze furono in tanta parte acquisite grazie a navigazioni e imprese coloniali condotte per mare. Attraverso il movimento colonizzatore, nelle sue diverse fasi, e attraverso la loro partecipazione all’attività nautica in cui si distinsero Eubei e Focesi accanto ai leggendari Fenici, i Greci arrivarono a scoprire la forma del Mediterraneo come mare chiuso (vd. Prontera 2007/8), e a farne il centro della loro prima concezione del mondo, l’asse attorno a cui costruire la prima ‘figura’ della terra, figura nel senso piú pregnante del termine. Asse di ogni geografia rimase per i Greci sempre fondamentalmente la linea costiera, il loro vero ‘tracciato’ cui rimaneva per lo piú estranea la massa informe dell’entroterra. Le opere del genere periplografico inaugurano un filone che non verrà mai meno nel corso delle letterature antiche, affiancandosi a quello della g. scientifica, matematica e astronomica. Difficilmente potremmo ascrivere questo filone alla vera g., se procedessimo con la nostra precisa ripartizione delle scienze. Sono piuttosto vaste descrizioni che mescolano il mondo fisico col mondo umano, con la sua storia e la sua mitologia, e si avvicinano ai resoconti di viaggio, o ai ‘manuali del viaggiatore’, o ai portolani. Questa g. descrittiva occuperà sempre una posizione intermedia fra scienza e letteratura, e si sentirà sempre obbligata a mantenere un elevato livello stilistico ; piú che all’→astronomia e alla →matematica, essa sarà vicina alla storiografia (vd. Dihle 1997, 68-69 ; oggi, qualcuno giudicherebbe piú vicino a concezioni moderne questo modo di intendere la professione del geografo, in una chiave che noi chiameremmo antropologica). Della piú antica letteratura del genere è sopravvissuto solo quel tanto che passò in opere piú recenti e piú diffuse, in forma di compilazione o di breve frammento, o che fu rielaborato secoli piú tardi, o che dovette la sua trasmissione a circostanze particolarissime, a una speciale curiosità suscitata in qualcuno che si prese la cura di trascrivere il vecchio testo. Nella nebbia della piú antica storia (forse 519-512 a.C.), si intravvede la figura di Scílace di Carianda in Anatolia, il navigatore greco suddito dell’impero persiano, che per comando di Dario I discese il  



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corso dell’Indo, esplorò le coste dell’Arabia e il Mar Rosso, lasciando una relazione della quale restano pochi frammenti, oltre alle notizie trasmesse da Erodoto (4, 44; cfr. →esplorazioni estreme, 3). Pochi frammenti restano anche della sua Perivodo~ th`~ gh`~, «giro del mondo», che arrivava fino alle Colonne d’Ercole, sempre con particolare attenzione alla linea costiera. A Scilace risale forse il piú antico nocciolo di notizie che si può riconoscere, con un’analisi ‘stratigrafica’, in un vasto periplo tramandato poco scrupolosamente sotto il suo nome (lo ‘Pseudo-Scilace’, vd. l’edizione di Peretti), un testo che descriveva tutte le coste dell’ecumene conosciuta, risalente a non prima del iv secolo a.C. Fonte di conoscenze geografiche, se diamo fede alla tradizione, furono per i Greci anche le imprese di isolati navigatori, come quel Colèo di Samo (ancora un Greco d’Asia) che varcò avventurosamente le Colonne d’Ercole e arrivò sino alla leggendaria città di Tartesso, sita non lontano da Cadice (Hdt. 4, 152). Le famose Colonne, ricorderemo a questo proposito, non furono mai un insuperabile limite, un tabú, come vuole l’erudizione corrente, mal fondata anche se può richiamarsi a un’illustre tradizione letteraria che va da Pindaro a Dante ; ma è una tradizione poetica e non storica. Ben al di là di esse avrebbe navigato Eutímene di Massalía (vi sec. a.C.), vale a dire un Greco di Marsiglia, cui si attribuiva un’esplorazione della costa africana, e che ne lasciò una descrizione, perduta ma ben testimoniata (vd. Desanges 1978, 17-27). Anche delle isole dell’Atlantico si seppe qualcosa, in grado diverso nelle diverse epoche dell’Antichità. Importanti esplorazioni, che estesero i confini del mondo conosciuto, attribuisce la tradizione anche a navigatori cartaginesi, eredi della prestigiosa marineria fenicia. Conosciamo i nomi di Imilcóne e Annóne che avrebbero rispettivamente esplorato, probabilmente agl’inizi del v sec., il nord-ovest dell’Europa e la costa occidentale dell’Africa (Plin. nat. 2,169 e il cosiddetto Periplo di Annone, arrivatoci attraverso circostanze fortunose in traduzione greca) [→esplorazioni estreme, 2]. Come sempre in questi casi, è sorta tutta una letteratura che fa arrivare questi antichissimi esploratori a distanze sensazionali, con conseguenti polemiche fra gli entusiasti e i prudenti. Se si dà retta ai primi, Imilcone sarebbe arrivato almeno alle isole britanniche, in cui sarebbero da riconosce 

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re le enigmatiche ‘isole dello stagno’, di grande interesse economico, e Annone oltre il golfo di Guinea. In ogni caso, la notorietà di Annone restò scarsa, e la sua impresa ebbe poco effetto sull’avanzamento della g. Molto dubbia, anzi con ogni probabilità da relegare fra le leggende, è la circumnavigazione dell’Africa compiuta da anonimi Fenici agli ordini del faraone Neco, fra vii e vi secolo (Hdt. 4, 42-43) [→esplorazioni estreme, 2]. Piú precisamente, si tratta proprio di una ‘leggenda geografica’, nata e tramandata a dimostrazione di un’ipotesi che all’epoca faceva discutere, quella dell’Africa come grande penisola aggirabile per mare ; non sarà l’ultima leggenda dello stesso genere, leggenda ‘tendenziosa’, nel corso della g. antica (vd. Desanges 1978, 7-16 ; Janni 1994). Non bisogna dimenticare, a questo proposito, che l’estensione dell’Africa nel senso della latitudine fu sottovalutata nell’Antichità, in misura variabile ma sempre considerevole, in tutte le sue epoche (ma anche piú tardi : la sottovalutavano ancora i Portoghesi quando ne intrapresero la circumnavigazione). Nella piú antica letteratura geografica greca, la palma della celebrità spetta a Ecatèo di Mileto (vi-v secolo), uno dei primissimi prosatori greci, anzi il primo fra quelli di cui si sappia qualcosa di attendibile. Greco d’Asia, quindi suddito persiano (tale nascerà anche Erodoto), viaggiò molto, anche se non si sa esattamente quanto, grazie alle possibilità offerte dal tollerante impero, che andava dall’Egeo all’Indo, dall’Asia centrale all’Egitto. Nella prima cultura geografica greca, l’impero persiano dovette avere una parte notevolissima, cosa non soprendente. Immensamente esteso e multinazionale, esso rappresentò per i Greci la finestra aperta su un mondo tanto piú vasto del loro ; e molte informazioni di fonte persiana sono riconoscibili in questi primi autori. Nuovo doveva essere, nel giro del mondo di Ecateo, l’intento sistematico di dare forma alla terra, dividerla fra continenti, Europa e Asia, e introdurvi le prime rudimentali ripartizioni e classificazioni, nel mondo fisico come umano. Questo sembrano attestare le testimonianze antiche e i pochi frammenti che restano dell’opera, malauguratamente perduta. Autore di un testo letterario, Ecateo non dimenticò la cartografia : la stessa fonte che attribuisce ad Anassimandro il merito di primo disegnatore di una carta, cita Ecateo fra coloro che ‘miglio 









rarono, corressero’ quell’arcaico prodotto. La sua opera geografica, fondata in buona parte sull’osservazione personale e su concezioni originali, restò a lungo una fonte cui molti attingevano. Un principio di distinzione, anzi di opposizione, fra Europa e Asia, fra Oriente e Occidente, ispirerà anche un’opera ascritta alla letteratura medica, tramandata nel Corpus Hippocraticum [→Ippocrate] (forse intorno al 410 a.C.), ma non priva di rilevanza per etnografia, climatologia e G. : il trattatello ionico su Arie, acque e località (Peri; ajevrwn uJdavtwn tovpwn), vero archetipo di tutte le teorie climatiche, le teorie sui caratteri umani condizionati dal clima, che non spariranno piú dalla cultura occidentale (vd. Pinna 1994). 5. Erodoto : non solo storia. – Terreno solido sotto i piedi troviamo finalmente con Erodoto, che di Ecateo fu erede, anche se qualche volta polemico erede. Colui che una vecchia retorica chiama ‘padre della storia’, è quasi in altrettanta misura geografo ed etnografo, almeno per ampia parte della sua opera, cioè nei primi quattro libri fra i nove che la tradizione intitolò ciascuno a una musa. Anche lui viaggiò come Ecateo, e anche nel suo caso la reale estensione dei suoi viaggi è controversa : che cosa ci sia di vero nelle sue affermazioni di ‘autopsia’, e quanto di millantato, è un ghiotto terreno di indagine e di polemica per i critici, fra scettici e credenti ; il ventaglio delle opinioni è ampio (vd. Nenci 1994). In Erodoto c’è di tutto : discussioni sulle forme di terre e mari, fino a un abbozzo di tutta l’ecumene e dei continenti in cui essa si divide, nella forma di quella ‘cartografia verbale’ che gli antichi praticarono tanto spesso (4, 36-41) ; esame di teorie fisiche come quelle sulla piena estiva del Nilo, il paradosso naturale che affascinò tutta l’Antichità (2, 24-27) ; ampie notizie su civiltà e costumi esotici, elaborate in pagine che gli potrebbero valere il titolo di padre della moderna antropologia culturale, non meno che della storia (p. es. quasi l’intero iv libro, il cosiddetto ‘logos scitico’). Pur contemporaneo o successore dei filosofi presocratici, Erodoto non si addentra molto in quella che noi chiamiamo piuttosto →cosmologia, ma non manca di criticare, anche in forma ironica e beffarda, certe concezioni tradizionali che sapevano troppo di mito arcaico o di costruzione preconcetta (vd. sopra), come l’Oceano inteso alla maniera omerica, o i favolosi Iperbòrei dell’estremo nord. Erodoto inaugura per noi la lunghissima serie di congetture, tesi opposte  













geografia e discussioni accanite, sull’Oceano e sulla sua continuità tutt’attorno alle terre emerse, sulla tesi che tutto l’Oceano fosse suvrrou~. Prevaleva la concezione dell’ecumene-isola, circondata su ogni lato dalle grandi acque, ma piú come eredità del mitico fiume Oceano che come frutto di esperienza ; piú d’uno la contestò (vd. p. es. →Ipparco, fr. 8 Dicks), ed Erodoto stesso non se ne fidava, e ammetteva l’Oceano solo dove la sua presenza era stata constatata de visu. Accanto ad essa trovava i suoi sostenitori anche quella opposta, delle terre che circondano i bacini marittimi (cosí deciderà →Tolomeo) ; e ci furono altre combinazioni in cui vennero disposti i dati via via disponibili. Arcaica resta l’immagine erodotea della terra, piana e sormontata dalla cupola emisferica del cielo, l’immagine che è stata concepita da tante culture tradizionali, e che solo la scienza greca superò con la scoperta della sfericità della terra. L’orizzonte dell’ecumene conosciuta coincide per lui sostanzialmente con l’estensione del mondo greco, madrepatria e colonie, e dell’impero persiano. Sull’occidente e sul settentrione europeo Erodoto ha idee molto incerte, come saranno a lungo quelle dei suoi successori : il nome dei Pirenei era già arrivato alle sue orecchie, ma egli lo prese per quello di una città, Pyréne (Purhvnh), « sita nel paese dei Celti, fuori delle Colonne d’Ercole, da cui viene il Danubio, con un corso simmetrico a quello del Nilo » (2, 33). Sul nord-est dell’ecumene, al di là delle colonie greche del Mar Nero settentrionale, Erodoto ha sentito raccontare solo molte favole, come quelle narrate nel poema degli Arimaspi, opera del leggendario Aristèa di Proconneso (intorno al 550), del quale possiamo farci un’idea attraverso pochissimi frammenti e qualche citazione : un viaggio nelle sconosciute terre che un giorno si chiameranno Russia e Siberia, fra popoli fantastici e portenti di ogni specie. In tutto questo, non è mancato chi ha cercato barlumi di vera geografia, ma con risultati molto incerti ; qualcosa in queste fantasie rispecchia probabilmente delle realtà, ma queste non sono piú riconoscibili. Favole, in parte destinate a lunga fortuna, Erodoto ne ha sentite raccontare anche sull’India. Quanto all’Africa, ne conosce poco o nulla oltre la fascia mediterranea, dove sorgeva l’importante città greca di Cirene, ma anche qui ci sono molte confusioni, p. es. nelle ingarbugliate notizie sulle montagne dell’Atlante, oltre alle  













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solite storielle su popoli dalle caratteristiche strabilianti. In compenso racconta di aver visitato a fondo l’Egitto, che per gli antichi non fu mai veramente africano, e gli dedica un intero libro di G. fisica e antropica (il secondo), pieno di notizie utili ma anche di cantonate. Erodoto rappresenta una fase arcaica anche in letteratura, l’epoca in cui si concepisce il libro come un repertorio di notizie utili o interessanti a vario titolo, senza molta specializzazione e senza lo scrupolo di un ordine sistematico, per materie. L’autore racconta ciò che ha visto e indagato : questo significa historía (iJstoriva o iJstorivh nella forma ionica), la parola che il lettore incontra sulla soglia stessa delle Storie, e sotto la cui insegna si mescolano materiali che noi divideremmo fra almeno tre generi : storia, g. ed etnografia. La svolta arriverà con Tucidide, il creatore di una storia il cui fuoco sono esclusivamente gli avvenimenti politici e militari, le battaglie e i trattati di pace, quella che per tutta la nostra cultura successiva diventerà la storia e contro cui si è levata in tempi recenti anche una certa insofferenza, dopo l’ammirazione incondizionata di cui Tucidide aveva goduto nel xix secolo e oltre. Di g., negli storici antichi, ne resterà molta, e noi ne facciamo tesoro, ma nella forma dell’excursus, e in funzione del racconto di guerre e conquiste, anche se qualche volta essa tende a ridiventare fine a sé stessa, in appositi capitoli, per accontentare la curiosità del pubblico (vd. Lanzillotta 1988). Lo storico antico descrive il teatro degli avvenimenti con molte parole, dove uno moderno rimanderebbe semplicemente a una carta allegata al volume. La digressione geografica resterà un pezzo obbligato nel repertorio delle storie antiche, e anche nella nostra breve rassegna non potranno mancare i nomi di Polibio, Cesare, Orosio, e altri ancora. (Per scarsezza di digressioni si distingue Livio.) 6. Notizie dai confini del mondo. – L’epoca successiva, quella che vide la fine dell’egemonia ateniese, la fase di caotici conflitti fra le città greche, e che si concluse con l’arrivo dei Macedoni e con l’avventura di Alessandro, non conobbe un grande allargamento delle conoscenze geografiche. →Plutarco ha dipinto due volte (Nic. 12, 1 ; Alc. 17, 4) il quadretto degli Ateniesi che alla vigilia della spedizione contro Siracusa (416 a.C.) disegnano in terra, nei luoghi pubblici, la carta della Sicilia, per chiarirsi le idee su di un paese che per la loro geografia  





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era già abbastanza remoto ; su tutto quello che stava a nord e a ovest di esso si sapeva comunemente ancora meno, tranne quel tanto di coste mediterranee frequentato dai coloni di Marsiglia e simili, dominio cartaginese permettendo. La famosa spedizione dei Diecimila di →Senofonte rimase entro i confini dell’impero persiano, quindi in terre già note, e poco di sostanziale aggiunse a quello che più o meno si sapeva da un pezzo. Su una parte dell’impero piú lontana, sull’India occidentale (letteralmente ‘il paese dell’Indo’, press’a poco l’odierno Pakistan), scrisse un’opera andata perduta, ma in parte ricostruibile, il medico greco Ctesia, che in Persia era diventato archiatro imperiale (negli anni 405-398/7), opera piena di racconti mal compresi e male assimilati, o di semplici favole, che sarebbero rimaste a lungo popolari nella tradizione europea. Da Ctesia vengono i popoli mostruosi di tanta letteratura medievale e della scultura gotica, quelli che ci incuriosiscono nei portali e nei capitelli delle cattedrali. Isolata e senza il seguito che avrebbe meritato, rimase la straordinaria spedizione intrapresa nei mari del nord dal Greco massaliota (marsigliese) Pítea, forse all’epoca di Alessandro, fino alle isole britanniche e alla leggendaria Tule, sulla cui incerta identificazione si è scritto di tutto. Nella sua perduta opera, frutto del viaggio audacissimo e citata comunemente sotto il titolo L’Oceano (Peri; jWkeanou`, ne restano i soliti frammenti), Pitea avrebbe dimostrato la sua competenza fisica e astronomica compiendo osservazioni sulle maree e sulla durata del giorno alle alte latitudini [→esplorazioni estreme, 1]. Audacia di navigatore e autentico interesse scientifico raramente andarono di pari passo nell’Antichità, come nel caso di Pitea, ma purtroppo non gli valsero del tutto la reputazione meritata. →Ipparco (fr. 54 Dicks) e altri gli diedero credito, ma successivi scrittori di cose geografiche lo trattarono da ignorante e millantatore, rinunciando a trarre profitto dalle sue acquisizioni. Un rappresentante della teoria in questa epoca fu lo storico Eforo di Cuma (iv sec. a.C.), anche lui interessato ai confini del mondo, che tanto avevano stimolato la fantasia mitica e le congetture dei dotti (vd. Romm 1999). La sua ecumene quadrangolare risale a fonti arcaiche, alle primitive concezioni ioniche ‘domicentriche’, con la terra piana e l’orizzonte fisso, scandito dai punti  

estremi del sorgere e tramontare del sole nel corso delle stagioni. Gli angoli del quadrilatero di Eforo sono segnati da quattro importanti popoli ‘estremi’ (in senso orario, cominciando dal nord-ovest : Celti, Sciti, Indiani, Etiopi), con una facile sistemazione schematica che ebbe grande fortuna, e della quale restarono le tracce per secoli. 7. La terra sferica. – Con Pitea, pur rimanendo nell’ambito delle concrete conoscenze di mari e terre, entriamo anche in quello della teoria geografica, che già prima, tra v e iv secolo, aveva visto la scoperta piú grandiosa, gloria immortale dello spirito greco, quella della sfericità della terra. A differenza di altre, essa non si lega a nessun nome preciso. Solo come curiosità della storia intellettuale ricorderemo che ci fu chi volle scoprirla addirittura in Omero (Cratete di Mallo, presso Gem. 16, 27, che se ne indigna ; Strabone, 1, 1, 20, è possibilista), o anche in Esiodo (Diog. Laert. 8, 48), col solito espediente dell’interpretazione allegorica. Del pari è senz’altro da respingere l’isolata notizia su Talete di Mileto (vii-vi sec.), improbabile assertore della terra sferica, al pari di quella analoga su Anassimandro (notizie rispettivamente in Aezio (Placita 3,10,1) e Diog. Laert. 2,1-2). Insistente, ma storicamente poco fondata è anche l’attribuzione della prima intuizione alla semileggendaria figura di Pitagora (seconda metà del vi sec.), che avrebbe concepito la rivoluzionaria idea non certo come frutto di osservazioni scientifiche ma sulla base delle sue note concezioni misticheggianti : eccellenza e perfezione della sfera, sola forma degna di essere attribuita alle grandi realtà del cosmo, e cose simili. Il secondo nome che le fonti citano in questo contesto è quello di →Parmenide, il filosofo vissuto nella prima metà del v secolo (Diog. Laert. 9.21), anche lui un Greco di Magna Grecia, come Pitagora che in Italia era migrato dalla nativa Samo (cfr. →cosmologia, 3) La nuova concezione sarebbe insomma nata nella grecità occidentale, mentre la Ionia sarebbe rimasta per questo aspetto arretrata : ancora intorno al 400, →Democrito riteneva la terra un disco leggermente concavo ; ma tutto è molto incerto. Terreno solido troviamo solo col Fedone platonico [→Platone], che risale forse agli anni ottanta del iv secolo e si presenta come la relazione di un dialogo svoltosi nel 399 (Phd. 108 e-109 b ; cfr. 110 b). Qui, anche se il contesto, quello di uno dei cosiddetti ‘miti’ pla 











geografia tonici, è tutt’altro che scientifico, si testimonia con chiare parole che all’epoca la teoria della terra sferica circolava negli ambienti colti, pur se non accettata da tutti. Molto diversa sarà la pagina aristotelica del De caelo (2, 14, 297 b), dove la nuova dottrina non è solo asserita ma dimostrata, con una serie di prove di carattere scientifico anche se in parte discutibili. Oltre che in sé grandioso, il passo avanti era decisivo per un lungo futuro : quando l’altra sfera, la sfera celeste coi suoi poli, equatore, tropici e circoli massimi, sarà proiettata sulla superficie terrestre (forse a opera di →Eudosso, ma la cosa è controversa), nascerà la vera teoria del globo e sarà aperta la strada alla geografia scientifica, sui fondamenti che sono ancora i nostri (vd. Aujac 1992). 8. Alessandro : la scoperta del mondo procede. – Il iv secolo vide l’evento che decise il corso stesso della nostra civiltà, diffondendo su un’area vastissima, e cosí salvandola per l’avvenire, la cultura greca, patrimonio di una nazione ormai in piena decadenza politica e civile, anche se ancora capace di grande vitalità culturale e artistica. Intendiamo naturalmente la gesta di Alessandro, senza la quale (e, aggiungiamo, senza i Romani, se vogliamo fare un po’ di storia coi se) la grecità era con ogni probabilità destinata a restare un semplice capitolo di storia, illustre sí, ma isolato e concluso. La spedizione condotta dal giovane re con strepitoso successo, la conquista dell’Asia occidentale e la nascita dei regni ellenistici, furono fattori che portarono grandi novità anche in campo geografico, allargando il vecchio orizzonte, e soprattutto dando nuovi stimoli attraverso il contatto con nuove realtà naturali, climatiche ed etniche. L’abbattimento di vecchie barriere, l’ampliamento del mondo conosciuto, la rivoluzione in ogni campo che essa produsse, hanno fatto sí che l’impresa grandiosa venisse giudicata paragonabile solo alla scoperta dell’America. “La spedizione di Alessandro Magno cambiò il mondo come forse nessun altro avvenimento della storia antica” (così Dihle 1997, 51). Dal suo maestro Aristotele, Alessandro avrebbe potuto imparare non poca g., anche se di valore molto diseguale. In realtà, il filosofo non lasciò opere dedicate espressamente alla materia, e ne trattò per lo più nei suoi Meteorologica, titolo che copre un campo molto più vasto della nostra ‘meteorologia’. Qui, egli si occupava dell’estensione e  



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del posto da assegnare alla nostra ecumene sul globo terracqueo, e dell’abitabilità di esso alle diverse latitudini, concludendo che gli estremi climatici, fascia tropicale e calotte polari, di ampiezza da lui molto sopravvalutata, erano preclusi all’uomo, un errore che la sua autorità impose sfortunatamente per secoli. Preconizzava anche la navigabilità dell’oceano che separava gli opposti confini delle terre emerse, quindi la possibilità di raggiungere l’estremo oriente muovendo dall’estremo occidente, un pensiero che sarebbe stato ripreso secoli piú tardi da →Strabone e da →Seneca, e destinato al futuro che tutti sappiamo (Mete. 2, 5, 362 b). Alessandro stesso non era andato molto oltre l’Indo, non aveva sostanzialmente superato i confini del vecchio impero persiano, del quale finí per sentirsi erede, e se aveva percorso regioni di cui i Greci conoscevano a malapena il nome, lo aveva fatto in forma di rapidi attraversamenti e incursioni, da cui la geografia non trasse tutto il profitto che ci si poteva attendere. Ci furono perfino dei regressi, come il grave errore circa il Mar Caspio, considerato ora golfo dell’Oceano, con lunghe conseguenze negative per la g. di tutta la regione. Molto ingarbugliata e fallace fu anche l’immagine che ci si fece del rapporto fra Caspio, lago d’Aral, e i due grandi immissari di quest’ultimo, Oxo e Iassarte. →Tolomeo tornerà alla vecchia e corretta concezione del Caspio come mare chiuso, ma fra molti contrasti ; la verità non fu mai definitivamente accertata, fino all’età moderna. Questo perché l’enorme estensione settentrionale dell’Asia continuò a essere ignorata, per tutta l’Antichità e oltre (vd. Thomson 1965, 127-129). Ma le vecchie frontiere della conoscenza furono grandemente allargate, e dopo Alessandro tutta la visione dell’ecumene non sarà piú la stessa. Piú tardi, i suoi successori ebbero regolari contatti con l’India gangetica e coi suoi sovrani, si spinsero nell’Asia centrale col regno di Battriana, che nel ii secolo arriverà a riconquistare piú India di quella che avesse conquistato Alessandro, e coi Tolomei arrivarono a frequentare le regioni dell’alto Egitto, e ad affacciarsi sull’Oceano Indiano, aprendo la strada al commercio romano che si spinse fino alle coste del Dekkan e anche piú in là, a est del capo Comorin (è noto il caso della statuetta di una divinità indiana rinvenuta a Pompei). Ma insomma, dopo la conquista del re macedone (questa è la cosa piú importante) soffierà un vento nuovo, e la g. greca si  

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sentirà pronta per il compito di comporre in una coerente immagine cartografica, su nuove basi, tutta l’ecumene, discutendo per secoli di latitudini, di climi e dell’andamento di fiumi e di catene montuose, in un quadro che si pretenderà globale. Alessandro aveva portato con sé un piccolo seguito di scienziati, e uno staff di tecnici chiamati bematisti, addetti alla misurazione delle distanze stradali, un dato essenziale per la g. antica, come per qualunque g. ancora ignara di rilevamenti astronomici sistematici e di triangolazione. Il suo ammiraglio Nearco esplorò la costa meridionale dell’Asia già persiana, dalla foce dell’Indo al Golfo Persico, ripetendo in parte, dopo due secoli, l’itinerario di Scilace, ma stavolta con un interesse per ogni aspetto della realtà, umana e naturale, che metteva la relazione da lui lasciatane al di sopra del comune genere periplografico [→esplorazioni estreme, 3]. Di essa si è salvato solo un compendio, per opera dello scrittore greco →Arriano di Nicomedia, storico di Alessandro e funzionario dell’impero romano dai molti interessi geografici (ii sec. d.C.). Nel testo di Arriano, scritto in un artificiale dialetto ionico (omaggio alla antica iJstorivh che nella Ionia aveva avuto la sua culla), e trasmesso sotto il titolo di ’Indikhv («Scritto sull’India»), il riassunto del periplo di Nearco è preceduto da un trattatello su cose indiane, più etno- che geografico, dipendente in gran parte dal celebre Megàstene (nome oggi più popolare fra gli indologi che fra i grecisti !), che fu ambasciatore dei re Selèucidi di Siria presso i sovrani dell’India gangetica all’inizio del iii secolo. I frammenti degli ’Indikav («Cose indiane») di Megastene, con tutto il materiale che autori successivi ne trassero, sono preziosi anche per la storia del paese, che in fatto di storiografia fu sempre molto carente, come si sa. Questo resta vero anche se la sua opera appare viziata da un punto di vista troppo grecocentrico, che gli precluse la comprensione di certi aspetti della realtà indiana, come il sistema delle caste (un limite di molta etnografia antica). Una posizione di notevole originalità va riconosciuta ad Agatàrchide di Cnido (ca. 132 a.C.), che nell’Alessandria dei Làgidi ebbe responsabilità politiche e scrisse in cinque libri un’opera sul Mar Rosso ( jEruqra` qavlassa, conservata in un compendio bizantino), concetto che per i Greci abbracciò sempre tutti i mari del sud-est conosciuto, Oceano Indiano, Golfo Persico e Mar Rosso quale è  

inteso oggi. La sua descrizione di un’umanità estremamente primitiva, quella dei cosiddetti ittiofagi, ‘mangiatori di pesce’, sottende la lunga riflessione che l’etnografia ellenistica condusse sul tema dell’opposizione natura/ cultura (vd. Bianchetti 2008, 94-95). 9. La scienza ellenistica. Eratostene. – Nel iii secolo, i grandi regni nati dalla frantumazione dell’effimero impero toccano il loro zenit civile e politico, e la scienza antica dà il meglio della sua creatività, raggiungendo i traguardi più avanzati (vd. Russo 1996). Per la geografia, questo significa il passaggio da una fase di empirismo a un primo livello di scientificità. Il globo viene avvolto da una rete di coordinate, dapprima stabilite un po’ ‘a tentoni’, in dipendenza dagli aspetti della terra meglio conosciuti, poi con sempre maggiore astrazione e rigore geometrico e matematico, in stretto legame con l’astronomia. Dicearco di Messene (iv-iii sec.), allievo di Aristotele e autore anche lui di un ‘giro del mondo’, stabilì una prima coordinata, un parallelo-base, segnato sul terreno dalla catena montuosa che si credeva tagliasse gran parte dell’ecumene da ovest a est, cominciando col Tauro dell’Anatolia e proseguendo fino a quella che noi chiamiamo Himalaya, con un’immagine che esagerava la continuità di quei sistemi montuosi : il celebre diaframma, diavfragma. Questa grande divisione naturale che spartiva fra nord e sud gran parte del mondo conosciuto, doveva coincidere con un’altra, ideale e matematica, cioè il 36° parallelo nord. Su di esso si collocavano, nella sezione occidentale, lo Stretto di Gibilterra e l’isola di Rodi (correttamente), ma anche lo Stretto di Messina (erroneamente), ignorando poi la piega verso sud del grande sistema himalayano. Su questo fondamento, per un verso ancora empirico, ma per l’altro già matematico, si costruí via via il sistema di coordinate che concettualmente è ancora il nostro. Dicearco propagò anche l’opinione, risalente a Democrito e al grande astronomo Eudosso, poi rimasta per lungo tempo canonica, pur nelle diverse varianti, che attribuiva all’ecumene una forma oblunga, nel senso della longitudine (di qui l’origine della parola) e con un rapporto fra i lati di 3 a 2 (sulle fantasiose forme attribuite all’ecumene, dalla clàmide di Strabone alla fionda di Dionisio, vd. Cordano 1992, 196-198 ; lo stesso si fece per singole parti del mondo). Ma forse più celebre e rappresentativa di tutte  



geografia è la figura di →Eratostene, greco di Cirene diventato alessandrino, con incarichi ufficiali nel regno làgide d’Egitto, regno illustre per mecenatismo (fu bibliotecario ad Alessandria fra il 234 e il 196). Ad Alessandria sorsero la grande biblioteca e il Museo, un centro statale di studio e di ricerca modellato sul Perípato aristotelico, ma senza precedenti per ampiezza e ricchezza di mezzi. Studioso dalle molte attitudini e dai molti interessi, troppi a giudizio dei contemporanei, Eratostene si guadagnò da loro il soprannome di Beta, cioè eterno secondo in tutti i campi in cui si cimentò, dall’astronomia alla poesia. La sua carta dell’ecumene, in cui le forme delle terre erano definite inserendole in figure geometriche (le famose sphragĩdes, sfragi`de~, termine tratto dal linguaggio amministrativo), segnò una pietra miliare nella conquista intellettuale del mondo, e un punto fermo intorno al quale si poteva discutere ancora secoli dopo. Tutto quello che veniva prima di lui, cioè le carte di tradizione ionica, diventò vecchio, ajrcai`oi pivnake~ (Str. 2, 1, 11). La maggiore fonte di frammenti della sua opera perduta, una G. (Gewgrafikav) in tre libri, è per noi Strabone, che lo critica anche con durezza, ma che proprio così facendo ne testimonia la somma importanza. Con competenza scientifica incomparabilmente maggiore, Eratostene era già stato criticato da →Ipparco, il grande astronomo del ii secolo a.C., che trovava insoddisfacente una cartografia non fondata su un preciso rilevamento di coordinate, latitudine e longitudine, attraverso l’osservazione del cielo, bensì su incerte e casuali stime di percorsi e valutazioni ‘a occhio’. Il critico aveva perfettamente ragione dal suo punto di vista, ma l’adozione di un programma così ambizioso, che precorreva in tanta misura i tempi, avrebbe paralizzato un’attività cartografica che disponeva di mezzi ancora inadeguati. L’Antichità rilevò per via astronomica ben poche latitudini, neppure quando ciò sarebbe stato facile, per la mancanza di una vera organizzazione della scienza. Il caso dell’Italia di →Tolomeo (non un paese esotico !), la cui immagine cartografica molto difettosa si sarebbe potuta correggere stabilendo con sicurezza poche latitudini, insegna. Quanto alle longitudini, la loro determinazione rappresentò com’è noto un problema annoso che afflisse non solo la cartografia, ma anche la marineria europea di lungo corso fino al xviii  

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secolo, quando trovò una prima soluzione (non astronomica !), con la costruzione del cronometro da marina. L’Antichità escogitò il metodo delle eclissi, ma non lo mise mai in pratica, o meglio una sola volta, per quanto ne sappiamo, e con risultato gravemente erroneo (Plin. nat. 2, 180 ; Thomson 1965, 207-208). Il compromesso di Eratostene era in realtà il meglio o meno peggio che si poteva fare all’epoca. Ma ancor più che alla carta, il suo nome è rimasto per la posterità legato all’impresa della misurazione della circonferenza terrestre, questa sì condotta con metodi astronomici di perfetta scientificità, anche se molto semplici. Lo scienziato li descrisse in un apposito trattatello, anch’esso perduto. Eratostene osservò la diversa elevazione del sole, nello stesso momento, in due località dell’Egitto site sullo stesso meridiano, e la rapportò alla loro distanza lineare sul terreno, che era nota : un’elementare proporzione diede la misura cercata (vd. Dragoni 1979). L’esattezza del risultato, in ogni caso ammirevole per i mezzi dell’epoca, non è determinabile con precisione, soprattutto per l’incertezza sulla misura usata : non sappiamo in quale fra i diversi stadi usati nel mondo greco fosse espresso il risultato di 250.000 o 252.000 (secondo le diverse fonti ; la migliore è l’astronomo, o piuttosto divulgatore di astronomia Cleomède, di data molto incerta : De motu circulari corporum caelestium 1, 10, 3-5). Secondo la lunghezza dello stadio adottato da Eratostene, la sua misura andrebbe da uno sbalorditivo 39.375 chilometri, quasi troppo bello per essere vero, a un meno brillante 44.755. Osserveremo qui, una volta per tutte, che l’incertezza circa lo stadio, nome sotto cui andarono misure notevolmente diverse, da 157 a 210 metri (vario, ricordiamo, è stato anche il valore del miglio, dai Romani in poi), è uno dei piú spiacevoli punti oscuri per chi si occupa di G. antica ; ed è sorprendente che nessun autore si preoccupi di chiarire questo dato, che a noi appare fondamentale ; nessuno, mai, si cura di precisare il rapporto fra il suo stadio e un altro. Forse, era una saggia consapevolezza di quanto fossero incerte, in generale, le loro misure, sicché ogni precisione nello specificare l’unità adottata sarebbe stata illusoria e ingannevole. Tornando a Eratostene, gloriosa resta in ogni caso la concezione stessa dell’impresa, come grandissimo è il suo significato nell’evoluzione intellettuale dell’umanità : le dimensioni del  

















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mondo diventavano una quantità fisica padroneggiabile dalla mente umana, ciò che le altre culture non erano arrivate neppure a concepire. L’impresa di Eratostene fu preceduta da valutazioni di cui non sappiamo nulla, quanto ai metodi impiegati, e di cui resta solo una debole eco in Aristotele, che cita la stima molto esagerata degli imprecisati matematici, maqhmatikoiv, forse i Pitagorici (Cael. 2, 14, 298 a). Essa fu poi affiancata o seguita da altre, che non raggiunsero la stessa esattezza (cfr. Archim. Aren. 1,8 ; per il principio cui si riconducono tutti i metodi impiegati, vd. →Ipparco, fr. 37 Dicks). Bene informati siamo su quella condotta da →Posidonio (ancora in Cleom. 1, 10, 2), secondo un metodo molto piú soggetto a errore : anziché dell’elevazione del sole, prossimo allo zenit, ci si valse stavolta dell’elevazione di una stella molto vicina all’orizzonte, un valore ben piú difficilmente determinabile, e in ogni caso falsato dalla rifrazione atmosferica. Com’era prevedibile, il risultato fu di gran lunga peggiore, e peccò per difetto, restando molto al disotto del vero. Purtroppo la moneta cattiva scacciò la buona, e la geografia successiva accettò in prevalenza il valore di Posidonio, a danno di quello di Eratostene. Solo come para-scientifiche si possono poi definire le idee che in fatto di geografia nutriva il filosofo stoico e grammatico, Cratète di Mallo, bibliotecario del regno di Pergamo, e presente a Roma nel 165 a.C., come membro, insieme con altri intellettuali greci, di un’ambasceria che diventò un grande evento culturale. Accompagnata da conferenze che ebbero una vasta e lunga eco, essa rappresentò un primo diretto incontro fra la società romana e la piú alta cultura greca. Grande campione della veridicità di Omero come geografo, sostenuta da lui con la solita interpretazione allegorica, cara alla sua scuola filosofica (vd. sopra), Cratete costruiva fantasiosamente un globo in cui ciascun emisfero era occupato da due grandi isole o continenti, tutti abitati. L’Oceano, nella sua concezione, si estendeva lungo l’intera fascia equatoriale, e nutriva il sole con le sue emanazioni. Con la scienza tutto ciò ha poco a che fare, eppure le idee di Cratete esercitarono, attraverso le successive vicende culturali fra Grecia e Roma, un notevole influsso, soprattutto per quanto riguarda il problema di altre possibili terre abitate, e dei famosi, discussi antipodi (vd. Moretti 1994).  



10. I Romani. – La comparsa di Alessandro e la sua prodigiosa impresa avevano aperto un’epoca nuova, con nuove conoscenze e un nuovo modo di elaborarle. L’arrivo dei Romani, con le guerre d’Oriente che portarono a un diverso assetto del mondo mediterraneo, segna parimenti l’apertura di opportunità sconosciute all’età precedente, con un allargamento dell’orizzonte geografico, stavolta tanto progressivo e graduale quanto subitaneo era stato quello provocato dalla conquista di Alessandro. Già le guerre puniche avevano messo termine al geloso predominio cartaginese nel Mediterraneo occidentale e nelle terre che su di esso si affacciavano, primissima l’Iberia. L’Occidente si apriva ora alla curiosità di una scienza che aveva avuto la sua culla in Oriente, nell’Asia greca, e che poteva affacciarsi finalmente sull’Oceano, la vecchia entità mitica ritrovata nella realtà, stupirsi delle maree, ancora ignote ad Aristotele, e di tutto un mondo nuovo. Di maree ne sapeva poco, intorno al 260 a.C., anche un uomo di mare come Timòstene di Rodi, l’ammiraglio dei Tolomei autore di una celebre, e perduta, opera sui Porti (Limevneı), importante anche dal punto di vista geografico. Sul Mediterraneo occidentale aveva scritto, fra iv e iii secolo, un greco di Sicilia, Timeo di Tauromenio (Taormina), rimasto a lungo l’autorità sull’argomento. Ora gli eruditi greci possono spingersi in Occidente al seguito dei loro protettori romani, e perfino soggiornarvi senza troppe preoccupazioni materiali. All’Oceano, osservato e studiato dalle coste iberiche, si intitolava l’opera famosa del greco (o semita ellenizzato ?) →Posidonio di Apamea, in Siria (Peri; ’Wkeanou`, 135-151 ca. a.C.), figura di ricercatore universale, filosofo stoico ben radicato nella cultura greca ma maestro influentissimo per piú di una generazione di Romani, amico di Pompeo. Di Posidonio ebbe grande seguito la dottrina delle fasce climatiche in cui egli divideva il globo, su fondamenti già posti da Parmenide (vd. Str. 2, 2, 2), coniando per la loro designazione una serie di neologismi, precoce esempio di scienza che crea deliberatamente una propria speciale terminologia. In questo contesto, il termine climatico va sentito in stretto legame con la sua derivazione dal greco klivma, ‘inclinazione (dei raggi solari)’, e si riferisce all’insolazione che le diverse latitudini : tropicali, della zona temperata e polari, ricevono nel corso dell’anno. Nel 



geografia la scienza di Posidonio permangono anche forti elementi di colorito mitico e misticheggiante ; il suo famoso concetto di ‘simpatia’ cosmica, di legame e vicendevole influsso fra ogni cosa nell’universo, animata o inanimata, apriva la porta a ogni specie di fantasie, anche all’astrologia che proprio allora si stava affacciando in forze dall’Oriente. (Ma idee dello stesso genere nutrirono anche alcuni fra i massimi pionieri della scienza moderna : astrologo era Keplero, e perfino Newton ne scrisse di curiose.) Nel quadro di queste concezioni, Posidonio elaborò anche le vecchie teorie climatiche (in senso moderno) relative al mondo umano, in una forma che ebbe lunghissima fortuna, soprattutto per quel che riguarda le caratteristiche attribuite ai popoli del nord, idee che saranno alla radice di ben note idealizzazioni. (Occorre però ricordare che ci fu anche chi contemperò questo dottrinarismo con considerazioni piú equilibrate, tenendo conto dei fattori storici.) Nasce in quest’epoca una g. che possiamo chiamare a buon diritto ‘grecoromana’, che non ignora le vecchie conquiste ma è segnata soprattutto da un interesse pratico, vuol essere prima di tutto utile al militare che conquista nuove terre e al politico che le governa. Al suo interno, va però distinta l’eredità greca, che non perse mai il contatto, anche se qualche volta in maniera insufficiente e maldestra, con la tradizione della g. scientifica, dall’interesse romano per le descrizioni empiriche, fondate sugli itinerari terrestri e marittimi, e ignare di astronomia e di coordinate (“a milestone kind of geography”, così Thomson 1965, 334). Una differenza che Virgilio in persona fa immaginare, nel suo manifesto poetico della romanità : « Altri tracceranno meglio le vie del cielo, coi loro strumenti… tu, Romano, governerai i popoli posti sotto il tuo dominio » (Aen. 6, 849-850). Ma è anche vero che questa opposizione si interseca con quella fra la g. degli scienziati, che fu sempre cosa di una ristretta élite, e quella empirica, ben piú accessibile al grande pubblico. Su questa specie di g., che guarda al sodo, si espressero nel modo più chiaro proprio due Greci, Polibio e Strabone. Il primo rappresenta un precoce esempio di intellettuale greco romanizzato (già impegnato nella politica del suo paese, visse a Roma per molti anni, dopo il 167 a.C.) ; il secondo fu un fedele suddito dell’impero augusteo, compre 











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so di ammirazione per la capitale del mondo. Accingendosi a narrare la guerra annibalica, Polibio inserisce un celebre excursus programmatico (3, 36-37), in cui impartisce una lezione a tutti gli storici, presenti e futuri, su come si deve descrivere il quadro geografico degli eventi narrati, non con un disordinato accumulo di toponimi, alla maniera seguita da tanti altri, ma mediante una precisa costruzione spaziale, fondata sui punti cardinali. Solo cosí il lettore potrà seguire l’andamento dei fatti, e trarre il maggior profitto dalle lezioni della storia. Polibio non manca di rilevare come la conoscenza del mondo si sia estesa attraverso i secoli, prima con le conquiste di Alessandro, poi con quelle romane che hanno ormai fatto luce un po’ su tutta l’ecumene (3, 58-59). Egli stesso aveva partecipato a una navigazione esplorativa lungo le coste occidentali dell’Africa, non sappiamo per quale estensione, ma probabilmente limitata (vd. Desanges 1978, 121-147). Amava raffigurarsi come un pioniere della nuova conoscenza dell’Occidente, e dai viaggi trasse materiali per i suoi (polemici) excursus geografici conservatisi in parte, come excerpta dal trentesimoquarto libro delle sue storie. Con la sua insistenza sui punti cardinali, che spartiscono in settori l’orizzonte e tutto il mondo che sta al di là di esso, Polibio rinuncia alle conquiste della g. scientifica ellenistica, al tracciamento di meridiani e paralleli, e torna in certo modo alla fase più arcaica, a una primitiva visione ‘domicentrica’. Questo modo di concepire la g., questa convinzione di essere arrivati a un momento culminante nella conoscenza del mondo, e il senso di una vocazione pratica della scienza, chiamata a istruire chi ha responsabilità di comando e di governo, resterà caratteristica della letteratura successiva, greca e latina, con autori come Artemidoro di Efeso, Strabone, →Plinio il Vecchio, Pomponio Mela e Orosio, quest’ultimo nella variante cristiana. Di essa sono sopravvissuti esempi consistenti, molto piú che della grande letteratura scientifica greca, una delle perdite più dolorose in tutta l’eredità antica. Di g., quella dell’Africa allora conosciuta, scriverà brevemente uno storico noto per la sua vena moralistica, Sallustio, nella monografia sulla guerra contro Giugurta (capp. 17-19 ; cfr. Berti 1988). Per illustrare i capitoli geografici del Bellum Iugurthinum, che si aprono con un accenno alla divisione e  

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posizione dei continenti, il testo fu accompagnato nei codici medievali da una schematica carta dell’ecumene, di un tipo che finí per chiamarsi ‘sallustiano’, e che ebbe grande diffusione. Ma nonostante la guerra africana e il suo storico, la conoscenza del continente rimase sempre al di sotto delle possibilità che la conquista romana aveva aperto. Sull’orografia del suo nord-ovest non si fece mai piena luce, e l’andamento di tutta la costa settentrionale fu concepito in maniera molto erronea, quasi rettilineo, come sarà ancora nella carta di →Tolomeo, che ignora la forte differenza in latitudine fra Magreb, Libia ed Egitto. Artemidoro di Èfeso, che fu con successo ambasciatore della sua città a Roma, negli ultimissimi anni del ii secolo, scrisse undici libri di g., Gewgrafouvmena, dei quali resta malauguratamente solo un compendio molto scarno a opera del tardo Marciano di Eraclèa, oltre a un certo numero di frammenti, attraverso le citazioni di Strabone e di altri. Un posto, in questa sezione della nostra storia, merita anche il piú grande dei condottieri e governanti di Roma, Giulio Cesare, coi suoi excursus sui paesi in cui si svolsero le campagne narrate nel primo dei suoi commentarii, il De bello Gallico : la descrizione della Gallia divisa in tre parti ha segnato il primo approccio al latino di molte generazioni… Oltre alla descrizione della Britannia, e alle osservazioni sulla durata dei giorni e delle notti a quelle alte latitudini (5, 13), un contributo originale di Cesare fu la prima segnalazione della Silva Hercynia, la grande fascia di foreste distesa nelle terre germaniche, e proseguente verso est fino a una lontananza ignota (6, 25-28). Altre digressioni dello stesso genere sono, a giudizio della critica, di autenticità sospetta. Sul piano etnografico, la grande novità fu la distinzione, da lui riconosciuta ben chiaramente, fra Celti e Germani, fino ad allora confusi sotto il segno di una generica nordicità. La dice lunga sulla manchevole organizzazione della scienza nel mondo antico, e sui regressi sempre possibili, il fatto che gli autori greci non se ne diedero per intesi, e continuarono a chiamare Celti, Keltoiv, i Germani. 11. Geografia imperiale. – I primi secoli dell’impero, prospero e pacifico, almeno più pacifico di ogni epoca precedente nella storia greca e romana, segnano la massima estensione dell’orizzonte geografico antico (vd. Nicolet 1988 ; Prontera 1992). I limiti delle conoscenze certe e assodate coincidono in realtà coi  



confini stessi dell’impero. Su ciò che sta al di là circolano molte voci non verificate, che si raccolgono intorno a veri miti, a lungo tramandati e discussi, come la misteriosa città di Cattigara in estremo oriente, o le montagne della Luna da cui si credeva che nascesse il Nilo. In tutto questo si celano certamente dei frammenti di realtà, ma avvolti da tante incertezze e fantasie da essere quasi del tutto irriconoscibili ; questo non ha impedito che nei tempi moderni se ne dibattesse all’infinito, profondendo in queste poco fruttuose fatiche erudizione e acume. Nel senso della latitudine, l’orizzonte resta limitato a sud in sostanza dal grande deserto africano, vero confine meridionale dell’impero e di tutto il mondo mediterraneo, nonostante le non poche notizie che circolavano sulle terre al di là della formidabile barriera (vd. Berti 1988). Nessun continente come l’Africa sembra aver stimolato negli antichi la voglia di vere esplorazioni, ispirate da un puro desiderio di conoscenza, cosa cui essi erano in genere poco inclini. Già Erodoto sapeva di una presunta spedizione transahariana, da lui vista peraltro come un’audacia dissennata (2, 32-33), che sarebbe giunta a un grande fiume in cui si è voluto riconoscere il Niger (vd. Desanges 1978, 171-183). In età romana, le fonti raccontano di vari comandanti militari (o forse, in un caso, commercianti) che dalla doppia provincia di Mauretania avrebbero intrapreso spedizioni, fra strategiche ed esplorative, verso l’ignoto sud, fino a mete di molto dubbia identificazione, fra scetticismi e voli di fantasia dei critici moderni. Conosciamo i nomi di Svetonio Paolino (Plin. nat. 5, 14), Cornelio Balbo (ibid. 35-37 ; Solin. 29, 7), Settimio Flacco e Giulio Materno (Ptol. Geog. 1, 8, 5). In ogni caso si tratta di episodi saltuari che non diedero alcun frutto per la g., tranne quello di diffondere racconti sensazionali, e di alimentare ipotesi antiche e moderne sulle latitudini raggiunte da questi audaci, all’equatore e oltre (vd. Desanges 1978, 189-213). L’enigma delle sorgenti del Nilo continuava ad esercitare il suo fascino, come farà fino in pieno xix secolo. →Seneca racconta di aver parlato personalmente coi due centurioni che Nerone inviò a cercare di risolverlo, e che arrivarono a un punto molto a monte nel corso del fiume, dove dovettero fermarsi per insuperabili ostacoli naturali (nat. 6, 8, 4). Anche se Tolomeo, al solito, empie la sua carta con nomi di popoli, città e poco plausibili  



geografia fiumi, le conoscenze sull’interno dell’Africa furono in realtà sempre incerte e discordi. Per lo piú si ammetteva la teoria di una zona torrida, cioè letteralmente bruciata dal sole e inaccessibile all’uomo, una convinzione che risaliva ad →Aristotele e che sarà smentita solo dalle grandi scoperte geografiche dell’età moderna. Ne circolava anche un’altra, assai cervellotica, secondo la quale l’equatore, su cui il sole passa rapidamente nel suo apparente moto annuale, doveva essere piú temperato dei due tropici, su cui esso indugia piú a lungo : una realtà astronomica da cui si traeva una conseguenza erronea (vd. Str. 2, 3, 2, poi ancora Ptol. Alm. 2, 13, p. 188 Heiberg). Anche l’Africa di Tolomeo sarà piena di errori e di fantasie, a parte l’enorme abbaglio di congiungere il suo estremo meridionale con l’India (vd. sotto). A nord l’orizzonte arrivava fino a Ierne, cioè all’Irlanda, collocata erroneamenta a settentrione della Britannia. Si sapeva qualcosa della ‘penisola cimbrica’, cioè lo Jutland, odierna Danimarca, e qualcosa della Scandinavia, considerata sempre un’isola, con errore comprensibile. Sui Germani, Tacito scrive il suo celeberrimo opuscolo (pubblicato probabilmente nel 98 d.C.), ricco di notizie etnografiche, di valore controverso, e con qualche notazione geografica non troppo sicura, sfumante in un nord-est favoloso (46). Notizie geo- ed etnografiche di qualche interesse si trovano anche nell’altro opuscolo tacitiano, l’Agricola, celebrazione del suocero che fu comandante militare in Britannia (24). Dell’estensione settentrionale dell’Asia l’Antichità non si fece mai un concetto adeguato (vd. sopra), né ebbe mai la minima notizia dei grandi fiumi siberiani. In simmetria con la zona torrida impraticabile, anche la zona artica si credeva proibita all’uomo, del tutto gelata. A ovest, c’era il termine ben noto segnato dalla penisola iberica, oltre alle isole dell’Atlantico, Azzorre, forse Madera, di cui si avevano conoscenze insicure, ma in parte certamente fondate su autentiche scoperte, semidimenticate. Il testo piú famoso al proposito è quello dello Pseudo-Aristotele (Mir. 84), sull’isola meravigliosa scoperta dai Cartaginesi in pieno oceano, e tenuta segreta per poterla sfruttare da soli (vd. Amiotti 1988). Sul lato occidentale della costa africana si aveva qualche conoscenza (difficile dire fino a che latitudine : c’è il solito ‘sfumare’ delle fonti antiche, con le solite discussioni moderne), ma si  



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sbagliò sempre ritenendo che fosse orientata precisamente a sud, o addirittura a sud-est, contro la verità. A est la fine del mondo era del tutto incerta, e a mantenerla nell’incertezza contribuiva il nuovo impero d’Oriente, quello dei Parti, il nemico secolare di Roma. Pur non costituendo una vera, grave minaccia, esso impedí ogni stabile espansione oltre la frontiera dell’Eufrate, che vide le armi romane volta a volta avanzare e retrocedere. A lungo si credette che l’oceano orientale, cioè la fine del mondo, fosse poco a est dell’India – si arrivò a favoleggiare che Alessandro si fosse fermato sulle sue rive – poi si seppe che al di là c’erano altre vaste regioni, quelle che noi chiamiamo Indocina e Cina. Gli attivi commerci di quei mari trasmisero forse qualche notizia delle grandi isole indonesiane, Sumatra e Giava, ma di esse non si arrivò mai a farsi un’idea neppure lontanamente adeguata. Del grande popolo dell’est, i Cinesi, si ebbe sempre una nozione incerta e leggendaria, anche quando si arrivò a conoscere e ad apprezzare molto il loro prodotto nazionale, la seta. Alle soglie della Cina si arrivò per due vie, terrestre e marittima, e questo portò probabilmente a uno ‘sdoppiamento’ : si parlò nei due casi di Seres e di Sinae, senza capire che si trattava dello stesso popolo. I due nomi vivono nel nostro aggettivo serico e nel nome della sinologia ; ma in Occidente arrivò anche il nome Qi`na, Thina, antenato del nostro Cina (Peripl. M. Rubr. 64). La situazione fu reciproca : anche i Cinesi ebbero al massimo vaghe notizie dei popoli e degli imperi occidentali. Ciò non impedí che la retorica dei poeti augustei trattasse i Seres come coinvolti nella politica romana, destinati magari a essere sottomessi dall’imperatore, insieme con gli Indiani (Hor. carm. 1, 1, 2, 56) ! Una discreta familiarità si ebbe con la penisola arabica, anche se le si attribuí un’esagerata ricchezza di beni preziosi, come i profumi, e perfino una grande fecondità del suolo (Arabia felix). Diverso fu il caso dell’India : un traffico sporadico attraverso l’Oceano Indiano esisteva già al tempo dei Tolomei, ma il vero boom dei commerci si ebbe quando i Romani annetterono e riorganizzarono l’Egitto, e quando si imparò a utilizzare per l’andata e per il ritorno i venti monsonici stagionali, in spedizioni che seguivano un ciclo annuale. Racconta Strabone (17, 1, 13) che prima dei Romani, era tanto se una ventina di navi all’anno si azzardavano ad attraversare il  









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Mar Rosso e ad affacciarsi allo stretto (di Aden) ; ora grandi flotte arrivano fino all’India e ne riportano merci preziose che dall’Egitto vengono riesportate in ogni paese ; egli stesso ha visto coi suoi occhi centoventi navi partire per l’India (2, 5, 12). Orazio non faceva un’iperbole poetica quando scriveva : Impiger extremos currit mercator ad Indos (Ep. 1, 1, 45). Dal paese si importavano soprattutto beni di lusso, spezie e pietre preziose, con grave spesa deplorata dai moralisti (Plin. nat. 16, 41 ; vd. anche 6, 26 e 12, 41) ; le molte monete romane restituite dal suolo del Dekkan parlano un chiaro linguaggio (vd. Wheeler 1954, 188). Si racconterà di ambasciate indiane alla corte di Roma (D. C. 68, 15), e la leggenda cristiana farà di Tommaso l’apostolo dell’India. Sarebbe peraltro un errore credere che a questi considerevoli rapporti economici corrispondesse un analogo scambio culturale ; qui, come ad altro proposito, bisogna ribadire che le merci viaggiano molto piú facilmente delle conoscenze e delle idee, filosofiche o religiose : chi a Pompei teneva in casa la statuetta di una divinità indiana (vd. sopra) poteva non sapere nulla di quel grandioso e lontano pantheon, o nutrirne immagini del tutto distorte. Cosí pure, l’esistenza di un attivo traffico lungo la cosiddetta ‘via dell’ambra’, dal Baltico all’Adriatico, non serví a far uscire l’Europa centro-orientale dalle nebbie dell’incertezza e della leggenda. Generalmente, non si ripeterà mai abbastanza che le conoscenze geografiche degli antichi trassero dai viaggi commerciali molto minor vantaggio di quello che ci si sarebbe potuto aspettare, per la diffidenza e spesso il disprezzo nutrito dai rappresentanti della scienza verso chi esercitava attività cosí materiali, banausiche (e ciò vale anche per molte spedizioni militari). A questo atteggiamento di preclusione, Strabone stesso dà voce piú volte (p. es. 15,1,4). Dopo l’incunabolo di Anassimandro, e dopo il grande tentativo di Eratostene, la storia della cartografia antica arrivò a un altro dei suoi punti fermi (se cosí si può dire, in materia tanto incerta), con la grande carta del mondo dipinta sui muri di un frequentato edificio pubblico, eretto nel Campo Marzio a cura di Marco Vipsanio Agrippa, braccio destro di Augusto, suo genero e suo ‘ammiraglio’, la porticus Vipsania. Come si presentasse il risultato di questa impresa scientifica ( ?) è cosa ancor piú incerta che nei casi precedenti. Si è molto almanaccato se  















la carta fosse quadrata o rotonda, tracciata su un’unica superficie o articolata fra diverse, che genere di legenda recasse, indicazioni di misure (soprattutto delle province romane) oppure no, e in che rapporto stesse coi commentarii geografici dello stesso Agrippa, nominati da Plinio (nat. 3, 17). Le incertezze sono tante che si è potuto dubitare del suo carattere cartografico, fino a ricostruirla come un’iscrizione, una raccolta di materiale in forma di descrizioni verbali e numeri di miglia (vd. Brodersen 1995, 286 ; sui resti e sul carattere della cartografia romana in genere, vd. Dilke 1988b ; Arnaud 1991). Sarà qui il luogo di citare un documento unico e prezioso, ma di difficile interpretazione, al cui proposito si è richiamata anche la carta di Agrippa, che ne sarebbe la fonte, pur se indiretta. Parliamo della cosiddetta Tabula Peutingeriana, dal nome dell’umanista tedesco Konrad Peutinger che ne fu proprietario ; oggi è conservata nella Biblioteca Nazionale di Vienna. È una rappresentazione di tutta l’ecumene conosciuta in età imperiale romana, e non può certo definirsi carta geografica nel nostro senso, al massimo carta stradale, o forse meglio ancora diagramma stradale. L’immagine del mondo è costretta nel letto di Procruste di un rotolo di pergamena, oggi diviso in sezioni, lungo metri 7,4 (in origine anche un po’ di più) per 34 centimetri. Pur conservando alcune fondamentali relazioni spaziali e allineamenti, la carta sacrifica la congruità con la forma delle terre e dei mari alla puntuale delineazione della rete stradale, con le città, le mansiones, e altri luoghi attrezzati dove il viaggiatore poteva fare sosta e pernottare. La ‘carta’ sembra appartenere al genere dei documenti che un autore antico, Vegezio (3,6), chiama itineraria picta, usati dai militari (e certo non solo da loro) per scopi eminentemente pratici. Nel caso della Tabula Peutingeriana è però difficile immaginare quale immediata utilità pratica potesse avere per il comune utente una carta stradale che arriva fino a Ceylon e all’Asia centrale, rinunciando evidentemente, per questa parte, a ogni affidabilità. L’oggetto materiale, la pergamena, non risale oltre il xii o xiii secolo, ma il modello che essa riproduce è antico, probabilmente della metà del iv secolo d.C., come indizi di vario ordine suggeriscono. Ciò fa della Tabula Peutingeriana un documento unico della cartografia greco-romana, se di  





geografia cartografia si può parlare per qualcosa di cosí difforme da quello che il termine significa per noi. Alle minuziose analisi che se ne sono fatte, e alle discussioni che ha suscitato, possiamo solo rimandare (vd. Prontera 2003). Altri resti materiali della cartografia antica sono o estremamente esigui, avanzi di quella che Tolomeo avrebbe chiamato piuttosto corografia (vd. sotto), o di autenticità molto dubbia, spesso di sicura falsità. (Le antiche e sensazionali carte geografiche sono un terreno prediletto dai falsari : vedi, fra tante altre, la troppo famosa ‘mappa di Vinland’, incautamente acclamata da molti e presto smascherata.) Sul caso del controverso ‘papiro di Artemidoro’ con la pretesa carta della Spagna, pubblicato nel 1999, si sono scritti innumerevoli articoli e perfino libri, seguiti con interesse anche dal grande pubblico. Mentre scriviamo (2009), la polemica non è sopita (vd. Canfora 2008). Il titolo di Chorographia si dà tradizionalmente all’opera di Pomponio Mela, attivo sotto il principato di Claudio, che lasciò una ‘rassegna’ sistematica del mondo conosciuto, percorso lungo le coste del mare interno e dell’oceano, antiquata nella forma che ancora una volta è quella tradizionale periplografica, e nel contenuto in parte superato, senza la cura di aggiornare i vecchi dati alla luce delle nuove opportunità che le conquiste romane avevano aperto. (Ma questo è un vizio di molta geografia compilatoria antica ; anche Strabone non ne è immune, in certe parti della sua opera.) L’opera di Mela è la prima del suo genere in latino che ci sia pervenuta, essendo perduta la vera opera pionieristica in materia, quella di → Varrone, che alla g. aveva dedicato tre libri delle sue enciclopediche Antiquitates. Per celebrità primeggia, fra gli scrittori dell’epoca e fra tutti i Romani, →Plinio il Vecchio, il più famoso poligrafo antico, che all’apprezzamento tributatogli da generazioni e generazioni di lettori deve la sopravvivenza della sua Historia naturalis, la piú vasta opera enciclopedica giuntaci dall’Antichità, in cui non poteva mancare la g. Ad essa sono dedicati i libri iii-vi dell’opera mastodontica, prevalentemente compilatoria e frutto di letture non sempre bene assimilate, ma fonte preziosa di notizie. L’ordinamento della materia segue ancora una volta il criterio periplografico, anche se secondo un ordine un po’ inconsueto. Dato il carattere dell’opera, che vuol essere una summa di tutta l’erudizio 



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ne disponibile, notizie utili per quella che chiamiamo g. antropica e per altre cose che con la g. confinano, se ne trovano in essa un po’ dappertutto. Di scienza geografica ce n’è poca e quella poca è spesso incredibilmente arretrata o trattata con incompetenza, anche se una certa retorica tradizionale ha amato presentare l’autore come eroe e martire della curiosità scientifica, per il suo intervento, da alto comandante militare ma anche da interessato osservatore, nell’eruzione del Vesuvio che distrusse Pompei (79 d.C.), e in cui egli perse la vita. La temperie sostanzialmente pacifica dell’impero romano, dopo la tempesta delle guerre civili e delle rivoluzioni, unita a una nuova facilità delle comunicazioni e degli scambi anche culturali, portò a una rinascita della cultura greca, pur se l’incomparabile creatività delle sue epoche migliori era solo un ricordo. È un’epoca che vede molti epigoni ed epitomatori, consapevoli di essere nel caso migliore ‘nani sulla spalle di giganti’, e la g. non fa eccezione. Continua la produzione di →peripli, termine sotto cui classifichiamo opere di diverso carattere, oscillanti fra il manuale pratico del navigatore e del commerciante, e la pura letteratura, da leggere a tavolino. Carattere pratico, singolarissimo fra tutti gli scritti che qui dobbiamo ricordare, ha il Periplo del mare Eritreo, opera probabilmente di un greco d’Egitto del i secolo d.C., descrizione di quello che noi chiamiamo Oceano Indiano e dei traffici che vi si svolgevano, tra i porti egiziani e quelli del Dekkan. La conoscenza della costa africana orientale arriva in questo testo fino alle latitudini più meridionali raggiunte nell’Antichità, anche se si citavano nomi di naviganti che si sarebbero spinti anche piú a sud, probabilmente fino a Zanzibar. Ma il punto di vista non è tanto quello del geografo e neppure del navigante, quanto del commerciante. Arriano di Nicomedia, che abbiamo già incontrato come epitomatore del viaggio di Nearco, descrisse le coste del Ponto Eusino (odierno Mar Nero) in un’opera redatta per incarico dell’imperatore Adriano (117-138 d.C.), che ci è pervenuta. Un’opera del tutto letteraria, in versi giambici, era anche l’ennesima perivodo~, ancora un giro del mondo, risalente a non prima del i secolo a.C., ma tramandata sotto il nome del ben piú antico Scimno. Grande celebrità acquistò poi la cosiddetta Perihvghsi~ (‘guida’, attraverso il mondo abitato), sempre in versi ma stavolta in esametri, di un

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oscuro Dionisio di Alessandria, vissuto anche lui al tempo di Adriano, che percorre successivamente i tre continenti : Libia (Libuvh, come sempre i Greci chiamarono l’Africa), Europa e Asia, dalle Colonne d’Ercole al Golfo Persico, illustrando prima il contorno delle coste, poi l’interno. Se ne fecero almeno due traduzioni latine, fra cui è ben nota quella in esametri, piú parafrasi che traduzione, di Rufo Festo Avieno (Descriptio orbis, iv sec. d.C.), autore di un testo dello stesso genere, conservato parzialmente e citato col titolo di Ora maritima, ancora una descrizione di coste, in senari giambici, che contiene forse materiali di grande antichità e importanza. L’arido poemetto di Dionisio era celebre ancora nel xii secolo bizantino, quando ad esso rivolse le sue cure il dotto vescovo di Tessaloníca, Eustazio, con un commento utile perché ci tramanda molti materiali relativi alla geografia antica. La sua lunghissima popolarità come testo scolastico, compendiolo di g. da imparare a memoria (il verso aiutava), è documentata dalla traduzione-parafrasi che ne fece alla fine del xvi secolo il famoso umanista francese Bénigne Saumaise (all’italiana: Salmasio), e, piú curiosamente ancora, il ‘seguito’ che ne diede l’inglese Edward Wells (1667-1727), con una descrizione delle nuove terre conosciute, America in testa, in una virtuosa imitazione del greco di Dionisio (vd. Jacob 1990). Nel iv secolo visse anche Ammiano Marcellino, l’autore dell’ultima grande opera storica dell’Antichità, che arriva ai giorni dell’autore, con particolare rilievo per l’ammirato imperatore Giuliano, e che comprende degli excursus geografici di tipo tradizionale, ma aperti alle novità che si annunciavano nell’epoca tardo-antica ; famose sono le pagine sugli Unni (31,2,1-12). 12. La scienza : progressi e regressi. – Sul rapporto fra scienza greca e romana abbiamo già detto qualche cosa, e ora dobbiamo tornare a constatare che se pure sotto l’impero romano vissero scienziati insigni, la cultura latina non diede alcun importante contributo alla g. scientifica, sorella dell’astronomia e della matematica ; peggio, la letteratura latina offre numerosi esempi di incomprensione, da parte di illustri autori, delle grandi conquiste della scienza greca, e perfino di veri regressi, di ricadute in concezioni arcaiche. Questo si applica prima di tutto alla dottrina della sfericità della terra, mai dimenticata (come non sarà dimenticata nel Medioevo cristiano, contro quello  







che si crede volgarmente), ma trascurata o addirittura respinta nel corso di tutta la cultura romana. Se Cicerone la padroneggia e illustra nel frammento del suo De republica noto come Somnium Scipionis, il suo contemporaneo Lucrezio la rigetta abbastanza esplicitamente (5, 495-497), come sembra proprio che facesse il suo maestro Epicuro (Diog. Laert. 10, 74). Che a una cosí importante verità scientifica aderisca un autore che tutto era meno che geografo o astronomo, e la rifiuti uno che pure si presenta come poeta scienziato, e vuole predicare con grande impegno delle verità fisiche, è molto significativo della casualità che regnava in questa cultura scientifica, riguardo alla sua acquisizione e diffusione. →Seneca parla della terra sferica come di cosa non accettata da tutti (nat. 2,1,4), e Tacito scrive, quando tocca argomenti geografici, cose che con essa non si riesce in alcun modo a conciliare (Agr. 12, 3-4 ; cfr. Thomson 1965, 329). La poesia augustea e quella successiva impiegano un patrimonio tradizionale di immagini dove la terra sferica non trova posto. Né si tratta solo di un arcaizzare poetico : la poesia latina non rifugge dagli accenni a una cosmologia piú moderna, ma lo fa spesso in modo infelice, come quando parla di zone climatiche, uno dei fondamenti della g. scientifica greca, in termini che tradiscono l’incomprensione dei principi sottostanti alla teoria. Cosí, p. es., lo pseudo-Tibullo del Panegirico a Messala, che fa mostra di scienza astronomica, ma afferma poi che in due delle famose cinque zone densa tellus absconditur umbra (4, 1, 154), senza specificazioni, come se le regioni polari della terra fossero condannate a un’oscurità perpetua. Questa ricaduta in immagini mitiche e primitive poteva avvenire pur dopo che la scienza greca aveva spiegato perfettamente come stessero le cose. Si è scritto al proposito, con ottima giustificazione, che « la dottrina della sfericità della terra è cosa da specialisti. Essa seduce il profano per la sua aura scientifica e per la logicità dei ragionamenti, ma non arriva a scuotere in lui la forza della tradizione » (Aujac 1966, 150). Niente mostra altrettanto bene il carattere di precarietà delle conoscenze scientifiche antiche, e l’assenza di un’organizzazione internazionale che le mettesse al sicuro e diffondesse, nella maniera che a noi sembra ovvia e naturale. Così poté accadere che anche per la società piú avanzata e  







geografia colta dell’antichità diventasse cosa remota ed estranea una delle piú grandiose conquiste dell’intelletto umano, per la quale non è di troppo l’abusato aggettivo epocale. 13. La scienza : Tolomeo. – Allo stesso tempo (questa è per noi la stranezza, se non capiamo certe differenze fra l’antichità e l’età moderna) c’era chi restava al piú alto livello raggiunto, anzi progrediva sulla buona strada e affinava i risultati dei predecessori. Il nome che conquisterà una celebrità mai piú tramontata, cui si intitolerà tutta una fase dell’evoluzione intellettuale umana, forse al di là dei meriti di chi lo portò, è quello di Claudio →Tolomeo di Alessandria (ii sec. d.C.), soprattutto astronomo, anzi l’astronomo antico, per i secoli a venire, ma anche geografo, e non secondariamente (vd. Aujac 1993). Stavolta, sotto il semplice titolo di Geografia va un’opera diversa da tutto quello che abbiamo incontrato finora. Il suo primo libro è occupato da un’esauriente introduzione, dove si polemizza col predecessore Marino di Tiro, figura per noi sfuggente, ma molto significativa ; Tolomeo gli è probabilmente debitore in maggior misura di quanto non gli piaccia di ammettere. (Per molti autori antichi, storici o scienziati, l’esposizione del proprio programma consisteva soprattutto in critica dei predecessori.) Nell’introduzione, Tolomeo distingue inoltre fra la geografia vera e propria, cioè la raffigurazione cartografica di tutta l’ecumene, quello che noi chiameremmo planisfero, tracciato sui fondamenti matematici già ben noti alla scienza, e la corografia, le carte regionali, abbraccianti estensioni limitate, nel cui tracciamento predomina l’empiria, cioè in sostanza le notizie raccolte dai viaggiatori, frutto di esperienza pratica (vd. Prontera 2006). Sono le due facce della g. antica, ciò che Tolomeo esprime parlando di attenzione rivolta alla quantità, cioè alla matematica, nel primo caso, e alla qualità, cioè mirando a una descrizione verbale, ‘pittorica’, nel secondo, dove si può procedere per via empirica. Quel che segue non è né una descrizione-itinerario alla maniera di Strabone, né una raccolta di carte (le tavole che accompagnano l’opera di Tolomeo nei nostri codici medievali probabilmente non risalgono a lui ; in alcuni codici esse sono attribuite a un certo Agatodèmone di Alessandria, jAgaqodaivmwn), bensí qualcosa che somiglia all’indice di un atlante come quelli che noi siamo abituati a consultare : è un amplissimo  







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elenco di toponimi (più di ottomila !), raggruppati per paese e seguiti dalle loro coordinate, latitudine e longitudine, arrotondate ai cinque minuti d’arco. Beninteso, la sfericità della terra è per Tolomeo cosa tanto ben assodata che egli si preoccupa, da cartografo, della proiezione, l’eterno problema di raffigurare in piano una superficie sferica. Ne mette a confronto due soluzioni, proprio come nelle pagine introduttive di molti nostri atlanti, quelli piú mirati alla didattica. Oggi come allora, chi vuole può costruire la sua carta di Tolomeo, armandosi di pazienza e riportando uno ad uno, sulla griglia delle coordinate, tutti i toponimi citati nel testo (se non fosse che le cifre, come accade nella tradizione manoscritta, sono spesso corrotte, e che ci sono oscurità di altro genere). Il risultato mostrerebbe una conoscenza del Vecchio Mondo abbastanza estesa, ma anche gravi carenze ed errori, perfino in regioni centrali dell’àmbito mediterraneo, ben note fin dalle epoche piú remote, come l’Italia stessa. Del tutto disconosciuta è la forma dell’India, pur frequentata largamente dai commercianti dell’epoca, e ipotetico è tutto ciò che sta a est di essa. Tolomeo disegna sulla sua carta, con malfondata fiducia, qualcosa in cui si potrebbero riconoscere la penisola malese e il Golfo del Siam ; ma non si può dare molto credito, per questa parte di mondo, a un cartografo che disconosce del tutto il carattere peninsulare del Dekkan : la sua Ceylon, di dimensioni molto esagerate, come la immaginò tutta la G. antica, fronteggia una costa piatta ! Incertissima, o meglio vana, è l’identificazione di golfi, penisole e città nominate in questa area. Nei mari settentrionali, Tolomeo non sa nulla della penisola scandinava, e conosce solo un’isola Skandía, accompagnata da altre minori dello stesso nome (Geog. 2, 11, 33-34), come di un’isola Scadinavia aveva parlato già Plinio (nat. 4, 81, 37, 45). A nord, il suo confine resta in sostanza segnato dalle isole britanniche, come abbiamo già rilevato a proposito delle conoscenze diffuse nell’età imperiale. E ci sarebbero moltissimi altri errori da rilevare, alcuni addirittura inesplicabili. Strano è che Tolomeo accetti la misurazione posidoniana del globo terrestre, gravemente inferiore alla realtà, pur dovendo sapere che il metodo seguito era insicuro, da astronomo qual era. Nel tracciamento vero e proprio della carta, piú grave di tutto è la concezione erronea dell’Africa, che si prolunga  







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nella sua parte australe fino a congiungersi con l’Asia del sud-est, facendo dell’Oceano Indiano un bacino chiuso. Ma il vizio piú serio dell’opera di Tolomeo è il carattere illusorio della sua precisione : quelle coordinate, date luogo per luogo, non sono frutto di rilevamenti astronomici, salvo rarissime eccezioni, ma di valutazioni a stima ; non sono tratte dall’osservazione immediata della realtà, ma da una carta ‘a occhio’, realmente disegnata o solo concepita, come si era sempre fatto, e come ammette lo stesso Tolomeo (Geog. 1, 4, 2). Lascia perplessi anche il grande numero di città e di popolazioni che egli colloca con sicurezza sulla sua carta, anche nelle regioni piú remote e impervie : come poteva esserne informato ? Il voto di Ipparco, di tre secoli prima, era ben lontano dall’essere soddisfatto, ciò che avverrà solo nell’età moderna avanzata, dapprima nella Francia di Luigi xiv. Questo dimostra ancora una volta l’assenza nell’antichità di un lavoro sistematico e di una vera organizzazione della scienza. Con tutto questo, e pur nella sua apparente aridità, la Geografia di Tolomeo rappresenta un lascito inestimabile, un’eredità antica che dopo la sua riscoperta, nel xv secolo, esercitò una grandissima influenza sulla g. e cartografia europea. Le carte tolemaiche, anche se quelle arrivateci nei codici medievali furono costruite assai piú tardi (vd. sopra), sono l’unico autentico documento visivo della forma del mondo quale la concepirono gli uomini dell’antichità. Le terre di cui l’Europa venne a conoscenza nell’epoca che noi chiamiamo ‘delle grandi scoperte geografiche’, furono dapprima definite come terre extra Ptolemaeum, tanto egli sembrava rappresentare la summa di tutte le conoscenze nel campo, e l’ordinamento della sua Geografia, cominciando dalla penisola iberica e procedendo verso est, è rimasto canonico nei nostri atlanti fino a ieri, oltre all’orientamento col nord in alto, quello delle carte tramandate sotto il suo nome (vd. Milanesi 1984). 14. Fra tradizione e novità : i cristiani. – La grande svolta che avrebbe segnato per i millenni la fisionomia della civiltà d’Europa, l’avvento del cristianesimo, non poteva non coinvolgere il pensiero geografico, anche se tutto sommato lo fece in maniera limitata. Col cristianesimo acquistava nuovo significato il concetto di ecumene, dato che ci si preoccupava che il Vangelo fosse predicato in tutto il mon 









do abitato (dopo di che, si pensava, il mondo sarebbe potuto anche finire, ma non prima). La sfericità della terra non creò i problemi che dovevano sorgere secoli piú tardi nel confronto con l’eliocentrismo, anche se qualcuno (con piena ragione !) osservava la sua inconciliabilità con la cosmologia del Vecchio Testamento. Ma i casi di condanna della dottrina ‘pagana’, come quello dell’apologeta Lattanzio (iii-iv sec., vd. le sue Divinae institutiones 3,24), non prevalsero. Una spina nel fianco per il pensiero cristiano rimase invece a lungo l’ipotesi degli antipodi. Come si poteva conciliare l’unità del genere umano, la sua discendenza dall’unica coppia biblica di progenitori, con l’esistenza di popoli sull’altra faccia del globo, in terre che distanze e ostacoli insuperabili separano dalle nostre ? La questione occupò anche →Agostino (civ. 16,9) e si mantenne viva per tutto il Medioevo, ma va tenuta ben distinta dall’altra, anche se qualche autore sembra fare un po’ di confusione : negando gli antipodi non si respingeva di necessità la sfericità della terra, che fu ammessa da autori di ineccepibile ortodossia. Cosí faceva lo stesso Agostino, per il cui incarico il prete spagnolo Orosio scrisse le sue vaste Storie contro i pagani, di dichiarato intento apologetico e polemico, ma aperte da una descrizione del mondo che rientra perfettamente nella vecchia tradizione (1, 2), fedele allo schema eratostenico e rara eccezione in una cultura geografica degradata e impoverita, ridotta a un accumulo di toponimi spesso incertamente localizzati, e di itinerari del tutto empirici. Insomma, anche se spigolando nella patrologia si farebbe un’ampia raccolta di espressioni di scetticismo, diffidenza o fastidio per la scienza pagana, la cultura cristiana nel suo insieme non avversò né disperse il patrimonio della g. antica ; se conobbe esempi di quello che oggi si chiamerebbe fondamentalismo o integralismo, nel senso derogatorio che sappiamo (vd. il caso limite della famosa Topografia cristiana, opera del monaco viaggiatore Cosma Indicopleuste che scriveva in greco nel vi secolo, furiosamente antimoderna e antiscientifica), non li vide prevalere. Certi gravi aspetti di regresso della scienza erano cominciati molto prima del trionfo del cristianesimo, e non gli si possono imputare ; esempi di grossolana credulità, in campo geografico come in ogni altro, si possono trarre dagli autori pagani di età imperiale non meno che dai cristiani. Per molti intellet 









geografia tuali romani le conquiste della scienza greca, compresa la teoria del globo, erano diventate incomprensibili (se mai erano state capite) secoli prima che dall’Oriente venisse annunciata la buona novella. 15. Verso il Medioevo. – Come in altri campi, non si può dire altro che per convenzione quando lo storico della g. antica debba lasciare la parola a quello della g. medievale. Entrambi possono solo osservare il comparire e il progressivo prevalere di quei caratteri che vanno comunemente sotto il nome di medievali – e subito osserveranno che caratteri ‘medievali’ sono presenti nella g. romana fin dalla prima età imperiale : regresso rispetto alle concezioni piú avanzate, e credenze degne delle età cosiddette ‘oscure’. L’epoca che sulla scorta della storiografia tedesca possiamo chiamare della tarda Antichità (Spätantike), grosso modo dalla restaurazione di Diocleziano (284-305) in poi, fu nel campo della g., come un po’ in tutti, un’epoca di epitomatori, gli autori di riassunti che spesso hanno la colpa imperdonabile di aver causato la perdita degli originali, gli antichi libri che a una cultura decaduta apparivano troppo grossi, difficili e costosi. Essa ha lasciato molti testi che a malapena possono ascriversi alla g. : oltre al vecchio genere dei peripli, per lo piú compilazioni e rimasticature, ci sono gli itinerari di terra che si limitano ad allineare lunghi rosari di toponimi e di distanze, senza una scintilla di interesse che vada oltre l’immediato fine pratico. Figure tipiche sono quelle di Agatèmero col suo Sommario di geografia (iii sec.) o di Marciano di Eraclea (iv-v sec.), che compendiò fra l’altro gli undici libri del geografo Artemidoro di Efeso, e fu autore di un compilatorio Periplo del mare esterno, che arriva fin oltre il Gange da una parte, e al Mare del Nord dall’altra, fondandosi largamente su Tolomeo. All’interno del Mediterraneo, con un percorso che muoveva da Alessandria, restava invece l’anonimo Stadiasmo del grande mare, forse del iii secolo, conservato solo in parte. Il titolo di stadiasmo si dava a opere di carattere periplografico dove era indicata, in stadi, la distanza tra un porto e l’altro, un genere che risaliva ai famosi Porti di Timostene (vd. sopra). Testi che non possono veramente ascriversi alla g., abbiamo detto, perché non dicono affatto come i loro compilatori concepissero le forme delle terre e dei mari, e tanto meno quali concetti piú generali essi nutrissero. Si è ipotizzato che gli itinerari venisse 



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ro ricavati, ‘letti’ dalle carte geografiche cui la letteratura dell’epoca fa piú di un accenno (ma niente se ne è conservato) ; cosí, nel 279, l’oratore Eumenio si preoccupa della ricostruzione delle scuole nella sua nativa Autun, e raccomanda che vi sia esposta una carta del mondo (« orbem depictum », Oratio pro restaur. sch. 20). L’ipotesi è in sé plausibile, vd. Thomson 1965, 376, che la avanza a proposito dell’Itinerarium Antonini, il maggior esempio del genere, che si propone di guidare attraverso tutte le provincie dell’impero. Lo stesso potrebbe essere vero per la Divisio orbis e la Dimensuratio omnium provinciarum, brevi testi redatti forse intorno al 400, elenchi di paesi corredati con cifre di lunghezza e larghezza ; forse all’origine c’è una carta appartenente alla tradizione che risale ad Agrippa. Trasmettere una carta copiandola in maniera appena adeguata è un lavoro di impegno senza confronto maggiore che trarne qualche informazione utile per via verbale ; quindi ci si poteva ‘accontentare’ di un frettoloso lavoro di copiatura, nomi di città e indicazioni di miglia. D’altra parte, l’unico esempio superstite di cartografia che derivi con ogni probabilità da un documento dell’epoca, la Tabula Peutingeriana (forse risalente a un modello del iv sec., vd. sopra), non può chiamarsi carta geografica nel senso comunemente e legittimamente inteso. C’è un’alta probabilità che gli itinerari siano qualche volta trascritti da ‘carte’ dello stesso genere : della vera g., della gloriosa gewgrafiva greca nel senso primo, è rimasto ben poco. 16. L’eredità della geografia antica. – La via aperta dai Greci, pur fra regressi e deviazioni, rimase determinante per la cultura occidentale. L’eredità della loro g., e di quella romana, non fu peraltro solo positiva. Molti errori degli antichi si perpetuarono fino a epoche sorprendentemente recenti, avallati dall’autorità loro riconosciuta, e la g. moderna se ne liberò solo gradualmente e con sforzo. Ricordiamo, fra i tanti, l’eccessiva estensione nel senso della longitudine attribuita al Mediterraneo, come a tutta l’ecumene ; la concezione di una zona torrida del tutto inabitabile, anzi impenetrabile per l’uomo ; la strana, quasi inestirpabile idea di un Nilo occidentale, connesso con quello egiziano nei modi più fantastici ; anche l’enorme terra australis incognita, che ingombrò globi e planisferi fino ai viaggi di Cook, e cui corrisponde solo la relativamente piccola Australia, è figlia di concezioni preconcette della g. antica, etc. etc. Dall’eredità latina, il  

















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Medioevo prescelse (liberamente o per i casi della trasmissione) alcuni libri, facendone i suoi maestri, con risultati non sempre felici. Se ci fu chi non dimenticò il meglio della g. antica, come la dottrina della sfericità della terra con tutte le sue conseguenze, ciò si dovette almeno in parte all’enciclopediola di Marziano Capella (intorno al 400), le Nozze di Mercurio e della Filologia, rivestita di una bizzarra forma allegorica assai adatta al gusto medievale. Purtroppo si fece anche gran conto di compilatori acritici e ignoranti, eternando i loro grossolani fraintendimenti delle vecchie conquiste scientifiche, e tutte le loro favole. È il caso di Solino (forse metà del iii sec.) coi suoi apprezzatissimi Collectanea rerum memorabilium, superficiali excerpta da Plinio il Vecchio e dalla sua erudizione piú sensazionale e vana. Ma tutto questo è largamente compensato dai semi di maturazione intellettuale che i Greci avevano sparso, in parte considerevole attraverso la loro geografia, e che non andranno perduti. L’idea che il mondo fisico (e geografico) sia una realtà obbediente a leggi precise, indagabili e accertabili dalla mente umana, e che il suo fondamento divino, se pure si ammette, vada lasciato fuori dal campo dell’indagine naturale, non doveva piú sparire del tutto dall’Europa, ed è rimasta il segno indelebile di una cultura destinata alle massime conquiste e alla massima espansione, fra tutte quelle fiorite sulla terra. Anche in un’Europa che aveva dimenticato il greco, la conoscenza di taluni testi fondamentali non si spense mai del tutto, e la riscoperta della Geografia di Tolomeo fu uno dei grandi avvenimenti che segnarono la rinascita della cultura antica nell’Occidente moderno (la prima traduzione, latina, ne fu fatta intorno al 1406: vd. Gautier Dalché 2009). Perfino l’impresa che segna convenzionalmente l’inizio dell’età moderna, la scoperta dell’America, ebbe una preparazione intellettuale in cui la g. antica svolse la parte predominante, come abbiamo già richiamato a suo luogo. L’influsso della g. scientifica greca fu grandissimo anche al di fuori del mondo occidentale, sulla cultura islamica (che per secoli si trovò depositaria di tanta parte della scienza antica superstite) come su quella indiana. È noto come la grande opera astronomica di Tolomeo venga correntemente citata sotto il titolo di Almagesto, curiosa arabizzazione del greco Megivsth (suvntaxi~), «La grandissima, la massima (opera)». Chi ha detto che nella storia della scienza, cioè dell’atteg-

giamento dell’uomo davanti al cosmo, si può segnare una prima grande divisione : prima dei Greci – dopo i Greci, non aveva torto, e ciò vale anche, non da ultimo, per la g. Il confronto con l’eredità romana, piú che schiacciante per quest’ultima, è semplicemente impossibile. Nondimeno, a quello che in campo geografico i conquistatori del mondo antico seppero riconoscere e trasmettere, spetta un posto a suo modo onorevole, di carattere molto diverso da quello che riconosciamo ai Greci, ma non senza importanza per il seguito della storia.  

Edizioni. Anassimandro : Diels-Kranz 1951-1952 ; Conche 1991. – Annone : Del Turco 1958. – Aristotele : Longo 1961. – Arriano : Oliva 2000 ; Biffi 2000 ; Dognini 2000 ; Silberman 1995. – Artemidoro : Stiehle 1856. – Avieno : Antonelli 1998. – Cosma Indicopleuste : Wolska-Conus 1968-1970 ; Garzya 1992. – Cratete di Mallo : Broggiato 2001. – Ctesia : Lenfant 2004. – Dicearco : Fortenbaugh-Schütrumpf 2001. – Dionisio : Jacob 1990 ; Amato 2005. – Ecateo di Mileto : nenci 1954. – Eratostene : Berger 1880. – Eudosso : Lasserre 1966. – Geografi minori e peripli : Müller 1855-1861 ; Riese 1878 ; Marcotte 2000 ; Cordano 1992 (i testi dei principali peripli in trad. ital.) ; Jacoby 1923-1999 (molto materiale relativo alla geografia). – Ipparco : Dicks 1960. – Ippocrate (?) : Bottin 1986. – Mela : Parroni 1984. – Periplo del Mar Rosso / Eritreo : Casson 1989. – Pitea : Bianchetti 1998. – Posidonio : Edelstein-Kidd 1972 ; Theiler 1982 ; Vimercati 2004. – Scilace : Peretti 1979 Counillon 2004. – Timostene di Rodi: Wagner 1888. – Tolomeo : Nobbe 1843-1845 ; Müller 1883 ; Müller 1901 (ricostruzione delle carte) ; von Mžik 1938 ; Berggren-Jones 2000 ; Stückelberger-Grasshoff 2006.  

















































































Bibliografia. Amiotti 1988 ; Arnaud 1991 ; Aujac 1966 ; Aujac 1984 ; Aujac 1992 ; Aujac 1993 ; Berti, N. 1988 ; Bianchetti 2008 ; Braccesi 1993 ; Brodersen 1995 ; Cadelo 2009 ; Canfora 2008 ; Cordano 1992 ; Desanges 1978 ; Dihle 1997 ; Dilke 1985 ; Dilke 1988a ; Dilke 1988b ; Dragoni 1979 ; Fasce 1994 ; Gautier Dalché 2009 ; Gehrke 1998 ; Giorgetti 2004 ; Jacob 1990 ; Jacob 1991 ; Janni 1984 ; Janni 1994 ; Janni 1998 ; Janni-Lanzillotta 1988 ; Janni-Prontera 1992 ; La Greca 2008a ; Lanzillotta 1988 ; Magnani 2003 ; Milanesi 1984 ; Monde (Le) et les mots 2006 ; Moretti 1994 ; Nenci 1994 ; Nicolet 1988 ; Pédech 1978 ; Pinna 1994 ; Prontera 1983 ; Prontera 1991 ; Prontera 1992 ; Prontera 2003 ; Prontera 2006 ; Prontera 2007-2008 ; Romm 1999 ; Russo 1996 ; Sordi 1988 ; Talbert 2008 ; Talbert-Unger 2008 ; Thomson 1965 ; Wheeler 1954.  







































































































Pietro Janni

geometria Geometria. 1. Le origini : tra astratto e concreto. – La g. (gewmetriva, da gh`, terra e metriva, misura : «misurazione della terra») è quella parte della →matematica che si occupa delle figure nel piano e nello spazio e delle loro mutue relazioni. Fino al xix secolo la g. è di fatto coincisa con la g. di tipo euclideo, anche se la storia di questa disciplina ci svela passaggi e variazioni assai più complessi : farne un breve resoconto è senza dubbio un’operazione che rischia di tralasciare aspetti e sfumature importanti. Di fatto poco sappiamo della g. prima del periodo greco : in Mesopotamia il suo ruolo era legato alle pratiche di agrimensura, e spesso i problemi come la divisione di un campo o il conteggio dei mattoni necessari per la costruzione di un muro venivano ridotti a problemi algebrici. Un punto di svolta nella comprensione della matematica babilonese fu senza dubbio la decifrazione della Tavoletta Plimpton 322 da parte di Neuegebauer e Sachs nel 1945 : circa la sua interpretazione sono state sollevate le più varie ipotesi, tra le quali considerarla una trattazione proto-trigonometrica [→trigonometria]. Tralasciando questa eventualità è più facile pensare che si tratti di terne pitagoriche, utili alla costruzione di triangoli rettangoli con lati razionali. In era babilonese era infatti conosciuto quello che viene notoriamente indicato come ‘teorema di Pitagora’ (per cui in un triangolo rettangolo il quadrato dell’ipotenusa è pari alla somma dei quadrati dei cateti) e così pure le proprietà di similitudine tra triangoli. Analogamente si doveva saper calcolare l’area della superficie di un cerchio mediante la formula c2/12 con c uguale alla circonferenza del cerchio (e dunque al posto di p si sarebbe usato il numero 3) ; in alternativa si faceva ricorso ad altre formule che assimilavano il nostro p alla quantità 3+⅛. Tentativi analoghi venivano fatti per calcolare i volumi di alcune figure. Di fondo, in ogni caso, la g. mesopotamica dovette restare una collezione di regole per il calcolo di aree e volumi di figure e solidi semplici. [1] In Egitto la situazione dovette essere analoga, sebbene ci fosse una maggiore attitudine a lavorare su aree e volumi anche complessi : è emblematico che la civiltà egizia seppe trattare con agilità figure come la piramide e la piramide tronca, mentre è dubbio se avesse saputo calcolare l’area della superficie di un emisfero. Fu però lo spirito dei Greci a dare alla scienza matematica in generale e alla g. in particola 















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re una veste formale compiuta entro la quale dettagliare i contenuti in maniera più sistematica. I Greci assegnarono fin da subito un posto peculiare alla g., considerandola la disciplina matematica per eccellenza : in particolare nella Scuola pitagorica Filolao sosteneva che « la g. è principio e madre (…) di tutte le altre scienze » (44A7a D.-K.), in assonanza con l’ipotetica scritta affissa all’ingresso dell’→accademia (‘non entri chi non è geometra’). I primi risultati ascrivibili alla matematica greca svelano facilmente una doppia anima : astratta, quando sono legati a situazioni di tipo ‘aritmeticoalgebrico’, come la dimostrazione dell’irrazionalità della radice di 2 che si vedrà più avanti ; pratica, quando sono legati a risoluzioni di tipo empirico, come la quadratura delle lunule di Ippocrate, su cui si tornerà tra breve (cfr. Marcacci 2004b). 2. L’esordio ionico. – È indubbio che nel processo evolutivo della G. un ruolo chiave fu giocato da Mileto, ricca città dell’Asia Minore, ben collegata ad Egitto, Babilonia, Fenicia e Grecia. Nonostante le alterne vicende con i Persiani, sotto i quali Mileto cadde intorno al 540 a.C., questa città si impose come punto di riferimento per la cultura greca almeno per i secoli vi e v ed è più che mai a →Talete che dovremmo essere debitori per qualche conoscenza specificamente geometrica. →Anassimandro e →Anassimene, infatti, proseguirono principalmente sul fronte delle ricerche naturali avviato dal maestro. Di Anassimandro si possiede soltanto il frammento sull’a[peiron (12B1 D.-K.) che potrebbe in qualche modo attestare il riconoscimento di grandezze non limitate. Sull’interpretazione del frammento le voci sono state molteplici e controverse, vincolando la sentenza anassimandrea ad uno sfondo metafisico che, però, non è così facilmente comprovabile. Con Talete si è di fronte ad una situazione molto diversa : viene narrato (Procl. Comm. Eucl. 157, 10, 250, 20, 299, 1, 352, 14, da Eudemo ; Diog. Laert. 1, 24, da Pamfila) che egli ideò cinque proposizioni di g. elementare : (1) un cerchio è diviso in due parti uguali da qualunque diametro, (2) gli angoli alla base di un triangolo isoscele sono uguali, (3) su due rette che si taglino fra loro gli angoli opposti al vertice sono uguali, (4) due triangoli sono uguali se hanno un lato e i due angoli adiacenti uguali, (5) un triangolo iscritto in una semicirconferenza è rettangolo. Sebbene siano proposizioni che si ritrovano nella g. euclidea, grava 















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no rilevanti fattori di incertezza sulla possibilità di attribuire questi teoremi a Talete.[2] Molto probabilmente si trattava di semplici intuizioni, o di revisioni di conoscenze di g. provenienti dall’Oriente [→Talete, 6]. Resta il fatto che il Milesio nutrì un qualche interesse per la g., visto che si interessò anche di problemi pratici riducibili a problemi di g. piana e solida : il calcolo dell’altezza di una piramide, altezza che resta empiricamente inaccessibile, mediante la misurazione della sua ombra nel momento in cui essa è pari all’altezza dei corpi (Diog. Laert. 1, 27, Plin. nat. 36, 82, Plu. Conv. vii sap. 2) e il calcolo della misura della distanza delle navi dalla riva, grandezza questa ugualmente inaccessibile (Procl. Comm. Eucl. 352, 14-18). 3. Pitagora e Pitagorici. − Attorno a →Pitagora di Samo (ca. 575-497 a.C.) le notizie sono confuse, inserite in un quadro mistico e mitologico che rende difficile la decifrazione di quanto davvero questo personaggio fece e disse : di certo attorno a lui si costituì una comunità religiosa, una vera e propria setta all’interno della quale si viveva secondo regole precise e nella quale circolava un sapere custodito gelosamente. L’elemento più significativo di questo sapere è che a Pitagora si deve l’insegnamento per cui le cose possono essere ridotte a numeri, e dunque è la filosofia nella sua essenza matematica a divenire la disciplina che restituisce la spiegazione definitiva del mondo (Arist. Metaph. 1, 5, 985b 23-986a 25). Numeri e punti si corrispondono : sembra che a Pitagora si debba la definizione ‘punto è unità avente posizione’ (Procl. Comm. Eucl. 95, 21-23 e Arist. Metaph. 13, 6, 1080b 16 sgg. e Metaph. 13, 8, 1083b 8 sgg.). Così numeri e figure geometriche vengono ad essere la stessa cosa : utilizzando punti impressi sulla sabbia o ciottoli (da cui calculus) i Pitagorici rappresentavano i numeri. Tra questi, che si dividono in pari e dispari, ha un posto a parte il numero 1, il parimpari che, se aggiunto a un pari, lo fa diventare dispari e, se aggiunto a un dispari, lo fa diventare pari. Così i numeri si suddividono in numeri triangolari (Fig. 1) e numeri quadrati (Fig. 2) a seconda che siano dispari (limitati, dal vertice superiore) o pari (illimitati). Tra i numeri triangolari ha particolare rilievo la decade, il 10, risultante della somma dei primi quattro numeri. Due numeri triangolari sommati fra loro danno un numero quadrato, come si vede dalla figura sotto contrassegnata da una retta obliqua.

Fig. 1. Numeri triangolari.







Fig. 2. Numeri quadrangolari.

Restavano esclusi quei numeri che non potevano essere catalogati né come triangolari, né come quadrati poiché non erano quadrati perfetti : questi erano gli oblunghi, disegnati come rettangoli. Per passare da un numero quadrato all’altro, invece, fu introdotto lo gnomone : questa tecnica consiste nell’aggiungere ad un numero quadrato un numero triangolare lungo due lati, così come in Fig. 3 (ma vd. anche più avanti).  



Fig. 3. Gnomone.

E ancora : i Pitagorici studiarono i numeri pentagonali (Fig. 4), i numeri esagonali (Fig. 5), e le terne pitagoriche, già sopra ricordate, ovvero terne di numeri naturali a, b, c tali che a2 + b2 = c2.  



Fig. 4. Numeri pentagonali.

Fig. 5. Numeri esagonali.

geometria Probabilmente il Samio maturò la convinzione della struttura matematica del mondo grazie agli studi di armonia (→musica). Nella sua scuola, infatti, furono scoperti e studiati, lavorando con un monocorde, i rapporti armonici di ottava, quinta, quarta, riducendoli a rapporti numerici (due a uno, tre a due, quattro a tre). Poiché le frazioni non costituivano per la →matematica greca veri e propri numeri, i migliori risultati furono dati in sede di studio dei rapporti, elaborando la teoria delle medie e in parte la teoria delle proporzioni, che però sarà poi sviluppata da →Eudosso. Tale teoria potrebbe essere stata delineata per far fronte alla scoperta dei numeri irrazionali, normalmente imputata ai Pitagorici. Celebre è la storia di Ippaso di Metaponto il quale, scopreto le quantità irrazionali, sarebbe stato scacciato dalla setta a motivo dell’estremo imbarazzo che queste grandezze causavano ai confratelli (18A4 D.-K.). 4. La questione dei numeri irrazionali. – La liceità di questa tradizionale visione storiografica è stata messa in dubbio, sia perché non è del tutto giustificabile l’assunto dell’avversità greca agli irrazionali, sia e soprattutto perché tale assunto muove da ciò che fu prodotto in ambiente pitagorico di v-iv sec., dunque in un ambiente per il quale si prefigura come fortemente problematico un serio controllo storiografico e scientifico (cfr. Netz 2001). È tuttora motivo di dibattito, invece, quale sia stata la via praticata per questa scoperta. Una possibilità potrebbe essere la dimostrazione dell’irrazionalità della √2, su cui ci riferisce Arist. APr. 1, 23, 41a 25-30 e già discussa in Pl. Men. 82B-84C : sia dato il quadrato di lato l e diagonale d tale che, procedendo per assurdo (ovvero deducendo una contraddizione dalla negazione della tesi, per cui deve valere la tesi), il rapporto d/l sia uguale a quello m/n di due numeri interi primi tra loro.  

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2n . Perciò m sarebbe necessariamente pari, essendo il suo quadrato divisibile per due, ed n sarebbe necessariamente dispari, essendo primo con m. Allora si potrà scrivere m = 2p, e sostituendo nell’identità m2 = 2n2, si otterrebbe : 4p2 = 2n2, da cui n2 = 2p2 ; pure n dovrebbe quindi risultare pari, e dunque m e n non sarebbero primi fra loro. Giungiamo dunque all’assurdo che n è simultaneamente dispari e pari. Ciò significa che non esiste un numero razionale, rapporto di interi, capace di esprimere il rapporto tra diagonale e lato, grandezze le quali pertanto risultano incommensurabili : è così dimostrata l’irrazionalità di √2. Un’impostazione di questo genere si erige sull’immagine di una matematica greca esordiente, plasmata intorno ad un approccio aritmetizzante (Knorr 1975). Si ritiene che tale impostazione dipenda molto dalla via percorsa da →Euclide nel decimo libro degli Elementi. L’impianto del libro è tale che si lavora su rette (ovvero segmenti di retta) considerate ‘razionali’ se commensurabili con una retta razionale ‘di partenza’, mentre sono ‘irrazionali’ se con questa sono incommensurabili. Da qui in poi sono introdotte ulteriori classificazioni. Il decimo libro termina con la proposizione 115 : « da una retta [= segmento di retta] mediale si generano infinite rette irrazionali, delle quali nessuna è uguale ad alcuna delle precedenti ». La dimostrazione viene svolta lavorando su segmenti di retta e cercando il lato del quadrato equivalente al rettangolo costruito sui due segmenti : tale lato sarà irrazionale, e se il rettangolo viene costruito con uno dei segmenti razionali di partenza, si ottiene di nuovo un irrazionale quando si cerca il quadrato equivalente. Così all’infinito, fino a mostrare che di segmenti irrazionali ve ne sono infiniti. La prop. 115, così, avvalora definitivamente l’esistenza delle grandeze irrazionali. Recenti studi (Netz 2001) indicano invece la strada dell’antiaferesi (o sottrazione reciproca) per la scoperta dell’irrazionalità : avendo due grandezze si vuol misurare la maggiore prendendo a unità la minore ; quanto resta viene usato come unità di misura della grandezza minore, e così di seguito. Svolgendo questo procedimento sopra grandezze incommensurabili, ad esempio lato e diagonale del quadrato, l’operazione non terminerà mai. 5. L’approccio geometrico della matematica di v sec. – Un altro gruppo di problemi affrontato  















Fig. 6.

Per il teorema di Pitagora si ha : d2 = l2 + l2, e da qui si trae che : (m/n)2 = 2, ovvero m2 =  



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presumibilmente dai Pitagorici è lo studio delle applicazioni delle aree, ampiamente trattato nel libro ii degli Elementi di Euclide. Questa classe di problemi consiste nella costruzione di una figura di superficie equivalente ad una figura assegnata e simile ad una altra figura data. Celebre è il seguente problema : dato un segmento di retta costruire, su una parte di esso, un parallelogramma uguale ad una figura rettilinea data (anche scalena) ed eccedente da tale figura data di una figura parallelogrammica simile ad una seconda figura data. Questo approccio è mutuabile in quello dell’→algebra geometrica, così detta a causa della moderna lettura dei risultati conseguiti : dall’illustrazione seguente risulta facilmente che la somma dei quadrati a2 e b2 con i rettangoli di area ab è il quadrato di lato (a+b) : ne consegue facilmente l’equivalenza (a+b)2=a2+2ab+b2, che è il semplice sviluppo del quadrato di un binomio (Fig. 7).  





Elem. 1, 43). Il ricorso alla costruzione di figure per la soluzione di problemi sembra ribadita anche nella soluzione risalente ad Ippocrate di Chio per la quadratura delle lunule, di cui si darà ora breve nota. 5. I problemi speciali nel v-iv secolo : quadratura del cerchio, duplicazione del cubo, trisezione del cubo. – Origini diverse, ma sempre leggendarie, vengono attribuite a questi tre problemi ‘speciali’, ovvero problemi di tipo costruttivo nei quali impiegare soltanto riga e compasso, tali da essere al centro della ricerca dei matematici greci per lungo tempo, con risultati interessanti. Ognuno di essi è in qualche modo un’estensione di problemi già conosciuti : nel caso della quadratura del cerchio siamo di fronte ad un classico problema di quadratura, ovvero di riduzione dell’area di un poligono qualunque (quindi anche del cerchio in quanto assimilabile a un poligono con innumerevoli lati) ad un quadrato di area equivalente ; la duplicazione del cubo è l’estensione della duplicazione del quadrato alle tre dimensioni ; la trisezione dell’angolo è infine la generalizzazione della bisezione degli angoli, che i Greci già sapevano fare. Le fonti più alte e di certa estensione ci riferiscono della quadratura delle lunule impostata da →Ippocrate di Chio (metà v secolo) e che rivolse l’attenzione a particolari porzioni di cerchio : le lunule. Così facendo, egli adoperò una procedura detta di riduzione (ajpagwghv), ovvero tale da risolvere una proposizione riducendola ad un’altra. La lunula (= menisco o segmento di cerchio) è quella parte di piano racchiusa tra due archi di cerchio, di raggio diverso ma con i medesimi estremi. Questa figura sembra essere un’invenzione di Ippocrate, escogitata proprio per il problema della quadratura [3] : →Aristotele la definisce ‘metodo dei segmenti’ (…tw`n tmhmavtwn… 1, 2, 185a 16) e la indica come metodo che il geometra che cerca la quadratura del cerchio deve confutare. Che Aristotele si stesse riferendo ad un qualche errore commesso da Ippocrate doveva essere l’opinione di Alessandro di Afrodisia nel commento andato perduto alla Physica. Diversa l’opinione di Simplicio che invece, rifacendosi alla (perduta) Storia della Geometria di →Eudemo di Rodi, discolpa Ippocrate (42A3 D.-K.). Le quadrature di cui si occupa Ippocrate sono (Simpl. In phys. 54, 12-69, 34 Diels) : lunula che ha come confine esterno un semicerchio circoscritto a un triangolo isoscele rettangolo  









Fig. 7.

Un’ulteriore connessione da considerare è quella tra questo approccio e la tecnica dello gnomone (gnwvmwn) : questo termine è segnato da una certa polisemia, e può indicare sia il bastone piantato a terra per misurare l’ombra del sole e dunque l’ora del giorno (già in uso, in ambiente greco, dai Milesi, 11A21 D.-K., 12A2 D.-K.), sia la squadra di lavoro di un falegname (dunque relativo ad angoli retti) ; riferito alle figure lo gnomone indica invece la parte di un quadrato restante se ad esso si sottrae un quadrato di area inferiore, finché Euclide userà lo gnomone (cfr. def. 2 del ii libro degli Elementi) per indicare la parte rimanente di un parallelogramma a cui viene sottratto un parallelogramma inferiore costruito su una diagonale (cfr. il cosiddetto ‘teorema dello gnomone’ in  







geometria (Fig. 8), lunula il cui arco esterno è più grande di un semicerchio (Fig. 9), lunula avente l’arco esterno minore di una semicirconferenza, lunula e cerchio insieme. Ippocrate avrebbe trattato anche gli ulteriori casi di lunule particolari le cui aree differiscono per una qualche porzione di circolo da un’area quadrabile.

Fig. 8.

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anche per enti matematici (se 7 > V. Il segno X era presumibilmente inteso come l’unione di due V poste specularmente una sopra l’altra quasi a voler ricordare . Il segno L deriva dalla semplificazione del segno  

























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attraverso le seguenti fasi : > > > > L. Il segno C deriva dalla deformazione del segno in del quale, poi, venne presa solo la parte destra e, per la somiglianza con l’iniziale della parola centum, trasformata in C. La cifra arcaica del 500 subisce una rotazione di 45° in senso antiorario evolvendosi, attraverso lo stadio , in D. Il segno del 1000 era costituito dall’unione di due segni o, per meglio dire, il segno indicante il numero 500 era la metà del segno indicate il numero 1000 : . Questo subì nel tempo diverse alterazioni giungendo alla forma da cui e successivamente I , scritto anche M per la vaga somiglianza del segno con l’iniziale di mille. Dal segno fuI rono inoltre fatti derivare i segni > I (= 100.000) il cui (= 10.000) e > valore viene dimezzato scrivendo solo la metà e >I . Questi antichi destra : > I segni hanno una notevole somiglianza con le cifre in uso nelle altre scritture italiche, in particolare con quelle etrusche, anzi, ben prima dei Romani gli Etruschi applicarono a queste cifre i principî sottrattivo e additivo come testimoniano diverse iscrizioni etrusche del vi secolo a.C. (Ifrah 2008, 403). 4. Simbolismo e aspetti magico-esoterici – La natura perfetta del numero ha sempre affascinato l’uomo favorendo in passato lo studio di possibili relazione mistiche o esoteriche tra i n. e le caratteristiche o le azioni di oggetti fisici ed esseri viventi. La numerologia divinatoria, infatti, era una pratica molto popolare fra i primi matematici come →Pitagora il quale indicava nel numero la radice di ogni equilibrio cosmico e il ‘ritmo’ di tutte le scienze. Lo sviluppo della numerologia e i suoi rapporti con la matematica è storicamente simile a quello avuto dall’astrologia nei confronti dell’astronomia o dall’alchimia nei confronti della chimica. Secondo la filosofia di Pitagora i n. costituiscono la chiave d’accesso privilegiata per la comprensione delle leggi armoniche dell’universo ; secondo i Pitagorici, infatti, ogni forma è esprimibile numericamente in quanto ‘tutto è numero’ e i numeri stessi sono ‘archetipi divini’. Questa idea si rafforzò in seguito alla constatazione che la periodicità dei cicli cosmici, come la possibilità di prevedere le eclissi [→eclisse], di stabilire i tempi del giorno e della notte, la regolarità del movimento delle stelle, etc. erano riconducibili a unità numeriche ; quindi l’uomo finì per convincersi sempre  









di più che i n. non erano solo una semplice unità di misura, una convenzione, ma veri e proprî principi dell’ordinamento cosmico. Sulla base di tali premesse i n. assunsero un carattere sacro e si caricarono di qualità religiose e ogni particolare numero assunse significati molto specifici : il numero ‘uno’ è il simbolo dell’unità e della stessa pienezza dell’Essere, quindi di Dio stesso. Il numero ‘due’ simboleggia la dualità secondo certe dottrine orientali dualistiche e nell’ambito dello Gnosticismo. Dalla tesi e dall’antitesi scaturisce poi la sintesi o ‘trinità’, immagine della perfezione, ed è per tale motivo che il numero ‘tre’ ha per lungo tempo avuto la fama di ‘numero perfetto’. Il numero ‘sette’ è molto diffuso nell’ambito di molte teorie simboliche : infatti si consideri che la settimana è composta da sette giorni, in Genesi la creazione è stata eseguita in sette giorni, l’antico sistema solare consisteva di sette pianeti. Il simbolismo del ‘nove’ è di straordinaria importanza nell’antichità, infatti il suo valore è di ‘tre volte tre’, ovvero ‘tre volte perfetto’. Si consideri, poi, che tale numero è stato ritenuto di particolare importanza dal punto di vista ‘antropico’ per il fatto che occorrono nove mesi del calendario per la gestazione di un bambino. Il numero ‘dieci’ è il simbolo della pienezza e della perfezione (si pensi ai dieci Comandamenti). Il ‘dodici’ è carico di valori simbolici : il numero dei segni zodiacali, [11] il numero delle tribù di Israele e degli Apostoli, per dodici giorni Achille si vendica di Ettore, Ulisse supera dodici avventure e lancia la sua freccia attraverso i fori di dodici asce, dodici divinità olimpiche costituiscono, a partire dal sec. v a.C., il pantheon greco : Zeus, Era, Poseidone, Demetra, Apollo, Artemide, Ares, Afrodite, Hermes, Atena, Efesto e Hestia. Il ‘tredici’ è spesso considerato un numero sfortunato ; già Esiodo consigliava ai contadini di non iniziare a seminare il tredici del mese (Hes. op. 780-784). Nell’anno bisestile babilonese c’era un mese bisestile, il tredicesimo, rappresentato da un corvo, segno di sventura. Il ‘quaranta’ è il numero della ‘prova’, dell’‘esilio’ o della ‘purificazione’ : la puerpera, secondo le indicazioni bibliche, doveva essere tenuta in isolamento per quaranta giorni (Lev. 12, 1-4). La quarantena è un periodo di isolamento riservato ai malati di morbi contagiosi. Nell’antica Grecia il pasto funebre rituale veniva consumato quaranta giorni dopo la morte della persona. Il Diluvio  













numeri Universale dura quaranta giorni e quaranta notti (Gen. 7, 12), l’errare degli Ebrei nel deserto durò quarant’anni e per quaranta giorni è durata la tentazione nel deserto di Gesù (Ev. Matt. 4, 2). Famigerato è il numero ‘666’ (eJxakovsioi eJxhvkonta e{x), il numero della bestia che compare nell’Apocalisse di Giovanni ; [12] tra le varie interpretazioni proposte quella che pare la più attendibile è quella secondo la quale il numero in questione sarebbe da porre in relazione ai valori numerici che compaiono su una moneta dell’imperatore Domiziano, in carica all’epoca della stesura dell’Apocalisse. Infine si riteneva che i numeri pari fossero di natura negativa, mentre quelli dispari fossero di natura positiva in quanto quel valore ‘eccedente’ che rende dispari un numero è indice maggiore ‘forza’. La filosofia neoplatonica della tarda antichità, così come le dottrine esoteriche giudaiche, si occuparono della simbologia legata ai n. sfruttando i valori numerici insiti nei caratteri dell’alfabeto. Molti studiosi ebrei della Torah, infatti, si sforzarono di vedere nelle sequenze di lettere che compongono i versetti delle Scritture dei messaggi nascosti e ‘decodificabili’ solo in chiave numerologica : la qabbalah è una dottrina che si basa sull’analisi dei valori numerici delle parole (gematria) e comprende anche lo studio di figure geometriche. Il nome di Dio rappresentato dal TeYHWH, per esempio, tragramma sacro viene accostato numerologicamente all’attritov, ‘buono’ attraverso la buto divino somma dei valori delle lettere che in entrambe le parole dà 17, il tutto seguendo un procedimento per cui ad ogni lettera viene assegnato il suo numero d’ordine e vengono ridotti ad unità i numeri superiori a ‘9’, oppure, assumendo il quadrato del valore tradizionale di ogni lettera ebraica che costituisce il Tetragramma sacro, il nome divino, attraverso il numero 186 (52 + 62 + 52 + 102), può essere acmaqom, ‘dimora’, costato alla parola che è un altro appellativo di Yahweh. A tal proposito il monaco Rabano Mauro (776-869 d.C.) affermava che le Sacre Scritture contengono messaggi nascosti sotto forma di numeri che la maggior parte delle persone (i non iniziati de Lubac 2006, iv, 31-32) non erano in grado di comprendere. Secondo questa scienza esoterica i n. possono essere ricondotti alle emanazioni di Dio e quindi ai varî momenti della creazione, cioè permette di trovare cor 



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rispondenze fra i numeri da 1 a 9 e le varie parti dell’‘albero sephirotico’ che raffigura i dieci stati di coscienza che l’iniziato deve attraversare per raggiungere un livello di consapevolezza superiore (Gnosi) giungendo, infine, alla scoperta della propria natura divina. A rendere la scienza numerologica più criptica, misteriosa e suggestiva fu la convinzione secondo la quale le parole e i nomi proprî (soprattutto i nomina sacra) sono equiparabili fra loro secondo un calcolo che tiene conto del rispettivo valore numerico delle lettere che li compongono (onomanzia) : questo è il principio base della cosiddetta ‘isopsefia’, non di rado applicata nell’ambito dell’epigrafia paleocristiana. Accanto ai varî tipi di abbreviazioni (per sospensione, per troncamento, etc.), la lingua greca adottò un tipo di abbreviazione basata sulla somma dei valori numerici delle lettere che compongono una data parola : la ‘psefia’ (da hJ yh`fo~). Si tratta, dunque, di un criptogramma che esprimeva lo stesso concetto della parola ; ad esempio, la sigla WPH rappresenta la psefia del nome di IJ hsou`~ in quando la somma del valore delle lettere allude alla somma delle lettere del nome di Gesù : W (= 800) + P (= 80) + H (= 8) = 888, così come I (= 10) + H (= 8) + S (= 200) + O (= 70) + U (= 400) + S (= 200) = 888. Infatti nel libro I degli Oracoli sibillini (testi apocrifi dell’Antico Testamento scritti in greco), ai versetti 326-330, il nome di Gesù è sostituito da tale numero. Quando due o più parole hanno identico valore numerico, si dicono ‘isopsefiche’. Ciò rende estremamente difficile sciogliere una sigla basata su questo principio, infatti la sigla Q (= 99) può essere la ‘psefia’ di ajmhvn, bohvqi o di ajkohv, parole distinte per significato, ma ‘isopsefiche’ e quindi collegate mediante un legame soprannaturale. Com’è naturale, lo studio dell’isopsefia nei testi del Nuovo Testamento è stata usata per tentare la decrittazione del numero della bestia 666 citato nell’Apocalisse di Giovanni. [13] Dall’isopsefia greca e dalla gematria ebraica si svilupperà molto tardi l’aritmomanzia, una disciplina affine che però si basa sull’alfabeto latino.  









Note. [1] Hom. Od. 19, 175-177. – [2] kn K 700. – [3] Il segno ı deriva da una deformazione del ¸ e veniva usato a partire dalla tarda antichità ad indicare il nesso st. – [4] Ifrah 2008, 478. – [5] Plaut. Trin. 417. – [6] Cic. Flacc. 69. – [7] Cat. agr. 1, 5. – [8] Ifrah 2008, 394-395. – [9] cil i, n. 594. – [10] cil i,

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numeri ideali e numeri aritmetici

n. 590. – [11] In realtà lo zodiaco è composto da 13 segni giacché l’eclittica comprende anche la costellazione dell’Ofiuco, ‘Serpentario’. Non è chiaro per quale motivo fu escluso, probabilmente per avere un numero pari di costellazioni e rientrare nella simbologia del ‘12’. – [12] Apoc. 13,18. – [13] Ifrah 2008, 529. Bibliografia. Barry 1999 ; De Lubac 2006; Ifrah 2008 ; Ventris-Chadwick 1959; Villa 1995.  



Carmelo Lupini Numeri ideali e numeri aritmetici. →Aristotele attribuisce a →Platone un modello di tripartizione ontologica secondo il quale, tra le idee e gli enti sensibili, esisterebbero come nature intermedie gli enti matematici (ta; maqhmatikav), differenti dai sensibili in quanto immobili ed eterni, diversi dalle forme in quanto, mentre ogni idea è unica, dello stesso ente matematico esiste una molteplicità di espressioni tra loro simili. [1] Parallelamente al modello della tripartizione, lo Stagirita ascrive a Platone l’introduzione, al di sopra dei numeri aritmetici, dei numeri ideali, ossia di numeri eidetici (eijdhtikoiv) in possesso di caratteristiche logiche e ontologiche diverse rispetto a quelle dei numeri matematici. I numeri ideali e le idee sono, a loro volta, ricondotti a due principi che rappresentano non solo gli elementi (stoicei`a) costitutivi delle forme, ma anche gli elementi di tutte le realtà di cui le forme sono cause. Platone avrebbe postulato quali principi (ajrcaiv) un principio materiale e uno formale, la diade grande-e-piccolo e l’uno. La partecipazione della diade all’uno avrebbe prodotto le idee numeri : « poiché le idee sono causa degli altri enti, ritenne che gli elementi delle idee fossero elementi di tutti gli altri enti. Come principi ci sono a suo dire il grande-e-piccolo, diciamo in funzione di materia, e l’uno, come sostanza. Dal grande-e-piccolo, per partecipazione all’uno, nascono le idee (ta; ei[dh) i numeri (tou;~ ajriqmouv~) ». [2] Poiché i manoscritti non legano ta; ei[dh con tou;~ ajriqmouv~ per il tramite di una particella coordinatrice, è stato proposto anche di espungere tou;~ ajriqmouv~. L’affermazione aristotelica, al di là delle difficoltà filologiche, ha posto un problema filosofico : Platone avrebbe identificato idee e numeri perché costituiti dagli stessi elementi o avrebbe ricondotto quelle a questi ? Aristotele, dal canto suo, riporta da un lato la notizia secondo  













la quale le idee sarebbero numeri ; dall’altro quella per cui i numeri sarebbero idee. [3] Il fatto che la serie dei numeri ideali sembri arrestarsi alla decade deporrebbe a favore di una mancata identità fra questi e le idee : [4] i numeri sarebbero anteriori, in virtù della considerazione che ciò che è più semplice e inferiore numericamente è anche per questo anteriore. Tale idea si coniuga al cosiddetto principio del ‘non eliminare’ (mh; sunanairei`sqai), per cui fra due concetti o enti è anteriore quello che porta con sé anche l’annullamento dell’altro. [5] Su tale principio si fonda il modello della ‘serie dimensionale’, secondo il quale il solido trova la ragione della propria sussistenza nella superficie, questa nella linea e quest’ultima nel punto ; punto, linea, superficie e solido, a loro volta, rinviano a numeri. [6] L’idea di una subordinazione ontologica delle forme ai numeri è resa esplicita da →Teofrasto. [7] Tale complesso modello sopravvive nel neopitagorismo e nel neoplatonismo, anche se con modalità diverse e non sempre chiare. In →Nicomaco ci sono accenni a una identificazione o, forse, a una subordinazione delle idee ai numeri, accanto a una distinzione fra due tipi di numero. In →Plotino i numeri ideali assurgono a prima espressione del molteplice che deriva dall’Uno. Anche →Proclo, che forse segue una distinzione presente in Siriano fra due tipi di numero, sembra pronunciarsi a favore di una anteriorità dei numeri rispetto alle idee. [8] In merito al modo in cui i numeri eidetici si distinguono da quelli aritmetici, lo Stagirita sostiene che i primi sono incombinabili (ajsuvmblhtoi), in quanto ogni numero è diverso per essenza (tw/` ei[dei) dall’altro, per cui essi si distinguono solo secondo prima (provteron) e poi (u{steron). I numeri aritmetici sono, invece, consecutivi (ejfexh`~) : proprio perché le unità che li compongono non sono distinte formalmente, esse sono combinabili ; questo permette ai numeri di generarsi per somme reiterate. [9] La molteplicità interna dei numeri aritmetici risulta, pertanto, misurabile in virtù del fatto che ogni numero può essere ricondotto alle unità minime, tutte uguali fra loro, in cui si scompone. Aristotele sembra ritenere che anche ciascuno dei numeri eidetici risulti composto di unità : è possibile che ciò derivi dal fatto che la sola definizione di numero che egli accolga è proprio quella per cui il numero è una molteplicità formata da unità (ajriqmo;~  























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numeri ideali e numeri aritmetici

de; to; ejk monavdwn sugkeivmenon plh`qo~).

[10]

Esito della generalizzazione di tale definizione è la riconduzione della struttura degli eijdhtikoiv a quella dei numeri aritmetici, ed è tale riconduzione che permette allo Stagirita di mettere in luce alcune contraddizioni insanabili nella dottrina dei numeri ideali. Questi sono detti essere generati in virtù del processo di ‘egualizzazione’ – sorta di riequilibrio tra i diversi in modo che le unità divengano uguali – del grande e del piccolo sotto l’azione dell’uno ; ma questo comporterebbe la difficoltà che le unità interne al numero non sarebbero più indifferenziate, in quanto alcune deriverebbero dal grande, altre dal piccolo. [11] L’egualizzazione, inoltre, sembra incapace di rendere ragione dell’esistenza di numeri dispari, giacché essa pare assolvere esclusivamente a una funzione duplicatrice. Come, infine, potranno i numeri ideali essere diversi per specie, se risultano formati di unità che invece non dovrebbero avere tra loro differenze qualitative ? Bisognerebbe forse postulare una differenziazione fra le unità in quanto unità ? Le obiezioni aristoteliche presuppongono, come si vede, che i numeri ideali siano composti di unità. Non è, tuttavia, certo che la loro natura di ajsuvmblhtoi prevedesse, come vorrebbe lo Stagirita, che essi fossero costituiti di unità combinabili all’interno dello stesso numero, ma non combinabili fra numeri diversi. [12] È possibile, al contrario, che i numeri ideali non fossero affatto dotati di molteplicità interna e che qualunque criterio di calcolo – come, ad esempio, la generazione dei numeri dispari per mezzo dell’addizione – fosse integrazione a una dottrina che non risultava pienamente comprensibile. Le ‘cor 











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rezioni’ aristoteliche rendono ugualmente ambigua l’esatta collocazione di Speusippo e Senocrate in merito al problema dei numeri ideali. Il primo, stando allo Stagirita, avrebbe ammesso come solo numero quello aritmetico. [13] Il secondo avrebbe identificato i due tipi di numero, finendo con il ridurre il numero matematico al numero ideale e realizzando un’analoga identificazione tra figure geometriche e figure ideali. [14]  



Note. [1] Arist. Metaph. 1, 6, 987b 14-18. – [2] Arist. Metaph. 1, 6, 987b 18-22. – [3] Arist. Metaph. 1, 9, 991b 9 ; 13, 8, 1084a 7-8. – [4] Arist. Metaph. 13, 8, 1084a 12. – [5] Arist. Metaph. 3, 5, 1002a 4-b 11 ; 5, 11, 1018b 37-1019a 4 ; 13, 2, 1076b 18-20 ; Alex. Aphrod. In Metaph. 55, 20-56, 1. – [6] Sext. Emp. Adv. math. 10, 248-283. – [7] Theophr. Metaph. 6b 11-14. – [8] Nicom. Introd. Arithm. 1, 4, 2 ; 6, 1-4 ; Plot. Enn. 6, 6 ; Procl. Theol. Plat. 4, 29. – [9] Arist. Metaph. 13, 6. – [10] Eucl. Elem. 7, 2 ; Theon. Expos. rer. math. 18, 3 ; Nicom. Introd. Arithm. 1, 7, 1 ; Arist. Metaph. 5, 13, 1020a 13 ; 10, 1, 1053a 30 ; 6, 1057a 3-4 ; 13, 9, 1085b 22 ; 14, 1, 1088a 5-6 ; Phys. 3, 7, 207b 7-8. – [11] Arist. Metaph. 13, 8, 1083b 23-28. – [12] Arist. Metaph. 1, 9, 991b 21-26. – [13] Arist. Metaph. 13, 6, 1080b 14-15. – [14] Arist. Metaph. 12, 1, 1069a 35 ; 13, 6, 1080b 22-23.  































Bibliografia. Berti 1997 ; Berti 2004c ; Bertier 1987 ; Burnyeat 1987 ; Cattanei 1996 ; Caveing 1997 ; Dumoncel 1992 ; Gaiser 1994 ; Gaiser 1998 ; Isnardi Parente 1989 ; Krämer 1964 ; Krämer 1982 ; Linguiti 2007 ; Marković 1965 ; Merlan 1964 ; Mignucci 1987 ; Müller 1987a ; Mü0ller 2000 ; Napolitano Valditara 1988 ; O’Meara 1989 ; Radke 2003 ; Robin 1908 ; Ross 1989 ; Saffrey 1972 ; Szlezák 1987 ; Tarán 1978 ; Van der Wielen 1941.  



















































Claudia Maggi

O Occhio. 1. Anatomia. – Presso i → Presocratici all’occhio viene attribuita una capacità di conoscenza dubbia, come a tutti gli organi di senso. [1] Nel Corpus Hippocraticum troviamo conoscenze piuttosto ristrette : vene sottili vanno dall’encefalo alla pupilla ; tre membrane proteggono gli occhi e sono di spessore decrescente. Con →Platone si comincia a parlare di un « fuoco » immanente. [2] Con lo →(Ps.) Aristotele prende campo la cosiddetta teoria dei « filamenti di tasto » : [3] « gli oggetti divengono visibili attraverso il tocco di raggi visivi ». Progressi fondamentali nelle ricerche anatomiche e funzionali dell’occhio si registrano con Erofilo : vengono individuate le seguenti parti anatomiche e membrane : cornea, coroide, iride, cristallino, pupilla, umore vitreo, nervi ottici, muscoli (si vedano anche le descrizioni derivanti da →Erofilo attestate in Cicerone, →Celso, →Plinio il Vecchio, →Rufo di Efeso, →Galeno etc.). Una descrizione anatomica dell’occhio piuttosto precisa troviamo in Celso ; [4] l’autore richiama appunto fonti ellenistiche. Vengono descritte in modo esauriente, oltre al cristallino (crystalloides 7, 7, 13 C/319 M), sottostante alla lens vera e propria, la tunica superior alba crassa (ceratoides 7, 7, 13 A / 319 M), la tunica inferior circa tenuis (chorioides 7, 7, 13 B / 319 M), la tenuissima tunica (arachnoides 7, 7, 13 B / 319 M), ricordata anche come membranula (7, 7, 13, C / 319 M) e anche le duae tunicae in unum coactae per foramen ad membranam cerebri peruenientes (7, 7, 13 B / 319 M). [5] Celso prende anche in esame affezioni e terapie relative, attingendo a diverse fonti, talora dichiarate (come →Eraclide di Taranto). Galeno sviluppa, come è noto, la teoria del « fuoco » dell’occhio [6] Sappiamo, del resto, da Suetonio, [7] e da Plinio [8] che Tiberio andava affermando di poter vedere di notte grazie a questa luce. Con →Euclide [9] esiste la rappresentazione della piramide visiva (vertice nella ‘lenticchia’ preposta alla superficie, con base nella superficie degli oggetti visivi), una teoria e un’immagine che anche Galeno accetta. [10] La superficie anteriore della ‘lente’ (cristallino) riceve l’immagine della visione. Sono descritti retina, sistema venoso, cornea, pupilla e chiasma opticum. Per una efficace rappresentazione dell’anatomia dell’occhio si veda Cels. ed. Marx, tav. p. 320.  









Note. [1] D.-K. 68 B 11. – [2] Ti. 45 C. – [3] Pr. 3, 10, 872b 8. – [4] med. 7, 7 / 312-324 M. – [5] Cfr. Tav. in ediz. Fr. Marx, p. 320. – [6] Sympt. caus. 1, 6 / 7, 119 K. – [7] Tib. 68. – [8] nat. 11, 143. – [9] Opt. – [10] Us. part. 10, 12 / 3, 815-823 K. Fonti. D.-K. 68 B 11 ; Pl. Ti. 45 C ; Arist. Pr. 3, 10 872b 8 ; Euc. Opt. ; Cels. 7, 7 / 312-324 M ; Plin. nat. 11, 139-153; Gal. Us. part. 10, 12 / 3, 815-823 K ; Sympt. caus. 1, 6 / 7, 119 K.  

































Bibliografia. Jablonski 1930 ; Kölbing 1968 ; Magnus 1901 ; Mazzini 1997, 216-218 ; Steinhart 1995.  







Sergio Sconocchia 2. Fisiologia. – Se il Corpus Hippocraticum è pressoché muto sulla fisiologia dell’occhio, non così appare la medicina ellenistica, influenzata dalla dottrina aristotelica : Erofilo cerca di spiegare la funzione del nervo ottico che descrive, al pari dei nervi sensori, molle, cavo e pieno di pneuma che funge da medium per l’adduzione del messaggio percettivo. La sintesi del pensiero ellenistico passa per Galeno che così sintetizza : il cristallino è il punto in cui passano le immagini mentre l’umore vitreo alimenta il cristallino stesso ; le tuniche hanno varie funzioni : la retina quella di nutrimento per l’interno dell’occhio, visto che è l’unica ad avere numerose e grandi arterie e vene, assieme alla coroide che possiede anche un ulteriore scopo protettivo, mentre la cornea è deputata a proteggere la parte anteriore dell’occhio. Il nervo ottico è cavo per permettere la discesa dello pneuma psichico. La visione è un processo attivo : Galeno ammette l’esistenza di uno « pneuma luminoso » che, provenendo dal cervello, scorre lungo il nervo ottico e la retina ed infine lascia la pupilla per interagire con la luce esterna. [1] Da questa interazione hanno origine le sensazioni che entrano a loro volta nell’occhio, sollecitano il cristallino e ivi producono le immagini che vengono infine trasmesse al cervello attraverso la retina. La spiegazione è formalmente analoga alla teoria di Platone del « fuoco visuale » emesso dall’occhio, combinato con il « fuoco diurno » presente nell’ambiente esterno ; essa è sorretta però da riferimenti concreti e da un reale tentativo di Galeno di adattare la teoria all’anatomia dell’occhio.  

























olivicoltura Note. [1] Gal. Us. part. 10, 1-3 / 3, 760-773 K. Fonti. Pl. Ti. 45 C ; Arist. Pr. 3, 10 872b 8 ; Euc. Opt. ; Cels. 7, 7 / 312-324 M ; Plin. nat. 11, 54 ; Ps. Ruf. Anat. 8-17 / 171-172 D R ; Gal. Us. part. 10, 1-3 / 3, 760-773 K ; 10, 12 / 3, 815-823 K ; Sympt. caus. 1, 6 / 7, 119 K.  















Bibliografia. Jablonski 1930 ; Kölbing 1968 ; Magnus 1901 ; Mazzini 1997, 275-276 ; Steinhart 1995.  

















Note. [1] 6, 6 / 258-275 M. – [2] Cfr. cc. 19 ; 20 ; 21 ; 23 ; 27 ; 29 ; 52 e passim.  







Fonti. Cels. 6, 6 / 258-275 M ; Scrib. cc. 19 ; 20 ; 21 e passim ; Gal. Comp. Med. sec. loc. 4, 1 / 12, 696-708 K ; Ps. Gal. Def. med. 325-368 / 19, 433-439 K.  









Bibliografia. Grmek-Gourevitch 1998 ; Hirschberg 1899 (rist. 1977) ; Jackson 1996 ; Mazzini 1997, 346 ; Nutton 1997a, 277-279.  



Fonti. Cels. 6, 6 / 258-275 M ; Scrib. Larg. 19-38 ; Gal. Comp. med. sec. loc. 4, 1 / 12, 696-708 K. Vi sono trattazioni interessanti anche in seguito, come in Medicina Plinii, Physica Plinii, Marcello Empirico e altri autori.  





3. Patologia. – Per i mali dell'occhio il Corpus Hippocraticum si limita a parlare genericamente di dolori, flussi, infezioni etc. ; soltanto con la nascita, in età ellenistico-romana, dell’oculistica come ramo specifico della medicina, vengono ad essere conosciute e definite malattie singole ; così Celso[1] accenna, solo per fare alcuni nomi, a calazio, carbonchio, cateratta, oftalmia, pterigio etc. ; Scribonio Largo a diverse di queste stesse affezioni e ad altre, come anthera, epiphora, [2] cisposità di anguli oculorum e altre, come pure Plinio il Vecchio ; in Ps. Galeno, Introductio siue medicus, poi, accanto ad affezioni non citate in Celso, come strabismo ed altre, sono distinte categorie varie a seconda che riguardino, ad es., angoli, parti diverse delle palpebre, cornea, iride, pupilla etc.  

si, e medicamenti vari (cc. 19-38). La medicina successiva, da Plinio a Galeno ad altri autori della tarda antichità, è molto attenta alle terapie oculari.

Bibliografia. Magnus 1901 ; Mazzini 1997, 377379.

Fabio Cavalli



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4. Terapeutica. – Ci si soffermerà anche per questo organo soprattutto sulla terapeutica in →Celso e in →Scribonio Largo. Celso eredita e sintetizza, nella sua opera, l’eredità scientifica della medicina greca classica e di quella ellenistica. Consiglia ed enumera, per le patologie oculari già nominate supra, anche colliri, di cui descrive ingredienti e preparazione e cita gli ‘inventori’ (Cleone, Dionisio, Euelpide e altri), ma si sofferma anche ampiamente su interventi chirurgici. Scribonio, autore del primo trattato farmacologico in latino, tratta adeguatamente di varie affezioni oculari e descrive soprattutto collyria, leggeri o più inten-

Sergio Sconocchia Olivicoltura. 1. Introduzione. – La centralità dell’olivo all’interno del panorama socioculturale di tutte le civiltà fiorite nel corso dei millenni sulle coste del Mar Mediterraneo è un elemento essenziale per la comprensione della storia e della cultura di queste popolazioni. Le ragioni di tale fenomeno risiedono essenzialmente nel fatto che l’olivicoltura, sin dai tempi più remoti ed in tutte le civiltà, dal Vicino Oriente a Roma, è stata sempre tra le principali attività agricole e l’olio (come anche le olive stesse), insieme ai cereali ed al vino, hanno rappresentato il patrimonio delle genti del Mediterraneo ed i loro principali mezzi di sostentamento. Per limitarci a pochi esempi possiamo soltanto ricordare che la terra promessa del popolo d’Israele viene descritta nel Deuteronomio (8, 8) come un paese fertile, ricco di frumento, viti, fichi, melograni, olivi, olio e miele, mentre il romano Columella (5,8,1) chiama l’olivo « il primo tra tutte le piante » dal momento che è l’albero che richiede la spesa minore. Certamente diverse possono essere state le modalità in cui l’olivo influenzò l’economia di ciascun popolazione antica, ma questa pianta ricoprì sempre un ruolo centrale sia sotto il profilo socio-economico, sia sotto quello religioso-culturale. 2. L’olivo nel mito e negli agoni. – Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, l’olivo è presente sia nella dimensione del mito, nell’ambito della decisione delle dodici divinità prese come arbitri della contesa tra Poseidone ed Atena per il possesso dell’Attica (come è noto, il dio del mare aveva offerto alla città di Atene una sorgente d’acqua salmastra fatta scaturire con un colpo di tridente [vd. Ps. Apollod. 3, 178, plhvxa~ th/` triaivnh/ kata; mevshn th;n aj 



krovpolin ajpevfhne qavlattan, h}n nu`n jErec-

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olivicoltura [1]

qhivda kalou`sin ], ma Atena riuscì a vincere la contesa donando l’olivo), sia nel panorama cultuale ed agonistico. Il premio per i vincitori dei giochi di Olimpia era una corona fatta di rami recisi con un coltello d’oro dall’olivo che cresceva nell’Altis nei pressi dell’Opistodomo. Le fonti antiche affermano che esso era un olivo selvatico (kovtino~, vd. Paus. 5, 15, 3) portato da Eracle dal paese degli Iperborei (Paus. 5, 7, 7) (altre fonti affermano che provenisse dall’Ilisso [Arist. mir. 51] [2]) mentre solo Pindaro (O. 3, 1315) parla di olivo, chiamando la corona glaukovcroa kovsmon ejlaiva~. Ed anche a Roma venivano incoronati con l’olivo i cavalieri alle idi di luglio e coloro che ricevevano il triumphus minor come ci ricorda →Plinio (nat. 15, 19) : oleae honorem Romana maiestas magnum perhibuit turmas equitum idibus Iuliis ea coronando, item minoribus triumphis ovantes. 3. Letteratura ed economia. – I Greci prima ed i Romani dopo furono i primi ad elaborare una letteratura di ambito agronomico a carattere tecnico, in cui lo spazio riservato alla coltura dell’olivo ed alla produzione dell’olio è senza dubbio maggiore rispetto a quello destinato a qualsiasi altra pianta o attività produttiva. La differenza fondamentale tra la civiltà greca e quella romana nell’ambito dell’olivicoltura risiede essenzialmente nel diverso tipo di economia che caratterizzava i due popoli dal momento che quella romana fu di più ampia portata e con orizzonti e prospettive più vasti rispetto a quella greca classica che per lo più fu un’economia ‘domestica’ in cui il surplus prodotto non superava i ristretti confini della polis. [3] Dal punto di vista, però, dei sistemi di coltivazione e delle tecniche produttive i testi antichi, pur considerando le distanze temporali che li dividono, ci offrono un panorama per lo più omogeneo. L’insieme delle nozioni e dei precetti relativi all’olivo ed all’olio che si possono raccogliere nei testi greci e soprattutto latini ci fornisce una grossa mole di informazioni e ci permette di comprendere l’alto grado di specializzazione a cui si era giunti. Sotto il profilo dell’arboricoltura possiamo dividere le notizie in nostro possesso in due sottocategorie fondamentali : la prima relativa al modo piantare e riprodurre l’albero, la seconda alla potatura ed alla raccolta del frutto. 4. Piantare e riprodurre l’olivo. – Per quanto riguarda i luoghi adatti alla crescita degli olivi, Columella (5, 8), dopo aver elencato le dieci  







varietà d’olivo da lui conosciute (→Catone ne cita otto [agr. 6,1], →Virgilio tre [georg. 2, 86], Plinio quattordici [nat. 15, 8, 13-17]), afferma che nessuna di esse sopporta il clima torrido o il gelo (praefervidum aut gelidum statum coeli patitur) ed aggiunge : itaque aestuosis locis septentrionali colle, frigidis meridiano gaudet, sottolineando che l’olivo predilige sempre i luoghi con un clima più stabile e temperato. Egli continua dicendo che sebbene alcune varietà sopportino bene le alte temperature, alcuni ritengono che l’olivo non resista o sia meno fecondo se si trova a più di sessanta miglia dal mare (ultra sexagesimum a mari aut non vivere aut non esse feracem). I →geoponica osservano a proposito (9,3) quanto sia importante il vento, calmo e temperato, per la crescita dell’olivo, dal momento che esso rinfresca le piante e ne agevola lo sviluppo. Riguardo al periodo in cui è preferibile piantare gli olivi, →Columella (5,9) consiglia l’autunno per i terreni secchi ed argillosi e la primavera in quelli fertili e ricchi di acqua, mentre. Catone (agr. 6) raccomanda soprattutto un terreno rivolto in direzione del favonio, distinguendo tra terreni grassi e caldi, in cui si può piantare l’ oliva che serve per condire, e cioè la salentina, l’orchite, la posea, la sergiana, la colminiana, l’albicera, e quelli freddi e magri adatti solo alla liciniana. A proposito delle buche in cui gli olivi devono essere piantati, le raccomandazioni generali degli scrittori antichi si concentrano su due elementi fondamentali : la necessità che il terreno al loro interno sia friabile, in modo che le radici possano facilmente svilupparsi ed estendersi senza trovare particolari ostacoli (a tal proposito Columella [arb. 19] ed i Geoponica [9,6,3] consigliano di bruciare preventivamente all’interno delle buche della legna secca) e che la distanza tra le piante sia abbastanza ampia (Cat. agr. 6,1, parla di una distanza minima di venticinque-trenta piedi, mentre i Geoponica [9,6] di cinquanta cubiti). Per quanto riguarda i modi per riprodurre l’olivo, le fonti antiche sono molto dettagliate e distinguono tra la riproduzione ‘per talea’ e ‘per margotta’ e quella ‘per innesto’. Le talee sono porzioni dell’albero, di varia grossezza (dal semplice ramo al pezzo di tronco [4]), che vengono staccate ed interrate perché sviluppino un proprio apparato radicale e diano vita così ad una nuova pianta. Alcuni scrittori antichi consigliano [5] di realizzare dei veri e propri vivai di talee, per poi trasferirle  



olivicoltura dopo tre o quattro anni in campo aperto. Essi raccomandano anche l’utilizzo di un terreno ben lavorato e concimato e la pratica di spalmare con letame e cenere le parti inferiori della talea per impermeabilizzarle, evitando che marciscano e favorendo l’emissione di radici. Inoltre →Teofrasto (HP 2,5,3), Columella (5,9,8) ed i Geoponica (9,11,2) prescrivono di interrare le talee d’olivo con lo stesso orientamento che avevano sulla pianta madre, in modo che vengano battute sempre nello stesso modo dai venti e dal sole. L’orientamento originario poteva essere indicato con un segno fatto sulla talea con terra rossa. Teofrasto (HP 2,5,3) e più ampliamente Catone (agr. 51-52) accennano alla riproduzione ‘per margotta’, che consiste nell’affondare nella terra i rami più bassi o i polloni che nascono ai piedi dell’albero e poi rialzarne la sommità in modo che possano mettere radici (un secondo sistema prevede l’uso di vasi o canestri di vimini forati alla base nei quali bisogna inserire il ramo che si desidera metta radici e poi riempire il vaso di terra ed aspettare che dal ramo spuntino le radici). Per quanto riguarda la riproduzione degli olivi ‘per innesto’, i due tipi di cui si parla di più nella trattatistica antica sono quelli ancora oggi praticati e conosciuti con i nomi di ‘innesto a gemma o ad occhio’ ed ‘innesto a corona’. Il primo [6] (chiamato dai Romani emplastratio [7]) consiste nel prelevare una gemma non ancora germogliata (insieme alla corteccia su cui si trova) da una pianta ed applicarla su un ramo di un’altra, dopo aver praticato su quest’ultima un’incisione corrispondente alla grandezza della gemma. Bisogna fare in modo che la gemma aderisca perfettamente al legno del nuovo ramo. Perciò è necessario legarla saldamente con della corda. L’innesto ‘a corona’ [8] (inoculatio [9]) consiste nel praticare un taglio netto in un ramo ed inserire tra la corteccia ed il legno alcune marze (piccoli ramoscelli) della qualità d’olivo desiderata. Dopo aver inserito la marza è necessario legare tutto saldamente con della corda e spalmare le parti prive di corteccia con del mastice, al fine di impermeabilizzare il tutto ed evitare che l’acqua piovana filtri. Le fonti latine [10] parlano anche di un terzo tipo di innesto chiamato insitio, ovvero il cosiddetto ‘innesto a spacco’. Esso consiste nel tagliare di netto un ramo, praticare al suo interno, nella parte legnosa, uno spacco da parte a parte ed inserirvi le marze. Solo i Geoponica (9,16) accennano ad un particolare tipo

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di innesto che con molta probabilità era una tipologia di innesto ‘a gemma’ da praticare direttamente sulla radice. 5. Potatura e raccolta del frutto. – Per quanto riguarda la potatura dell’albero, considerata utile e necessaria da Teofrasto (CP 3,2,3 ; 3,7,6-8 e passim) per dare luce e permettere un corretto sviluppo della pianta, Catone (agr. 61) scrive che bisogna potare l’oliveto quindici giorni prima dell’equinozio di primavera e nei quarantacinque giorni che seguono tale data. Columella (5,9,15) consiglia di rimondare gli olivi solo ogni sette anni (quod tamen satis erit octavo anno fecisse, ne fructuarii rami subinde amputetur). Anche i Geoponica (9,9,5-11) offrono consigli generali in materia, relativi al periodo in cui eseguire la rimonda (l’autunno), all’altezza migliore per gli alberi (massimo dieci cubiti), etc. Per quanto riguarda la raccolta delle olive, molti testi antichi concordano nel dire che è preferibile svolgere questa operazione con le mani, prendendo il frutto direttamente dall’albero. Varrone (rust. 1,55,1-3), inoltre, prescrive di raccogliere le olive con mani nude e non con i guanti (perché il guanto rovina il ramo, spezzandolo, e lo lascia esposto al gelo) e di scuotere l’albero nei punti più alti, per favorire la caduta delle olive, solo con una canna. La sua leggerezza, infatti, evita che i rami si danneggino e favorisce la produzione d’olive anche per gli anni successivi. Stesse raccomandazioni troviamo in Plinio (nat. 15,12) e nei Geoponica (9,17) che prescrivono di raccogliere le olive quando non c’è troppa umidità per non spezzare i ramoscelli a cui sono attaccate, di utilizzare stuoie sotto gli alberi per non far sporcare le olive che cadono e di servirsi di scale per raggiungere le parti alte dell’albero. 6. La produzione dell’olio. – Gli scrittori antichi sapevano bene che anche dalle piccole drupe di oleastro si può ricavare olio ma conoscevano altrettanto bene il suo scarso valore. Plinio (nat. 15,24), ad esempio, considera l’olio di oleastro, amaro ed utile solo per i medicamenti (ante omnes ex oleastro. tenue id multoque amarius quam oleae et tantum ad medicamenta utile). Allo stesso modo gli antichi sapevano di poter estrarre olio non solo dalle olive, bensì anche dalle noci (vd. Theophr. HP 1,12,1 e Plin. nat. 15,26), dal terebinto e dal sesamo (vd. Geop. 9,18). Naturalmente l’olio più pregiato era quello di oliva ed in particolare l’olio verde, ottenuto da olive non ancora mature. [11] La  

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olivicoltura

spremitura di olive ancora acerbe, però, non permette di ottenere molto olio. Come, però, affermava Columella, nihilominus ex pretio viridis olei plus quam moltitudine mali nummorum contrahitur (« si ricava un guadagno più forte con il prezzo dell’olio verde anziché vendendo un’enorme quantità di olio scadente »: 12, 52, 20). Di diverso avviso era Catone il quale riteneva che al padrone convenisse di più fare l’olio dalle olive mature dal momento che le olive acerbe producono un basso quantitativo d’olio di qualità paragonabile a quello ottenuto dal frutto maturo. Un interessante metodo per ottenere l’olio verde (e[laion ojmfavkinon, omphacium) è descritto in dettaglio nei Geoponica (9,19,3-10) : « Bisogna raccogliere ogni giorno la quantità che è possibile lavorare nella notte che sopraggiunge o in quella successiva. Dopo averle raccolte, lasciale su stuoie o vimini, in modo che venga eliminata l’umidità e non ci sia danno per il calore che si scambiano le une con le altre. Bisogna togliere le foglie ed i ramoscelli che ci sono ; queste cose, infatti, mischiate alle olive, sono dannose per la conservazione dell’olio. Poi, quando giunge la sera, spargi del sale e metti le olive in una macina pulita e macinale leggermente con la mano in modo che i noccioli delle olive non si triturino ; infatti il siero interno dei noccioli rovina l’olio. Bisogna, dunque, far girare la macina leggermente e lievemente in modo che si sprema solo la polpa e la buccia dell’oliva. Dopo averle macinate, con delle ciotole trasferisci la pasta in un tino e poi mettila in fiscoli di vimini (infatti i vimini aggiungono qualità all’olio) ; poi metti sopra un peso leggero e non eccessivo. Ciò che esce dalla spremitura leggera è ottimo e delicatissimo e dopo averlo versato in vasi puliti, riservalo per il tuo consumo personale. Poi spremi di nuovo le olive che sono rimaste con un peso un po’ più massiccio e di nuovo ciò che esce tienilo per te. Questo, infatti, è di poco inferiore al primo ma migliore del successivo. Ai due tipi d’olio che hai già travasato devi aggiungere un po’ di sale e nitro e muoverli con un bastone di legno d’olivo. Dopo lascia riposare in modo che decanti e vedrai che la parte acquosa, cioè la morchia, andrà sotto, quella più grassa, invece, verrà in superficie ». Le macine utilizzate nell’antichità per la molitura delle olive erano di piccole dimensioni e potevano essere fatte girare manualmente. Questo dato è confermato dalle testimonian 















ze archeologiche relative ad insediamenti greci molto antichi come Clazomene (vi-v sec. a.C.), Olinto (iv a.C.) etc. [12] Da quanto rimane nel sito di Clazomene gli archeologi hanno tentato di ricostruire la forma della macina per olive, pensando ad una ruota di pietra che girava in una fossa circolare scavata nel terreno. La ruota era fissata attraverso dei perni ad un’asse verticale molto alta che veniva fatta girare da un uomo che con buone probabilità si trovava su una piattaforma lignea soprastante la macina. [13] Il trapetum romano, invece, è descritto nei particolari da Catone (agr. 20-22) e consisteva in un mortarium a forma di grosso vaso in cui venivano fatte girare due macine (orbes) semicircolari, fissate ad un asse di legno (cupa) che montava perpendicolarmente su un perno di ferro (columella ferrea). La poltiglia ottenuta dopo la macinazione veniva sistemata nelle presse, intervallata da diaframmi di vimini o di panno, Una grossa asse di legno che da una parte era incuneata nel muro e dall’altra tirata verso il basso da un argano o da pesi di pietra, faceva pressione sulla pasta in modo da spremere l’olio misto alla sentina. Il liquido così ottenuto veniva lasciato decantare in modo che l’olio, più leggero, venisse a galla e potesse essere facilmente raccolto e conservato. Le fonti antiche riferiscono molti modi con cui all’olio poteva essere dato un particolare aroma, con l’aggiunta di alcune spezie, fiori (ad esempio l’iris) o mosto (Geop. 9,21). Si ricordano, inoltre, le operazioni da svolgere per curare l’olio rancido o torbido o maleodorante. [14] In realtà molto spesso si tratta di rimedi empirici senza alcun fondamento e che spesso potevano risultare dannosi per l’olio stesso. Un esempio estremo è offerto dai Geoponica in cui si prescrive di curare l’olio rovinato da un topo cadutovi dentro, introducendo dei carboni di legno d’olivo arroventati (Geop. 9,25,3). Lo stesso procedimento, ma con una pigna bruciata o del sale abbrustolito, è consigliato per purificare l’olio (Geop. 9,21). Si possono trovare, inoltre, le istruzioni necessarie per ottenere un olio simile a quello della Spagna o dell’Istria (Geop. 9,26-27), delle vere e proprie forme di contraffazione, insomma, dovute soprattutto alla difficoltà di raggiungere i luoghi di produzione (lo stesso accadeva col vino e Catone (agr. 105 e 112) fornisce le indicazioni necessarie per produrre da sé il vino greco ed il vino di Cos). 7. Magia e medicina. – L’olio e l’olivo, da sem 





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pre, sono stati utilizzati come rimedi curativi e per la preparazione di sostanze medicamentose. È molto difficile, però, discernere nelle fonti antiche quanto appartenga all’ambito magico-rituale e quanto, invece, abbia realmente un fondamento scientifico. Sicuramente alla sfera magico-religiosa appartiene il rimedio, riportato nei Geoponica, contro il mal di testa che consisteva nell’applicazione sulla parte dolorante di una foglia d’olivo recante scritto il nome di Atena. [15] Anche Plinio (nat. 15,19) ricorda l’utilizzo dell’olio per il mal di testa : Oleo natura tepefacere corpus et contra algores munire, eidem fervores capitis refrigerare. Ippocrate (Acut. 2,42,51), parlando del corretto regime alimentario, consiglia di non usare l’olio in eccesso in quanto può risultare indigesto e non salutare. Allo stesso tempo, però giudica il suo utilizzo per la pulizia esterna del corpo in maniera estremamente positiva (Acut. 2,58). 8. Gastronomia. – I testi antichi contengono anche delle sezioni relative all’ambito culinario e si dilungano particolarmente sulla preparazione delle olive da mensa. Vengono, infatti, elencati vari modi per la preparazione delle olive (con mosto, con miele agro, con vinacce, schiacciate, in salamoia, etc.). [16] Naturalmente il gusto degli antichi difficilmente coincide con quello dei moderni. Una cosa risalta subito, la particolare predilezione per cibi che unissero insieme dolce ed amaro (o salato). Ne sia una prova evidente la preparazione delle olive con il mosto o miele. Particolarmente diffuse erano le olive schiacciate che si preparavano schiacciando le olive (ed a volte togliendo anche i noccioli) e sistemandole in un vaso con sale, finocchio o cumino. [17]

Onager [monavgkwn, onager]. Per la conoscenza di questa grande macchina [→meccanica] siamo debitori soprattutto allo storico Ammiano Marcellino (4, 4-7), che ce ne ha lasciato una descrizione piuttosto dettagliata. Interessante innanzitutto notare che i nomi con cui il mezzo era conosciuto in Antichità derivano da usi metaforici che sono piuttosto comuni nella lingua della scienza. Il termine onager, infatti, designa propriamente l’asino selvatico, successivamente attribuito alla macchina per l’abitudine dell’animale di scagliare pietre con gli zoccoli contro i propri inseguitori. È lo stesso autore latino a spiegarcelo, come anche a riferire che in precedenza l’o. era chiamato scorpio (‘scorpione’), per via del suo braccio eretto, il quale ricordava l’aculeo velenoso dell’animale [→animali velenosi]. Proprio la presenza di quest’unica trave era una delle sue caratteristiche, come risulta evidente dalla nomenclatura greca monavgkwn, che significa appunto ‘un braccio solo’, intendendo il ‘braccio’ in senso balistico, cioè la leva di un’arma da lancio. Benché le interpretazioni moderne non siano sempre d’accordo nella ricostruzione dei particolari, la sua struttura d’insieme è chiara. [1] Si tratta di una macchina a →torsione. Una matassa di robuste funi ritorte, disposte a collegare due travi parallele, costituiva la forza motrice. Tra queste era inserita l’asta di →legno in modo da garantirle un movimento ad arco su

Note. [1] Vd. anche Str. 9,1,16. – [2] Vd. anche schol. Ar. Pl. 586 ; Suid. s.v. kotivnou stefavnou. – [3] Vd. Foxhall 2007, 21-83. – [4] Vd. Theophr. HP 2,1,4 ; 2,2,4 ; 2,5,3-5 e passim ; Xen. oec. 19,8-14. – [5] Vd. Cat. agr. 45-46 e Colum. 5,9. – [6] Vd. Theophr. CP 1,6 e HP 2,1,4. – [7] Vd. Cat. agr. 42 ; Colum. 5,11,8 e arb. 20,3 ; Plin. nat. 17, 118 ; Pallad. 3,17. – [8] Vd. Theophr. CP 1,6 e HP 2,1,4. – [9] Vd. Colum. 5,11 ; Plin. nat. 17,100 ; Pallad. 3,17. – [10] Vd. Colum. 5,11 ; Plin. nat. 17,101 e Pallad. 3,17. – [11] Vd. Cat. agr. 65,1-2 ; Colum. 9,2,83 e 12,52,1 ; Plin. nat. 12,130. – [12] Vd. Foxhall 2007, 139-165. – [13] Vd. Foxhall 2007, 140-143. – [14] Vd. Cat. agr. 110 e Geop. 9,23-25. – [15] Vd. Geop. 9,1,5 e ig iv 2 1,126 – [16] Vd. Cat. agr. 117 e 118 ; Varr. r.r. 1,60 e 66 ; Colum. 12,4951 ; Geop. 9,28-33. – [17] Vd. Colum. 12,49,8 ; Plin. nat. 15,16 ; Geop. 9,32.

Fig. 1. Onager (da Russo 2004).









Bibliografia. Amouretti-Brun 1993 ; Drachmann 1932 ; Foxhall 2007 ; Meana-Cubero-Saez 1998.  





Francesco G. Giannachi





































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un piano verticale. L’estremità libera di questa terminava con una frombola, in cui era alloggiata la pietra da lanciare. Vincendo la resistenza delle funi, un verricello a mano con ruote permetteva di abbassare l’asta fino quasi ad una posizione orizzontale, infine un grilletto rilasciava il proiettile. Secondo altre interpretazioni, occorrevano invece delle leve di ferro per riuscire a torcere la matassa nella fase di caricamento. Il ritorno alla posizione verticale dell’asta doveva essere molto violento, per cui l’arma era dotata anche di un sistema che ne smorzava la parte finale della corsa, costituito da un grosso sacco di paglia saldamente assicurato ad un supporto, forse una specie di parete o struttura lignea. L’onager era senz’altro un congegno superbo e dalla grande potenza. Le fonti non ci hanno lasciato notizia sulle sue dimensioni, ma probabilmente si trattava di un mezzo imponente, visto che per permettere il suo caricamento erano necessari otto uomini. Secondo alcune ricostruzioni, infatti, le versioni più grandi potevano scagliare pietre del peso di 20-30 kg. fino ad una distanza di 300 metri ed oltre. [2] Un grosso problema logistico doveva senz’altro essere il suo trasporto sui campi di battaglia, per cui è presumibile che fosse impiegato in situazioni di scontro statico. [3] Gli effetti dell’o. erano micidiali, se si pensa che poteva essere rivolto contro altre macchine, dove operavano gli sventurati soldati, o direttamente contro le stesse truppe. L’utilizzo più comune ed efficace era però in caso d’assedio, sfruttando quindi la sua capacità di lancio parabolico, che consentiva di superare le fortificazioni e colpire l’interno delle città.

confrontarsi sia con gli amici che con i nemici. Interessante il punto di vista dal quale tale figura viene presentata. O. mira infatti a sottolineare che devono essere le sue qualità personali, e non la nobiltà dei natali o le ricchezze, le ragioni sulle quali basare la scelta di un buon generale (1, 21). Tra le doti necessarie spiccano quelle intellettuali, come la capacità di tenere in considerazione la psicologia delle truppe. Il generale deve inoltre possedere un vasto patrimonio di conoscenze, che spazino dai metodi di addestramento alle misure necessarie alla costruzione degli accampamenti, al comportamento da tenere in caso di ritirata o nel condurre un inseguimento di un nemico in rotta. La cultura dominante che alimenta la riflessione di O. è senz’altro quella greca, come si evince dai richiami agli scritti di →Senofonte, →Enea Tattico, Polibio e Tucidide, ai quali si rifà anche stilisticamente. La prospettiva cambia al momento di esplicitare gli ideali destinatari dell’opera, che l’autore individua nei comandanti dell’esercito romano (1, pr. 1-2). Un manuale per esperti, dunque. Nonostante gli alti destinatari e le buone conoscenze che O. dimostra di possedere, rimane dubbia la questione se egli fosse o meno un uomo d’armi, [1]. Dell’autore come figura storica sappiamo infatti pochissimo. La tradizione lo segnala come seguace di Platone, del quale commentò la Repubblica. Grazie alla menzione di un personaggio noto, Quintus Veranius (1, pr. 1), è possibile datare la sua opera verso la metà del I sec. d. C. Per quanto riguarda infine la sua fortuna, non è del tutto chiaro il rapporto coi successivi →stratagemmi.

Note. [1] Vd. Campbell, D. B. 2003b, 42 sg. ; Marsden 1971, 274 sgg. – [2] Vd. Marsden 1969, 86 ; [3] Russo 2004, 303.

Note. [1] Ambaglio 1981 ; Galimberti 2002.









Bibliografia. Campbell 2003b ; Marsden 1969 ; Marsden 1971 ; Sáez Abad 2005b.  









Bibliografia. Ambaglio 1981 ; Campbell 1987 ; Galimberti 2002 ; Loreto 1995 ; OldfatherOldfather-Pease-Titchener 1923 ; Petrocelli 2008.  





Francesco Fiorucci Onasandro. Il titolo dell’opera di O., Strathgikov~, cioè Il comandante, chiarisce immediatamente il punto di vista dal quale muovono le argomentazioni dello scrittore. È infatti l’ideale condottiero la figura centrale del trattato, di cui vengono descritte le caratteristiche, sia fisiche che morali, all’insegna di un’etica comportamentale che vede l’uomo di comando





Francesco Fiorucci Oppiano di Apamea. 1. Dati biografici e opere. – O. d’Apamea (Siria), confuso nella tradizione biografica con Oppiano di Anazarbo, visse sotto Caracalla, al quale dedicò i quattro libri dei Cynegetica, poema sulla caccia pubblicato tra il 212 e il 217. La trattazione è piuttosto diseguale e risente dello stato di incompiutezza dell’opera : il libro i eil ii, vv. 1-42, verte sugli ausilii e  

orecchio sui mezzi impiegati per la caccia ; l’attività venatoria vera e propria è descritta nel iv ; dal ii, 43 fino alla fine del iii si tratta dei quadrupedi senza che si diano ulteriori notizie sulla loro caccia. Il poema non è esente da pecche metriche, linguistiche e da incongruenze varie. O. fu fonte primaria di Grattio e della fioritura in età umanistica di numerosi poemetti De re venatoria.

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Bibliografia. Fajen 1999 ; Keydell 1939 ; Keydell 1972 ; Mair 1928 ; Rebuffat 2001.  







Antonino Zumbo Oppiano di Cilicia. 1. Dati biografici e opere. – O. di Anazarbo (Cilicia),vissuto sotto l’imperatore Marco Aurelio e il suo coreggente Commodo, pubblica fra il 177 e il 180 d.C. gli Halieutica, poema didascalico in cinque libri, composto in eleganti esametri probabilmente intorno al 175, e dedicato ai sovrani regnanti. A lui per lungo tempo, sulla base dei bíoi tramandati da tutti i mss., vennero attribuiti i quattro libri dei Cynegetica, il poema sulla caccia opera di Oppiano di Apamea, e i due libri degli Ixeutica, probabilmente di Dionisio di Alessandria, dei quali sopravvive una Parafrasi bizantina. Nei primi due libri degli Halieutica O. descrive le diverse specie di pesci e la vita di tutti gli animali marini, avendo come fonte Aristotele, Dorione, Leonida di Taranto, Numenio di Eraclea ; dedica il terzo e il quarto alle varie forme di pesca, mentre nel quinto tratta dei cetacei, delle fiere marine e della relativa caccia. La rappresentazione del mondo marino comporta l’umanizzazione della vita dei pesci. Prezioso come fonte onomastica, O., pur nella continua ricerca della variatio lessicale, offre (soprattutto nei suoi cataloghi ittici) materiale esaustivo dei nomina piscium relativamente alla doppia denominazione e alla denominazione etimologica. Presenti nel poema, oltre all’utilizzo delle fonti scritte, l’esperienza diretta e i mirabilia. Il poema godette di una notevole fortuna, testimoniata oltre che dalla consistente messe di manoscritti che lo tramandano, da una parafrasi in prosa (pervenuta mutila) redatta nel v sec. d.C.  

Bibliografia. Agosta 2009 ; Benedetti 2005 ; Fajen 1999 ; Keydell 1939 ; Keydell 1972 ; Mair 1928 ; Rebuffat 2001.  











Antonino Zumbo

Orecchio. 1. Anatomia-Fisiologia. – Le più antiche testimonianze su anatomia e fisiologia dell’orecchio si trovano nei →Presocratici. Conoscenze dell’anatomia dell’orecchio non si ritrovano invece né nel Corpus Hippocraticum né presso →Aristotele, che precisa che le singole parti dell’orecchio non sono ancora ben conosciute ed esclude inoltre connessione tra orecchio e funzione uditiva. [1] Dopo Aristotele, →Erasistrato [2] per primo sembra aver conosciuto la connessione tra orecchio e udito, che viene nuovamente ribadita in seguito da →Galeno. [3] La conoscenza moderna di singole parti dell’orecchio ritorna fondamentalmente nella terminologia di →Rufo di Efeso. [4]  



Note. [1] Arist. HA 1, 11, 492a 14 – 492b 4. – [2] Fr. 189 Garofalo. – [3] Gal. Us. part. 16, 3 / 4, 272-275 K. – [4] Ruf. Onom. 43-45. Fonti. Le testimonianze più antiche sull’orecchio sono nei Presocratici: ad es. cfr. Heraclit. B 107, I 175, 2 D.-K., Heraclit. B 101 A, I 173, 15 D.-K., Democr. C 6, II 227, 25, D.-K., Emp. A 93, I 307, 13 D.-K., etc. In seguito, attestazioni ritroviamo in Aristotele, che ne parla in alcuni passi di HA, precisando tuttavia l’inadeguatezza delle conoscenze anatomiche ; lo scienziato dà inoltre prova di limitate nozioni fisiologiche. Conoscenze più approfondite sono in Erasistrato, fr. 189 Garofalo, poi in Galeno, ad es. Us. part. 16, 3 / 4, 272-275 K. Una visione più moderna è in Rufo di Efeso, Onom. 43-45.  

Bibliografia. Politzer 1907, 11-39 ; Stamatu 2005n, 658-659 ; Werner 1925.  



2. Patologia. – Fin dalle opere del Corpus Hippocraticum sono individuate e distinte numerose affezioni interne ed esterne dell’orecchio, i cui sintomi principali di dolore (otalgia) sono tuttavia in parte trasmessi come comuni ad altre malattie e da questi derivati. Così si poteva ingenerare la tonsillite. [1] Era inoltre conosciuto il flusso dell’orecchio attraverso fistole purulente, [2] oppure infiammazioni che potevano diventare mortali, [3] rottura dell’orecchio, [4] propriamente rottura della cartilagine, [5] disturbi auditivi, che portavano a manifestazioni di vere e proprie →malattie mentali, ad es. la mania. [6]. Ci si soffermerà qui brevemente soprattutto sulla medicina a Roma di età imperiale, segnatamente su due autori come →Celso, che raccoglie l’eredità della medici 







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orfeo

na greca classica ed ellenistica e →Scribonio Largo. L’enciclopedista dedica un intero capitolo a sintomi e terapia di ascessi e di vermi dell’orecchio, otturazione del condotto uditivo, udito pesante, ronzii come corpi estranei nell‘orecchio. [7] A sua volta Scribonio, autore del primo trattato di farmacologia in lingua latina, le Compositiones, richiama nella sua opera [8] molte affezioni all’orecchio, come dolori, gonfiori etc. Note. [1] Hp. Gland. 7 / 8, 562 L. – [2] Hp. Loc. hom. 12 / 6, 296-297 L. – [3] Hp. Morb. 2, 16 / 7, 28 sg. L. – [4] Hp. Art. 40 / 4, 172-176 L. – [5] Cfr. Cels. 8, 6 / 383-384 M in aure quoque interdum rumpitur cartilago. – [6] Aret. 3, 6, 9. – [7] Cels. 6, 7, 1-9 /275-281 M. – [8] Scrib. Larg. cc. 39-45 / 28-30 S. Fonti. Le fonti sono quelle già richiamate nella trattazione qui sopra e, precisamente, passi del Corpus Hippocraticum come Hp. Art. 40 / 4, 172-176 L ; Loc. hom. 12 / 6, 296-297 L ; Morb. 2, 16 / 7, 28 sg. L ; Gland. 7 / 8, 562 L ; passi di autori di età ellenistica ; inoltre, per l‘età imperiale romana, Cels. 6, 7, 1-9 /275-281 M ; 8, 6 / 383-384 M ; Scrib. Larg. cc. 39-45 / 28-30 S ; Aret. 3, 6, 9.  















Bibliografia. Politzer 1907, 11-39 ; Werner 1925 ; Stamatu 2005n, 658-659.  



3. Terapeutica. – Ci si soffermerà qui brevemente soprattutto sulla medicina a Roma di età imperiale, segnatamente su Celso, che raccoglie l’eredità della medicina greca classica ed ellenistica e su Scribonio Largo. Celso rivendica per primo, accanto ai trattamenti medicamentosi, per esempio attraverso infusioni, gli interventi chirurgici, ad es. per la chiusura innata del condotto uditivo, oppure per cicatrizzazioni : [1] si vedano in merito →strumenti chirurgici. Gli strumenti adatti per il trattamento dell’orecchio erano sonde speciali, cucchiai e anche siringhe. A sua volta Scribonio Largo prescrive [2] una serie di medicamenti assai efficaci, composti con rimedi dai tre regni, vegetale, minerale e animale →farmacologia.  

Bibliografia. Politzer 1907, 11-39 ; Werner 1925 ; Stamatu 2005n, 658-659.  



Sergio Sconocchia Orfeo. 1. Vita e opere. – Il personaggio è mitico : sarebbe stato uno straordinario cantore e poeta oriundo della Tracia che sarebbe incorso in mille traversie ed avversità, ma che si sarebbe guadagnato fama imperitura grazie al suo canto. A lui si attribuisce la fondazione dei misteri orfici e un numero altissimo di componimenti poetici, giunti a noi frammentari, e probabilmente apocrifi. Il poema scientificamente più interessante attribuitogli, ma anch’esso apocrifo, è intitolato Liqikav o Lapidario orfico : 774 esametri di uno stile alessandrino molto raffinato. Il testo (che si finge di essere collocato, temporalmente, in un’epoca di poco precedente la guerra di Troia, poiché Teiodamante e Eleno sono figli di Priamo) è praticamente impossibile da datare su basi solamente filologiche. Gli studiosi moderni sono discordi al punto che alcuni hanno potuto riferirne la composizione alla prima metà del ii sec. a.C., sulla base di presunte affinità coi poemi di →Nicandro, e altri alla fine del iv sec. d.C., perché conterrebbe riferimenti ad una persecuzione organizzata dai cristiani nell’inverno dell’anno 371 contro i filosofi neoplatonici. Halleux-Schamp 1985, 57, gli ultimi editori, propendono per una composizione nella prima metà del ii sec.d.C. I manoscritti che ci hanno trasmesso il poema sono tutti posteriori all’inizio del xiv sec. La prima edizione a stampa è aldina (1517). 2. Argomento. Il poema comprende tre parti : 1) una prefazione (90 versi) : O., nell’andare alla grotta dove ogni anno suole offrire sacrifici ad Ermete, che l’aveva protetto da un morso di serpente quando era bambino, incontra il saggio Teiodamante e si avvia con lui ; 2) un brano descrittivo (versi 91-164) che illustra l’ambiente bucolico in cui si svolge il cammino e che introduce le parole di Teiodamante ; 3) il testo vero e proprio (versi 172-761) che consiste nell’illustrazione che Teiodamante fa dei caratteri e delle proprietà di 28 pietre (secondo altri solo 25, essendoci ripetizioni), divise in due gruppi : per le prime 13 pietre sono indicate le preghiere da dire per farne emergere le proprietà magiche ; per le altre (che sono descritte da Eleno con molta enfasi) si parla soprattutto delle loro  











Note. [1] Cels. 6, 7, 1-9 / 275-281 M ; 7, 8, 324-325 M. – [2] Scrib. Larg. cc. 39-45 / 28-30 S.  

Fonti. Accanto a cenni in passi di autori di età ellenistica, attestazioni significative sono in Celso e Scribonio Largo, nei passi già indicati qui sopra. Si potranno anche utilmente leggere l’opera di Plinio, passim, e quella di autori successivi, fino a Marcello Empirico e ad altri più tardi.





organi genitali proprietà curative e della protezione contro il morso dei serpenti. 3. Contenuto mineralogico. Le pietre sono descritte senza nessun ordine apparente, neppure alfabetico : si va dal cristallo alla calazia, cioè da una pietra incolore (quarzo) a un’altra pietra incolore (diamante ?), passando per nomi di pietre effettivamente esistenti (topazio, siderite, agata, etc.), di pietre favolose (galattite, pietre delle vipere e dello scorpione), da minerali (ematite) a rocce (corsite) a materiali organici (corallo). L’interesse del poeta non è per il minerale o per la roccia, ma per le proprietà che si sforza di attribuire loro, tutte orientate a favorire colui che ne è il fortunato possessore. Qua e là, però e come per caso, affiora un particolare descrittivo che evidenzia proprietà reali : ad esempio la possibilità di accendere il fuoco facendo convergere i raggi del sole attraverso il cristallo, oppure l’acre odore della gagate. 4. Importanza storica. Il poema è uno dei massimi esempi della fase antiscientifica della →mineralogia greca (Abel 1971) : i minerali non sono valutati né come fonte di metalli utili né come componenti di medicine, ma come oggetti misteriosi portatori di proprietà magiche, anche se utili a chi li possiede. È notevole che di queste proprietà non si cerchi mai di individuare la causa : i Lithiká non rientrano né tra i trattati astrologici né tra quelli alchemici. Tuttavia, per il suo contenuto favoloso, riscossero un buon successo nell’antichità. Il poema fu oggetto di una parafrasi in prosa, opera probabilmente di un cristiano bizantino, che ci è pervenuta (khruvgmata). Il testo in prosa descrive 25 pietre (le stesse del Lithiká), ma non soddisfece i lettori e perciò fu ulteriormente ampliato fino a contenere in tutto le descrizioni di 53 pietre, aggiungendovi un testo mineralogico indipendente che va sotto i nomi di Socrate e Dionisio (Halleux-Schamp 1985). La frequente menzione di pietre incise, l’attribuzione delle virtù magiche non tanto alla pietra quanto piuttosto a particolari segni incisi su di essa e la tematica greco-egiziana degli intagli figurati che sono proposti a tale scopo, sono tutti elementi che fanno ritenere che il lapidario attribuito a Socrate e Dionisio sia un’opera scritta in Egitto in età imperiale, probabilmente nel ii-iii sec. d.C. (Wellmann 1935).  









Bibliografia. Abel 1971 ; Halleux-Schamp 1985 ; Wellmann 1935.  

Annibale Mottana



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Organi genitali. – Nel Corpus Hippocraticum troviamo ampie trattazioni sulla generazione e sul concepimento ; sono invece scarse le conoscenze anatomiche. Queste divengono più approfondite a partire dal iv sec. a.C. →Aristotele conosce la funzione del dotto spermatico. Con →Erofilo sono descritti gli epididimi, le vescicole seminali, la prostata. Ma non sempre le conoscenze anatomiche sono precise ; talvolta gli organi genitali femminili sono assimilati a quelli maschili : le ovaie sono equiparate ai testicoli (didymoi) ; la cervice dell’utero, ad es. con Erofilo, è assimilata alla parte superiore della gola. Con →Celso, che eredita le conoscenze anatomiche degli Alessandrini, i testicoli hanno qualcosa di simile alle midolla ; non emettono sangue e sono privi di ogni sensibilità ; le tuniche di cui sono rivestiti dolgono invece nei colpi traumatici e nelle infiammazioni. Pendono dagli inguini, attraverso singoli nervi, che i Greci denominano cremasteri, con l’uno e l’altro dei quali discendono, a due a due, vene e arterie, a loro volta protette da tuniche ; tutto l’apparato dei testicoli è racchiuso in un involucro a sacco, che i Greci chiamano oscheon, i Romani scrotum, che, nella parte inferiore, aderisce alle tuniche mediane, mentre nella parte superiore le circonda soltanto. [1] A sua volta →Rufo di Efeso descrive le parti interne ed esterne dei genitali maschili e distingue bene l’uretra, cioè il canale attraverso cui sono emessi lo sperma e l’urina, e il dotto urinario, che tuttavia non deve essere denominato uretere, poiché l’urina fluisce dai reni nella vescica attraverso altri canali. [2] Assai approfondite e precise sono le conoscenze anatomiche in →Sorano : l’utero ha conformazione e dimensione differenziata in relazione all’età (bambine ; ragazze ; donne maritate e che hanno partorito), ha forma non tortuosa, come negli animali, ma somiglia alla ventosa usata dai medici. L’organo è costituito da due tuniche ; nel suo insieme è per lo più nervoso ; ma esso non è costituito solo di nervi, bensì anche di vene, arterie e tessuti carnosi. Si distinguono le varie parti fino alla vagina e alle sue ‘labbra’. All’esterno dell’utero hanno sede le ovaie (definite testicoli), molli, simili a una ghiandola, rivestite di una speciale membrana. Sono arrotondate e un po’ piatte alla base. La vagina stessa è più stretta all’esterno, ma internamente più ampia . [3] Per →Galeno la cervice è costituita di tessuti carnosi, duri e muscolosi.  



























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oribasio

Note. [1] Cels. 7, 18, 1-2 / 335 M. – [2] Ruf. Onom. 101-103 / 146 D R. – [3] Sor. Gyn. 1, 4-5 / 1, 8-16 B G M. Fonti. Cels. 7, 18, 1-2 / 335 M) ; Ruf. Onom. 101-103 / 146 D R ; Sor. Gyn. 1, 4-5 / 1, 8-16 B G M.  



Bibliografia. Adams 1982a; Adams 1982b ; Hallett-Skinner 1998 ; Laqueur 1996, 39-58 ; Mazzini 1997, 231-235 ; Nutton 2002b ; von Staden 1991a, 271-296.  









Sergio Sconocchia Oribasio. Fu medico greco di grande fama, la cui fortuna è ben attestata nei secoli successivi fino al pieno Medioevo. Nato a Pergamo, visse nel iv sec. d.C. e fu testimone dei convulsi avvenimenti che videro protagonista l’imperatore Giuliano l’Apostata (360-363), di cui fu bibliotecario e medico personale. Oribasio rappresenta uno dei massimi esempi dell’ascesa sociale della classe medica nel tardoantico, giocando un ruolo importante nella politica di restaurazione religiosa e culturale perseguita dal suo imperatore. Come Giuliano, infatti, anche Oribasio era pagano, perciò dopo la morte dell’Augusto cadde in disgrazia, finendo in esilio; ma in seguito ne fu richiamato proprio grazie ai suoi meriti scientifici e alla notorietà di cui godeva. Di lui conosciamo direttamente tre scritti, il trattato enciclopedico Collectiones medicae, originariamente composto di settanta libri, ma di cui ci resta solo una parte, la Synopsis ad Eustathium, dedicata al figlio, che seguì le orme paterne intraprendendo la professione medica, e gli Euporista, un prontuario di medicina adatto ai non esperti. La sua opera fu molto apprezzata e studiata nel mondo islamico, come dimostrato dalle →traduzioni (mediche) approntate in lingua araba, ma anche nel circolo di Ravenna. La sua produzione scientifica si pone sul solco di quella galenica [→Galeno], tradizione proseguita poi da autori quali → Paolo Egineta. Bibliografia. Bussemaker-Daremberg-Molinier 1851-1876 ; Raeder 1964a ; Raeder 1964b ; Baldwin 1975 ; De lucia 2005 ; Jones-Martindale 1971; Touwaide 2000c.  









Francesco Fiorucci Ortaggi [lavcana, olus, holus]. 1. Definizione e cenni storici. – Si definiscono ortaggi tutte le

piante erbacee coltivate a scopo alimentare. Il termine ortaggio deriva dal latino hortus, parola che per i Romani indicava sia il giardino che l’orto ; questo spiega la contemporanea presenza di →fiori, alberi da frutta e verdure negli orti dell’antica Roma. La coltivazione degli ortaggi risale al Neolitico, ed in particolare sembra che i più antichi centri agricoli conosciuti fossero localizzati in Asia Minore. Al sorgere delle grandi civiltà, quasi tutte le piante oggi coltivate erano domesticate dall’uomo ; la pratica agricola aveva già raggiunto ottimi livelli presso Babilonesi ed Egiziani, ma solo durante l’età classica, in Grecia e a Roma, si verificò un notevole incremento della produzione di ortaggi. A tale epoca risale la differenziazione razionale delle piante e delle loro caratteristiche, dei differenti tipi di →terreno e →concime. I rapporti commerciali tra Roma ed il Vicino Oriente aumentarono ulteriormente le varietà di ortaggi a disposizione dei contadini : dalla Siria, considerata in hortis operosissima (Plin. nat. 20, 33), arrivarono la radix syriaca, un’ottima varietà di rafano piccante, e la radicula (saponaria) ; dalla Cilicia giunse quella che Virgilio definì la migliore qualità di lattuga esistente ; dalla Palestina venne importata un’importante varietà di cipolla. Avere un orto nell’antica Roma era di fondamentale importanza soprattutto per i più poveri (vd. Plin. nat. 19,51) : un normale appezzamento di terreno, che in genere non superava i due ettari, poteva garantire durante tutto il corso dell’anno diversi tipi di verdure, che per di più potevano essere consumate subito, diversamente dai cereali che richiedevano lunghi processi di lavorazione prima di essere usati. Dal i secolo d.C., a causa dell’aumentato fabbisogno di ortaggi, a Roma, intorno alla città, si sviluppò una sorta di ‘cintura’ costituita da numerosi appezzamenti di terreno di circa 1 ha in grado di produrre lattuga, cavoli, rape e →legumi (vd. Montanari 2006). Durante il Medioevo le varietà di ortaggi coltivate rimasero pressoché identiche. Una svolta fondamentale si ebbe con le grandi scoperte geografiche del 1500 : dal Nuovo Mondo arrivarono peperoni, pomodori, zucche e patate. Queste verdure comparvero sulle tavole degli Europei solo a partire dal 1700, giacché prima di allora si credeva che i pomodori e gli altri ortaggi americani fossero delle piante ornamentali velenose. 2. La storia dell’orto. – L’idea di orto presso  













ortaggi i Greci era sovrapponibile a quella di giardino : nel celebre o[rcato~ di Alcinoo (Hom. Od. 7,127-128) c’erano alberi da frutta, una vigna ed infine una grande varietà di verdure disposte ordinatamente ; solo in un secondo momento negli orti greci trovarono spazio piante floreali e fontane che rendevano ‘l’orto-giardino’ non solo uno spazio deputato alla coltivazione di ortaggi, ma anche ‘un luogo di piacere’, secondo quanto sosteneva →Epicuro. [1] Gli orti in Attica, per la loro importanza, divennero una delle caratteristiche principali del paesaggio. Nella Roma più antica l’hortus aveva una funzione pratica, ma già alla fine della Repubblica si diffuse il concetto di horti, ossia quello di parco delle ville patrizie. L’orto a Roma, secondo Varrone (rust. 1,1,6), era addirittura oggetto di venerazione e godeva della protezione di Venere, come peraltro dimostrano alcuni culti dedicati alla dea. Plinio (nat. 19,57) afferma che il modo migliore per giudicare le qualità di una brava massaia romana era proprio quello di osservarne l’orto. Dopo la caduta dell’Impero romano si perse ogni traccia degli antichi orti di Roma, i cui resti tornarono alla luce nel Medioevo grazie alla perizia dei monaci. A partire dal vii secolo d.C., all’interno dei monasteri, l’orticoltura divenne una delle attività principali, visto che gli ortaggi erano una fonte di sostentamento per i monaci. Gli orti monastici, in quanto anche luogo di raccoglimento spirituale, erano organizzati in modo razionale ed ordinato : aiuole, siepi e muretti separavano le diverse colture, creando quello che veniva definito hortus conclusus. Durante il Rinascimento negli orti le piante ornamentali occuparono uno spazio sempre maggiore, specialmente nelle residenze signorili. L’orto assunse un aspetto più complesso di quello dei monasteri : grazie alla presenza di fontane e vialetti l’austera struttura degli orti medievali scomparve. Si diffuse ben presto l’idea di ortogiardino [→giardino], che riprendeva l’etimologia latina del termine orto : celebri sono i Giardini di Boboli a Firenze. Alla fine del 1500, però, si arrivò ad una separazione progressiva tra lo spazio pratico del giardino in cui coltivare le verdure e il giardino vero e proprio, inteso come spazio dedito allo svago. Nel corso del Settecento e dell’Ottocento avere un orto in grado di produrre primizie di ogni genere da offrire ai propri ospiti divenne una moda : il magnifico orto di 9 ha che il Re Sole aveva fat 













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to allestire all’interno della reggia di Versailles era diventato infatti un modello da imitare. 3. Usi pratici e scientifici. – Gli ortaggi ricoprivano un ruolo fondamentale nell’alimentazione degli antichi Romani : fagioli, cavoli, lattuga, rape, carote e piselli erano gli ingredienti principali della dieta romana, che era prevalentemente vegetariana. In particolare la rapa era alla base dell’alimentazione dei più poveri, come ricorda →Columella (2,9 ; [2] 12,56), ma più in generale doveva essere un ortaggio di notevole importanza per l’economia dell’Impero romano, poiché →Plinio afferma che al suo tempo le rape erano il terzo prodotto in ordine di importanza dopo frumento e vino. Metaforicamente la rapa, per il suo largo impiego presso i ceti meno abbienti e per l’alta quantità di acqua in essa contenuta, indica qualcosa di scarso valore. Ancora nel Medioevo la rapa doveva ricoprire una notevole importanza, ma l’arrivo della patata dall’America ne ridusse progressivamente il consumo. Il largo impiego degli ortaggi nell’antica Roma è testimoniato anche da →Apicio, che dedicò il libro iii del De re coquinaria alle numerose ricette romane a base di olera. Il noto gastronomo romano nella propria opera non mancò di ricordare le funzioni terapeutiche degli ortaggi [→farmacologia], secondo una tradizione letteraria diffusa in Grecia e a Roma. [3] Proprio in Grecia nacque il primo orto botanico : →Aristotele nel 340 a.C. delineò l’idea di uno spazio nel quale le piante coltivate fossero oggetto di studi scientifici, ma la realizzazione pratica di tale progetto la dobbiamo al suo allievo →Teofrasto. L’interesse scientifico nei confronti di piante comuni portò nel Medioevo alla nascita degli herbularia, spazi dedicati alla coltivazione di piante dotate di proprietà mediche. Solamente nel 1543, in parte grazie al ritrovamento di numerosi testi scientifici fino a quel momento sconosciuti, nacque a Pisa il primo orto botanico moderno. 4. La classificazione. – La tassonomia botanica nasce in Grecia nel iv secolo a.C. grazie a Teofrasto, l’allievo di Aristotele che per primo classificò gli organismi vegetali nell’Historia plantarum. A Roma Plinio dedicò il libro xix della sua Naturalis Historia agli ortaggi e alla loro catalogazione : in tale opera gli olera vengono raggruppati, in base al loro uso alimentare, in piante apprezzate per il bulbo, per la testa, per il fusto, per le foglie, per la sostanza  









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ottica

cartilaginosa, per la sostanza carnosa, per la scorza e per la buccia (nat. 19,60-61). La classificazione di Plinio, che non è prettamente scientifica, verrà ripresa da Columella nel De re rustica. Nel Medioevo gli ortaggi erano semplicemente divisi in herbes e radices, a seconda che la loro parte commestibile si sviluppasse al di sopra o al di sotto del suolo. Anche la botanica moderna classifica i prodotti dell’orto in base alla loro parte commestibile : foglia (cavolo, bietola e lattuga), stelo (asparago e sedano), frutto (zucca, cetriolo, etc.), infiorescenza (cavolfiore e carciofo), radice (carota, ravanello, barbabietola, etc.) e semi (fagioli, piselli, etc.). 5. Le rappresentazioni nelle arti figurative. – I primi ad usare gli ortaggi come soggetto di affreschi furono gli antichi Egizi : la ben nota concezione dell’aldilà che aveva tale popolo rendeva inevitabile che sulle pareti della ‘nuova dimora’ del defunto comparissero oggetti e vivande in grado di creare un ambiente quanto più domestico e familiare. In Grecia il cibo comparve dapprima nei vasi corinzi dell’età arcaica e più tardi nelle pitture funerarie di età ellenistica. Anche i mosaici di Pompei ed Ercolano (i a.C.-i d.C.) sono ricchi di scene di vita quotidiana, pertanto è molto facile vedere raffigurate tavole imbandite sulle quali accanto a frutta e pesce campeggiano verdure di ogni tipo. Gli ortaggi diventarono i veri protagonisti dell’arte nel 1500, il secolo della ‘natura morta’, il genere artistico a cui diede prestigio Caravaggio. [4] Tra le conseguenze della Controriforma ci fu infatti un rinnovamento iconografico secondo il quale gli elementi della natura, ricchi di significati simbolici, dovevano essere in grado di suscitare un forte sentimento di devozione religiosa. Il Cinquecento fu anche il secolo dei ritratti allegorici di Arcimboldi, creati tramite l’accostamento di frutta, verdura e fiori. Celebre è il ritratto di Rodolfo ii come Vertumno, dio dell’abbondanza (1590).  





Note. [1] Vd. Plin. nat. 19,51. – [2] Nam utraque (scil. rapa et napa) rusticos implent. – [3] Cfr. Plin. nat. 20. – [4] Vd. Caravaggio, Canestra di frutta, 1597-1599, Milano, Pinacoteca Ambrosiana. Bibliografia. Brambilla 2006 ; Capodaglio 1935 ; Carazzoli 2003 ; De Caro 2001 ; Gregori 2003 ; Longo 2004 ; Piccinato 1933 ; Rees 1987 ; Sadler 1970 ; White 1970b, 224-271.  















Cristiana Bernaschi



Ottica [ojptikav, optice]. 1. Premessa. – Il termine ‘ottica’, con il valore di «scienza dei fenomeni della vista» [ta; ojptikav], per quanto consta, è documentato a partire da →Aristotele (Metaph. 3, 2, 997b 20 : «la medesima cosa avverrebbe per gli oggetti studiati dall’ottica e dalla dottrina matematica dell’armonia» ; vd. anche Metaph. 13, 2, 1077a 5 : «la medesima cosa si dica per quanto attiene all’ottica ed all’armonica» ; cfr. pure APo. 1, 13, 79a 9-13, a proposito di oJ ojptikov~, «studioso di ottica» : «il medesimo rapporto che intercorre tra ottica e geometria può sussistere anche tra un’altra scienza e l’ottica ; ad esempio, tale è il caso per lo studio dell’arcobaleno : in effetti, il conoscere in questo campo che qualcosa è riguarda l’osservatore degli eventi naturali, mentre conoscere il motivo per cui qualcosa è riguarda l’esperto di ottica, in quanto semplicemente tale, o in quanto si fonda sulla matematica» ; in →Vitruvio (1, 1, 4) è testimoniata la forma optice. A partire dal filosofo peripatetico si realizza un primo timido riconoscimento funzionale dell’ottica, che →Platone neppure classifica tra gli ambiti dell’insegnamento della matematica : solo a partire da Euclide essa si configura come una disciplina autonoma, per quanto è possibile dedurre dalle testimonianze e dalle fonti superstiti. Tra il iv-iii secolo a.C., con →Euclide, ed il ii secolo d.C., con →Tolemeo, la disciplina relativa alla visione perfeziona il metodo d’indagine, arricchendosi con nuove e più complesse considerazioni, pur rimanendo inalterata l’idea fondamentale : l’occhio emette un cono di ‘raggi visivi’, mediante i quali è possibile percepire gli oggetti, e quindi la loro posizione, grandezza, forma e colore. Nella necessaria evoluzione dell’indagine si presentano quasi in parallelo due poli della medesima branca : l’ottica, comunemente detta, che attiene allo studio della visione diretta in rapporto con i ‘raggi visivi’, e la catottrica, che studia gli elementi relativi alla riflessione ed alla rifrazione. La seconda branca non è indipendente, ovviamente, dalla prima, in quanto presuppone la teoria della ‘percezione visiva’ elaborata dall’ottica, e ne utilizza i risultati teorici, in senso applicativo, soprattutto in rapporto alla progettazione di vari tipi di specchi, tra cui la tradizione ricorda i famosi ‘specchi ustori’ di forma parabolica associati all’attività di →Archimede. Dunque, per delineare i  





















ottica principi dell’ottica antica, bisogna affidarsi a due trattazioni, che ci sono pervenute : l’Ottica di Euclide e quella di Tolemeo. 2. Scienza della visione. – L’Ottica di Euclide, [1] composta nei primi anni del iii secolo a.C., può essere ritenuta il primo trattato di ottica (‘geometrica’), con cui la disciplina si fonda su precise regole scientifiche e matematiche : come le altre opere di Euclide si presenta come un trattato ‘assiomatico deduttivo’ ; in particolare presuppone i principi illustrati dallo scienziato negli Elementi, che rappresentano la fase cruciale della geometria antica e moderna. Risulta opera di grande importanza, in quanto segna l’applicazione di un metodo scientifico come diretta derivazione dalla matematica ellenistica : il punto di collegamento necessario tra la geometria, le scienze che hanno per oggetto la visione e l’astronomia, è la base per la realizzazione degli strumenti visivi. [2] Argomento centrale dell’opera è quello della visione diretta, che, in qualche modo, si focalizza intorno alla visione dei contorni ; di fatto la ‘dimostrazione’ del fenomeno ottico, da parte di Euclide, si collega con la geometria : sono analizzate le proprietà geometriche inerenti alla propagazione rettilinea della luce, [3] i limiti della capacità visiva dell’occhio e delle apparenze degli oggetti in movimento. Con tali elementi di indagine si connette la teoria di intervalli (angolari) tra i ‘raggi visivi’, e quindi la considerazione collegata circa il ‘cono’ di raggi uscenti dall’occhio, che però saranno abbandonate dalla scienza posteriore ed in particolare da Tolemeo. Restano esclusi dalla trattazione i fenomeni attinenti all’origine ed alla qualità della luce ed al colore, che condizionano la sensazione visiva ; inoltre quelli relativi alla rifrazione, che rientrano nell’ambito di una disciplina parallela (catottrica), di cui possediamo un’ opera omonima pseudo-euclidea, [4] ed alla rifrazione. Questa impostazione dell’ottica (‘geometrica’) ha tuttora una sua validità, sebbene la nozione di propagazione rettilinea della luce, che è alla base del trattato euclideo, debba essere in parte modificata sulla base delle scoperte moderne. Quindi essa è solo una parte dell’ottica ; questa, in senso lato e moderno, si occupa dello studio dell’intera gamma dei fenomeni luminosi, ed inoltre delle proprietà fisiche di altre radiazioni (raggi infrarossi, ultravioletti, etc.) : nozioni evidentemente estranee all’ottica antica. Nel particolare la  

























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considerazione centrale, intorno a cui ruota la ‘dimostrazione’ di Euclide, si fonda su quattro elementi : a) la propagazione rettilinea della luce ; b) il presupposto di un ‘cono visuale’, formato dai raggi che partendo dall’occhio incidono sui contorni dell’oggetto ; c) la grandezza di un oggetto definita dall’ampiezza dell’angolo al vertice del cono, che coincide con la pupilla ; d) la posizione dell’oggetto determinata in rapporto ai raggi che formano il campo visivo. Il trattato si apre con sette «definizioni» (o{roi), cui seguono cinquantotto ‘teoremi / proposizioni’, che esemplificano la sostanza geometrica dell’assunto di Euclide. Può essere utile riprodurre in traduzione le sette definizioni : [5] «1. i raggi visivi si propagano dall’occhio lungo delle linee dritte con una divergenza (angolare) di ampiezze molte diverse ; [6] 2. la figura racchiusa tra i raggi visivi è un cono con un vertice nell’occhio e la base lungo il confine del campo visivo ;[7] 3. sono oggetto della visione le cose sulle quali vanno a cadere i raggi visivi, mentre non sono viste quelle sulle quali non cadono i raggi visivi ; 4. le cose viste secondo un angolo maggiore appaiono più grandi, minori quelle viste secondo un angolo minore, uguali quelle secondo angoli uguali ; 5. le cose viste sotto raggi più elevati appaiono più elevate, quelle sotto raggi più bassi appaiono più basse ; 6. nello stesso modo le cose viste sotto raggi posti più a destra appaiono più a destra, quelle sotto raggi più a sinistra appaiono più a sinistra ; 7. le cose viste sotto un numero maggiore di angoli appaiono più nitide». Queste ‘definizioni’ rappresentano una sorta di ‘rivoluzione’ rispetto ad alcune teorie precedenti, che avevano affrontato il ‘problema della visione’ ; inoltre la ‘definizione’ della propagazione rettilinea della luce assunse la funzione di necessario collegamento tra geometria e scienze attinenti alla visione (basta ribadire che la teoria ‘ottica’ diviene preliminare rispetto all’indagine astronomica ed alla definizione, sul piano pratico, degli strumenti visivi). Il concetto della propagazione rettilinea della luce, che è alla base dell’ottica ‘geometrica’, deriva dall’osservazione empirica e sperimentale, per cui, se si pone un corpo opaco sul segmento che congiunge l’occhio con un punto definito di un oggetto, viene meno la visione di quel punto : ciò rimane valido da Euclide sino all’ottica ‘geometrica’ moderna, relativamente alla maggior parte dei fenomeni comuni, anche se  

























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la fisica ha riveduto e modificato, quanto all’ottica, la nozione di propagazione rettilinea della luce, tenendo conto dei fenomeni d’interferenza e di diffrazione, che si configurano come deviazione di questa ‘norma’ sulla propagazione rettilinea. La conseguenza immediata dell’affermazione di Euclide è il concetto dei «raggi visivi» (o[yei~), che, partendo dall’occhio, vengono a formare un ‘insieme discreto’, con un rapporto, in cui la distanza angolare ‘è finita’ : da ciò deriva la conseguente deduzione di un «intervallo angolare» (diavsthma) tra i «raggi visivi». Sembra evidente che il trattato euclideo, basato sul problema delle grandezze angolari, abbia come punto di riferimento l’altro grande trattato, rappresentato dagli Elementi, ed inoltre rappresenti una preliminare base per la teoria delle osservazioni astronomiche contenute nei Fenomeni. [8] La formulazione di Euclide, come si è detto, venne successivamente accantonata da Tolemeo, che considerò invece un ‘continuo di raggi’. Proprio la dottrina di Tolemeo, e la critica di Ibn al-Haitham, detto Alhazen (965-1039), circa la teoria dei ‘raggi visivi’ provenienti dall’occhio, sono alla base delle critiche, che scienziati moderni e storici della scienza hanno formulato nei riguardi della teoria euclidea. In particolare Ibn al-Haitham, autore di un importante Opticae Thesaurus, in 7 libri, pubblicato da F. Risner a Basilea nel 1572, contesta alla base la teoria euclidea dei ‘raggi emessi dall’occhio’ e ritorna a quella platonica-empedoclea : questo trattato di ottica fisico-matematica ebbe notevole fortuna nel Medioevo e fino a tutto il secolo xvi in Occidente. Sulla medesima linea si colloca l’indagine di Witelo (Vitellione) : la sua Prospettiva, composta intorno al 1270 per Guglielmo di Moerbeke e pubblicata per la prima volta a Norimberga nel 1535, presenta una sezione importante, che raccoglie testi greci ed arabi e soprattutto la traduzione del trattato di Ibn al-Haitham (Alhazen). L’importanza dell’opera, testo fondamentale per gli studiosi successivi, è sottolineata dal fatto che Keplero scrisse un’opera dal titolo Ad Vitellionem paralipomena (Francoforte, 1604). Nel contesto dell’indagine Witelo abbandona, in modo definitivo, la teoria euclidea dei ‘raggi visivi’ emessi dall’occhio e sostiene la validità della teoria atomistica : in tal modo si ritorna inopinatamente alla fase pre-euclidea (vd. par. 3a, b, c). [9] 3. Storia e problemi. – Come la matematica  











e la geometria greche, dopo un breve periodo di crisi nel v secolo a.C., pervennero alla piena e compiuta realizzazione dei propri strumenti d’indagine con →Eudosso di Cnido, così la ‘scienza della visione’ trovò in Euclide l’artefice di una sistemazione scientifica e complessiva dei problemi inerenti alla visione nell’ambito di una progressiva e costante maturazione della ricerca. Risulta ovvio pensare : come gli Elementi euclidei possono essere considerati un insostituibile e formidabile trattato, in cui sono organicamente sistemati, integrati e rielaborati i risultati realizzati in precedenza dalla speculazione greca nell’ambito dell’aritmetica e della geometria elementare, così il medesimo processo di formazione può essere alla base della struttura concettuale e scientifica dell’Ottica. Inoltre non si può ignorare l’ipotesi che la medicina ellenistica, soprattutto ad opera di →Erofilo di Calcedonia (contemporaneo di Euclide), cui si deve un trattato di oftalmologia basato sulla distinzione delle parti componenti il bulbo oculare (ed in particolare sulla individuazione del cristallino come lente trasparente e sulla struttura ‘reticolare’ della retina), abbia notevolmente contribuito alla definizione scientifica della teoria euclidea. [10] Sotto questo aspetto meritano di essere riportate alcune nitide considerazioni di L. Russo : “Abbiamo visto, ad esempio, che Erofilo conosce la struttura ‘reticolare’ della retina (come risulta chiaramente dalla sua scelta del nome). Una tale struttura può facilmente suggerire l’idea dell’esistenza di un insieme di fotorecettori. Per costruire un modello matematico della visione, è allora naturale considerare un insieme discreto di ‘raggi visuali’ : uno per ciascun elemento strutturale attivo della retina. In questo modo si può formulare una teoria che spieghi quantitativamente il potere risolutivo dell’occhio umano. È esattamente ciò che fa Euclide, assumendo che i ‘raggi visuali’ formino un insieme discreto, con una distanza angolare reciproca finita. Gli studiosi moderni, non riconoscendo più nell’ottica classica un modello matematico dell’atto fisiologico della visione (anche a causa della successiva totale assenza, per almeno due millenni, di modelli matematici di processi fisiologici) hanno considerato una ‘ipotesi falsa’ la scelta di Euclide». [11] Prescindendo dalle critiche, non del tutto accettabili, di molti storici della scienza avanzate contro il ‘modello’ euclideo, rimangono sostanzialmen 









ottica te validi i punti qualificanti dell’Ottica. Questi elementi di giudizio rappresentano il fulcro della ‘centralità’ scientifica di Euclide. La ‘centralità’, sul piano storico-culturale, è riconosciuta anche da coloro che considerano l’Ottica come il punto di convergenza ed il momento della sistemazione della terminologia relativa alla visione, ravvisabile all’interno della cultura letteraria, filosofica e scientifica dei Greci ; inoltre il trattato euclideo si configura come punto di partenza per opere omologhe e per riferimenti scientifici successivi, in modo tale che le altre fonti si possono ricondurre direttamente o indirettamente a questo trattato. In particolare nella linea d’indagine tracciata da Ch. Mugler viene precisato che la terminologia scientifica, relativa all’ottica ed alla visione, quale ci perviene tramite il trattato euclideo, non può non presupporre un’approfondita speculazione teorica, che è ricostruibile attraverso frammenti specifici dei presocratici, degli atomisti, di passi significativi di Platone ed Aristotele, dedicati all’indagine sulla percezione visiva. Parallela procede una diversa ma coerente linea di sviluppo, in cui si individuano anticipazioni della terminologia relativa alla percezione visiva in un arco temporale, che va dall’inizio della letteratura greca sino all’età ellenistica ; in tal modo questa terminologia sembra enucleabile da fonti letterarie (Omero, Esiodo, Pindaro, Eschilo, Sofocle, Aristofane, Apollonio Rodio, Teocrito, etc.), per cui Ch. Mugler ritiene di poter giungere ad una simile formulazione : “on peut dire que chez les Grecs l’optique scientifique élaborée par une élite de penseurs est fondée sur une optique populaire faite de l’ensemble des observations et des intuitions de toute une nation”. [12] Queste affermazioni possono essere ammirevoli, ma sembrano del tutto deboli sotto il profilo scientifico : esse tendono ad intravedere o ad innestare in alcune forme nominali e verbali, relative alla sfera ‘generica’ della visione, significati che non hanno alcuna attinenza con una terminologia scientifica dell’ottica. Si può anche affermare, per quanto è possibile ricavare dalle fonti superstiti, che la teoria della visione avesse attirato l’attenzione dei filosofi greci dalla scuola pitagorica sino ad Aristotele, ma l’interesse era centrato sugli aspetti fisiologici della visione piuttosto che su elementi di ordine fisico e scientifico. Quindi, per comprendere pienamente questa ‘rivoluzione’ euclidea,  









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è opportuno accennare alle varie teorie precedenti in materia di visione : a. La fase iniziale della ‘teoria della visione’, che aveva affrontato il problema sotto un duplice aspetto (1. cosa è la luce ; 2. modalità di percezione delle immagini), è rappresentata dalla cosiddetta scuola ‘emissionista’, che si fa risalire a →Pitagora : riteneva che gli occhi emettessero dei ‘raggi visuali’, i quali raggiungevano gli oggetti e quindi percepivano distanza, forma e colore. Si veda la testimonianza di Aezio (Plac. 4, 13, 9-10) : «Ipparco afferma che , protendendosi da ciascuno dei due occhi, toccano con i loro estremi, come con contatti di mani, i corpi esterni, suscitando nella facoltà visiva la loro apprensione. Altri attribuiscono questa opinione anche a Pitagora come a quello che è ritenuto sostegno sicuro delle dottrine scientifiche, ed oltre a lui a →Parmenide, che nei suoi versi esprimerebbe questa teoria». In parte diversa è la configurazione di questa teoria presso →Empedocle, come sottolinea ps.-Galeno (Hist. phil. 94) : «Altri invece la spiegano con l’emissione di alcuni raggi, nel senso che la vista di nuovo si volge indietro, dopo aver incontrato la resistenza dell’oggetto. Empedocle afferma che i raggi per mezzo dei simulacri suscitano la sensazione visiva in ciascuno dei due occhi, che si protendono con i propri estremi come con contatti di mani che toccano i corpi esterni»). Questa teoria empedoclea è in parte chiarita da →Teofrasto (Sens. 7) : «Anche Empedocle cerca di dire in che cosa consista la vista : sostiene che c’è fuoco all’interno, terra ed aria all’intorno, ed attraverso queste il fuoco, essendo sottile, fuoriesce come la luce dei fanali. I pori del fuoco e dell’acqua sono disposti in modo alternato : percepiamo l’oggetto bianco con quelli del fuoco, ed il nero con quelli dell’acqua, perché i due oggetti si adattano ai pori secondo le due percezioni ; i colori sono portati alla vista mediante l’effluvio dell’oggetto». b. Opposta si configura la teoria degli atomisti, i quali, a partire da Leucippo, ritenevano che gli oggetti emettessero dei ‘simulacri’, che erano percepiti dagli occhi, come chiariscono le testimonianze di Diogene Laerzio (10, 49 [Epicur. Epist. ad Herod.]) : «occorre avere ben chiaro che noi vediamo le forme delle cose e ne facciamo oggetto del pensiero per il fatto che qualcosa sopravviene a noi dall’esterno. Non sarebbe possibile che le cose esterne imprimes 



















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sero in noi la loro natura, la loro forma o il loro colore soltanto per mezzo dell’aria che c’è tra loro e noi, né per mezzo di raggi o correnti di qualsiasi specie che si dipartissero da noi verso di loro, mentre invece tutto ciò è possibile per mezzo di immagini che giungano a noi dagli oggetti esterni, di colore e di forma simile a quelli, e di grandezza proporzionata alla nostra vista ed alla nostra mente» ; Aezio (Plac. 4, 13, 1) : «Leucippo, →Democrito, →Epicuro ritengono che la sensazione visiva sia causata dall’introduzione di simulacri» ; →Lucrezio (4, 217) : «i corpi che colpiscono gli occhi e producono la visione» ; Nemesiano (nat. hom. 7) : «gli epicurei affermano che i simulacri degli oggetti visibili ai sensi colpiscono gli occhi» ; Alessandro d’ Afrodisia (in Sens., cag iii 1, p. 24, 18-21 Wendland) : «egli (Democrito) ritiene, e già prima di lui Leucippo, e dopo di lui Epicuro e la sua scuola, che alcuni simulacri, i quali affluiscono da certe realtà (e queste realtà sono gli oggetti visibili), conservando forma simile a ciò da cui promanano, colpiscono gli occhi di coloro che vedono, ed in tal modo si realizzi la visione». [13] c. Platone rappresenta la sintesi delle due teorie precedenti, sulla base di una elaborazione della ‘dottrina’ empedoclea (definita anche come ‘teoria degli effluvi’). Ritiene infatti che sia gli occhi che gli oggetti emanino ‘raggi luminosi’, che si fondono e danno origine alla visione : in sostanza questa è determinata dall’incontro fra il ‘fuoco virtuale’, che è dentro di noi, emesso dagli occhi, ed il fuoco esterno della luce diurna. La posizione platonica è precisata dalle testimonianze di Aezio (Plac. 4, 13, 11) : «Platone parla di convergenza di raggi : il fascio luminoso che parte dagli occhi si diffonde per un certo tratto dell’aria, che ha la stessa natura ; il fascio che parte dai corpi va incontro al primo ; il fascio che è nell’aria intermedia, che è facile a diffondersi ed a mutarsi, si distende con l’elemento igneo della vista. Questa è la cosiddetta convergenza platonica» ; Teofrasto (Sens. 5) : «Platone dunque ha esposto un’opinione intermedia tra quelli che affermano che la vista cade sugli oggetti e quelli che sostengono che il movimento è dagli oggetti visibili alla vista»). In sostanza questa concezione platonica della visione si basa su tre presupposti : 1. l’esistenza di un ‘fuoco visuale’, contenuto nell’occhio, da cui viene emesso come una sorta di corrente continua, quando le palpebre  

































sono aperte ; 2. il fuoco connaturato a ciascun oggetto visibile, che si manifesta come colore ; 3. il fuoco (ovvero la luce del giorno), senza il quale non si può realizzare la visione (cfr. il passo platonico di Ti. 16, 45 b-d). d. Aristotele affronta il problema della visione all’interno di un complesso ragionamento filosofico, scarso di valore scientifico (de An. 2, 7, 418a 29-419a 22) : «Il visibile è in realtà il colore, ed il colore è ciò che sta sulla superficie degli oggetti visibili per sé : intendo per sé non ciò che è visibile per la sua essenza, ma ciò che ha in se stesso la causa della sua visibilità. Ogni colore ha il potere di muovere il ‘diafano’ in atto, ed è questa la sua natura. Perciò il colore non è visibile senza la luce, ma il colore di qualsiasi cosa si vede nella luce. Per tale motivo si deve dire prima di tutto che cosa sia la luce. Esiste dunque il ‘diafano’ : definisco ‘diafano’ ciò che è visibile, ma, per dirla chiaramente, non visibile per sé ma mediante un colore estraneo. Tali sono l’aria, l’acqua e molti dei corpi solidi, ma non in quanto acqua, né in quanto aria sono ‘diafani’, bensì perché è in essi una qualità naturale : la stessa che è in entrambi e nel corpo eterno in alto. La luce è l’atto di questo, cioè del ‘diafano’ in quanto ‘diafano’. Dove il ‘diafano’ non è se non in potenza ci sono le tenebre. La luce, in qualche modo, è il colore del ‘diafano’, quando questo è in ‘entelechia’ sotto l’azione del fuoco o di qualcosa simile al corpo celeste, perché anche a questo corpo appartiene un attributo che è uno ed identico a quello del fuoco [...]. Per tale motivo erra Empedocle, e chiunque altro come lui, quando afferma che la luce si propaga e si distende in un dato momento tra la terra e l’estremo limite dell’universo, senza che ce ne accorgiamo». In definitiva si può affermare che la visione si realizza a causa delle modificazioni prodotte nel ‘diafano’ dagli oggetti, e questa non è di natura ignea ; inoltre la luce è l’atto del ‘diafano’ prodotto dall’azione del fuoco, e quindi in assenza di fuoco, oppure del sole, c’è la presenza delle tenebre, in quanto il ‘diafano’ è solo in potenza. Per queste teorie la presenza di luce esterna diviene condizione imprescindibile per realizzare l’atto della visione, come chiariscono le testimonianze di Platone (Ti. 16, 45d), con l’affermazione della luce diurna come produttrice della visione ; ed ancora di Platone (R. 6, 19, 508a-d), con l’affermazione del sole come produttore della visione. Inol 















ottica tre, per il problema della visione e della luce, significativa è l’osservazione di Aristotele (de An. 3, 3, 429a 3-5) : «poiché la vista è il senso per eccellenza, la visione (fantasiva) ha mutuato dalla luce (favo~) anche il nome : senza luce, infatti, non si può vedere» (cfr. anche il già citato passo di de An. 2, 7, a proposito degli elementi relativi al ‘visibile’ ed alla ‘vista’). Al passo di Aristotele si possono aggiungere ulteriori e significative testimonianze : Teofrasto (Sens. 54) : «ma forse è il sole che produce l’immagine, portando all’organo visivo la luce in forma , come sembra che egli (Democrito) voglia dire» ; Diogene Laerzio (8, 29) : «egli (Pitagora) definisce gli occhi come porte del sole» ; Lucrezio (4, 319-322) : «appena (il flusso) le vie degli occhi ha riempito di luce ed ha dischiuso quelle che l’aria scura aveva serrato, subito tengono dietro i simulacri dei ‘corpi’, che sono nella luce, e ci colpiscono e noi realizziamo la visione». [14] e. Gli Stoici infine, a quanto sappiamo, realizzano una teoria della visione, che presenta notevoli differenze rispetto a quelle sinora descritte ; si vedano le testimonianze di Aezio (Plac. 4, 15, 1-3) : «Lo stoico Sfero afferma che la tenebra è visibile, in quanto dalla vista si effonde verso essa una certa luminosità. Gli Stoici affermano che la tenebra è visibile, in quanto dalla vista si effonde verso essa una certa luminosità. E la vista non si inganna : si vede realmente che è tenebra. Crisippo afferma che noi vediamo per la tensione dell’aria intermedia, che è colpita dallo ‘pneuma’ visivo, che si estende dalla parte ‘egemonica’ fino alla pupilla, e, urtando nell’aria circostante, la tende in forma di cono, qualora l’aria sia della stessa natura. Dagli occhi poi si diffondono raggi ignei, non neri e caliginosi : per tal motivo la tenebra è visibile» ; (Plac. 4, 21, 3) : «la vista è ‘pneuma’ che si estende dallo ‘egemonico’ fino agli occhi». Questa panoramica dimostra la diversa natura delle teorie esposte rispetto al procedimento geometrico-matematico proprio dell’Ottica euclidea : la prima fase si può definire ‘speculazione’, con Euclide quindi si entra nel campo della scienza. In conclusione è possibile affermare che la teoria della visione greca presenta una quantità apprezzabile di osservazioni di carattere fisico, fisiologico e metafisico, ma solo con l’ottica (‘geometrica’) nasce l’ottica come scienza della visione (per alcune preliminari indicazioni sul problema della visione cfr.  































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anche →Alcmeone di Crotone, 2; →Archita, 3; →Aristarco di Samo, 2). 4. La fase post-euclidea. – Dopo Euclide la fase conclusiva della ricerca antica è rappresentata dall’Ottica di Tolemeo (138-180 d.C.). Di questo trattato sono sopravvissuti i libri ii-v attraverso una versione in lingua latina eseguita da un tale Eugenio (1150), di origine siciliana, su un modello arabo : risulta mancante la sezione finale del libro v. [15] L’importanza dell’opera di Tolemeo consiste nel fatto che essa rappresenta una sorta di ‘summa’ delle conoscenze note ai suoi tempi sui fenomeni di carattere ottico : visione diretta, visione binoculare, studio sulla visione dei colori, riflessione, specchi piani e concavi ; inoltre Tolemeo spinge la sua indagine sino al punto di definire alcune leggi della rifrazione (rifrazione della luce attraverso ariaacqua, aria-vetro, acqua-vetro) e intuisce il problema della rifrazione astronomica : egli deduce questo principio dal fatto che sull’orizzonte sono visibili stelle che non si sono levate e stelle che sono già tramontate. Nell’ambito della sua indagine Tolemeo, a differenza di Euclide, che aveva posto al centro della ricerca il problema della visione diretta e della prospettiva, si occupa anche dei processi fisici della visione e delle correlate illusioni ottiche. Per tale motivo alcuni aspetti dell’indagine di Tolemeo hanno anche attinenza con la catottrica, come è evidente dai libri iii-iv, che trattano la teoria degli specchi, e dalla sezione residua del libro v, che tratta la teoria della rifrazione. [16] Dopo Tolemeo la decadenza delle discipline attinenti alla fisica (compresa l’ottica) produsse solo opere di carattere compilativo. Intanto sul versante latino non venne realizzato alcun trattato specifico di carattere fisico-scientifico : i Romani si limitarono a ricavare dalla scienza greca ciò che era utile ai fini di un’applicazione pratica ; quindi si possono ricavare sparse indicazioni in contesti enciclopedici come le Naturales Quaestiones di →Seneca, la Naturalis Historia di →Plinio, il De architectura di Vitruvio, oltre che, come si è visto, in alcune sezioni del De rerum natura di →Lucrezio. Nel iv secolo d.C. →Teone di Alessandria apprestò una ‘recensione’ del trattato di Euclide, premettendo una prefazione, in cui è immaginata una conversazione con Euclide, che serve a chiarire alcuni elementi dell’opera dal punto di vista della riflessione di Teone. Il risultato dell’intervento di Teone si condensa su alcuni punti ‘qualifi 















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canti’, che dovrebbero chiarire l’interpretazione della ‘teoria’ di Euclide, forse per esigenze legate all’insegnamento ed alla scuola. L’interpretazione di Teone altera in numerosi punti la redazione originaria del trattato, come è possibile costatare dal confronto tra i vari testimoni della tradizione ; queste notevoli divergenze sono di diversa tipologia : alcune ‘proposizioni’ sono più o meno mutate, altre subiscono un procedimento di compendio, altre ancora sono omesse, oppure si può constatare qualche raro prodotto di interpolazione. [17] La ‘recensione’ di Teone ebbe notevole fortuna, per cui si può affermare che le due opere (l’Ottica genuina e la spuria) attraversano insieme la fase tardo-antica sino al Medioevo ; ed in particolare dell’Euclide genuino troviamo evidenti tracce nella traduzione araba di Honein, in alcune riprese di Giorgio Pachimere (secolo xiii), e nei codici che trasmettono una interpretatio latina : sembra anche certo che il testo greco fosse ancora conosciuto in Italia meridionale intorno al secolo xii. [18] A partire dal Rinascimento la ‘recensione’ di Teone prende il posto del trattato originario, divenendo di fatto un manuale di uso : in questa fase culturale Euclide viene interpretato attraverso Teone, la cui opera venne tradotta ripetutamente. [19] I secoli successivi mostrano un interesse sempre più rarefatto verso la teoria di Euclide/Teone, in quanto l’interesse dell’ottica si sposta su altri versanti, sembrando insufficiente la sola teoria dell’ottica ‘geometrica’ : i nuovi problemi sono quelli relativi alla diottrica, alla fisiologia della visione, al colore, alla ‘natura’ della luce. Solo nel 1895, dopo gli studi e l’edizione critica di I. L. Heiberg, il trattato originario di Euclide ritorna alla luce, consentendo un confronto accurato con la ‘recensione’ di Teone. [20] 5. Catottrica. – Questa branca dell’ottica, di tipo applicativo-sperimentale, si fonda sulle leggi della riflessione. In quanto tale era la base per la progettazione e la costruzione di vari tipi di specchi (tra cui i leggendari ‘specchi ustori’ assegnati dalla tradizione alla capacità inventiva di →Archimede (è utile ricordare la notizia di un suo scritto sull’argomento, probabilmente fonte di altre opere analoghe successive: vd. Heath 1921, 203); per lo studio sui raggi ustori e la relativa costruzione la tradizione ricorda anche Dositeo, →Apollonio di Perga, nel iii secolo a.C., e Diocle nel ii secolo a.C.). Per lo studio della catottrica si possono utilizzare  



















tre fonti : 1. la Catottrica, che nella tradizione accompagna l’Ottica genuina di Euclide ; 2. la Catottrica di →Erone d’Alessandria (I secolo d.C.) ; 3. i libri iii-iv-v dell’Ottica di Tolemeo, di cui si è detto sopra. Gli studi di I. L. Heiberg e di A. Lejeune hanno dimostrato che la prima opera, attribuita ad Euclide, è in realtà una tarda compilazione e rielaborazione da assegnare, con molta probabilità, a Teone d’Alessandria, autore della già ricordata ‘recensione’ dell’Ottica di Euclide. Questo fatto può essere dedotto dalla seguente considerazione : valore scientifico mediocre per la forma poco accurata delle dimostrazioni e per gli evidenti errori di geometria ; non si può escludere però che questo trattato possa contenere anche elementi dell’originaria opera di Euclide. L’esistenza di un originale euclideo, dedicato alla catottrica, può essere dedotta dalla citazione che lo stesso Euclide fa nell’Ottica, teorema 19 (ed. Heiberg 1895, 30, 2-3) : «[...] sono riflessi secondo angoli uguali, come è detto nella Catottrica [...]». [21] L’opera di Erone è pervenuta tramite una traduzione latina di età medievale (dal titolo Ptolemaei de speculis) : lo stato del testo trasmesso fa sospettare l’intervento di un epitomatore, il quale ha elaborato una serie di estratti, che non hanno tra loro un sicuro e preciso collegamento. Nel testo di Erone è interessante notare, per quanto è recuperabile dallo stato ‘compresso’ delle varie sezioni, alcuni punti : 1. la discussione sull’ambito e sulle suddivisioni dell’ottica ; 2. la riflessione sul problema della propagazione rettilinea della luce ; 3. la teoria relativa agli angoli d’incidenza ed alla rifrazione del ‘raggio visuale’ ; 4. la questione relativa agli specchi piani e convessi : manca la sezione relativa a quelli concavi, giustificabile per lo stato incompleto del testo. Come si è detto (vd. par. 4), anche l’opera di Tolemeo è trasmessa tramite una traduzione latina medievale. In questo caso, a differenza dell’opera di Erone, la tradizione sembra aver conservato un testo abbastanza accettabile, pur con evidenti difficoltà sul piano dell’esegesi. La sua ricerca, che si configura come lo stadio più evoluto della catottrica, studia in sequenza gli specchi piani, convessi e concavi : l’attività, quale si desume dalle sue osservazioni, tende soprattutto alla sperimentazione ed al conseguimento delle misure come frutto dell’esperimento. [22] Dopo di lui, come di fatto avviene per ogni branca della scienza antica, si palesa la decadenza. [23]  































ottica 6. Ottica e prospettiva. – L’importanza dell’ottica (‘geometrica’), come teoria scientifica, non ha valore solo sul piano della speculazione delle cosiddette ‘discipline esatte’, ma diede impulso alla definizione delle ‘leggi della prospettiva’, che hanno incidenza sul versante artistico : in questa rientrano anche una serie di ‘fenomeni’, che si osservano quotidianamente. In questo senso la prospettiva serve a dare, in rapporto con qualsiasi oggetto reale, una immagine che abbia corrispondenza con quella fornita dalla visione diretta. Sul piano artistico Polignoto (v secolo a.C.) aveva intuito e realizzato l’importanza di collegare in una prospettiva d’insieme le varie figure di una rappresentazione, collocandole su piani diversi, rompendo la tecnica arcaica delle diverse scene a fregio ; i suoi discepoli e seguaci Agatarco di Samo ed Apollodoro di Atene (il cosiddetto ‘creatore del chiaroscuro’) portano a maturazione l’intuizione di Polignoto, collegando strettamente la pittura con la prospettiva. Inoltre il trattato sulla scenografia, attribuito ad Agatarco, potrebbe essere alla base delle riflessioni di →Anassagora e di →Democrito sul problema della prospettiva. Sul piano storico la testimonianza di Vitruvio (7, praef. 11) fa risalire proprio ad Agatarco di Samo (v secolo a.C.) la prima codifica delle ‘leggi prospettiche’ applicate alla scenografia (è utile ricordare che egli dipinse scene per Eschilo) : per quanto si può pensare, si tratta della intuizione ‘empirica’ sulla necessità di determinare il rapporto prospettico dell’insieme del prodotto artistico. [24] Inoltre la definizione della prospettiva presentata da Vitruvio (1, 2, 2 : item scaenographia est frontis et laterum abscendentium adumbratio ad circinique centrum omnium linearum responsus) è di estrema importanza per comprendere il problema piuttosto complesso, che è alla base della ‘speculazione’ nel mondo antico : da una parte è evidente la presenza di fonti ellenistiche, dall’altra sembrano coesistere anche indizi di una dipendenza da fonti dell’età classica. [25] Sebbene si ritenga che la prospettiva basata su ‘regole scientifiche’ sia un prodotto moderno (xv secolo), non c’è dubbio che nel mondo antico queste nozioni, dipendenti dall’O., sembrano piuttosto evolute ed influenzate dai principi dell’O. ‘geometrica’. Proprio nel fervore della ‘rivoluzione’ scientifica di età ellenistica, nasce il cosiddetto ‘secondo stile’ o ‘stile architettonico’ nell’ambito della pittura  













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(ii-i secolo a.C.). In questo contesto culturale sembra evidente che la rappresentazione del prodotto artistico si focalizzi intorno ad un punto di vista centrale, che viene a coincidere con l’occhio di chi osserva ; inoltre le linee dei piani si sollevano e si abbassano rispetto alla linea dell’orizzonte : pare ovvio desumere un interessante rapporto con i principi dell’ottica euclidea, che rimane il sostanziale punto di riferimento nell’ambito della teoria della visione e quindi della prospettiva.  



Note. [1] Lo scienziato, di poco anteriore ad Archimede, che lo cita, visse al tempo di Tolemeo I (306-283 a.C.). Si possono individuare tracce di un interesse per l’ottica nel trattatello Arenario (Yammivth~, Arenarius) del medesimo Archimede (nato a Siracusa nel 287 a.C.) : l’opuscolo, dedicato a Gelone, che è fonte preziosa per ricostruire la storia dell’astronomia, ha l’intento di calcolare il numero complessivo dei granelli di sabbia capaci di riempire la sfera che ha come centro il sole e per superficie la sfera delle stelle fisse ; in tale contesto si argomenta sulla grandezza del sole e della luna e sulle loro distanze. Per una panoramica sullo sviluppo dell’ottica antica possono essere utili le osservazioni di Enriques-De Santillana 1932, 482484, e di Smith 2001. – [2] Sull’argomento vd. in particolare le puntuali osservazioni di Russo 1998b, 79-86 (con bibliografia relativa), che rappresentano una necessaria integrazione di questa rubrica sotto il profilo scientifico : oltre alle questioni relative a questa teoria scientifica ellenistica vengono analizzati alcuni equivoci ed incomprensioni derivati da una non corretta comprensione dei presupposti teorici del trattato, ed il rapporto necessario tra ottica e prospettiva ; per una rassegna dei problemi dell’ottica nel mondo greco-romano vd. Ronchi 1983, 3-40, e Bevilacqua-Ianniello 1982, 35-44 (con una interessante raccolta di testi) ; cfr. le varie questioni discusse da Lejeune 1948 e Lejeune 1957. – [3] L’idea della propagazione rettilinea della luce si può dedurre da un passo di Pl. Parm. 10, 137e ; nella definizione della natura dell’uno né circolare né rettilineo il filosofo precisa che «rettilineo è ciò il cui centro è interposto come uno schermo fra le due estremità» : si tratta, come è evidente, di una intuizione più che di una dimostrazione. Risulta chiaro che la nozione circa la propagazione rettilinea della luce si ricava dall’osservazione quotidiana ed intuitiva : se un corpo opaco viene interposto sul segmento, che unisce l’occhio con un determinato punto di un oggetto, la visione viene meno. – [4] Questo scritto sulla catottrica, per motivi interni, è certamente una compilazione più tarda, sebbene non si possa rifiutare l’ipotesi della sua dipendenza da un  















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originale euclideo perduto : tratta della proprietà degli specchi piani e curvi ; sul problema di una catottrica euclidea in base alla testimonianza di Gemino presso Proclo vd. re, s.v. Eukleides, vi, 1049-1050 ; cfr. Heiberg 1895, xlix-l, e Lejeune 1957, 5, 112-113 ; vd. anche avanti (par. 5). – [5] Vd. testo in Heiberg 1895, 2. – [6] Il testo della prima ‘definizione’ risulta corrotto nei codici : per una probabile esegesi vd. le osservazioni di MedagliaRusso 1995 ; occorre aggiungere un altro elemento a sostegno della nozione della propagazione rettilinea della luce, derivata anche dall’osservazione quotidiana ed intuitiva : un lume collocato al centro di una stanza proietta sulle pareti le ombre degli oggetti circostanti. – [7] Si deve osservare che per Euclide la base di un cono sembra essere non il cerchio che ne costituisce la base secondo la terminologia moderna, ma la sua circonferenza (cfr. Eucl. Elem. 11, def. 20) : dalle affermazioni di Euclide sembra potersi ricavare che il suo modello di visione sia tridimensionale e non piano. L’ipotesi di restringere la visione in ambito bidimensionale, forse, può essere indotta dalla osservazione che in numerosi esempi Euclide considera come oggetti della visione dei segmenti, in modo tale che tutto si realizza nel piano determinato dal segmento e dall’occhio. Anche Tolemeo, nell’Ottica, sembra derivare da qui il concetto di un cono circolare (tridimensionale) della visione : si tratta per Tolemeo di un cono retto, che comporta un’ampiezza del campo visivo di 90°. – [8] Proprio nelle battute iniziali di questa opera di astronomia vi è un preciso richiamo all’Ottica, a proposito delle cose che si muovono secondo un moto circolare, per cui l’occhio dista ovunque in modo uguale dalla circonferenza (riferimento preciso al teorema/proposizione nr. 37 : «vi è un luogo nel quale, stando fermo l’occhio, e muovendosi la cosa vista, questa appare sempre uguale»). – [9] Sul problema dei supposti errori della teoria di Euclide vd. le nitide osservazioni di L.Russo in Medaglia-Russo 1995, 47-51 (con bibliografia relativa), che chiariscono perfettamente la questione e danno conto di alcuni equivoci degli studiosi moderni circa la corretta interpretazione della teoria euclidea ; cfr. Russo 1998b, 81-82, 159-160 ; inoltre Incardona 1996, 49-54. Per la questione del rapporto tra la teoria di Euclide e quella di Tolemeo vd. anche Ver Eecke 1938, 14, oltre Lejeune 1948, 30 ; sulle questioni di ottica in Tolemeo vd. anche re, s.v. Ptolemaios, xxiii 2, 1847-1853. – [10] Vd. Russo 1998b, 159-160 ; cfr. anche le osservazioni di L. Russo in Medaglia-Russo 1995b, 50-54. – [11] Vd. Russo 1998b, 159-160. – [12] Vd. Mugler 1964, 8. Il segmento scientifico, che è ovviamente la parte più significativa di questa indagine, va dall’Ottica di  



























Euclide a Giovanni Filopono attraverso l’analisi ed il confronto, ove ne esistano le condizioni, con specifici luoghi di Aristarco di Samo, Gemino, Cleomede, Claudio Tolemeo, Galeno, Alessandro d’Afrodisia, Teone di Alessandria, Sereno di Antinoe, Damiano, Olimpiodoro, Pappo di Alessandria, Paolo di Alessandria : questo segmento, rappresentato da testi di carattere scientifico completi o frammentari, da commenti filosofici, copre un arco temporale che va dal iii secolo a.C. al vi secolo d.C. Ma in questa linea di esigenza della completezza della documentazione rimangono del tutto trascurate o marginali alcune fonti di notevole interesse : ad esempio alcune sezioni del frammento de sensibus di Teofrasto, il fragmentum mathematicum Bobiense, che pare dipendere dalla catottrica di Archimede (vd. Heath 1921, 203), i frammenti di derivazione stoica nrr. 856, 860, 863872 von Arnim (svf ii, 231-234). – [13] Si possono confrontare altre testimonianze : Cic. fin. 1, 6, 21 ; nat. deor. 1, 38, 108 ; Aug. ad Dioscor. epist. 118, 27 ; Gell. 5, 16, 3 ; Macr. sat. 7, 14, 3 ; Plu. adv. Colot. 7, 1110 C. – [14] A questo proposito si possono richiamare altri passi lucreziani : 2, 795-797; 4, 161-165; 4, 348352, oltre ad alcune ben definite sezioni, 2, 780-841 (sui colori), 4, 214-268 (sulla vista), 4, 324-378 (sui fenomeni della vista), 4, 379-468 (sulle illusioni ottiche) ; per un esame delle testimonianze lucreziane relative alla visione vd. le osservazioni di Medaglia 2006 (con bibliografia relativa). – [15] Vd. l’edizione critica con relativa esegesi curata da Lejeune 1956 ; per le varie questioni poste dalla traduzione di Eugenio, anche in rapporto con l’ipotesi della presenza di un originale greco, vd. Lejeune 1957, 9-32 ; cfr. anche Lejeune 1948, per un’articolata analisi sull’Ottica di Euclide e su quella di Tolemeo. – [16] In questo ambito particolarmente importanti sono le sue ricerche sulla visione binoculare e lo studio di carattere sperimentale sulla visione dei colori : vd. Lejeune 1958 e Russo 1998, 86. Sotto questo aspetto è anche utile ricordare l’utilizzo che Tolomeo fa della matematica applicata all’ottica. – [17] Vd. le osservazioni di Heiberg 1895, 30-31 ; inoltre sulle vicende dell’Ottica genuina in rapporto con la ‘recensione’ di Teone vd. Heiberg 1895, 29-43. – [18] Vd. le osservazioni di Heiberg 1895, 31-32 ; per uno studio dettagliato sui rapporti tra manoscritti greci dell’Ottica e tradizione latina medievale vd. Theisen 1979. – [19] Vd. le osservazioni di Heiberg 1895, 41-43 e di Ver Eecke 1938, 36-46 ; di nessuna utilità per l’esegesi di Euclide sono le traduzioni di B. Zambertus (Venetiis 1505-Basileae 1546), di I. Pena (Parisiis, 1557), di I. Danti (Firenze 1623), di R. Freart de Chatelou (Au Mans 1663), di D. Gregorius (Oxonii 1703), che interpretano il testo della  































ottica ‘recensione’ di Teone : per comprendere il corretto rapporto tra l’Euclide genuino e la ‘recensione’ di Teone vd. Heiberg 1882, 133-139, e Weissenborn 1886, 54-62. – [20] L’edizione di Heiberg 1895, meritevole per moltissimi aspetti, ha destato pochissima attenzione : ancora dopo circa venti anni la traduzione di Ovio 1918, 1, non discerne l’Ottica genuina di Euclide dalla ‘recensione’ di Teone, sottolineando in modo scorretto : “in questi due libri di ottica, cui si attribuisce il nome di Euclide [...]” ; ma G. Ovio, essendo un esperto di ottica fisiologica, non aveva alcun interesse per questioni di filologia. Inoltre la generale trascuratezza del trattato di Euclide può essere dedotta dal fatto che di esso sono state pubblicate poche traduzioni organiche (vd. quelle di Ver Eecke 1938, di Burton 1945, di Incardona 1996, di Acerbi 2007b, 2023-2243, che presenta testo e traduzione dell’Ottica di Euclide e di Teone e della Catottrica). – [21] Vd. Heiberg 1895, 43-55, e Lejeune 1957, 54 e 112. Secondo la testimonianza di Teone anche Archimede compose un trattato sulla catottrica : la notizia si ricava dal commento a 1, 3 della maqhmatikh; suvntaxi~ di Tolemeo, poi detta Almagesto in base alla traduzione araba di età medievale ; vd. anche Lejeune 1957, 142-145 : allo stato dei fatti rimane difficile stabilire l’ambito e le possibili articolazioni dell’opera di Archimede. – [22] Sulle varie questioni vd. Lejeune 1957, 31-33, 48-49, 54, 69, 71, 112, 137, 142-151 (in particolare) ; inoltre la panoramica tracciata da Russo 1998, 83-85 (insieme con una precisa indicazione delle fonti : in particolare per la versione araba dell’opera di Diocle e per la questione dell’opera di Apollonio in rapporto con la testimonianza del fragmentum mathematicum Bobiense, su cui vd. anche Heath 1921, 203) ; ed ancora le osservazioni presentate in re, s.v. Heron, viii, 1021-1022 : direttore della ‘scuola meccanica’ di Alessandria è generalmente considerato come il più abile ‘ingegnere’ dell’antichità, sebbene rimanga ancora dubbia la sua precisa collocazione cronologica ; per l’indicazione Damianou` tou` JHlio 























dwvrou Larissaivou kefavlaia tw`n ojptikw`n uJpoqevsewn in rapporto con la Catottrica di Erone e

l’Ottica di Tolemeo, presente in alcuni manoscritti, vd. re, s.v. Damianos, iv, 2054-2055, oltre la breve nota di Heiberg 1895, 31-32, su Eliodoro / Damiano. Qualche interesse scientifico per l’ottica e la catottrica (a proposito della cosiddetta teoria speculare dell’arcobaleno e di certe qualità degli specchi) può essere nel passo di Sen. nat. 1, 6, che mostra, in alcuni punti, coincidenze con Arist. Mete. 3, 2, 371b 27-30 : l’evidenza geometrica dimostra però che il ragionamento del filosofo non è del tutto preciso in termini scientifici. – [23] Vd. anche De Santillana 1961, 287-293, in cui si delineano i vari problemi della decadenza e del crollo del pensiero  

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scientifico antico, del difficile periodo della transizione medievale e della fase della rinascita scientifica del Settecento, quando le conquiste della scienza greca rappresentarono il punto di partenza del rinnovato fervore di studi sui vari aspetti della ricerca scientifica. – [24] Vd. il passo in questione : namque primum Athenis, Aeschylo docente tragoediam, scaenam fecit et de ea commentarium reliquit ; ex eo moniti Democritus et Anaxagoras de eadem re scripserunt. Se la notizia trasmessa da Vitruvio è corretta, si comprende anche l’interesse di Lucrezio, in dipendenza da Democrito ed Epicuro ( ?), per alcuni aspetti del problema attinente all’ottica e alla prospettiva ; infatti si legge in Lucr. 2, 799800 (lumine quin ipso mutatur propterea quod / recta aut obliqua percussus luce refulget), e in Lucr. 4, 426431 (porticus aequali quamvis est denique ductu / stansque in perpetuum paribus suffulta columnis, / longa tamen parte ab summa cum tota videtur / paulatim trahit angusti fastigia coni, / tecta solo iungens atque omnia dextera laevis / donec in obscurum coni conduxit acumen) : pare evidente che il secondo passo rappresenti un chiaro riferimento al cosiddetto ‘punto di fuga’ nella rappresentazione, nonostante qualche dubbio formulato da storici dell’arte sulla presenza di questo principio nell’antichità classica ; sotto questo aspetto non si può non essere d’accordo con la precisa analisi di Russo 1998b, 80 (nt. 3) ; eco del problema della prospettiva di un colonnato si trova in Sen. benef. 7, 1, 5 e Sen. nat. 1, 3, 9, ed ancora in Tertull. anim. 17. – [25] Si tratta di un testo interessante, che ammette il confronto con alcuni punti di Vitr. 7, praef. 11, qui indicati : item scaenographia (cioé la prospettiva) est frontis et laterum abscendentium adumbratio (1, 2, 2) ; quae in directis planisque frontibus sint figurata, alia abscendentia, alia prominentia esse videantur (7, praef. 11) ; ad circini centrum omnium linearum responsus (1, 2, 2) ; ad aciem oculorum radiorumque extentionem certo loco centro constituto lineas ratione naturali respondere (7, praef. 11) ; vd. le precise note di commento di M.-T. Cam (in B. Liou, M. Zuinghedan, M. T. Cam, Vitruve. De l’architecture, livre vii, Paris 1995, 60-62). Bisogna ricordare almeno altri due passi : 3, 3, 11, in cui Vitruvio discute, sicuramente sulla base di fonti greche, il problema delle illusioni di ottica nella costruzione dei templi ; 3, 5, 9, che, nella medesima linea, approfondisce la spiegazione tecnica sulla necessità di compensare gli effetti riduttivi della visione in prospettiva.  



























Bibliografia. Acerbi 2007b ; Bevilacqua-Ianniello 1982 ; Burton 1945 ; De Santillana 1961 ; Enriques-De Santillana 1932 ; Heath 1921 ; Heiberg 1882 ; Heiberg 1895 ; Incardona 1996 ; Leisegang 1941, 1059-1063 ; Lejeune 1948 ; Lejeune 1956 ; Lejeune 1957 ; Lejeune 1958 ; Medaglia 2006 ; Medaglia-Russo 1995 ; Mugler 1964 ; Ovio 1918 ;  



































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ovini

re, s.vv. Damianos, Eukleides, Heron, Ptolemaios; Repellini 2001 ; Ronchi 1983 ; Russo 1998b ; Smith 2001 ; Theisen 1979 ; Ver Eecke 1938 ; Weissenborn 1886.  











Silvio Mario Medaglia Ovini [to; poivmnion, pecus ovilium o oviarium]. 1. Descrizione. – Costituivano gli animali più comunemente allevati, insieme ai →bovini, ai →caprini e ai →suini. I prodotti maggiormente ottenuti da questi animali erano la lana, il latte e il formaggio. Nella terminologia gli ovini annoverano animali di diverso genere e taglia : la pecora, che può essere indicata con un unico termine per entrambi i generi (oJ, hJ oi[~, ovis o pecus o il pl. pecora, anche nel diminutivo pecorella to; probavtion, ovicula) oppure nella distinzione tra l’ariete o montone (oJ ajrneiov~, aries o vervex) e la femmina (qhvleia oi[~, ovis), l’agnella (hJ ajmnhv, agna), l’agnello (oJ ajmnov~ o oJ ajrhvn, agnus, anche nel diminutivo «agnellino» to; ajrnivon, agnellus e, per indicare l’agnello appena nato, avillus). Sono attestati anche i seguenti termini latini: tityrus (incrocio di pecora e caprone), musmo e musimo (sia per il muflone sia per l’incrocio di capra e montone), mufro (muflone) e umber (montone nato dall’incrocio di un muflone e di una pecora). Si veda anche →pastorizia. 2. Contesto storico-geografico e fonti letterarie. – Una ricca molteplicità di razze ovine è ricostruibile per la Mesopotamia del xxi sec. a.C., grazie a documenti riconducibili alla iii dinastia di Ur : la pecora pregiata alum, la pecora ‘di montagna’, la pecora uligi a vello nero, la pecora ‘pascolata ad erba’, la pecora ‘a coda grassa’ con il vello bianco o nero. Di quest’ultima c’era anche una variante analoga che, però, viveva sugli altipiani e della quale era importante il commercio medio-orientale insieme alla specie pregiata alum. I riferimenti al grasso inducono a pensare che si trattasse di razze destinate alla doppia produzione di carne [→carne, consumo di] e lana, ma accanto a queste non si possono escludere anche quelle produttrici di latte e lana. L’Odissea, invece, attraverso il ix libro contenente la descrizione dell’allevamento ovi-caprino di Polifemo, offre elementi riconducibili al ix sec. a.C. circa : per le caratteristiche della pratica pastorizia, della stalla e dei recinti, della mungitura e della produzione casearia, si veda quanto già esposto per i →caprini, ai quali gli ovini si accomuna 





no. →Esiodo parla dell’allevamento in modo simile ai poemi omerici : le greggi costituiscono una proprietà che è sinonimo di ricchezza personale e nelle Opere e i giorni sono descritte come lanose e appesantite dal vello (234), soggette a tosatura e a castrazione (774-775, al v. 786 in particolare ci si riferisce alla castrazione degli arieti del gregge). Sugli allevamenti ovini del vi sec. a.C. ci sono testimonianze risalenti al iv-iii sec. a.C. (si tratta di due passi del paripatetico Clito di Mileto e di Alessi di Samo riportati da Ateneo di Naucrati (12, 540 c-d) : anche se la distanza cronologica può generare dubbi sull’attribuzione storica dei fatti al vi sec. a.C., essi sono comunque validi per l’epoca delle due fonti in questione e per l’inizio dell’età ellenistica) e riguardanti le specie importate a Samo dal tiranno Policrate, in base alle quali le pecore di Mileto erano particolarmente famose per la qualità della loro lana, così come l’Attica si distingueva per allevamenti di pecore dalla lana pregiata. Alcuni papiri attestano che nell’Egitto del iv-iii sec. a.C., sotto Tolemeo ii Filadelfo, Apollonio, funzionario del faraone, allevava le pecore d’Arabia, adatte a vivere in regioni semi-aride e già citate da Erodoto (3, 113, 1-2) per la loro coda pesante e grassa, tanto da dover aiutare l’animale a portarla con una sorta di piccolo vagoncino : le modalità di allevamento di queste pecore non differivano comunque da quelle usate per le pecore egiziane locali. Anche nell’allevamento di Apollonio erano presenti le pecore di Mileto, la cui gestione era affidata ad un responsabile preposto a ciò e che necessitavano, al contrario delle altre, di una tecnica speciale, in quanto rivestite da una sorta di copertura, da cui deriva il nome di ‘pecore vestite’ (provbata uJpodivfqera, oves pellitae o oves tectae). Per la lavorazione della lana milesia Apollonio possedeva anche un’officina di tessitrici. L’importazione di razze straniere dimostra come si sviluppassero processi di acclimatazione, per favorire l’adattamento degli animali. Va sottolineato che le ‘pecore vestite’ di Mileto rappresentavano una delle razze ovine più pregiate. La copertura in cuoio applicata su di esse, in mancanza di dati certi, poteva servire a proteggere il vello dalla naturale tendenza della lana a cadere, nel caso in cui l’animale non venisse tosato per lungo tempo, oppure a preservare la purezza della lana, o ancora a conservarne il colore bianco (in generale, infatti, tutte le specie ovine che  





ovini avessero un vello ben candido erano predilette, in quanto tale colore si prestava più agevolmente ai procedimenti di tintura artificiale). Per quanto concerne la tosatura, esisteva la figura del tosatore professionale. L’operazione, infatti, richiedeva abilità ed esperienza per due motivi principali : innanzi tutto occorreva saper maneggiare bene gli attrezzi (in un primo tempo le cesoie, successivamente sostituite da rasatrici apposite per la lana), per non rischiare di ferire l’animale ; in secondo luogo bisognava riuscire a tagliare i velli in modo tale da farli rimanere tutti interi, perché i mercanti li preferivano a quelli suddivisi in pezzi. Alle pecore ‘vestite’ di Mileto, però, era riservata una tosatura particolare, visto che la loro lana veniva strappata filo a filo (forse per migliorare la finezza della lana). Le pecore, dunque, venivano fatte digiunare anche a partire da tre giorni prima, al fine di far indebolire le radici dei peli e rendere l’estirpazione più simile ad una caduta naturale, riducendo al minimo il fastidio fisico dell’animale. Gli agronomi latini [→agronomi antichi] parlano spesso di questa come di una tecnica arcaica, ma, in realtà, nel caso delle pecore milesie, era appositamente scelta. Una parte importante tra le modalità di tale allevamento era anche rappresentata dalla pulizia degli ovili, in modo da conservare lindi i velli delle pecore. La specificità dell’allevamento delle pecore di Mileto e la delicatezza di una razza così pregiata, soprattutto quando, importata, doveva adattarsi ad un nuovo ambiente climatico e naturale, richiedeva un responsabile diverso da quelli comunemente destinati ad altre razze ovine e dimostra la sempre maggiore competenza tecnica sviluppata dai pastori. Era necessario, inoltre, accumulare riserve di foraggio e destinare agli animali le migliori terre della pianura, visto anche che con le pecore di Mileto non si praticava la transumanza estiva e, quindi, l’allevamento aveva carattere perenne. Tutto ciò dimostra che la cura da dedicare alla razza milesia era una delle più difficili e costose del mondo antico, ma il valore e la fortuna assunti da questa attività pastorale ebbero come risultato la diffusione della tecnica d’allevamento al di là della razza in questione e la sua applicazione ad altre specie ovine nel mondo greco. Tra esse le pecore di Taranto, che nel Mediterraneo occidentale costituivano l’equivalente delle pecore milesie per la produzione di lana pregiata. Non  



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è chiaro fino a quando l’allevamento delle ‘pecore vestite’ sia stato praticato, ma le ultime testimonianze scritte risalgono al iii sec. d.C. →Columella (7, 2, 4-5) descrive la proprietà dello zio Marco Columella nel sud della Spagna e gli esperimenti di incrocio eseguiti su diverse razze ovine per crearne di nuove ed ottenere, così, particolari tipi di lana e di colori, al fine di inserirsi nei mercati più esigenti, visto che dal i sec. a.C. si ricercavano lane fini e di naturale colore rosso o nero, su cui si erano specializzati i concorrenti laboratori lanieri dell’Asia Minore. Lo zio di Columella, dunque, aveva acquistato le pecore di Taranto, una razza dalla lana fine e bianca allevata secondo la tecnica milesia delle pecore ‘vestite’ (proprio per migliorarne il vello e renderle più competitive), e le fece accoppiare, dopo averli comprati da certi uomini di spettacolo e averli addomesticati, con arieti africani, apprezzati per i colori mirabili dei loro velli ; poiché il risultato dell’incrocio furono degli agnelli dotati, sì, dei colori dei padri, ma di una lana ordinaria, fece unire questa prima generazione di nati con altre pecore di Taranto e il risultato fu il raggiungimento di una lana di qualità maggiore e il mantenimento dei colori dei nonni africani. Anche Petronio attesta la pratica dell’incrocio (38, 2), riferendo del tentativo di Trimalcione di produrre lana di qualità, acquistando le pecore di Taranto e facendole incrociare con le sue pecore. 3. Transumanza. – L’allevamento degli ovini poteva anche prevedere la transumanza, ovvero il cambiamento stagionale dei luoghi di pascolo d’estate e d’inverno. Nei territori mediterranei il trasferimento degli animali era reso necessario da ragioni di clima e di nutrimento. Durante l’inverno, infatti, le pecore venivano lasciate in pianura, dove le temperature sarebbero state miti e le piogge autunnali avrebbero fatto crescere erba sufficiente per la loro alimentazione ; d’estate, invece, il clima caldo e secco, che faceva crescere poca vegetazione, imponeva il passaggio ai pascoli montani, dove le temperature più basse e le piogge più forti consentivano zone d’erba rada, ma bastante a nutrire le pecore. Questa differenziazione trova oggi corrispondenza nella moderna terminologia che distingue tra ‘transumanza normale’, ovvero quando d’estate gli allevatori trasportano il bestiame dalle pianure alle zone collinari più elevate, e ‘transumanza inversa’,  



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ovvero quando gli allevatori di montagna lo portano nelle regioni costiere. Nell’antichità il trasporto degli animali avveniva attraverso strade pubbliche o speciali vie di pascolo, quelle oggi dette tratturi, che erano sentieri naturali praticati solo in occasione delle transumanze. Non sempre questa tecnica d’allevamento era esercitata. Ad esempio, gli allevatori delle ‘pecore vestite’ di Mileto non praticavano la migrazione estiva delle greggi, sia per la particolare fragilità e delicatezza di tale razza ovina, che, essendo importata, doveva già adeguarsi ai cambiamenti di clima, sia perché tra i rovi e i cespugli di montagna la pelle che le rivestita si sarebbe certamente rovinata. È possibile che già in epoca micenea si praticasse un’alternanza tra pascoli estivi e invernali. Un chiaro riferimento alla transumanza si trova in Sofocle (OT 1125-1140): due pastori dalla primavera all’autunno pascolano sulle pendici erbose del Citerone e d’inverno riconducono le greggi negli ovili. Ci sono prove evidenti che la transumanza in Italia veniva praticata nel periodo della tarda repubblica romana e in età imperiale, mentre quantitativamente minori, seppur certe, sono quelle relative ai periodi più antichi, quando l’allevamento condotto su diversi pascoli d’estate e d’inverno era un’importante integrazione complementare all’attività agricola, alla quale si univa nel determinare l’orientamento del commercio, attraverso la produzione di cibo e vestiario e a seconda degli alterni sviluppi dell’uno e dell’altra. Si può pensare di far risalire la transumanza già all’età del bronzo, con caratteristiche che si mantengono stabili nelle epoche successive e durante l’intera storia antica (anche se non tutti gli studiosi concordano con questo tipo di periodizzazione). La principale fonte antica per la transumanza romana è il libro ii del De re rustica di →Varrone, il quale riferisce come i pastori che guidavano le greggi fossero al comando di un magister pecoris [→pastorizia] che attendeva all’organizzazione del trasferimento. I pastori caricavano per mezzo delle bestie da soma scorte di cibo, attrezzi e materiali per costruire temporanee recinzioni per gli animali durante le soste notturne ; erano, inoltre, armati per fronteggiare eventuali ladri e bestie selvagge e, infine, erano accompagnati nel viaggio da mogli e bambini. Le doti del magister pecoris dovevano essere fermezza di carattere e sopportazione delle fatiche, per mante 

nere ordine e disciplina tra i pastori e le donne che seguivano il bestiame, nella suddivisione dei compiti durante la giornata ; egli doveva organizzare le forniture necessarie per pastori e greggi, anche dal punto di vista medico, in modo da far fronte alle malattie tra uomini o tra animali ; non doveva essere analfabeta, in quanto era suo compito redigere dettagliati resoconti del bestiame (rationes) e saper consultare norme scritte riguardanti le malattie degli animali e la loro cura ; doveva avere una certa età e, di conseguenza, una certa esperienza, ma non doveva comunque essere tanto vecchio da avere difficoltà nello svolgimento del suo lavoro. Varrone parla di calles publicae, ovvero le strade di pubblico dominio percorse per raggiungere i nuovi pascoli, per le quali il passaggio non era sottoposto a pedaggio (scriptura), bensì libero. Oltre alle strade pubbliche esistevano anche i sentieri naturali, maggiormente diffusi nelle parti centrali e più interne dell’Italia, alle quali alludono vari riferimenti contenuti nelle orazioni ciceroniane o anche nell’opera storica liviana, poiché i tratturi erano ben noti e praticabili, quindi, da condannati in fuga o durante le manovre strategiche dagli eserciti in guerra. Inoltre, la conseguente rete stradale formatasi nel corso dei secoli sull’incrocio dei collegamenti tra pascoli invernali ed estivi, tra zone pianeggianti e montane, costiere e interne, fu sfruttata anche per l’attuazione delle conquiste romane conclusesi su tutto il territorio italiano con le guerre Sannitiche e, quindi, principalmente come vie di comunicazione a lunga distanza. Processo, questo, che gradualmente si affermerà con l’espansione romana nei territori al di fuori d’Italia. La transumanza diventò anche un modello di sviluppo economico di tipo commerciale, in quanto durante il trasporto del bestiame il pastore poteva dover affrontare carenze di beni, necessità e richieste (ad esempio grano, pane o scarpe) che potevano essere soddisfatte solo con il commercio in itinere. I pascoli estivi (saltus), ovvero quelli ad altitudini più elevate, erano parte di una proprietà privata oppure dell’ager publicus, cioè delle terre di volta in volta conquistate dai Romani attraverso la penisola italiana. In particolare l’ager publicus poteva essere suddiviso tra persone o tra colonie, dato in appalto o coltivato per conto del diretto interessato : su di esso, quindi, non si potevano vantare diritti di proprietà, ma solo  







ovini di uso (possessio) e, in mancanza di ciò, il terreno poteva essere lasciato ad erba (anche in questo caso, comunque, era previsto il pagamento di una tassa pubblica). Si sceglieva di mettere un terreno a pascolo anche perché non tutta la terra in Italia era sfruttabile per le coltivazioni : carenza, questa, che emerse soprattutto negli ultimi tempi della repubblica romana, quando fu necessario confiscare lotti arabili da assegnare ai coloni veterani. Oltre alle notizie principalmente fornite dal De re rustica di →Varrone, anche →Catone nel capitolo 149 della sua opera agronomica fa riferimento alla lex de pabulo hiberno vendendo : questa regolamentava l’affitto dei pascoli durante la stagione invernale, all’incirca da metà settembre a metà marzo, per cui il proprietario del terreno si riservava il diritto di pascolare i propri animali e di avere libero passaggio alla terra, mentre i pastori e il proprietario delle pecore erano responsabili di eventuali danni, offrendo a garanzia pecus e familia. Entrambe le parti dovevano, poi, recarsi a Roma per qualsiasi controversia legale. I contratti d’affitto dei pascoli, necessaria premessa dei fenomeni di transumanza, erano stipulati per il sovraffollamento di pecore nelle pianure durante l’inverno, sia che il proprietario degli animali avesse la sua fattoria nella stessa pianura sia che il proprietario fosse un coltivatore vicino, che teneva più pecore di quanto la sua terra ne potesse nutrire, o una persona residente in regioni più lontane, come quelle montane. Da quanto detto, quindi, a proposito dei saltus montani e dei pabula di pianura, emerge il fatto che le pecore pascolavano generalmente su un terreno altrui, che fosse l’ager publicus in montagna o suoli presi in affitto d’estate, ragion per cui un allevatore di bestiame non necessariamente doveva possedere anche la terra e, inoltre, agricoltura e allevamento potevano essere praticati sulla stessa terra, ma da proprietari diversi. I proprietari terrieri che affittavano i terreni come pascoli si avvantaggiavano del fatto che avrebbero ottenuto dalle pecore la fertilizzazione del suolo attraverso il naturale ciclo di trasformazione dei vegetali in →concime : il bestiame al pascolo, ad esempio, poteva rigenerare campi di stoppia o incolti e garantire la germogliazione del grano nella prima parte dell’anno, quando le piante erano appena spuntate. Il controllo sulle greggi avveniva annotando il numero di capi trasportato verso i pascoli, operazione,  





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questa, che poteva essere eseguita da supervisori appostati sulle vie più trafficate. Nella Roma repubblicana erano in vigore leggi de modo agrorum e de modo pecudum che stabilivano il divieto di possedere più di 500 iugeri di ager publicus e di pascolare più di 100 capi di pecudes maiores e di 500 capi di pecudes minores (sulla distinzione tra maiores e minores, →pastorizia). Dall’opera storica di Livio si ricavano notizie circa i processi intentati contro i pecuarii per aver trasgredito tali leggi, anche se non vengono specificati i reati commessi. I soldi delle multe erano, poi, utilizzati per le offerte votive, lo svolgimento dei ludi, l’erezione di templi e la costruzione di strade. Le fonti antiche come →Strabone e →Plinio il Vecchio forniscono informazioni anche sulle zone dinariche e del sistema alpino orientale della penisola balcanica soggette all’amministrazione romana. Alcune interpretazioni etimologiche di toponimi riconducono alla terminologia della pastorizia : così, ad esempio, lo sloveno Koper (Capodistria) trova corrispondenza nel toponimo latino Caprae (da capra) e in quello greco tardo-ellenistico Aegida (da ai[x, capra), oppure Trogir (Traù) in Tragurion (dal greco travgo~, caprone). Nelle Georgiche →Virgilio allude alla peste diffusasi in tempi remoti nel bestiame del Norico e in queste stesse regioni erano diffusi capi di abbigliamento in lana prodotti dall’attività pastorale come la vestis Norica, il cucullus (un pastrano con cappuccio), la veste dalmatica e i lanifici poetoviani, particolarmente rinomati. Un’iscrizione latina del i o ii sec. d. C. testimonia la situazione delle località circostanti alla zona centrale dei Monti Velebitti, riferendo di una sorgente d’acqua viva utilizzata dalle popolazioni confinanti degli Ortoplini (l’odierna Stinica) e dei Parentini (forse l’odierna Kosinj Gornji). Su queste regioni montane la pastorizia costituiva l’attività principale e d’estate e d’autunno i pascoli erano le mete della transumanza praticata da greggi e pastori, questi ultimi dedicandosi anche alle attività destinate al proprio sostentamento (produzione di formaggio, di pelli e di carbonella, caccia di selvaggina, raccolta di miele e di frutti). L’acqua potabile costituiva un problema serio, poiché nelle regioni dei Velebitti, così come del Carso, le sorgenti disponibili erano poche e necessarie anche agli abitanti del luogo. Ciò comportava lotte tra pastori per l’accaparramento delle fonti e una  

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regolamentazione romana su diritti e confini del territorio provinciale posseduto dalle varie tribù. Con il passare del tempo, a causa della progressiva romanizzazione e urbanizzazione, i Romani tendevano a ripartire i terreni fertili tra i cittadini romani, con relative tassazioni, relegando le popolazioni indigene, dedite alla pastorizia, nei pascoli montani che non rientravano nella suddivisione dei suoli arabili. La transumanza come attività pastorale con tutte le sue conseguenze dal punto di

vista stradale ed economico perse importanza nei secoli più tardi della storia romana, quando fu inglobata in sistemi economici più complessi e gestita attraverso il lavoro schiavistico. Bibliografia. Ballarini 1999; Bruno 1969; Carlsen 1992; Chandezon 2004; Foraboschi 1984; Šašel 1980; Skydsgaard 1974.

Manuela Martellini

P Paideia musicale ed ethos. Il valore paideutico della poesia e della →musica è attestato fin dai poemi omerici. Basti ricordare le parole con le quali Elena, in Il. 6, 357-358, afferma che Zeus assegnò a lei e a Paride una cattiva sorte, perché questa divenisse materia di canto anche per gli uomini futuri. In maniera più completa in Od. 24, 196-202, Agamennone contrappone il canto di lode per la saggia Penelope a quello di biasimo per Clitemestra : il primo giungerà gradito alle orecchie degli uomini, il secondo risulterà invece odioso. La musica a Sparta aveva una rilevanza notevole nell’educazione del cittadino. Significativa la testimonianza di →Plutarco (Lyc. 21) nella quale si afferma che lo studio della musica era curato come quello della lingua e che per stimolare l’entusiasmo verso le azioni belliche venivano eseguiti canti di lode in onore di chi era morto gloriosamente in guerra e canti di biasimo per chi era fuggito in battaglia. Alla medesima funzione assolvevano i cori distinti per classi di età (fr. 870 Page) menzionati dallo stesso Plutarco (loc. cit.). Durante le feste i vecchi ricordavano la loro forza di un tempo ; gli uomini maturi quella che ancora mostravano ; i giovani quella che avrebbero avuto. Tre sono i canti, ma l’argomento è lo stesso : il valore militare del cittadino spartano è una tradizione che deve essere mantenuta e rispettata. Anche i canti di Tirteo erano eseguiti per infondere coraggio e orgoglio bellico. Ma la musica assolveva anche ad un’altra funzione, quella di alimentare la concordia fra i cittadini e di pacificarne gli animi nei momenti politicamente difficili. Emblematico è l’episodio, secondo cui Terpandro era stato chiamato a Sparta, in seguito ad un responso dell’oracolo, proprio per far cessare la discordia interna (Terp. test. 14a, 14b Gostoli). La musica era fondamentale nei rituali di iniziazione maschili e femminili (Brelich 1969, Calame 1977). Proprio in virtù della sua forza psicagogica si verificarono a Sparta azioni di censura nei confronti di quei musici che trasgredivano le regole della musica antica, come attestano il caso di Terpandro, multato dagli efori che presero la sua cetra e la inchiodarono perché egli aveva teso una corda in più per ottenere varietà di suono, e quello di  







Timoteo, alla cui cetra essi tagliarono le corde eccedenti il numero tradizionale (Plu. Inst. Lac. 17, 238c). A Lesbo l’efficacia dell’insegnamento di Saffo, basato soprattutto sulla musica, può essere esemplificata dal fr. 49 Voigt. : la poetessa si compiace di aver trasformato Attis, smivkra … pavi" … ka[cari", in un’attraente fanciulla. Per i Pitagorici la musica ha un potere simile a quello della medicina : come il corpo viene purificato dalla medicina così l’anima viene purificata dalla musica (Aristox. fr. 26 Wehrli 2). Secondo la loro dottrina i sentimenti dell’anima umana soggiacciono alle stesse norme che regolano il cosmo concepito come armonia di elementi diversi. Pertanto, scoprire le leggi degli accordi musicali significa scoprire quelle dell’anima umana, cosa che permette la realizzazione di melodie adeguate ai vari scopi. Così la musica, procurando gioia, armonia ed ordine interiore, guarisce l’animo da situazioni patologiche (Iamb. VP 25, 110-114). Sulla stessa linea dei Pitagorici si mosse Damone, secondo il quale ogni armonia, per mezzo di una sorta di mimetismo (di’ oJmoiovthto~), provoca nell’anima un movimento corrispondente al suono. I suoni vengono distinti in maschili, gravi, e femminili, acuti (fr. 7 Lasserre). Damone utilizza il termine armonia (il cui significato originario era « connessione, giuntura ») per indicare un complesso di elementi di una melodia, designata con un nome etnico perché tipica di una certa regione. Egli riteneva che l’armonia dorica, in quanto imita gli atteggiamenti dell’uomo coraggioso, educa al coraggio e che l’armonia frigia, dal momento che imita il comportamento di un uomo moderato e saggio, educa alla saggezza (fr. 8 Lasserre). Distingueva inoltre i metri adatti alla bassezza d’animo, alla superbia, alla follia da quelli adatti alle qualità opposte (fr. 16 Lasserre). L’incidenza della musica nell’educazione dei giovani e l’importanza che essa, secondo Damone, assume nella vita politica emergono nel fr. 6 Lasserre, nel quale si sottolinea il ruolo del canto e del suono della cetra per l’acquisizione non solo del coraggio e della saggezza, ma anche della giustizia e nel fr. 14 Lasserre, là ove si afferma che « non si cambiano mai gli stili (trovpoi) musicali senza (cambiare) le più importanti norme (novmoi) della città ». Tali te 











paideia musicale ed ethos

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orie sono in consonanza con il ruolo svolto da Damone nella vita culturale e politica di Atene. Egli fu consigliere di Pericle, ma, come dice Plutarco (Per. 4, 3) « essendo chiaro che usava la lira come copertura, fu ostracizzato come faccendiere e filotiranno ». Pericle, che dietro consiglio di Damone aveva fatto costruire l’Odeion, fu accusato, infatti, di sperperare il denaro pubblico. Con questa costruzione e con i contributi (qewrikav) assegnati agli indigenti per assistere agli spettacoli (Plu. Per. 9), la forza paideutica della musica viene utilizzata a scopi politici, in quanto serviva per aumentare il consenso del popolo, ma non per questo si può dire che essa abbia perduto il suo ruolo etico. Prova ne è il fatto che i comici nei loro attacchi ai poeti novatori adottarono proprio le teorie damoniane sull’ethos musicale. Al contempo la musica svolse, come si è detto, la funzione di svago e di intrattenimento. La fruizione della musica quale bello spettacolo da godere portò i compositori a privilegiare virtuosismi e nuove tecniche esecutive, così che il conseguimento del piacere finì per diventare prioritario. Se è giusta l’ipotesi che colloca fra la fine del v e l’inizio del iv sec. a.C. l’anonimo autore del testo conservato nel PHibeh i 13 (del 275 a.C. circa) avremmo una preziosa testimonianza delle discussioni che avvenivano in questo periodo riguardo alla funzione etica della poesia. L’anonimo, infatti, contesta la dottrina che assegna alle armonie un potere sull’anima umana, per cui alcune di esse rendono gli uomini temperanti, altre assennati, altre giusti, altre valorosi, altre vili. Al contrario →Platone, convinto assertore della validità della dottrina dell’ethos, accoglie nel suo Stato ideale solo le armonie frigia, frugistiv, e dorica, dwristiv (R. 3, 399a-c). La scelta dell’armonia frigia fu giudicata incoerente da →Aristotele (Pol. 8, 1342a 32-b 7), che rimprovera a Platone di ammettere da una parte l’armonia frigia e dall’altra di bandire l’aulo, lo strumento adatto a realizzare questa stessa armonia e capace di suscitare forti emozioni, come dimostra tutta la poesia bacchica ed in modo particolare il ditirambo. A tal proposito occorre, tuttavia, precisare che Platone (Lg. 6, 764d-e), nel suo programma di educazione musicale non mostra un atteggiamento di completa chiusura nei confronti dell’aulo, in quanto dichiara utili e opportuni, oltre ai concorsi per rapsodi e citarodi, anche quelli per  



auleti, da effettuarsi, però, sotto il controllo dei magistrati. Per quanto concerne l’armonia frigia, Platone (La. 188d) contrappone l’armonia dorica, ritenuta la più idonea per un uomo valoroso, alle armonie ionica, frigia e lidia. Con questo sembrerebbe che il filosofo sia in contraddizione con quanto sostiene nella Repubblica, ma non è così. L’argomento del Lachete è, infatti, l’educazione del giovane nel combattimento, per cui risulta del tutto ovvio che venga considerata idonea solo l’armonia dorica. Le armonie ionica e lidia vanno bandite dallo stato ideale, perché molli (malakaiv), come allo stesso modo vanno bandite le armonie mixolidia e sintonolidia, perché di tipo lamentoso (R. 3, 398d-e). Diverso è il caso dell’armonia frigia che, essendo da lui ritenuta un’armonia di pace, non può essere adatta al combattente. Essa, come nota Aristotele (loc. cit.), è tipica del ditirambo e nello Stato platonico Dioniso ha diritto di piena cittadinanza. Platone (Lg. 2, 653 c-d) afferma, infatti, che gli dei, avendo pietà degli uomini, istituirono le feste per gli dei e diedero agli uomini come compagni di festa le Muse, Apollo Musagete e Dioniso, perché fossero da questi guidati e corretti. Le Muse patrocinano il coro di fanciulli, Apollo quello degli adulti e Dioniso quello degli anziani (Lg. 2, 664c-665b). Gli dei donarono agli uomini il senso del ritmo e dell’armonia accompagnato dal piacere (Lg. 2, 654a). La musica, quindi, ha valenza paideutica ed edonistica, come Platone ribadisce in varie parti della sua opera. Il canto ha fascino e forza persuasiva e per questo è pericoloso : quelle che sono chiamate wjd/ aiv, canti, in realtà sono ejpw/daiv, incantesimi (Lg. 2, 659e), per cui è opportuno che il legislatore vigili sulla musica e sull’educazione dei fanciulli. Nello Stato platonico saranno ammessi solo gli inni per gli dei e gli encomi per gli uomini ajgaqoiv (R. 10, 607a). Aristotele nell’ultima parte della Politica (8, 1339a 11-1342b 34) si occupa dell’educazione musicale e della musica. Egli ritiene la musica una delle cose più piacevoli. Proprio per questo si ricorre ad essa al fine di rallegrare l’animo. La musica, però, non si esaurisce nel piacere, di cui è comunque giusto godere, ma esercita anche il suo influsso sul carattere e sull’anima. Nell’educazione musicale si deve tener conto di queste due finalità : fornire un sano piacere e formare un animo nobile. L’aulo, che non è uno strumento morale (hjqikovn) ma orgiastico (ojrgiastikovn), non deve essere utilizzato per  



paideia musicale ed ethos educare i giovani. La sua inutilità a scopi pedagogici risulta evidente anche dal fatto che esso impedisce l’uso della parola. L’aulo, tuttavia, non deve essere bandito, in quanto utile nei momenti in cui lo spettacolo produce catarsi. Aristotele rifiuta l’istruzione che ha come scopo la preparazione per gli agoni, perché chi pratica quest’arte tende al piacere degli uditori e non al conseguimento della virtù. L’esercizio professionale della musica non è, infatti, ritenuto degno di un uomo libero. Aristotele sostiene che si debbano usare tutte le armonie, ma non tutte nello stesso modo : l’armonia dorica, essendo la più adatta a formare un carattere virile, deve essere insegnata ai giovani ; l’armonia lidia, che unisce bellezza ed efficacia paideutica, deve essere utilizzata per i fanciulli in tenera età ; le armonie che imitano passioni violente sono utili per la loro forza catartica. →Teofrasto riprende e sviluppa le teorie di Aristotele. In un punto, però, sembra distaccarsene. Dal fr. 720 Fortenbaugh emergerebbe, infatti, che egli abbia messo in dubbio il valore etico della musica, ritenendola inefficace per il conseguimento della virtù. Dalle altre testimonianze si deduce che Teofrasto attribuì alla musica proprietà psicoterapeutiche, mostrandosi, così, in accordo con la teoria aristotelica della catarsi. Egli individua nel dolore, nel piacere e nell’invasamento (ejnqousiasmov~) l’origine della musica (fr. 719a Fortenbaugh). L’uomo, in preda ad un’emozione eccessiva, è indotto da un impulso interiore a cantare e con il canto si libera dall’eccesso di emozione (fr. 716, 130132 Fortenbaugh). La stessa cosa avviene anche quando l’uomo ascolta la musica, perché essa, suscitando forti emozioni, lo libera, per omeopatia, dal loro eccesso (fr. 719b Fortenbaugh). Attraverso la catarsi vengono curate non solo le affezioni dell’anima, ma anche quelle del corpo, così chi soffre di sciatica guarisce se sulla parte malata si suona l’aulo nel modo frigio (fr. 726a-c Fortenbaugh). La musica muove l’anima, vi infonde il ritmo e vince il dolore. Oltre alla sciatica la musica cura gli svenimenti, la paura e i disturbi mentali. Il potere paideutico della musica è efficacemente illustrato da Polibio (4, 20-21). Egli afferma che gli Arcadi, per contrastare l’asprezza ostile del terreno ed il clima freddo, ricorrono alla musica, grazie alla quale essi sono virtuosi, liberali e generosi verso gli ospiti. Tale potere appare evidente dal confronto che Polibio ope 





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ra fra Arcadi e Cineti. Mentre questi ultimi, che trascurano l’educazione musicale, sono empi e feroci, gli Arcadi, che al contrario la praticano, sono ovunque famosi per la loro virtù. La musica, pertanto, è un mezzo indispensabile per addolcire l’anima e per raggiungere equilibrio interiore e saggezza. Gli Arcadi fin da piccoli sono abituati a cantare inni e peani ed a celebrare eroi e dei. Imparano, poi, i novmoi di Filosseno e di Timoteo. Ogni anno cori di fanciulli e giovani, in occasione delle feste dionisiache, danzano in teatro. Tutti, durante i banchetti, cantano a turno. Nell’educazione musicale degli Arcadi viene quindi accolta, oltre ai canti per gli dei ed agli encomi per gli uomini, anche la ‘nuova musica’ di Filosseno e Timoteo, osteggiata invece ad Atene dai commediografi e da Platone, perché ritenuta sovversiva. Nell’illustrare l’attenzione che gli Arcadi riservavano alla musica per i suoi benefici effetti sull’animo umano, Polibio, con ogni probabilità, ha tenuto presente le teorie degli stoici ed in particolare quelle di Diogene di Babilonia (ap. Phld. Mus. 4, 32 Delattre) relative all’educazione musicale impartita a Mantinea, Sparta e Pellene. Diogene asseriva che la musica aveva il potere di influenzare il comportamento degli uomini, calmando o spingendo all’azione, ispirando coraggio o viltà, amore o odio (Phld. Mus. 4, 13-16; 38-39; 41; 43; 49 Delattre). Esamina le melodie e ne coglie il rapporto con le corrispondenti virtù in funzione della conquista della felicità interiore coincidente con il bene (Phld. Mus. 4, 9 Delattre). La teoria di Diogene è confutata dall’epicureo Filodemo di Gadara che limita la musica alla sola sensazione acustica, per cui ne esclude la capacità di spingere all’azione e di fornire i principi in base ai quali viene scelto il bene (Mus. 4, 83-84 ; 94-95 Delattre). La musica, essendo irrazionale (Mus. 4, 117, 11-12 Delattre), non ha il potere di trascinare l’anima che è razionale (Mus. 4, 123, 41-42 Delattre). La scelta è, infatti, operata dalla volontà ed è la ragione che guida la volontà (Mus. 4, 121, 36-38 Delattre). Il diverso modo di reagire del pubblico di fronte ai differenti generi musicali è determinato dalle opinioni comuni, vale a dire dalle aspettative di cui è caricato un certo tipo di musica. Le opinioni sono in realtà mutevoli e non rispondono al vero. Sullo stesso brano musicale, infatti, vengono espresse opinioni opposte e contrastanti da parte di persone che si ritengo 

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no esperte (Mus. 4, 96 ; 116 Delattre). Tuttavia, poiché la musica produce piacere (Mus. 4, 149, 33-34 Delattre), è giusto ricercarlo e goderne, anche se esso afferisce ai piaceri non necessari (Mus. 4, 147, 17-22 ; 151, 29-31 Delattre). Il valore paideutico della musica è, invece, sostenuto da Aristide Quintiliano, il quale sottolinea l’importanza della musica come terapia per le affezioni dell’anima (Mus. 2, 7, p. 66 Winnington-Ingram). Essa va insegnata prima della dialettica e della retorica. Tali discipline, infatti, saranno utili solo se troveranno l’anima purificata dalla musica, mentre nel caso contrario saranno dannose (Mus. 1, 1, p. 2 Winnington-Ingram). La musica è superiore a tutte le arti mimetiche perché, unendo poesia, melodia e danza, coinvolge più organi di senso, non uno solo (Mus. 2, 4, p. 56 Winnington-Ingram). Essa, peraltro, risulta molto utile nell’educazione del bambino. Questi, essendo ancora immaturo, può essere educato solo se si fa leva sulla parte irrazionale della sua anima e si sfruttano le sue attitudini naturali. In tal modo l’insegnamento diventa efficace e nello stesso tempo piacevole (Mus. 2, 3, p. 55 WinningtonIngram). Il ruolo paideutico della musica non è però limitato alla sola sfera infantile, ma si allarga a tutti, in quanto essa, in virtù delle sue caratteristiche psicagogiche, riesce a moderare anche le passioni eccessive degli adulti (Mus. 2, 5, p. 58 Winnington-Ingram).  



Fonti. →musica. Bibliografia. Abert 1899 ; Anderson 1955 ; Anderson 1966 ; Anderson 1994 ; Avezzù 1994 ; Barker 2005 ; Bélis 1995 ; Brancacci 1996 ; Brelich 1969 ; Calame 1977 ; Comotti 1991 ; Gentili 1995 ; Gombosi 1939 ; Gostoli 1988 ; Gostoli 1995 ; Grandolini 2001 ; Lippman 1964 ; Lord 1978 ; Mathiesen 1984 ; Meriani 2003 ; Mosconi 2000 ; Mountford 1923 ; Moutsopoulos 1959 ; Musti 2000 ; Neubecker 1956 ; Pagliara 2000 ; Rispoli 1974 ; Rispoli 1991 ; Rossi 1988 ; Rouget 1980 ; Tartaglini 2003 ; Wallace 1991 ; Wallace 2005 ; Zanoncelli 1977.  

































































Simonetta Grandolini Palladio, Rutilio Tauro Emiliano. Autore latino di un trattato rustico nel quale la precettistica, in gran parte desunta da →Columella, viene rielaborata sotto forma di compendio pratico alleggerito da riferimenti a problematiche tecniche e questioni agrarie. L’opera comprende i 13 libri dell’Opus agriculturae, dei quali

il primo funge da introduzione ed i successivi dodici sono strutturati alla maniera di un menologio sulla base del calendario-riepilogo delle attività rurali proposto da Colum. 11,2, il De veterinaria medicina, che completa la materia, ed il De insitione, poemetto sugli innesti delle piante da frutto articolato in una lettera prefatoria ed 85 distici elegiaci. 1. Identificazione e questione cronologica. – Attualmente, per l’estrema incertezza degli spunti e la stratificazione delle ipotesi, le indagini tendono a collocare la figura di P. tra la fine del iv ed il v sec., con maggiore approssimazione intorno alla metà del v, ed a ritenerlo originario della Gallia. A tal fine assumono importanza alcuni indizi desumibili dal suo stesso trattato ed altre notizie di tradizione indiretta, in parte ancora in fase di valutazione : a) utili elementi si ricavano dai rilievi topografici eseguiti sulla base dei dati riportati nelle tabelle di misurazione delle ombre della meridiana poste nell’ultimo capitolo dei ll. 2-13, dai passi in cui P. descrive un tipo di trebbiatrice usata in Gallia (7,2,2-4), menziona pratiche agricole proprie dei territori settentrionali dell’impero o delle province (1,6,9 ; 1,7,3 ; 3,9,9 ; 3,11 ; 3,14 ; 6,11,1 ; 8,3,2 ; 12,7,7) ed accenna a sue esperienze o possedimenti in Italia, soprattutto presso la città di Neapolis in Sardegna (in particolare 3,25,20 ; 4,10,16 e 24 ; cfr. inoltre 2,1 e 3,15,1) ; in questa zona è in effetti testimoniata per i secc. iv-v l’esistenza di aziende con caratteristiche analoghe a quelle descritte dall’autore, quali un deciso incremento della frutticoltura a scapito dei cereali, anche attraverso l’introduzione di nuove varietà, la crisi del grande allevamento e la trasformazione della proprietà in una struttura autarchica a sfruttamento intensivo di minore estensione rispetto ai secc. i-iii, la coesistenza di schiavitù e colonato. Altri preziosi indizi derivano dal titolo di vir illustris del quale P. risulta insignito nelle inscriptiones dei manoscritti e concesso agli alti funzionari dell’amministrazione imperiale a partire dalla metà del iv sec. ca., dalla particolare strutturazione dell’Opus agriculturae, che sembra rispecchiare quella delle raccolte di leggi del iv-v sec., dalle prime attestazioni nella lingua latina, ormai volta al medioevo, dei lessemi vanga (1,42,3) e domnicalia (1,37,1, probabile hapax) ed infine dalle riflessioni sugli scopi ed i destinatari del manuale e del poemetto proposte nelle rispettive prefazioni ; b) notizie di tradizione indiretta devono essere considerate  























palladio, rutilio tauro emiliano le menzioni di Cassiodoro (inst. 1,28,6), che mostra di preferire P. a →Gargilio Marziale e Columella per la sua maggiore efficacia comunicativa, e di Isid. orig. 17,1,1 e 17,10,8,1 (forse anche 17,5,31), entrambe costituenti solo il terminus ante quem collocare l’autore. Notevole interesse, ma anche incertezze, soprattutto per quanto riguarda la probabile origine gallica, suscitano i possibili riferimenti in Rutilio Namaziano (1,205-216), per tradizione ritenuto parente dell’agronomo, Simmaco (epist. 1,15 ; 1,94 ; 9,1) e Sidonio Apollinare (carm. 9,309-310, epist. 5,10,3-4 ; 8,6,10) ; da rimarcare nei secc. v-vi l’ascesa della famiglia gallica dei Palladii, originaria forse di Bourges, i cui membri occuparono cattedre di retorica ed episcopali ; c) l’assenza di elementi concreti rende estremamente complesso il riconoscimento di Pasifilo, dedicatario del De insitione e forse dell’intero trattato alla maniera del Publio Silvino columelliano. Nessuna delle proposte identificative con funzionari o personaggi altolocati del tardo impero risulta convincente, né sembra comunque possibile che Pasifilo sia quel filosofo che ad Antiochia, pur sotto tortura, rifiutò di rivelare i nomi dei dignitari implicati nella congiura contro Valente (371-372) : tale ipotesi, fondata sulla notizia di Ammiano Marcellino 29,1,36, troverebbe conferma nell’epiteto ornatus fidei – peraltro di ambigua interpretazione – dal quale è accompagnato il nome di Pasifilo in apertura del carme, ma non trova riscontro nell’analisi del passo ammianeo e dell’intero episodio, da cui, viceversa, emerge che fu proprio un cortigiano di oscura origine, di nome P., a denunciare Pasifilo e siffatta circostanza appare certo incompatibile con il clima dei versi. Per contro, il complesso sistema nominale dell’età tarda, l’etimologia del nome e le sue scarsissime attestazioni, nonché la mancata indicazione del destinatario nell’epistola prefatoria e la considerazione che il poemetto – analogamente al De reditu suo di Rutilio Namaziano – era concepito per una circolazione privata, lasciano supporre che il nome Pasiphilus costituisca piuttosto un sostituto del vero dedicatario, da ricercarsi nell’ambito del ristretto circolo di aristocratici proprietari cui P. apparteneva. Da queste sommarie indicazioni appare evidente come in merito all’identificazione dell’agronomo la questione rimanga al momento ancora aperta ed in attesa di una concreta soluzione.  











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2. Opus agriculturae. – Il manuale, come si è accennato, presenta una struttura del tutto particolare, pratica ed innovativa, nel panorama della letteratura tecnica, soprattutto se si considera che ogni libro è anche preceduto da un elenco dei tituli dei capitoli in esso contenuti, allo scopo di agevolarne la consultazione, e la ripartizione degli argomenti segue un criterio razionale. Per la sua funzione propedeutica alla materia il libro i, dopo un’assai breve introduzione nella quale si evidenzia particolare premura nei confronti dei destinatari dell’opera (1,1) e dopo la presentazione dei quattro elementi fondanti la disciplina agricola (1,2), riporta specifici precetti di interesse generale che non possono essere esposti nei libri successivi : la scelta di terreni ed ambienti salubri (1,3-1,5 ; 1,7 ; 1,16), la buona riuscita delle colture (1,6 ; 1,35), l’edificio dell’azienda con locali e strutture annesse (1,8-1,15 ; 1,17-1,20 ; 1,39-1,41), le stalle (1,21-1,23), i ricoveri per animali da cortile o piccoli volatili (1,24-1,30), le vasche (1,31), i fienili (1,32), il letamaio (1,33), l’ubicazione di orto e frutteto (1,34), l’aia (1,36), gli alveari (1,37-1,38), le attrezzature (1,42). Al contrario i ll. 2-13 mostrano una struttura affine tra loro, con un ordine di successione degli argomenti sostanzialmente identico e caratterizzato nella maggior parte dei casi da capitoli monografici, salvo pochi brevissimi capitoli misti, con prevalente interesse per le colture e scarsi cenni all’allevamento ed ai metodi per la conservazione e/o trasformazione dei prodotti : coltivazione dei campi e semine (2,2-2,10 ; 2,12 ; 3,1-3,8 ; 3,22 ; 4,24,6 ; 4,8 ; 5,1-5,2 ; 6,1 ; 6,3-6,4 ; 7,1-7,3 ; 7,9 ; 8,1 ; 8,5 ; 9,1 ; 10,1-10,10 ; 10,12 ; 11,1-11,2 ; 12,1-12,2 ; 13,1-13,2), viticoltura e vinificazione (2,1 ; 2,10-2,11 ; 2,13 ; 3,8-3,16 ; 3,20 ; 3,28-3,30 ; 3,32-3,33 ; 4,1 ; 4,7 ; 5,2 ; 6,2 ; 6,4 ; 7,3 ; 7,11 ; 9,1-9,3 ; 10,11 ; 10,17-10,18 ; 11,3-11,7 ; 11,9 ; 11,14 ; 11,21-11,22 ; 12,2-12,4 ; 12,9-12,10 ; 12,12), frutticoltura (2,15 ; 3,19-3,20 ; 3,25 ; 4,8 ; 4,10 ; 5,4 ; 6,6 ; 7,5 ; 8,1 ; 8,3 ; 9,6 ; 10,14 ; 11,7 ; 11,12 ; 12,7 ; 12,16 ; 13,4), innesti (3,17), orticoltura (2,14 ; 2,16 ; 3,24 ; 4,9 ; 5,3 ; 6,5 ; 7,4 ; 8,2 ; 9,5 ; 10,13 ; 11,11 ; 12,6 ; 13,3 ; 13,5), oleicoltura e produzione dell’olio (3,18 ; 4,8 ; 5,2 ; 6,4 ; 11,8 ; 11,10 ; 12,4-12,5 ; 12,17-12,22), allevamento del bestiame (2,16 ; 3,26 ; 4,11-4,14 ; 5,6 ; 6,7-6,8 ; 7,6 ; 8,4 ; 9,4 ; 12,13 ; 13,6), apicoltura (4,15 ; 5,7 ; 6,10 ; 7,7 ; 9,7 ; 11,13 ; 12,8), produzione di vino, sciroppo od aceto da piante (2,18 ; 3,27 ; 3,31 ; 5,5 ; 6,13 ; 8,6-8,8 ; 9,13 ; 10,16 ; 11,15-11,20), olio ricavato da bacche (2,17 ; 2,19-2,20 ; 5,5 ;  

















































































   



































































   

































































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6,14-6,15 ; 7,10 ; 11,10 ; 12,5 ; 13,2), colture complementari (3,21 ; 3,23 ; 5,5 ; 6,16-6,17 ; 8,9 ; 12,11), allevamento degli animali da cortile (2,21), taglio della legna (2,22 ; 6,4 ; 12,15), preparazione del formaggio (6,9 ; 7,6), edilizia (6,11-6,12 ; 7,8 ; 10,15), farina di orzo (7,12), caccia (10,12 ; 13,6), ricerca dell’acqua (9,8-9,12 ; 10,3), raccolta delle ghiande (12,14), misurazione delle ombre della meridiana (2,23 ; 3,34 ; 4,16 ; 5,8 ; 6,18 ; 7,13 ; 8,10 ; 9,14 ; 10,19 ; 11,23 ; 12,23 ; 13,7). La precettistica risulta desunta in prevalenza dai più volte citati Columella – anche e soprattutto in via implicita, sebbene in maniera meno evidente rispetto al l. 14 – e, in subordine, Gargilio Marziale ; non mancano riferimenti anche a fonti greche, ma gli ambigui rapporti con la silloge bizantina dei →geoponica devono essere ancora chiariti. L’agile strutturazione del testo, la scelta di uno stile espositivo in apparenza semplice e disadorno, ma idoneo ad un efficace discorso tecnico, e la rinuncia ad evidenti riferimenti alla situazione agraria hanno certo contribuito alla maggiore diffusione nel Medioevo di questo manuale rispetto a quelli degli altri autori rustici della tradizione, in particolare Columella. 3. De veterinaria medicina. – Alcune norme di pronto soccorso per insolazioni, punture e morsi velenosi (14,1) fungono da cerniera ed agevolano il passaggio logico-argomentativo dalla sezione agricola dei ll. 1-13 a quella veterinaria assicurando unitarietà all’intero manuale. Seguono la vera prefazione (14,2,1), nella quale l’autore evidenzia il carattere complementare del breve trattato rispetto a quanto precede e dichiara di avere utilizzato come fonte quasi esclusivamente Columella, ed un elenco dei prodotti naturali e delle sostanze – soprattutto erbe, frutti, minerali e semi – necessari alla preparazione dei farmaci indicati nei capitoli successivi (14,2,2-3). Sempre in rispondenza al criterio della fruibilità pratica del testo, P. propone una concisa trattazione monografica delle malattie delle specie animali più importanti per un’azienda : buoi (14,4-21), cavalli (14,22-27), mule (14,28), pecore (14,29-32), capre (14,33-35) e suini (14,36-38) ; in appendice sono riferiti precetti accessori desunti da autori greci (14,39-65). Tali scelte redazionali evidenziano come P., nel solco della tradizione catoniana e columelliana, consideri la veterinaria sotto una prospettiva enciclopedica e quindi stret 



























































tamente legata all’agricoltura, distaccandosi dalla più o meno contemporanea produzione specialistica di →Pelagonio, →Vegezio e della →Mulomedicina Chironis che hanno reso la disciplina autonoma. Tali motivi, però, unitamente al fatto che gran parte del materiale è in pratica copiato alla lettera dai ll. 6-7 della Res rustica di Columella e sono reperibili opere di veterinaria ben più approfondite, hanno certo determinato l’assai scarsa diffusione di questa parte dell’opera palladiana. 4. De insitione. – Il poemetto georgico, noto anche come De insitione liber o Carmen de insitione, rappresenta forse la parte più originale della produzione di P., seppure spesso considerato un mero esercizio di freddo stile scolastico a causa dei contenuti in apparenza tecnici. Il testo consta di due parti, una breve epistola prefatoria in prosa e 170 versi, entrambe strutturate, secondo una diffusa interpretazione, in tre sezioni. Nella lettera l’autore si rivolge al destinatario, con il quale si sente in debito, annunciando che il carme costituisce un’aggiunta alla copia dei ll. 1-14 che gli invierà e adduce come causa del ritardo nella spedizione la lenta esecuzione della copia stessa da parte del suo segretario, fatto che però non deve essere considerato negativamente (§ 1) ; il discorso si amplia quindi a considerazioni di carattere morale sui rapporti tra servitori e padroni (§ 2) per poi cedere spazio ad un atteggiamento d’umiltà verso il destinatario (§ 3). Dal canto loro i vv. 1-44 comprendono la dedica all’altrimenti ignoto Pasifilo ed una professione di modestia nell’arte poetica (1-10), il proemio con la presentazione del fenomeno dell’insitio, tramata di riferimenti filosofici tendenti allo stoicismo ed interpretata in chiave simbolica come atto erotico della natura, ed il tema del carme (11-36), quindi una succinta descrizione delle tecniche di innesto (37-44) ; i vv. 45-164 sono organizzati in diciotto epigrammi e riguardano gli innesti delle principali varietà di arbores da P. già menzionate nel manuale – innanzitutto vite ed olivo, poi pero, melograno, melo, pesco, cotogno, nespolo, cedro, prugno, fico, gelso, sorbo, ciliegio, mandorlo, pistacchio, castagno e noce –, sviluppando il tema attraverso la descrizione dei vari abbinamenti nel contesto di un frutteto ideale e privilegiando non tanto l’aspetto tecnico dell’operazione quanto l’immagine risultativa degli innesti ed in parti 



pane colare i colori dei frutti e delle chiome, in una dimensione estetica nella quale la spontaneità delle piante sembra prendere il sopravvento sul controllo dell’uomo ; ai vv. 165-170 l’autore, forse consapevole di essere progressivamente scivolato nella monotonia a causa dell’affievolirsi dell’ispirazione, avendo in buona sostanza esaurito la materia, inserisce un rapido finale e si congeda dal dedicatario con una rinnovata professione di umiltà nella pratica della poesia. Il carme, senza reale scopo pratico ma significativamente collocato dopo il trattato in prosa, appartiene al filone della lirica didascalica latina di soggetto rustico e costituisce una delle ultime prove di innalzamento letterario operato da quella particolare produzione in versi che gli autori tecnici pongono in appendice ai manuali con l’intento di colmare almeno in parte il divario con i generi letterari e gli insuperati modelli colti coniugando tecnica e poesia, cioè cultura giudicata di secondo rango e cultura letteraria, in modo da potersi rivolgere soprattutto ad un pubblico elevato, interessato non solo agli aspetti pratici del testo in prosa ma anche ad un dotto e raffinato intrattenimento. Nell’epistola è riproposto lo stile delle prefazioni ai ll. 1 e 14, caratterizzato da una marcata brevitas e da una sintassi semplice ma non priva di preziosismi ed arricchito – in analogia con i versi – da allusioni e doppi sensi che vivacizzano l’esposizione ; i distici elegiaci invece, impiegati al posto dei tradizionali esametri, ricorrono ad un registro linguistico ermetico che enfatizza il simbolismo ed il difficile connubio tra allegorie, cromatismo ed effetti stilistici, nel tentativo di coniugare precisione tecnica e poesia. Per quanto attiene ai modelli, appare davvero inconfutabile l’imitazione di Virgilio ed Ovidio, dai quali dipendono soluzioni metrico-espressive, sintassi, lessico ed immagini, accanto a talune riprese da autori di età imperiale e tarda ; ciononostante, è tuttavia possibile escludere il De insitione dal novero dei centoni tardoantichi in quanto nel carme non si evidenzia, ad esempio, la caratteristica dipendenza da un unico autore ma, al contrario, predomina l’intento di coinvolgere il lettore in un gioco di sottintesi e citazioni nascoste. Tali complesse caratteristiche, unitamente alla brevità, hanno indubbiamente contribuito alla scarsa diffusione della composizione, di fatto riscoperta nel corso del xv sec. nell’ambiente umanistico fiorentino.  





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Bibliografia. Ambrosoli 1983 ; Corsetti 1978 ; Corsetti 1979 ; Cossarini 1977-1978 ; De Angelis 1997-2000 ; De Angelis 2006 ; Di Lorenzo 2000 ; Di Lorenzo 2001 ; Di Lorenzo-PellegrinoLanzaro 2006 ; Formisano 2005 ; Frézouls 1980 ; Gallo 1979 ; Giardina 1986 ; Hamblenne 1980 ; Josserand 1975 ; Kaltenstadler 1984 ; Kaltenstadler 1986 ; Maggiulli 1982 ; Maggiulli 1990 ; Maggiulli 1992a ; Maggiulli 1992b ; Marshall 1983 ; Martin 1976 ; Martin 1978 ; Mastrorosa 1998 ; Mastrorosa 2002 ; Morgenstern 1989 ; Moure Casas 1978 ; Moure Casas 1979 ; Moure Casas 1990 ; Pellegrino 2006 ; Richter 1978 ; Rodgers 1969 ; Rodgers 1975a ; Rodgers 1975b ; Rodgers 1976 ; Rossi 1994 ; Schmitt 1898 ; Svennung 1926 ; Svennung 1935 ; Vera 1995 ; Vera 1999 ; Zaffagno 1990b.  



















































































Alberto De Angelis Pane [a[rto~, panis]. 1. Origini. – Non è possibile datare con precisione il momento in cui l’uomo inventò le tecniche per fare il p., ma rimane comunque l’incontrovertibile dato di fatto che questo alimento ha accompagnato pressoché da sempre l’evoluzione della civiltà [→alimentazione in grecia, →alimentazione in roma]. Presso gli Antichi non mancarono le riflessioni sulle origini della panificazione e sappiamo da →Seneca (epist. 90, 22-23) che →Posidonio attribuiva tale scoperta ad un saggio che si ispirò all’esempio della digestione, considerata nell’antica →medicina come un processo di cottura. Un diverso approccio al problema è quello proposto dallo storico greco Diodoro Siculo (1,43,4-5), che in un’acuta osservazione spiega come gli Egizi cominciarono a cibarsi dei frutti della terra dopo un lungo periodo in cui erano stati dediti solo alla →pesca ed alla →pastorizia. L’invenzione del p. è quindi posta in una fase di sviluppo civile che sottintende già un più avanzato rapporto dell’uomo con la natura rispetto a quello primordiale, basato soltanto sullo sfruttamento delle risorse che non prevede un processo di lavorazione. Lo storico ci parla anche di un tipo specifico di p., ricavato dal loto, che deve dunque essere ritenuto una delle prime piante da cui l’uomo imparò ad ottenere una farina o una poltiglia adatte alla panificazione. Anche dal punto di vista geografico le indicazioni di Diodoro Siculo risultano corrette, dato che le origini della produzione di p., come per la

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pane

→birra, sono da collocare proprio nel vicino Oriente. Nell’Antico Egitto, infatti, il p. costituiva un alimento essenziale e la sua lavorazione aveva raggiunto un notevole livello, tanto che ne esistevano molte varietà, condite con spezie e vari altri prodotti, destinate alle occasioni conviviali od offerte alle divinità, come possiamo comprendere dalle rappresentazioni pittoriche conservate nelle tombe. [1] Erano soprattutto le donne addette alla preparazione del p., ma esistevano anche le botteghe dei fornai, che lo producevano in molte forme particolari come quelle di certi animali. Le nostre conoscenze sono confermate anche da Ecateo ed Erodoto, i quali attestano che gli Egizi mangiavano un tipo di p. di spelta dal sapore aspro, chiamato kulla`sti~ (Hdt. 2,77,4 ; Ath. 3, 114 c). 2. In Grecia e a Roma. – L’introduzione del p. a Roma si data in tempi relativamente recenti ed è dovuta all’influsso della Grecia, dove a sua volta giunse dall’Oriente. →Plinio (nat. 18, 83), infatti, attesta che i primi Romani vissero a lungo di polta (puls), un miscuglio di varie farine e →legumi. Secondo Plinio (nat. 18,107) soltanto nel 171 a.C. nacquero le prime attività di panettieri nell’Urbe, ma la data va anticipata almeno al iii sec. a.C., come possiamo dedurre da Plauto. [2] Tra i primi a svolgere la professione di fornai (ajrtopoioiv, pistores) si contano soprattutto liberti e Greci, sottoposti alla direzione di piccoli proprietari, perché tale attività fu considerata di bassa estrazione sociale. Il termine pistores indica propriamente gli addetti alla macinazione delle granaglie (dal lat. pinso, ‘pestare’), un lavoro manuale cui furono originariamente addetti gli schiavi dei ricchi proprietari. Col tempo i fornai si riunirono in un collegium, cioè una corporazione, e vennero incaricati dalle autorità di garantire l’approvvigionamento di p. pubblico, detto panis gradilis o fiscalis, per le classi subalterne dell’Urbe. [3] I governanti subivano infatti le pressioni della plebe urbana. Con l’acquisto di maggior peso sociale l’attività dei fornai dovette divenire anche piuttosto redditizia e garantire anche una certa fama. Ci sono infatti noti dei monumenti funerari dedicati alla memoria di certi pistores. [4] Tra i Greci i panettieri più famosi erano quelli di Atene, il cui p. godeva di grande prestigio. Uno di loro, certo Tearione, divenne celeberri 









mo e viene menzionato da Platone (Gorg. 518b) ed Ateneo (3, 112d). Rinomato era anche il P. di Cipro (Ath. 3, 112f ). Gli schiavi o gli affrancati continuarono a rappresentare a lungo la categoria cui era affidata normalmente la produzione del p., come possiamo dedurre dalla notizia secondo cui anche nella tarda Antichità (vi sec. d.C.) questi esercitavano ancora l’ars pistorica. [5] Sulla panificazione nel mondo greco-romano siamo informati da varie fonti, sia letterarie che iconografiche. Sono infatti numerose le rappresentazioni pittoriche ed i bassorilievi conservati che illustrano le varie fasi della lavorazione. Ai panettieri spettava l’intera operazione che portava al prodotto finito, dalla tritatura delle granaglie per preparare la farina, alla cottura e vendita. Per questo le botteghe erano munite di una cucina e di una stanza adibita a mulino (costituito semplicemente da una o più mole per la macinazione), oltre che del forno. Quest’ultimo (ijpnov~, furnus) era molto simile al moderno forno a legna, dotato di un’apertura nella quale veniva introdotto il p. tramite una specie di pala con un lungo manico. Un’altra tecnica, più antica e rudimentale, era quella di porre l’impasto sotto la cenere (Ov. Fast. 6,315). Intorno all’arte fornaria si sviluppò anche una certa letteratura tecnica e sappiamo di un trattato in materia di Crisippo di Tiana (Ath. 3, 113). Prima dell’affermazione del mestiere di fornaio esisteva soltanto un p. di consumo domestico, la cui lavorazione spettava normalmente alle donne, in modo non dissimile da quanto accadeva in Egitto. Ai tempi di →Catone (agr. 74), per esempio, veniva preparata una povera focaccia non lievitata. Di contro, il successivo ed usuale procedimento di panificazione prevedeva anche tra gli Antichi l’uso di fermenti che consentissero la lievitazione: →Celso (2, 25, 1), ci parla di un panis fermentatus, corrispondente all’a[rto~ zumivth~ di Ath. 3, 109c). Sappiamo dall’archeologia che già nel periodo neolitico l’uomo era in grado di produrre un P. lievitato. [6] Il lievito (zuvmh, fermentum) era costituito da grumi di farina di miglio e triticum [→cereali] imbevuta nel mosto lasciato a fermentare nelle botti, che venivano poi aggiunti all’impasto nel momento della preparazione del p. (Plin. nat. 18,102-104 ; Geop. 2, 33,3). Un serio problema era rappresentato dal fatto che il buon mosto era disponibile soltanto dopo la vendemmia [→viticoltu 





pane ra], mentre durante il resto dell’anno doveva essere stoccato per garantire una sufficiente riserva di lievito. Spesso tale processo di conservazione [→conservazione degli alimenti] risultava non perfetto ed il lievito inacidiva, facendo assumere ai prodotti un sapore non gradevole. Anche per questo motivo il p. degli Antichi era spesso molto speziato o ripassato all’esterno con delle uova, che ne rendevano più appetibile l’aspetto ed il sapore (Plin. nat. 19,168). Nonostante tutti questi accorgimenti, la qualità del p. comune non era di certo ottima e questo rimase pertanto sempre piuttosto duro, soprattutto a causa delle scarse quantità di lievito utilizzato, visto che le riserve non erano abbondanti. Poter usufruire di un p. di buone farine di cereali era dunque considerato già un certo lusso. Lo dimostra il fatto che tra i Romani fu soprattutto il farro che all’inizio era impiegato per la macinazione, soppiantato in seguito da altre farine di migliore qualità e purezza. Allo stesso modo anche nell’Atene soloniana (Ath. 3, 137e) il p. era lasciato per i giorni festivi, altrimenti era previsto solo il consumo della più modesta ma`za, una specie di focaccia o galletta d’orzo molto diffusa in tutta la Grecia. Anche alcune farine di →legumi, tra cui quelle dell’ervum e della cicercula, tendevano a fermentare senza l’ausilio di altri reagenti, per cui erano aggiunte come lievito per il p. d’orzo [→cereali] (Plin. nat. 18,103). Un tipo particolarmente leggero era però quello delle provincie di Gallia e Spagna, dove era già noto il levito di →birra, di ottima qualità, ottenuto dalla schiuma essiccata del frumento macerato (Plin. nat. 18,68). Esattamente come oggi gli Antichi distinguevano due parti del p., cioè la crosta (crusta) e la mollica (mollia panis): Plin. nat. 13,82 e 19,168. 3. Tipologie. – La produzione di p. aveva raggiunto nel mondo greco-romano un alto livello di specializzazione ed i fornai lo fabbricavano in moltissimi tipi diversi, a seconda della farina usata e quindi della qualità (cui corrispondeva solitamente anche una differenza sociale), ma anche a seconda della forma e di altre caratteristiche. Un p. comune, alimento di base delle classi povere e rurali, era il cosiddetto panis cibarius (cioè ‘grossolano’), di cui Celso (2,18, 4) descrive le scarse proprietà nutritive. Da una farina meno raffinata si produceva anche il panis secundarius (a[rto~ deuterai`o~), cioè ap-

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punto ‘di seconda qualità’ (Plin. nat. 18,90). Di contro la farina migliore era considerata quella di segale (lat. siligo) (Plin. nat. 18,86). Buona era anche quella di miglio ed orzo (Cels. 2,18,4) e rinomata la farina di triticum proveniente dall’Africa (Plin. nat. 18,89). Era conosciuto anche un p. di semola (lat. panis furfureus) ed il p. integrale, chiamato aujtovpuro~ da Ateneo (3, 110e), cioè cui non è stato tolto nulla dall’operazione di setaccio, per usare la definizione di Cels. 2,18,4. Due altre tipologie derivavano il nome dalle categorie cui era destinato, cioè il panis militaris (p. dei soldati) ed il panis nauticus (p. dei marinai), entrambi simili ad un biscotto secco ed adatti ad una lunga conservazione. [7] Numerosi altri generi erano denominati a seconda del companatico con cui venivano serviti, come il panis ostrearius, cioè ‘p. delle ostriche’ ; oppure a seconda del metodo di cottura, come il panis furnaceus, cotto al forno, il panis artopticius (ajrtoptivkio~), messo invece in padella (dal gr. ajrtovpth~ che designava un tipo particolare di tegame) e ritenuto migliore del precedente e di quello clibanites. Quest’ultimo (a[rto~ klibanivth~) derivava la propria nomenclatura dal clibanus (klivbano~), un piccolo forno in vari materiali usato appunto per cuocere il p. (Plin. nat. 18, 105 ; Ath. 3, 110c). [8] Il tipo di alimentazione evidenziava anche delle differenze sociali, se Seneca (epist. 119, 3) oppone al p. di segale quello ‘plebeo’, altrove chiamato anche ‘nero’ (Mart. 11,56,8). Anche le nazioni da cui certi tipi provenivano davano il nome al p., come per il panis Picentinus (‘p. del Piceno’), il p. della Cappadocia ed il p. dei Parti (Plin. nat. 18,105 ; Ath. 113 b-c). Quest’ultimo possedeva la caratteristica di assorbire molta acqua e diventare spugnoso, per cui era detto anche aquaticus e corrispondeva al greco pluto;~ a[rto~ (Plin. nat. 18,105 ; Gal. 6,494). I Greci conoscevano la qualità di Cappadocia anche con l’epiteto ‘morbido’ (aJpalov~), preparato con latte, olio e sale (Ath. 113b). Ingredienti simili erano alla base di un tipo di focaccia chiamata ajrtolavganon, con aggiunta di vino e pepe, nonché del panis strepticius (streptivkio~), cioè ‘a treccia’ (Plin. nat. 18,105 ; Ath. 113d). Conosciamo anche tipi fatti con uova e grasso, un p. a forma di fungo boletus (Ath. 3, 113c) e quello detto quadratus, poiché veniva spezzato in quattro parti, dette appunto quadrae (Sen. ben. 4,29,2). Oltre al normale p. fermentato esisteva  













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paolo di alessandria

anche quello azymus (a[zumo~) e quello leggermente fermentato (ajkrovzumo~ : Scrib. 133 ; Gal. 13,173 ; Geop. 2,33,4). Ne conosciamo uno ricco di crusca (Ath. 3, 114e ; Geop. 20,1,4), mentre meno diffuso era quello non salato (a[nalo~). Il p. chiamato ‘obelias’ (ojbeliva~ a[rto~) prendeva invece il nome dal fatto che costava un obolo, oppure perché era cotto allo spiedo (da ojbelivsko~, cioè ‘spiedo’) ; mentre quello detto ejtnivta~ era un impasto di →legumi (Ath. 3, 111b). Diverse sono infine le forme linguistiche con cui il p. veniva chiamato nelle varie realtà locali e numerosi erano anche i tipi regionali, di cui però possediamo pochissime notizie. I Messapi, per esempio, avevano la parola panov~, molto simile al corrispondente latino (panis), mentre gli Ioni ne producevano uno detto knhstov~ (lett. ‘grattato’) e gli abitanti dell’Elide detto invece bavkculo~, cotto nella cenere (Ath. 3, 111 c-e). Dalla arinca, cereale originario della Gallia e molto diffuso anche in Italia, secondo le indicazioni di Plinio (nat. 18, 92), si otteneva un p. molto dolce. A volte lo stesso p. era designato con differenti nomi a seconda delle regioni. I Siriani chiamavano infatti il citato p. di Cappadocia col vocabolo aramaico lachma (Ath. 3, 113c). [9] 4. Pane in medicina. – Come alimento principale nella dieta degli Antichi il p. aveva i suoi effetti sulla salute dell’uomo. Oltre che dal punto di vista strettamente nutrizionale, il p. era apprezzato anche per i suoi poteri curativi in molte patologie, tanto che Plinio (nat. 22, 138) attesta esplicitamente che in esso si possono trovare innumerevoli medicamenti. In →Celso (2,30,1) il p. di segale e quello di farina di triticum [→cereali] avevano proprietà astringenti, soprattutto se lievitati. Simile era l’effetto del p. vecchio e di quello ‘dei marinai’, una volta triturato e ricotto ; mentre il cosiddetto panis candidus, bagnato con acqua calda o fredda si prestava bene come alimento adatto ai malati, coniugando valori nutrizionali e leggerezza (Plin. nat. 22,139). Una poltiglia a base di p., acqua, vino o latte era somministrata ai degenti anche secondo Cels. 3,6,10. Nell’opera del medico Marcello Empirico (med. 27,133) il panis nauticus compare in un composto da dare ai dissenterici. In →medicina era noto anche il p. d’Alessandria e di Cipro (Priscian. log. 101). Il p. era utile anche per usi esterni, come attesta ancora →Marcello Empirico (med. 18,26), che  











prescrive un impacco di ibisco, grasso animale e p. contro le suppurazioni delle unghie. Col p. sitanius (shtavnio~), ricavato da un tipo di triticum [→cereali] seminato in primavera, venivano trattate ferite ed escoriazioni (Plin. nat. 22,139). In modo analogo anche →Dioscoride (2,85) sostiene che il p. inzuppato in acqua salata e applicato come cataplasma curava molte piaghe cutanee, mentre assunto secco calmava la diarrea. Note. [1] Darby-Ghalioungui-Grivetti 1977, 503 ss. – [2] Cfr. ex. gr. Asin. 200, Capt. 807. Vd. anche André 1981a, 62. – [3] Dosi-Schnell 1986a, 57. – [4] Besnier 1905, 494. – [5] Besnier 1905, 500. – [6] Darby-Ghalioungui-Grivetti 1977, 502. – [7] André 1981a, 70. – [8] Cubberly 1995 ; Dalby 2003, 101. – [9] In Ateneo leggiamo la traslitterazione greca lacmav.  

Bibliografia. Amouretti 1986 ; André 1981a ; Besnier 1905 ; Cubberly 1995 ; Dalby 2003 ; Darby-Ghalioungui-Grivetti 1977 ; Dosi-Schnell 1986a ; Doyen-Warmenbol 2004 ; Hübner 1896.  















Francesco Fiorucci Paolo di Alessandria. Astrologo, astronomo e filosofo di una certa importanza del iv secolo d.C., appartenente alla classe colta degli egiziani ellenizzati. Sulla scorta di Tolomeo, il quale aveva dichiarato che la previsione si compone di discipline diverse e cooperanti (matematica, fisica e filosofia), P. compone una Isagoge (Introduzione all’astrologia), [1] nei cui trentasette capitoli riprende i principi fondamentali della disciplina, rivalutando l’apporto dei ‘saggi Egizi’ e aggiungendo ad ogni capitolo metodi, opinioni e citazioni degli archaioi. Il testo di P. è risultato fondamentale per la storia dell’astrologia e per una migliore comprensione dei processi di riscrittura nella manualistica dell’antichità classica. In quanto opera di raccolta, il testo di P. si presenta come un bacino collettore della dossografia preesistente : a parte i ‘saggi egiziani’, compaiono tra le sue fonti Ermete Trismegisto, Apollinario e Tolomeo. A sua volta, l’Introduzione all’astrologia rappresentò un testo cardine per la tradizione successiva : testimoni dell’attenzione sono, oltre agli scolii, il commento dello Ps.-Eliodoro, [2] la sua presenza nell’opera di Retorio e in frammenti nella tradizione siriaca, armena, araba e karšuni. [3]  









Note. [1] ed. Boer 1958. – [2] ed. Boer 1962. – [3] Saliba 1995.

pappo Bibliografia. Boer 1958 ; Boer 1962 ; GundelGundel 1966, 236-239 ; Jones 2008b ; Saliba 1995 ; Urso 2002, 126.  









Carmelo Lupini Paolo di Egina. Medico della scuola di Alessandria (625-690 d. C.), autore di due trattati, purtroppo perduti, sulle malattie delle donne e la cura dei bambini. Ci sono invece pervenuti 7 libri compendiarii di Iatriká, editi nella traduzione latina del Cornarius a Basilea nel 1556 (Ed. cmg Lipsiae 1921-1924), fondamentali per la chirurgia fino alle soglie dell’Illuminismo (ernia inguinale, pietra vescicale), anche nella tradizione araba. Bibliografia. Berendes 1914; Diller 1949 ; Foti 1987; Garzya 2006 ; Lamagna 2006; Pormann 2004; Tabanelli 1964.  



Daria Crismani Pappo [iii-iv sec. d.C.]. 1. Generalità. – Matematico di grande levatura, operò ad Alessandria. La sua collocazione cronologica si ricava da uno scolio a un manoscritto di commento alle Tavole Facili di →Teone Alessandrino, dove, a proposito di Diocleziano, si dice che P. visse nel suo tempo. La datazione sarebbe confermata da luoghi dell’opera dello stesso P., che fa riferimento a un’eclisse di sole datata con certezza nel 320. [1] Va altresì segnalato che la Suda lo vuole contemporaneo di Teone, collocando entrambi gli studiosi sotto il regno di Teodosio I (378-395). [2] P. commentò gli Elementi di →Euclide – ne abbiamo riferimenti nel commento a Euclide di →Proclo, nonché in una versione araba del commento al libro x e in alcuni frammenti del commento agli altri libri ricostruiti a partire dagli Scholia – e la Syntaxis Mathematica di →Tolomeo, commento giuntoci solo in parte.  



Livia Radici 2. La Collectio di Pappo. – Il commento al x degli Elementi risulta diviso in due libri e presenta, nel suo complesso, alcuni caratteri condivisi dal testo procliano : Proclo fa precedere il commento tecnico vero e proprio da due prologhi di carattere storico-filosofico ; analogamente, il primo libro del commento di P. ha carattere ‘filosofico’ e funge da introduzione al secondo, che contiene invece dettagli e analisi più squi 



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sitamente matematiche. L’organizzazione del testo ha indotto taluni a credere che P. si rivolgesse a lettori con una preparazione filosofica, forse di tradizione neoplatonica. È più probabile, tuttavia, che la tradizione che sta dietro al commento sia genericamente platonica, piuttosto che neoplatonica. Del tutto perdute altre opere, fra le quali merita di essere ricordato un commento ai Data di Euclide, usato quasi certamente da Marino di Neapoli. L’opera maggiore di P. è la Collectio o Sunagwghv. Scritta intorno al 320 d.C., essa ha il fondamentale merito di costituire un vero e proprio bacino collettore della storia delle scienze matematiche antiche : si tratta, infatti, di una miscellanea, che ha permesso di formare un quadro abbastanza completo, sotto il profilo tecnico e storico, della matematica greca. Non solo P. inserisce nella sua opera matematici che conosciamo anche per altra via, ma offre anche informazioni su opere perdute e qualche notizia su personaggi che sarebbero altrimenti sconosciuti. A tale andamento dossografico, P. affianca la tendenza a discutere e aggiornare teoremi e dimostrazioni, introducendo nuove scoperte, come la dimostrazione che, fra due poligoni di uguale perimetro, quello con più lati ha area maggiore. Il metodo di P. consiste, in tal senso, nel presentare le teorie tratte dagli altri matematici, combinandole con propri commenti o a modo di introduzione, o sotto forma di integrazione attraverso l’aggiunta di lemmi. Dato il carattere disorganico dell’opera, taluni hanno ipotizzato che essa sia andata soggetta a successive interpolazioni, che la stessa natura composita della Collectio avrebbe reso possibili.  

Claudia Maggi 3. Gli otto libri della Collectio. – Dei libri che la componevano, il primo è andato perduto ; gli altri sette ci sono pervenuti, per intero o in parte. Poiché il secondo libro ha per oggetto l’aritmetica – le parti del libro che ci rimangono trattano di grandi numeri, della loro rappresentazione e di questioni di calcolo aritmetico –, si è pensato che anche il primo sviluppasse il medesimo argomento. Il terzo libro tratta del problema dell’inserzione di due medie proporzionali fra due rette date, della teoria delle dieci proporzioni o medietà, delle figure piane ; riporta la distinzione fra problemi relativi a figure piane, solide o a metri lineari, [3] assunto che fa da base alla trattazione di  





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pappo

questioni geometriche ampiamente dibattute nel mondo antico ; queste ultime sono corredate da un’ampia dossografia, come nel caso dell’individuazione delle medie proporzionali su accennata o in quello della ripresa dello spinoso problema della duplicazione del cubo. Il libro tratta inoltre dei cinque solidi regolari, oggetto anche del quinto libro. Nel quarto libro vengono affrontati vari problemi matematici : la generalizzazione del teorema di Pitagora, due costruzioni relative al problema della trisezione dell’angolo, il metodo di identificazione delle tre medie fondanti di un semicerchio, quella aritmetica, quella geometrica e quella armonica ; sono, inoltre, trattate le progressioni proporzionali, le inclinazioni delle rette e il problema della quadratura del cerchio. Il quinto libro contiene la trattazione di figure piane aventi uguale perimetro, comparate tra di loro e con il cerchio, oltre che la trattazione di figure solide aventi uguale superficie, comparate tra di loro e con la sfera ; sono anche affrontati casi particolari, come il problema dei coni equivalenti alle figure solide che nascono dalla rotazione di triangoli o poligoni. [4] Gli ultimi tre libri sono, rispettivamente, dedicati all’→astronomia, alla geometria superiore e alla →meccanica. Il sesto libro espone le possibilità e le modalità di applicazione delle scienze matematiche all’astronomia. I problemi di costruzione delle curve e le relative dimostrazioni sono oggetto del settimo libro che, oltre a riproporre la distinzione fra metodo teorico e metodo problematico nella risoluzione dei problemi, [5] è particolarmente ricco di intuizioni originali, come nel caso di dimostrazioni e problemi relativi alla sezione di una linea retta. [6] Nell’ottavo libro, infine, si discute dell’interazione fra discipline matematiche, fisica e meccanica, e dell’utilizzo delle discipline matematiche nella comprensione di fenomeni fisici e nella costruzione di macchine. Il libro è anche occasione di trattazione organica di questioni di geometria applicata, come nel caso dell’individuazione del volume di un cilindro le cui basi siano secate. [7] Quanto alle informazioni sulle macchine, in buona parte mutuate da →Erone, esse sono dettagliatamente corredate di spiegazioni teoriche. Con l’eccezione del secondo, che riguarda il calcolo, i restanti libri affrontano, come si vede, questioni associate alla geometria, teorica o applicata.  















Livia Radici

4. La metamatematica di Pappo. – Per quanto la Collectio sia prevalentemente un’opera di presentazione delle maggiori teorie, è stato osservato che essa è ricca di passaggi che possono essere definiti di ‘metamatematica’, nei quali P. si diffonde in tentativi di classificazione o definizione. Il libro settimo, ad esempio, è introdotto dalla definizione delle procedure di analisi e sintesi, di cui lo studioso prova a tracciare una storia ; P. offre inoltre definizioni di cosa sia un teorema, un problema o un porisma. Uno sguardo complessivo all’opera permette di affermare che uno dei principali obiettivi del matematico consistesse nel presentare in maniera esaustiva ogni singolo aspetto di una data questione, ponendo attenzione alle varie condizioni di svolgimento di un problema. Tale modalità di presentazione e di trattazione fa sì che spesso P. si diffonda in esempi – senza preoccuparsi della generalizzazione delle proposizioni –, la cui validità si appoggia, talvolta, sulla valenza procedurale e sull’ ‘utilità’ del metodo piuttosto che sull’universalizzazione delle proprietà. Un simile metodo di indagine emerge con particolare evidenza in ciò che resta del secondo libro e nel libro ottavo. In questi, più che altrove, sembra che P., anziché aderire a una precisa tradizione, preferisca la strada dell’applicabilità tecnica e della ‘funzionalità’ delle soluzioni proposte. Il modo in cui P. presenta le opere dei matematici non è apparso casuale, ma, più probabilmente, organizzato secondo un preciso ordine curriculare, che rafforza l’idea che la Collectio sia stata pensata e potesse essere utilizzata per fini didattici. È, però, plausibile che un ‘canone’ matematico fosse stato stabilito già prima di P. La Collectio non risulta dipendente solo da una tradizione scientifica consolidata, ma, con tutta probabilità, anche da un preciso orientamento filosofico. Nel complesso, si è ipotizzato che P. tenga conto soprattutto dell’esegesi dei testi platonici attuata dagli autori medioplatonici e neopitagorici. Allorché, nel quinto libro, egli discute le proprietà dei cinque solidi regolari, non manca di riferirsi al noto passo di Tim. 33b, dove è intravisto un primo riferimento all’idea che essi siano inscrivibili in una sfera. Analogamente, quando tratta dei tipi di proporzione in aggiunta a quelli conosciuti già da →Pitagora, →Platone e →Aristotele, P. si richiama espressamente a →Nicomaco.  

Claudia Maggi

parmenide Note. [1] In Almagestum vi, 4, 180, 8-181, 1 Rome. – [2] P 265, vol. iv, 26, 3-7 Adler. – [3] Coll. 3, 20, 1-3 H. – [4] Coll. 7, 30-34 H. – [5] Coll. 7, 1-2 H. – [6] Coll. 7, 12-21 H. – [7] Coll. 8, 12 H. Bibliografia. Bernard 2003 ; Brown 1975 ; Bulmer Thomas 1974 ; Cuomo 2000 ; Cuomo 2001 ; Heath 1921 ; Heath-Toomer 1995 ; Jones 1986 ; Jones 2000 ; Knorr 1986 ; Knorr 1989 ; Loria 1914 ; Mansfeld 1998a ; Mansfeld 1998b ; Panza 1997 ; Rome 1931 ; Thomson 1930 ; Unguru 1974 ; Ver Eecke 1933.  



































Livia Radici Parmenide. 1. Generalità. – Parmenide è nato e vissuto a Elea (oggi Ascea-Velia, in provincia di Salerno) tra il 515/510 e il 440 a.C. circa. Fu probabilmente discepolo di →Senofane. Dai suoi concittadini sarebbe stato chiamato a redigere le leggi della sua città. →Platone nel Parmenide riferisce di un viaggio ad Atene che negli anni della vecchiaia P. avrebbe intrapreso insieme con →Zenone, avendo modo di incontrare il giovane Socrate e di avere con lui una vivace discussione, ma la notizia potrebbe anche essere priva di fondamento. Egli risulta aver scritto un solo poema in esametri epici, un →peri physeos comparabile all’unico precedente specifico, il poema didascalico in versi avente lo stesso titolo e dovuto a →Senofane (che, per l’appunto, fu forse suo maestro). Dell’opera possiamo ancora leggere circa 160 esametri che ci vengono trasmessi da Simplicio ed altri commentatori. Due gruppi di versi sono particolarmente organici : l’attuale fr. 1, costituito da 32 esametri, che si distingue per il fatto di presentare il proemio ed essenziali linee di impostazione dell’intera opera, e il fr. 8, costituito da 61 esametri, che si distingue per il fatto di presentare l’intera trattazione sull’essere, la sua conclusione al v. 50 e i versi di avvio della seconda sezione del poema. Pure degni di nota sono i frr. 10 e 11 perché programmatici (si configurano come una sorta di indice degli argomenti che saranno trattati nella sezione cosmologica della seconda parte del poema) e il fr. 19 col quale sembra concludersi il lungo monologo della dea. Altri due frammenti (il 17 e il 18) si distinguono per il fatto di affrontare temi di carattere embriologico. Con ogni probabilità l’opera era articolata in due sezioni o logoi, uno dedicato allo svolgimento della teoria dell’essere (è quello sul quale verte la mag 

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gior parte dei frammenti) e uno dedicato ad illustrare un sapere più mondano, inferiore a quello sull’essere ma, a detta della dea che si rivolge al giovane P., ugualmente necessario. In questa seconda sezione campeggiavano una trattazione ampia e creativa su argomenti cosmologici e una trattazione, non sappiamo quanto ampia, su temi lato sensu biologici. Nel primo logos, invece, e più specificamente nel fr. 8, prende forma una struttura argomentativa che sorprende per la serrata struttura dimostrativa e il suo straordinario rigore in un’epoca in cui l’elaborazione formale dell’argomentazione era ancora del tutto ignota. Livio Rossetti 2. La non-contraddizione. – P. viene sempre ricordato nella storia della scienza come ‘padre’ del principio di non contraddizione, secondo il quale non può aversi che qualcosa al contempo sia e non sia (non è vero che A & non-A). Nel poema parmenideo si prende senz’altro coscienza dell’impossibilità di assumere contemporaneamente due argomenti contraddittori : può dunque sembrare che tale assunzione divenga un ‘principio’ in senso forte quando la dea trasmette al giovane, al kou`ro~, i primi insegnamenti disponendoli attorno al nucleo concettuale centrale del fr. 2 del poema : « ecco che ora ti dico, e tu fa’ tesoro del tutto, quelle che sono le sole due vie di ricerca pensabili : l’una come è, e come impossibile sia che non sia ». Così anche nel fr. 7/8, 1 si esclude categoricamente che esista ciò che non è, ei\nai mh; ejovnta, e al v. 16 viene sancito in modo definitivo che deve essere oppure non essere, ejstin h] oujciv. Il tema della contraddizione sarà ampiamente ripreso da Zenone, nel quale assume la forma del dilemma, poi da →Antifonte, Gorgia e altri che volentieri argomentano : «l’accusatore dice di me che sono sia furbo sia sciocco, dunque si contraddice ; ne segue che non è attendibile» (ex. gr. Gorg. Pal. 25=82B11a D.-K.), lasciando la contraddizione volutamente irrisolta nella tecnica dell’→antilogia. Il problema del contraddittorio non era dunque nuovo ad Aristotele, il quale vi consacra il libro iv della Metafisica. Un ulteriore aspetto è costituito dal legame che si è voluto intravedere tra logica e ontologia nel poema di Parmenide, motivato dal fr. 3 («lo stesso è capire ed essere», to; ga;r aujto; noei`n ejstivn te kai; ei\nai) e dal fr. 6, 1 (crh; to; levgein te noei`n t’ ejo;n e[mmenai) :  















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parmenide

sembra stabilita l’identità tra essere e sua intelligibilità, tra gnoseologia e ontologia. In questa ottica svolge un ruolo preminente il rifiuto logico della contraddizione, che consente di descrivere, passando al piano ontologico, l’essere mediante attributi come «sfero» ed «immobile», dunque escludente ogni differenza da sé (fr. 7/8). La questione solleva in realtà molti problemi interpretativi, sul quale gli studiosi si sono ampiamente confrontati. 3. Assiomatica. − C’è un secondo motivo che ottiene a P. un posto speciale nella storia del pensiero scientifico. Il discorso poetico si dipana lungo una sequela di deduzioni e conclusioni che ne fanno un testo precursore del pensiero dimostrativo assiomatico. Il giovane filosofo ascolta la dea con attenzione, e la dea parla svelando la forza delle sue argomentate convinzioni, indiscutibili, certe. La forza persuasiva del discorso della dea non si basa sulla trascendenza del sapere di cui la dea è depositaria, bensì sull’evidenza del ragionamento – « Deve perciò in assoluto essere oppure non essere. Forza di prova neppure consente che nasca dal nulla altro accanto ad esso » (fr. 7/8, 16-18) ; e sull’adesione che il giovane apprendista potrà infine esprimere su quanto acquisito senza cedere ad altre apparenti verità – « Io ti enuncio di ciò sistema in tutto plausibile, sì che mai opinione corrente possa sviarti » (fr. 8, 60-61). La dea si avvale di strumenti conformi alla ragione umana allorquando espone le premesse del suo ragionamento, mettendo in chiaro una serie di avvertimenti : ad esempio sulle due vie (fr. 2) e sull’identità di pensare ed essere allo scopo di ottenere un discorso sensato (fr. 3). Inoltre argomenta ed esplicita dettagliatamente i passaggi del suo discorso : « Bisogna che tu sappia » (fr. 1, 27), « Ecco che ora ti dico » (fr. 2, 1), fino a quando alza il tono del discorso per individuare il punto cruciale del suo pensiero (vv. 15-16 del fr. 8, dove viene esplicitamente detto che il punto critico è: « è o non è »). Infine conclude : « Qui ti concludo il discorso » (fr. 8, 55), come se il giovane kouros altro non potesse se non capire appieno il discorso. In effetti è messo nelle migliori condizioni per cogliere ciò che la dea vuole comunicargli e dunque per appropriarsi di tutti i contenuti e della logica che ad essi presiede. In questo modo l’architettura della prima parte del poema parmenideo viene ad assumere in forma embrionale tratti assai prossimi a quelli di un ‘sistema’ (→assiomatica).  































Flavia Marcacci

4. Cosmologia. – 4.1. P. diede un impulso importante alla cosmologia di vi-v sec. (→cosmologia, 3) con contributi specifici alla rappresentazione del sistema delle relazioni cosmiche. Sembra che nella seconda parte del suo famoso poema, ossia nella macro-sezione in cui, con ogni verosimiglianza, vennero concentrate svariate teorie e congetture sugli aspetti più diversi del mondo fisico, trovassero posto, accanto ad altri, svariati nuclei dottrinali rilevanti per l’argomento che stiamo trattando. È anzi altamente significativo che egli abbia anche trovato il modo di enunciare espressamente il proposito di delineare una cosmologia, ossia di costruire un sapere specifico intorno al cosmo (fr. 10 e 11). In effetti la dea di Parmenide annuncia una sub-trattazione espressamente dedicata ai temi della cosmologia e cosmogonia, parla di ‘venire a sapere’ come stanno le cose e, con ciò stesso, parte dal presupposto che sia disponibile – o almeno si stia costruendo – un vero e proprio sapere sul conto del cosmo e della sua ‘architettura’. Pure significativo è l’uso, in questo contesto, della parola ‘Olimpo’, che non significa un’entità fantastica (e tanto meno un determinato monte) ma viene usato come metafora per parlare di ciò che è situato agli estremi limiti dell’universo e che non può non essere pensato come un ingrediente costitutivo del sistema dei corpi celesti. Già questi sono indizi convincenti di una più matura elaborazione del sapere cosmologico. A fronte di così incoraggianti premesse, spiace constatare che la cosmologia parmenidea sia affidata, per gran parte, a informazioni di seconda mano, non diversamente da ciò che accade con i cosmologi di Mileto. Gli apporti di P. vertono sulla sfericità della terra al centro dell’universo, le fasce climatiche terrestri, la luce lunare, l’identificazione del pianeta Venere e le fasce o corone cosmiche. Partiamo dal nucleo dottrinale che, nella prospettiva di queste pagine, parrebbe presentare un interesse minore : le fasce climatiche. P. divideva la terra in cinque zone o fasce: una torrida, due temperate e due altre fredde (lo riferisce →Strabone in 2, 2, 2 = 28A44a D.-K. riportando →Posidonio). Il riferimento a cinque zone, nettamente differenziate quanto a temperatura media, autorizza a pensare che P., in questo degno emulo di →Anassimandro, sia pervenuto a rappresentarsi gli emisferi sud e nord come simmetrici,  

parmenide e soprattutto a rappresentarsi il sole come un corpo che riscalda questa terra sferica da molto lontano, per cui i raggi colpiscono la superficie della sfera terrestre in maniera più o meno obliqua a seconda del grado di curvatura della stessa. Viene con ciò a definirsi e consolidarsi l’immagine della terra, concepita come sferica e collocata al centro dell’universo, mentre si precisano le modalità con cui il sole la illumina e riscalda. 4.2. Coerente con questa formidabile intuizione è la teoria secondo cui la luna non brillerebbe di luce propria ma sarebbe illuminata dal sole (come si legge nel famoso fr. 14 D.-K. : nuktifae;~ peri; gai`an ajlwvmenon ajllovtrion fw`~). P. è esplicito, in questo e nel fr. 15, nel precisare e codificare l’origine riflessa della luce lunare. Ora la dinamica da cui dipenderebbe l’illuminazione parziale e mutevole della luna chiaramente presuppone idee non troppo vaghe sulla triangolazione sole-luna-terra : idee non troppo vaghe, ma difficili da precisare. Sembra che si debba postulare in P., quanto meno, una intuitiva capacità di spiegare che il mutevole tasso di illuminazione della sfera lunare dipende dall’angolo in cui è verosimile che si trovi, di volta in volta, il sole già tramontato. Ciò non è la stessa cosa dell’aver capito esattamente come, perché e quando, ma può ben aver rappresentato un avanzamento rispetto a →Talete e una premessa di tipo intuitivo per l’elaborazione teorica della quale sembra che sia stato capace →Anassagora. Naturalmente non siamo in grado di affermare che P. sia stato capace di dedurre la posizione del sole a partire dalla porzione di luna che noi vediamo di volta in volta, né che abbia chiaramente compreso che il sole illumina sistematicamente metà della superficie sferica della luna, né che egli sia stato capace di costruire un funzionale modellino esplicativo di tipo fisico, con la luna che, in pieno giorno, viene spostata e fatta girare lentamente attorno all’osservatore, in modo che questi possa osservare la corrispondenza tra la porzione di volta in volta illuminata e la porzione di volta in volta non lambita dai raggi solari, e quindi anche il momento in cui la luna va a collocarsi proprio davanti al sole. Spingersi ad immaginare tutto questo sarebbe sicuramente eccessivo. Ma ciò non impedisce di pensare che egli possa aver correttamente intuito la logica delle fasi lunari. Viene con ciò ripresa l’idea, già familiare ad Anassimandro, secondo cui la terra non solo fa sistema con gli  



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altri corpi celesti, ma è essa stessa uno di questi corpi di proporzioni gigantesche, immensamente distanti gli uni dagli altri, che coesistono sulla base di rapporti stabili (o almeno : rapporti che nel frattempo si sono stabilizzati) i cui segreti non sono del tutto inaccessibili alla mente umana. A rigore, quanto è stato appena affermato è solo una inferenza a fronte della quale si cercherebbero invano delle dichiarazioni attribuite a P. Ma esattamente nella stessa logica si colloca la già ricordata identificazione di Fosforo/Lucifero e Espero, ossia della ‘stella del mattino’ con la ‘stella della sera’. Ciò che si delinea è, in altri termini, una più che meditata congettura sulle relazioni spaziali che intercorrono fra la terra e i principali corpi celesti. Inoltre una molteplicità di fonti ci riferiscono che P. ha anche teorizzato l’esistenza di una serie di ‘corone’ (stephanai) verosimilmente concentriche che formano il cielo e rendono conto del moto dei vari corpi celesti. In materia prevale da sempre la convinzione che egli intendesse parlare, in realtà, di sfere concentriche. A farlo pensare è, in primo luogo, l’insistenza con cui egli parla di sfera, e ne parla in positivo, in altri contesti (in particolare ai vv. 42-45 del fr. 8 D.-K.) ; in secondo luogo gli indizi in base ai quali alcuni pensano che di sfera parlassero già i pitagorici del suo tempo ; in terzo luogo l’intuitività dell’idea di sfera celeste. È dunque molto attraente spingersi a pensare che Parmenide abbia potuto parlare di una molteplicità di strutture sferiche, ma non dobbiamo dimenticare che contro una simile congettura sta l’uso di un termine come stephanai. In effetti l’evocazione delle ‘corone’ non può non richiamare i kukloi, simili a immense ruote, di cui aveva parlato Anassimandro. A prendere questo termine come sinonimo (o sostituto) di sphairai, bisognerebbe pensare a un tasso di metaforicità decisamente alto, forse troppo alto malgrado si sappia per certo che P. ha utilizzato anche la parola Olimpo come metafora in 28B11,2 D.-K. 5. Medicina. – Dei due frammenti superstiti, entrambi dedicati alle dinamiche della riproduzione umana, è rilevante il secondo, che verte sulla penosa condizione che si determina quando l’incontro dei gameti non ha luogo nel modo migliore e ne scaturisce una dubbia identità sessuale del nascituro. Nel fr. 18 D.-K., pervenuto in un rifacimento in latino, si parla infatti della possibilità che, quando il maschio e la femmina mescolano i ‘semi di Venere’  





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pastorizia

(ossia quando ha luogo la fecondazione), se la mescolanza viene bene non c’è problema, ma se la mescolanza non riesce, si determina una sorta di inquietante conflitto ed è possibile che il nascituro nasca ‘con seme doppio’, ossia non pervenga ad avere una netta identità maschile o femminile. La specificità dell’argomento impone di pensare che P. abbia parlato di molti altri temi attinenti alla vita e all’organismo umano, ma mancano riscontri positivi intorno a altre doxai di argomento biologico, anche se è di qualche aiuto il confronto con certe doxai di →Empedocle. In compenso gli scavi di Elea hanno fatto affiorare sia una iscrizione in cui P. viene detto ouliades physikos, sia un intero gruppo di iscrizioni su alcuni medici di Elea, tutti denominati Oulis iatros, vissuti in epoche posteriori. Questa curiosa combinazione di circostanze incoraggia a supporre che ad EleaVelia si fosse stabilita una tradizione medica e che il ‘nostro’ P., il quale non per nulla dimostra di affrontare in modo non banale anche delle ardue questioni di genetica, abbia avuto, fra l’altro, il merito di dare origine a una simile specializzazione, poi tramandatasi per secoli. Livio Rossetti Bibliografia. Bollack 2006 ; Casertano 1974; Cerri 1999 ; Cordero et alii 2008 ; Curd 1998; Finkelberg 1986; Graham 2006 ; Imbraguglia 1974 ; Marcacci 2008 ; Mourelatos 1970; Netz 2001 ; Robbiano 2006; Rossetti 2002 ; Szabó 1978.  















Pastorizia [hJ poimenikhv o hJ ajgelaiotrofikhv, pecuaria o res pecuaria]. 1. Descrizione. – Era generalmente definita come la scienza di pascolare, allevare e aver cura del bestiame. In particolare si possono prendere in considerazione le definizioni che ne dà →Varrone (che alla pastorizia dedica il ii libro del suo De re rustica), laddove parla dell’arte di acquistare e di allevare il bestiame, in modo da ricavarne i frutti maggiori, dai quali deriva la parola stessa di pecunia, ovvero ricchezza, a dimostrazione che il pecus è il fondamento di ogni forma di pecunia (r.r. 2, 1, 11) : il bestiame, dunque, rappresentava per l’antichità la misura per valutare merci e ricchezze. È sempre Varrone a specificare che la pastorizia si compone di nove parti, raggruppate in tre sezioni : quella del bestiame minuto, quella del bestiame grosso e quella comprendente ciò che viene acquistato non  



per guadagno, ma perché sia di aiuto all’arte della pastorizia, ovvero muli, cani e pastori (r.r. 2, 1, 12). 2. Categorie di animali. – Come ci conferma la suddivisione teorizzata da Varrone, la pastorizia, dunque, annovera in sé diverse categorie d’animali, in particolare sei, tre per il bestiame minuto, e cioè pecore [→ovini], capre [→caprini] e maiali [→suini], tre per il bestiame grosso, buoi [→bovini], asini e cavalli [→equini]. Tutti questi animali, piccoli e grandi, sono generalmente compresi sotto l’accezione di pecus (Varr. r.r. 2, 1, 10 : nomina … ab utroque pecore, a maiore et a minore). 3. Categorie di lavoratori e luoghi. – A ciascuna tipologia animale era addetta una corrispondente figura di lavoratore, che aveva il compito di custodire il bestiame, sorvegliarlo e difenderlo dalle incursioni di ladri e pirati (e, infatti, a questo scopo greggi e mandrie venivano tenute lontano dal mare, nelle regioni più interne). La generica accezione di pastore (oJ poimhvn, pastor o custos, che poteva anche essere aiutato da un garzone, il puer pastoris) si va a distinguere all’interno di una vasta terminologia : per gli ovini, troviamo il pecoraio (oJ poimhvn, opilio o upilio, ovium magister o custos, gregis magister), al quale si possono affiancare o sostituire il pastorello (puer o adulescens qui pascit greges) o la pastorella (puella quae pascit oves) ; per i caprini, il capraio (oJ aijpovlo~, caprarius o, al femminile, caprarum custos, spesso identificata con la caprarii uxor) ; per i suini, il porcaio (oJ subwvth~, subulcus) ; per i bovini, il bovaro (oJ boukovlo~, armentarius o bubulcus) ; per gli equini, il cavallante (oJ iJppoforbov~ o oJ iJppotrovfo~, nutritor equorum). In riferimento alle figure femminili qui elencate, non è possibile precisare una distinzione tra lavori maschili e femminili. Generalmente si è soliti attribuire alle donne attività di piccolo grado, come l’allevamento di animali da cortile, e agli uomini attività di maggiore applicazione, come l’allevamento di grandi animali da stalla (analogamente a come in →agricoltura si differenzia la ‘femminile’ cura dell’orto dalla ‘maschile’ coltivazione del campo). Poiché già nel primo vero documento letterario sulla pastorizia, rappresentato dall’Odissea, si parla solo di uomini e l’allevamento descritto è ad un livello di sviluppo molto avanzato, si è propensi a credere che, al tempo del poema, la fase ‘femminile’ dei lavori meno impegnativi sia stata su 











pastorizia perata, ragion per cui le donne sopraelencate andrebbero a svolgere soprattutto mansioni coadiuvanti a quelle principali degli uomini. La varietà delle definizioni latine per indicare la figura del pastore rivela l’esistenza nell’Italia antica (all’incirca il periodo compreso tra la tarda repubblica e la prima età imperiale) di una gerarchia tra i pastori che gestivano l’allevamento animale sotto l’autorità del fattore (vilicus) della tenuta agricola (villa rustica). Il magister pecoris, infatti, era il primo in grado dopo il fattore e rappresentava il capo-pastore rispetto ad altri schiavi-pastori che dovevano sottostare alla sua supervisione. Dalle fonti antiche sembra che l’opilio possa essere interpretato come il pastore responsabile delle mandrie intorno alla villa, laddove, invece, il magister pecoris aveva anche il compito di guidare gli altri pastori schiavi e le greggi durante la transumanza. La vita di montagna, praticata con il trasferimento nei pascoli estivi, era particolarmente dura, ragion per cui forse i pastori non erano preposti alla transumanza per tutta la loro vita, ma potevano essere soggetti ad un’alternanza nei luoghi di svolgimento delle loro mansioni, lontano o vicino alla fattoria. Poiché i pastori venivano acquistati, i fattori seguivano alcuni criteri di scelta : ad esempio, la provenienza da popolazioni particolarmente adatte alla pratica della pastorizia e, per il magister pecoris, doti di forza caratteriale e capacità di gestione del lavoro, esperienza e alfabetizzazione di base (soprattutto per l’organizzazione richiesta dalla transumanza, ovini). Dato il tramite della vendita, tutti i pastori, compreso il magister pecoris, erano nella condizione di schiavitù, ma non mancarono provvedimenti politici volti a favorire anche la presenza di lavoratori liberi. La vita e la procreazione famigliare consentita ai pastori, anche durante la transumanza, faceva sì che si allargasse il numero delle persone destinate ad incrementare e a proseguire l’attività pastorale ; le famiglie di pastori, inoltre, potevano allargarsi accogliendo trovatelli scoperti durante i loro spostamenti. L’attività pastorale, che ciascun lavoratore esercitava nei confronti dei propri animali, comportava una dislocazione spaziale che avveniva tra il terreno pascolativo (hJ nomhv, pascuum, ager o locus pascuus ; →terreno) e la stalla (oJ staqmov~ o to; au[lion, stabulum). Al pascolo, infatti, gli animali trovavano cibo e foraggio per alimentarsi (hJ trofhv o hJ nomhv o oJ cilov~ o  





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to; covrtasma, pabulum o cibus o alimentum o pa-

stus) e ruscelli per abbeverarsi, mentre la stalla era il luogo, appositamente recintato o ricavato da una caverna, dove ricoverare il bestiame e che acquisiva un nome diverso per ogni tipologia : la stalla per le pecore (oJ probatwvn, ovile), la stalla per le capre (oJ probatwvn, caprile), la stalla per i porci (oJ sufov~, suile o hara), la stalla per buoi (hJ boustasiva o tov bouvstamon, bubile), la stalla per cavalli (hJ iJppostasiva, equile). La costruzione di queste strutture, fisse o transitorie, di durata limitata, in quanto fatte con legno e fronde, o lungamente stabili, se il materiale utilizzato era la pietra, rientra nell’ambito dell’edilizia zootecnica, parte a sua volta della zootecnia, alla quale attengono studi e interpretazioni concernenti l’uso della tecnologia d’allevamento. La pratica della pastorizia era finalizzata a fornire una serie di prodotti (della cui preparazione era incaricato il pastore), molto importanti per il sostentamento e per l’adempimento di usanze rituali : dai bovini, ad esempio, si ricavavano soprattutto capi destinati ai sacrifici o a fungere da animali da tiro in altri lavori, mentre gli ovini e i caprini erano utilizzati per la lana, per latte e formaggio e per le carni (di pecora, ovina o ovilla ; di capra, caprina ; di agnello, agnina ; →carne, consumo di). In generale si può dire che nella Grecia antica prevalevano i piccoli allevatori. Sulla base delle testimonianze offerte da →Platone (Le leggi), →Aristotele (La storia degli animali e Sulla generazione degli animali), Callimaco (Inno ad Apollo), Cassiano Basso [→geoponica], valgono alcune considerazioni. L’adattamento degli allevamenti alle condizioni geografiche locali e lo stretto legame con il territorio erano particolarmente importanti, in quanto determinavano negli animali diverse caratteristiche che potevano condizionare i criteri di scelta fra specie : queste, infatti, si distinguevano già dalle denominazioni epicorie, ad esempio i bovini dell’Epiro, le capre di Sciro, le pecore di Mileto o le pecore di Taranto. Bovari, cavallanti e pastori operavano una selezione all’interno delle mandrie tra capi sani e malati, tra le buone e le cattive razze, per evitare inutile lavoro e problematiche conseguenze. Essi cercavano, inoltre, di assicurarsi parti gemellari, seguendo una logica economica secondo cui favorire l’accrescimento del bestiame per la riproduzione avrebbe inciso positivamente sui redditi. Si assisteva, quindi, al superamento di  











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pastorizia

usanze empiriche attraverso pratiche zootecniche volte al miglioramento delle specie e consistenti nell’importazione di razze animali straniere particolarmente note o pregiate, nell’adozione di particolari tecniche d’allevamento per l’acclimatazione e nella lavorazione dei loro prodotti come formaggio e lana : sia che si mescolassero razze straniere e locali sia che gli allevatori apportassero miglioramenti nell’alimentazione animale e nella gestione della loro riproduzione, l’allevamento nel mondo greco ha subito varie fasi nel segno del progresso e dell’evoluzione di pratiche zootecniche. Nel mondo romano, invece, sulla base di testimonianze come →Columella (De re rustica) e Petronio (Satyricon), esistevano grandi proprietari, gestori di attività a livello di →azienda agricola, che sperimentavano importazioni e incroci al fine di creare nuove razze e ottenere caratteristiche (come qualità e colorazione della lana) utili al commercio redditizio. Ma, nonostante la scarsità delle fonti, l’esistenza di accenni agli incroci animali, ad esempio in Aristotele (Sulla generazione degli animali), assegna anche alla civiltà greca la figura del grande proprietario. 4. Contesto storico-geografico e fonti letterarie. – La pastorizia cominciò nel periodo della cosiddetta ‘transizione neolitica’, quando alle attività della →caccia e della raccolta si affiancarono quelle dell’allevamento del bestiame e dell’ →agricoltura, la cui novità stava nell’introdurre la fase di produzione del cibo operata dall’uomo. È interessante sottolineare che a partire da quest’epoca di passaggio non sussisteva competizione tra uomini e animali relativamente alla disponibilità di alimenti : segno che le risorse territoriali venivano sottoposte ad uno sfruttamento equilibrato. Già 6000 anni a.C. tra l’Iran e la Grecia si allevavano pecore, capre, maiali e bovini. Ai suoi albori la civiltà ellenica, analogamente alle altre del Mediterraneo orientale, praticava la pastorizia ovi-caprina e suina (capre e maiali erano i più adatti ai territori prevalentemente montani e sassosi della Grecia, mentre la pecora era prediletta per la produzione della lana e lo sviluppo di tecniche come la tintura, la filatura e la tessitura) e traeva origine da stirpi agricole provenienti dalla Mesopotamia. Personaggi del mito, come il semidio Aristeo, e i primi repastori denotano come alla figura del pastore si assegnasse una sacralità che verrà meno con  



lo sviluppo delle città, quando il pastore tornerà ad essere considerato un semplice lavoratore. Sulla base del valore antropologico di documenti storici che hanno i testi letterari, i poemi omerici sono i primi a testimoniare in modo accurato per il ix e viii sec. a.C. quanto la pastorizia fosse uno dei principali settori (insieme all’agricoltura e all’→arboricoltura) dell’economia della Grecia più antica, praticata anche da persone ricche e potenti come sovrani ed eroi, e quanto fosse organizzata su sistemi già molto avanzati. In particolare è l’Odissea a fornirci descrizioni dell’allevamento degli animali. Per quanto riguarda i →suini, infatti, si pensi alle porcilaie gestite da Eumeo nella casa di Odisseo ad Itaca e dalle quali, in sua assenza, vengono tratti i maiali per la mensa dei Proci : la descrizione, nel xiv libro, del porcile costruito dal porcaio dimostra l’avvenuto superamento del pascolo brado e l’adozione, invece, di un sistema semistabulato, caratterizzato da diversi tipi di recinzione, dal pascolo nei boschi di querce, dove i maiali si nutrono di ghiande, e dalla separazione tra i maschi, all’ingrasso e liberi, e le scrofe, chiuse di notte nelle stalle. Ma, dato il territorio impervio e petroso di Itaca, sull’isola ci sono anche buoi, capre e pecore. Dell’allevamento di caprini e ovini si parla, inoltre, nel ix libro a proposito di Polifemo, che, come tutti i Ciclopi, non coltiva terra e non pratica attività marine, ma solo pascola capre e pecore e si dedica anche alla produzione di latte e formaggio [→conservazione degli alimenti]. Anche se la produzione poetica di →Esiodo riflette una fase della Grecia arcaica successiva all’età omerica, in cui ormai l’attività agricola prevale sulla pastorale, la rappresentazione del pascolo è ancora molto simile a quella rintracciabile nell’Iliade e nell’Odissea (oltre ai recinti di Eumeo e alle greggi di Polifemo, il pascolo raffigurato nello scudo di Achille, i pascoli montani dei figli delle nobili casate di Priamo e di Andromaca), come anche negli Inni omerici (le mandrie, i pascoli e le stalle dell’Inno ad Afrodite, dell’Inno ad Ermes e dell’Inno a Pan) e nella lirica arcaica (gli spostamenti degli animali per i pascoli in Saffo e la collocazione sociale del pastore in Alcmane). Più in particolare, Esiodo parla del bestiame come di un possedimento sul quale misurare la ricchezza, cosa che non avviene, invece, per i pascoli come luoghi, a proposito dei quali non ci sono allusioni alla  

pastorizia proprietà privata né alla contesa per il possesso di un terreno. Nelle Opere e i giorni il poeta si riferisce al bestiame da allevare, ai giorni del mese adatti alla tosatura, alla castrazione, alla costruzione di recinti, alle ‘carezze’ che rendono mansueti gli animali ; nelle Eoie e nello Scudo si specifica che la vita pastorale di mandrie e pastori si svolge in luoghi periferici e in campi distanti rispetto all’abitato ; nella Teogonia il poeta introduce pascoli ancora più lontani, situati sulle montagne. Due sono, quindi, gli elementi della pastorizia rintracciabili in Esiodo : innanzi tutto la distinzione tra la pratica del pascolo prossimo all’abitato, che comporta il rientro quotidiano del bestiame dai pascoli nelle stalle recintate costruite vicino ai campi coltivati, e quella del pascolo errabondo, per ampi prati aperti e pascoli montani ; in secondo luogo la rappresentazione sociale e umana del pastore, come categoria marginale, inferiore ed estranea alla vita cittadina (lo contraddistingue l’abbigliamento : abito di lana o mantello corto, cappello di lana e bastone per condurre le bestie) e come persona che dorme all’aperto, spesso menzognera, dedita ad un lavoro servile, alle dipendenze di un padrone, e alla bassa materialità. Lo scenario esaminato, fatto di grandi pascoli e boschi soggetti alla fruizione comune, cambia nel vii e nel vi sec. a.C., quando l’aumento demografico portò ad un ampliamento delle terre destinate alla coltivazione : di conseguenza, si assiste ad un calo delle terre comuni, alle lotte tra classi sociali (tra aristocrazia e popolo) e tra popolazioni confinanti (ad esempio gli scontri tra Locresi e Focesi) e alla fissazione delle prime norme sul diritto di pascolo. La società greca arcaica, dunque, si caratterizzava per la mancanza di un’organizzazione comunitaria e propriamente statale e si fondava sulla coesistenza di famiglie preminenti che esercitavano autonomamente la loro autorità e la accrescevano procurandosi ognuna i propri sostenitori : il possesso del bestiame, allora, non solo rappresentava il grado di ricchezza famigliare, ma era anche il mezzo per alimentare il proprio consenso, in quanto dagli animali si ricavavano prodotti in gran parte destinati all’allestimento dei banchetti conviviali. I pastori, poi, pur essendo dei sottoposti all’interno di queste ricche famiglie, non erano tuttavia persone di basso livello: ad essi si riconosceva la centralità del loro ruolo, come alleati della famiglia stessa, e l’impor 













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tanza delle mansioni svolte come custodi del bestiame (tanto che, come detto, spesso erano i nobili stessi ad occuparsene). Continuando a tener presente come esista una relazione molto stretta tra l’evoluzione delle società e lo sviluppo di sistemi pastorali specializzati e, quindi, come il contesto politico di ciascun secolo comporti una diversa riflessione sull’allevamento degli animali, si possono fare ulteriori distinzioni per l’età classica. Nel v sec. a.C., infatti, l’affermazione delle poleis fece sì che i poteri autonomi delle famiglie fossero subordinati a quelli di un intero corpo cittadino : si costituì un gran numero di città indipendenti che condividevano molti tratti comuni, pur differenziandosi socialmente, politicamente e geograficamente. I coltivatori entrarono a far parte della cittadinanza come uomini liberi con vari gradi di diritti ; l’attività agricola e pastorale era condizionata dall’organizzazione militare e dalle modalità di svolgimento delle guerre e da esse ricavava schiavi stranieri da utilizzare come forza-lavoro ; la paura generata dalla libera circolazione di gruppi di schiavi indusse a mantenere basso il numero di animali per gregge, a circa 50 o 60 pecore, e quello dei pastori, uno o due al massimo, così come si limitò ai cittadini più ricchi il possesso di ovicaprini ad un massimo di 150-200 capi. Tali limiti erano determinati dal fatto che il sistema politico delle poleis comportava un’elevata frammentazione del territorio e le autorità governative gestivano la distribuzione delle terre ai contadini, imponendo anche le tasse sull’uso di pascoli ricavati sulla terra comunitaria. Un controllo così centralizzato era probabilmente la reazione alla diminuzione della disponibilità di terreni e all’insorgenza di conflitti in età arcaica a causa della crescita demografica. Il limitato numero di ovicaprini era, però, generato anche dalla predilezione verso altre tipologie di allevamento come quello equino, ad uso sia della cavalleria militare sia di gare e competizioni che contribuissero al prestigio dei proprietari. Cambiò anche il giudizio sociale della figura del pastore : egli, prima incarnato da principi e poeti, diventò ormai una figura di selvaggio fuori dalla civiltà e pericoloso, anche perché armato per necessità del mestiere. La polis di Atene, ad esempio, poneva forti riduzioni all’attività pastorale, pur conservando alcuni tipi di produzione pastorale redditizi, e vedeva tali fenomeni intrecciarsi a quelli po 







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litici che principalmente la caratterizzavano, ovvero la formazione della democrazia diretta e dell’impero navale. La dimensione massima di una proprietà terriera era stabilita a circa 27 ettari e ciò significava un’ampia distribuzione di terra su una larga parte della cittadinanza, conferendo un forte peso politico alla classe contadina. A ciò, infatti, si aggiungeva l’incremento del numero dei cittadini ateniesi, causato proprio dalla politica interna ed estera che forniva nuove risorse e le distribuiva alla popolazione, permettendo ai cittadini più poveri, dai quali la città traeva i rematori per la milizia navale, di pagarsi l’indipendenza economica, e subendo anche fenomeni di forte immigrazione urbana degli stranieri che lavoravano presso il porto del Pireo. L’aumento della popolazione mise in crisi la capacità della polis di provvedere alla sua sussistenza, costringendola, così, a ricorrere all’importazione di grano, oltre che ad estendere le coltivazioni terriere a discapito della pastorizia. Gli allevamenti erano condotti su piccola scala, a livello di sussistenza individuale, e su larga scala, all’interno di grandi proprietà, ma erano comunque generalmente modesti nelle dimensioni. Già a partire dal vi sec. a.C. il governo ateniese trasformò il vecchio sistema delle liturgie statali volontarie versate solo dagli uomini più ricchi in una regolare serie di spese statali annuali (destinate alle più varie necessità sociali, militari, politiche e religiose) finanziate da un più ampio gruppo di cittadini agiati : il denaro così procurato era fornito dai proprietari terrieri che si arricchivano attraverso la pratica delle attività agricole e pastorizie. L’altra grande polis della Grecia classica, Sparta, mostra una diversa valenza della pastorizia dovuta all’opposta situazione politica. I cittadini spartani, precisamente gli Spartiati, possedevano mandrie più numerose rispetto agli Ateniesi, potendo godere in Laconia e in Messenia anche di terre più ampie. La ristretta classe cittadina degli Spartiati organizzò un governo di tipo militare, con il quale esercitava il proprio dominio sulla più ampia massa degli schiavi iloti, costituenti la popolazione contadina. Al contrario di Atene, Sparta condusse un’operazione di limitazione della crescita del numero di cittadini, evitando di praticare una politica estera imperialistica e ulteriori conquiste territoriali (e anche quando detenne temporaneamente la supremazia marittima i  

cittadini furono esclusi dai benefici materiali di lì derivanti) e imponendo, a chi avesse voluto mantenere la condizione di cittadino, di fornire una certa quantità di raccolto destinata alle mense militari (tassa, questa, non accessibile alla maggior parte della popolazione). Il governo, inoltre, non richiedeva denaro agli Spartani per sostenere spese pubbliche, poiché non condivideva i rapporti competitivi determinati dal sistema ateniese delle liturgie, capace di minare l’assoggettamento della popolazione. Data l’austerità dei provvedimenti politici, che non consentivano la proprietà e il commercio per il profitto e la circolazione di monete di valore d’oro e d’argento, l’attività pastorale aveva soprattutto fini socio-politici. La carne destinata alle mense comuni, ad esempio, non poteva essere fornita direttamente dai cittadini, ma ciascun partecipante alla mensa doveva versare una quota mensile per acquistarla ; in aggiunta alla carne comprata, quella eventualmente donata non poteva essere procurata tramite l’allevamento di bestiame, ma con la caccia. Quest’ultima, infatti, era l’attività prediletta dalla pólis per allenare la forma fisica utile per la guerra e, a tal fine, era permesso agli Spartiati l’allevamento di cani da caccia, da dare poi in prestito ai cittadini poveri : la forma del prestito, applicata anche ai cavalli, era sempre motivata dalla volontà di non accentuare le ineguaglianze economiche tra classi sociali. L’allevamento di cavalli, praticato soprattutto nei territori della Messenia, era la principale attività pastorale spartana e il loro uso era destinato anche alle poche occasioni di svago concesse dall’austero stile di vita imposto comunemente ai ricchi e ai poveri, in particolare la corsa dei carri nelle competizioni panelleniche. Ma anche questa occupazione sportiva sembrò concedere troppo all’esibizione della fama e della ricchezza personali e il primario campo di utilizzo dei cavalli rimase quello della cavalleria di guerra. L’allevamento equino subì una forte battuta d’arresto a mano a mano che la polis si avviava al suo lento declino tra il iv e il iii sec. a.C. e si diffusero allevamenti individuali, ad esempio, di agnelli e capretti, che iniziarono ad essere direttamente forniti dai ricchi alle mense cittadine. In generale si può dire che nella pastorizia del v e iv sec. a.C. si diffonde l’uso di praticare incroci con le razze dell’Asia Minore e accordi per lo spostamento delle greggi verso i pascoli più adatti alle varie specie animali. Fonte per  



patologia questo periodo è l’Economico di →Senofonte, mentre i bucolici ellenistici Teocrito, Bione e Mosco rappresentano la vita pastorale dell’Arcadia, di Cos e della Sicilia del iii sec. a.C. non da un punto di vista tecnico-scientifico, ma trasponendola in forma letteraria, pur conservando il realismo descrittivo ispiratore della nuova poesia. In età ellenistica anche l’Egitto governato dalla dinastia dei Tolomei si contraddistingueva per l’allevamento di greggi e mandrie di migliaia di capi, soprattutto ovini e bovini e in misura minore maiali, cavalli, asini e cammelli. Riguardo all’epoca dell’Italia pre-romana la pastorizia è presente nei culti religiosi più antichi degli dei-pastori e protettori delle greggi, come Silvano e Pale, e nelle leggende di fondazione, come quelle dei pastori dei colli laziali e del pastore Faustolo che prese con sé Romolo e Remo. Nel De re rustica di →Catone i riferimenti alla pastorizia sono relativamente scarsi, mentre Varrone vi dedica il ii libro e Columella il vi e il vii. →Virgilio tratta della pastorizia non solo come autore bucolico, ma anche nel iii libro delle Georgiche, dove parla degli altipiani e delle pianure, dove far pascolare pecore, bovini e cavalli, e dei diversi modi di allevamento a seconda delle varie regioni. L’epoca degli ultimi secoli della repubblica e dell’impero è quella in cui meglio si attesta la pratica della transumanza degli ovini all’interno di un sistema organizzato intorno alle fattorie agricole e all’affitto di pascoli estivi e invernali. Le regioni principalmente abitate e percorse per l’allevamento del bestiame si collocavano in Umbria, negli Abruzzi, in Apulia, nel Sannio, in Sicilia, Corsica e Sardegna, Illiria, Asia Minore, Tracia e Siria. Bibliografia. Ballarini 1999; Bruno 1969; Foraboschi 1984; Hodkinson 1990; Kron 2008; White 1970b.

Manuela Martellini Patologia. 1. Premessa. – L’idea di Patologia (cfr. pavqo~, «malattia») è in realtà moderna. Il verbo paqologei`n è attestato per la prima volta in senso tecnico in →Anonymus Londinensis 20, 17. →Ps. Galeno [1] definisce la parte patologica della medicina, che pone accanto a quella eziologica, e cerca di stabilire l’insieme dei sintomi e le condizioni delle malattie (→patologia 2. Nosologia). Anche la cosiddetta ‘Pato-

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logia dei solidi o delle parti solide’ localizzate nel corpo e fondamentalmente distinta dalla patologia umorale è un concetto moderno. Indicazioni per una patologia del tutto differente si trovano nell’antichità presso i →Metodici, che, in connessione con la teoria corpuscolare di →Asclepiade di Prusa, sotto il rifiuto esplicito della patologia umorale [2] sostengono la dottrina che la malattia deriva da stati patologici degli ónkoi (i componenti più piccoli del corpo) e i poroi attraverso status strictus o laxus o anche mixtus: è da ristabilire il giusto equilibrio. La ‘patologia dei solidi’ viene sviluppata in particolare dai metodi di cura di →Tessalo di Tralle relativamente alle malattie croniche, così che, distintamente dai corpi abbiamo un’idea di possesso, [3] che può essere superata solo attraverso una trasformazione della connessione dei corpi. [4] →Ps.-Alessandro di Afrodisia si oppone peraltro alla ripartizione stabilita da →Galeno relativamente alle febbri in connessione con le sostanze (parti solide, parti liquide, aria), [5] con l’opinione che la febbre, cioè la malattia, come causa di un danneggiamento di funzione può sussistere solo nelle parti solide del corpo, poiché solo queste sono animate. [6] Per questo egli fondò ‘una patologia delle parti solide’ che trova eco nel sec. xvi presso Francisco Valles e poi presso altri studiosi. Anche il concetto di nosologia (lett. «dottrina della malattia») è moderno: nell’antichità nosologein viene a significare «far luce su una malattia». [7] Nella concezione ippocratica la patologia è legata soprattutto a struttura e tessuto dei corpi, alle loro modificazioni in coincidenza di malattie (patologia umorale e patologia delle parti solide). In realtà, nel Corpus, spesso le conoscenze anatomiche sono di gran lunga errate. L’importanza della patologia rimane, anche dopo lo sviluppo della →anatomia nella medicina ellenistica, notevolmente arricchita nello sviluppo teoretico dall’influsso della patologia. Soltanto per →Erasistrato è documentato che egli ricerca i segni delle malattie attraverso ricerche post mortem : così stabilisce una connessione tra hydrops e indurimento del fegato. [8] Lo studioso era anche probabilmente pervenuto alla conoscenza dei rapporti tra fegato e sue parti costitutive. [9] 2. Nosologia. – Nel Corpus Hippocraticum sono tramandate più di duecento malattie da distinguere tra loro ; già compaiono relativa 









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patologia

mente alla formazione di una o più malattie i tre aspetti : sintomi principali, localizzazione nel corpo e rappresentazione di diverse specie distinte di processi morbosi anatomico-fisiologici, per esempio ‘tetano’ (‘tensione’), febbre di tre giorni, tisi (phthisis, cioè ‘consunzione’ etc.). Le malattie attestate nel Corpus Hippocraticum vengono già attestate con un nome specifico, altre vengono indicate attraverso perifrasi descrittive che definiscono in pratica con immagini gli stessi concetti, del tipo «la milza, prima malattia». [10] Questo primo nucleo fondamentale di agglomerazione di nomi e concetti delle malattie principali confluisce nella medicina pratica e si arricchisce per tutta l’antichità, [11] con opportuni e costanti incrementi, ad es. in →Sorano [12] con i nomi ginecologici derivati da nuove malattie : così sono citati da →Galeno e →Celio Aureliano termini come →idrofobia, elefantiasi, priapismo. Più tardi i Metodici e Galeno seguono nuove disposizioni analitiche nella denominazione delle malattie, che derivano da loro particolari prospettive teoretiche. [13] Sotto →Areteo e →Celio Aureliano si fa strada una suddivisione in malattie acute e croniche, mentre Galeno intitola Methodus medendi la sua opera principale attraverso le categorie a lui presenti, malattie simili collegate a specie omogenee (homoimere) o tessuti (ll. 7-12), malattie delle parti o organi connessi insieme (anhomoimere) (ll. 13-14), entrambi i tipi di malattie riunite insieme (ll. 3-6). L’Anonymus Londinensis separa principalmente «malattie dell’anima» e «malattie del corpo», [14] →Teodoro Prisciano «malattie esterne» e «malattie interne». Per tutta l’antichità è costante la concezione di fondo della malattia come squilibrio e il rapportarsi ad essa del medico attraverso diagnosi, prognosi e terapia. Nondimeno si moltiplicano, soprattutto con l’epoca ellenistica, a seconda delle scuole, le definizioni di squilibrio, le tecniche diagnostiche e gli approcci terapeutici. Come si è già accennato, con la medicina di età romana, nella valutazione dello squilibrio entrano elementi nuovi, come lo pneuma, lo stato di rilassamento o ostruzione dei poroi. Contemporaneamente le tecniche diagnostiche più evolute e raffinate consentono di definire e determinare meglio alcune malattie ; con il tardo ellenismo e primo impero vengono inoltre ad assumere importanza sempre più notevole gli  













elementi psicologici, sia a livello patologico che terapeutico. Si perfeziona la ricerca anatomica, fondata sulla dissezione dei cadaveri e talvolta sulla →vivisezione si registra il sorgere delle scuole e il determinarsi dei loro indirizzi teoretici, si verifica la diffusione di epidemie, connesse con il prevalere dell’urbanesimo, degli scambi commerciali, delle grandi migrazioni dei popoli, fenomeni favoriti tutti dalla pax Romana. Relativamente alla patologia si prenderanno in esame le seguenti voci : 3. Il concetto di malattia ; 4. Fasi della malattia ; →Semeiotica medica ; 5. Categorie di malattie (5.1. Malattie interne ed esterne. 5.2. Malattie calde, fredde, umide e secche ; 5.3. Malattie stagionali, proprie dell’età e del sesso ; 5.4. Malattie topiche e diffuse ; 5.5. Malattie curabili e incurabili ; 5.6. Malattie endemiche ed epidemiche ; 5.7. Malattie nuove e vecchie ; 5.8. malattie acute e croniche) ; 6. Patologie relative a singoli organi (→occhi ; →cuore ; →stomaco ; →intestino ; →fegato ; →polmoni). 7. Il paziente ; 8. Singole patologie (→peste ; →lebbra ; →tisi ; →febbre ; →idropisia ; →idrofobia ; →ittero) ; 8.1. Letargo ; 8.2. Angina. 8.3. Colica ; 8.4. Morbo celiaco ; 8.5. Colera ; 8.6. Gonorrea ; 8.7. Satiriasi ; (→podagra) ; 8.8. Tetano ; (→malattie mentali).  































































Note. [1] Intro. 7 /14, 690 K. – [2] Sor. Gyn. 1, 52 ; Cael. Aur. acut. 3, 3, 23 ; chron. 1, 1, 38 ; 1, 1, 48. – [3] Cael. Aurel. chron. prooem. 2. – [4] Gal. Meth. med. 4, 4 / 10, 267 K ; Cael. Aur. chron. 1, 1, 112. – [5] Ad es. Gal. Cris. 2, 13 / 9, 695-696 K. –[6] Ps.-Alex. Febr. 13. –[7] Anon. Lond. 11, 40. – [8] Cael. Aur. chron. 3, 8, 111. – [9] Cael. Aur. chron. 3, 65. – [10] Int. 30 /7, 244-246 L. – [11] Ad es. Gal. Meth. med. 2, 2 /10, 8185 K ; Aret. ; Ruf. Ren. ues.– [12] Gyn. 3, 4. – [13] Gal. Meth. med. 2, 6 / 10, 115-126 K. – [14] 1, 40-41.  











Fonti. Hp. Int. 7 / 166-302 L; Ruf. Ren. ues. ; Anon. Lond. 1, 40-41. 11, 40; Gal. Cris. 2, 13 / 9, 695-696 K; Meth. med. 2, 2 /10, 81-85 K ; 2, 6 / 10, 115-126 K. Ps. Gal. Intro. 7 /14, 690 K ; Gal. Meth. med. 4, 4 / 10, 267 sg. K; Sor. Gyn. 1, 52 ; 3, 4 ; Cael. Aur. acut. 3, 3, 23 ; chron. prooem. 2. 1, 38 ; 48. chron. 1, 4, 112, 3, 65 ; chron. 3, 8, 111.  















Bibliografia. Di Benedetto 1986 ; Hankinson 1991 ; Jouanna 1992 ; Potter 1988a e b ; Potter 1990, 237-253 ; Potter 2005b, 651-653 ; Urso 1997 ; Urso 1999.  













3. Il concetto di malattia. – Malattia (novso~, novshma, pavqo~, morbus, più tardi passio), indica uno stato contrapposto alla salute [1] e si mani-

patologia festa attraverso un perturbamento nell’equilibrio dei relativi fattori costitutivi. La malattia è seguita, in generale, da modificazione qualitativa degli elementi di cui è costituito il corpo : in pratica uno dei materiali costitutivi si sposta in una posizione del corpo ad esso non conforme. I sintomi che si manifestano possono essere raggruppati in varie categorie e costituiscono gli aspetti delle malattie (nosologia, v. supra, 2). Una delimitazione puramente concettuale e astratta della malattia dalle cause che la precedono (eziologia), alla quale si uniscano o seguano i sintomi, si trova presso →Galeno. [2] Le teorie più importanti sulla malattia sono le seguenti : [3] secondo →Alcmeone di Crotone la malattia rappresenta il predominio unico e assoluto (gr. monarchia), cioè la prevalenza, con squilibrio, di una delle qualità sulle altre del corpo. [4] →Ippocrate sottolinea : « L’arte è costituita da tre componenti : malattia, paziente e medico. Il ruolo del medico è di aiutare l’arte ; il paziente deve combattere le malattie in collaborazione con il medico ». [5] Forse il merito più grande di Ippocrate è di aver evidenziato il concetto di malattia come squilibrio di fattori nel complesso di un organismo singolo, unitario e armonico : uno squilibrio causato da fattori esterni, come elementi meteorologici e atmosferici, dieta, alimentazione, esercizi, traumi esterni oppure interni, ad es. ereditari o psichici. [6] Si legge in Ippocrate : « Le malattie dipendono in parte dai regimi di vita, in parte dall’aria stessa che si respira per vivere. Si devono dunque operare distinzioni : se una grande quantità di persone è colpita da una malattia unica nel medesimo tempo, dobbiamo attribuirne la causa all’elemento che è più comune, a quello di cui si fa soprattutto uso, appunto l’aria che respiriamo. Infatti è del tutto evidente che non possiamo ascrivere una malattia che aggredisce tutti, uno dopo l’altro, giovani e vecchi, uomini e donne, allo stesso modo, alla diaita che ognuno di noi segue[…] » . [7] Ancora si legge : « nel corpo umano ci sono molte componenti che, quando si riscaldano o si raffreddano, si disseccano e si inumidiscono reciprocamente e contro natura, danno origine alle malattie ». [8] La malattia è dunque completamente svincolata da collegamenti e dipendenza dal concetto di colpa, punizione divina, volere divino, quindi imperscrutabile, non conoscibile dall’intelletto degli uomini, come nella medicina omerica e anco 



















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ra perfino nei tragici. In realtà la maggior parte degli scritti del Corpus Hippocraticum presuppone una dottrina di Patologia umorale : la malattia si forma quando, appunto, attraverso influssi esterni, uno degli umori del corpo – per lo più flegma o bile, talvolta anche sangue – si modifica. [9] In questo caso flegma o bile vengono posti in movimento ; [10] per contro il sangue è impedito nel suo flusso regolare, con l’aria, nei vasi, [11] oppure si pone saldamente in una certa parte del corpo, lo danneggia e produce diverse forme di manifestazioni morbose. [12] Possono essere causa di malattie esterne o interne, viceversa, traumi nelle varie parti del corpo, [13] che hanno a loro volta ripercussione sul flusso degli umori. [14] In alcuni degli scritti del Corpus Hippocraticum la malattia consiste in uno squilibrio degli elementi costitutivi del corpo, cioè i quattro umori, sangue, flegma, bile gialla, bile nera, corrispondenti ai quattro elementi fondamentali, che, secondo la fisica empedoclea, costituiscono il mondo, cioè acqua, aria, terra e fuoco:  

































Fig. 1. I quattro umori (elaborazione di Fabio Cavalli).

La malattia, cioè lo ‘squilibrio’, è conseguenza della lotta o della reazione delle capacità o ‘facoltà del corpo’ (gr. dynameis) contro le aggressioni esterne e interne. Come sottolinea Ippocrate « Il corpo umano contiene in sé sangue, flegma, bile gialla e bile nera : questi quattro elementi costituiscono la natura : in relazione a questi elementi il corpo si ammala o si trova in  





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patologia

buona salute. Gode di ottima salute se gli elementi si trovano tra loro in proporzione di crasi equilibrata, come forza e quantità, cioè appunto quando la crasi è perfetta. È attaccato dalla malattia quando qualcuno di questi elementi si trova in difetto o in eccesso, si separa dagli altri nel corpo, non è ben mescolato con gli altri. Se infatti uno di questi elementi è separato dagli altri, sta per suo conto, inevitabilmente quella parte da cui l’elemento si è ritirato si ammala, ma anche quella in cui l’elemento si è riversato, piena in modo eccessivo, è colpita da dolore o affanno. Se uno di questi elementi fluisce fuori del corpo in modo eccessivo, lo svuotamento produce dolore. Se invece lo svuotamento avviene all’interno, il corpo accusa necessariamente un dolore doppio, e nella parte abbandonata e in quella invasa ». [15] Diverso dalle altre malattie è il ‘morbo sacro’ o Epilessia, ritenuto dagli uomini « come qualche cosa di divino per la loro inesperienza e per i sintomi straordinari della malattia, morbo sacro che, in effetti, non sembra avere proprio nulla di comune con gli altri mali ». [16] Secondo Erasistrato causa prima della malattia è la mescolanza abnorme di materia che si trova nel corpo, soprattutto dovuta alla penetrazione del sangue, per travaso, delle vene (gr. paremptosis), che avviene attraverso vasi di congiunzione non percettibili (gr. synanastomoseis : cfr. fr. 109 Garofalo) nelle arterie riservate allo pneuma. Da qui risultano infiammazione e febbre (frr. 169 ; 198 Garofalo). Con lo sviluppo dell’anatomia in età ellenistico-romana e con una migliore conoscenza della patologia degli organi si sviluppa una concezione più concreta e localizzata della malattia : questa non è più soltanto uno squilibrio di alcuni elementi in un insieme unitario, ma anche, e soprattutto, disfunzione o lesione di un determinato organo (Mazzini 1997, 290). Nella teoria atomistica di →Asclepiade di Prusa la malattia insorge soprattutto quando si verifica un arresto del flusso regolare degli atomi, producendo accumulazione di materiali e conseguente ostruzione del flusso normale. [17] Con la successiva patologia dei solidi dei Metodici tutte le manifestazioni della malattia vengono ricondotte a due condizioni generali delle parti solide, spesso relative all’intero corpo, precisamente ‘tensione’ (gr. stegnōsis, lat. strictura), contro rilassamento (gr. rhysis, lat. solutio), dai quali sussiste ancora uno stato misto delle due condizioni. [18] Secondo →Areteo (e gli  



















→Pneumatici) le diverse manifestazioni della malattia dipendono da discrasie delle quattro qualità fondamentali e, in conseguenza di ciò, da affezioni conseguenti delle parti solide del corpo o dello pneuma. [19] L’ampliamento e l’approfondimento dell’idea di malattia è da ricollegarsi sia ai progressi generali della scienza antica sia al miglioramento delle condizioni sociali – almeno per alcune categorie di popolazione – in età ellenistica e imperiale. Così, ad esempio, in epoca romana al concetto di salute si affiancano i concetti di efficienza, di cura estetica (Mazzini 1997, 291) : si pensi, per la chirurgia, alla chirurgia estetica ; ai Medicamina faciei in Ovidio ; anche per Cicerone eleganza e bellezza fisica non possono essere separate dalla salute. [20] Alcune delle posizioni più significative della medicina ellenistica confluiscono nel De medicina di →Celso, che sintetizza lo stato dell’arte nel suo tempo : « L’uomo sano, che è in buona salute e che può disporre a suo piacimento di se stesso, non deve legarsi a nessuna prescrizione particolare e non deve aver bisogno né di medico né di massaggiatore. È opportuno che conduca un genere di vita piuttosto variato : ora abitare in campagna, ora in città, ma più spesso nei campi ; deve navigare, andare a caccia, talvolta riposarsi, ma più frequentemente praticare esercizi ; dal momento che l’inattività indebolisce il corpo, la fatica lo rassoda, quella procura una matura vecchiaia, questa una lunga giovinezza […] ». [21] La salute equivale, in Celso, come poi in Galeno, a equilibrio, ma anche a integrità : la malattia è perdita di questo equilibrio. Per questo, secondo Celso, il corpo più adatto è quello di giuste proporzioni « ‘quadrato’, né gracile né obeso. La statura alta, così come è bella in gioventù, viene contrastata dalla vecchiaia matura ; un corpo magro è infermo, un corpo grasso è indebolito ». [22] Per Galeno gli uomini sono persuasi di godere di buona salute quando sono in possesso, in condizioni ottimali, di energie delle singole parti del corpo, per poter svolgere le attività proprie della vita, mentre, per contro, sono convinti di essere ammalati se in qualcuna delle energie richieste sono deboli ; « perché la salute consiste soprattutto in queste due cose : o nelle energie secondo natura, o nello stato o condizione delle parti in grazia delle quali possiamo operare […], la malattia è il contrario, o uno stato contro natura delle parti o una energia inadeguata […] » . [23] Gale 











































patologia no definisce la malattia come uno ‘stato naturale’ (diavqesi~, kataskeuhv), che pregiudica direttamente la funzione (ejnevrgeia) delle parti del corpo. [24] Tra salute ottimale e malattia evidenziata da difetti funzionali chiaramente percettibili esiste tutta una serie di gradi di funzionalità distinta, gradi condizionati da età e situazioni. [25] Galeno distingue sei specie di malattia, di cui una è associata alle parti simili o articolate in modo simile del corpo (omeonerie) o dei tessuti, e quattro sono associate agli organi con essi connessi ; un’altra specie è comune a due. [26] Queste specie di malattie sono (Gundert 2005b, 532) : 1. Sproporzione delle qualità di caldo, freddo, secco e umido che costituiscono le parti omeomeriche ; 2. Struttura abnorme (ad es. ruvidità) ; 3. Numero (ad es. moltiplicabilità) ; 4. Grandezza (ad es. atrofia) ; 5. Posizione di una o più parti che formano gli organi (per es. prolassi) ; 6. Scioglimento della connessione di parti simili oppure connesse insieme (ad es. ferite, fratture). Queste classificazioni della tipologia della malattia sono attestate nella letteratura medica : così si hanno le categorie di malattie secondo parti del corpo ; [27] luoghi e stagioni ; [28] sesso ed età ; [29] malattie dei fanciulli ; [30] malattie connesse all’età ; [31] malattie del corpo o dell’anima ; [32] malattie interne ed esterne ; [33] acute e croniche. [34] Ancora, per Ps. Galeno, di tutte le malattie, secondo Ippocrate, alcune derivano dall’esterno, ad es., dall’aria, altre dall’interno, dai nostri modi di vivere, a causa dei quali qualcuno dei quattro umori abbonda, oppure viene a mancare, oppure muta di qualità. Invece, secondo Erasistrato e Asclepiade, per ogni malattia c’è una sola causa : «per Esasistrato la precipitazione del sangue nelle arterie, per Asclepiade l’espansione degli ónkoi nelle parti porose». [35]  









































Note. [1] Gal. Meth. med. 1, 7 / 10, 51 sg. K. – [2] Sympt. diff. 1 /7, 50 K ; Meth. med. 2, 3/10, 90 K. – [3] Cfr. Cels. 1, Prooem. 14 sgg. / 19-29 M ; Anon. Lond. 4-21. – [4] D.-K. 24 B 4. – [5] Epid. 1, 5 / 2, 636 L. – [6] Cfr. Mazzini 1997, 292. – [7] Nat. hom. 9/ 6, 52-54 L. – [8] Nat. hom. 2/6, 34-36 L. – [9] Morb. 1, 2 / 6, 142 L ; Aff. 1 / 6, 208 L ; Nat. hom. 4 / 6, 40 L. – [10] Aff. 16/6, 224 L. – [11] Morb. sacr. 10/ 6, 378 sg. ; Morb. 2, 6 /7, 14-16 L ; Morb.1, 30/ 6, 200 L. – [12] Int. 16 / 7, 204 sg. L ; Morb. 1, 12 / 6, 158 sg. L. – [13] Prorrh. 2, 16 / 9, 42 L. – [14] Morb. 1, 20 / 6, 176-180 L. – [15] Hp. Nat. hom. 4 / 6, 38-40 L ; cfr. anche Mazzini 1997, 291-292. – [16] Hp. Morb. sacr. 1/ 6,  















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353 sgg. L ; cfr. anche Mazzini 1997, 292-293. – [17] Cels. med. 1, Prooem. 15 / 19 M ; Cael. Aur. acut. 1, 14, 106. – [18] Gr. Epiplegmenon nosēma ; lat. genus mixtum ; cfr. Cels. med. 1, Prooem. 54s/ 26 M ; Sor. Gyn. 3, 5 ; Gal. Sect. 6/ 1, 79 sg. K : si veda Gundert 2005a, 531. – [19] 1, 7. – [20] Cic. Off. 1, 95 /638 FZ. – [21] Cels. 1, 1, 1 / 29 M. – [22] Cels. 2, 5, 1 /46 M. – [23] Gal. Diff. morb. 2/ 6, 837-838 K. – [24] Gal. Sympt. diff. 1 /7, 43 K ; Meth. med. 2, 6 / 10, 116 K ; si veda anche Ps.- Alex. Aphr. Febr. 5, 2 : cfr. Gundert 2005a, 532. – [25] Gal. San. tu. 6, 2 / 6, 387-389 K ; Ars med. 4 / 1, 314-318 K. – [26] Diff. morb. / 6, 836-880 K ; Meth.med. 2, 6/10, 125 sg. K. –[27] Ad es. Ruf. Sulle malattie dei reni. – [28] Ad es. Hp. Epid. ; Aer. – [29] Ad es. Hp. Mul. ; Sor. Gyn. – [30] Cfr. Sor. Gyn. 2, 50-56. – [31] Cfr. ad es. Gal. Mar. / 7, 666-704 K ; Hp. Aph. 3, 24-31/4, 496-502 L. – [32] Anon. Lond. 1, 40 sg. – [33] Ad es. Hp. Int. ; Fract. – [34] Areteo, Celio Aureliano. – [35] Ps. Gal. Intro. 13/14, 728-729 K: cfr. Mazzini 1997, 294.  































Fonti. D.-K. 24 B 4; Hp. Epid. ; Aër. Fract. Int. ; Mul. ; Hp. Epid. 1, 5 [Morb. pop. 1, 5] / 2, 636 L. Hp. Aph. 3, 24-31/4, 496-502 L ; Nat. hom. 2/6, 34-36 ; 4 / 6, 38-40 L ; 9/ 6, 52-54 L. Morb. 1, 2 / 6, 142 L ; 1, 12 / 6, 158 sg. L. 1, 20 / 6, 176-180 L. 1, 30/ 6, 200 L ; Aff. 1 / 6, 208 L ; 16/6, 224 L. Morb. sacr. 1/ 6, 353 L. 10/ 6, 378s. ; Morb. 2, 6 /7, 14 L ; Int. 16 / 7, 204 sg. L ; Prorrh. 2, 16 / 9, 42 L. Cels. med. 1, Prooem. 15 / 19 M ; Prooem. 14 sgg. / 19-29 M ; Prooem. 54 sg. / 26 M ; 1, 1, 1 / 29 M. 2, 5, 1 /46 M. Aret. 1, 7. 26 ; Ruf. Ren. ues ; Gal. sect. 6/ 1, 79 sg. ; Ars med. 4 / 1, 314-318 K ; San. tu. 6, 2 / 6, 387-389 K ; Diff. morb. 2/ 6, 837-838 K ; Diff. morb. / 6, 836-880 K ; Sympt. diff. 1 /7, 43 K ; Mar. / 7, 666704 K; Meth. med. 1, 7 / 10, 51s. K; 2, 3/10, 90 K; 2, 6 / 10, 116. 125s. K ; Ps. Gal. Intro. 13 /14, 728-729 K. Sympt. diff. 1 /7, 50 K ; Sor. Gyn. 2, 50-56. 3, 5 ; Cael. Aur. acut. 1, 106; Ps.- Alex. Aphr. Febr. 5, 2; Anon. Lond. 1, 40 sg. / 4-21.  



















































Bibliografia. Garcia Ballester 1972, 184-193 ; Gundert 2005a, 530-533 ; Gundert 2005b, 533-534 ; Harig 1974, 154-168 ; Lorenz 1990 ; Mazzini 1997, 290-294 ; Touwaide 1999.  











4. Fasi della malattia. – Secondo il pensiero di Ippocrate la malattia si evolve in tre fasi : aumento della malattia nel suo insieme, remissione e akmé. [1] Nella fase centrale dell’akmé si attua, se la malattia ha decorso positivo, la ‘cottura’ o trasformazione degli umori cattivi, corrotti. Conoscere il primo attacco della malattia significa, per il medico antico, conoscere sia l’intera fase della crescita sia quella dell’akmé. [2] Le malattie, stando a Temisone, talora sono acute talora croniche, ora crescono ora sono al  





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patologia [3]

massimo, ora in fase di calo. Per tutte le malattie pericolose si devono esaminare le cotture degli umori che si presentano come favorevoli, oppure i ‘depositi’, cioè le metastasi, gli spostamenti di un deposito da una parte all’altra del corpo. I depositi, cioè la manifestazione e la collocazione di un particolare sintomo, come dolore, gonfiore, rossore etc. in una data parte del corpo, testimoniano la ‘crisi’ o giudizio, che avviene appunto nel giorno critico. Per Ippocrate «le cotture sono la prova che la crisi è rapida e che è possibile recuperare la salute. Gli umori crudi e non cotti formano depositi di cattivo auspicio e significano assenza di crisi, o sofferenze, o tempi lunghi del male o morte o ricadute ». [4] Crisi (krivsi~, iudicium), secondo un antico termine giuridico, [5] è concetto importante : indica il giorno preciso lungo il decorso del male, in cui si verifica appunto una sorta di ‘giudizio discriminante’, una variazione in meglio o in peggio nel paziente, che guarisce o muore. [6] Galeno distingue peraltro tra krisis completa e incompleta : quest’ultima opera una ‘remissione’, dopo la quale la malattia si prolunga fino a quaranta giorni o diviene cronica. [7] Con la krisis è collegata la dottrina dei cosiddetti ‘giorni critici’ – rifiutata peraltro da Asclepiade e da Celso – giorni critici calcolati in modo differente, [8] soprattutto attraverso ebdomadi, cioè sequenze di sette giorni, [9] e tetradi, [10] in cui viene dato un significato particolare ai giorni quattro, sette, undici e quattordici. In un nuovo computo, attraverso giorni indiretti, [11] diviene particolarmente critico il terzo giorno. [12] I giorni critici avevano soprattutto significato e valore pragmatico e terapeutico : presenza o assenza di indizi lasciano prevedere cozione e prognosi su una krisis favorevole o sfavorevole. [13]  





























Note. [1] Hp. Epid. 6, 8, 14 / 5, 348 L : cfr. Mazzini 294-296. – [2] Gal. Cris. 4 / 9, 558-559 K. – [3] Cels. Prooem. 56 /26 M. – [4] Hp. Epid. [Morb. Pop. ] 1, 5/ 2, 632-636 L; cfr. Mazzini 1997, 295. – [5] Cels. 3, 4, 11/106 M ; Gal. In Hp. Progn. comm. 3, 1 /18, 2, 231 K. – [6] Hp. Int. 24 ; 27 / 7, 228 ; 238 L ; Gal. In Hp. Aph. comm. 2, 23 / 17, 2, 505 K ; cfr. Cris. 1, 1/9, 550 K ; cfr. voce Krise di Gundert 2005d, 541-542. – [7] Gal. In Hp. Progn. Comm. 1, 25 / 18, 2, 79 K. – [8] Cfr. Gal. In Hp. Progn. comm. 3, 6 / 18, 2, 231-235 K ; Dieb. decr. 2, 4 / 9, 852-853 K. – [9] Hp. Hbd. 10; 26 / 8, 638 sg. ; 650 sg. L ; Carn. 19 / 8, 608-614 L. – [10] Hp. Prog. 20 / 2, 168-172 L. – [11] Hp. Acut. [sp.] 9 sgg. / 2, 434 sgg. L ; Morb. 4, 46 sgg. / 7, 572-578 L ;  























cfr. Cels. 3, 4, 11/106 M. – [12] Hp. Epid. 2, 6, 11/ 5, 134 L. – [13] Hp. Epid. 1, 11 / 2, 670 sgg. L ; Aph. 2, 24 ; 4, 71 / 4, 476 ; 526 L ; Gal. In Hp. Aph. comm. 4, 71/ 17, 2, 756 sg. K.  







Fonti. Hp. Prog. 20 / 2, 168-172 L ; Acut. [sp.] 9 sgg. / 2, 434 sgg. L ; Epid. [Morb. Pop.] 1, 5/ 2, 632-634 L ; Aph. 2, 24 ; 4, 71 / 4, 476 ; 526 L ; Epid. 2, 6, 11/ 5, 134 L ; Epid. 6, 8, 15 / 5, 348 L ; Int. 24 ; 27 / 7, 228 ; 238 L ; Morb. 4, 46-48. / 7, 572-578 L ; Carn. 19 / 8, 608-614 L ; Hebd. 10. 26/ 8, 638 sg. ; 650 sg. L ; Cels. Prooem. 56 /26 M ; Cels. 3, 4, 11/106 M ; Ruf. 194-218 D R (cfr. per intero Quaestiones medicinales) ; Gal. Dieb. decr. 2 / 4, 852-853 K ; Cris. 1, 1/9, 550 K ; 4 / 9, 558-559 K ; In Hp. Aph. comm. 2, 23 / 17, 2, 505 K ; 4, 71/ 17, 2, 756 sg. In Hp. Progn. comm. 1, 25 / 18, 2, 79 K. 3, 6 / 18, 2, 231-235 K.  











































Bibliografia. Gundert 2005a, 530-533 ; Gundert 2005d, 541-542 ; Lorenz 1990 ; Mazzini 1997, 294296 ; Touwaide 1999.  







5. Categorie di malattie. – Nella medicina antica le malattie sono raggruppate e suddivise per lo più attraverso una schematizzazione di tipo binario e contrastivo. Esse rappresentano inoltre parte primaria della diagnosi e della prognosi. Alcune categorie si ritrovano già nel Corpus Hippocraticum, come malattie interne ed esterne, calde e fredde, stagionali, proprie dell’età e del sesso ; topiche e diffuse, curabili e incurabili, endemiche ed epidemiche, vecchie e nuove ; altre categorie sono più tarde, come umide e secche, acute e croniche. Con il passare del tempo divengono più complesse e articolate non solo le categorie in sé, ma anche la loro ‘concettualizzazione’. 5.1. Malattie interne ed esterne. – Questa suddivisione risale alla fase più antica della Medicina scientifica e resta valida per tutta l’antichità : diverrà motivo di discussione e contrasto tra alcune scuole mediche, ad es. la scuola dogmatica e quella empirica. Così leggiamo nel Corpus che, per chi è esperto nell’arte, alcune malattie, in verità non molto numerose, non sono affatto difficili da vedere ; altre invece non sono evidenti e queste sono molte : sono difficili da individuare quelle rivolte verso l’interno ; sono evidenti, invece, ad es. le malattie della pelle o quelle che si manifestano attraverso il colore, con gonfiori etc. . [1] Le malattie interne ed esterne, identificabili in pratica con le affezioni occulte e apparenti, sono distinte e denominate sia per la loro causa, sia per i sintomi che sono più o meno visibili, sia in relazione alla  













patologia parte o organo interno o esterno interessato. Le affezioni interne richiedono naturalmente maggiore previdenza, attenzione e cura da parte del medico. Note. [1] Hp. De arte 9-13/ 6, 16-27 L.

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do ; leggiamo anche che in estate si verificano alcune di queste affezioni, e febbri continue e causoi e la maggior parte delle febbri terzane e vomiti e diarree e oftalmie e mali di orecchie e ulcerazioni di bocca e cancro delle pudenda ed essudorazioni etc. [3] Si potrebbe continuare. In effetti riporterò ora un passo di Celso che ripropone con buona aderenza al testo – anche se non si può escludere una derivazione indiretta – la trattazione ippocratica. Leggiamo nel De medicina : « Raramente qualcuna di queste affezioni non capita in autunno ; si manifestano anche in questo periodo febbri incerte, dolore della milza, idropisia (aqua inter cutem), consunzione, che i Greci chiamano phthisin, difficoltà di urinare che i Greci chiamano strangurian, la malattia dell’intestino tenue che chiamano ileon, levigatezza di intestino, che è denominata lienteria, dolori dell’anca, epilessia […] ». [4] Il parallelismo tra Celso e il testo ippocratico è continuo. [5] Anche Galeno riprende, per ampi passi, la dottrina ippocratica. Leggiamo in un suo scritto : «È utile riportare la sua (di Ippocrate) lista (delle malattie di stagione), così come è, letteralmente. Nel corso dell’inverno aumenta il flegma, di gran lunga il più freddo tra tutti gli umori che circolano nell’uomo in inverno. Prova di questo, cioè che il flegma è più freddo, sta nel fatto che, nel caso in cui tu voglia toccare il flegma e la bile e il sangue, troverai il flegma molto freddo, anche se è molto viscoso […]». [6]  



Fonti. Hp. De arte 9-13 / 6, 16-27 L ; Ps. Gal. Intro.13 / 14, 738-739 K ; cfr. Def. med. 154-155 / 19, 392-394 K.  



Bibliografia. Gundert 2005a, 530-533 ; Mazzini 1997, 300-301 ; Touwaide 1999.  





5.2. Malattie calde, fredde, umide e secche. – Alla base di questa suddivisione, legata soprattutto alla ricerca di dare fondamento e sistemazione alla teoria umorale, c’è, in pratica, un esame autoptico e tattile. Questa tipologia è presente soprattutto in Galeno, molto legato alla teoria umorale. Per Galeno le malattie semplici sono quattro e le malattie composte sono quattro : talvolta aumenta a dismisura il caldo o il freddo, oppure il secco o l’umido. Talvolta, tuttavia, per combinazioni particolari dei medesimi fattori, si può avere una malattia insieme calda e secca, oppure fredda e secca, oppure calda e umida, o fredda e umida. [1] Si tratta, in effetti, di malattie dovute al predominio di un umore o dell’altro : così l’eccesso di bile gialla avrà per effetto una malattia calda o secca, la qualità eccessiva di sangue una malattia umida e/o calda etc.  





Note. [1] Gal. Morb. caus. 1 / 7, 2 K.  

Bibliografia. Mazzini 1997, 310; Potter 1990, 237-253 ; Potter 2005b, 651-653.  

5.3. Malattie stagionali, proprie dell’età e del sesso. – La concezione ippocratica della malattia come squilibrio prodotto da cause esterne e interne e la teoria umorale comportano, fin dall’età di Ippocrate, una stretta interrelazione tra malattia, soprattutto nelle sue fasi più acute e nella sua formazione, e stagioni, clima, fasi di età e sesso. Ippocrate, soprattutto negli Aforismi, richiama questi elementi. Così leggiamo che, mentre in autunno le malattie sono più acute e, in genere, mortali, la primavera è la stagione più salubre, [1] che soprattutto i cambiamenti di stagione generano malattie e che nelle diverse stagioni si verificano i grandi mutamenti di ciò che è vivente e di ciò che è cal 













Fonti. Gal. Morb. caus. 1 /7, 2 K ; 3 / 7, 10-19 K ; In Hp. Acut. comm. 1, 21 / 15, 473 K.  



Note. [1] Aph. 3, 9 / 4, 488 L ; cfr. Cels. 2, 1, 1 / 45 M. – [2] Aph. 3, 1 / 4, 486 L ; cfr. Cels. 2, 1, 2 /45 M. – [3] Aph. 3,1 / 4, 487 L ; cfr. Cels. 2, 1, 7 / 46 M. – [4] Cels. 2, 1, 8 / 47 M. – [5] Cfr. Cels. 2, 1, 1-23 / 45-50 M e gli Aforismi richiamati nel Testimonialapparat dell’edizione di Marx. – [6] Per l’interessante passo di Galeno si veda Plac. Hp. et Plat. 8, 6 / 5, 689-696 K. Cfr. Mazzini 1997, 308-310.  





Fonti. Hp. Aph. 3, 1 / 4, 486 L ; Aph. 3, 9 / 4, 488 L ; Cels. 2, 1, 1-2 /45 M ; 2, 1, 7 / 46 M ; 2, 1, 8 /47 M ; Aret. 56-57. 61. 64 H ; Gal. Plac. Hp. et Plat. 8, 6 / 5, 689-696 K.  











Bibliografia. Gundert 2005a, 530-533 ; Lorenz 1990 ; Mazzini 1997, 307-310 ; Touwaide 1999.  





5.4. Malattie topiche e diffuse. – Le malattie ‘topiche’, cioè con una localizzazione abbastanza precisa, per lo più esterne e traumatiche, sono curate con medicamenti, appunto, ‘topici’ : a questa categoria appartengono traumi, affe 

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zioni epidemiche e anche forme tumorali. Le malattie diffuse, interne ed esterne, si diffondono appunto per tutto il corpo : così la febbre, o anche la phthisis o tabes, richiedono trattamenti terapeutici abbastanza lunghi, rappresentati, in genere, dalla dieta e, in ogni caso, da rimedi da ingerire, atti a contrastare gli squilibri umorali presenti. [1] Una trattazione adeguata è nel De medicina di Celso, che riprende, come è noto, forme ellenistiche : « Oltre a questi tre tipi ce n’è un quarto, che non può essere definito acuto, perché non è mortale, né in alcun modo cronico, perché, se viene curato, guarisce facilmente. Quando parlerò delle singole malattie, dirò con precisione di quale genere ognuna di esse faccia parte […] ». [2]  









Fonti. Hp. De arte 8 / 6, 12-14 L ; Morb. 1, 1-3 / 6,140146 L ; Cels. 5, 26, 1c / 215 M ; Gal. In Hp. Aph. comm. 39/ 17, 2, 538 K.  





Bibliografia. Mazzini 1997, 304-305 ; Touwaide 1999.  





Note. [1] Mazzini 1997, 303. – [2] Cels. 3, 1, 3 / 101 M. Fonti. Cels. 3, 1, 3 / 101 M. Bibliografia. Gundert 2005a, 530-533 ; Mazzini 1997, 303-304 ; Touwaide 1999.  



5.5. Malattie curabili e incurabili. – La classificazione in malattie curabili e incurabili è molto antica [1] e permane per tutta l’antichità classica. Il concetto di malattia ‘incurabile’ è del resto complesso e variamente definito da attributi e termini molteplici, come ‘mortale’, ‘disperato’, ‘pericoloso’ etc. [2] Le motivazioni dell’incurabilità sono da ricercare in cause interne o esterne, oltre che nella natura e nell’entità del male. Come si legge nel Corpus Hippocraticum, nelle misure in cui è possibile vincere il male con rimedi naturali o con quelli dell’arte medica, è lecito esercitare la professione medica, altrimenti no. [3] Come leggiamo nel De medicina : « Relativamente alle ferite, poi, innanzitutto il medico deve sapere quali siano incurabili, quali richiedano una terapia più complicata, quali invece una terapia più rapida. È infatti dovere di un professionista previdente prima di tutto non iniziare procedimenti terapeutici sul paziente che non può essere salvato […] In secondo luogo, quando c’è una paura grave, tuttavia senza disperazione certa, avvertire chiaramente i parenti del paziente che è in pericolo, che la speranza è legata a una situazione difficile, affinché, nel caso in cui l’arte sia vinta dalla malattia, non sembri che il medico o abbia ignorato il male o sia incorso in errore ». [4]  







Note. [1] Vd. Mazzini 1997, 304. – [2] Mazzini 1997, ibidem. – [3] Hp. De arte 8 / 6, 14 L. – [4] Cels. 5, 26, 1C / 215 M ; cfr. Mazzini 1997, 304–305.





5.6. Malattie endemiche ed epidemiche. – La distinzione tra malattia endemica, cioè tipica di una determinata regione ed epidemica, che coinvolge masse talvolta immense, di persone, è valida a partire da Ippocrate fino alla tarda antichità e alla medicina dell’età moderna. Lo attestano numerosi passi nel Corpus, come, ad es. : « Se il medico è a conoscenza di tutti questi fattori (geografia, venti, consuetudini etc.) non sarà carente di esperienza né relativamente a malattie locali, né relativamente alla natura di quelle generali ». [1] Successivamente, ad es. in →Rufo, leggiamo che per conoscere le malattie endemiche non c’è altro modo che interrogare gli abitanti del luogo ; [2] in →Galeno si legge : « Ippocrate mostra con questo discorso che alcuni mali colpiscono contemporaneamente molti individui ; li chiamano peste (gr. loimós) e sono violenti e rovinosi ; quando invece le malattie sono meno violente le chiamano, con denominazione diversa, epidemiche […]; c’è ancora un altro tipo di mali comuni a molti, che si manifesta in una determinata regione, quello endemico. A queste due tipologie di mali possono essere contrapposte le malattie isolate, che tormentano i pazienti in modo diverso, e che non si manifestano con le stesse modalità ». [3] Per le malattie endemiche la terapia deve tener strettamente conto dell’esperienza acquisita in loco, anche se è auspicabile che la cura sia affidata ad un medico che abbia fatto pratica in regioni lontane e differenti tra loro, come è il caso di Rufo di Efeso e di Galeno.  





















Note. [1] Hp. Aër. 2 /2, 14 L. – [2] Qu. med. 72 /217218 D R. – [3] Gal. In Hp. Acut. comm. 1, 8 / 15, 429 K ; cfr. Mazzini 1997, 305-306.  

Fonti. Hp. Aër. 2 /2, 14 L ; Ruf. Qu. med. 72 /217-218 D R ; Gal. In Hp. acut. comm. 1, 8 / 15, 429.  



Bibliografia. Grmek 1984 ; Jouanna 1992 ; Mazzini 1997, 305-306 ; Potter 1990, 237-253 ; Potter 2005b, 651-653 ; Potter 2005d, 672-673.  









patologia

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accompagnate da febbri alte, continue, sono in genere mortali ; [3] quelle croniche, cioè più lunghe di quattordici giorni, [4] sono contrassegnate da febbri intermittenti. [5] Le malattie acute, che necessitano di trattamento immediato e di attenzione estrema da parte del medico, sono di diagnosi e prognosi difficile. Non tutte le malattie, tuttavia, permangono nella categoria originaria ; alcune malattie acute possono trasformarsi in croniche, come ad es. febbri, empiema etc. Le due tipologie di malattia sono presenti già nel Corpus Hippocraticum, ma saranno più tardi i Metodici, in particolare, secondo →Asclepiade di Prusa e poi →Temisone, a fornire una distinzione più precisa, che costituisce anche un sistema di classificazione patologica. Scrive Celio Aureliano : « Le affezioni celeri o acute possono guarire anche da sole, talora per opera del caso, talora per opera della natura […] Per i mali invece che sono caratterizzati da sofferenze croniche o lente e che hanno già invaso il corpo come per una ‘crisi’ precedente, poiché non possono risolversi per opera del caso o della natura, è necessaria l’opera esperta del medico […] prima di Temisone nessun autore medico ha inventato un metodo sistematico di terapia per le malattie croniche […] ». [6] Nella medicina di età classica la classificazione di alcune malattie particolari tra quelle acute e quelle croniche non è identica. Accanto alla caratterizzazione temporale ce ne possono essere altre, come natura, movimento etc. : d’altro canto alle tipologie di malattie acute e croniche possono essere aggiunte ad es. quelle ‘intermittenti’, ‘estremamente acute’ etc. Tra i mali acuti sono classificati pleurite, polmonite, febbre ardente, frenite [7] e letargia. [8] Come affezioni acute senza febbre sono classificati presso alcuni autori crampi, tetano, colera e apoplessia. [9] L’insorgenza di una malattia acuta era difficilmente prevedibile. [10] Galeno distingue malattie acute di alto grado (katoxuv) e malattie acute definite dal giorno in cui interviene la crisi (quattro-sette giorni, quattordici o venti). Scrive : « Archigene […] classifica una malattia come acuta o peracuta non solo in relazione alla durata, ma anche in relazione al movimento e alla natura […], definisce poi altre malattie ‘di breve durata’, precisando che è corretto non definirle né acute né croniche […] ». [11] Poiché il corpo viene ripulito dalla febbre stessa, l’immissione di nutrimento prima della ‘crisi’  

5.7. Malattie nuove e vecchie. – A classificare come ‘nuove’ certe malattie è soprattutto la medicina di età ellenistica e romana. In realtà non si tratta tanto di una novità reale o storica, quanto piuttosto apparente, cioè tale soltanto agli occhi degli antichi, “riconducibile vuoi alla crescita delle conoscenze mediche, vuoi allo spostamento di grandi masse, vuoi alle guerre di espansione e all’urbanizzazione, che a loro volta effettivamente facilitavano la diffusione di mali inizialmente relegati in aree geografiche definite”. [1] In relazione alla percezione di malattie nuove nascono frequenti discussioni tra le varie scuole mediche, soprattutto tra →Empirici e →Dogmatici, su cause evidenti etc. Così si legge in Celso – sono argomenti degli Empirici contro i Dogmatici – : « In primo luogo si dovettero sperimentare con ogni cura i rimedi ; una volta che questi sono stati verificati, non si scoprono nuovi tipi di malattie, né è affatto necessaria una diversa medicina. Se anche spuntasse qualche tipo di malattia sconosciuto, non certo per questo il medico dovrà riflettere su cause oscure : infatti vedrà subito a quale tipo di patologia conosciuta la malattia è affine, e potrà sperimentare medicamenti dello stesso tipo di quelli con cui spesso è stato curato per una malattia simile ». [2] In Celio Aureliano si legge : « Taluni tra i Dogmatici hanno cercato di sollevare la questione se l’idrofobia rappresenti una malattia nuova per poter poi, nel caso in cui fosse nuova, ricercare anche una nuova causa e nuove forme di cura. Questo problema secondo noi non sussiste. In realtà alcune malattie particolari o speciali possono risultare nuove, ma le malattie generali e fondamentali, da cui dipendono tutte le altre, non possono affatto divenire nuove ». [3]  





















Note. [1] Mazzini 1997, 306. – [2] Cels. Prooem. 36 / 23 M ; cfr. anche Mazzini 1997, 307.– [3] Cael. Aur. acut. 3, 15, 118 / 362 B ; cfr. Mazzini 1997, 307.  























Fonti. Cels. Prooem. 36 / 23 M ; Cael. Aur. acut. 3, 15, 118 / 362 B ; cfr. Mazzini 1997, 307.  



Bibliografia. Mazzini 1997, 306-307 ; Potter 2005b, 651-653.  

5.8. Malattie acute e croniche. – Malattie acute [ojxuv~, acutus, celer], e croniche [poluvcrono~, makrov~, braduv~, palaiov~, longus, tardus, uetustus], sono connotate, in primo luogo, da durata breve o lunga, onde la denominazione. Le malattie acute, cioè gravi, di solito di breve durata, [1]  











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patologia [12]

deve essere molto limitata. Già nel Corpus Hippocraticum alcune malattie acute vengono contraddistinte come malattie brevi, ma tuttavia non pericolose, [13] come la febbre di un solo giorno. [14] Soltanto presso →Areteo e Celio Aureliano la ripartizione in malattie acute e croniche vale come principio di suddivisione in libri. Tra i mali cronici sono classificati, nel Corpus Hippocraticum tisi, dissenteria, podagra, stranguria. [15] Molte altre affezioni sono ascritte alla categoria in Ps. Galeno : cefalea, epilessia, scotomi, mania, melanconia, letargo, raffreddore, raucedine, catarro, emottisi, suppurazione nel torace, consunzione, alcuni tipi di ascesso, malattia del fegato, tenesmo, dissenteria, vermi rotondi e piatti, ascaridi, sciatica, artrite, gotta, lebbra. [16] Alcune malattie croniche come idropisia [17] e febbre quartana derivano come conseguenza di una malattia acuta in coincidenza di una ‘crisi’ non terminata [18] o sono conseguenza di trattamenti terapeutici inadeguati o errati. [19] La malattia cronica, sebbene non sia mortale, può accompagnare il paziente fino alla fine della sua vita. [20] Sono attestate prescrizioni terapeutiche[21] anche per malattie croniche profonde ritenute difficili da trattare [22] oppure insanabili. [23] Una terapia sistematica fu sviluppata d’altro canto per la prima volta relativamente alla ‘patologia dei solidi’ da Temisone. [24] La terapia poteva consistere anche in misure drastiche, come digiuni e terapie di rottura, come salassi, cambi di luogo, al fine di scuotere il corpo e modificare la sua complessione. [25]  





















Note. [1] Cels. 3, 1 sgg. / 101 sgg. M ; Gal. Dieb. decr. 3, 13/ 9, 939-941 K. – [2] Hp. Acut. 2 / 2, 230-238 L ; Gal. In Hp. Acut. comm. 1, 17 / 15, 456 K. – [3] Hp. Aff. 13/ 6, 220 L ; cfr. tuttavia Aff. 30/ 6, 242 L. ; si veda Gundert 2005b, 533-534. – [4] Steph. In Hp. Aphor. comm. 1, 9 – [5] Hp. Int. 33 ; 44 / 7, 250 ; 274-278 L ; Acut. 22, 2, 502-504 L ; Cels. 3, 2, 1 / 102 M ; cfr. Gundert 2005c, 534-535. – [6] Cael. Aur. chron. 1, praef. 1-3/ 427 B ; cfr. Mazzini 1997, 301-303. – [7] Hp. Aff. 6 / 6, 214 L ; Acut. 2/ 2, 232 L ; Aër. 3/ 2, 18 L. – [8] Cael. Aur. acut. 1 prooem. ; cfr. Hp. Morb. 3, 5 / 7, 122 L. – [9] Gal. In Hp. Progn. Comm. 1, 25 / 18, 2, 79 K, cfr. In Hp. Aph. comm. 19 / 17, 2, 490 K ; Cael. Aur. acut. 1, prooem. 3. – [10] Hp. Aph. 2, 19 / 4, 474 L ; Cels. 2, 6, 18 / 59 M. – [11] Gal. Dieb. decr. 2, 12-13 / 9, 888-896 K, cfr. Mazzini 1997, 302. – [12] Hp. Aph. 1, 7 / 4, 462 L ; Aff. 61/ 6, 268 sg. ; cfr. Cels. 3, 2/ 103 M. – [13] Hp. Aff. 17/ 6, 224-226 L. – [14] Gal. In Hp. Aph. comm. 19 / 17, 2, 490 K. – [15] Hp. Morb. 1, 1/6,  

































140 L. – [16] Intro. 13/14, 738-739 K. – [17] Hp. Aff. 22/ 6, 232 sg. L ; Progn. 8 /2, 130-132 L. – [18] Gal. In Hp. Progn. comm. 1, 25 / 18, 2, 79 K. – [19] Hp. Aff. 18 / 6, 226-228 L. ; Int. 30 ; 33 ; 44 / 7, 244 sg. L ; 250 sg. ; 274-278 ; Gundert 2005c, 534. – [20] Hp. Aff. 20 / 6, 230 L ; Int. 47 / 7, 284 L. – [21] Ad es. Int. 26 / 7, 232236 L. – [22] Hp. Loc. hom. 38/ 6, 328 L ; Aff. 31 / 6, 242 L ; Cels. 3, 1 / 101-102 M ; Gal. Meth. med. 1, 9 / 10, 73 K. – [23] Hp. Morb. sacr. 5 / 6, 368 sg. L. – [24] Cael. Aur. chron. Prooem. 3. – [25] Sor. Gyn. 3, 14 sg. ; cfr. Hp. Loc. hom. 38/ 6, 328 L ; Epid. 6, 5, 13 / 5, 318 L ; Plin. nat. 28, 53.  



























Fonti. Hp. Aër. 3/ 2, 18 L ; Prog. 8 /2, 130 s. L ; Acut. 2 / 2, 230-238 L ; 22 / 2, 502-504 L ; Aph. 1, 7/ 4, 462 L ; 2, 19 / 4, 474 L ; Epid. 6, 5, 13 / 5, 318 L ; Morb. 1, 1/6, 140 L ; Aff. 6 / 6, 214 L ; 17-18 / 6, 224-228 L ; Aff. 20 / 6, 230 L ; Aff. 22/ 6, 232 sg. L ; 30-31/ 6, 242-244 L ; Loc. hom. 38/ 6, 328 L ; Aff. 13/ 6, 220-221 L ; Aff. 61/ 6, 268-270 L ; Loc. hom. 38/ 6, 328 L ; Morb. sacr. 5 / 6, 368 sg. L ; Morb. 3, 5 / 7, 122 L ; Int. 26 / 7, 232-236 L. Int. 30 ; 33 ; 44 / 7, 244 sg. L ; 250 sg. ; 274-278 ; 47 / 7, 284 L ; Cels. med. 2, 6, 18 / 59 M. 3, 1 / 101-102 M ; 3, 2 / 102-103 M ; Plin. nat. 28, 53 ; Gal. Dieb. decr. 2, 12-13 / 9, 888-896 K ; 3, 13/ 9, 939-941 K ; Meth. med. 1, 9 / 10, 73 K ; Intro. 13/14, 738-739 K. In Hp. Acut. comm. 1, 17 / 15, 456 K ; In Hp. Aphor. comm.. 1, 9 / 17, 2, 377-379 K ; In Hp. Aph. comm. 19 / 17, 2, 490 K ; In Hp. Progn. comm.1, 25 / 18, 2, 79 K ; Sor. Gyn. 3, 14s ; Cael. Aur. acut. 1 Prooem. ; Cael. Aur. chron. Prooem. 3 ; Sor.-Cael. Aur. chron. 1, praef. 1-3/ 427 B  











































































Bibliografia. Gundert 2005b, 533-534 ; Gundert 2005c, 534-535 ; Mazzini 1997, 301-303 ; Potter 2005b.  





6. Malattie relative a singoli organi. – Diversamente dalla differenziazione in categorie cui si è accennato e dalle affezioni più importanti o relativamente secondarie fin qui analizzate, le conoscenze mediche sono, nella fase più antica, almeno fino all’età ellenistica, molto vaghe, con la sola eccezione delle affezioni relative al fegato e, se vogliamo, soprattutto all’intestino e all’apparato digerente. Soltanto con la medicina di età ellenistico-romana le nozioni, le denominazioni e le terapie, anche in conseguenza di più approfondite e precise esperienze e conoscenze anatomiche, divengono più precise e funzionali (→occhi ; →cuore ; →stomaco ; →intestino ; →fegato ; →polmoni).  









7. Il paziente. – In greco si trovano spesso attestati, con significato affine a quello odierno di ‘paziente’, i participi nosevwn, [1] paqwvn, [2] bohqouvmeno~ [3] e talora anche semplicemente oJ  



patologia a[nqrwpo~.

[4]

Negli autori latini si va dall’uso di Celso, che impiega aegrotans [5] o aeger [6] o perifrasi del tipo qui … vexatur [7] a aeger o aegrotus di Celio Aureliano. [8] Il termine patiens, già usato da Plauto al superlativo [9] con il valore di ‘resistentissimo’, perdura per tutta la latinità : è attestato ad es. in Sallustio per definire la resistenza fisica di Catilina alla fame, al freddo, al sonno. [10] Per influsso della morale cristiana, che raccomanda tolleranza e resistenza a qualsiasi dolore, si è venuto affermando, nel latino tardo, per estensione, il concetto del malato che sopporta il dolore fisico, con passaggio da ‘sofferente’ a ‘paziente’. In pratica il percorso è analogo a passio, deverb. di patior, pati, ‘soffrire’, già attestato da Varrone con il senso di ‘valore morale’ (animi passio) ; solo con Cael. Aur. De morbis chronicis e De morbis acutis – nelle prime edizioni i titoli sono rispettivamente Tardarum passionum, Basel 1529, e Celerum passionum, Paris 1533 –, nel cui testo passio si alterna spesso a morbus, è attestato il significato odierno di ‘paziente’.  









Note. [1] Hp. Aph. 1, 5 / 4, 462 L. – [2] Gal. Loc. aff. 4, 8 / 8, 262 K. – [3] Gal. San. tu. 6, 3 / 6, 394 K. – [4] Hp. Art. 4 /4, 86 L. – [5] 1 Prooem. 35 / 22-23 M. – [6] 3, 6, 6 /111 M. – [7] 2, 6, 7 / 56-57 M. – [8] Cael. Aur. chron. 4, 114 ; 4, 37. – [9] Trin. 542, in un unico esempio, patientissimus. – [10] Catil. 5.  

Fonti. Hp. Epid. 1, 6 / 2, 636 L ; Fract. 30 / 3, 516-524 L ; Art. 4 /4, 86 L ; Aph. 1, 1 / 4, 458 L ; 1, 5 / 4, 462 L ; Aff. 1 / 6, 208 L ; Medic. 1 / 9, 204-206 L ; Cels. 1 Prooem. 35 / 22-23 M ; 2, 6, 7 / 56-57M ; 3, 5, 11 / 110-111 M ; 3, 6, 6-8 / 111-112 M ; Gal. San. tu. 6, 3 / 6, 394 K. Loc. aff. 4, 8 / 8, 262 K ; Cael. Aur. chron. 4, 8, 114 ; 4, 3, 37.  

























Bibliografia. Below 1953 ; Deichgräber 1982 ; Gourevitch 1997 ; Horstmanshoff 1995 ; Jori 1997 ; Kölbing 1977 ; Nijhuis 1995 ; Sandulescu 1965.  













8. Singole patologie. – Non è tra gli scopi e le finalità della presente indagine cercare corrispondenze precise tra affezioni e denominazioni antiche e mali e terminologie moderne. Ci si potrà certo imbattere, in questo lavoro, in coincidenze, anche ricorrenti, ma occorre guardarsi da facili quanto erronee identificazioni. Si cercherà di offrire al lettore un quadro sintetico delle malattie antiche più frequenti, oltre a quelle alle quali è riservata un’analisi specifica (→lebbra ; →peste ; →tisi ; →febbre, considerata nell’antichità una vera e pro 





797

pria affezione ; →idropisia ; →idrofobia ; →ittero ; →podagra ; →malattie mentali), menzionate nella letteratura medica o in quella non medica. Riportiamo qui brevi descrizioni di affezioni e patologie singole, citandone i nomi in greco e in latino. 8.1. Letargo. – La letargia [lhvqargo~, lethargus, lethargia] è descritta come una malattia acuta, molto grave, con sintomi di tosse e delirio ; è per lo più mortale, [1] analogamente alla frenite. Per la varietà di sintomi si veda anche Ippocrate Coac. : [2] i pazienti hanno tremori alle mani, sono sonnolenti ; di colorito brutto ; hanno battiti del polso lenti ; bile nelle feci etc. In un altro scritto ippocratico si legge che la condizione del letargo è la stessa della peripneumonia, ma più critica ; in genere la malattia si accompagna alla peripneumonia umida, anche se è molto più lenta ; il paziente è piuttosto debole : quando è prossimo a morte le feci sono abbondanti e acquose. [3] La medicina successiva a Ippocrate cerca di distinguere la letargia dalla frenite e dal coma e dedica a questa patologia trattazioni specifiche (cfr. Diocle, Prassagora, Asclepiade, Temisone, Sorano etc.) : è una malattia acuta con febbre violenta, continua o intermittente, pigrizia e pulsazioni e una serie di altri sintomi diversi a seconda della gravità. La terapia è costituita da fomenti di olio, flebotomia, cibi facilmente commestibili, stimolazioni a stare desto. Celso ritiene la letargia opposta alla frenite : [4] considera la letargia affezione caratterizzata da un bisogno insopprimibile di sonno, [5] con sintomi come l’irrequietezza ; alcune terapie della letargia sono, ad es., sveglia con stimoli di sternuti, bagni con acqua fredda, fomenti sulla testa rasata etc. Si ricorre a sistemi di ogni genere per tenere il paziente desto e per farlo mangiare. [6] Areteo suggerisce rimedi simili ma aggiunge ambienti stimolanti, pitture sui muri, tappeti etc. [7] Anche Celio Aureliano confonde spesso la frenite con la letargia, [8] che sarebbe una sorta di oppressione che deprime i pazienti. [9] Secondo Galeno, quando il cervello è oppresso da molto umore freddo si genera il sonno, caratteristico del coma, della letargia e di altri mali analoghi : cause determinanti di questi malanni sono umidità e freddo, singolarmente o insieme. [10]  

















































Note. [1] Hp. Morb. 2, 65 / 7, 100 L ; 3, 5 / 7, 122 L ; Acut. 2/ 2, 232 L. – [2] 1, 2, 136 / 5, 610 L. –[3] Hp. Morb. 3, 5 / 7, 122 L ; cfr. anche Mazzini 1997, 321.  





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patologia

– [4] Cfr. Cels. 3, 20, 1 / 128-129 M : Alter quoque morbus est aliter phrenetico contrarius. – [5] Cels. 3, 20 / 128-130 M. – [6] Cel. Aur. ; cfr. Mazzini 1997, 321. –[7] Aret. Cur. acut. chron. 1, 2, 1-2 / 98 H. – [8] Cael. Aur. acut. 2, 1, 1. – [9] acut. 2, 1, 3. – [10] Gal. Sympt. caus. 1, 8 / 7, 143 K ; cfr. anche Mazzini 1997, 322.  





Fonti. Hp. Acut. 2/ 2, 232 L ; Coac. 1, 2, 136 / 5, 610 L ; Morb. 2, 65 / 7, 100 L ; 3, 5 / 7, 122 L ; Cels. 3, 20 / 128-130 M. Aret. Cur. acut. chron. 1, 2, 1-2 / 98 H ; Ruf. 462-463 D R ; Sor. 130-164 ; Cael. Aur. acut. 2, 1-8/130-134b ; Gal. Sympt. caus. 1, 8 / 7, 143 K ; Orib. syn. lat. 8 add / 6, 204-205 B D M.  

















Bibliografia. Hedtkamp 1993 ; Mazzini 1997, 320-322 ; Stamatu 2005s, 567-568.

del colon causata da umori acidi. Sintomi più evidenti sono : gonfiore, inappetenza, debolezza, insonnia, con coinvolgimento di fegato e organi vicini ; la terapia consiste nella somministrazione di alimenti facilmente digeribili e assimilabili, liquidi, per lo più freddi, e in rimedi specifici, i vari tipi di kalikhv appunto.  



Fonti. Gal. Loc. aff. 6, 2/8, 388 K ; Comp. med. sec. loc. 9, 5 / 13, 302-303 K ; Orib. Eup. 4, 86 / 5, 761-764 B D M; syn. lat. 9, 14-15 / 4, 6, 298-299 B D M; syn. lat. 9 add. / 6, 302 B D M; eup. 4 lat. add. 6, 605-607 B D M.  







8.2. Angina. – Il concetto di angina (sugavgch, parasunavgch, kunavgch; angina) indica nei testi medici antichi una pluralità di forme distinte di una malattia delle vie orali per lo più mortale. [1] Presso i Greci il nome rispecchia la varietà fisica. Si distinguono in genere due forme, rispettivamente kunavgch e sunavgch : la prima forma è caratterizzata da arrossamento e forte rigonfiamento di collo e lingua, dolore di collo, abbassamento di voce, difficoltà di respirazione e anche casi di asfissia ; per la seconda forma, presso altri autori compaiono solo casi di asfissia senza altre indicazioni. [2] Il senso di ‘costrizione’ è confermato anche da Celso. [3] Delle tre forme, ben differenziate da Galeno, sopravvive nei lessici soltanto cynanche, con memoria di kunavgch. L’angina colpisce maggiormente nel periodo autunnale e invernale ; la terapia consisteva in salassi di vario tipo nella testa o nel cavo orale, nella laringotomia etc.  









Note. [1] Hp. Epid. 3 / 3, 52 sg. L ; Cels. 4, 7 / 157-159 M ; Plaut. Most. 218 ; Aret. 1, 7-9 / 109-110 H ; Alex. Trall. 4. 2, 125-145 Puschmann. – [2] Hp. Progn. 23/ 2, 174 L ; Anon. Paris. 6, 2, 1 ; Cael. Aur. acut. 3, 1, 2 sg. – [3] 2, 10, 8 / 78-79 M.  











Fonti. Hp. Prog. 23/ 2, 174-180 L ; Epid. 3 / 3, 52 sg. L ; Plaut. mos. 218 ; Cels. 2, 10, 8 / 78-79 M ; 4, 7 / 157-159 M ; Aret. 1, 7-9 /109-110 H ; Anon. Paris. 6, 2, 1 ; Cael. Aur. acut. 3, 1, 2 sg. ; Alex. Trall. 4, 2, 125-145 Puschmann.  















Bibliografia. Marcovecchio 1993, 61 ; Mazzini 1997, 341-342 ; Pérez Ibanez 1994, 279-296 ; Stamatu 2005a, 51-52.  





8.3. Colica. – La colica [kolikh; novso~, colica passio], affezione del colon, è un’infiammazione

Bibliografia. Marcovecchio 1993, 199 ; Mazzini 1997, 344.  

8.4. Morbo celiaco. – Il morbo celiaco [koiliakh; diavqesi~ ; coeliaca passio] consiste in una disfunzione dello stomaco, ‘frigido’, per cui all’intestino arrivano cibi non digeriti, che provocano rumori o cattive esalazioni. Si nota nel paziente uno stato di ‘cachessia’ : con l’aggravamento della malattia si assiste a un dimagrimento sempre più evidente, causato da nutrizione insufficiente. Le sostanze nutritive che dovrebbero procedere dallo stomaco attraverso il fegato seguono nel corpo un iter inverso. La terapia consiste in medicamenti astringenti e caldi orali e topici.  

Fonti. Aret. 74-75 ; 165-167 H ; Gal. Loc. aff. 6, 2 / 8, 388 K ; Comp. med. sec. loc. 9, 5 / 13, 302-303 K ; Orib. ; Syn. 9, 12 / 486-488 ; Syn. 9, 15 / 490-493 B D M ; Syn. lat. 9 add. 302 B D M.  









   

Bibliografia. Leven 2005a passim; Mazzini 1997, 343-344.

8.5. Colera. – Il colera [colevra, cholera] ha in comune con la malattia moderna solo il nome. Malattia acuta, caratterizzata, nel Corpus Hipp., da vomito, specialmente da bile, e deiezione. Sintomi frequenti sono crampi alla cavità del ventre, [1] estremità fredde, cachessia, [2] fino all’incoscienza, [3] abbondante e continua essudorazione. Ippocrate cita anche, accanto al ‘colera umido’, ora descritto, un ‘colera secco’. In pratica l’apparato digerente (stomaco, intestino) non fornisce alimento alle vene, ma lo sottrae ; ne consegue un’eliminazione dei cibi senza regolare digestione, sia attraverso vomito liquido, sia attraverso defecazioni putride : il paziente tende ad espellere bile nera per via orale o anale. Causa della malattia è, in pra 









patologia tica, un’alimentazione eccessiva o poco adatta. Celso[4] collega etimologicamente cholera a cholē, (bile), ma c’erano altre spiegazioni : ad es. da cholades (intestino) o choledra (canaletto d’acqua). [5] La malattia, tipica dell’estate, colpiva soprattutto ragazzi e giovani. [6] La terapia consisteva, dopo l’evacuazione completa del paziente, in infusi di acqua fredda e misure dietetiche, inoltre nell’uso di ventose[7] e medicamenti contenenti anche pepe nero e oppio. [8]  







Note. [1] Hp. Epid. 5, 10 / 5, 210 L. – [2] Anon. Paris. 13, 2. – [3] Gal. Meth. med. 1, 15 / 11, 47 K. – [4] med. 4, 18, 1 / 171-172 M. – [5] Alex. Trall. 8, 1. Puschmann 2, 320-335. – [6] Gal. Plac. Hp. et Pl. 8, 6 / 5, 695 sg. K ; Aret. 2, 5. – [7] Cael. Aur. acut. 3, 20, 198-205. [8] Gal. Comp. med. sec. loc. 7, 5 / 13, 103 sg. K.  

Fonti. Hp. Epid. 5, 10 / 5, 210 L ; Cels. med. 4, 18, 1 / 171-172 M; Anon. Paris. 13, 2; Gal. Plac. Hp. et Pl. 8, 6 / 5, 695 sg. K ; Meth. med. 1, 15 / 11, 47 K. ; Comp. med. sec. loc. 7, 5 / 13, 103 sg. K ; Aret. 2, 5 ; Cael. Aur. acut. 3, 20, 198-205 ; Alex. Trall. 8, 1, 2, 320-335 Puschmann.  











Bibliografia. Mazzini 1997, 344-345 ; Stamatu 2005k, 198-199 ; Sticker 1912, 1-5.  



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lare nella sfera dell’orecchio (gr. satyriasma). [2] La malattia consiste, come anche il verbo satyriān, in un’erezione prolungata e dolorosa del membro, che non diminuisce nemmeno con il coito, causata da un flusso continuo di sperma, oppure nel riempimento d’aria della parte. Si distingueva dal priapismo, che sarebbe stato non doloroso. [3] Sopravveniva come malattia seria, che, con il tempo, si trasformava in mortale. [4] Non si era certi se la satiriasi potesse colpire anche le donne. Rufo dedicò alla malattia uno scritto specifico. [5] La satiriasi veniva curata con freddo, salassi, misure dietetiche e purganti ; erano invece ritenuti pericolosi diuretici e immagini eccitanti, che potevano agire da afrodisiaco. [6] Satirismo indicava anche un altro tipo di malattia, che, per la modificazione delle ossa del viso[7] procurava ai pazienti aspetto di satiro. L’elemento di congiunzione con il primo tipo sopradescritto di malattia era l’impulso sessuale sfrenato dei pazienti. [8]  













Note. [1] Oser-Grote 2004. – [2] Hp. Aph. 3, 26 / 4, 498 L. – [3] Mazzini 1997, 345. – [4] Aret. 2, 12, 4 ; Ps. Gal. Def. med. 289 / 19, 426 K. – [5] Sat. Gon. – [6] Aret. 2, 12, 3 ; Ruf. Sat. Gon. 16-20, 25-27. – [7] Arist. GA, 4, 3, 768 b 34-36 ; Gal. Caus morb. 6 / 7, 22 K. – [8] Ruf. ap. Orib. Coll. 45, 28, 2.  





8.6. Gonorrea. – La gonorrea [gonovrreia, seminis lapsus], malattia da porre in relazione con la satiriasi, che può precedere o seguire, è causata da inadeguata capacità di ritenzione dei vasi spermatici, in cui ha origine e localizzazione. Consiste in un flusso incessante, giorno e notte, di sperma ; debilita e destabilizza e fa allarmare a livello psicologico i pazienti ; può colpire anche le donne, nelle quali suscita stimoli sessuali. [1] La terapia è basata su rimedi refrigeranti e astringenti, come lana imbevuta di olio di rosa, cataplasmi etc.  





Note. [1] Cfr. Mazzini 1997, 345. Fonti. Aret. 106-107 H ; Sor. 3, 50-51 B G M ; Cael. Aur. 900-902 B ; Gal. Sympt. caus. 3, 11 / 7, 267 K ; Loc. aff. 6, 6 / 8, 437-441 K.  







Bibliografia. Adams 1982b ; Mazzini 1997, 345 ; Potter-Maloney-Desautels 1990.  



8.7. Satiriasi. – Come in diverse indicazioni di malattia con suffisso in –iasis, l’idea di satiriasi (saturivasi~, satyriasis) indica uno stato morboso, con uno stato simile al ‘satiro’. [1] Nelle attestazioni più antiche, nel Corpus Hippocraticum, la satiriasi definisce un rigonfiamento ghiando 

Fonti. Hp. Aph. 3, 26 / 4, 498 ; Arist. GA 4, 3, 768 b 34-36 ; Aret. 2, 12, 3 ; 2, 12, 4 ; 4, 13, 8 ; Sor. 16-17 B G M ; Sor.-Cael. Aur. 394-402 D ; Ruf. Sat. Gon. ; Ruf. ap. Orib. Coll. 45, 28, 2 ; Gal. Caus. Morb. 6 / 7, 22 K ; Sympt. Caus. 3, 11/ 7, 266-267 K ; Loc. aff. 6, 6 / 8, 439-441 K ; Meth. med. 14, 7 / 10, 968-970 K ; Ps. Gal. Def. med. 289/ 19, 426 K ; Orib. Syn. 9, 37, 5 / 525-526 B D M ; syn. lat. 6, 329-330 B D M.  





























Bibliografia. Benedum 1975 ; Flemming 2000, 212-215 ; Gourevitch 1995 ; Leven 2005n, 768-769 ; Mazzini 1997, 345-346.  







8.8. Tetano. – Il tetano [tevtano~, tetanus], ‘tensione spamodica, rigidezza’, è attestato nel Corpus Hippocraticum con il valore di ‘tensione convulsiva’, distinto da spasmov~ : « Nelle scottature gravi lo spasmo o il tetano, cattivo segno ». [1] Si conoscono caratteristiche del male : se con il tetano non si muore in quattro giorni, ci si può ritenere guariti. [2] L’opisthotonos, ‘contrazione tonica dei muscoli posteriori del tronco’, è attestato nel Corpus Hippocraticum ad es. per indicare il segno del ‘tetano’ a causa del quale morirono due pazienti. [3] Per tetanos e opisthotonos si vedano anche altri passi del  













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patologia veterinaria [4]

Corpus. Per trattamento terapeutico relativo al tetanos si legga ad es. un passo di Morb. 3 ; [5] per cure relative all’opisthotonos si veda un passo immediatamente seguente. [6] Nella medicina latina tetanus ricorre in Celso varie volte ; [7] in un passo del l. iv Celso spiega le differenze tra opisthotonos, «che con la tensione dei nervi blocca il capo alle scapole», emprosthotonos, «che blocca il mento al petto», e tetanos vero e proprio, «che blocca immobile e rigida la cervice» : l’enciclopedista aggiunge tuttavia che spesso i nomi vengono confusi e usati senza differenza. In Scribonio ricorre sia la forma tetanos che la forma aggettivale tetanicus ; [8] ricorre anche il temine opisthotonos. [9] In Plinio si incontrano spesso i termini tetanus [10] e opisthotonos. [11] Una spiegazione precisa sul tetanus fornisce Galeno « in fatti che altro è il tetano, se non quando le parti involontariamente si contraggono al contrario dei muscoli opposti ? ». [12] Come si è già detto tetanus e le altre forme di patologia affini sono distinte dallo spasmos.  



Bibliografia. Leven 1997 passim ; Marcovecchio 1993, 606 ; 856.  



Sergio Sconocchia











   



Note. [1] Hp. Aph. 7, 13 / 4, 580 L. – [2] Hp. Aph. 5, 6 / 4, 534 L. – [3] Hp. Epid. 5, 75 / 5, 248 L. – [4] Così Coac. 2, 18, 355 / 5, 658-660 L. – [5] Morb. 3, 12 / 7, 132 L. – [6] Morb. 3, 13 / 7, 132-134 L. – [7] 2, 1, 12/ 47 M illud spasmos, hoc tetanos Graece nominatur (è distinto dallo spasmos) ; 4, 6, 1 / 156 M : Neque tamen alius inportunior acutiorque morbus est, quam is, qui quodam rigore neruorum modo caput scapulis modo mentum pectori adnectit, modo rectam et inmobilem ceruicem intendit. Primum Graeci ojpisqovtonon, sequentem ejmprosqovtonon, ultimum tevtanon appellant, quamuis minus subtiliter quidam indiscretis his nominibus utuntur. – [8] Per Scrib. Larg. si veda c. 101 S. Facit hoc medicamentum ad eos quorum musculi maxillares cum maximo dolore tensi sunt adeo, ut aperire os nullo modo possint : tetanon hoc uitium Graeci dicunt ; c. 170 tetanicis, opisthotonicis, spasmo correptis. – [9] Si veda, oltre a 170 cit., anche c. 255 Malagma ad opisthotonon, id est cum ceruix reflexa est in posteriorem partem aut rigida cum intensione musculorum aut maxillarum. – [10] nat. 20, 239 ; 23, 124 ; 25, 60 ; 26, 130. – [11] nat. 20, 31 ; 36 ; 154 e passim, anche in altri libri. – [12] Mot. musc. 1, 8 / 4, 404 K.  

















Fonti. Hp. Aph. 5, 6 / 4, 534 L ; Aph. 7, 13 / 4, 580 L ; Epid. 5, 75 / 5, 248 L ; Coac. 2, 18, 355 / 5, 658-660 L ; Morb. 3, 12 / 7, 132 L ; Morb. 3, 13 / 7, 132-134L. ; Cels. 2, 1, 12/ 47 M ; 4, 6, 1 / 156 M ; Scrib. Larg. 101 ; 170 ; 255 Plin. nat., per tetanus 20, 239 ; 23, 124 ; 25, 60 ; 26, 130 ; per opisthotonos, nat. 20, 31 ; 36 ; 154 e passim, anche in altri libri. ; Gal. Mot. musc. 1, 8 / 4, 404 K.  

































Patologia veterinaria. 1. Introduzione. – Di questa disciplina non si hanno tracce apprezzabili fino ad Aristotele che se ne occupa nell’ottavo libro della sua Historia animalium. Per la latinità comincia ad occuparsene sistematicamente Columella che si diffonde maggiormente nella descrizione delle patologie bovine, ma sono gli ippiatri e Vegezio i fondatori di questa parte della medicina veterinaria. Essi conoscevano varie affezioni dell’apparato digerente e dei suoi annessi, milza e fegato, e avevano classificato varie forme di colica, alcune malattie dell’apparato respiratorio, di quello urinario e della circolazione. Ampio spazio era dato fin da Catone a patologie infettive contagiose quali morva, peste, adenite, carbonchio, tifo, rabbia e scabbia con un crescendo nei secoli di nozioni e specificazioni che culminerà nell’epoca tardo-antica con i sette tipi di morbus maleus. “Nell’ambito di una ricerca filologica del pensiero medico-veterinario ci sembra importante sottolineare che l’interesse rivolto alle patologie osservate dagli antichi autori non debba mirare ad un indispensabile stretto collegamento fra queste e gli attuali stati clinici. Ciò per più motivi : primo perché, come abbiamo già notato riguardo agli aspetti di semiologia, i rilievi osservati non corrispondevano ad attività cliniche, bensì a semplici considerazioni sintomatologiche ; secondo perché l’evolversi della malattia era condizionata da situazioni epidemiologiche, ambientali, nutrizionali di difficile, se non impossibile, ricostruzione, terzo poiché substrati culturali e credenze magico-astrologiche condizionavano spesso assai pesantemente i tentativi di analisi scientifica. Quindi ciò che ci interessa è rilevare come perlomeno in base alle considerazioni semiologiche, fosse già stato possibile a quei tempi individuare e determinare forme morbose per le quali era già stata assunta una denominazione comunemente accettata”. [1] 2. Categorizzazione delle patologie. – Secondo le teorie aristoteliche e poi galeniche [→Aristotele e →Galeno] pur essendo unica la materia che forma le cose, le caratteristiche distintive dei corpi dipendono dalla combina 



patologia veterinaria zione delle quattro qualità elementari : il caldo, il freddo, il secco e l’umido. Di qui deriva il sistema galenico che influenzerà non solo la medicina umana ma anche gran parte delle riflessioni tardo-antiche, poiché Galeno definì lo stato di salute come il giusto equilibrio di quattro umori fondamentali [→medicina] nell’organismo : non appena questo equilibrio si altera, sopraggiunge la malattia. Una volta interpretati gli eventi patologici come una semplice conseguenza dell’eccessivo riscaldarsi, disseccarsi ed umidificarsi di una qualsiasi parte dell’organismo che si allontana dalla sua temperies naturale ne consegue anche l’individuazione delle patologie imputabili a ciascun organo. Le possibili alterazioni sono di otto tipi, quattro semplici e quattro composte, ciascuna caratterizzata dall’innaturale prevalere di una o due qualità primarie eventualmente complicate dall’afflusso di altri ‘umori’. Per quanto riguarda la pratica veterinaria uno stato morboso non sempre era causa dell’immediato arrivo del veterinario: nella prima fase patologica gli animali erano assistiti dai proprietari e dai servi che li accudivano; solo in caso di gravi malattie si faceva ricorso ad un medico che in epoca arcaica prestava le sue attenzione spesso anche agli uomini. 3. Morva [2] [ma`li~ / mhliv~, maleos]. – Riguardo alle otto tipologie di alterazioni, e solo a titolo esemplificativo, si fa riferimento alla malattia della morva considerata in ogni epoca antica la peggiore patologia contagiosa che potesse colpire un gregge o un allevamento. Attualmente è riconosciuta dalla maggior parte dei filologi e dei veterinari nella morva o farcino per i cavalli e nel cimurro per i canidi. [3] È conosciuta fin da Aristotele, [4] che la descrive come una patologia che colpiva particolarmente gli asini. La sua descrizione semiologica rispecchia sia la sottospecie polmonare che quella nasale : «questa patologia si genera nella testa e dalle narici scorre del flegma denso e rosso […]». Pur essendo causa di moltissime tipologie di affezioni ed oggetto di studi fin da epoca arcaica romana, non se ne hanno testimonianze dirette né in Catone né in Columella. [5] È con l’epoca tardo-antica che questa affezione diventa protagonista dei trattati di veterinaria ; infatti la troviamo nei primi paragrafi dei manuali già da Pelagonio[6] che però si addentra nella sua descrizione solo nei §§ 204-209. [7] Absyrto e Ierocle negli Hippiatrica riconoscono  















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tale affezione come la peggiore malattia che possa colpire cavalli, asini e muli. [8] Mentre Vegezio individua sette forme di morva, Absirto e Ierocle ne riconoscono quattro : secca (xhrav) e sottocutanea (uJpodermati`ti~), facilmente curabili ; umida (uJgrav) ed articolare (ajrqri`ti~) invece, incurabili. [9] La causa della malattia non risulta essere stata individuata con precisione nell’antichità ; si passa da motivi legati alla corruzione dell’aria a problemi congeniti per i cavalli che non hanno la vescichetta biliare. Pelagonio, che dice di riprendere la tradizione greca, afferma che i Latini definiscono la patologia della morva (leukhv, mevlaina) con i termini alba e nigra. Nella tradizione veterinaria antecedente e successiva non troviamo questi due aggettivi nelle suddivisioni della morva, [10] ma possiamo rinvenirli in riferimento alla patologia dell’impetigine umana fin da Celso. [11] Pelagonio non solo descrive tutta la sintomatologia[12] ma tenta anche di proporre svariati rimedi contro questa patologia e le sue affezioni specifiche come la malattia del suspirium [13] (e del farcimen) ad essa strettamente collegate. [14] Nell’opera di Pelagonio la morva è denominata sia con il temine malis sia con il termine morbum usato in senso assoluto e indicante, in questo caso, il morbo per eccellenza. [15] In Chirone e Vegezio, invece, il termine morbus non indicava sempre la morva (se non in contesto di patologie contagiose e usato assolutamente) ma anche altre patologie contagiose quando accompagnato da un termine che ne specificava il significato o in contesto diverso da quello della morva. In epoca tardo-antica, dunque, i veterinari avevano riconosciuto sette tipi di morva diversi : humidus, aridus, subcutaneus, articularis, elephantiacus, subrenalis, farciminosus ; a questi vanno aggiunti anche altri termini indicanti affezioni ad esse collegate o sinonimi di patologie che erano conosciute con più nomi (quello di derivazione greca e quelli di stampo popolare). Queste sette tipologie sottolineavano i sette modi in cui la patologia poteva manifestarsi o i decorsi che poteva assumere. Mentre Pelagonio ha seguito le cinque forme di morva descritte da Apsirto e da Eumelo, [16] Chirone e Vegezio sono arrivati a distinguerne fino a sette. [17] Vegezio si sofferma, unico mulomedico di epoca tardo-antica, anche sulle conseguenze di tale morbo sugli armenti. Chirone descrive la morva[18] (maleos) come la patologia da cui  

























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patologia veterinaria

non può sfuggire alcun animale con ungula rotunda (quindi tutti gli armenti) di una fattoria o di un accampamento non convenientemente isolato il prima possibile. Istituisce un paragone terribile con le altre patologie contagiose che colpiscono le altre specie animali : con la peste per l’uomo, la verago per i buoi, il circinus (vaiolo) per le greggi, l’acceus per i suini e la rabbia per i cani ; questo proprio per mettere in allarme tutti coloro che volessero sottovalutare la gravità di questa malattia. [19] La speranza di sopravvivenza dal maleos, soprattutto per alcune delle sette specie, è praticamente nulla. [20] Sulle cause della patologia Chirone e Vegezio non hanno dubbi : la morva è conseguenza di aria corrotta che in tempi intervallati causa questa malattia di stampo pestilenziale, ma Chirone si spinge a far derivare l’etimologia di questa parola proprio ex malo catastemate aeris [21] (dal pessimo clima [22]). I due mulomedici sottolineano come stanchezza, eccessivo caldo o freddo o spossatezza non potrebbero mai causare una patologia di stampo pestilenziale, ma valitudines o aegritudines, cioè affezioni gravi, ma non contagiose che arrivano a colpire un solo animale alla volta. [23] Delle sette tipologie di affezioni descritte da Vegezio e Chirone, ad oggi, solo alcune hanno avuto identificazione certa[24] : il morbus humidus è stato identificato con la morva nasale, il morbus subcutaneus o farciminosus con la morva cutanea o con il farcino (una patologia a carico della cute), il morbus aridus o sicca con la morva polmonare. [25] Per le altre forme sono state fatte delle ipotesi : per il morbus articularis o arthritis è proposta l’identificazione con la morva articolare da collegare alla podagra; il morbus elephantiotes è oggetto di continue ricerche ed è associato al morbus farciminosus. [26] 4. Malattie infettive. – Passiamo ora ad analizzare brevemente le altre malattie epidemiche [→patologia] che causavano, e causano, pestilenze quali le patologie legate alla peste [loimov~, pestilentia], alla lebbra [levpra, lepra], alla scabbia [ywvra, scabies] e alla rabbia [maniva, luvssa, rabies]. In tutta l’antichità si ebbe la nozione di contagio da peste [27] cioè da malattia che si diffonde e semina morte, [28] ma è stato Varrone il primo ad aver specificato le norme da seguire affinché il contagio non si propagasse : «In caso di peste si consiglia di dividere le greggi in piccoli gruppi, di isolare i capi malati, di non avvicinarsi ai pascoli e  





















alle zone colpite». [29] Purtroppo contro la peste che si diffonde rapidamente non si trova nessun’altra protezione se non l’intervento degli dei ; si subiscono questi flagelli come una testimonianza della loro potenza o come manifestazione della loro collera. Verosimilmente molte delle forme antiche di epidemie sono scomparse nel corso dei secoli oppure si sono profondamente modificate e sussistono sotto forme difficilmente riconoscibili: ecco perché ad oggi è poco vantaggioso, oltre un certo limite, cercare di identificare con precisione eccessiva le malattie contagiose del passato con quelle attuali. Per quasi venti secoli una ‘peste’ molto grave ha colpito, con brevi interruzioni, le rive del bacino orientale del Mediterraneo da dove è risalita verso l’Occidente e l’Europa centrale. Questa epidemia non è attualmente riconoscibile pur essendo noti tutti i suoi sintomi : inizia improvvisamente con tremiti e febbre alta, disseccamento delle mucose e respiro affannoso, seguono tosse e espettorazioni con tracce di sangue ; segue poi la morte. È la stessa epidemia che anche Tucidide descrive in maniera così tragica e realistica che è possibile rendersi ben conto della gravità della situazione. [30] Virgilio non esagera quando descrive in che situazione erano le campagne dopo la comparsa della peste bovina nel Norico : «I morbi non assalgono i corpi singolarmente, ma gli interi pascoli estivi / […] Qui un tempo per infezione del cielo sorse/ una miseranda stagione e arse tutto il calore dell’autunno/ e diede a morte ogni specie di animali e di fiere/ […] così i vitelli muoiono ovunque fra le erbe rigogliose / ed esalano le dolci anime presso le greppie ricolme/ così la rabbia coglie i festosi cani ed un’ansante tosse / scuote i maiali infermi e li strozza con il gonfiore delle fauci. / Scivola sventurato il cavallo vittorioso, rifugge le fonti e batte spesso / il terreno con lo zoccolo, le orecchie abbassate ivi intorno / uno strano sudore che poi si fa freddo di morte, / arida la pelle dura e resistente al tatto. / Mostrano questi segni nei primi giorni avanti la morte / allora gli occhi divampano, il respiro è tratto dal profondo / talvolta incupito da un lamento ed il basso ventre / si tende in un singulto esce dalle narici un tetro / sangue e la ruvida lingua preme ostruendo le fauci. / […] non era più usabile il cuoio, nessuno poteva / detergere con acqua le carni o purgarle alla fiamma ; / e nemmeno tosare la lana corrosa dal male e  











patologia veterinaria dal sudiciume, / e toccare quelle tele putride quando tessute ; / ma se anche qualcuno provava quei panni nocivi / brucianti pustole e un sudore immondo coprivano / le sue fetide membra e poi senza lungo indugio / di tempo il fuoco sacro (sacer ignis) divorava le membra contagiate[31] ». Dalla descrizione virgiliana del ‘fuoco sacro’ nelle sue molteplici forme, alcuni studiosi sembrano ravvisare il tipico sfogo del carbonchio oppure la peripneumonia del bue o la febbre tifoidea del cavallo o il vaiolo degli ovini e la rabbia canina. 4.1. Antrace [e{rph~ ejsqiovmeno~, e{rph~ zwsthvr, ejrusivpela~, ignis sacer ]. – Nella medicina greca l’ignis sacer era indicato con l’e{rph~ ejsqiovmeno~ o e{rph~ zwsthvr. Per queste affezioni si veda anche →patologia. Entrambi sono derivati dal termine herpes [32] indicante affezioni anche molto differenti tra loro, ma accomunate da lesioni cutanee [33] per la maggior parte ulcerative, come i cancri alla pelle, il lupus, l’eczema, l’erisipela e l’impetigine. Nella patologia veterinaria tarda troviamo indicazione circa l’herpes negli Hippiatrica. [34] Oggi sembra possibile associare tale patologia al lupus eritematoso sistemico negli umani, mentre in veterinaria sono riconosciute varie patologie che potrebbero essere collegate all’ignis sacer, tra cui il carbonchio ematico detto antrace. Aristotele dà alcune sommarie indicazioni di questo tipo di patologie tipiche, a suo dire, dei maiali : si riferisce in particolare a due, dette bravgco~ e krau`ra. Nello specifico con la prima patologia e con la malattia dei maiali «detti pustolosi» si tende ad individuare o il carbonchio ematico-antrace [35] o l’afta epizootica [36] visto che i sintomi descritti da Aristotele per la prima affezione sono : «infiammazione delle mascelle e dei bronchi, si sviluppa anche sul corpo e spesso attacca il piede e l’orecchio fino ad arrivare ai polmoni». Per la seconda affezione, invece, è possibile individuare i seguenti sintomi «sono pustolosi i maiali che hanno carni flaccide nelle zampe [...]. I maiali pustolosi presentano segni evidenti : hanno pustole nella parte inferiore della lingua e se si strappano dei peli dalla criniera questi appaiono insanguinati ; inoltre quelli che hanno pustole non sono in grado di tenere fermi i piedi posteriori ». [37] La patologia dell’ignis sacer in veterinaria era conosciuta fin da Virgilio [38] e Columella che ne dà una descrizione precisa e particolareggiata. [39] Anche questo secondo autore considera la malattia come infettiva e  















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quindi è possibile annoverarla, anche per la patologia veterinaria, tra le malattie endemiche ed epidemiche così come la rogna e la scabbia, di cui accenneremo tra breve. 4.2. Scabbia e rogna [levpra, ywvra, scabies, lepra]. – Per designare invece la scabbia e la rogna troviamo in greco ed in latino diversi termini che, nelle loro specificità, riportano ad affezioni cutanee più o meno contagiose o gravi. Nella veterinaria greca possiamo leggere termini quali levpra [40] e ywvra [41] indicanti entrambi patologie che rendono squamosa la pelle ; la prima non è assimilabile all’attuale lebbra mentre la seconda ha forti somiglianze con la rogna degli animali ma anche con altre patologie simili quali l’impetigine e le malattie erpetiche. Nella veterinaria latina troviamo molti termini relativi a questo tipo di malattie, da lepra e scabies a termini popolari: [42] cfr. la scabies che Catone riferisce a tutti gli altri quadrupedi da fattoria probabilmente colpiti dalla stessa patologia (agr. 96, 2 eodem in omnes quadripedes utito, si scabrae erunt). 5. Patologie a carico degli organi interni – patologie dell’apparato digerente. – Molte erano le patologie a carico del sistema digerente; poiché gli organi interni non erano stati studiati approfonditamente (il sezionamento di animali vivi era estremamente raro), anche le affezioni a carico del sistema digerente erano descritte quasi esclusivamente attraverso la sintomatologia che appariva all’esterno. Eppure in epoca tarda le conoscenze di malattie a carico del sistema digerente erano tante : negli Hippiatrica è possibile individuare disturbi digestivi, malattie dello stomaco, coliche, indigestioni, sovralimentazioni, diarrea, torsione e rottura degli intestini, stasi alimentare, timpanite, rovesciamento del retto, ernie e malattie del fegato. Non potendo descrivere tutte le patologie conosciute nell’antichità ci limiteremo a quelle più gravi o attualmente riconoscibili. 5.1. Bolsaggine [pneumovrrwx, vulsus]. – Un animale affetto da bolsaggine è colpito da affezioni a carico del sistema respiratorio, [43] ma gli antichi ritenevano che tali difficoltà respiratorie derivassero dalla rottura di qualche organo interno. [44] In epoca medievale l’animale affetto da vulsus o pulcino è un animale che mostra una sintomatologia caratteristica : si batte i fianchi. In epoca tardo-antica romana invece, la sintomatologia tipica è tutta incentrata sul verbo glutinare [45] e sul termine ruptus [46] poi 





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ché, appunto, le difficoltà respiratorie erano considerate conseguenza di una rottura di organi interni [47] causata dall’eccessivo galoppo o da ripetuti salti. [48] Gli organi danneggiati, in un secondo momento si sono cicatrizzati, ma proprio questo meccanismo naturale ha provocato nell’animale pruriti interni, irritazioni [49] e tosse. [50] Solo Vegezio [51] descrive anche il cavallo che si batte il fianco, ma tale affermazione era collegata esclusivamente a difficoltà respiratorie. Il termine vulsus è di derivazione popolare ma diventa termine tecnico di patologia veterinaria. Negli Hippiatrica si riscontra la stessa sintomatologia ma per Apsirto [52] e Teomnesto [53] sono i polmoni a rompersi e quindi a provocare tosse mentre per Vegezio e Chirone la tosse è provocata dalla rottura degli ilia genericamente definiti come ‘intestini’. 5.2. Mal di stomaco [kardiakov~, cardiacus]. – Questa patologia è stata spesso causa di discussione tra gli studiosi poiché il termine kardiva ha una doppia valenza anatomica : può riguardare sia il cuore sia la parte superiore dello stomaco. Negli ultimi anni si sta facendo strada l’ipotesi di una patologia recante dolore al ventre più che al cuore, ma studiosi come Moulé l’hanno intesa come una pericardite cronica. [54] Probabilmente questa affezione annoverava i sintomi dell’una e dell’altra malattia, ma i veterinari antichi non sapevano distinguere quale organo fosse la causa di tale sintomatologia. [55] Per gli Hippiatrica segni tipici sono : occhi lacrimosi e sguardo abbassato, essudorazione abbondante anche a riposo in particolar modo sulla testa, debolezza cronica, fianchi e ventre gonfi e sollevati, passo malfermo che all’ultimo stadio, durante la marcia, fa cedere le ginocchia e crollare l’animale al suolo. Teomnesto, in particolare, segnala tra gli altri anche rJeu`ma, cioè «scolo di umori», affaticamento accompagnato da spasmi e un generale malessere del corpo dell’animale con particolari sofferenze alla testa. [56] Anche Aristotele annovera questa patologia tra quelle che possono colpire i cavalli definendola come un dolore che può subentrare al cardias con dolore ai fianchi. [57] Pelagonio riferisce gli stessi sintomi che abbiamo riportato negli Hippiatrica, ma indirettamente amplia la sintomatologia quando, riportando la cura per le coliche, afferma che non tutti sono in grado di distinguere i dolori delle coliche da quelli provocati dal morbo cardiacus. [58] Sia in Chirone, sia in Pelagonio sia in Vegezio  



questa patologia è associata alla rabbia : entrambe mostrano segni di instabilità mentale dell’animale ; [59] per questo motivo non solo vengono associate, ma sono fatte derivare dalla stessa causa. [60] Vegezio, infatti, elenca le tre malattie una di seguito all’altra, nel secondo libro, all’interno del capitolo De valetudinibus capitis a cui seguono, appunto patologie quali : De apioso, De frenetico, De cardiacis, de rabioso. [61] In Chirone il collegamento tra una patologia a carico del sistema nervoso e il morbo cardiacus è reso ancora più esplicito quando l’autore afferma che «se non viene curato il dolore alla testa questo può portare l’animale a diventare apiosus, insanus, rabiosus e cardiacus». 5.3. Coliche, spasmi, crampi, torsioni [strovfo~, tumpanivth~, eijleov~, tortio, strophus, coli dolor, tormina-tormenta, ileus]. – Tra le patologie a carico dell’apparato digerente dobbiamo inserire tutte le affezioni che provocano coliche, spasmi, torsioni del ventre e crampi. Questa particolare area sintomatologica è costellata da innumerevoli termini che ancora oggi hanno un’area semantica non netta (sebbene sia possibile fare qualche distinzione). La terminologia veterinaria si è avvalsa soprattutto di calchi e prestiti dal greco per descrivere le coliche e tutto quanto ad esse associato. [62] La colica propriamente detta o la congestione intestinale era detta strovfo~ , [63] lat. tortio - strophus - coli dolor. Gli animali che soffrono di coli dolor hanno dolore al colon ovvero all’intestino crasso ; la colica vera e propria è da intendersi quando è usato il termine strophus o il termine tortio. L’origine dei termini deriva dal fatto che l’animale, a causa dei dolori, si volta spesso in direzione del fianco [64] oppure dalla torsione dello stesso intestino ; [65] in particolare tortio è calco del greco strovfo~, ma, in Vegezio, il termine è usato come sintomo di una patologia a carico del colon, mentre strophus indica il nome proprio dell’affezione [66] (in Pelagonio e Chirone tortio non è usuale ed il significato specifico per questi autori non è chiaro). Tutti questi termini, nella maggior parte dei casi, sono usati da autori latini di epoca tarda (eccezion fatta per tormina) ; infatti in Columella, pur trovando patologie relative all’apparato digerente dei bovini e degli ovini, si riscontrano soltanto termini più generici. Questo autore ricorda anche la cruditas cioè l’indigestione i cui sintomi sono il ventre gonfio e teso, gorgoglii continui, avversione per il cibo e per l’acqua. [67] C. prose 











patologia veterinaria gue dicendo che se non curata, l’indigestione porta al gonfiore del ventre e ad un successivo dolore agli intestini tanto forte che l’animale non solo smette completamente di mangiare ma si lamenta e langue. [68] Unico termine tecnico di patologia che C. annovera in questo capitolo è interaninum vitium da collegarsi, forse, alla tormina/tormenta (sebbene la sintomatologia descritta sia diversa da quella della colica intestinale : quorum signum est cruenta et muccosa ventris proluvies [69]). Negli studi di veterinaria tarda non c’è ancora sicurezza sul significato dei termini tormina/tormenta : probabilmente il primo indica una colica intestinale, mentre il secondo generici dolori intestinali. [70] In questo ambito la veterinaria latina è, come assai spesso, debitrice alla lingua greca ; infatti, già Aristotele parlava espressamente di coliche con il termine eijleov~ (che analizzeremo tra breve), definendole con sintomi del tipo ‘trascinamento delle zampe posteriori tanto da far inciampare l’animale su quelle anteriori’. [71] È però agli Hippiatrica che si deve guardare per quanto riguarda la terminologia della patologia relativa all’apparato digerente infatti termini quali strophus [72] e ileus [73] sono di chiara derivazione greco-ippiatrica. 5.4. Colica intestinale [eijleov~, tumpanivth~, ileus, tympanites]. – Le due malattie erano considerate molto simili sia nella veterinaria greca sia nella veterinaria latina. L’area semantica che copre queste due coppie di termini è quella dei dolori intestinali dovuti a coliche, sebbene nella veterinaria latina tarda ogni autore assegni a questi due termini sfumature diverse. Chirone, [74] ad esempio, associa direttamente la malattia dell’ileus con quella del tympanites, dalla quale, pur essendo simili, Vegezio, invece, distingue la prima. Il termine ileus stava ad indicare un dolore provocato dalla torsione dell’intestino, ma ha subìto mutamenti semantici nel corso del tempo sia nella medicina umana che in quella veterinaria. Chirone, riprendendo Absirto, [75] lo intende proprio nel significato di torsione dell’intestino, [76] mentre in Vegezio assume più propriamente il senso di colica intestinale. [77] 6. Patologie dell’apparato respiratorio. – La veterinaria sia greca sia latina conosceva alcune delle malattie legate all’apparato respiratorio : asma, tosse, alcune patologie polmonari e altre come il vulsus, il suspirium ed il morbus cardiacus. Per contro era conosciuta la tosse  







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(tussis) che il più delle volte, soprattutto in Vegezio, era associata alle varie forme di morbus maleos e non ad affezioni dell’apparato polmonare. Per quanto riguarda la veterinaria latina riscontriamo, fin da Columella, particolare apprensione e cura per le malattie a carico del sistema respiratorio : si era già capito che patologie di questo tipo potevano, in qualche modo, cronicizzarsi e, a lungo andare, portare l’animale alla morte ; già Columella conosce la phthisis come una patologia che può avere conseguenze letali per l’animale. [78] Per questo autore, inoltre, le affezioni più pericolose sono quelle polmonari a carattere ulceroso, di tipo tubercolare, i cui sintomi principali sono : tosse, macilenza e etisia. 6.1. Asma [ojrqovpnoia, orthopnoea]. – Questa patologia si riferisce ad animali che hanno generiche difficoltà di respirazione; in Chirone e Pelagonio il termine è anche un sinonimo, di derivazione greca, del suspirium, patologia che rientra nella sfera del morbus maleos humidus. La sua etimologia ha portato gli studiosi a pensare che si trattasse di una patologia di natura respiratoria o che arrecasse gravi disturbi alla respirazione stessa: infatti, orthopnoea indica l’impossibilità di respirare con il collo dritto. Tutto questo ha fatto sì che gli studiosi propendessero sia per una patologia affine alla morva, sia per affezioni polmonari quali l’enfisema polmonare e la dispnea, sia per una sintomatologia affine a quella dell’animale vulsus. [79] 6.2. Angina [sunavgch, kunavgch, synanche] –. Questa è un’affezione del cavo orofaringeo, la sintomatologia presenta una chiusura della trachea tale da creare problemi alla respirazione anche gravi e difficoltà nel mangiare e nel bere. [80] Per Vegezio la malattia è causata, secondo la teoria umorale, da un eccesso di umori vischiosi e biancastri (catarro ?) nella zona orofaringea che fa gonfiare trachea, tonsille e ghiandole causando il soffocamento. [81] Chirone afferma che questa patologia era detta anche stranguilia [82] parola che potrebbe aver portato al termine volgare di stranguglione (affezione che nella sua sintomatologia annovera enfiamento della zona tracheale di ghiandole e conseguente rigonfiamento di bocca e labbra, infine produzione di liquidi che non permettono al cavallo di respirare con conseguenti spasmi [83]). Il termine synanche è prestito dal greco sunavgch - kunavgch, si deve ad Absirto, in quanto fonte di Chirone, tutto  







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quello che i veterinari greci e latini hanno appreso di questa patologia. Apsirto afferma che questa patologia causa l’infiammazione della gola e della trachea detta bravgco~ : [84] questo termine ci rimanda anche ad Aristotele che con bravgco~ definisce una patologia la cui sintomatologia prevede «un’infiammazione delle mascelle e dei bronchi […] finché non arriva ai polmoni».[85] Anche la tosse (tussis) era considerata una malattia a carico dell’apparato respiratorio; se ne riconoscevano diversi tipi : cotidiana, gravis, sicca, vetus (cronica), recens, quae de faucibus nascitur, quae pulmonibus nascitur e viatoria. [86] Molto spesso questo sintomo era associato alla malattia della morva secca o umida a seconda che la tosse fosse stizzosa o grassa accompagnata da fluidi quali il catarro o dal suspirium o dalla synanche, [87] ma si poteva trovare nei manuali di veterinaria anche come malattia a se stante o come sintomo di altre affezioni respiratorie. Nella Mulomedicina Chironis possiamo anche leggere l’aggettivo tussicus in relazione alla teoria umorale ed alle affezioni che scaturiscono dall’eccesso dei vari umori. In questo ambito il termine tussicus è collegato sia a malattia dell’apparato nervoso [88] sia a patologia a carico del sistema respiratorio. [89] 6.3. Patologie neurologiche. – All’interno del gruppo delle patologie che noi oggi definiamo ‘neurologiche’ i veterinari greci e romani consideravano una vasta gamma di affezioni : vi erano comprese, infatti, malattie a carico del capo, ma anche patologie comportamentali oltre a quelle che colpivano propriamente il sistema nervoso ; anche la rabbia era ritenuta tale poiché alterava il comportamento degli animali. Accade soprattutto a questo gruppo di affezioni così come alle malattie a carico della cute degli animali che i signa siano confusi con la patologia stessa : spesso troviamo nei manuali di tutte le epoche che sintomi quali le vertigini, la sonnolenza acuta, le paralisi totali o parziali, i colpi di sole sono considerati veri e propri morbi piuttosto che segni di altre malattie. Particolari attenzioni sono state rivolte a questo gruppo di patologie dagli ippiatri e dai veterinari latini del iv secolo d.C. che avevano individuato varie lesioni del sistema nervoso come la paraplegia, l’epilessia, la vertigine, la commozione cerebrale così come patologie che colpivano l’intero sistema, quali il tetano, l’epilessia e la follia (Plin. nat. hippomanes [90]). 6.4. Epilessia [ejpilhyiva, ejpilhptikov~, epilep 









sia]. – Accenniamo solo brevemente all’epilessia, che non è soltanto una patologia riconosciuta nell’uomo, ma anche negli animali. Tra gli autori di veterinaria, Vegezio [91] e Chirone [92] si sono distinti tra gli altri sia per la descrizione sintomatologica sia per l’abbondanza di sinonimi, anche di derivazione popolare, utilizzati nelle loro descrizioni : epilepsia, morbus caducus, [93] epilenticus. [94] 6.5. Rabbia [luvssa, rabies, apiosus/lunaticus]. – La storia della rabbia [95] nel mondo antico è senza dubbio uno degli argomenti più studiati. I termini ‘rabbia’ e ‘rabbioso’ sono già presenti nella Grecia omerica : Teucros è detto un ‘cane rabbioso’. Alcune descrizioni greche e romane riferiscono della rabbia in modo abbastanza simile alla malattia che conosciamo oggi, poiché si credeva che si trasmettesse all’uomo attraverso il morso del cane. Aristotele la descrive come una malattia già classificata e ben conosciuta ai suoi tempi ; ritiene che si trasmetta dal cane ad altri animali, ma non ammette che l’uomo possa esserne contagiato: «infatti, l’animale affetto da rabbia diventa folle e furioso : è in questo momento che morde e, mordendo, infetta tutti gli altri animali ad eccezione dell’uomo». [96] Plinio il Vecchio scriveva che i cani sono particolarmente inclini alla rabbia durante la stagione calda e, al fine di prevenire la malattia, propone di fare mangiare loro escrementi di gallina. L’enciclopedista ha, inoltre, attribuito la rabbia canina all’esistenza di un piccolo verme (luvssa), situato sotto il frenulo della lingua del cane che ne rendeva impossibile una definitiva cura. Secondo Columella i cavalli non incorrono frequentemente nella rabbia, causata esclusivamente dalla visione della propria immagine nell’acqua, a cui segue anoressia e deperimento : probabilmente Columella sta descrivendo il sintomo tipico della rabbia, ovvero l’idrofobia, percependola come causa e non come sintomo. Per quanto riguarda gli autori di epoca tardo-antica si può qui ricordare che la rabbia è associata a tutte quelle patologie che creano disturbi mentali [97] e che il termine rabiosus è stato in parte sostituito da altri, quali apiosus, paraliticus, insanus, freneticus-frenetikov~ e lunaticus. [98] I primi sintomi descritti da Pelagonio sono quelli tipici della rabbia furiosa, ma in un secondo momento dell’evoluzione patologica prevalgono, invece, quelli della rabbia paralitica. [99] Vegezio è l’autore che descrive la rabbia con maggiore  









patologia veterinaria dovizia di particolari inserendola tra le affezioni che colpiscono la testa : per questo autore la causa di tale malattia è da ricercare in un’emorragia cerebrale [100] e non in cause esterne. L’autore, in particolare, dedica due paragrafi alla malattia : il primo sotto il nome de apioso e l’altro dal titolo de rabioso ; nella stessa sezione, inoltre, è possibile leggere paragrafi dedicati alla patologia dell’insania. La sintomatologia che Vegezio descrive non è dissimile da quella di Chirone e da quella di Pelagonio; secondo questo autore i rischi di essere assaliti dalla malattia sono sempre elevati. [101] Tra i termini sopra descritti insanus e freneticus sono semplicemente derivazione dalla sintomatologia; qualche problema filologico lo creano apiosus e lunaticus. Recenti studi sembrano aver dimostrato che apiosus e lunaticus sono collegati fra loro poiché entrambi «derivano dal medesimo termine greco selhnivth~ (equus lunaticus) che per effetto dello itacismo è diventato selinivth~ e quindi sevlinon (sedano o prezzemolo) che tradotto in latino è apium». [102] 6.6. Tetano [103] [ojpisqovtono~, ejmprosqovtono~, tevtano~, opisthotonus(!), tetanus]. – La terminologia antica utilizzata per definire quella che oggi è detta la malattia del tetano ha subito modifiche sia semantiche che linguistiche. Si possono individuare, infatti, almeno tre passaggi che hanno portato alla definizione attuale dei termini scientifici che definiscono questa patologia. La veterinaria greca, in special modo l’ippiatria di epoca tarda, usava tre termini tecnici: [104] ojpisqovtono~, ejmprosqovtono~ e tevtano~. La prima coppia era usata specificatamente per la categoria di sintomi relativi al treno posteriore (ed anteriore) del cavallo : rigidità totale delle zampe (da o[pisqen ‘posteriormente’ e tovno~ ‘tensione’) che causa cadute a terra ed impossibilità di camminare all’indietro. Il terzo termine, invece, indicava genericamente la rigidità dell’animale soprattutto in riferimento a collo, orecchie e bocca che, nella fase acuta della malattia, diventano completamente immobili e rigidi, come legno di quercia – diranno i veterinari latini di epoca tarda [105] (robur/roborosus). [106] Secondo Aristotele i cavalli potevano contrarre il tetano che si manifestava con tensione di tutte le vene della testa e del collo, con gli arti rigidi nella marcia e con accessi di spasmi. [107] Nella veterinaria latina tardo-antica si va perdendo la differenza tra ojpisqovtono~ e tevtano~, che vengono usati  







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quasi indifferentemente sia nella loro forma greca sia nella forma latina. Questa patologia era stata ben individuata dagli antichi in molte delle sue specificità : la sintomatologia era stata ben distinta [108] dalle altre malattie a carico del sistema nervoso ed era stato già appurato che quando un animale era stato gravemente ferito o ustionato o aveva subito amputazioni sopraggiungeva la patologia del tetano. [109] Gli antichi, quindi, non avevano intuito che questa patologia sopraggiungeva a causa di un’infezione (un motivo di insorgenza era stato individuato nel congelamento provocato dall’eccessivo freddo [110]). 7. Oftalmologia. – L’oftalmologia ricopriva un ruolo importante nella cura degli animali con lo zoccolo, in special modo degli equini e dei buoi, la cui vista era fondamentale per svolgere le loro funzioni all’interno delle fattorie, degli eserciti o dei circhi. Per quanto riguarda le patologie equine particolarmente attenti sono stati gli ippiatri greci di epoca tarda così come, tra i latini, Chirone, Vegezio e Pelagonio, che dedicano interi capitoli alle affezioni degli occhi. Anche la chirurgia oftalmologica era abbastanza in uso soprattutto per l’operazione alla cataratta e l’asportazione di oggetti nell’orbita oculare. Erano conosciute e in qualche modo curate la cataratta, l’ulcera corneale, lo stafiloma, lo pterigio, l’entropion. Absirto, inoltre, afferma che alcune affezioni degli occhi sono ereditarie e che, quindi, gli animali da acquistare devono essere valutati anche sotto questo aspetto. Se era prevedibile che la vista degli equini fosse tenuta in particolar conto, non deve sorprendere che un autore come Columella dedichi, invece, attenzioni anche agli armenti. Descrivendo alcune delle più pericolose patologie dell’occhio, riconosce come gravi pericoli patologie quali il gonfiore, l’intumescenza del bulbo e l’albugine, sintomi peculiari della blefarocongiuntivite e della cheratite infettiva. Nel caso della blefarocongiuntivite viene consigliata l’applicazione di miele, misto ad acqua e farina di grano, nella cheratite invece sale ammoniaco mescolato al miele, oppure osso di seppia polverizzato e ‘insufflato’ dentro negli occhi per tre giorni. [111] Ci limiteremo qui a segnalare alcune patologie tra le più frequenti o temute ; seppur non descritte in questo luogo, molte altre erano le patologie oftalmiche conosciute e curate dalla veterinaria greca e latina, tra le quali, ad esem 



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pio, annoveriamo traumi oculari o bulbari, cicatrici, congiuntiviti, irritazioni ed estrazione di corpi estranei dall’orbita. 7.1. Glaucoma [leuvkwma, glauvkwma, a[rgemon, glaucoma, albus, albugo]. – Con questi termini si volevano indicare diverse affezioni che portavano la cornea oculare a diventare progressivamente bianca con una conseguente perdita della vista. Tra le patologie indicate con questi termini, probabilmente, è da annoverarsi anche la cataratta. Il biancore dell’occhio era causato, secondo gli ippiatri, da colpi all’occhio e non da una patologia congenita. [112] 7.2. Pterigio [pteruvgion]. – Questa particolare patologia era stata individuata e descritta soprattutto dagli ippiatri greci. Era considerata di difficilissima guarigione, poiché causata da un umore bianco che progressivamente distruggeva tutto quanto dell’occhio si trova al di sotto della palpebra. [113] Questi umori sono accumuli densi e grassi di succhi, sangue e flegma provenienti dalla testa che si espandevano «quasi divorando» quanto c’è nell’occhio. [114] 7.3. Cataratta [uJpovcusi~, suffusio oculorum]. – Di questa patologia parlano diffusamente soprattutto Chirone e Vegezio per la veterinaria latina tarda, ma non mancano diffusi accenni negli Hippiatrica [115] ed in Pelagonio. [116] I due mulomedici ne distinguono tre tipologie diverse ma portano tutte all’opacizzazione del cristallino e alla conseguente diminuzione della vista : [117] stenocoriasis, platycoriasis, hypocoriasis. [118] La prima patologia porta all’atrofizzazione della pupilla e alla conseguente perdita totale della vista ; la seconda, invece, alla dilatazione della stessa senza possibilità di cura alcuna ; la terza, infine, alla discesa dalla testa nell’occhio di umori. La platycoriasis è stata riconosciuta da Moulé come amaurasi. Chirone si distanza abbastanza da quanto riportato successivamente da Vegezio. Non solo inverte e modifica leggermente il nome delle tre affezioni causate dalla suffusio, ma integra quanto riassunto da Vegezio con altre informazioni : infatti afferma che queste tre forme nascono a causa dell’epifora, cioè dalla lacrimazione dagli occhi di umori provenienti dalla testa, [119] inoltre crea un collegamento molto stretto tra l’hypochima ed il claucoma (sic!). [120] Sia per Vegezio che per Chirone questa patina (cataratta) può essere eliminata solo chirurgicamente (paracentesis). 7.4. Uveite equina [121] o ‘mal della luna’ [uJavlwma, oculus lunaticus]. – Questa patologia, cono 







sciuta a tutt’oggi con la definizione antica, è descritta in maniera estremamente chiara da Chirone quando afferma che causa, a fasi alterne, l’opacizzazione dell’occhio che sembra diventare del colore della luna piena; l’opacità come la luna, compare e scompare. [122] Infine, diversamente che negli Hippiatrica, [123] nella Mulomedicina Chironis è ben sottolineato che se l’occhio lacrima non può essere colpito da cataratta (suffusio oculorum) ma dal male della luna. [124] 7.5. Epifora [ejpiforav, epiphora ]. – Questa patologia (oggi meglio definita come sintomo) indicava la lacrimazione continua degli occhi ed era conosciuta e descritta nella veterinaria sia greca [125] sia latina; [126] in epoca tarda il termine epiphora è attestato in Vegezio nella descrizione di patologie equine e bovine, ma è solo in riferimento a queste ultime che l’autore descrive sinteticamente la sintomatologia. [127] Pelagonio, Vegezio (nella sezione del manuale dedicato agli equini [128]) e Chirone si limitano ad elencarne le cure senza dare una spiegazione ulteriore al termine. [129] 7.6. Eetropion [130] [tricivasi~, trichiasis]. – Anche questa patologia era conosciuta in antico così come al giorno d’oggi con lo stesso termine, ma aveva un’area semantica più ristretta di quella attuale, poiché indicava esclusivamente l’inversione della posizione delle ciglia che andavano a ferire gli occhi del cavallo. Chirone e Vegezio ce ne danno una spiegazione più che esaustiva. Il primo non usa la perifrasi vegeziana, dando per assodato che il termine trichiasis, calco dal greco, fosse sufficientemente chiaro; [131] mentre Vegezio si sofferma nell’analisi dei disturbi conseguenti all’irritazione continua delle ciglia negli occhi. [132] 7.7. Podologia. – Nella clinica veterinaria la podologia ha ricoperto un ruolo fondamentale fin da epoca arcaica : né i Greci né i Romani conoscevano l’arte della ferratura e, quindi, la cura del piede e dello zoccolo degli animali doveva prevenire gravi patologie del tutto invalidanti per l’animale colpito, così come tentare di risolvere affezioni gravi e spesso irreversibili. Esistevano mezzi per la protezione degli zoccoli, tra i quali stivaletti in pelle o altro materiale, adatti a contenere empiastri medicamentosi [133] e l’ipposandalo. Questo era il più diffuso metodo per preservare gli zoccoli degli animali (specialmente dei cavalli) insieme a sacchetti di garze di lino per impacchi da appli 

patologia veterinaria care agli zoccoli e da allacciare poco sopra, ma questi ‘rimedi’ potevano essere solo temporanei. Il primo rimedio, infatti, oltre ad essere estremamente scomodo per l’animale stesso, non consentiva un’andatura né veloce né sicura, poiché su terreni accidentati non lasciava libertà di movimento all’animale ; il secondo, invece, era utilizzabile esclusivamente quando l’animale era tenuto fermo; infatti le garze si rompevano con facilità sia per il peso, sia per lo sfregamento sul terreno sia perché spesso contenevano liquidi che ne ammorbidivano le fibre e ne facilitavano l’abrasione. Abbiamo tracce archeologiche dell’ipposandalo : era costituito da una piastra di ferro con i bordi laterali rialzati e muniti di un anello anteriore, posto su di un gambo piegato leggermente all’indietro e di un gancio posteriore rivolto verso il basso, così che la piastra fosse fissata allo zoccolo tramite lacci. Questo strumento doveva servire a proteggere lo zoccolo del cavallo durante le marce in terreni accidentati e scoscesi così come in fase di guarigione. L’unica vera possibilità di salvaguardare la salute del piede del proprio animale per i Greci ed i Romani era la prevenzione. Fondamentale era la scelta di cavalli o di animali da tiro con i piedi sani. Questi dovevano avere unghioni spessi, duri al tatto, che risuonassero come cembali sul terreno (koivlh oJplhv) ; i cavalli dovevano inoltre avere zoccoli dritti e concavi[134]. Non erano consigliati cavalli che avessero il piede piatto, la parete dello zoccolo troppo svasata, il tallone molto aperto, la suola piatta e sottile (malakovpou~ ponhrov~) con le barre laterali troppo inclinate e una forchetta voluminosa ma troppo ‘schiacciata’, perché il piede era troppo esposto agli accidenti del terreno e rischiava di essere ferito durante le marce di guerra su terreni pericolosi. [135] Nello stesso tempo consigliavano di non pulire troppo frequentemente con acqua gli zoccoli dei cavalli poiché c’era pericolo di indebolirne l’unghione, [136] di non rimetterli in stalle umide o con il terreno bagnato e pavimentate con pietre della dimensione degli zoccoli, non piane, ma estremamente ravvicinate così da far rinforzare lo zoccolo del puledro. [137] Gli ippiatri di epoca tarda avevano tanto affinato la cura e la scelta di animali con tali caratteristiche che un cavallo considerato per l’epoca ottimo oggi sarebbe scartato, perché la conformazione del piede risulterebbe troppo rigida e non in grado di ammortizzare eventuali shock  





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improvvisi sullo zoccolo. Molte erano le patologie che potevano colpire gli zoccoli del cavallo : dall’usura alla rottura dell’unghione, ad escrescenze tumorali e riversamenti di sangue, dalle ferite per trauma a quelle causate dal lavoro nei campi ; inoltre vi erano la laminite [138] [kriqivasi~, suffusio pedum] e la podagra, malattie tra le più temute. Non erano nemmeno trascurate le fratture interne anche se non erano adeguatamente conosciute ; è per questo motivo che nei trattati di veterinaria troviamo capitoli dedicati ai vari tipi di zoppía che il cavallo poteva assumere. Questa poteva nascere anche a causa del cosiddetto ‘piede incasellato’ : uno zoccolo che non aveva ammortizzatori naturali poteva, a lungo andare, produrre soprossi e subire traumi alle articolazioni distali. Un piede così conformato poteva incorrere in ‘setole’ cioè in fratture ascendenti, discendenti o trasversali della scatola cornea dello zoccolo tanto profonde da arrivare al vivo del piede stesso. Non era trascurata nemmeno la cura degli zoccoli di armenti quali i buoi, poiché la loro utilità venire meno nel caso di piedi malati ; anche in questo caso, la prevenzione era uno degli aspetti più importanti: Catone consiglia di prevenire la loro consunzione cospargendo l’unghione di pece liquida. [139] Vegezio dedica più di un paragrafo, nel quarto libro del suo manuale, alla cura preventiva degli zoccoli degli armenti, preoccupato che comportamenti sbagliati o superficiali da parte dei fattori causassero nell’animale serie patologie. [140] All’interno della podologia, i veterinari greci e latini distinguevano (con maggiore o minore accuratezza a seconda degli autori) le affezioni che colpivano indistintamente gli arti anteriori o posteriori, quelle tipiche esclusivamente di una coppia di arti, le patologie delle articolazioni, quelle della zona inferiore delle zampe, dei piedi propriamente detti e dell’unghia. Gli arti anteriori spesso erano colpiti da qualche frattura [kavtagma, fractura] causate dall’uso di attrezzi da lavoro o da ostacoli : venivano riconosciute anche quelle che colpivano il ginocchio ed il garretto. Le fratture erano considerate inguaribili, ma venivano ugualmente ridotte e legate strette. [141] Molte erano le patologie che potevano colpire le articolazioni : tra le più pericolose erano considerate quelle del ginocchio e del garretto, ma ve ne erano altre che potevano colpire i nervi ed i muscoli. Queste lesioni potevano avere varia natura e consi 













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stenza : accumulo di vescichette [uJdativ~, rJeu`ma, aquatilia] piene di liquido purulento nelle articolazioni delle gambe [142] e, più nello specifico, del garretto ; [143] rigonfiamenti [flegmonhv, rJeuvmata eij~ ta; govnata ejmpivptonta, flevmina, flemina] alle ginocchia [144] caratterizzati da tumori molli, dolorosi al tatto ; [145] escrescenze di varia natura più dure al tatto [pw`ro~, mavrmaro~, [146] ossilago, marmora, duritiola] come le esostosi nella giuntura del metatarso o del metacarpo. [147] Vi erano poi patologie tipiche del piede che però avevano forti collegamenti con altre affezioni che non rientrano strettamente nella podologia come l’impetigo, l’uligo [148] e la podagra. Il pericolo più grande rimaneva comunque il danneggiamento dell’unghione del piede, poiché provocava zoppia. [149] Questa poteva essere provocata da innumerevoli fattori sia interni sia esterni all’animale come quando il vomere incideva o tagliava via l’unghia dei buoi attaccati all’attrezzo. [150]  





Note [1] Brunori Cianti 1993, 39. – [2] Fischer 1991, 351-365 ; Viré 1998, 260-275. – [3] “La morva (detta farcino perché a volte compaiono sotto la cute dei noduletti o dei cordoni linfatici che degenerano poi in piaghe) è una malattia altamente contagiosa a decorso grave, rara nell’uomo e frequente negli equini, dovuta a infezione dello Pseudomonas mallei. La morva è una delle più antiche malattie conosciute ed interessava una volta tutto il mondo. Lo Pseudomonas mallei è presente nell’essudato nasale di animali infetti in ulcere cutanee e la malattia si contrae di solito per ingestione di cibo o di acqua contaminato dallo scolo nasale di animali portatori. La morva ha incubazione di 2 settimane circa ; provoca setticemia e febbre elevata fino a 41°C seguita da denso scolo nasale, muco purulento e sintomi respiratori con morte entro pochi giorni. La forma cronica è comune nel cavallo e si traduce in un quadro di debilitazione con lesioni nodulari o ulcerative in sede nasale o cutanea. Esistono tre tipi di morva equina che possono coesistere nello stesso animale: la forma nasale, la forma polmonare e la forma cutanea. […] Il cimurro (o morva Canina) è una malattia infettiva contagiosa da virus filtrabile (paramixovirus) strettamente correlato ai virus del morbillo e della peste bovina. È caratterizzata da febbre, leucopenia, catarro gastro-intestinale e respiratorio oltre che da complicazioni neurologiche e polmonari. I sintomi possono essere concomitanti a scolo nasale sieroso, mucopurulento e anoressia” (Merck 1995, 427 e 463). – [4] Arist. HA 8, 25,605a, 190, 16-23 oiJ d∆ on[ oi nosous ` i mavlista novson mivan, h}n  



kalou`si mhlivda

[…]. – [5] Fischer 1991, 351-365. – [6] Pelagon. 23. – [7] Pelagon. 204 Periculosissimum vitium est, malim id multi vocant […] Graeci ita dividunts ajrqrit` in, uJgravn, xeravn, leukhvn, mevlainan, quae Latini articularem, umidam, siccam, albam, nigram appellant. – [8] Hippiatr. 2,1, cHg i, 13, 19-22 ep j ideixv w soi to; megv iston arj rwsv thma twn` em j piptonv twn eij~ aut j ouv~, exj ou| ouj ra/diwv ~ anj aferv ei to; kthn` o~∑ e[sti de; to; paq v o~, o} kalous` in oiJ polloi; mal ` in, tine;~ de; katarv roun […]; Hippiatr. 2,10, cHg i, 18, 11-22 th`~ kaloumenv h~ malv ew~, o} megv iston a]n nomizv oito twn` ar j rwsthmatv wn kai; sfalerwt v aton, es[ ti genv h tesv sara. – [9] Hippiatr. 2, 7, cHg i, 16, 22 sg. – [10] Fischer 1980, 113 “dividunt malim albam et nigram alibi non inveni”. – [11] Cels. 5, 28, 17 B / 250-251 M Inpetiginis vero species sunt quattuor. […] Tertia etiamnum deterior est: nam et crassior est et durior et magis tumet […]. Quartum genus est […] distans colore: nam subalbidum est et recenti cicatrici simile ; squamulasque habet , quasdam lenticulae similes, quibus demptis nonnumquam profluit sanguis. Alioqui vero humor eius albidus est, cutis dura atque fissa est. Lo studio delle malattie dermatologiche afferenti all’impetigine umana e veterinaria sta mettendo in evidenza analogie. – [12] Pelagon. 204 signa eius talia sunt. Toto corpore concidit, naribus reddit umida et aquam multam bibit, tussit duriter et restertit, claudicat pedibus alternis, furfurem ex auribus reddit easque flaccidas gerit, corium male olet. – [13] Pelagonio associa il termine suspirium anche con la patologia della tosse: quindi è ipotizzabile che fuori dal contesto del morbus maleos questo termine indicasse una patologia a carico dei polmoni che provocasse anche la tosse e quindi una patologia asmatica (Pelagon. 96 ad tussem siccam et ad arteria constricta et ad suspirium et ad spasmum ; Pelagon. 102 ad tussem vel ad suspirium). Nell’ambito del morbus maleos, invece, l’autore descrive i segni della morva polmonare nelle pecore (Pelagon. 205 item aliter ad suspirium quod Graeci orthopnoean vocant. cognoscitur autem cum iumentum nares arrectas habet purulentaque emittit et crebrius ilia attrahit oculosque habet arrectiores.). Chirone nell’ambito del morbus maleos usa il termine suspirium sia come suo stretto sinonimo (Chiron 164 de morbo qui appellatur maleos, quem quidam profluvium Atticum vocaverunt. alii artritem hunc vocant graece, quod latine articularium dicitur, quem et alii [hunc morbum] suspirium dixerunt […] morbus verissime vocatur maleos.) sia in riferimento ad un particolare tipo di morva, cioè quella secca che non concede scampo all’animale infetto (Chiron 170 aridus haec facit signa. cui nullus humor per nares videtur profluere, suspirat graviter, […] quem suspirium vocant, qui nec pluribus diebus vivet, ut superius humidus ; Chiron 344 de morbo qui appellatur maleos, quem quidam pro 





patologia veterinaria fluvium appellant, quod latine suspirium appellatur. verissime autem continebit hic morbus appellationis nomen arthritis, quae latine articularia dicunt). – [14] Suspirium indica nella Mulomedicina Chironis l’affezione della morva secca o polmonare mentre nella veterinaria tardo-antica è sinonimo generico di morbus maleos e nella medicina umana l’affezione dell’asma. I Greci usavano termini quali dusv pnoia, a[sqma e ojrqop v noia. Negli Hippiatrica (Hippiatr. 2,1, chg i 13,22) troviamo il termine suspirium. Ortoleva 1999, 133 ; Adams 1995, 300-302 ; Fischer 1980, 112-113. – [15] Ortoleva 1999, 130 ; Adams 1995, 295, 296 ; Gitton-Ripoll 2003. – [16] Eumel. Hipp. Par. 30. – [17] Tuttavia Chirone in 350 afferma che le forme di morbus maleos sono solo quattro riprendendo quindi la tradizione di Absirto: sunt autem genera maleos 4or humida, arida, articularis et succutane. et harum […] sunt aliquae sanabiles, aliae insanabiles, alia quidam difficiliter sanantur. In quest’ambito dà ulteriori spiegazioni circa l’unica tipologia veramente incurabile cioè il mobus aridus detto suspirium quaemadmodum supra scriptum est. nam illa insanabilis est arida, et quae per nares nullam pituitatem adferet. […] ; 363 xxvii Si suspirium aridum habuerit, sic intelligis. suspirat graviter et ilia introrsus nimis adducet, cervice recta et capite erecto, in obliquo tensis oculis attonite respiciet, et graviter suspirans sonitus dat ipsius spiritus […] cui nulla pituita per nares neque per os effluet [et] unde suspirium aridum dictum est. […] xxviii Suspirium si erit umidum (alii vero succutaneum) sic cognoscis. de naribus mucci ei exeunt crassi et putridi, et tussiet valde nec cibum nec potum appetit […]. – [18] Chirone riporta altri termini per indicare questa patologia (Chiron 164). – [19] Chiron 165 hic enim maleos morbus si evenerit, ut aliquod iumentum possideat in grege, et hic si non velocius separetur longinqua regione pascuae, illius gregis omnia iumenta coinquinat, et inde morbo omnia consumit. – [20] Chiron 166. – [21] Chiron 165. – [22] Ortoleva 1999, 145. Chiron 191 item rationem huius morbi, unde nascitur, inquirere debemus. multi dixerunt ex defatigatione aut ex feno aut ex frigore aut ex alia aliqua plectoria hunc morbum maleos nasci […] propria autem ratio huius morbi nascendi haec est ex catastemate aeris et coinquinatione pestifera austro vento flante. – [23] Veg. mulom. 1, 17, 4-5 Cuius morbi causas plurimi mulomedicinae auctores reddere temptaverunt, asserentes ex nimia lassitudine cursus [vel saltus] violenter extorti, aut ex caloribus aestatis vel ex perfricationibus hiemis […]. Maleus autem morbus ex aeris praecipue corruptione descendit. – [24] Viré 1998, 260-275. – [25] È solo con Vegezio che abbiamo la totale sovrapposizione del termine suspirium con la patologia specifica della morva polmonare ovvero con il morbus maleos aridus poiché fino a Chirone quest’associazione pur presente non  









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era esclusiva. – [26] Fischer 1980, 138 “morbus farciminosus mulomedicis antiquies genus malis, quod et elephantiasis vocabatur, erat ; esse potest tam Malleus (cutaneus) quam Melioidosis, Dermatitis pustolosa contagiosa, Lymphangitis ulcerosa equorum, Lymphangitis epizootica”; Adams 1995, 297-300. – [27] La parola pestilentia è attestata fin dal Carmen Saliare riportato da Festo (p. 210) avertas morbum mortem labem nebulam impetiginem. – [28] Langholf 1990, 164-179 ; Bodson 1991, 233234 ; Nutton 1983. – [29] Varr. r.r. 2, 3, 8-9 Quid dicam de earum sanitate, quae numquam sunt sanae? Nisi tamen illud unum quaedam scripta habere magistros pecoris, quibus remediis utantur ad morbos quosdam earum ac vulneratum corpus, quod usu venit iis saepe, quod inter se cornibus pugnant atque in spinosis locis pascuntur […]. Itaque in agro Gallico greges plures potius faciunt quam magnos, quod in magnis cito existat pestilentia, quae ad perniciem eum perducat. – [30] Th. 2, 47-51 (Trad. di E. Savino) « Si trovavano in Attica da non molti giorni quando prese a serpeggiare in Atene l’epidemia. […] I medici nulla potevano per fronteggiare questo morbo nuovo. […] Ora chiunque esperto o profano di scienza medica può esprimere quanto ha appreso e pensa sull’epidemia dove si possa verosimilmente individuare il focolaio infettivo originario e quali fattori siano sufficienti per far degenerare con così grave e funesta cadenza la situazione. […] Gli altri senza motivo visibile all’improvviso mentre fino a quell’attimo erano perfettamente sani erano dapprima assaliti da forti vampe al capo. Contemporaneo l’arrossamento e l’infiammato enfiarsi degli occhi. All’interno organi come la laringe e la lingua prendevano subito a buttare sangue. Il respiro esalava irregolare e fetido. In breve il male calava nel petto con violenti attacchi di tosse […] tutti gli uccelli e i quadrupedi che si cibavano di cadaveri umani; questa volta non si accostavano oppure morivano dopo averne mangiato. Ma di indizi ancora più visibili della situazione erano offerti dal comportamento dei cani per il loro costume di passar la vita tra gli uomini ». – [31] Verg. georg. 3, 474-514 (trad. di L. Canali). – [32] Vedi Beswick 1962, 214-232 ; cfr. anche →patologia. – [33] Herpes: forma di dermatosi infiammatoria caratterizzata dall’insorgenza di chiazze eritematose su cui si formano in un secondo tempo delle vescicole tondeggianti. L’herpes zoster è un’affezione neurocutanea che ha un andamento per lo più mite, anche se i sintomi sono fastidiosi, non infettiva. Lungo il decorso di un nervo cutaneo, in genere del torace, appaiono dei piccoli punti arrossati che si trasformano in vescicole. Questa eruzione è accompagnata da prurito intenso e fastidiosissimo. – [34] Hippiatr. 58,1, chg i 247, 15-23 ginv etaiv ti difqer v ion up J o; thn; burv san leukonv , wJ~ mudan` ton;  











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tovpon, e[nqa uJpovkeitai oJ eJrphsthv~. – [35] “Sinto-

matologia del carbonchio ematico nella sua forma più comune si presenta come una setticemia caratterizzata da decorso rapido e fatale. Nei casi acuti, nel bovino e negli ovini, si osserva un brusco innalzarsi della temperatura corporea, una fase di eccitazione seguita da depressione, disturbi respiratori e cardiaci, barcollamenti, convulsione e morte. Le infezioni di tipo cronico sono caratterizzate da gonfiori sottocutanei localizzati di tipo edematoso, che possono risultare anche generalizzati” (Merck, 1995, 363-364). – [36] “Sintomatologia dell’afta epizootica affezione virale acuta, ad elevata contagiosità, che colpisce gli animali domestici e selvatici ad unghia fessa. La malattia è caratterizzata inizialmente da lesioni vescicolari, successivamente da erosioni dell’epitelio della bocca, delle narici, del fusello, dei piedi, dei capezzoli, della mammella e dei pilastri del rumine. Gli ospiti naturali sono il bovino, il suino e gli ovi-caprini […]. Dopo la comparsa delle vescicole si possono individuare anche zoppia e forte salivazione” (Merck, 1995, 385-386). – [37] Trad. di L. Carboni ; Arist. HA 8, 21, 603b. – [38] Virgilio nel terzo libro delle Georgiche descrivendo la peste nel Norico non fa altro che descrivere la tragedia del riacutizzarsi del morbo dell’antrace chiamato appunto ignis sacer. – [39] Colum. 7, 5 Est etiam insanabilis sacer ignis, quam pusulam vocant pastores. Ea nisi conpescitur intra primam pecudem, quae tali malo correpta est, universum gregem contagione prosternit, […]. – [40] Hippiatr. 118, chg i 379, 10 peri; lep v ra~ iaj vsew~. – [41] Hippiatr. 69, 5, chg i 270, 25-31 ywr v a~ prog v nwsi~ kai; ia[ si~. Prwt` on men; to; swm ` a yilout ` ai kai; ap j oleukout` ai kai; sunesv pastai, kai; lepidv e~ ap j oxuov ntai, kai; poreuev tai probainv wn puknon; kai; mikron; dia; to; sunespas v qai. – [42] Cat. agr. 96, 1 Oves ne scabrae fiant. – [43] Adams 1990, 153-162. – [44] Veg. mulom. 1, 11,12 ; 2, 129, 3-4 ; 2, 106. – [45] Pelagon. 463 glutinosa ad vulsos. – [46] Veg. mulom. 1, 11, 12 quam etiam tussientibus vel vulsis ruptisque animalibus per triduum dabis. – [47] Veg. mulom. 1, 27, 1 xxvii De opisthotonicis vulsis colicis strophosis et qui morbo subrenali tenentur, unde sanguis tollendus sit. Opisthotonicis, vel qui morbo subrenali laeduntur, vulsis etiam, colicis et quibus venter frequenter dolet. – [48] Veg. mulom. 2, 129, 3 De tussi ab interioribus. […] Nam cursu nimio vel latiore saltu cum vexata ilia fuerint, haec nascitur causa […]. – [49] Veg. mulom. 2, 129, 3 Sive igitur ex suprascriptis sive ex aliis causis interioribus nata fuerint vulnera. – [50] Pelagon. 71 Curae et medicinae ad tusses omnes vel ad vulsos ; Pelagon. 113 ad vulsos sive tussientes. – [51] Veg. mulom. 3, 45. – [52] Hippiatr. 6, 1, chg i 43, 4 ; Hippiatr. 7, 6, chg i 46, 19 ; Hippiatr. 6, 4, chg i 44, 2 sg. – [53] Hippiatr. 7, 6, chg i 46, 5 sg. – [54] Moulé 1891, 80. – [55] Ortoleva 1999, 156 ; Sévil 













la 1921, 209-234 ; Sévilla 1923, 522-535 ; 590-595 ; 658-665 ; 703-713. – [56] Hippiatr. 29, 1, chg i 146, 9 ; Hippiatr. 29, 4, chg i 147, 15 ; Hippiatr. 29, 6, chg i 148, 10. – [57] Arist. HA 8, 24,186, 16-17. – [58] Pelagon. 287. – [59] Veg. mulom. 2, 4 iv De cardiacis […] Quae valetudo mentis alienatione et corporis sudore monstratur, ex qua difficillime liberantur. – [60] Fischer 1980, 135. – [61] Veg. mulom. 2, 1-5. – [62] Adams 1995, 270-271. – [63] Sévilla 1923, 247-287 ; Doyen Higuet 2007 ; Doyen Higuet 1984, 111-120. – [64] Ortoleva 1999, 164, in riferimento di quanto riportato da Vegezio (1, 43, 2). – [65] Adams 1995, 272. – [66] Veg. mulom. 1, 43, 1 Sunt animalia quibus assidue ventris intervenit dolor, qui strophus appellatur et hac ratione concipitur. – [67] Colum. 6, 7, 6. – [68] Colum. 6, 7, 3. – [69] Colum. 6, 7, 2. Si veda anche Cat. agr. 126 Ad tormina et si aluus non consistet et si taeniae et lumbrici molesti erunt. – [70] Adams 1995, 271. – [71] Arist. HA 8, 24, 604b, 29-32. – [72] Hippiatr. 45, chg i 216-220. – [73] Hippiatr. 126, chg i 382383. – [74] Chiron 215. – [75] Hippiatr. 33, 4, chg i 165, 20. – [76] Adams 1995, 280. – [77] Ortoleva 1999, 175. – [78] Colum. 6, 14, 1 Est etiam illa gravis pernicies, cum pulmones exulcerantur. Inde tussis et macies et ad ultimum phthisis invadit. – [79] GittonRipoll 2003, 28. – [80] Ortoleva 1999,169 ; Adams 1995, 370-371. – [81] Veg. mulom. 1, 38, 3. – [82] Chiron 323 ix De sinacen. si quod iumentum sinacicum factum fuerit anguina, latine stranguilia, haec signa demonstrabit. Haec cito periculum vitae facit ab ligatione temporum [per] lingua eius procadet foras. et eis similiter caput et oculi tument, et obturatur eius gula et ipsa arteria faucium, et nec manducare potest nec bibere nec se extendere. – [83] Brunori Cianti 1993, 123124. – [84] Hippiatr. 19, 1, chg i 4, 3. – [85] Trad. Vegetti. Arist. HA 8, 21, 603a, 30-32 w|n e}n men; kaleit ` ai bragv co~, enj w/| malv ista ta; peri; siagonv a~ kai; ta; brag v cia flegmainv ei. – [86] Pelagon. 6, 16-22 ; Colum. 6, 10. – [87] Pelagon. 97 Ad tussem veterem et ad suspirium et ad anhelitum et ad synanchen. – [88] Chiron 155. – [89] Chiron 155 a pulmone humor crassus, sanguilentus et male odoratus et colore pallido. ex qua causa fiunt peripleumonici, vomicosi, ortopnoici et tussici. – [90] Bologni-Ciampi 2005, 71: “L’ippomane, hippomanes, è un’escrescenza che hanno sulla fronte i puledri appena nati, che le cavalle staccano leccandola. Le proprietà attribuite a questa escrescenza non sono altro che il frutto di credenze magiche e stregonesche. Gli stessi attributi favolosi sono dati al polion, emesso dalle cavalle prima di iniziare la gestazione del puledro. (Infatti era credenza degli antichi Greci e Latini che l’ippomane avesse il potere di rendere gli uomini forsennati di amore dopo essersene cibati. Allo stesso modo, inghiottire l’umore viscido, polion, emesso dalla vulva della cavalla durante l’estro, avrebbe prodotto una forte eccitazione  



















patologia veterinaria sessuale)”. – [91] Veg. mulom. 2, 97, 1 quadam ratione lunatica animalia sicut homines repente corruunt et intermoriuntur. Quorum ista sunt signa iacentia contremiscunt, salivae per os effluunt, desperata pro mortuis repente consurgunt et pabulum appetunt. – [92] Chiron 311 De emplectico, id est epilentico. si emplecticum factum fuerit, sic eum cognosces. erit autem totus obligatus, et quasi constrictus pedibus ambulabit, et subnatat a pedibus et rectum ambulare non potest conligationis beneficio, et in parietibus impinget. – [93] Chiron 330 xiii De caduco. si quod iumentum caducum fuerit. hos autem caducos luna traducet nova ; cum decresceret et minuet, sic caducitas mentis dimidia. signa quae sunt accipere, noli hunc tenere. gyrat, sicut mola, oricula curva, dextra cervix vertitur, pedibus contundet. tunc cadet, tanquam occidatur, qui equus iacet per horam [...]. – [94] Chiron 341 xxi De paralytico sive epilentico. – [95] “La rabbia è provocata da una encefalomielite virale acuta che colpisce tutti gli animali a sangue caldo. I soggetti rabidi di tutte le specie presentano sintomi tipici di anomalia del snc, con minime variabilità caratteristiche. Il decorso clinico particolarmente nel cane può essere suddiviso in tre fasi prodromica, eccitativa e paralitica. In tutti gli animali il primo sintomo è una modificazione del comportamento. Dopo i primi tre giorni gli animali o presentano manifestazioni paralitiche o diventano aggressivi. Talvolta si hanno convulsioni.” (Merck, 1995, 707-711). – [96] Arist. HA 8, 21. – [97] Chiron, 986 si quod iumentum apiosum erit, sic eum intelligis. caput suum in praesepium inpellit, oculi non palpebrant, extensi sunt, subito spasmum patiuntur. et cum illum a loco suo petere voles, si non illum tenueris, cadet. – [98] Pelagon. 404-406, tit xxviiii De rabie vel de cursu lunae vel de insania vel de paralytico; Veg. mulom. 1, 25, 2 Cephalargicis autem, apiosis, insanis, cardiacis, caducis, freneticis, distentis, sideraticis, rabiosis […] praecipitur de venis auricularum sanguinem demere. – [99] Pelagon. 404 Solet insania equum tenere, qui praesepium frangit seque morsu lacerat impetumque in homines facit, auriculis micat, oculis est arrectis et splendidis, spumas agit. – [100] Veg. mulom. 2, 2 Ceterum cum noxius sanguis membranam cerebri ex una parte pertuderit et eandem dolore nimio coeperit praegravare, efficitur animal apiosum. – [101] Veg. mulom. 2, 5, 1 Quodsi apiosum similis passio thoracis invenerit, facit continuo rabiosum. – [102] Bompadre-Magni-Cinotti 2008, 3-8. – [103] “Tossiemia causata da una neuro tossina specifica elaborata a livello di tessuti infetti con clostridium tetani. Di solito questa tossina viene assorbita dai nervi motori locali per passare, per via nervosa, al midollo spinale dove provoca il tetano ascendente. La tossina determina contrazioni spastiche, toniche, della muscolatura volontaria a causa dell’irritazione delle cellule nervose. I riflessi aumentano di intensità e movimenti  

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improvvisi o rumori provocano nell’animale la comparsa di spasmi violenti e generalizzati. La contrazione dei muscoli della testa è causa di difficoltà nell’assunzione e nella masticazione del cibo, donde il riferimento comune la trisma. Nel cavallo le orecchie sono portate rette, la coda è rigida ed estesa, le narici dilatate, mentre la membrana nittitante appare prolassata. La deambulazione, l’indietreggiare e il voltare diventano difficoltosi. Spasmi a carico del collo e della muscolatura del dorso causano estensione della testa, mentre l’irrigidimento della muscolatura degli arti inducono ad una stazione a tripode. Spesso si ha sudorazione. Le contrazioni generalizzate inducono a disturbi circolatori, e respiratori, conseguente aumento delle pulsazioni, aumento della frequenza respiratoria e congestione delle mucose. Pecore, capre e suini spesso cadono a terra e presentano opistotono se stimolati.” (Merck, 1995, 375-376). – [104] Hippiatr. 34, chg i 177-192. – [105] Adams 1995 “this use of roburi is an identification or metaphor of a type seen in other popular names of diseases in veterinary Latin.” (293). – [106] Veg. mulom. 2, 88, 1 Roborosa passio dicitur, quae animal rigidum facit ad similitudimen ligni. […] Contingit autem haec passio ex nimia perfricatione vel spasmo nervorum vel tremore, unde et tetanici dicti sunt. – [107] Arist. HA 8, 24, 604b, 4-6 lambanv ei de; kai; tetv ano~∑ shmeio` n d∆ aiJ fleb v e~ tetv antai pas` ai kai; kefalh; kai; auc j hnv , kai; probainv ei euq j esv i toi`~ skelv esin. – [108] Pelagonio ancora distingue tra l’uso del termine opisthotonos per il tetano che colpisce la parte anteriore del cavallo (Pelagon. 267-275) ed il termine robur per il tetano che colpisce la parte posteriore del cavallo (Pelagon. 294-301). Lo stesso accade nel testo vegeziano. Chirone, invece, non sembra condividere questa distinzione ; Chiron 315 viii De rovoroso. quodcunque iumentum rovorosum fuerit, quem quidam tetanicum dicunt. hic autem ab aliis opisthotonus appellatur. – [109] Veg. mulom. 2, 88, 2-3 Plerumque in hanc valetudinem incidunt, qui, cum ab igne castrati fuerint, negliguntur et inambulantes frigore laeduntur. Quorum nervi recenti dolore et frigore compellente spasmum patiuntur et obdurescunt in robur […] fieri assolent roborosi. Sed si a posteriore parte fuerint deprehensi ut morbosus desidat in lumbos, opisthotonici fiunt. – [110] Moulé 1891, 84. – [111] Pugliese-Cananzi-Pugliese 2003, 87-92. – [112] Hippiatr. 11, 1-2, chg i 62, 12-18 Quando nell’occhio vi è sovrabbondanza di umori, questo è colpito da glaucoma (glaukv wma) o albugine (ar[ gemon) o caligine (acj luv~) o irritazione (paratv riyi~) o contusione (plhghv) cosicché diventa bianco (w{ste leukanqhn` ai ton; of j qalmonv ). – [113] Hippiatr. 12, 6, chg i 77, 3-9. – [114] Hippiatr. 11, 39, chg i 69, 20. – [115] Hippiatr. 11, 44, chg i 71, 17. – [116] Pelagon. 442. – [117] Adams 1995, 262 ;  



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pelagonio

Moulé 1891, 1, 88. – [118] Veg. mulom. 2, 16 ; Chiron 67. – [119] Chiron 67. – [120] Chiron 71 novam tamen claucomam sic intelliges in oculo primo super ipsam pupillae diffusionem vitreo similem cum candore leve natam. – [121] I segni clinici di uveite equina acuta comprendono vari gradi di blefarospasmo, lacrimazione, fotofobia, turgore dei vasi congiuntivali e ciliari, edema corneale periferico con vascolarizzazione, opacità dell’umore acqueo, ipopion o ipoema, miosi, iride opaca e edematosa, ipotono bulbare, infiammazione del vitreo e vasculite retinica o infiammazione peripapillare. – [122] Chiron 77. – [123] Hippiatr. 11, 46, chg i 62, 12 sg. – [124] Chiron 529 si lacrimaverit, taliter intelligis nullam esse suffusionem. hi autem solent et lunatici dici […] hi autem humores, qui temporibus crescunt, lunatici esse appellantur. – [125] Hippiatr. 11, 36, chg i 69, 3-8 pro;~ peplhgmenv on of j qalmon; kai; pro;~ ep j iforav~. – [126] Colum. 6, 17, 8 epiphoram supprimit polenta consparsa mulsa aqua, et in supercilia genasque inposita. – [127] Veg. mulom. 4, 23 xxiii Contra lacrimas. Si genae humorem profundunt lacrimisque visus obtunditur, quam epiforam vocant, polenta ex hordeo mulsa […]. – [128] Veg. mulom. 2, 22, 3 Oculorum epiphoram infra oculum detractus sanguis emendat. – [129] Pelagon. 412 Epifora sic curabis. – [130] Inversione in parte o per intero del margine palpebrale che può interessare una o entrambe le palpebre ed i ‘canti’. L’inversione delle ciglia o dei peli della faccia crea ulteriore disagio, irritazione congiuntivale e corneale e, se si protrae, causa cicatrizzazione corneale, pigmentazione e a volte ulcerazione. – [131] Chiron 64 iv Quodcunque iumentum in oculis trichiasim patietur, id est, ut palpebra eius superiora ulterius cilia infertent, sic eum curato. – [132] Veg. mulom. 2, 15, 1 Quodcunque iumentum in oculis trichiasin patietur, i. ut pili aliam palpebram urentes lacrimas moveant visumque conturbent, hac ratione curatur […]. – [133] Colum. 6, 12, 1 Postea linamenta sale atque aceto inbuta adplicantur, ac solea spartea pes induitur « Dopo di questo si applicano bende imbevute di sale ed aceto, e si avvolge il piede in una soletta di sparto ». – [134] Xen. Eq.1, 3-4. – [135] Hippiatr. 1, 115, 2, chg i 373, 8. – [136] Xen. Eq. 5, 9. – [137] Xen. Eq. 4, 1-5. – [138] Adams 1995, 262-267. – [139] Cat. agr. 72 Boves ne pedes subterant, priusquam in viam quoquam ages, pice liquida cornua infima unguito. – [140] Veg. mulom. 4, 1, 3-5. – [141] Hippiatr. 26, 7-13, chg i 127-129 ; Chiron 583-584-588 ; Veg. mulom. 2, 47 De fractura articuli crucis vel coxae. – [142] Hippiatr. 77, 2, chg i 293, 24 sg. ; Chiron 607 xxiii Si quod iumentum aquatilia habuerit in articulis ; Veg. mulom. 2, 49, 1 Si aquatilia in articulis vel in gambis fuerint, frigido ferro omnino non sunt tangenda, ne abundantia humoris iumento discrimen importet. – [143] Adams 1995, 239-243. – [144] Moulé 1891, 97 ; Adams 1995, 243247 ; Fischer 1977, 108-109. – [145] Hippiatr. 51, 1,  

















chg i 227, 4 ; Hippiatr. 51, 8, chg i 232, 25. Nella trattatistica veterinaria flegmonhv-flevmina indicava più genericamente rigonfiamento ; ed è in questo senso che Pelagonio usa il termine flemina Pelagon. 193 Flemina ferro candente curantur, vulnera sicut cetera usta curantur. – [146] Hippiatr. 145, chg ii 39, 16 ; Pelagon. 252 Ad ossilagines vel nervos crassos vel ad ragadia in nervis aut si forte ab axe fuerit percussus aut tumor aliquis fuerit aut duritiolam fecerit, sic curabis […]. – [147] Fischer 1980, 120 ; Adams 1999, 250-262. – [148] Scipinotti 2008. – [149] Veg. mulom. 2, 55, 1 lv De pedibus et ungulis. Animalium ungulae asperitate ac longitudine itinerum deteruntur et impediunt incessum [..]. Oportet autem solum ungulae celeriter aperiri, ut per inferiores partes apostemata digerantur, ne eruptionem super coronulas faciant et difficile ac tardius cura procedat. – [150] Veg. mulom. 4, 16, 1 Si talum aut ungulam vomer laeserit, picem liquida et axungiam cum sulfure et lana sucida involvito […] si clavum calcaverit aut acuta testa vel lapide ungulam pertunderit. Cfr Colum. 6, 15, 1.  







Bibliografia. Adams 1990a, 153-162 ; Adams 1995, 243-247 ; 270-272 ; 297-302 ; Beswick 1962 ; Bodson 1991, 233-234 ; Bologni-Ciampi 2005, 71 ; Bompadre-Magni-Cinotti 2008, 3-8 ; Brunori Cianti 1993, 39 ; 123-124 ; Doyen Higuet 1984 ; Doyen Higuet 2007 ; 111-120 ; Fischer 1977, 108-109 ; Fischer 1980, 112-113 ; 135, 138 ; Fischer 1991, 351-365 ; Gitton-Ripoll 2003, 28 ; Langholf 1990, 164-179 ; Merck 1995 ; Moulé 1891, 84 ; 97 ; Nutton 1983 ; Ortoleva 1999, 130 ; 133 ; 156 ; Pugliese-Cananzi-Pugliese 2003, 87-92 ; Sévilla 1921, 209-234 ; Sévilla 1923a, 590-595 ; 658-665 ; 703-713 ; Sévilla 1923b ; Sévilla 1923c, 247-287 ; Scipinotti 2008 ; Viré 1998, 260-275.  



































































Violetta Scipinotti Pelagonio. 1. La vita e le opere. – P. è l’autore dell’Ars veterinaria, opera monografica di ippiatria scritta tra il 350 ed il 400 d.C. (probabilmente nel 363 d.C.[1]): infatti →Vegezio vive al tempo di Teodosio I e cita nel suo prologo lo scritto di Pelagonio, mentre l’autore della Mulomedicina Chironis, che vive e opera intorno al 400 d.C., non lo cita. L’Ars veterinaria, la cui edizione originariamente è in latino, ma che si può leggere anche in greco, pur se viene compendiata in modo non completo nel Corpus Hippiatricorum Graecorum, costituisce una summa di nozioni prese dalla esperienza diretta di P. e di informazioni provenienti indirettamente da altri autori. P. usa come fonti scritti di agricoltura (→Columella, autore del De re rustica [2] e →Celso, autore delle Artes delle

peri physeos quali noi conosciamo solo la parte relativa alla medicina) e attinge poi, a Eumelo e Absirto come fonti greche. Altra fonte è ovviamente Vegezio, che è il riferimento costante per la veterinaria nel Medioevo, a differenza di P. che non gode di grande fortuna. 2. L’Ars veterinaria. – Il trattato, in forma di epistolario, è dedicato a vari personaggi. Le epistulae dedicatoriae costituiscono il piano dell’opera e dei consigli forniti nel seguito della stessa. In primo luogo P. spiega qual è il miglior modo per acquistare i cavalli, quali caratteristiche debbano avere i cavalli da corsa e come mantenerli in salute. Riguardo alla figura e al ruolo acquisito dal veterinario nel Tardo Impero P. afferma che deve essere conoscitore dei signa e delle varie patologie non solo il medico veterinario ma anche lo stesso proprietario degli animali, in modo che riesca a prevenirne le patologie e a mantenerli in buono stato senza subire gravi crisi economiche. Note. [1] Gitton-Ripoll 2005, 69-93, individua la data del 363 d.C. grazie all’identificazione di personaggi consolari della metà circa del iv sec. d.C. quali Arzygius, destinatario di una epistula dedicatoria di P. premessa all’opera, e Astyrius, prefetto della città di Roma. – [2] Adams 1991, 72-95. Bibliografia. Adams 1991 ; Adams 1995 ; Fischer 1980 ; Gitton-Ripoll 2005 ; Ortoleva 1998.  







Daniele Monacchini Perì physeos. 1. Generalità. – Prima di →Platone si scrissero poco meno di venti Peri physeos. Essi hanno costituito il vero e proprio archetipo di ciò che per noi è la forma ‘trattato’ : un tipo di libro particolarmente adatto per archiviare e trasmettere delle conoscenze che è stato largamente usato da quel gruppo di intellettuali che vennero poi identificati come ‘filosofi presocratici’. Di fatto prese forma, in tal modo, qualcosa di molto simile a un genere letterario suo proprio, con tratti comuni e alcune tendenze evolutive. La tradizione considera autori di Peri; fuvsew~ →Anassimandro e →Anassimene di Mileto ; →Alcmeone di Crotone ; →Senofane di Colofone ed →Eraclito di Efeso ; →Parmenide e →Zenone di Elea ; →Melisso di Samo ed →Empedocle di Agrigento ; →Anassagora di Clazomene e Diogene di Apollonia ; →Filolao di Crotone e Gorgia di Leontini ; quindi Metrodoro di Chio e →Aristotele di Stagira (anche la de 















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nominazione della sua Fisica oscilla tra Fusikav e Peri; fuvsew~) ; quindi →Teofrasto di Ereso ed →Eraclide Pontico ; quindi Epicuro ; quindi →Posidonio e →Lucrezio. A tutti questi titoli abbiamo motivo di associare i quanto mai mal conosciuti Physika di Brontino o Brotino di Metaponto [1] e l’Aletheia di Antifonte, il pressoché sconosciuto Cosmologico di Ione di Chio, la Grande e la Piccola cosmologia di Leucippo e →Democrito, lo stesso Timeo platonico, il De caelo aristotelico, la Fisica (Physika) di →Eudemo di Rodi, i Problemata physica che figurano nel corpus aristotelico e svariate altre opere : tutte o quasi tutte accomunate, pur nel variare della temperie culturale, dal rincorrersi di explicanda comparabili, cioè da una sostanziale convergenza nell’identificazione dell’oggetto di tali trattazioni. 2. La denominazione di queste opere. – Quanto al titolo, →Aristotele ha addirittura modo di fare dell’ironia sul titolo del poema fisico di →Empedocle scrivendo (GC 2, 6, 333b1718, passo non incluso nel Diels-Kranz) che, siccome la specificità delle condizioni in cui si trovano i vari esseri naturali è ciò che costituisce la loro natura, e siccome Empedocle « non parla affatto » di questa specificità, ne segue che questi « non viene a dirci proprio niente peri; fuvsew~ » (scil. quantunque questo è ciò che ci si dovrebbe attendere dal suo libro, almeno a giudicare dal titolo). Sempre Aristotele, proprio all’inizio di quella che per noi è la sua Fisica, ha occasione di utilizzare la nozione di ‘scienza della natura’ (th`~ peri; fuvsew~ ejpisthvmh~) come una nozione già pienamente disponibile, e non a caso le sue opere includono molti riferimenti al suo stesso Peri; fuvsew~. Per Aristotele, dunque, l’intitolazione Peri; fuvsew~ era una cosa già assodata ed era del tutto normale distinguere tra il Peri; fuvsew~ dell’autore A e il Peri; fuvsew~ dell’autore B, tanto da poter presumere che, almeno ai tempi di Empedocle, l’attribuzione di un simile titolo fosse già pacifica. Da ciò scaturisce un primo indizio per revocare in dubbio la fortunata tesi secondo cui questa denominazione ricorrente sarebbe stata attribuita solo posteriormente, nel corso del iv secolo o addirittura in epoca ellenistica. [2] Altre circostanze inducono a pensare che si tratti di una denominazione di v, se non di vi secolo. Il fatto che il libro di Brontino fosse conosciuto con il titolo inusuale di Physika fa pensare che il dettaglio fosse stato  

















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notato proprio in quanto altri libri comparabili si intitolavano invece Peri physeos. Pure significativo è che la raccolta di paradossi dovuta a Zenone venga indicata col titolo canonico, perché in quel suo libro egli si guardava bene dal fornire un sapere sul cosmo, sui fenomeni meteorologici o su aspetti del mondo della vita, per cui la denominazione Peri physeos non poteva non risultare impropria. A sua volta →Melisso non solo si limitò, nel suo libro, a occuparsi dell’essere in generale, rifiutandosi anche lui di parlare dei consueti temi di “filosofia naturale”, ma ebbe verosimilmente cura di attribuire alla sua opera un sottotitolo : Peri; fuvsew~ h] peri; tou[ o[nto~. Ora, a parte la riconosciuta attendibilità media di Simplicio, che riferisce questo dettaglio, si deve considerare che Melisso semplicemente non ebbe estimatori. D’altra parte il sottotitolo in questione è particolarmente felice e particolarmente funzionale per un autore che sapeva di offrire una trattazione deviante rispetto alle normali attese del pubblico di fronte a un’opera intitolata Peri physeos. Quindi è inverosimile che una così azzeccata combinazione di titolo e sottotitolo sia stata ideata da altri. Ed esattamente le stesse considerazioni possono essere iterate a fronte del titolo del Peri physeos gorgiano : Peri; tou` mh; o[nto~ h] peri; fuvsew~. Si affaccia pertanto anche l’eventualità che uno Zenone, per esempio, abbia intitolato la sua opera Peri physeos semplicemente perché non avrebbe avuto alcun altro modello al quale ispirarsi per l’intitolazione. Un ulteriore indizio sulla possibilità che questi autori abbiano apposto un titolo alle loro composizioni discende dall’uso conclamato degli autori di teatro di attribuire una denominazione ai loro spettacoli durante tutto il v secolo. 3. Caratteri ricorrenti. – Queste opere evidenziano, peraltro, molteplici tratti ricorrenti, cioè osservabili in molte delle opere così intitolate (anche se non in tutte). Un primo punto riguarda l’intento didascalico, la presunzione di offrire un sapere mediamente attendibile e la scelta di limitare il campo di osservazione a eventi permanenti o ricorrenti (moto diurno e notturno degli astri, eclissi, fenomeni atmosferici, terremoti, elementi, ciclo dell’acqua, forma del cosmo, fattori di stabilità della terra e simili ; inoltre aspetti del mondo della vita come la fecondazione, la respirazione, gli organi di senso, il cervello, la singolare natura dei  





muli e simili [3]), escludendo sia eventi singoli (es. una particolare vittoria alle Olimpiadi) sia riferimenti alla cultura, alla storia, alle tradizioni, alle credenze, alle technai, alle invenzioni, a opere letterarie, a fatti memorabili, alla stessa terapia medica. Non minore risalto ha la frequenza con cui queste opere hanno tentato di fornire una spiegazione globale, ossia di passare in rassegna il sapere su buona parte dei punti sopra elencati, in modo che la singola trattazione fosse in grado di abbracciare un sapere in rapida espansione e assestamento, e ciò spiega il ricorrere di micro-trattazioni sugli stessi temi, con conseguente possibilità di rilevare convergenze e divergenze nel modo di rendere conto del medesimo fenomeno. Notoriamente, a partire da Teofrasto, più autori si sono dedicati alla rubricazione delle doxai di questi ed altri autori, dando luogo a una vasta produzione di repertori in cui campeggia la figura di Aezio, e che è stata riunita in Diels 1879. [4] La possibilità stessa di costruire un simile repertorio si fonda precisamente sul carattere ricorrente dei fenomeni per i quali più autori hanno offerto teorie esplicative e conferma, se ce ne fosse bisogno, l’esistenza di un apprezzabile denominatore comune. Un riscontro indiretto dell’uso di proporre teorie concorrenti con cui provare a rendere conto del medesimo fenomeno è anche il passo di Erodoto (2, 20-23) in cui questi passa a discutere le teorie precedentemente emesse dai sapienti greci per spiegare la dinamica delle piene periodiche del Nilo. Significativamente, nell’affrontare l’argomento, egli propone un vero e proprio status quaestionis richiamando le teorie alternative e procedendo poi a demolirle una ad una. Non fa nomi ma, come è noto, i riscontri ci permettono di dare un nome certo o pressoché certo ai quattro proponenti (Talete ; Eutimene ; Anassagora ; Ecateo). Un altro tratto degno di nota riguarda la maniera più spesso adottata per spiegare i fenomeni naturali secondo un modello che prese forma e venne accreditato dai sophoi di Mileto. Partiamo dalla clamorosa teoria proposta per spiegare l’eclissi di sole : per mera, temporanea frapposizione del disco lunare davanti al disco solare. La spiegazione è oltremodo elementare, quasi banalizzante, quindi ardita, perché si osa declassare l’eclissi di sole, un evento per lo più percepito come impressionante e tradizionalmente interpretato come messaggio degli  









peri physeos dei, a evento del tutto privo di significati reconditi perché dipendente da un mero ‘ostacolo’ materiale e temporaneo : l’interposizione della luna, cui accade di fungere da diaframma. È stato acutamente osservato che la storia non può essere mero frutto di invenzione perché la spiegazione data al fenomeno contrastava con l’opinione corrente sul valore simbolico del fenomeno. [5] Ora anche Anassimandro ha fatto sistematico ricorso a spiegazioni che sono di una disarmante semplicità. Per esempio osò sostenere che la stabilità della terra è l’effetto di una sorta di esitazione («il grande ammasso non avrebbe saputo da che parte cadere !») ; che i corpi celesti si limitarono a distaccarsi dalla parte centrale della terra per la semplice ragione che questo grande ammasso ruotava a tale velocità da favorire, appunto, il distacco ; che il calore è condizione non solo necessaria ma anche sufficiente per la comparsa di forme di vita ; che i primi ‘pesci’ in grado di sopravvivere anche fuori dal mare subirono un processo di desquamazione semplicemente perché le loro squame si disseccarono al sole. Passare in rassegna le teorie proposte successivamente equivarrebbe a moltiplicare simili esempi, fino agli atomi, ai quali basterebbe aggregarsi in modo fortuito per dar luogo a tulipani e farfalle, unghie e olivi in enormi quantità. L’impostazione più spesso adottata deve pertanto dirsi inequivocabilmente riduttivistica. [6] In ogni caso il tipo di spiegazione che prende forma ha caratteristiche inconfondibili : aiuta a capire ; magari alimenta anche una illusione di aver capito che non è priva di insidie, ma comunque indica un criterio, e si tratta di un criterio comprensibile e riconoscibile. Simili caratteristiche si cercherebbero invano in →Esiodo (malgrado, ad es., il carattere manifestamente didascalico dei due riferimenti ad Arctouros che compaiono nelle Opere e i giorni) mentre è indubbio che ci parlino di un modello elaborato e accreditato dai primi sophoi di Mileto. 4. La comunità dei sophoi autori di Peri physeos. – Si delinea pertanto una comunità di sophoi che è accomunata non soltanto dalla volontà (o pretesa) di spiegare come è fatto il mondo e perché si verificano i fenomeni più diversi, ma anche da un modo ricorrente di spiegarli, ossia da una educazione collettiva a spiegarli secondo uno schema esplicativo molto caratterizzato. Si tratta di una circostanza che concorre efficacemente a farci pensare che tutti  

















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quei Peri physeos furono considerati dei libri di ‘scienza’ scritti da ‘scienziati’, esposizioni di un sapere che si veniva espandendo e assestando ad opera di sempre nuovi specialisti. In questo senso non è fuor di luogo ravvisare in essi una prima forma di trattato. Va in tale direzione anche la tendenza a disporre queste teorie in ordine paratattico, nel senso che la spiegazione del motivo per cui la terra non cade ha ben scarsa attitudine a influire sul modo di spiegare le dinamiche del fulmine o dell’arcobaleno ; del pari una teoria sulla natura dei corpi celesti avrebbe una ben ridotta attitudine a rendere conto della forma della terra e, a maggior ragione, di aspetti dell’organismo umano. In una fase successiva (a partire da Eraclito) si è venuta affermando l’aspirazione a ricondurre ad unum le singole teorie: specialmente Empedocle, anche in modo un po’ forzoso, ha tentato di ricondurre la spiegazione di molti fenomeni al ciclo cosmico, dunque all’azione di Amore e Odio, mentre è possibile che la scelta di →Democrito di rinunciare al trattato onnicomprensivo, privilegiando invece la preparazione di molte trattazioni ciascuna delle quali è dedicata a un particolare tema, sia stata espressione di una sostanziale rinuncia a spiegare tutto in termini di atomi. Veniamo ora ai caratteri formali di queste opere. Che esse propongano un sapere è pacifico, anche se naturalmente ogni sapere si nutre poi della personalità del suo propugnatore, per cui la comunicazione è tendenzialmente ‘fredda’ ma conosce prevedibili eccezioni (tra le più ‘calde’ e umorali si ricorderanno l’opera di Eraclito e il Peri physeos di Empedocle). Questo sapere si direbbe, almeno tendenzialmente, un patrimonio collettivo che i singoli sophoi si incaricavano di espandere, aggiornare, perfezionare e per il quale confidavano nel libero assenso delle intelligenze, intendendo che le ragioni addotte fossero, di norma, intelligibili e difendibili, cioè per nulla arbitrarie. Dietro a queste opere si intravede, invero, un circuito (non esattamente una comunità) di intellettuali che condividevano una tendenziale identità professionale e, quel che più conta, che si conoscevano, che erano in contatto, che si leggevano l’un l’altro. Di contatti diretti non sappiamo nulla o quasi, ma due indicatori ci persuadono della efficienza media della loro rete di contatti. Un primo indicatore riguarda Eraclito, che non si è limitato a menzionare e  

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criticare Omero ed Esiodo ma, oltre a parlare espressamente di oJkovswn lovgou~ h[kousa (nel fr. 108 D.-K.), ha fatto riferimenti precisi anche a moltissimi intellettuali cronologicamente a lui vicini o molto vicini. La lista include infatti →Pitagora, Senofane, Ecateo, Ermodoro, Biante f. di Teutameno, Archiloco, Alceo (lo riferisce Diog. Laer. 1, 76 = F 142 Mouraviev) e, congetturalmente, →Talete. Inoltre egli ha avuto occasione di precisare che Pitagora si procurò una selezionata scelta di compilazioni (suggrafaiv). Tanto basta perché si delinei una collezione sorprendentemente vasta di nomi che, nondimeno, probabilmente corrisponde solo a una parte del totale degli intellettuali menzionati nel corso del suo libro : in ogni caso i suoi auctores sono già molti di più di quelli di Senofane. Si osservi anche il riferimento ai logoi, i libri scritti dai ‘colleghi’. Abbiamo poi il caso, davvero clamoroso, del successo arriso a Parmenide. La sua opera ha manifestamente influenzato moltissimi autori del v secolo : Zenone e Melisso ; Empedocle, Anassagora, Leucippo e Democrito ; Protagora, Xeniade e Gorgia, e forse anche altri suoi contemporanei (es. Epicarmo), molti dei quali echeggiarono manifestamente o discussero esplicitamente le sue teorie a caldo o a distanza di pochi decenni. Una simile irradiazione non ci parla soltanto dell’autorevolezza riconosciuta da più parti a Parmenide, ma anche e soprattutto dell’attitudine di tutti questi intellettuali a sentirsi partecipi di una medesima avventura intellettuale malgrado le enormi distanze intercorrenti tra Agrigento e Abdera, Elea e Samo. 5. Indizi di disomogeneità. – Il denominatore comune è comprensibilmente coesistito con molte forme di diversificazione e relativa infedeltà al modello ora schematicamente delineato. Provando a seguire lo schema cronologico, osserveremo per cominciare che Eraclito ha investito energie considerevoli nell’elaborare una sua ‘filosofia’ della interdipendenza, coincidentia o equalizzazione degli opposti che manifestamente andava in altre direzioni ; in secondo luogo ha presentato una vasta gamma di enunciati del tutto autosufficienti, massime che in alcun modo potevano intendersi come offerta di un sapere sul cosmo ; in terzo luogo la sua opera ha incluso anche riferimenti alla contingenza politica (combattere per le leggi, Ermodoro, il lusso) e religiosa (sacrifici religiosi da  











lui dichiarati empi). Senofane adottò la forma esametrica e in questo fu notoriamente seguito da Parmenide e Empedocle. In particolare l’eleate si distinse per aver posto al centro del suo insegnamento una dottrina dell’essere che non poteva propriamente considerarsi dottrina sul cosmo o sul mondo. A sua volta l’agrigentino si distinse per l’enfasi con cui di tanto in tanto si è presentato come vate e profeta, anziché come intellettuale ‘freddo’. Ma furono più ancora i due intellettuali più vicini all’ortodossia eleatica quelli che maggiormente osarono per il fatto di dedicare l’intera loro opera ad altro dalla physis a dispetto della sua intitolazione. Note. [1] Diog. Laert. 8, 83, riferisce che Alcmeone nominò Brontino nella righe di apertura del suo libro come uno dei destinatari o dedicatari. – [2] È la tesi avanzata in Schmalzriedt 1970. Una punta di dubbio sulla possibilità che l’intitolazione Peri physeos risalga addirittura ai tempi di Anassimandro è ovviamente doverosa. Molti l’hanno negato con decisione ma è interessante notare che uno dei più recenti sostenitori della tesi secondo cui il titolo avrebbe preso forma solo negli ultimi decenni del v secolo, Laks 2006, 10, è significativamente disposto ad ammettere che “lo schema fondamentale risale, molto verosimilmente, ad Anassimandro”. Si può dunque dubitare del titolo, non della specificità tipologica, cioè della riconoscibilità di questi scritti per via delle svariate caratteristiche che hanno in comune. – [3] La lista degli autori che dedicarono sostanziose sub-trattazioni a argomenti biologici (la vita, la riproduzione, la percezione e gli organi di senso, sonno e sogno, etc.) include Anassimandro, Alcmeone, Epicarmo, Parmenide, Empedocle, Anassagora e Democrito. A non aver sviluppato un particolare interesse per questi aspetti furono, a quanto pare, Anassimene e Senofane, nonché Zenone e Melisso. – [4] La memorabile opera del Diels ha dato luogo a una traduzione italiana (Torraca 1961) e a una ricerca sugli echi di tale dossografia nel mondo arabo (Daiber 1980). Mansfeld-Runia 1997 e 2008 hanno il merito di aver dedicato alle dossografie una recente, approfondita indagine. – [5] Queste considerazioni compaiono in Panchenko 1994. – [6] In proposito vd. Marcacci 2004. Bibliografia. Daiber 1980 ; Diels-Kranz 19511952; Gemelli Marciano 2008 ; Laks 2006 ; Mansfeld-Runia 1997-2008 ; Marcacci 2004a ; Panchenko 1994 ; Rossetti 2006a ; Sassi 2009 ; Schmalzriedt 1970 ; Torraca 196i ; Zhmud 2001b.  



















Livio Rossetti

periplo Periplo. 1. Il termine. – Nella lingua greca e poi in quella latina il termine designa propriamente una circumnavigazione (di uno spazio insulare o peninsulare, del mare interno o esterno e di sue porzioni), mentre in senso traslato designa la descrizione della circumnavigazione, come resoconto di un’esperienza diretta dell’autore (Scilace di Carianda, Nearco) o come rielaborazione di esperienze altrui. Con questo secondo significato il p. costituisce un particolare genere della letteratura geografica antica, caratterizzato dalla prospettiva marittima della descrizione : lungo la linea di costa vengono registrati nell’ordine della loro contiguità geografica popoli e paesi, città, porti e foci fluviali, con l’indicazione delle relative distanze stimate in giorni e notti di navigazione, o nell’unità di misura degli itinerari terrestri (stadi e miglia) [→geografia; →nautica]. 2. I peripli e la geografia. – Forma e contenuti del p. sono ben riconoscibili nella geografia descrittiva dell’ecumene, la cui struttura da Ecateo fino a →Plinio il Vecchio è improntata dallo schema di un’ideale circumnavigazione del mare interno ed esterno alle Colonne d’Eracle. La maggior parte delle opere note con il ‘titolo’ di p. ci è giunta in condizioni assai frammentarie, e nell’incertezza determinata dallo stato della tradizione letteraria acquistano particolare importanza due testimonianze. Strabone (8, 1, 1) accosta i p. ai « porti » (limevne~) e ai « giri della terra » (gh`~ perivodoi) ; in un contesto programmatico (1, 1, 21 in fine) egli considera i « peripli e i porti » opere prive di basi astronomico-matematiche, e quindi carenti rispetto al suo modello di geografia. Alcuni secoli più tardi Marciano di Eraclea (iv-v sec. d.C.), un antiquario che presume molto dalle sue letture e dalla sua mania classificatoria, non esita invece a mettere fra gli autori di p. lo stesso →Eratostene, mentre riconosce a →Strabone e ad →Artemidoro il merito di avere unito nelle loro descrizioni « la geografia al periplo ». Con tutta probabilità risale a Marciano non soltanto l’attribuzione a Scilace di Carianda (il generale di Dario I) ma anche il titolo del testo conservato in un solo codice come «periplo dell’ecumene». Nonostante le corruttele della tradizione manoscritta, questo p. è il primo che ci sia giunto relativamente completo dal mondo antico. Partendo dal lato europeo delle Colonne d’Eracle l’autore rical 



















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ca in senso orario le coste del Mediterraneo e del Mar Nero fino a chiudere il cerchio al punto di partenza, con una breve appendice sul litorale atlantico dell’Africa. Alcune informazioni sono però incompatibili con l’età dell’autore, perché contengono riferimenti storici all’età di Filippo ii (Pseudo-Scilace). Alla luce di questi dati va quindi ridimensionato il tentativo di ricostruire nel suo stadio originario e ‘primitivo’ (vi sec. a.C.) il p. greco, inteso come genere letterario fin dall’inizio ben distinto dal « giro della terra » o dalla « periegesi » (Ecateo). Le finalità eminentemente pratiche dei peripli arcaici – testi che sarebbero stati prodotti da gente di mare per i bisogni della navigazione – rimangono più presunte che dimostrate. Le informazioni utili alla navigazione si saranno trasmesse oralmente, sicché il portolano medievale non ebbe in sostanza precursori nel mondo antico, e lo stesso vale per la cartografia nautica. Grazie all’intensificarsi delle comunicazioni marittime fra Egeo e Mediterraneo occidentale e grazie ai rapporti con l’Oriente alimentati dal dinamismo commerciale dell’Egitto tolemaico, vi è ragione di ritenere che nel corso della prima età ellenistica il p. assumesse una sua fisionomia, arricchendosi anche nei contenuti. Esponente di primo piano di questo genere di letteratura è certamente Timostene di Rodi, ammiraglio di Tolemeo ii e autore di un’opera Sui porti (in ben dieci libri), per la quale mostrò apprezzamento il grande Eratostene. Nonostante il titolo, l’opera (ne resta una quarantina di frammenti) non si limita a fornire informazioni topografiche e geografiche (morfologia della costa, distanze e posizioni delle città marittime), desunte anche dalla personale esperienza dell’autore ; Timostene mostra interesse anche per le tradizioni mitiche e religiose dei luoghi, e sotto questo aspetto lo scritto Sui porti è in linea con il carattere erudito della periegesi. Inoltre la sua « rosa dei venti », lungi dal trovare applicazione in una dimensione regionale, corrisponde allo schema dei mappamondi circolari, divisi in quattro settori dai punti solstiziali di levata e di tramonto sull’orizzonte ideale della terra abitata. 3. Casi particolari. – Un posto a sé spetta al celebre Periplo di Annone, che non cessa di suscitare discussioni e ipotesi circa la sua reale paternità e la cronologia dell’autore, le circostanze storiche e i limiti geografici dell’impresa  













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che vi è descritta, nonché l’identificazione dei luoghi e dei popoli menzionati. È il resoconto, non privo di fenomeni straordinari, di una missione affidata al cartaginese Annone dalla sua città, resoconto fatto incidere in lingua punica nel tempio di Baal. Come leggiamo nella versione greca del testo, Annone ha l’incarico di salpare con sessanta navi ed esplorare la costa atlantica dell’Africa allo scopo di istallarvi colonie di libifenici. L’elaborazione letteraria delle informazioni prodotte dall’esperienza nautica favorì la loro ampia e sistematica valorizzazione nella descrizione dell’ecumene, come mostrano i frammenti dell’opera geografica di →Artemidoro (100 ca. a. C., in 11 libri) e soprattutto la Geografia di →Strabone (età di Augusto). I dettagli sulla morfologia delle coste mediterranee, di cui abbonda la descrizione straboniana, non riguardano solo i litorali prossimi alle grandi città marittime, ma spesso pure siti di minore importanza che tuttavia appartengono alla catena dell’itinerario costiero. Pur manifestando in linea di principio le sue riserve verso il genere dei p., è evidente che Strabone vi attinge a piene mani. Ritroviamo così, nel contesto della descrizione regionale, i modi espressivi e l’orientamento relativo dell’itinerario marittimo (per fare solo un esempio fra tanti, cfr. la descrizione della costa da Hipponion fino a Locri in Strabone (6, 1, 5), che registra non solo gli approdi, gli ancoraggi e cinque promontori, ma anche i due principali cambiamenti di rotta). Contemporaneo di Strabone è Menippo di Pergamo, che compilò un Periplo del mare interno in tre libri (dell’epitome di Marciano si conserva solo il libro I sull’Asia, mentre è assai problematico ricostruire gli altri due). In età imperiale il titolo di p. indica scritti geografici assai diversi per contenuto e interesse documentario. Da una parte opere come il Periplo del Ponto Eusino di Arriano (ca. 130 d.C., dedicato ad Adriano) o l’Anaplous Bospori di Dionisio di Bisanzio (iiiii sec. d.C.) non nascondono l’ambizione di un’elaborazione dotta. D’altro canto nell’anonimo Stadiasmo o periplo del grande mare (cronologia incerta) troviamo, per la prima volta in un p., anche alcune avvertenze pratiche per la navigazione, comunicate nella forma verbale dell’imperativo. Di grande valore per la storia economica è poi il Periplo del Mar Rosso (i sec. d.C.), opera di un anonimo mercante il quale descrive le rotte che dall’Egitto con-

ducono verso i porti dell’India lungo la costa meridionale dell’Arabia. L’interesse di questo testo singolare sta nel fatto che, oltre ai dati consueti sulle distanze da porto a porto, fornisce informazioni sulle condizioni politiche dei vari paesi e soprattutto sulle merci importate ed esportate. Come grande esperto di peripli antichi si presenta infine Marciano di Eraclea, che riporta in auge questo genere di letteratura, compilando un Periplo del mare esterno. Le informazioni che egli ci offre sugli autori di p., di cui a volte conosciamo solo il nome, sono certo preziose ; occorre però guardarsi dalla sua tendenza a ricondurre nella categoria del p. l’intero sviluppo della geografia antica.  

Bibliografia. Arnaud 2005 ;Belfiore 2004 ;Counillon 2004 ; Desanges 1978 ; Diller 1952 ; Gisinger 1937 ; González Ponce 1995 ; González Ponce 2009 ; Güngerich 1950 ; Janni 1998 ; Janni 2002 ; Peretti 1983 ; Prontera 2007.  























Francesco Prontera Pesca [eijnaliva qhvra, piscatum] . 1. Profilo storico ed economico. – La pesca è una delle prime attività alle quali si dedicò l’uomo dopo la sua comparsa sulla terra. L’uomo preistorico infatti, fu dapprima raccoglitore e cacciatore e, solo in un secondo momento, agricoltore [→agricoltura]. Nel termine ‘raccolta’ [1] gli etnologi annoverano la « colletta di piante selvatiche, fauna terrestre minuta e molluschi ». Non è pertanto difficile immaginare che la prima esigenza dell’uomo sia stata la ricerca di elementi commestibili. In tal senso ciò che gli ominidi avevano a disposizione era : vegetali, frutta, molluschi e crostacei. L’uomo del Paleolitico dunque, fu dapprima vegetariano, poi consumatore di prodotti ittici ed infine carnivoro. Proprio il consumo della carne diede impulso alla caccia che divenne il principale mezzo di sostentamento. In seguito l’osservazione che nel mare vivevano animali veri e propri, non solo molluschi immobili, spinse gli uomini a tentarne la cattura con mezzi che si svilupparono sempre di più. Nel Paleolitico si costruirono gli strumenti che tuttora sono in uso ; in merito non c’è stata perciò un’evoluzione ma solo uno sviluppo. Si giunse così a considerare la pesca come vero e proprio mezzo di sostentamento, al punto che proprio in quest’era vi è la comparsa delle prime tribù organizzate che praticarono la pesca sulla costa. Queste tribù, a differenza dei cacciatori e dei raccoglitori, si  







pesca muovevano meno, proprio perché la pesca, al contrario della caccia e della raccolta, non comportava l’esaurimento del cibo a disposizione. Nel Neolitico la tendenza all’edificazione di palafitte, nata da intenti eminentemente difensivi, incoraggiò la pesca e il →consumo di pesce. Gli uomini delle palafitte, che abbondavano nei laghi e nelle paludi di tutta Europa, svilupparono la pesca come attività o lavoro di massa, con impiego di mezzi di cattura intensiva (per lo più reti) a svantaggio della pesca con l’amo. Le più antiche civiltà furono grandi consumatrici di pesce. In Egitto era praticata tanto la pesca nel Nilo nei periodi di magra, quando scorreva nel suo letto, tanto la raccolta dei pesci che il fiume lasciava lungo le sue sponde dopo le piene. Anche la pesca sulla costa era attuata con successo ma in misura minore. Il pesce egiziano era così abbondante da essere esportato in tutto il Mediterraneo previa essiccazione. Il prodotto ittico era un alimento essenziale per il popolo, ma apprezzato in egual misura dai nobili. Questi ultimi praticavano la pesca persino come attività sportiva ; in tale ambito prede ambite erano ippopotami e coccodrilli. Gli Assiri erano abili pescatori in mare e in acqua dolce. Sembra ci fossero dei veri e propri contratti di pesca, la cui licenza era concessa per lo più ai rivieraschi e ai custodi degli impianti sui canali di irrigazione, che solcavano copiosi la Mesopotamia. Non mancavano neppure gli speculatori che affittavano attrezzi da pesca in cambio di una percentuale sul pescato. I Fenici erano esperti pescatori grazie anche alle loro competenze nautiche [→nautica]. Il pesce di mare, considerato più pregiato, veniva essiccato e salato ; era oggetto così di una vasta e importante esportazione in tutto il bacino del Mediterraneo. Possiamo affermare che i Fenici avessero elevato la pesca ad un livello industriale, con vere e proprie stazioni di lavorazione del pesce annesse agli impianti di cattura. In Grecia la pesca non aveva dignità di attività a sé, bensì era molto legata alla caccia. Il fenomeno è palese innanzi tutto a livello linguistico ; non esisteva un termine che indicasse la pesca ma « lessemi onnicomprensivi » [2] che designavano l’intera sfera della predazione della quale esprimevano sfumature diverse (qhvra : ricerca, inseguimento, a[gra : cattura) [3] e si applicavano indistintamente alla caccia e alla pesca, con una chiara predilezione per la prima. Accanto a questo registro generi 













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co, riscontriamo tuttavia termini più specifici atti ad indicare l’attività peschereccia, palesemente derivati dal vocabolo ‘pesce’ (ijcquavw : pesco) o ‘mare’ (aJlieuvw : pesco). La marginalità della pesca in Grecia trova un fondamento sia a livello economico che etico. Economicamente la Grecia traeva sostentamento, sin dal periodo miceneo, dall’→agricoltura e dall’→allevamento, coadiuvati dall’artigianato. In tale contesto l’apporto economico fornito dalle attività di caccia e pesca appare piuttosto ridotto, sebbene non quantificabile in modo puntuale e sicuramente non omogeneo in tutto il Paese. Per la preistoria si può parlare di popoli cacciatori e popoli pescatori ; similmente in Grecia la conformazione fisica del territorio suggerisce che la caccia e la pesca non fossero praticate simultaneamente dalle stesse comunità. Nella fattispecie la selvaggina abbondava in regioni montuose e lontane dal mare. Laddove, al contrario, l’attività peschereccia era praticata maggiormente, come nelle isole o sulle coste, era assente la caccia. [4] Dal punto di vista etico, la caccia e la pesca occupavano due ruoli antitetici nell’immaginario collettivo e riportavano a due realtà contrapposte. La caccia era considerata un esercizio nobile, che consentiva all’uomo uno sviluppo morale e fisico. Questo è rappresentato in modo esemplare nei poemi omerici, dove gli eroi sono spesso impegnati in cacce eroiche, ma mai in pesche che in nessun modo potrebbero addirsi agli ideali aristocratici di cui i personaggi sono portatori. La pesca era ritenuta una pratica vile, umile, destinata ai ceti più bassi. Mentre la caccia era uno sport, un ludus dei ceti più alti, la pesca era una risorsa delle persone più umili che deficitavano di altre forme di sostentamento. A testimonianza di tutto ciò troviamo le pitture vascolari, nelle quali sono assenti le scene di pesca, e anche la letteratura (vd. Theochr. 21, che descrive dettagliatamente le misere condizioni di vita dei pescatori e le Lettere di pescatori di Alcifrone). Un aspetto positivo è però l’impulso che la pesca diede allo studio e all’osservazione della fauna ittica, le cui abitudini furono ampiamente indagate. A tal proposito il trattato sulla Storia degli animali di Aristotele si propone come una rigorosa catalogazione di tutte le specie. Numerose furono le opere che, in vario modo, si occuparono della pesca. La prima, a livello cronologico, nota per tradizione indiretta, è quella di Archestrato di Gela,  







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pesca

Hedyphagetica, risalente al iv sec. a.C. Alcuni frammenti dell’opera sono citati da Ateneo, e nota è la trasposizione in latino di Ennio (iii sec. a.C.) : si tratta di un poemetto gastronomico dedicato alla descrizione dei pesci secondo la loro provenienza e le ricette ad essi associate. Celebre è il trattato sulla pesca di →Oppiano di Anazarbo, Halieutica (ii sec. d.C.), che è una fonte preziosa di informazioni ; tuttavia anche in questo caso si tratta di un’opera poetica. Ampio spazio al mondo dei pesci è riservato nell’opera di Claudio Eliano (ii-iii sec. d.C.) : la sua è una miscellanea di notizie e aneddoti sul mondo marino di derivazione aristotelica e non solo. Al di là dei trattatisti, che furono sicuramente in numero maggiore di quanto non possiamo valutare dalle tracce a noi giunte, riferimenti ai pesci, al mare e al mondo dei pescatori sono disseminati in tutta la letteratura greca, in forma di similitudini, metafore o descrizioni. Se in Grecia la pesca non era ritenuta un’attività autonoma tout court dalla caccia, e questo si manifestava innanzi tutto a livello linguistico, a Roma possiamo constatare la presenza di un termine originario con valore generico (captiare), specializzatosi in un momento successivo in riferimento alla caccia. In seguito si sviluppò una famiglia lessicale, a partire dal termine pesce, atta a definire la sfera della pesca (piscatum, piscari, piscator) che si distinse nettamente a livello semantico rispetto ai lemmi relativi al mondo della caccia (venatio, venari, venator). A Roma l’interesse per la pesca non sorse come propaggine o relativamente all’attività nautica, ma connessa al consumo del pesce, giudicato alimento estremamente pregiato durante tutto l’Impero. Il pesce apparve ben presto anche sulle mense dei più umili. La pesca divenne dunque un’attività intensiva e a scopo di lucro. Malgrado il consumo di pesce fosse diffuso trasversalmente nella scala sociale, i pescatori vivevano in condizioni di assoluta indigenza. Al contrario, i commercianti di pesce si arricchivano notevolmente, ricaricando con una percentuale altissima il prezzo d’acquisto. Ne conseguiva un prezzo di vendita al dettaglio particolarmente elevato e un’immagine collettiva del pescivendolo quale quella di truffatore e imbroglione. La sola ricchezza dei pescatori, viceversa, era rappresentata dalle imbarcazioni e dagli attrezzi. Esistevano due tipologie di pescatori : i primi, a servizio di famiglie patrizie,  







erano da queste mantenuti e potevano considerarsi più fortunati ; i secondi, sebbene ‘liberi professionisti’, erano i più poveri. Nonostante la pesca come mestiere fosse appannaggio delle classi più umili, quest’attività a Roma era praticata anche come sport dai nobili ed era estremamente diffusa persino tra personaggi di rango imperiale e tra gli stessi imperatori (Augusto ne era appassionato). Il piacere della pesca è esaltato da vari scrittori, come Marziale (10, 30) e Plinio il Giovane (epist. 9), che descrive la pratica di costruire ville sulle rive del lago di Como per gettare l’amo comodamente sdraiati sul proprio giaciglio. La pesca era un ludus per lo più praticato nelle acque interne. I pescatori dell’interno celebravano persino una festa a loro riservata, in giugno. Dopo la caduta dell’Impero la pratica scemò notevolmente. Anche nella tradizione romana non mancano opere dedicate alla pesca : gli Halieutica attribuiti a Ovidio, e i due libri pliniani della Storia Naturale (9 e 32) dedicati rispettivamente alla zoologia degli animali marini e ai loro impieghi in medicina. 2. Tecniche e strumenti. – Il primo strumento con cui l’uomo si approcciò al mondo ittico furono le mani, nell’ambito dell’attività di raccolta dei molluschi che costituì uno dei primi mezzi di sostentamento dell’uomo preistorico. Le acque purissime permettevano di vedere nitidamente la preda da afferrare e l’immobilità di molluschi e crostacei consentiva il semplice uso delle mani. Anche quando gli uomini del Paleolitico iniziarono a catturare i primi pesci, usarono le mani, coadiuvati da più persone che spingevano l’animale in un sito ristretto e con acqua bassa. Tuttavia quando i primi uomini dovettero rapportarsi con pesci di taglie più grandi, si resero conto dell’inattuabilità di questa tecnica ed iniziarono ad utilizzare le stesse armi impiegate per le fiere terrestri ; si trattava di un bastone dalle estremità scheggiate adoperato come arpione. Quando la pesca si trasformò in attività intensiva e comparvero le prime tribù organizzate, gli strumenti variarono ulteriormente : lance, arpioni, punte in osso. I resti di tali attrezzi rivelano che già in questo periodo erano dotati di corde in fibre vegetali per trattenere il pesce colpito. Un altro strumento per la cattura del pesce medio e minuto era l’arco, impiegato in un primo momento per le fiere terrestri e successivamente anche per gli animali acquatici.  







pesca Al Paleolitico risale l’invenzione dell’amo : se la forma è ancora rudimentale, alla base c’è il medesimo concetto di quello odierno. L’amo preistorico era una sorta di navetta a punte opposte ; dapprima in selce scheggiata, poi in materiale osseo e nell’età dei metalli in rame. Su questo era fissata l’esca (carne di pesce e molluschi) che, ingoiata dall’animale, faceva sì che le punte dell’amo arpionassero la gola o lo stomaco, consentendo al pescatore di tirarlo a riva. Parallela all’invenzione dell’amo è quella della canna, un semplice bastone impiegato per sorreggere la lenza. Gli uomini delle palafitte nel Neolitico, praticando una pesca per lo più intensiva, predilessero all’amo le reti : dapprima sbarramenti in materiali vegetali, divennero poi ‘a sacco’. In Egitto la pesca con la lenza e con la canna è diffusamente attestata nei bassorilievi, a bordo di agili imbarcazioni. La pesca sportiva era praticata con la lenza per i pesci di taglia piccola e con la fiocina per gli esemplari più grandi. Molto usate erano anche le reti per la pesca intensiva. I Fenici usufruivano di impianti fissi di reti per la cattura dei pesci migratori. Si ritiene che siano stati con ogni probabilità (solo in Occidente perché in Oriente sono di gran lunga preceduti dai Cinesi) gli inventori delle reti a strascico (reti trainate da barche o a mano radente al fondale per intrappolare la fauna ittica incontrata). Per ciò che concerne la Grecia, Oppiano, nel suo trattato, individua quattro metodi di pesca (novmoi) : con l’amo (a[gkistra), con la rete (divktua), con le nasse (kuvrtoi), con il tridente (tanuvglwri~ trivaina). [5] Per la pesca con l’amo si utilizzavano la canna e la lenza, o anche solo la lenza. La canna era corta e rigida, di tre o quattro metri, con lenza di eguale lunghezza, in crini di cavallo o setole di cinghiale. L’amo, in bronzo o ferro, era di forme diverse e persino a più punte per garantire una presa maggiore. Abbiamo una testimonianza omerica dell’impiego dell’amo nella caccia (Od.12,330, in cui i compagni di Ulisse se ne servono per catturare gli uccelli). Come esche erano frequenti piccoli insetti, pesci, crostacei ; gli esperti consigliavano di fare arrostire l’esca per renderla più appetitosa ed accompagnarla con briciole di pane e formaggio. I Greci erano padroni di un’affinata tecnica per le pasture, impasti notevolmente elaborati che garantivano di attrarre un gran numero di esemplari ed erano specifici per le singole specie (Geop. 20). Il secondo tipo di  











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pesca individuato da Oppiano è quello con la rete, uno degli strumenti polivalenti, ovvero di largo impiego anche nella caccia. L’autore dà un termine generico (divktua) seguito da una serie di altri lemmi che dovrebbero corrispondere a determinati strumenti con caratteristiche, forme, funzionalità proprie. Questi ultimi tuttavia sono ignoti ad Oppiano stesso il quale non li descrive né ne dà un riferimento materiale ; solo per alcuni il nome ‘parlante’ ci aiuta a capirne la forma (sfairwvn, rete rotundum). La rete è espressione in Grecia di una pesca che assume carattere intensivo. Erano usate reti per la pesca intensiva delle acciughe, che transitavano in branchi enormi, e per il tonno. In particolare per quest’ultimo si impiegavano ‘tonnare’ del tutto simili a quelle moderne : recinti di forma circolare costruiti con reti ancorate sul fondo e sostenute in alto da galleggianti, dotate di porte d’accesso dove i tonni venivano spinti ad entrare spaventandoli con i battiti dei remi. Il terzo tipo di pesca era quello con la nassa : cesta di giunco, vimini, metallo, di forma conica, chiusa ad un’estremità, con un’imboccatura ad imbuto che consentiva al pesce di entrare facilmente, ma gli impediva di uscire. Oppiano ne dà una descrizione molto accurata, fornendo anche il rispettivo nomen agentis (kurteuv~, lat. curator nassae). Anche nella nassa veniva inserita un’esca, costituita per lo più da polipetti o pesci arrostiti. L’ultimo tipo di pesca classificato da Oppiano è quello con la fiocina (in cui possiamo annoverare tutte le armi da getto quali arpioni e tridenti, evoluzione del primo bastone utilizzato dall’uomo preistorico per la cattura del pesce). Si distinguono due postazioni : da terra (ejk cevvrsou) e dalla nave (ejk newv~) ; in base a ciò possiamo dedurre che la pesca con questa tipologia di strumenti era praticata non solo in prossimità della costa, ma anche in mare aperto. Prede appetibili per la fiocina e gli arpioni erano il pesce spada e i grandi pesci di superficie. A Roma furono assimilate tutte le tecniche di pesca diffuse in Grecia e furono ulteriormente migliorate verso soluzioni tecniche di progresso sempre maggiore. Inizialmente l’attività era esercitata principalmente con l’arpione e con la fiocina (fuscina) ed in particolar modo con una fiocina a tre punte atta a pesci di media e grossa taglia. Quando la pesca assunse carattere intensivo, proporzionalmente alla diffusione del consumo di pesce, lo strumento più diffuso divenne  









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pesca

la rete (rete) ; erano largamente impiegati tutti i modelli : a sbarramento, a strascico, reti a piccola e a grande cattura, impianti fissi e mobili. Due tipologie fra le più comuni erano lo ‘sparviero’ e la ‘bilancia’. La prima era una piccola rete circolare munita perifericamente di piombi e di un legaccio centrale. Il pescatore, legando ad un polso il legaccio, lanciava la rete che si apriva a rosa e, affondando, imprigionava i pesci che incontrava. La ‘bilancia’ era invece una rete quadrata con gli angoli uniti a due braccia incrociate, appesa ad un’asta sollevata a mano o con un argano. I Romani possedevano inoltre enormi impianti fissi o trappole in legno con le quali catturavano la maggior parte del pesce destinato ai mercati. Questi meccanismi erano collocati in località note per il transito dei pesci o allo sbocco dei fiumi. Le coste viceversa erano percorse da piccole e medie imbarcazioni che si dedicavano alla pesca con reti a strascico. La pesca con la lenza (linea) era esercitata con una canna lunga circa quattro metri, munita di una lenza di pari lunghezza in treccia di lino. L’amo (hamus) tecnicamente avanzatissimo, era in ferro o bronzo. I Romani erano particolarmente competenti nella preparazione di impasti e pasture (cibus) : pane inzuppato nel latte, farine di cereali diversi, caglio, uova, miele, formaggi. Spesso tali impasti erano arricchiti con erbe e spezie che ne avrebbero dovuto accrescere l’efficacia : timo, rosmarino, menta. 3. Commercio del pescato. – I primi ad avviare un vero e proprio commercio del pesce furono gli Egiziani, i quali esportavano quello pescato nel Nilo in tutto il bacino del Mediterraneo, riscuotendo grande successo presso Greci e Romani. Anche i Fenici esportavano i prodotti della propria attività peschereccia che aveva raggiunto un notevole livello di industrializzazione. In Grecia e a Roma generalmente era il pescatore indipendente che provvedeva autonomamente alla vendita del proprio prodotto, portandolo al mercato entro ampie ceste. Fra i soci proprietari della barca non sempre i rapporti erano cordiali e corretti ; a volte accadeva che uno tentasse di imbrogliare gli altri vendendo da solo il proprio carico (Plin. nat. 9,182). Un’altra modalità di distribuzione a noi nota da Ateneo (6, 244c) è il rifornimento dei dettaglianti presso i pescatori. La vendita ed il commercio del pesce, per lo più conservato, erano affidate a corporazioni (collegia), società appositamente organizzate. La denominazio 









ne più comune era quella di piscatores, ma anche piscicapi, e propolae (ad Ostia e in Spagna). Come tutti i collegi, anche quello dei pescatori aveva la propria divinità protettrice. Ci sono altresì noti alcuni patroni e benefattori di tali collegi, la loro organizzazione interna e i nomi di personaggi nominati a capo di queste associazioni. Al pari delle altre corporazioni, anche quella dei pescatori era intimamente coinvolta nella vita politica della comunità in cui operava ; in tal senso essa appoggiava, nell’ambito della campagna elettorale per l’elezione dei magistrati locali, l’uno o l’altro candidato. A testimonianza di questo fenomeno troviamo i ‘graffiti’ incisi come manifesti elettorali sulle mura esterne degli edifici pompeiani, vera e propria fotografia del periodo antecedente alle elezioni dell’anno 79 d.C. 4. Tasse e divieti. – La pesca e la caccia sono attività, nell’antichità come oggi, regolamentate da una serie di norme e divieti che ne definiscono e ne limitano l’esercizio. In Grecia tasse sulla pesca o sulla vendita del pesce erano imposte pressappoco in ogni città. Opposto era l’atteggiamento dei Romani, basato su una diversa nozione giuridica delle acque e della fauna ittica. Lo ius considerava l’insieme delle acque in territorio romano di pubblica proprietà (res communis) ; parimenti il pesce era giudicato proprietà di nessuno (res nullius) fino alla sua cattura. La medesima norma vigeva per qualunque altro animale selvatico : uccelli e fauna terrestre. Anche →Platone (Lg. 7,824) limita la cattura degli animali acquatici solo per acquitrini e stagni consacrati a divinità ; situazione questa nella quale era imposto il versamento di una tassa al santuario deputato al culto della divinità stessa. Spesso tuttavia, il divieto di pesca in taluni luoghi sacri poteva essere evitato semplicemente tramite il pagamento di una modica cifra al clero locale. Se divieti come questi trovavano giustificazione in ultima istanza in esigenze fiscali, altri traevano spunto da mode alimentari ; a tal proposito fu istituito un veto assoluto di pesca sulle coste del Mediterraneo nelle quali erano state immesse specie ittiche esotiche particolarmente apprezzate sulle mense dei più ricchi.  









Note. [1] Nel simposio Man the hunter (New York 1966) gli etnologi stabilirono le definizioni di ‘raccolta’, ‘caccia’ (« cattura di mammiferi terrestri e acquatici ») e ‘pesca’ (« procacciamento di pesce  





pesce, consumo di con qualsiasi tecnica »). – [2] Vd. Longo 1989b, 22. – [3] Chantraine 1956, 40-70. – [4] Senofonte (Cyn. 5, 25) dice che nelle isole la caccia non era praticata. – [5] Opp. H. 73-89.  

Bibliografia. Bona 1997 ; Donati-Pasini 1997 ; Gianfrotta 1999 ; Kron 2008 ; Longo 1989b ; Perosino 1972, 8-28 ; Radcliffe 1926 ; Rieth 1998 ; Zumbo 1991.  















Valentina Zanusso Pesce, consumo di. 1. Quadro geografico. − Il →pesce è stato sin dall’antichità alla base della dieta delle popolazioni affacciate sul bacino del Mediterraneo. Il consumo di pesce poteva avvenire essenzialmente secondo due modalità : prodotto ittico fresco o lavorato. Similmente a quanto accade ai nostri giorni, il pesce fresco era considerato più pregiato, tuttavia le circostanze imponevano sovente la lavorazione del pesce per garantirne la conservazione. A tal fine erano disponibili sul mercato delle vere e proprie conserve di pesce o delle →salse a base di esso. Nel vicino Oriente (Siria, Mesopotania e Asia Minore) il valore simbolico e religioso assunto da alcuni esemplari di acqua dolce determinava delle limitazioni all’assunzione di pesce ; quest’ultimo era difatti riservato ai sacerdoti e agli amministratori del culto nonché agli iniziati, in quanto questi animali erano ritenuti un’estensione della divinità stessa (per i ‘vivai sacri’ vd.→acquicultura). In Egitto, benché vigessero rigorose restrizioni legate alla religione, il pesce costituiva l’alimento principale a causa anche della vicinanza al Nilo, fonte inesauribile di fauna ittica. Contrariamente a quanto accadeva in Oriente, qui i principali consumatori di pesce erano gli strati più umili della popolazione dei quali facevano parte per l’appunto i pescatori. In Grecia il prodotto ittico, dapprima alimento tipico di una dieta povera, in seguito assume il pregio che ha conservato sino ad oggi. Si consumava principalmente pesce marino a causa della contiguità con il mare ; erano altresì diffuse le conserve di tonno, aringhe o sardine. Atene disponeva di un mercato ittico collocato in prossimità delle mura della città. I Romani sin dalle origini si nutrono di pesce, tuttavia in età imperiale il fenomeno si inscrive all’interno di una vera e propria moda alimentare. Ciò induce alla realizzazione di impianti per l’allevamento ittico presso le grandi ville urbane e litoranee, dove prolificano le peschiere [→acquicultu 





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ra]. Proprio in virtù delle mode che dilagano in età imperiale, la diffusione di alcune specie a vantaggio di altre è particolarmente breve : in relazione al gusto del momento pesci molto consumati in un certo periodo, sono in seguito deprezzati. A Roma imperversano le salse ; è noto ai più il successo riscosso dal garum, largamente attestato nelle fonti (Plin. nat. 19,7). Mentre quest’ultimo viene reputato un luxus, il pesce sotto sale ha un prezzo assai inferiore e pertanto è preferito dalle classi più umili. 2. Centri e prodotti della lavorazione. – I maggiori centri di lavorazione del prodotto ittico nel Mediterraneo sono situati nel Ponto, in Spagna e in Sicilia ; si tratta di regioni nelle quali l’attività della →pesca risultava particolarmente proficua, tanto da consentire lo sviluppo di vere e proprie strutture a livello industriale (cetaria). Il Ponto era specializzato nella pesca e nella lavorazione dei tonni che attraversavano periodicamente lo stretto del Bosforo. In Spagna particolarmente pescoso risultava il tratto di mare attiguo alle colonne d’Ercole. Tipico prodotto di quest’industria era lo sgombro che veniva catturato nel momento in cui transitava dall’oceano al mar Mediterraneo. Le conserve di pesce erano una merce particolarmente diffusa ed apprezzata. Il pesce sotto sale (tavrico~, salsamentum) era molto amato e accompagnato con vari condimenti : mostarde, olio, aceto e varie salse di pesce. Il garum era una salsa utilizzata in gastronomia per insaporire carne, legumi ma anche cibi dolci come la frutta ; era inoltre ottimo sciolto in acqua o in bevande di vario genere. La salsa base veniva preparata mediante la macerazione di pesci di varie specie ; essi venivano disposti in un unico tegame assieme a viscere di pesci, una considerevole quantità di sale e diverse erbe aromatiche. Il composto doveva riposare al sole per non meno di due mesi o poteva essere cotto per velocizzare la preparazione. A questo punto si estraeva il garum vero e proprio, ovvero la componente liquida (liquamen), mentre il residuo solido veniva detto allec e trovava largo impiego in cucina. Esistono diverse versioni della ricetta e molte tipologie di garum ottenute mescolando la salsa con spezie di vario genere.  











Bibliografia. André 1961 ; Dosi-Schnell 1986a ; Giacopini-Marchesini-Rustico 1994 ; Gianfrotta 1987 ; Salza Prina Ricotti 1998.  







Valentina Zanusso

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pestilenza

Pestilenza [loimov~, pestilentia]. 1. Generalità. – Con questo termine, nell’antichità, fu genericamente denominata ogni malattia infettiva che presentasse caratteristiche epidemiche, cioè diffusione entro un ambito spazio-temporale determinato, estensione a un significativo numero di individui tramite il reciproco contagio ed elevato tasso di mortalità conseguente. 2. Cenni storici. – È plausibile che, finché visse in gruppi di piccole dimensioni che si spostavano con frequenza e traevano nutrimento da piante selvatiche e cacciagione, l’uomo non abbia contratto malattie epidemiche propriamente dette ma solo infestazioni parassitarie o fenomeni infettivi accidentali e occasionali. I primi insediamenti, accompagnati dalla sistematizzazione di metodologie alimentari basate sull’agricoltura e l’allevamento, dunque sullo stretto contatto con gli animali, determinarono un ambiente meglio aggredibile dagli agenti patogeni, in ciò favoriti da precarie condizioni igieniche. Il fenomeno epidemico era noto già nell’antico Egitto, ove la dea leontocefala Sekhmet spargeva tra gli uomini morte e contagi, soprattutto durante i cinque giorni epagomeni (supplementari). [1] È stato ipotizzato [2] che gli Ittiti, i quali erano venuti a contatto con il batterio della tularemia durante il saccheggio della città fenicia di Symra nel 1325 a. C., siano riusciti a farne consapevole uso strategico alcuni anni dopo, diffondendo capi di bestiame malati tra gli abitanti della città anatolica di Arzawa allo scopo di frenarne le mire espansionistiche. Presso la civiltà ebraica permane la convinzione che le malattie, dunque anche quelle epidemiche, abbiano cause soprannaturali ; così le Scritture fanno più volte riferimento generico a queste, intese come forme di minaccia [3] e castigo divino. [4] Una delle più antiche pestilenze di cui si abbia notizia è quella che colpì i Filistei che avevano sottratto l’Arca dell’Alleanza (Primo libro di Samuele 5) ; in tal caso si trattò, probabilmente, di vera e propria peste bubbonica, rispetto alla quale appare già intuito il nesso tra il relativo agente patogeno e i topi, [5] al punto che per placare Dio gli si offrono doni espiatori in oro a forma di bubbone e di roditore (Primo libro di Samuele 6, 4-5). Un’altra epidemia biblica [6] è stata, da taluni, ritenuta sifilide ma è plausibile che si sia trattato, invece, di tubercolosi polmonare, [7] i cui sintomi sembrano descritti pure altrove. [8]  













Anche la decima piaga d’Egitto (la morte di tutti i primogeniti, animali compresi), [9] potrebbe essere stata un’epidemia, ma il testo non permette di riconoscerla con esattezza. [10] Durante l’assedio di Troia, Crise invoca l’aiuto di Apollo poiché Agamennone ha rapito la figlia Criseide ; la divinità manda una tremenda pestilenza e Agamennone, appresa la ragione da Calcante, ubbidisce restituendo le schiave ma in cambio pretende Briseide, concubina di Achille. [11] Ma la più celebre patologia di massa dell’antichità fu la peste attica o di Atene, che infuriò fra il 430 e il 425 a.C., durante la guerra del Peloponneso, mentre la città era sotto assedio e piena di profughi ; il che ne rese ancora più precarie le condizioni igienico-sanitarie e ulteriormente funesti gli effetti. Tucidide riferisce che il morbo sarebbe partito dall’Etiopia, per poi passare in Egitto e in Libia e, quindi, abbattersi su Atene ; aggiunge che, dapprima, si era ritenuto che i Peloponnesiaci avessero avvelenato le acque. Racconta quindi, con efficacia il devastante propagarsi dei sintomi nei corpi, delle vittime, aggiungendo che anche gli animali necrofagi perivano dopo averli divorati. Soprattutto, ben descrive quel ribaltamento delle gerarchie sociali e delle convenzioni etiche, cagionato anche dal fallimento del tentato rimedio religioso, che nei millenni successivi sarebbe ricomparso quale tipico effetto di eventi catastrofici.[12] L’esposizione fu ripresa in pregevoli termini letterari da →Lucrezio, sul finire della sua opera incompiuta. [13] È stato recentemente supposto, in base a studi paleopatologici sulla polpa dentaria di alcune vittime, che tale devastante morbo sia da identificare con una febbre tifoide. Altre importanti epidemie dell’epoca antica furono: la peste di Siracusa (395 a.C.), esplosa fra le truppe cartaginesi che assediavano la città siciliana e narrata da Diodoro Siculo ; [14] la peste di Orosio (125 d.C.) scoppiata sulla costa nord dell’Africa ; la peste ‘Antonina’ (165-180 d.C.), dapprima diffusa fra soldati romani inviati in Siria per affrontare i rivoltosi e poi, al loro ritorno, trasmessa per contagio agli abitanti dell’Urbe ; la peste di Cipriano (251 d.C.), che infuriò in Egitto per poi allargarsi nell’intera Europa. In tutti questi casi non dovette trattarsi di peste bubbonica propriamente detta ; la prima epidemia del genere di cui si abbia notizia certa è quella ‘giustinianea’ (542-558 d.C.), che conobbe larghissima estensione ma tormentò specialmente Costan 





















physica plinii tinopoli. È interessante rilevare come Roma, esposta alle febbri malariche, abbia elaborato una strategia difensiva consistente nell’ipostatizzarle in forma divina, instaurando il culto della dea Febris, che non ebbe equivalenti nel mondo greco. Note. [1] Lachaud 1997, 69. – [2] Trevisanato 2007. – [3] De. 28, 21. – [4] Ez. 38, 22. – [5] Sterpellone 2004, 91-92. – [6] Nu. 25-29. – [7] Sterpellone 2004, 92-93. – [8] De. 28, 22. – [9] Ex. 12, 29-30. – [10] Halioua 2005, 284. – [11] Hom. Il. 1. – [12] Th. 2, 47-53. – [13] Lucr. 6, 1140-1288. – [14] Vanotti 1989. Bibliografia. Halioua 2005 ; Lachaud 1997 ; Sterpellone 2004 ; Trevisanato 2007 ; Vanotti 1989.  







Francesco Cuzari

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luogo e aria, per via di terra o di mare, o, quando questo non sia possibile, seguire una ‘dieta’ precisa ed efficace. Per →Galeno, che riprende Ippocrate, la peste non è tanto una malattia, quanto un’idea di marciume di umori del corpo che produce un’epidemia che si diffonde. [7] Per questo non sono necessarie trattazioni mediche. Galeno richiama →Ippocrate ; non è tuttavia corretto ricondurre esclusivamente all’aria la genesi di tutte le malattie che abbiano qualcosa in comune. [8] I miasmi che si diffondono attraverso influenze climatiche nell’aria [9] conferiscono alla peste carattere di contaminazione[10] ; per questo, contro la peste viene impiegata, come profilattico, anche la teriaca. [11] Alcuni autori tardi, come →Oribasio, si soffermano a descriverne dettagliatamente e con precisione scientifica i sintomi. [12] Epidemie storiche, come la peste di Atene o quella degli Antonini o quella di età giustinianea, non hanno lasciato, tranne poche eccezioni, nella letteratura medica alcuna traccia. [13]  











3. La peste e la medicina antica. – Per affezioni come la peste [loimov~, pestilentia, pestis, lues] la medicina degli antichi è in pratica ancorata all’idea ippocratica che la sua origine vada ricercata in elementi comuni e in fattori esterni ai pazienti. Se la malattia, spesso denominata dagli autori ‘pestilenza’, si diffonde da una regione all’altra, la causa va ricercata nell’aria, corrotta dalle cause più differenti ; se il male colpisce soprattutto una classe o un gruppo di persone, responsabile è più di tutto la diaita, cioè il modo di vivere. A questo tipo di spiegazioni, più o meno ufficialmente accolte, si affianca la teoria del passaggio diretto del male da soggetto a soggetto, oppure da germi invisibili, che penetrano nei pazienti. [1] La peste è caratterizzata dal fatto di colpire contemporaneamente più individui, da diffusione geografica piuttosto ampia, da sintomi gravi, anche se non sempre coincidenti ed esclusivi. Nella letteratura non medica la peste è tema ricorrente, con un buon numero di denominazioni, già da Omero, [2] nel Vecchio Testamento, nei Tragici e negli storici, come, sulla peste attica, in Tucidide. [3] Nel Corpus Hippocraticum la peste è un caso particolare di malattia epidemica febbrile, che si diffonde e spesso diventa mortale. [4] Causa prima del male era una sorta di corruzione dell’aria, i miasmi : rimedio più efficace erano ritenuti non tanto i medicamenti, quanto cambiare regione [5] o una dieta adeguata, ma sana ; il contagio, nella prospettiva ippocratica aveva un ruolo piuttosto secondario. Anche per →Celso [6] il rimedio migliore è cambiare  













Note. [1] Ad es. Varrone ; cfr. Mazzini 1997, 311. – [2] Cfr. Il. 1, 49-52. – [3] Si vedano le pagine terribili e splendide della Guerra del Peloponneso, 2, 47-54 ; 3, 87; a Tucidide si rifanno in vario modo D.S. 12, 58; Plu. Per. 34-38; Lucr. 6, 1138-1286. – [4] Acut. 5 / 2, 232 sg. L ; cfr. anche Bergdolt 2005b, 684-686. – [5] Hp. Nat. hom. 9, 5/ 6, 54 L ; Flat. 5 sg. / 6, 96 sg. L. – [6] 1, 10, 1-4 / 41-42 M. – [7] Gal. In Hp. Acut. comm. 1, 8 / 15, 429 sg. K ; In Hp. Aph. 2, 13 / 17, 2, 470 K. – [8] Gal. In Hp. Nat. hom. Comm. 3 / 15, 118119 K. – [9] Gal. In Hp. Epid. 3, comm. 3, 21 / 17, 1, 668 K. – [10] Aret. 1, 7, 3. – [11] Gal. Ther. Pis. 16 / 14, 280 sg. K ; cfr. Bergdolt 2005b, 685. – [12] Orib. Syn. 6, 25. – [13] Cfr. ad es. Ruf. ap. Orib. Coll. 44, 14, 2.  













Fonti. Hom. Il. 1, 49-52 ; Hp. Acut. 5/2, 232 sg. L ; Nat. hom. 9, 5/ 6, 54 L ; Flat. 5 sg. / 6, 96 sg. L ; Thuc. 2, 48-51; Lucr. 6, 1138-1286; Cels. 1, 10, 1-4 / 41-42 M ; Aret. 1, 7, 3 ; Gal. Ther. Pis. 16 / 14, 280 sg. K ; In Hp. Nat. hom. Comm. 3 / 15, 118-119 K. In Hp. Acut. comm. 1, 8 / 15, 429 sg. K ; In Hp. Epid. 3, comm. 3, 22 / 17, 1, 668 ; In Hp. Aph. 2, 13 / 17, 2, 470 K ; Aët. 5, 96 (da Rufo) / 82-83 O ; Orib. Syn. 6, 25 ; Ruf. ap. Orib. Coll. 44, 14, 2.  

























Bibliografia. Bazin Tacchella-Quéruel-Samaha 2001 ; Bergdolt 1994 ; Bergdolt 2005b ; Horstmanshoff 1989 ; Leven 1997 passim ; Mazzini 1997, 311-313 ; Nutton 1997g.  











Sergio Sconocchia



Physica Plinii. Il primordium di questa compilazione anonima di ricette mediche e rimedi

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piante acquatiche

in lingua latina è databile al v-vi secolo d.C. : l’opera nasce dalla confluenza di una classe di codici della →Medicina Plinii (derivante, come è noto, dalle sezioni della Naturalis Historia di →Plinio relative alle proprietà terapeutiche di piante e animali) interpolati con altre fonti di vario genere. La tradizione si suddivide in vari rami. Per il ramo Bambergensis, per il quale si disponeva fino ad oggi di un testimone frammentario, largamente incompleto, come Q, assume valore notevole il nuovo testimone individuato da Sergio Sconocchia nel ms. Casinensis 69 in minuscola beneventana, di fine sec. ix (cfr. Sconocchia 1995b), non noto ad Önnerfors né ad altri studiosi e molto più ampio e attendibile rispetto all’esemplare edito da Önnerfors 1975. Per i rami della Physica Plinii si veda in generale Önnerfors 1963, soprattutto 12-16, e la bibliografia contenuta nella stessa edizione di Önnerfors 1975. Per un riesame che evidenzia il valore della nuova testimonianza offerta dal Casinensis 69 si veda Sconocchia 1990a e Sconocchia 1992.  

Edizioni. Önnerfors 1975. Bibliografia. Adams-deegan 1998, 89 ; Önnerfors 1963 ; Sconocchia 1989 ; Sconocchia 1990a, 515-527 ; Sconocchia 1992, 275-289 ; Sconocchia 1995b, 278-279.  









Fabio Cavalli Piante acquatiche. 1. Un mondo sconosciuto. – La →botanica antica ragiona spesso in termini di opposizioni binarie. Una di queste, molto importante (megivsth diaforav), è quella tra piante terrestri (e[ggaia) e piante acquatiche (e[nudra), genere in cui rientrano due grandi categorie : gli organismi vegetali che vivono completamente nell’acqua (di fiumi, laghi, o del mare), e quelli che hanno come habitat le rive o le sponde di distese d’acqua (Theophr. HP 4,6-12 ; Plin. nat. 13,135-142, piuttosto all’insegna del mirum). Il mondo acquatico è, dagli antichi, il meno conosciuto ma, come uno specchio, riproduce quello terrestre nella terminologia : il noto è strumento per definire l’ignoto rapportandolo a ciò che si conosce, così nella →zoologia come nella →botanica. Così si hanno, ad esempio, la « quercia di mare » e la « vite di mare », l’« alloro » e l’« ulivo » del Mar Rosso. È convinzione degli antichi che le piante acquatiche vivano meno di quelle  





















terrestri, siano tendenzialmente più piccole e meno commestibili. 2. Vegetali totalmente acquatici. – Sono le specie meno conosciute, al di là di qualche alga (fuvko~) raccolta dai cercatori di spugne, e di alcuni esemplari singolari portati a riva dalle tempeste o da pescatori spintisi al largo, inquadrati nella categoria dei qauvmata. Altra fonte di informazioni importante è costituita dalla spedizione in oriente di Alessandro Magno, in particolare il viaggio nell’oceano indiano di Clearco. Le descrizioni degli autori antichi sono spesso imprecise, e di difficilissima identificazione per i botanici moderni (Theophr. HP 4,6-7 ; Plin. nat. 13,135-136) ; la terminologia, come si è detto, riproduce in larga parte, ‘a specchio’, quella dei vegetali terrestri : si parla così di porro, agrostide, uva, alloro e ulivo. Diverse specie sono ricondotte alle distese marine di là delle colonne d’Ercole. Alcune sono impiegate come essenze per tinture, materiale da cordame, o preparati medicamentosi. 3. Vegetali parzialmente acquatici. – I vegetali dell’habitat palustre-fluviale conosciuti dalla botanica antica sono divisi in tre gruppi : alberi (devndra), erbacei (powvdh) e suffruticosi (locmwvdh). Molte specie sono comunemente note (il sedano palustre, il calamo, il cipero, tutti i giunchi), e diversamente impiegate nella manifattura e nella medicina. Sono generalmente commestibili, e dolci. È l’Egitto che, con le piene del Nilo e con l’ambiente nilotico caldo-umido, rappresenta il luogo ideale per le piante acquatiche di questo tipo (HP 4,8). Numerosissime sono le specie lungo le rive e le paludi del Nilo, importantissime alcune per i loro usi. Prima fra tutte è il papiro (buvblo~, pavpuro~, cyperus papyrus), notissimo e diffuso come materiale scrittorio (Theophr. HP 4,8,4 ; Plin. nat. 13,68-89) ; la cosiddetta « fava egiziana », da identificare con il loto rosa, elemento indispensabile nella dieta mediorientale. Diffusa negli ambienti acquatici europei, invece, è la canna (kavlamo~, calamus), che ha un ruolo rilevante nella manifattura e nella produzione di →legno da costruzione, nonché da sostegno a colture quali la vite o altri rampicanti (Colum. 4,32 ; Plin. nat. 16,156-173 ; 17,144-146) ; significativa la dettagliata descrizione della tecnica di realizzazione di flauti e zufoli che ne dà →Teofrasto (HP 4,11). Di minor pregio, ma importanti come materiali per vimini e  





















piante aromatiche manifatture tessili, sono le numerose specie di giunco (in generale scoivno~, iuncus). 4. Il riso. – Coltivato fin dalla remota antichità nelle regioni asiatiche, poi nel medio oriente e in Egitto, e considerato pianta acquatica, il riso (oryza sativa) compare nelle fonti greche dopo la spedizione di Alessandro, ma da un frammento di Sofocle (fr. 609 Radt) e da un passo di Erodoto (3,100) risulta che se ne aveva una conoscenza pure limitata e confusa già nel v sec. a.C., e lo si collocava in ambito indiano. Attraverso le notizie dipendenti da Megastene e Nearco, esploratori dell’India, la pianta è descritta come simile alla farragine e al loglio, sommersa dall’acqua (Theophr. HP 4,4,10). In seguito il riso sarà topicamente attribuito alla dieta alimentare sobria dei gimnosofisti indiani. Nota è anche la bevanda ottenuta dalla sua fermentazione. Ma sia nella Grecia ellenistica sia nel mondo romano non rappresentò alimento diffuso. Diversamente, il suo impiego in farmacologia e medicina è ampio e documentato, in particolare come astringente e raffreddante ; in dermatologia era impiegato contro il prurito (Marinone 1992).  

Emanuele Lelli Piante aromatiche. 1. Dall’oriente a ‘moda’ aristocratica. – « I cibi conquistano con la propria dolcezza oppure invogliano con il loro aspetto. Chi per primo volle stuzzicare il suo appetito senza accontentarsi di aver fame ? » Con queste parole, in riferimento al sorprendente successo del pepe, →Plinio (nat. 12,29) sembra quasi far eco al tema (anche filosofico) della ‘parca mensa’, già idea socratica, e particolarmente sottolineata, in età ellenistica, dall’epicureismo (Epic. ep. 3, 131). Il tema, tuttavia, rimase in larga parte un topos letterario : nella cucina greca e romana, al contrario, si fece un considerevole uso di piante aromatiche. Le piante aromatiche rivestivano un ruolo importante ed erano impiegate in diversi ambiti già nei tempi più antichi : passando attraverso l’Egitto, arrivarono nel mondo greco e, di qui, ai Romani, che importarono spezie dal lontano Oriente e apprezzarono sempre di più le essenze e i profumi, facendone uno status symbol dello stile di vita agiato. Dopo l’iniziale diffidenza nei confronti delle ‘mollezze’ orientali, con l’età imperiale le spezie e i profumi trionfarono, a Roma, in tutte le loro forme.  

   





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2. Impieghi e funzioni culturali. – Alcune →erbe erano adoperate durante i riti magici e per preparare filtri, nonché nei rituali di iniziazione e per onorare gli dèi nei riti religiosi ; attraverso la combustione, le sostanze odorose ricavate dalle piante svolgevano la duplice funzione di attirare la grazia divina e quella ancor più antica di igienizzare ; ad esempio, nei tempi più remoti, per le loro proprietà, alcune resine venivano usate per fumigazioni a scopo di disinfettante. →Plinio ricorda che più tardi, in ambito romano, incenso e altri profumi cominciarono ad essere bruciati anche in onore dei defunti. Già nel mondo greco le erbe erano impiegate nelle pratiche funebri : con alcune di esse, infatti, si frizionavano i cadaveri per preservarli più a lungo. Le piante aromatiche erano largamente utilizzate per decotti e infusi dissetanti o medicinali, ma soprattutto per insaporire cibi, per aromatizzare vini e altre bevande. In tutti i cibi della cucina antica figuravano sostanze aromatizzanti utilizzate sia nella cottura sia nella preparazione e, per l’uso eccessivo che se ne faceva, spesso gli alimenti perdevano il loro sapore originale ; anzi in età imperiale i Romani incominciarono ad arricchire appositamente i cibi di spezie con l’intento di cambiare con arte raffinata e complessa i gusti dei prodotti, trasformandoli in illusioni e in capolavori di abilità culinaria ; i cuochi romani erano bravissimi nell’imitare i diversi alimenti in quanto sapevano far credere a chi mangiava i loro piatti che si stava mangiando pesce al posto di anatra, carne al posto di verdura (come nel Satyricon). Caratteristica rilevante era la predilezione per l’accostamento di sapori forti e aromi contrastanti come il dolce con l’agro o il dolce con il piccante. Era diffusa anche la convinzione che le spezie favorissero la digestione ‘cuocendo’ i cibi nello stomaco. Gli studiosi ormai da tempo considerano infondata l’idea che le spezie venissero aggiunte per mascherare con odori forti cibi mal conservati ; nei trattati antichi di cucina si prescrive, infatti, di aggiungere le spezie alle vivande all’ultimo istante, poco prima del consumo. Infine le piante aromatiche erano, nell’antichità come oggi, materie prime dei profumi e dei cosmetici [→cosmetica] : agli olii venivano mescolati i fiori, le foglie, il legno, la resina, i semi, le radici di piante odorose, ma anche le erbe aromatiche propriamente dette.  













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In effetti, in questa sede, saranno riuniti sotto un’unica generica definizione di piante aromatiche, poichè finalizzati allo stesso scopo, due ambiti in botanica oggi distinti e cioè : le ‘spezie’ con cui si intendono le radici, i fiori, i frutti, la corteccia e i semi di piante annuali e biennali e le ‘erbe aromatiche’ coincidenti con le foglie e i germogli della pianta. Il termine « spezie » deriva dal latino species ossia « merci speciali » contrapposte alle « merci ordinarie » e si è tecnicizzato per indicare le sostanze vegetali derivate da particolari piante aromatiche di origine africana e orientale importate con le navi e pertanto altamente costose. Per questo fin dall’antichità le spezie sono state avvolte da un certo mistero, fortemente amate e desiderate oltre che preziosissime, considerate simbolo di ricchezza e indicate come elementi magici. Ad esse si contrapponevano le più povere e contadine erbe aromatiche, una sorta di ‘spezie locali’, perché coltivate negli orti domestici, estremamente variegate pur se meno blasonate, che condividevano con le prime funzioni alimentari e terapeutiche. 3. Le principali piante aromatiche. – Numerosissime sono le piante aromatiche censite e descritte dalle fonti antiche. Le più impiegate sono tuttavia una trentina. 3.1. Aglio (skovrodon, alium). Meno amato presso i Greci e usato soprattutto in qualche ricetta di pesce, era invece molto presente nelle ricette dei Romani e considerato un alimento importante da cui trarre salute ed energia. Era pianta sacra a Marte. 3.2. Alloro (davfnh, laurus). È una pianta sacra ad Apollo e onorata da Giove, sempreverde, dal succo viscoso (Theophr. HP 1,5,2 ; 3,11,3) e molto usata nella cucina greca e romana (Apic. 8 ; 290). Quando la Pizia rendeva oracoli si preparava con il digiuno e fumigazioni di foglie di alloro. Diverse erano le specie : alloro nano, alloro selvatico etc. (Plin. nat. 15,127-128). Dall’alloro si ricavavano un olio e un vino (Plin. nat. 15,26 ; 14,112 ; Diosc. 1,40,1 ; 5,30). Era tra gli aromi più usati nella preparazione dei profumi (Plin. nat. 13,10). 3.3. Basilico (w[kimon, ocimum basilicum). Pianta sacra a Giove. Presso i Greci non era utilizzata in cucina, ma per scopi ornamentali e per scacciare gli insetti. Il periodo di semina del basilico era la primavera (Colum. 5,12,3 ; 11,3,29), ma poteva essere seminato anche più volte durante l’anno (Theophr. HP 1,6,6 ; 7,2,89),  





























nasceva rapidamente ed esisteva in una sola specie (Plin. nat. 19,98 e 123). Molto comune (Apic. 186) e di buon odore (Diosc. 2,130 e 3,45), i Romani lo utilizzavano in cucina. Era inoltre un ingrediente base dei profumi, come è stato rilevato dalle analisi condotte sulle ampolle ritrovate nelle botteghe di Pompei. 3.4. Cannella (kinavmwmon, cinnamomum). Conosciuta soprattutto nelle due varietà casias e cinnamomum (Plin. nat. 13,15 ; Theophr. HP 4,4,1 e 9,5,2), ma anche in numerose sottospecie di origine sia mediterranea (Diosc. 1,13) che orientale (Colum. 3,8,4), era utilizzata per aromatizzare piatti agrodolci e tipi di vino (Colum. 12,20,3 e Plin. nat. 14,107). Largamente usata anche nella composizione di profumi a volte dal prezzo elevatissimo (Plin. nat. 12,85 sgg.). 3.5. Cappero (kavppari~, capparis). Molto noto e apprezzato nell’antichità, era usato in molte pietanze e condimenti. Cresceva spontaneamente in estate nelle zone mediterranee (Theophr. HP 6,5,2 ; 1,3,6) e si riteneva che la varietà coltivata richiedesse poca coltura (Colum. 11,3,54 e 12,7,13). Il migliore tipo di cappero era ritenuto quello d’Egitto, mentre quelli di altre zone erano considerati velenosi (Plin. nat. 13,127). 3.6. Cipolla (krovmmuon, caepa). La cipolla era già conosciuta in Egitto dove era considerata una divinità (Plin. nat 19,101 ss.). In Grecia aveva un posto di rilievo tra gli aromi. Amate da Platone, di frequente comparivano come antipasti nei banchetti. Le dolcissime cipolle greche furono importate in Italia dai coloni euboici che si insediarono a Cuma. Si conoscevano diverse varietà (Theophr. HP 7,4,7 ss. ; 1,5,2 ; 1,6,9) quali la pompeiana, la cipolla d’Ascalona, la marsica (Colum. 12,10,1), la cipolla di Sardi, la samotracia e altre ancora (Plin. nat. 19, 101). Andava seminata in autunno (Colum. 11,3,15 ; Plin. nat. 19,101), era usata per aromatizzare un formaggio definito « giuncata » (Colum. 12,8,1) o per salse come il moretum (ib.12,59,1) ; Dioscoride distingue tra cipolla canina e squilla (2,160 e 162). I numerosi tipi di cipolla erano usati in varie salse (Apic. 126, 173, 274, 435). 3.7. Cumino (kuvminon, cuminum). Di origine orientale e dall’aroma molto forte somigliante al pepe. Era molto conosciuto già nel mondo greco dove secondo le fonti si seguiva un rito per la sua semina (Theophr. HP 1,11,7 ; 7,3,3). Era di frequente usato per insaporire le car 

















piante aromatiche ni. Esistevano diverse varietà ricorrenti nelle ricette dei Romani (Apic. 31, 37, 225, 365) e in generale si distinguevano un cumino selvatico e uno domestico (Diosc. 3,62). Tra i vari usi veniva mescolato ai fichi come essenza per farli seccare (Colum. 12,15,3). Gli esami archeologici sulle ampolle hanno dimostrato l’uso del cumino nella realizzazione dei profumi. 3.8. Finocchio (mavraqon, foeniculum). Il finocchio aveva un profumo intenso (Theophr. HP 1,12,2 ; Diosc. 3,75) ; molto conosciuto nella cucina sia greca che romana (Apic. 41, 113 passim), era utilizzato ad esempio per far seccare i fichi (Colum. 12,15,3), per condire le olive (ib. 12,49,2), per aromatizzare un tipo di vino (ib. 12,35,1) e una volta secco veniva adoperato per aromatizzare un gran numero di vivande (Plin. nat. 19,173 e 186). Erano usati come condimento anche i semi di finocchio (Apic. 174, 182, 194). 3.9. Incenso (livbano~, libanwtov~, tus). Era il più famoso dei profumi celebrato soprattutto per il suo impiego sacrale. Le fumigazioni di incenso, infatti, durante le funzioni religiose avevano funzione purificatrice e lo scopo di mettere in contatto con gli dei. Si trattava di una pianta rara proveniente dalla Siria e dall’India (Theophr. HP 4,4,14) e da alcune zone dell’Arabia (Plin. nat. 12,52 e ss. ; Diosc. 1,72), ma i Romani riuscirono a farla fiorire anche in occidente (3,8,4). L’incenso destinato alla manifattura, si ricavava incidendo la corteccia dell’albero da cui fuoriusciva una resina (Theophr. HP 9,1,6 ; 4,7 sgg.). Esisteva anche un vino al profumo di incenso offerto in libagione agli dei (ib. 14,117). 3.10. Iris (i\ri~, iris). Pianta erbacea a fioritura estiva (Theophr. HP 6,8,3), proveniente dalle regioni settentrionali e dall’Illiria dove era di ottima qualità (ib. 4,5,2); la radice estremamente odorosa (ib. 1,72) veniva utilizzata per aromatizzare un vino dal gusto particolarmente dolce (Colum. 12,28,1 ; Plin. nat. 14,135). Era tra gli aromi mescolati nella preparazione dell’olio gleucino che era un olio preparato con mosto di vino aromatizzato (Colum. 12,53,2). Comune era anche il suo uso nei profumi (Plin. nat. 13,5). 3.11. Laserpizio (sivlfion, laser, forse abbreviazione di laserpicium). Pianta dal sapore acre (Theophr. HP 9,1,4), molto rara e costosa, dai Greci chiamata silphion (Plin. nat. 19,40 ; Colum. 12,59), ma non esattamente identificata  











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malgrado gli sforzi dei botanici. Localizzata soprattutto in Cirenaica (Theophr. HP 6,3,3 ; Plin. nat. 19,39 ss.) e in Siria (Diosc. 3,85), veniva utilizzata per conservare le lenticchie (Colum. 2,10), per correggere l’agro del melograno (ib. 5,10,15), per la salamoia (ib. 12,7,5) o per la preparazione dell’oxyporum (ib. 12,59,4 dove tra l’altro è distinto il laserpizio dal silfio). Il laser ricorre come ingrediente di numerose salse (Apic. 327, 365, 377). In Grecia famosa era una salamoia al silfio con la quale Archestrato condiva gli amatissimi pesci. 3.12. Lentisco (sci`no~, lentiscus). Presso i Greci era famoso e molto usato in cucina il lentisco di Dictymna. Il suo odore veniva considerato simile all’incenso (Theophr. HP 9,1,2 e 9,4,7). Presso i Romani i semi del lentisco erano usati come condimento aromatico per le ricette più varie : con le olive (Colum. 12,49-50), per un vino preparato facendo bollire nel mosto l’arbusto della pianta (Plin. nat. 14,111 ; Diosc. 5,29) o nella produzione di un olio (Diosc. 1,41 e Plin. nat. 15,28). L’essenza inoltre veniva adoperata per uno dei profumi più comuni (Plin. nat. 13,9). 3.13. Maggiorana (ajmavrakon, maiorana hortensis). Pianta perenne estremamente odorosa con fioritura estiva (Theophr. HP 1,9,4 ; 6,8,3 ; 9,7,3 passim). Proveniva dall’Oriente e in Grecia era usata in molte cerimonie magico-religiose, ma era presente soprattutto nella cucina dove era considerata ottima per aromatizzare pietanze a base di carne e minestre. Termini latini per indicare la maggiorana erano anche : amaracus, sampsuchum (Plin. nat. 15,30 ; 13,10) o amaracinus (Colum. 9,4,6). Dalla maggiorana si ricavava un profumo (Plin. nat. 12,5 ; 13,10), un olio (Plin. nat. 15,30) ed anche un miele (Colum. 9,4,6). Era inoltre adoperata come condimento di vari cibi (Colum. 12,10,2 e 48,1). 3.14. Malva (malavch, malva). Pianta sacra a Giove. Esisteva una malva selvatica e una domestica (Diosc. 2,109). I Greci (Theophr. HP 4,15,1) e i Romani (Plin. nat. 19,98 ; Colum. 9,14,9 ; Apic. 140, 174) la ritenevano preziosa sia per scopi alimentari che medicinali e veniva utilizzata in particolare per decotti. Esiodo (Op. 41) ricorda che la malva insieme all’asfodelo veniva consumata in tempo di carestia. Due erbe umili, dunque, emblema di una vita semplice. 3.15. Menta (hJduvosmon, menta). Pianta sacra a Mercurio. Erba perenne molto aromatica,  



















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senza frutti (Theophr. HP 2,4,1 ; 6,7,2 ; 7,7,1). Tra i Greci era molto presente in cucina, ma anche nelle pratiche funebri. Veniva seminata in marzo (Colum. 11,37) ed era usata per aromatizzare un vino (ib. 12,5,1), per fare la giuncata e in generale per insaporire minestre (ib. 12,59,1), lattuga, carni, pesce o uova (Plin. nat. 19,15 ; Apic. 38, 41, 463). L’uso di aromatizzare il vino con la menta fu introdotto per la prima volta da Eliogabalo. Si conoscevano due tipi di menta : una domestica e una selvatica che era il cosiddetto mentastro (Plin. nat. 19,15 ; Diosc. 2,117 e Colum. 11,3,37), dalle foglie più larghe e dall’odore più potente da cui si ricavava un vino (Diosc. 5,52). Era adoperata anche nella preparazione di profumi. 3.16. Mirra (smuvrna, murra). Resina estremamente aromatica, ricavata incidendo la corteccia di alberi provenienti dall’Africa, dall’Arabia, dalla Siria e dall’India (Theophr. HP 9,4,4-6-10 ; 4,4,14 ; 9,1,6 ; 9,7,3). Erano conosciute varie specie di mirra che si distinguevano per il diverso profumo e il diverso prezzo (Plin. nat. 12,66 sgg.). Considerata un ottimo condimento, la mirra veniva usata anche per aromatizzare un vino che era considerato molto pregiato (Plin. nat. 14,15). 3.17. Mirto (murrivnh, myrtus). Arbusto sempreverde con frutti e piccoli fiori bianchi (Theophr. HP 1,9,3) ; presente in numerose aree geografiche e in particolare nel Lazio, erano conosciute diverse specie (ib. 1,9,3 ; 1,14,1 ; 5,8,3). Nel mondo antico era sacro a Venere. Le bacche di mirto erano adoperate per aromatizzare i cibi (Apic. 48, 218, 270) e il vino (Plin. nat. 14,104 ; Colum. 12,38 ; Diosc. 5,30) ; in effetti esistevano diverse ricette per preparare il vino al sapore di mirto (il ‘mirtite’), ma non si trattava di un vero e proprio vino ‘condito’ da presentare nei banchetti ; Catone, infatti, lo ricorda insieme ad altri vini che venivano preparati a scopo medicamentoso. È noto anche un olio di mirto (Plin. nat. 15,27). Gli esami archeologici delle sostanze contenute nelle fiale rinvenute durante gli scavi, hanno segnalato che il mirto era anche tra gli aromi più usati nei profumi. 3.18. Nardo (navrdo~, navrdon, nardus, nardum). Piccola pianta dei prati proveniente dalla Siria e dall’India (Theophr. HP 9,7,3), ma ben presto coltivata anche in Liguria, era particolarmente apprezzata per il profumo delle foglie e delle radici (ib. 9,7,3). Utilizzata in cucina (Apic. 34, 228, 416), era conosciuta anche come essenza  





























per aromatizzare un vino (Colum. 12,20,5). Erano conosciute varie specie (Diosc. 1,6) tra cui il nardo gallico e il nardo selvatico con i quali si producevano vini diversi (Plin. nat. 14,106), ma era considerata importante anche nella preparazione dei profumi (Plin. nat. 12,42). 3.19. Origano (ojrivganon, ojrivgano~, origanum). Pianta erbacea perenne di sapore acre, molto presente in Arcadia (Theophr. HP 1,9,4 ; 1,12,1 ; 7,6,1 passim) con foglioline ovali e fiori rosa. Dapprima selvatico, poi anche coltivato (Plin. nat. 19,184) ; si distinguevano in realtà vari tipi di origano (Diosc. 3,29). Presso gli antichi Greci si impiegava l’origano come simbolo di felicità e si realizzavano delle ghirlande destinate alle coppie di sposi. Veniva utilizzato per insaporire e conservare i cibi più diversi (Colum. 12,59,4) come ad esempio legumi, carni (Apic. 29, 46, 79, 104, 377), cicoria (Colum. 12,9,3), formaggi come la giuncata (ib. 12,8,1). Con l’origano veniva prodotto anche un vino (Plin. nat. 14,105 e Diosc. 5,64), e un miele (Colum. 9,4,6). Esami archeologici attestano che un profumo antico definito amarakinon fosse basato sull’essenza di origano insieme a quella di maggiorana. 3.20. Pepe (pevperi, piper). Pianta di origine asiatica le cui bacche di forte aroma erano usate come condimento. Secondo alcuni antichi autori esistevano due sole specie di pepe : uno tondo e uno lungo (Theophr. HP 9,20,1), altri invece ne distinguevano tre tipi : lungo, bianco, nero (Diosc. 2,148). Costosissimo e già apprezzato nella cucina greca, appena fu importato nel mondo romano ottenne un immediato successo (Plin. nat. 12,29). La spezia più diffusa nel i sec. d.C., infatti, era il pepe tanto che nel 92 d.C. fu necessario costruire particolari depositi detti horrea pipearia. Il pepe era utilizzato come aroma in molte ricette, ad esempio per rendere più saporite verdure, carni cucinate nel brodo (Apic. 29, 58, 377, 460), in salse, intingoli (una delle salse più famose, infatti era il garum che era composto di olio, vino, aceto e pepe) e persino sui dolci (dulcia piperata: Apic. 300). Alcuni vini erano preparati con l’aggiunta del pepe e venivano definiti ‘aromatizzati’ o ‘pepati’ (Plin. nat. 14,108). Esisteva anche un aceto detto aceto piperato (Colum. 12,59,4). Poiché proveniva da lontano ed era molto costoso, era considerato molto prezioso e così gli furono attribuite anche virtù magiche ; questo portò spesso ad adoperarlo in vari filtri d’amore. 3.21. Rosmarino (rosmarinus). Arbusto con pic 











piante aromatiche cole foglie aromatiche e fiori violacei. Nell’antichità il rosmarino era una pianta consacrata a Venere e i Romani la usavano per adornare gli altari. Veniva utilizzato comunemente in cucina sulle carni. Era noto un vino al rosmarino (Colum. 12,36), che tuttavia era usato piuttosto per scopi medici ; molto buono era anche un miele di rosmarino (ib. 9,4,6). A volte il termine rosmarino era usato per indicare la libanotide, una pianta dall’aroma simile all’incenso (Plin. nat. 19,187). Gli esami archeologici sulle ampolle l’hanno segnalata come una delle essenze più utilizzate nei profumi. 3.22. Ruta (rJuthv, phvganon, ruta). Pianta erbacea con foglie aromatiche (Theophr. HP 1,3,1 ; 7,4,1), veniva seminata in inverno inoltrato (Colum. 11,3,16-17,38) ed era stimata da Aristotele come afrodisiaca. « L’erba moly » di cui si parla nell’Odissea (10,257-306) è stata identificata dai botanici con la ruta, ma secondo alcuni autori antichi « l’erba moly » era distinta dalla ruta (Diosc. 3,49). Si conoscevano due tipi di ruta : una domestica e l’altra selvatica di sapore più acre e quindi meno commestibile (Diosc. 3,47-48). Era un’erba tenuta in grande prestigio dalla quale si traeva un vino aromatizzato (Plin. nat. 14,105 ; 19,156). Veniva utilizzata come condimento e come uno degli ingredienti più comuni di alcune salse e alimenti della cucina romana (Apic. 145, 434 ; Colum. 12,49,10 ; 12,59,1). 3.23. Salvia (sfavko~, salvia). Pianta sacra a Giove. Era considerata un’erba sacra, essenzialmente magica, che aveva la proprietà di spezzare qualunque maleficio. Estremamente aromatica, si distingueva una salvia domestica da una selvatica (Theophr. HP 6,2,5) definite rispettivamente sfaco ed elelisfaco ; con quest’ultima si produceva anche un vino aromatico (Plin. nat. 14,111). Gli esami chimici sulle ampolle recuperate dagli scavi archeologici sembrano confermare l’uso della salvia come essenza nella composizione di profumi. 3.24. Santoreggia (quvmbra, quvmbron, satureia). Pianta erbacea aromatica dal gradevolissimo e intenso profumo (Theophr. HP 1,12,1 ; Colum. 9,233), cresceva copiosamente in Arcadia (Teophr. HP 6,2,4) ed esisteva sia nella varietà domestica che in quella selvatica (ib. 7,6,1). Era molto comune presso i Romani che ne utilizzavano i fiori rossastri come condimento su carni, pesci, verdure e uova (Apic. 328, 365, 436, 103 passim ; Colum. 12,7,5 ; 8,3 ; 9,3 ; 59,4). A volte  































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identificata con la conila, altre volte chiamata thymbra (Colum. 9,14,10), la santoreggia era conosciuta anche per un miele che si traeva dai suoi fiori (ib. 9,4,2-6). 3.25. Sedano (sevlinon, selinon e apium). Pianta appartenente alle Ombrellifere dalle foglie bianche aromatiche (Theophr. HP 1,12,2 passim) e commestibili. Cresceva in luoghi molto umidi (ib. 4,8,1 ; 7,1,2 passim), ne esistevano diverse specie (ib. 7,4,6 ; 7,6,3 ; Diosc. 3,68) e si poteva seminare per talee e seme (Diosc. 11,3,33). Presso i Romani veniva talora identificato con l’appio (Diosc. 3,68). Già molto presente nella cucina greca dove era considerata una pianta afrodisiaca, presso i Romani si usava comunemente come ingrediente per condire cibi (Colum. 12,7,1 ; 8,3 ; 49,5 ; 59,1 ; Apic. 71, 104, 125, 140, 175). 3.26. Senape (na`pu, sinapis). Pianta erbacea dall’intenso sapore acre (Theophr. HP 1,12,1), che si seminava in autunno o inverno e non aveva bisogno di molta coltivazione (ib. 7,1,3 ; Plin. nat. 19,170-171). I Greci la chiamavano anche thlaspi o saurion, aveva un forte sapore piccante e ne esistevano di tre tipi (Plin. nat. 19,170-171). Nell’antica Roma era considerata un afrodisiaco e per questo veniva usata nelle pozioni magiche. Indicata come ingrediente in molte ricette, era in particolare utilizzata nella preparazione di sughi e salse per pesce lesso, per verdure e piatti elaborati (Apic. 435, 63, 98 ; Colum. 12,57 ; Diosc. 2,143). 3.27. Timo (quvmon, quvmo~, thymum). Pianta aromatica con foglie piccole e fiori rosei (Diosc. 3,39), molto nota nel mondo antico, con un sapore leggermente acre (Theophr. HP 1,12,2 ; Colum. 10,2,33) e vicino a quello del serpillo. Ne esistevano due specie (ib. 6,2,3). Presso i Greci era particolarmente presente come essenza bruciata nei riti religiosi. Il timo compariva come ingrediente di diverse ricette (Apic. 29, 36, 146, 211, 434 ; Colum. 12,8,2 ; 9,3) ; era inoltre la specie preferita per l’apicoltura (ib. 9,14,10) ed un’essenza molto usata anche nella preparazione dei profumi. 3.28. Zafferano (krovko~, crocum). Pianta erbacea con fiori violacei, di forte odore, ampiamente adoperata come aroma (Theophr. HP 6,6,10 ; 9,7,3), con radici carnose, originaria della Cirenaica (ib. 1,6,6 ; 4,3,1 ; 6,6,5). Era una delle erbe più utilizzate nella cucina romana. Lo zafferano proveniva dall’Asia Minore, ma veniva coltivato anche in Italia. 3.29. Zenzero (ziggivberi~, zingiber). Pianta  

































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proveniente dall’Arabia (Plin nat. 12,28). Era tra le spezie più usate nella cucina del mondo antico (Apic.18 ; 37 ; 55 ; 111). Veniva inoltre mescolata insieme ad altre essenze per ottenere vini fortemente aromatici.  





Bibliografia. Amigues 2002 ; Amouretti-Comet 1993 ; André 1985 ; Bruno 1969, 62-95, 221-234 ; Ducourthial 2003 ; Stirling 1997.  









Daniela Di Petrillo Pilum [uJssov~]. 1. Generalità. – Il p. (cfr. celtico pilwrn) era un tipo di giavellotto costituito da una parte in ferro e una in legno utilizzato dagli effettivi dell’esercito romano nei combattimenti a breve distanza. Non sono ben chiare le origini di quest’arma di probabile derivazione etrusca, mentre le evidenze archeologiche come arma romana sono attestate sin dal iv secolo a.C. I Romani adottarono questo tipo di giavellotto nel loro primo scontro coi Galli. Inizialmente era una semplice arma da lancio leggera (iacula), successivamente si specializza come strumento bellico in dotazione alle prime file di hastati. L’archeologia dimostra che la punta del p. originariamente era a freccia piatta, in linea con le altre tipologie di lance, ma verso la fine della seconda Guerra Punica la punta si ridusse di dimensione e assunse una forma piramidale : un accorgimento tecnico che ne migliorò la capacità di penetrazione. I soldati che portavano quest’arma (pilani) ne avevano a disposizione due tipi : uno leggero ed un secondo più pesante ; comunque dalle varie epoche e dai varî territori appartenuti all’Impero Romano è giunta fino a noi una grande varietà di pila. Essi potevano variare in lunghezza (da 150 a 190 centimetri), ma soprattutto si distinguevano per le diverse tecniche costruttive. Alcuni pila avevano, per esempio, delle protezioni per le mani nel caso in cui il legionario avesse voluto utilizzarlo in un combattimento corpo a corpo come una classica lancia ; altri, come documentano alcu 







ne raffigurazioni scultoree, erano appesantiti mediante l’applicazione di una sfera in metallo (solitamente in bronzo, ferro o piombo) più o meno in corrispondenza della giuntura tra la parte metallica dell’asta e quella in legno, con il chiaro scopo di aumentarne la forza di penetrazione infliggendo danni maggiori alle truppe corazzate nemiche. In epoca imperiale, tuttavia, pare che il p. fosse più leggero e se non lanciato correttamente poteva essere di scarsa efficacia. La parte in ferro, cioè il gambo al quale era applicata la punta, era l’elemento in comune tra le diverse tipologie ; questo elemento aveva un diametro più piccolo rispetto al resto del giavellotto, che invece era in legno. Tale struttura rendeva l’arma capace di trapassare con facilità lo scudo dell’avversario e di raggiungere il corpo del nemico che si nascondeva dietro ad esso ; inoltre il p. era costituito da ferro dolce che, dopo aver colpito e trapassato lo scudo del nemico, solitamente si piegava rendendosi inutilizzabile da parte dell’avversario e rendendo inutilizzabile anche lo scudo che diventava più pesante e ingombrante. [1] Il raccordo tra la parte lignea e quella metallica poteva essere realizzato con tecniche diverse. I lanci di pila potevano essere disastrosi per i nemici, al punto tale che spesso essi subivano già numerose perdite prima ancora di venire al contatto fisico con lo schieramento romano. Lo stesso Giulio Cesare nel De bello Gallico [2] narra di quest’utilizzo. 2. Notizie storiche e letterarie. – Oltre che da Cesare altre notizie ci giungono da →Vegezio e →Plutarco ; in particolare quest’ultimo fornisce notizie tecniche a proposito della composizione dell’arma : « uno dei due rivetti di metallo che bloccavano la punta con il codolo fu rimpiazzato con un debole perno di legno che si sarebbe rotto all’impatto in modo tale da deformarla lateralmente, su volere di Gaio Mario ». [3] Lo studio della tattica romana non ha ancora fornito dati certi sull’utilizzo del p. come arma da lancio ; le ipotesi sul suo utilizzo da parte dei legionarî si riducono sostanzialmente a due : il lancio da posizione stazionaria e quello in movimento ; quest’ultimo è considerato l’utilizzo più frequente. In una situazione bellica la posizione stazionaria presuppone una prima fase in cui l’arma viene lanciata e una fase successiva, ben distinta dalla prima, che prevede la carica da parte dell’esercito. Il lancio in movimento, invece, non può presen 



















Fig. 1. Pilum.

Fig. 2. Tipologie di pila.



pitagora tare queste due fasi come momenti separati. Da un passo del De bello civili di Giulio Cesare [4] apprendiamo che i legionarî, oltre ad essere capaci di sfruttare in movimento le potenzialità del p., fossero in grado anche di utilizzarlo da posizione stazionaria : Milites legionis viiii subito conspirati pila coniecerunt et ex inferiore loco adversus clivum incitati cursu praecipites Pompeianos egerunt et terga vertere coegerunt ; un dato analogo traspare anche da un passo degli Annales di Tacito : [5] Conferti tantum et pilis emissis post umbonibus et gladiis stragem caedemque continuarent, praedae immemores […] Ac primum legio gradu immota et angustias loci pro munimento retinens, postquam in propius suggressos hostis certo iactu tela exhauserat, velut cuneo erupit. Resta comunque il dato certo che la tattica romana presupponeva che i pila dovessero colpire i nemici pochissimo tempo prima che i soldati entrassero in contatto con le fila nemiche, per sfruttare l’effetto dirompente dell’arma e consentire ai legionarî di sorprendere un nemico già in difficoltà.  





Note. [1] Caes. Gall. 1, 25, 1-3. – [2] Caes. Gall. 1, 25, 2. – [3] Plu. Mar. 25,2. – [4] Caes. civ. 3, 46, 5-6. – [5] Tac. ann. 14, 36-37. Bibliografia. Bonacina 2007, 35-43 ; Connolly 1997, 41-57.  

Giuseppe Lupini Pitagora. Vissuto fra il 570 circa e il primo decennio del v secolo, P. è nato a Samo e, dopo una prima fase di viaggi e di affermazione come intellettuale, lasciò l’isola, si ritiene, intorno al 535-530 a.C., forse per contrasti con il regime tirannico instaurato da Policrate in quegli anni, e si trasferì a Crotone, dove poté costituire un potente circolo di adepti, prendere il potere e dirigere una vittoriosa spedizione contro Sibari intorno al 510. Seguì una rivolta dei crotoniati che comportò la fine del circolo pitagorico in quella città e il trasferimento del gruppo a Metaponto, sempre sulle coste del mar Ionio. La figura di P. è resa problematica da endemici problemi di raccordo tra gruppi diversi e indipendenti di informazioni che hanno scarsa attitudine a comporre un ritratto unitario. (a) Della fase samia della vita di P. ci parla, con ogni verosimiglianza, →Eraclito nel fr. 129 D.-K. Qui egli ha occasione di osservare che P. iJstorivhn h[skhsen più di tutti gli uomini,

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ossia raggiunse una indiscussa eccellenza nella ricerca di informazioni, inoltre fece una sua selezione di queste suggrafaiv (degli scritti che pure fornivano informazioni [1]), e così facendo ejpoihvsato eJautou` sofivan, pervenne ad accreditarsi come sophos. Eraclito aggiunge notissime parole di disapprovazione in cui spicca il termine polumaqivh, il saper molte cose inteso come connotazione negativa. Nel fr. 40, poi, Eraclito accomuna nel rimprovero di polymathia Esiodo e, quel che più conta, P., →Senofane ed Ecateo. È quasi inevitabile inferirne che, almeno nella fase samia della sua vita, P. si sia fatto conoscere per un sapere quanto meno affine a quello dei maestri di Mileto, per la produzione di scritti comparabili (un →Peri physeos ?) e per l’attiva partecipazione alla vita della proto-comunità di sophoi che assumevano come modello il sapere prodotto e accreditato dai maestri di Mileto. [2] Egli fu infatti non molto più giovane di →Anassimene, coetaneo di Senofane e poco più grande di Ecateo. Spiace constatare, d’altronde, che non ci è pervenuta la benché minima indicazione sui contenuti di questo sapere al quale Eraclito guardò comunque con rispetto. (b) L’immagine di P. che affiora da un frammento di Eraclito non trova i riscontri attesi in ciò che si intuisce sul tipo di profilo culturale che egli assunse una volta trasferitosi a Crotone. Senofane in una sua elegia (21B7 D.-K.) ed Erodoto (2, 81, 2; 2, 123 e 4, 95) additano in P. una sorta di veggente impegnato a sostenere la rinascita (reincarnazione, metensomatosi) ravvisando in ciò un elemento di ciarlataneria, mentre →Empedocle nel fr. 129 parla di lui con autentica venerazione e altrove fa suo il divieto di consumare alloro e fave (frr. 140 e 141), come se, senza essere addirittura un adepto, egli tenesse P. nella più grande considerazione. A sua volta →Platone, in R. 10, 600a, ravvisa in P. un grande educatore e si diffonde sull’alta considerazione in cui egli fu tenuto dai suoi seguaci, sull’uso di connotare come pitagorico il loro stile di vita e sulla vasta notorietà del gruppo ai suoi tempi. Sorge immediatamente l’arduo problema del raccordo tra due immagini così spettacolarmente differenti l’una dall’altra, quasi che non si trattasse nemmeno della stessa persona. (c) Solo a distanza di secoli le nostre fonti cominciano a parlare anche del sapere matematico di P. In compenso già Platone in R.  



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platone

7, 530d, →Aristotele in molti luoghi, e così pure un allievo diretto di Aristotele, →Eudemo di Rodi, parlano a più riprese del sapere matematico dei pitagorici. È dunque virtualmente certo che nel corso del v secolo la comunità dei pitagorici coltivò intensamente la matematica, ma sorprende che per tanto tempo nessuno abbia stabilito la benché minima associazione fra P. e la scienza dei numeri. In ogni caso ci vengono presentate tre facce del medesimo personaggio, tre profili della sua personalità culturale – la polymathia, lo status di veggente o sciamano, la passione per la matematica – che rimangono irrimediabilmente scisse e quanto mai distanti l’una dall’altra. In queste condizioni ogni possibilità di raccordare le tre componenti si fa oltremodo aleatoria e diviene virtualmente impossibile elaborare una risposta credibile alla domanda ‘chi fu veramente P. ?’ La presa di coscienza della difficoltà indicata viene comunemente legata alla pubblicazione di un famoso libro di W. Burkert nel 1962. Da allora, comprensibilmente, il tentativo di rendere conto dell’anomalia indicata, o di superarla, ha conosciuto innumerevoli sfumature, ma appare bloccata su una difficoltà davvero ardua.  

Note. [1] Ha senso chiedersi se non se ne debba inferire che P. compilò la prima antologia della storia, anche se la domanda è destinata a rimanere senza risposta. – [2] Si tenga presente che la testimonianza di Eraclito è stata largamente trascurata dagli studiosi di P. Bibliografia. Burkert 1962 ; Centrone 1996 ; Gemelli Marciano 2007 ; Kahn 2001 ; Riedweg 2005 ; Zhmud 1997.  









Livio Rossetti Platone. 1. Generalità. – Sommo filosofo ateniese, P. è nato nel 427 e morto nel 347 a.C. Allievo di Socrate, P. dovette ben presto ritagliarsi una posizione molto evidenziata fra i Socratici in virtù della potenza della sua scrittura e della maestria con cui ha saputo rappresentare il filosofo impegnato nella conversazione in modo particolarmente vivido e straordinariamente ricco di dettagli. Nel corso del terzo decennio del iv secolo egli si dedicò alla ideazione di un nuovo tipo di dialoghi, non più pensati per rappresentare il filosofo in azione, non più caratterizzati da situazioni in cui tutti gli interlocutori si trovano a improvvisare delle dichiarazioni e

misurarsi con problemi inattesi, ma nei quali lo stesso Socrate espone delle convinzioni che egli avrebbe avuto l’agio di maturare in precedenza e l’interlocutore sostanzialmente rinvia il momento delle possibili obiezioni perché deve prima capir bene che cosa il filosofo sostiene. I primi sono noti come dialoghi aporetici, i secondi come dialoghi dottrinali, e anche in questi ultimi l’autore appare impegnato a mantenere sempre una certa distanza dai personaggi dei suoi dialoghi, per cui nemmeno Socrate è portavoce delle sue idee al 100%. In questo secondo gruppo di dialoghi accade, peraltro, che talvolta il protagonista, il maestro non sia nemmeno Socrate ma qualche altro intellettuale, come lo Straniero di Elea, Timeo, l’Ateniese. Le opere di P. ci sono pervenute per intero, sia pure insieme con qualche dialogo apocrifo, in virtù della sua immensa fama e dell’edizione, organizzata in tetralogie, che ne fece Trasillo ai tempi dell’imperatore Tiberio (i secolo d.C.). Ai codici pervenuti (anche del secolo ix) seguì l’editio princeps dello Stephanus (1578), quindi una fondamentale edizione a cura di John Barnet (Oxford 1900-1907) che viene ora progressivamente sottoposta a ulteriore revisione. Innumerevoli le traduzioni. Per l’imponente bibliografia è da tempo disponibile un repertorio analitico, iniziato da H. Cherniss nel 1959 e tuttora proseguito da L. Brisson. [1] A tali repertori si rinvia anche per i lessici specializzati e altri strumenti di consultazione. P. ama ‘nascondersi’ dietro ai personaggi dei suoi dialoghi. Nondimeno è abbastanza agevole individuare dei nuclei dottrinali che non possono non essere suoi – il mito escatologico, la dottrina delle idee, la dottrina dell’immortalità dell’anima, la dottrina dell’anima tripartita, la dottrina politica svolta nella Repubblica, il duro confronto dottrinale con Protagora, →Eraclito e soprattutto →Parmenide, la summa sulla natura e il corpo umano che campeggia nel Timeo, l’articolato abbozzo di codice che prende forma nelle Leggi e, naturalmente, moltissimi altri nuclei dottrinali di portata più circoscritta – ma sull’individuazione dei nuclei dottrinali grava la difficoltà del raccordo tra di loro a causa dei sistematici scarti, verosimilmente introdotti di proposito, che rendono arduo ogni tentativo di identificare con precisione gli insegnamenti platonici. Egli ama confrontarsi con i sapienti del suo tempo e del passato, a  

platone volte ricrea il modo in cui certe problematiche venivano trattate da altri (es. da Protagora, dagli Eleati, dal matematico →Teeteto) e ne discute in modo anche polemico, informa, alimenta la curiosità intellettuale e talvolta si atteggia, come è stato detto, ad “architect of mathematical sciences”. [2] Con questa espressione si intende dire che P. ha amato svolgere una funzione di indirizzo e incoraggiamento, specialmente nel campo della →matematica e della →cosmologia. Ciò è ampiamente dimostrato da famose sezioni della Repubblica e altre di dialoghi come il Menone, il Teeteto e il Timeo. Un altro ambito nel quale P. mostra di disporre di competenze talvolta spiccate, anche se ineguali, è quello della fisiologia umana, di cui tratta ampiamente nel Timeo. Nondimeno, è dubbio che egli abbia personalmente sviluppato competenze specifiche e non è per nulla facile individuare specifici apporti sicuramente suoi in veste di scienziato. Più meditata e più strutturata, al confronto, appare la formulazione di oltre cento articoli di un suo personale codice penale, sparsi nei libri v-xii delle Leggi. [3] Possiamo dire pertanto che P. sia stato particolarmente attento a quattro diverse aree disciplinari distinte dalla filosofia : matematica e astronomia, →fisiologia umana, →diritto.  





Livio Rossetti 2. Matematica. – La valutazione del contributo fornito da P. allo sviluppo delle matematiche nel v e nel iv secolo è stata oggetto di numerose discussioni. P. non può essere considerato un matematico in senso proprio, dal momento che non ha prodotto alcun risultato in campo aritmetico e geometrico. I numerosi riferimenti a problemi e teoremi presenti nelle sue opere rivelano tuttavia un profondo interesse per le scienze e soprattutto dei metodi adoperati dagli studiosi a lui contemporanei. P. assume così il duplice ruolo di attendibile testimone della vivacità intellettuale degli ambienti matematici dell’→accademia e di originale studioso dei metodi dimostrativi e delle caratteristiche degli enti aritmetici e geometrici : da una parte le tracce preservate nei dialoghi documentano gli avanzamenti della →matematica nel iv secolo e si rivelano particolarmente preziose nella scarsità delle fonti pervenute ; dall’altra la trascrizione dei contenuti matematici fornisce spesso al filosofo ateniese lo spunto per un  



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ripensamento dei procedimenti epistemologici ai fini di un confronto con la dialettica e di una sistemazione organica ed unitaria dell’enciclopedia del sapere. Lo stretto contatto con i cultori di →aritmetica, →geometria ed →astronomia nello spazio dell’Accademia favoriva uno scambio intenso e fecondo, nel quale il pensiero filosofico e la ricerca scientifica trovavano non pochi punti di convergenza e continuità. Dal punto di vista della storia della matematica antica assumono notevole rilevanza i riferimenti a contenuti aritmetici e geometrici che attestano abbastanza fedelmente il grado di complessità raggiunto dalla matematica contemporanea a P. Sebbene l’intero corpus platonico sia costellato di frammenti di carattere scientifico, le testimonianze maggiormente significative in relazione ai risultati raggiunti dai matematici tra la fine del v e l’inizio del iv secolo sono riportate nel Menone, nella Repubblica, nel Timeo e nel Filebo. Significativa ad esempio è la collocazione cronologica del Menone, opera composta tra il 386 e il 380 ed immediatamente successiva ad una serie di viaggi nel corso dei quali P. strinse legami con alcuni esponenti di rilievo della seconda generazione del pitagorismo, tra i quali spicca il nome di →Archita. Nel dialogo viene riportata la definizione della figura come « limite del solido » (stereou` pevra~ : Men. 76a), la quale avrebbe una origine pitagorica. Un’ampia sezione del Menone (82b-85b) è poi dedicata alla soluzione del problema della duplicazione del quadrato. Il quesito, che sembra porsi come antecedente rispetto al più complesso e al più famoso problema della duplicazione del cubo, comporta la trattazione di grandezze incommensurabili, dal momento che il quadrato richiesto ha come base la diagonale del quadrato di partenza, corrispondente ad un numero irrazionale. La scelta di indicare graficamente e di non quantificare numericamente il lato della figura da costruire chiarisce l’orizzonte operativo della matematica verso la fine del v secolo, la quale, dopo la scoperta dell’esistenza di grandezze incommensurabili, si indirizzò verso una rigida separazione tra aritmetica e geometria. Sempre nel Menone (86e-87b) la presentazione a titolo di esempio di un complesso problema di inscrizione di figure, conferma che il procedimento di trasformazione delle aree era uno degli espedienti tipici della  



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matematica pre-euclidea. Nel Timeo (53c-55c) viene fornita la descrizione delle cinque figure denominate ‘platoniche’ [→solidi speciali], corrispondenti ai cinque solidi regolari: cubo, piramide o tetraedo, dodecaedro, ottaedro e icosaedro. Essi tuttavia non furono costruiti dal filosofo ateniese, dal momento che gli studiosi hanno accertato che i primi tre risalirebbero ai Pitagorici, mentre gli ultimi due furono progettati da →Teeteto. Quest’ultimo più in generale fornì una definizione complessiva dei cinque solidi, alla quale molto probabilmente si ispirò P. Infine nel Filebo (55c-59b) troviamo la partizione di ciascuna disciplina matematica in un settore pratico e un settore teorico. P. ad esempio distingue due generi di aritmetica, una volta al calcolo e alla misurazione nelle attività manuali e commerciali e l’altra mirante allo studio teorico dei numeri e delle operazioni ideali a loro connesse. Stessa demarcazione si ritrova in geometria, nella quale si riconosce un ramo empirico ed un orientamento puramente intellettuale. La classificazione di P. attestava verosimilmente una situazione di fatto, documentata dalla scarsa considerazione in cui versavano i risvolti pratici di ciascuna disciplina rispetto allo studio dei principi teorici, i quali solamente costituivano l’area di effettivo interesse da parte degli intellettuali. Temi centrali della riflessione platonica in ambito matematico sono la discussione sul metodo ipotetico degli studiosi di geometria e la definizione dello statuto delle scienze, insieme alla loro complessiva organizzazione sistematica. Il concetto di ipotesi (uJpovqesi~) costituisce il nucleo della presentazione di un modello euristico di natura geometrica e logica, la cui trattazione trova spazio in alcune sezioni del Menone, del Fedone, della Repubblica e del Parmenide. Il termine manifesta progressivamente una serie di slittamenti semantici, che rivelano in modo implicito una parallela evoluzione dei procedimenti apodittici delle matematiche in direzione di un assetto deduttivo. Nel Menone (86d-87e), P. afferma di voler esaminare a partire da ipotesi (ejx uJpoqevsew~ skopei`sqai) la questione relativa all’insegnabilità della virtù, intendendo ‘ipotesi’ secondo il significato adottato dagli studiosi di geometria nella conduzione delle loro ricerche. Il procedimento consiste nell’esaminare il valore di verità di una proposizione problematica p attraverso una proposizione h, l’ipotesi appunto, tale per

cui p è vera se e solo se h è vera. Il metodo non decide la verità o falsità di una proposizione in base alle sue conseguenze, ma in base ad un’altra proposizione, chiamata ipotesi, alla quale la prima è riconducibile. Il problema pertanto diviene risolubile se le condizioni alle quali è ricondotto costituiscono a loro volta un problema risolubile. Così l’iscrizione di una superficie, trasformata in un triangolo, in un cerchio dato è possibile solo se si verifica una determinata condizione. Allo stesso modo la proposizione ‘la virtù è insegnabile’ è ricondotta alla proposizione ‘la virtù è simile alla scienza’ : se dunque la virtù è una scienza, è evidente che può essere insegnabile. Il metodo descritto da P. richiama due approcci tipici della matematica nel v e nel iv secolo : il diorismov~, che indica la determinazione delle condizioni di possibilità di un problema, in altre parole, punta a stabilire quando il problema è possibile e quando è impossibile ; l’ajpagwghv, che consiste nel passaggio da un problema ad un altro già risolto o più facilmente risolvibile. L’introduzione del primo procedimento in geometria è attribuita da →Proclo a Leone, un matematico appartenente all’Accademia di P. (in Eucl. 6667). Il commentatore neoplatonico annota che →Ippocrate di Chio fu il primo ad applicare l’ajpagwghv e ricorda che questi risolse il problema della duplicazione del cubo, riducendolo alla ricerca di due medie proporzionali (in Eucl. 213). Più in generale il metodo ipotetico può essere accostato al procedimento per analisi, consistente nel ricondurre l’oggetto della ricerca ad un principio generalmente riconosciuto come vero. Proclo conferma inoltre la conoscenza diretta del metodo analitico da parte di P., il quale lo avrebbe insegnato a Leodamante di Taso (in Eucl. 211). Nel Fedone, dialogo molto vicino al Menone, vengono ulteriormente precisate le caratteristiche del procedimento ipotetico, sebbene la trattazione sia condotta in riferimento ad una questione puramente filosofica. Nella sezione compresa tra le righe 99d e 102a, P. si propone di stabilire la verità della tesi circa l’immortalità dell’anima, ricorrendo all’ipotesi dell’esistenza delle idee. Tra tesi ed ipotesi sussiste in questo caso un rapporto di compatibilità, sancito mediante il verbo sumfwnei`n, che letteralmente significa ‘essere in armonia o in accordo’ e in senso traslato ‘concordare’. P. distingue il me 





platone todo adoperato in due fasi : nella prima si seleziona tra un insieme di enunciati l’ipotesi, in quanto proposizione maggiormente compatibile con la tesi ; nella seconda si verifica l’ipotesi selezionata attraverso il ricorso ad un’ipotesi ulteriore, scelta tra una serie di proposizioni come la più idonea rispetto all’ipotesi di cui si deve dare ragione, e si ripete la ricerca fino a giungere a qualcosa di sufficiente. Il procedimento illustrato è stato oggetto di differenti interpretazioni da parte degli studiosi, i quali si sono interrogati sul suo effettivo sviluppo, vale a dire se esso debba essere inteso come un metodo deduttivo, incentrato sulla nozione di implicazione logica, o se debba essere considerato un espediente utile a rintracciare connessioni tra proposizioni sulla base di una precisa idea di concordanza. È innegabile che tra la tesi, l’ipotesi e le proposizioni di volta in volta considerate sussiste un rapporto di derivazione. Il punto di partenza della ricerca tuttavia non è un principio indimostrato da cui dedurre conclusioni, ma una proposizione assunta per ipotesi e sottoposta essa stessa a verifica. Un primo abbozzo di un modello vagamente deduttivo è invece contenuto al termine del libro vi (509c-511e) e nel libro vii (531d533c) della Repubblica. I matematici, sostiene P., pongono in via di ipotesi il pari e il dispari, le figure, i tre tipi di angoli e cose analoghe e, presupponendo queste entità evidenti a tutti, non ritengono di doverne rendere ragione né a sé stessi né agli altri. Essi non mettono alla prova le ipotesi, ma le assumono come vere, cioè come se fossero principi, e si limitano a dedurne le conseguenze, fino a giungere, di comune accordo, al risultato finale alla cui dimostrazione si erano mossi. All’interno di un sistema dimostrativo l’ipotesi non è più una proposizione che serve a verificare un’altra proposizione, rispetto alla quale presenta una specifica compatibilità, ma è un principio non dimostrato, assunto convenzionalmente per la sua evidenza, posto a fondamento della geometria e, in quanto tale, punto di partenza di una catena di deduzioni. La descrizione del concetto di ipotesi nella Repubblica presenta notevoli differenze rispetto alle indicazioni che erano state fornite nel Menone e nel Fedone. Si può supporre che a questa discontinuità linguistica corrisponda la maturazione di un diverso orientamento nell’ambito delle ricerche geometriche, in sintonia con una complessiva  



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riorganizzazione delle matematiche. La stesura dei libri vi e vii della Repubblica potrebbe essere contemporanea o immediatamente anteriore ad una fase di intense indagini nell’Accademia, caratterizzate dalla compilazione di libri di Elementi da parte di Leone e Teudio di Magnesia, da un acceso dibattito a proposito della distinzione in teoremi o in problemi delle proposizioni geometriche, dalla definizione delle sezioni coniche ad opera di Menecmo, dalla costruzione della quadratrice da parte di Dinostrato, dalle ricerche di Teeteto sugli irrazionali e infine dalla formulazione di una teoria generale delle proporzioni da parte di →Eudosso, che è successivamente confluita nel v libro degli Elementi di →Euclide. Nel riferire il procedimento adoperato dai matematici, P. assume una posizione di severa critica rispetto ad una esposizione dei teoremi in senso deduttivo. Egli sostiene che gli studiosi di aritmetica e geometria lasciano immobili le ipotesi di cui si servono, in quanto non sono capaci di renderne ragione. Una disciplina che pone dei principi, di cui ignora la natura, per poi ricavare da essi conclusioni attraverso una serie di passaggi intermedi, non è una scienza, ma una convenzione (oJmologiva) (R. 7, 533c). L’attacco sferrato dal filosofo ateniese sembra a prima vista difficilmente comprensibile se si considera che la svolta deduttiva è il risultato di un processo che proprio nell’Accademia da lui diretta stava prendendo forma. In realtà P. era consapevole che l’adozione di un impianto assiomatico e deduttivo avrebbe inevitabilmente dotato la matematica di autonomia disciplinare rispetto alla dialettica. L’apparato dimostrativo della geometria e dell’aritmetica cominciava infatti ad essere costituito da teoremi e problemi strettamente connessi tra loro e fondati su alcune proposizioni che assumevano una posizione prioritaria non in quanto derivate da una scienza superiore, ma sulla base di criteri interni al sistema. P. al contrario auspicava che le ipotesi fossero intese nel vero senso della parola, cioè non come principi, ma come punti di appoggio e di slancio per giungere a ciò che non è condizionato, cioè al principio del tutto, e poi da questo discendere alla conclusione attraverso passaggi intermedi, senza alcun ricorso ad oggetti sensibili, ma passando per le idee e terminando nelle idee. L’assiomatizzazione [→assiomatica] si poneva in alternativa all’ideale platonico della filo-

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sofia come scienza coordinatrice delle varie tecniche. La geometria, autofondandosi, non necessitava più di sottoporre i suoi principi alla discussione dialettica, ma si svincolava da qualsiasi legame ad essa esterno, conquistando una autoreferenzialità, rafforzata dalla incontrovertibilità dei risultati cui giungeva. Al contrario secondo P. i matematici o almeno coloro che non sono dissennati, dovrebbero cercare gli oggetti relativi al loro ambito, per affidarli ai dialettici affinché ne facciano un uso corretto, seguendo l’esempio dei cacciatori e dei pescatori che consegnano le loro prede ai cuochi, in quanto non saprebbero come adoperarle (Euthd. 290b-c). L’ideale di una subordinazione della matematica alla filosofia improntava concretamente il rapporto che P. intratteneva con la cerchia degli studiosi di aritmetica e geometria operanti nell’Accademia. P. non era estraneo ad interventi finalizzati a coordinare le attività svolte nell’Accademia, tanto più che, secondo l’attendibile testimonianza di Filodemo, egli stesso avrebbe svolto funzioni di direttore, ponendo problemi che i matematici affrontavano con zelo (Index Acad., col. y Dorandi). Un esempio è fornito nel passo del libro vii della Repubblica (528a-c), in cui il filosofo ateniese, dopo aver evidenziato la superficialità con cui è affrontata la geometria solida, sollecita un maggiore impegno dei ricercatori in questo settore, invocando l’autorità di un maestro che indirizzi i loro studi. P. sosteneva con insistenza la necessità di una riforma delle matematiche, delineando una struttura unitaria e gerarchica del sapere, in cui aritmetica, geometria piana, geometria solida, astronomia e →musica ottenevano un prestigioso riconoscimento, pur senza negare la strutturale dipendenza di ciascuna disciplina rispetto alla filosofia. Solo con →Aristotele la specializzazione dei saperi ricevette una legittimazione in sede teorica. A differenza di P. lo Stagirita riconobbe la specificità dei diversi ambiti disciplinari, i quali dispongono di proposizioni proprie e sono accomunati solo da principi razionali di carattere generale, come quello di non contraddizione o del terzo escluso. La collocazione cronologica del Parmenide nell’arco della produzione platonica è oggetto di dibattito tra gli studiosi. Dal punto di vista della storia del pensiero matematico l’opera risulta rilevante per due aspetti : P. riporta il  

metodo di →Zenone della dimostrazione per assurdo, fondato sulla nozione di contraddittorietà logica (127d-128e) ; nell’intermezzo del dialogo viene formulato un modello di discussione che riprende in modo maggiormente articolato il procedimento eleatico e che consiste nell’assumere per ogni ipotesi anche l’ipotesi opposta, esaminando ciascuna sia in relazione a se stessa sia in relazione alla sua diretta concorrente (135c-136e). Sebbene ogni ipotesi sia il punto di partenza per una serie concatenata di proposizioni, il sistema delineato si pone in antitesi rispetto all’approccio adottato in geometria, nel quale non sono contemplati esiti diversi dalla deduzione a partire da ipotesiprincipi non contraddittori. Sempre nel vii libro della Repubblica (521c531c) si trova un’ampia trattazione circa lo stato delle discipline matematiche. P. esamina i saperi idonei a costituire il percorso educativo che il futuro filosofo-governante deve intraprendere al fine di orientare lo sguardo della sua anima dagli oggetti in divenire verso l’ambito noetico e ideale, culminante nell’idea del bene. Egli indica come propedeutiche alla dialettica le scienze matematiche, caratterizzandole come forme di conoscenza discorsiva e dimostrativa, capaci di trainare l’anima verso l’essere attraverso una progressiva concettualizzazione. Tali discipline sono l’aritmetica e la logistica, la geometria, divisa in piana e solida, l’astronomia e infine l’armonia. Gli apprendisti filosofi, dopo aver studiato per dieci anni le scienze matematiche, si dedicheranno alla formazione dialettica per cinque anni e successivamente saranno costretti a ‘ridiscendere nella caverna’ per assumere i comandi bellici e le cariche pubbliche, allo scopo di raggiungere una esperienza politica non inferiore agli altri uomini. Terminata quest’ultima fase della durata di quindici anni, colui che avrà completato con successo il percorso educativo, sia nelle opere sia nella scienza, sarà costretto a volgere nuovamente lo sguardo verso l’alto e a contemplare l’idea del bene in sé, avvalendosene come modello per dare ordine alla vita pubblica (539d-540c). Nel delineare il curriculum studiorum P. opera una significativa saldatura tra progetto politico, educazione e matematica. In altre parole la matematica, in quanto propedeutica alla dialettica e alla visione normativa dell’idea del bene, è indirizzata all’educazione delle giovani generazioni ; l’educazione a sua  



platone volta è funzionale alla realizzazione del progetto politico di fondazione e governo della nuova polis, la quale sarà guidata da uomini competenti nella vita pubblica, nella dialettica e nelle matematiche. La composizione della Repubblica avvenne nell’ambito della scuola e probabilmente il programma di studi in essa delineato non era effettivamente svolto, ma era destinato a costituire il percorso didattico dei futuri filosofi all’interno della nuova polis. Nonostante ciò lo spazio che P. riservava alle matematiche rifletteva il ruolo prioritario che esse occupavano nell’Accademia, in primo luogo per le loro potenzialità formative. L’attività di insegnamento e la promozione degli studi matematici rientravano in un grande progetto che, attraverso la creazione di una nuova classe dirigente, mirava ad un’autentica riforma della politica. Piero Tarantino 3. Cosmologia. – La letteratura su P., e in particolare sul Timeo, regolarmente introduce la nozione di →cosmologia, come se in quel dialogo venisse proposta anche una rappresentazione del cosmo comparabile a quelle elaborata dai →Presocratici o da alcuni autorevoli personaggi della sua cerchia, come →Eudosso, Callippo e Aristotele. In realtà nel Timeo e altrove P. si è limitato a sfiorare appena questi temi, trattandone molto fugacemente e, spesso, in modo semiserio, così da suggerire un certo numero di idee, ma senza impegnarsi ad accreditare una particolare tesi. È nel Fedone (109a) che egli ha trovato il modo di evocare e riproporre l’idea di →Anassimandro secondo cui la terra se ne sta ferma al centro dell’universo semplicemente perché è in equilibrio, ossia per mancanza di ragioni o spinte che possano indurla a precipitare nell’una o nell’altra direzione. Subito dopo (109e-110a) il suo Socrate si trova a elaborare un’idea non solo inedita, ma anche illuminante, quantunque manifestamente fantasiosa : è probabile che l’aria stia alla terra e ai suoi abitanti esattamente come l’acqua sta al fondo marino e ai pesci che vivono negli abissi. Nell’un caso come nell’altro, per chi vi giace immerso è straordinariamente difficile riuscire a farsi un’idea di quale ambiente potrà prendere forma alla superficie dell’acqua e, rispettivamente, alla superficie dell’aria. Chi sta sotto, in immersione, magari arriva a  

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intuire che sopra ci sarà un tipo di ambiente o ecosistema completamente diverso, non descrivibile con le categorie di chi sa vivere solo ‘sotto’, ma non è in grado di rappresentarselo, non si può pretendere che se lo sappia immaginare. Queste rimangono però idee lanciate per colpire l’immaginazione, non tessere di un sapere che venga accreditato. Non a caso, pertanto, queste geniali elucubrazioni vengono introdotte al solo scopo di introdurre una fantasticheria sulla ‘vera terra’, che sarebbe molto più splendente, molto più bella, molto più sana di quella che noi conosciamo. Qualche altra idea viene introdotta nel vii libro della Repubblica allorché si parla delle discipline che dovrebbero concorrere all’educazione del filosofo. Una prima affermazione consiste nel contrapporre un’astronomia più bella a quella coltivata ai suoi tempi, più bella perché animata dall’ammirazione per l’ordine che regna in cielo e che rinvia a realtà superiori, come la velocità in sé e la lentezza in sé (529ce). Ispirandosi a questa premessa, il Socrate platonico parla dell’astronomo autentico che, studiando l’ordinamento dei corpi celesti, pensa subito al « demiurgo del cielo » e ne imposta lo studio problhvvmasin... crwvmeno~, « servendosi di problemi » (530ab). Con queste immagini P. mostra di intravedere una concreta possibilità di individuare l’ordine nascosto – e immutabile – che presiede ai moti apparentemente disordinati dei pianeti. È comunque nel decimo libro – e, di nuovo, nel contesto di un mito – che egli finalmente esce un poco dal generico teorizzando una serie di grandi recipienti collocati uno dentro l’altro, recipienti che corrispondono a stelle fisse, sole, luna e pianeti, e si muovono attorno al medesimo asse luminoso ma con velocità e direzioni diverse l’uno dall’altro (616d-617b). Chiaramente si tratta, di nuovo, di una fantasia dotta, che echeggia (ma si limita a echeggiare) idee percepite e proposte come innovative, senza dar vita a un sapere né alludere a un insegnamento altrui che sia suscettibile di essere identificato. Ancora una volta, dunque, P. evita di scoprire le sue carte e di esibire un preciso sapere cosmologico e/o astronomico, accontentandosi di fornire indicazioni pur sempre dotate di notevole forza evocativa. Un atteggiamento non molto diverso ispira la cosmologia del Timeo. Leggiamo che il Demiurgo diede al mondo una forma sferica, levigata, e un moto circolare (33b-34b), generò  







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come « dèi visibili » gli astri fissi e gli astri errabondi, collocando la terra « stretta intorno all’asse » cosmico (40b-d). Più avanti viene proclamata l’unicità di questo cosmo (55cd) e si parla a lungo della formazione dei diversi tipi di oggetti materiali presenti sulla terra. Di nuovo, si lanciano idee, ma non viene proposto un sapere, non prende forma una idea almeno un po’ precisa di come, secondo l’autore, si presume che il cielo sia configurato. In questo senso la cosmologia platonica è qualcosa che viene intravisto ed evocato, lasciando che il lettore sia indotto a supporre che P. sa molto più di quanto non dica e non spieghi, ma oltre questo livello non si va. La cosmologia platonica rimane incoativa e conativa. 4. Legislazione. – P. non si è solo dedicato a sviluppare e affinare delle idee sulla politica, le sue insidie e i possibili rimedi, a partire dall’idea, invero schematica, dei filosofi-reggitori per arrivare, progressivamente, a una sorta di democrazia sotto tutela. In questa sede si sorvolerà sulle molte modulazioni del suo progetto o sogno di rinnovamento della politica per riferire brevemente qualcosa intorno alla cultura giuridica espressa sostanzialmente nelle sole Leggi. Come è noto, si tratta dell’ultima opera di P., e anche della più ampia (dodici libri, 345 pagine Stephanus a fronte delle 294 pagine Stephanus di cui consta la Repubblica), nella cui messa a punto si sospetta che abbia avuto un ruolo Filippo di Opunte in veste di assistente o scriba personale del maestro. [4] Il carattere discorsivo dell’opera fa sì che si parli di molti argomenti diversi senza che prenda forma una precisa distinzione tra dimensione filosofica, dimensione politologica e dimensione più propriamente giuridico-normativa. La nuova utopia – una colonia da fondare a Creta di cui un gruppo di sophoi imposta la costituzione e su cui, per alcuni anni, si prepara a esercitare funzioni di indirizzo e tutela – permette al filosofo di entrare in numerosi dettagli non solo intorno al quadro istituzionale, ma anche intorno al quadro normativo. Il filosofo immagina di essere impegnato a fissare le grandi linee di questa nuova iniziativa coloniale e di individuare quindi la cornice istituzionale, le funzioni delle singole autorità, le modalità per il funzionamento e lo stesso rinnovo degli organi collegiali, il processo di affinamento del quadro normativo che verrebbe proposto/imposto ai nuovi coloni, l’amministrazione della giustizia. Per fissare delle norme, quasi articoli di un nuovo codice,  









P. semplicemente prevede che l’Ateniese protagonista del dialogo indichi di volta in volta in che modo la norma andrebbe formulata. Si intuisce che le nuove norme tengono conto della codificazione vigente ad Atene, ma innovando piuttosto sistematicamente. I gruppi di norme più organici riguardano il matrimonio (6, 773785, con 17 statuizioni), la tutela dell’ambiente naturale (alberi, acque potabili : 8, 843-847, con 15 statuizioni), l’omicidio nelle sue varie configurazioni (involontario, sotto la pressione di forti emozioni, volontario, giustificabile), il suicidio, il ferimento e l’aggressione (9, 864882, con oltre 60 ipotesi di reato), la regolamentazione dei commerci (11, 913-938, con 33 statuizioni). In particolare la legislazione penale si distingue per la sua relativa organicità in un contesto – quello ateniese – nel quale la produzione di norme presentava specifici e endemici problemi di organicità, data la centralità del tribunale popolare (che non prevedeva né la motivazione della sentenza né la responsabilità del cittadino che concorre a formare il verdetto, men che meno la consultazione tra i giudici popolari). Per di più, nel delineare queste norme (e nel costruire un discorso volto ad argomentare l’opportunità di adottare un determinato criterio) P. dimostra di poter contare su un livello mediamente elevato di professionalità, anche se la cornice immaginaria da lui adottata non manca, di tanto in tanto, di incidere negativamente sul tasso di plausibilità e realismo delle norme proposte. Questa circostanza, unita al preponderante fascino che da sempre esercita la Repubblica, spiega la limitata attenzione comunemente riservata alle Leggi. Un cenno, per finire, ai passi delle Leggi in cui prende forma qualcosa come un excursus sui testi lato sensu giuridici noti a P. Nel libro ix provvede Clinia a dichiarare che i suoi due interlocutori e lui si trovano nella stessa condizione di quei lithologoi (selezionatori di pietre da costruzione) che ammassano materiali da cui si riservano di scegliere ciò che è utile per l’edificio da costruire (858b). L’Ateniese afferma, subito dopo, che « nelle nostre città ci sono non soltanto i libri (gram­ma­ta) e i discorsi messi per iscritto (en grammasi logoi) di tanti autori diversi, ma anche gli scritti composti dal legislatore (cioè dai singoli legislatori) e i discorsi » da loro pubblicati (858c) e prosegue osservando (858cd) che è logico tener conto dell’insieme degli scritti dovuti ai legislatori, ivi compresi i loro logoi (che dovrebbero confi 





plinio il vecchio gurarsi come letteratura secondaria) in quanto molti di loro, inclusi altri nomoteti attivi in città meno rappresentative di Atene e Sparta (e, comprensibilmente, meno noti), si dedicarono anche alla redazione di opere specifiche (858e). Anzi, aggiunge l’Ateniese, di tutti i grammata che nelle città sono stati scritti, quelli che vertono sulle leggi dovrebbero apparire, quando si svolge il rotolo, di gran lunga i più belli e i più pregevoli, mentre gli altri tipi di scritti dovrebbero attenersi a quel modello, perché in caso contrario non meriterebbero di essere presi sul serio (858e-859a). Con ciò P. viene a dirci che, nello scrivere anche lui un trattato peri nomon, non si è in alcun modo sottratto al doveroso confronto con la migliore letteratura giuridica disponibile. La sua testimonianza ha il merito di sollevare il velo anche su un tipo più specifico di pubblicistica d’argomento giuridico sul conto della quale è dubbio che siano disponibili evidenze indipendenti.[5] Livio Rossetti Note. [1] Per maggiori dettagli si suggerisce di consultare l’apposita sezione bibliografica del sito www.platosociety.org. – [2] Zhmud 2006, 82-116. – [3] Un memorabile prospetto figura in appendice alla trad. Penguin dell’opera, a cura di Saunders (1970, 539-544). In questa stessa traduzione il Saunders provvede anche a isolare con precisione i testi ‘legislativi’, di carattere sia penalistico sia civilistico. – [4] A Filippo di Opunte è unanimemente attribuita la paternità del cosiddetto tredicesimo libro delle Leggi, noto come Epinomis (‘appendice delle Leggi’). – [5] Sulla letteratura giuridica dei tempi di P. vd. →diritto, 2.4. Bibliografia. Bedu-Addo 1979 ; Bluck 1961 ; Brisson 1974 ; Burnet 1900 ; Cambiano 1967 ; Cambiano 1991 ; Canto-Sperber 1991 ; Casertano 2007 ; Cattanei 2003b ; Dorandi 1991 ; Erler 2007 ; Fowler 1987 ; Frajese 1963 ; Frajese 1971 ; Gentzler 1991 ; Klein 1965 ; Kraut 1992 ; Laks 2005 ; Lasserre 1964 ; Lasserre 1987a ; Menn 2002 ; Robinson 1953 ; Rossetti 2001 ; Rossetti 2005 ; Rossetti 2007a ; Ryle 1966 ; Saunders 1970 ; Saunders-Brisson 2000 ; Szlezák 1991 ; Timpanaro Cardini 1978; Toth 1998 ; Trabattoni 2005 ; Wieland 1982.  





























































Plinio il Vecchio. 1. Vita e opere. – Nato a Como nel 23/4 d.C. e morto a Stabia nel 79 d.C. Alla brillante carriera di funzionario imperiale P. seppe coniugare l’indefessa attività di studioso, scrivendo una vasta mole di opere (tutte perdute, tranne la Naturalis Historia) di

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cui abbiamo notizia dal nipote Plin. epist. 3, 5 : De iaculatione equestri, De vita Pomponii Secundi, Bella Germaniae, Studiosus, [1] Dubius Sermo, A fine Aufidii Bassi (in 31 libri, composto tra il 70 e il 77, continuazione della storia romana di Basso). Frutto di una costante vocazione alla ricerca e all’elaborazione personale è la Naturalis Historia, [2] in 37 libri, enorme opera compilativa in cui P. vuole fornire una descrizione scientifica della natura, offrendo anche una mole consistente di nozioni mediche e farmaceutiche. Si tratta di un’opera ‘enciclopedica’ (nel senso moderno del termine) che mira a racchiudere in sé tutto lo scibile intorno alla natura, avvalendosi massimamente di testimonianze letterarie ma anche orali e di diretta osservazione autoptica. 2. La Naturalis Historia. – L’opera si apre con un’epistola prefatoria a Tito, [3] suo destinatario. Il libro i contiene gli indici degli argomenti di ogni singolo libro [4] conclusi da un indice delle fonti utilizzate. La materia pliniana è così distribuita : ii cosmologia, astronomia, meteorologia, geofisica (prevalentemente secondo la concezione stoica dell’universo) ; iii-vi geografia ; vii antropologia, fisiologia, psicologia umana ; viii-xi zoologia acquatica, entomologia e anatomia comparata ; xiixix botanica ; xx-xxvii botanica applicata alla medicina ; xxviii-xxxii zoologia applicata alla medicina ; xxxiii-xxxvii metallurgia, mineralogia e loro applicazioni nelle arti figurative. Il fine dichiarato di questo regesto onnicomprensivo del sapere è quello dell’utilitas iuvandi (cfr. Praef. 1,16 praeferre utilitatem iuvandi gratiae placendi), per cui la trattazione è tutta rivolta alla realtà pratica e alle esigenze tecniche, offrendosi come compendio di facile ed immediata consultazione. Conte 1986 parla di « inventario del mondo » cogliendo l’intrinseca natura di un’opera che lo stesso Plinio definisce thesauroi (Praef. 1,17) nell’accezione etimologica di «raccolta, deposito di vari saperi». L’aspetto collettaneo della Naturalis Historia è rintracciabile, pertanto, proprio in questa tensione all’accumulo dei saperi e all’assommarsi delle nozioni (e non nel senso varroniano di enciclopedismo, fondato sull’idea di un sapere strutturato e organico, volto ad offrire una cultura generale di base). [5] La spinta verso la creazione di un « inventario del mondo » trova le sue radici ideologiche nello stoicismo[6] : sottesa al progetto enciclopedico è l’idea stoica di  





















   













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machina mundi. L’uomo e il mondo non sono due realtà distinte ma interagenti in quanto l’uno è destinatario privilegiato dell’azione dell’altro. Ed è proprio a vantaggio dell’uomo che la Natura ha generato tutti gli esseri del mondo animato e inanimato (cfr. nat. 7, 1 cuius causa uidetur cuncta alia genuisse natura). Emerge quindi l’immagine, di retaggio stoico, di una Natura artifex al servizio dell’uomo, [7] provvida e benigna, solidale alla ratio hominis. Secondo questa concezione finalistica di matrice stoica il mondo naturale si struttura sulla base di un’ideale scala naturae che, partendo dal macrocosmo si restringe gradualmente fino al microcosmo umano e naturale. La sua natura limitata e imperfetta porta l’uomo ad avvertire una tensione continua verso l’assolutezza cosmica ma, allo stesso tempo, si prolunga irresistibilmente verso il mondo animale. [8] L’ordinamento pliniano della materia tende a strutturarsi proprio secondo questa scala ideale : all’interno di essa la medicina viene a trovarsi nel punto di convergenza tra il mondo naturale e il mondo umano. 3. La medicina nella Naturalis Historia. – Per ragioni evidenti cercherò qui di approfondire soprattutto l’aspetto della trattazione relativo alla medicina, uno dei più importanti in Plinio. La sezione medica della Naturalis Historia si apre con una trattazione sui remedia desunti dal regno vegetale (xx-xxvii). Per questa sezione P. dipende quasi interamente da fonti greche [9] in ragione delle origini della botanica ufficiale [→botanica]. [10] Le osservazioni descrittive vengono scisse da quelle di natura terapeutica sulla base di criteri prevalentemente utilitaristici. [11] P. offre una disamina dei medicamenti derivati da ortaggi, [12] fiori da ghirlanda, →cereali, →legumi, alberi da frutto, olivo, vite, alberi selvatici ; la seconda sezione del l. xxiv offre un’interessante trattazione sugli effetti magici di alcune erbe (§§ 99-102) in cui P. si riallaccia a fonti meno tradizionali (Magi, Persiani) e fa riferimento a metodi di ascendenza orientale. [13] Il l. xxv è un esempio di come i criteri di raggruppamento dei semplici cambino repentinamente nel corso della trattazione : in base alle circostanze di scoperta e diffusione (§§ 26-98), alla comune utilità nel contrastare l’azione dei veleni (§§ 99-131), [14] oppure menzionando le erbe in rapporto alle parti del corpo che possono curare, procedendo generatim membratimque a partire dall’alto verso il basso (§§ 132-175). Il l. xxvii chiude la sezione creando  



















una sorta di prontuario botanico per mezzo di un elenco in ordine approssimativamente alfabetico. [15] Dalla medicina botanica si passa poi a quella animale (ll. xxviii- xxxii). Tra i remedia ex homine Plinio menziona farmaci derivati da elementi del corpo umano e pratiche terapeutiche come la dieta, l’esercizio fisico, i massaggi, il sonno, l’idroterapia. Importante remedium e insieme indicatore diagnostico è l’urina (28, 65-69). [16] Seguono i remedia tratti da animali selvatici, domestici e acquatici (con un piccolo lessico zoologico[17]). Nel libro xxvi Plinio polemizza con i nuovi metodi che vengono importati dai medici stranieri, promuovendo invece l’assoluta impareggiabilità delle antiche e semplici cure offerte dalla Natura medicatrix. [18] Nel tratteggiare la serie diacronica degli esponenti della →medicina Plinio parte da →Ippocrate, prosegue con →Diocle, →Prassagora, →Erofilo ed →Erasistrato, per concludere con →Asclepiade di Prusa, che l’autore critica per i suoi metodi poco ortodossi e privi di fondamento scientifico. [19] Il libro xxviii si apre poi con una riflessione sul rapporto tra medicina e magia [20] (proseguita nel libro xxx che ci offre la più completa trattazione sulla magia antica a noi pervenuta). Nell’esordio del libro xxix P. sottolinea il discrimen tra le trattazioni mediche dei suoi predecessori latini e la sua opera, la prima davvero esauriente sulla medendi ars. [21] La trattazione di questo libro si sovrappone parzialmente a quella del libro xxvi ; Plinio delinea nuovamente la storia della medicina greca e romana, attestando l’esistenza di un’antica medicina ‘domestica’ – di ascendenza catoniana – demandata in toto al pater familias e basata su semplici ma efficaci rimedi, non privi di elementi superstiziosi, la quale fu gradualmente soppiantata dalla penetrazione della cultura scientifica greca legata all’attività di medici stranieri venuti ad esercitare a Roma perché spinti dal miraggio di lauti guadagni (significativamente anche Plauto, non senza ironia, ne evidenziava il rapporto con il denaro mediante il gioco di parole medicus-mendicus). [22] Emblema di questa avversione verso i medici stranieri e verso i ‘nuovi metodi’ è la figura di →Catone, richiamata ai §§ 15-16. P. predilige di gran lunga i medicinali semplici, basandosi su una serie di criteri curativi che riflettono specularmente la sua visione di un mondo finalisticamente organizzato. Si pensi alla « teoria della signatura rerum » [23] in virtù  

















plinio il vecchio della quale la somiglianza tra le cose non appare come un fattore incidentale ma risulta del tutto connaturata col principio di causalità che governa il cosmo : l’odore, il colore, la forma di una pianta risultano correlati alla patologia da curare. Tra i numerosi esempi basti ricordare quello del girasole (22, 60) per il quale la forma stessa del seme (simile ad una coda ripiegata come quella dello scorpione) già rende evidente per quale malattia esso sia remedium (è infatti utile per curare le punture degli scorpioni). Largamente documentato da P. è poi il principio terapeutico per cui il simile viene curato con il simile : le carni della vipera sono allora utilizzate per curare le ferite provocate dal morso dello stesso rettile. [24] Altro cardine intorno a cui ruota la medicina di matrice popolare è il concetto di «simpatia» e «antipatia» tra le creature. L’enumerazione nozionistica dei dati e la cura del dettaglio[25] nella Naturalis Historia rendono a volte ardua l’individuazione dei molteplici principi tassonomici unificati dal principio dell’utilitarismo classificatorio. In virtù di esso ogni classificazione può essere modificata o bruscamente interrotta in ragione di un mutamento nelle esigenze della trattazione. [26] 4. La fortuna della Naturalis Historia. – La fortuna dell’opera e, in particolare, della sezione medico-scientifica di P., ininterrotta durante tutto il Medioevo e il Rinascimento, è da ascriversi, in buona misura, alla sua natura di ‘prontuario’ farmacologico alla portata di tutti, nonché alla strutturazione dell’intera opera in blocchi omogenei che ne ha favorito la circolazione per sezioni autonome. La grande diffusione degli excerpta pliniani sulla medicina, ancora fruibili nell’edizione Sillig del 1850, è testimoniata, ad esempio, dalla loro presenza nel codice Salmasiano (Par. Lat. 10318) che si configura come “raccolta enciclopedica tardoantica”. [27] La tradizione di questi excerpta di natura medica ebbe una grande fortuna soprattutto a partire dal iii secolo quando iniziarono a diffondersi riduzioni e antologie pliniane in maniera del tutto autonoma rispetto al resto dell’opera. Si pensi alla →Medicina Plinii desunta dalle sezioni della Naturalis Historia dedicate alla medicina (ma anche da altre fonti), che avrà un grande successo nel Medioevo. Così anche →Marcello Empirico, intorno al 400, ha ripreso molto materiale da P. per la stesura del suo ricettario. Alla se 







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conda metà del iv sec. risale il Liber medicinalis di Sereno Sammonico in cui l’autore ha volto in esametri alcune ricette pliniane, molte delle quali magiche. P. è, inoltre, la fonte principale per le Medicinae di →Gargilio Marziale, per l’Herbarius dello ps. Apuleio, per la Physica Plinii. Alcuni excerpta sono confluiti nel De curis herbarum, tramandatoci dai codd. Uppsalensis 664, ff. 157-75, Luccensis 296, ff. 27-46, Wellcome 573, ff. 46-68, Leidensis 1283, ff. 36-60. E molto altro si potrebbe citare in merito al Fortleben della medicina pliniana. In età umanistica il testo di P. fu passato al vaglio dei filologi ed alimentò numerosi dibattiti, spesso inerenti a terminologie equivoche che potevano indurre a prescrizioni errate : in uno di questi dibattiti, nel 1492, Niccolò Leoniceno asseriva che molti errori non erano corruttele testuali ma sbagli originari di Plinio. L’opera De Plinii et plurium aliorum medicorum in medicina erroribus (con la replica di Hermolao Barbaro – Castigationes Plinianae – e quella di Pandolfo Collenuccio – Pliniana Defensio) riflette un approccio nuovo verso la scienza antica, non più di ossequio acritico nei confronti dell’auctoritas pliniana ma di sguardo criticamente orientato al disvelamento della verità scientifica (in senso moderno).  

Note. [1] Cfr. Gell. 9, 16. – [2] Plin. epist. 3, 5, 6 attesta il titolo Naturae Historiae. La tradizione manoscritta attesta quasi unanimemente il più consueto Naturalis Historia, più volte citato in Gellio, dove il termine historia è certo da intendersi nell’accezione greca di «scienza, descrizione, ricerca», derivante dalla radice wid-. – [3] Cfr. ScivolettoSantini 1992, 683-690. – [4] Si tratta di uno dei primi esempi di indici originali, attribuibili all’autore stesso. Vd. anche Sconocchia 1987, 623-632. – [5] Cfr. ancora Scivoletto-Santini 1992, 683-690. – [6] Diverse sono le posizioni circa l’orientamento filosofico pliniano. La →cosmologia (2) rivela un’adesione al cosiddetto stoicismo di mezzo, tipico della classe dirigente romana dell’epoca, ma l’indulgenza verso aspetti di derivazione magica invita alla cautela nelle definizioni, mostrando un sostrato ideologico più eclettico. – [7] Cfr. incipit del libro xxvii in cui P. mostra come tanti remedia utili per l’uomo sono già pronti in natura e celebra l’ingegno con cui gli antichi hanno saputo trarne vantaggio. – [8] Cfr. Plin. nat. 8,1 Maximum est elephas proximumque humanis sensibus. – [9] Gli autori latini menzionati come fonti sono relativamente pochi : →Sestio Nigro, →Varrone e →Celso. – [10] La prima raccolta di botanica officinale (a noi pervenuta) è il l. ix delle Ricerche sulle piante di →Teofrasto. – [11] P. predilige la descrizio 

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ne verbale a quella estetica (in opposizione alla moda di illustrare gli esemplari con miniature che fissano uno solo dei molteplici aspetti che gli stessi vegetali assumono al variare delle stagioni) in virtù dell’attenzione rivolta al fruitore del suo prontuario, cui intende agevolare l’operazione di riconoscimento della pianta. Cfr. Maggiulli-Buffa Giolito 1996. – [12] Archetipo delle successive trattazioni di Medicinae ex oleribus come quella di Gargilio Marziale. – [13] L’apertura al mondo orientale di età ellenistica comportò inevitabilmente un acuirsi della sensibilità per gli aspetti irrazionali e superstiziosi propri delle categorie di pensiero orientali che vennero inevitabilmente recepiti nel momento in cui si andò sviluppando la botanica officinale, prima in Grecia e poi in Occidente. – [14] Per la letteratura sugli alexipharmaca cfr. Touwaide 1992, 8-34, Touwaide 1995, Watson 1966. – [15] Per il lessico botanico cfr. Fausti 2004. – [16] L’uso dell’urina come elemento diagnostico era già attestato nel Corpus Hippocraticum (cfr. Hp. Prog. 12 / 138-142 L), cfr. Jouanna 1994. – [17] Per il lessico zoologico pliniano cfr. Capponi 1991, 281290. Sulla terminologia zoologica negli Halieutica di →Oppiano di Apamea cfr. Zumbo 1991, 281290. – [18] P. però condivide con Celso l’adesione ad una «teoria della degenerazione della salute» che avrebbe reso necessaria l’introduzione di una medicina più complessa, non essendo più sufficienti i rimedi presenti spontaneamente in natura. Cfr. Stok 1993b, 393-444. – [19] In realtà le teorie di Asclepiade avevano un fondamento teorico di ascendenza atomista. Cfr. Vallance 1993, 693727. – [20] Cfr. Horstmanshoff-Stol 2004. – [21] Conte 1986. – [22] Rud. 1304-1305. – [23] Conte 1986. – [24] Si pensi ai Theriaca menzionati a 29 70, composizione medicinale fatta con le interiora di vipera, introdotta a Roma da →Andromaco di Creta, medico della corte di Nerone, e considerata infallibile antidoto contro ogni veleno. – [25] « Non accada che io tralasci scientemente qualche dato, se l’ho reperito da qualche parte » (17, 137). – [26] Si veda, ad es., la duplice menzione della sciatica a 30, 54 e 71. – [27] Cfr. Spallone 1982, 1-71.  



Bibliografia. André 1986 ; Bonet 1998, 184-198 ; Bonet 2003a, 145-162 ; Bonet 2003b, 131-146 ; Bye 1994, 163-170 ; Calvino 1991 ; Capitani 1972 ; Capponi 1980, 99-124 ; Capponi 1986, 131-146 ; Capponi 1991, 281-290 ; Condorelli 1995-1998, 241-282 ; Conte 1986 ; Coppola 2000, 249-251 ; Della Corte 1978, 149-158 ; Fausti 2004, 561-576 ; Flammini 1993, 208-219 ; Freitag 1994 ; French 1986, 252-281 ; Gaillard Seux 1998, 625-633 ; Gaillard Seux 2003, 113-128 ; Grmek-Gourevitch 1985, 3-27 ; Gruson 2001, 267-276 ; Hahn 2005 ; HorstmanshoffStol 2004 ; Jonkers 1946, 26-28 ; Jouanna 1994 ;  



















































Lausdei 1985a, 101-111 ; Maggiulli-Buffa Giolito 1996 ; Martínez Saura 1999, 381-395 ; Martini 1977 ; Mazzini 1997 ; Méthy 1999, 160-174 ; Migliorini 1992, 115-133 ; Önnerfors 1963 ; Önnerfors 1965, 652-655 ; Pardon 2003, 103-116 ; Potdevin 1976, 15-16 ; Ricci 1984 ; Rocchi 2005, 79-85 ; Rovesti 1982, 87-92 ; Sassi 1993, 449-468 ; Scarborough 1986 ; Scarpa 1982, 79-86 ; Scivoletto-Santini 1992, 683-690 ; Sconocchia 1987, 623-632 ; Sconocchia 2002a ; Smol’skaia 1979, 75-82 ; Spallone 1982, 1-71 ; Stannard 1986, 95-106 ; Stok 1993b, 393-444 ; Taborelli 1991, 527-562 ; Touwaide 1992, 8-34 ; Touwaide 1994a, 1887-1986 ; Vallance 1993, 693-727 ; Vons 2000, 341-353 ; Watson 1966 ; Zumbo 1991, 281-290.  



























































Maria Nicole Iulietto Plotino [205-270]. 1. Generalità. – Quasi tutto ciò che sappiamo sulla vita del filosofo si ricava dalla Vita Plotini redatta dal discepolo →Porfirio. Nato a Licopoli, si formò ad Alessandria sotto il magistero di Ammonio Sacca. Dopo aver lasciato Alessandria per seguire l’imperatore Gordiano iii nella sua spedizione in Oriente, approdò infine a Roma, dove fondò una scuola nella quale impartì inizialmente un insegnamento fondato sulla sola oralità. Tale scelta derivava, stando a Porfirio, da un accordo preso con altri due discepoli di Ammonio, Erennio e Origene. Sembra che P. abbia preso a scrivere trattati solo dopo che Erennio e Origene ruppero l’accordo. [1] I cinquantaquattro trattati vennero ordinati da Porfirio secondo un criterio non cronologico, ma tematico e aritmologico, e raggruppati in sei Enneadi, in modo che la prima enneade raccogliesse trattati di argomento morale, la seconda questioni fisiche, la terza questioni varie connesse all’ordinamento del cosmo, come il destino, la provvidenza, l’eternità e il tempo, la quarta problemi relativi all’anima, la quinta questioni sulla natura delle ipostasi, la sesta trattati relativi all’Essere, alle idee, al Bene e all’Uno. [2] Porfirio intervenne nella redazione finale dei trattati, tanto che si è dubitato del loro numero complessivo e si è ipotizzato che trattazioni originariamente uniche siano state da lui divise. È ancora Porfirio a informarci che, nel corso delle sue lezioni e nella stesura dei trattati, P. teneva conto, oltre che di →Platone e di →Aristotele, delle dottrine stoiche, dei commentari peripatetici, di autori medioplatonici. 2. Matematica. – È riconosciuta al mae 



plotino stro una certa conoscenza dei principi dell’→aritmetica, della →geometria, della →musica, anche se pare che P. non manifestasse interesse all’approfondimento di tali scienze. [3] Sorprende, perciò, che un intero trattato, il sesto della sesta enneade – trentaquattresimo secondo l’ordine cronologico porfiriano – sia dedicato allo statuto ontologico dei numeri. L’analisi di tale trattato e di altri, dove appaiono accenni a questioni relative ai numeri, lascia supporre che P. potesse avere una qualche conoscenza del contenuto di manuali di orientamento aritmologico o aritmetico, come l’Expositio rerum mathematicarum ad legendum Platonem utilium di Teone di Smirne o l’Introductio arithmetica di →Nicomaco di Gerasa, opere dedicate alle caratteristiche e alle qualità degli oggetti della matematica (numeri, figure, oggetti in movimento). Le fonti maggiormente presenti a P. sembrano però essere, oltre ai dialoghi platonici, l’Adversus mathematicos di Sesto Empirico e, soprattutto, le trattazioni aristoteliche e dei commentari ad Aristotele relativi all’attribuzione a Platone di una dottrina dei principi. Tali riferimenti, non squisitamente matematici, rendono in parte ragione della natura eccentrica della trattazione plotiniana sui numeri, se confrontata con le indagini più o meno coeve di altri autori. P. inserisce l’indagine sui numeri nella cornice dello statuto ontologico delle realtà ipostatiche e rispetto al confronto con queste si interroga sulla natura degli ajriqmoiv. Egli accoglie come autenticamente platonica la notizia aristotelica relativa alla distinzione fra due tipi di numero : quelli eidetici, tra loro non combinabili, e quelli aritmetici, composti di unità tutte uguali fra loro e, pertanto, combinabili (→numeri ideali e numeri aritmetici). Riguardo ai primi, egli fa propria la dottrina per cui essi sarebbero generati dalla diade indefinita e dall’uno. [4] A differenza della dottrina riportata da Aristotele, che postula l’esistenza di due principi come forma e materia dei numeri (uno e diade), Plotino orienta però in senso monopolare la derivazione, riconoscendo nell’Uno il solo principio e intendendo la diade indefinita come fase logica in cui l’ipostasi dell’Intelletto, individuata dai numeri e dalle idee, non si è ancora convertita all’Uno. Mentre lo Stagirita sembra ritenere del tutto misteriosa e inspiegabile la possibilità dell’esistenza di numeri non aritmetici, cioè non deputati al calcolo, P. adotta una soluzio 





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ne che chiama in causa la natura ‘equivoca’ del rapporto fra intelligibile e sensibile. Nel mondo sensibile, contrassegnato dalla quantità, è lecito ammettere che un qualsivoglia ente possa essere scomposto in parti ; nel cosmo intelligibile, al contrario, ogni realtà, in quanto non estesa e non localizzata, non è propriamente dotata di parti. Anche il numero eidetico, in quanto realtà ideale, non è composto di parti e non è in tal senso combinabile. L’impostazione plotiniana della questione fa discendere interessanti conseguenze : egli è costretto a rifiutare il valore universale della definizione euclidea di numero, per la quale il numero è una molteplicità che risulta da una composizione di unità ; [5] restringendo tale definizione ai soli →numeri aritmetici, è riconosciuta ai numeri ideali una natura di vere e proprie strutture unitarie non composte di parti, la cui unità interna deriva direttamente dalla processione dall’Uno. Mentre, quindi, i numeri aritmetici possono essere detti maggiori o minori sulla base del numero di unità che li compongono, quelli eidetici si distinguono per il maggiore o minore grado di coesione interna, risultante dalla maggiore o minore vicinanza all’Uno. [6] Dove la differenza fra i numeri aritmetici è solo quantitativa, quella fra i numeri eidetici è qualitativa. A partire da tali premesse, P. si confronta con alcune questioni centrali nell’ontologia matematica platonica e neoplatonica : il problema della relazione, quello dell’esistenza di un numero infinito, quello del rapporto fra numero e essenza. Nel momento in cui riconosce uno statuto ideale al numero, P. non può riconoscere che la sua identità prenda forma da una completa dipendenza dalle realtà numerate : contro Aristotele, egli sostiene che l’uno e il numero eidetico non dipendono da una classe di oggetti numerata, ma esistono in sé e per sé, prima e indipendentemente da ogni classe di oggetti che valgano a numerare. [7] P. rifiuta, in tal senso, ogni formulazione che ammetta, a proposito dei numeri, una genesi legata all’→astrazione. Il riconoscimento della natura eidetica del numero conduce P. a rifiutare l’idea che nel numero possa darsi, anche solo in forma potenziale, l’infinito. Anche in tal caso egli si trova a confrontarsi con Aristotele : lo Stagirita associa il numero al pensare e fa risalire alla natura continua e ininterrotta dell’attività del pensare la possibilità che si dia l’infinito nel contare. [8] P., al contrario, dissocia  

















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il vero numero dall’atto del contare e del pensare da parte dell’anima singola : egli ritiene che i numeri siano anteriori a qualunque atto di pensiero e, in tal senso, del tutto definiti in se stessi e alieni dalla possibilità che si dia un numero infinito. [9] La sola nozione di infinito che P. è disposto a concedere ai numeri è quella per la quale i numeri eidetici, come qualsivoglia realtà ideale, non comprendono il concetto di limite nel senso che, essendo per se stessi definiti e perfetti, non richiedono di essere delimitati dall’esterno da una realtà limitante, come avviene, invece, alle realtà sensibili. Circa il rapporto fra numero e essenza, P. fa propria la dottrina, problematica in Aristotele ma esplicita ad esempio in →Teofrasto, dell’anteriorità dei numeri rispetto alle idee e giunge a innalzare il numero a prima espressione dell’Essere. I numeri eidetici vengono così assunti a paradigma di ogni realtà che procede dall’Uno, tanto da identificarsi con le stesse realtà ipostatiche da esso derivanti, l’Intelletto e l’Anima. [10] Dalla relazione fra numero e essenza discende la più importante distinzione fra numeri eidetici e aritmetici : mentre i numeri eidetici identificano l’essenza costitutiva degli enti, quelli aritmetici si limitano a una predicazione del tutto esteriore e accidentale rispetto all’ente numerato. La conseguenza che discende da tale impostazione è che né l’atto del contare, né altre operazioni logistiche appaiono costitutivamente associate alla natura reale dei numeri. Il numero esiste, in tal senso, prima e indipendentemente dall’aritmetica. Considerazioni analoghe, per quanto meno approfondite, sono presenti in P. anche a proposito delle figure geometriche. Anche per queste egli riconosce, sulla scia di Platone, l’esistenza di figure prime, non estese e estranee a ogni rapporto con la grandezza. [11] Meno chiaro è in P. lo statuto degli enti matematici propriamente detti. A volte egli pare associarli, assieme alla quantità, al solo contare ; [12] altrove egli riconosce l’esistenza di una quantità intelligibile, prodotta dalla sinergia dei generi dell’Essere [13] e, con questo, pare ammettere anche per i numeri aritmetici una forma di autonomia ontologica.  











Note. [1] Porph. Plot. 3. – [2] Porph. Plot. 24. – [3] Porph. Plot. 14. – [4] Plot. 5, 4, 2. – [5] Euc. 7, 2. – [6] Plot. 6, 6, 11. – [7] Plot. 6, 6, 2 ; 6 ; 10 ; 12 ; 14. – [8] Arist. Phys. 3, 4, 203b23-25. – [9] Plot. 6, 6, 17-18. – [10] Plot. 6, 6, 9. – [11] Plot. 6, 6, 17. – [12] Plot. 6, 6, 16. – [13] Plot. 6, 2, 21.  







Bibliografia. Alexandrakis 1998 ; Amado 1953 ; Andolfo 1997 ; Bertier-Brisson-CharlesPèpin-Saffrey-Segonds 1980 ; Bonazzi 2000 ; Charles-Saget 1982 ; Chindea 2007 ; Gatti 1983 ; Horn 1995 ; Nikulin 1998 ; O’Meara 1990 ; Pépin 1979 ; Shaw 1999;Vernier 1994.  























Claudia Maggi Plutarco. 1. Un poligrafo di grande fortuna. – Nato nella piccola città beota di Cheronea, che egli sentì sempre luogo privilegiato per la sua attività letteraria, P. (50-120 ca. d.C.) ricoprì, in patria, prestigiose cariche politiche e amministrative, che lo portarono, in qualche occasione, a Roma, dove ebbe anche modo di stringere importanti amicizie con personaggi influenti legati alla corte imperiale. In una poderosa opera di sistemazione di tutto il patrimonio ideale della civiltà greca, la vastissima produzione di P. spazia in ogni campo della cultura antica, abbracciando etica, filosofia, teologia, pedagogia, psicologia, politica, retorica, erudizione. La fortuna di P., comunque, è senza dubbio legata anzitutto alle Vite parallele, ventidue coppie di biografie in ognuna delle quali sono accostati, e spesso confrontati tra loro, due personaggi storici, uno greco e uno romano. Pur nella drammatizzazione spesso romanzesca degli avvenimenti storici, cui corrisponde una sempre piacevole veste letteraria, non è mai assente, nelle diverse monografie, la ricerca di un insegnamento etico-politico. Nel mondo ormai unificato e dominato da Roma P., non senza un certo orgoglio nazionalistico, sembra additare nel glorioso passato della grecità le radici non solo dell’impero romano, ma di ogni società civile, constatando allo stesso tempo che solo una riflessione sui grandi modelli del passato (anche quelli negativi) può essere la base della costruzione di una civiltà fondata su religiosi valori etici e moderati principi politici e sociali. 2. Le opere di argomento scientifico. – Nella sterminata produzione plutarchea, accanto alle più famose Vite parallele e ai maggiori trattati di argomento pedagogico, storico-antiquario e morale, si incontrano anche alcuni scritti che vertono su questioni di ambito medico, zoologico e astronomico. 2.1. Zoologia plutarchea. – Tre sono i trattatelli dedicati a temi zoologici : il De esu carnium, incentrato sul problema del vegetarianesimo,  

pneumatica il Bruta animalia ratione uti, dimostrazione che gli animali sono esseri dotati di virtù, e il De sollertia animalium, anch’esso dedicato alla sagacitas degli animali. Il De esu carnium è senz’altro l’operetta più impegnata : P. sostiene la scelta del vegetarianesimo, sulla base di numerosi argomenti, legati piuttosto al livello medico che religioso. L’alimentazione carnea sarebbe contraria sia alla costituzione del corpo umano (che non è naturalmente dotato di mezzi d’offesa per uccidere gli animali), sia alla salute dell’anima (che nella sua ricerca filosofica trova ostacoli in un qualsiasi legame con la materialità), sia a quella del corpo (appesantito da una tale dieta). Nel Bruta animalia ratione uti P., per certi versi nel solco della tradizione cinica, e in chiara funzione antistoica, condanna l’antropocentrismo sfrenato ribaltandolo e asserendo la superiorità etica e razionale degli animali attraverso esempi tratti dalle loro condizioni di vita (nelle contese non chiedono pietà, ma preferiscono la morte ; si rifiutano di procreare in cattività ; perseguono solo i desideri ‘necessari’) e dalla loro capacità di escogitare espedienti intelligenti (per via dell’istinto e non dell’educazione). Nel De sollertia animalium, infine, strutturato come una disputa tra allievi dell’autore, gli uni che sostengono la superiorità degli animali terrestri sugli acquatici, gli altri la tesi opposta, si attinge al repertorio folklorico dei mirabilia animalium, passato poi attraverso la tradizione medievale fino alle culture popolari moderne : osservazioni (a volte propriamente scientifiche) sull’etologia di alcuni animali, motivate dall’istinto di sopravvivenza (nascondimento, ricerca del cibo, fuga) sono interpretate come segno di una loro naturale intelligenza. La →zoologia plutarchea che emerge complessivamente da queste opere è incentrata su una sincera pietà per gli animali, che devono essere amati e filantropicamente curati. In quest’ottica si inserisce anche il rifiuto della →caccia, condotto all’insegna del principio di non liceità dell’uccisione che deve estendersi dalla comunità umana agli animali. 2.2. Il tema medico del De tuenda sanitate praecepta. – Pur limitato all’aspetto igienico e preventivo, solo a volte corredato dal livello diagnostico e terapeutico, il De tuenda sanitate praecepta, un dialogo, costituisce l’unico scritto propriamente medico del corpus plutarcheum. Sono assenti i motivi etico-religiosi che a vol 







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te affiorano nelle opere zoologiche, e si nota una attenuazione del rigore nella dieta vegetariana, qui riproposta. La tradizione maggiormente seguita è quella ippocratica, anche se non mancano spunti mutuati dall’epicureo →Asclepiade di prusa o dagli →pneumatici. Il concetto principale a cui si richiama P. è quello dell’equilibrio psicofisico, « cercando di superare l’angustia della specializzazione medica nel senso di un’apertura della medicina verso la filosofia, ma anche dell’accoglimento da parte della filosofia di un’importante arte liberale, quale egli considera la medicina. L’opuscolo si viene così a considerare come un trattatello igienico informato da principi filosofici, soprattutto morali, che qua e là emergono nel corso della trattazione, conferendole senso e tono » (Senzasono 1992). Nel corso del dialogo si affrontano in particolare i temi della temperanza, della frugalità, della necessità di esercizi fisici e di →bagni, di una dieta il più possibile vegetariana ; si sconsigliano emetici e purganti, nonché i digiuni ; la conoscenza di sé come ente corporeo è la più alta conquista igienica. 2.3. Fisica e astronomia. – Nel De facie in orbe lunae Plutarco affronta il problema di che cosa si celi nella faccia nascosta della luna : lo fa in modo dossografico, riportando una serie di dottrine e teorie tra loro contrastanti, senza prendere posizione. Plutarcheo, invece, è l’innesto mitico finale, che adombra la credenza in un regno intermedio di demoni lunari. Ancora di taglio dossografico sono gli Aitia physica, elenco di dottrine su disparati argomenti di scienza naturale. Va ricordato, infine, che P. è autore di uno scritto De musica, piuttosto importante per le notizie che offre sulla →musica antica.  









Bibliografia. Per orientarsi sull’immensa bibliografia plutarchea vd. www.usu.edu/ploutarchos/. In particolare per gli scritti scientifici : Castignone-Lanata 1994 ; Santese 1999 ; Senzasono 1992.  





Emanuele Lelli Pneumatica. Quella che gli antichi chiamano →meccanica ha occupato un posto importante negli interessi dei sapienti di Alessandria. Si tratta di tutto ciò che costituisce l’arte dell’ingegnere o dell’→architetto, con applicazioni in ambiti estremamente vari. Basti pensare che, all’inizio del periodo augusteo,

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→Vitruvio raggrupperà ancora sotto il titolo di →architettura tutta una serie di pratiche tecniche che hanno applicazioni notevolmente diverse. Il favore che l’epoca alessandrina ha manifestato nei confronti della meccanica, si spiega sulla base di varie ragioni. Sussisteva innanzitutto l’incoraggiamento dei Tolemei, sensibili alla gloria che avrebbero potuto trarre dalle prodezze tecniche dei loro ingegneri. Ma i re stessi erano altrettanto interessati ad utilizzare nel quotidiano la meccanica, nel campo della balistica e più in generale dell’arte della guerra [→polemologia]. Questa preoccupazione si riflette nelle prefazioni di numerosi trattati tecnici : costruzione di macchine da guerra, fabbricazione di apparecchi d’osservazione per determinare da lontano l’altezza di una cinta muraria, e quindi la dimensione delle scale da assedio, ovvero, se si trattava di preparare la costruzione di un ponte, la larghezza di un fiume, nel caso in cui il nemico, sulla riva opposta, ne impedisse il guado. Le preoccupazioni potevano del resto essere più ludiche, come si vedrà nel caso di taluni apparecchi ‘pneumatici’. Nella Scienza matematica che pubblicò verso l’anno 30 a.C., il greco →Gemino, proponendo la propria classificazione delle matematiche, poneva sotto il nome di meccanica tanto ciò che noi intendiamo correntemente con questo termine, quanto la ‘pneumatica’ degli antichi, senza considerare altre suddivisioni che esulano qui dal nostro intento. [1] Più tardi, intorno al 300, →Pappo, nell’introduzione al libro ottavo della sua Collezione matematica, attuava all’interno della meccanica suddivisioni simili ma un po’ differenti. In particolare, egli distingueva, fra i procedimenti della meccanica, in primo luogo i mezzi che essa trae dalla pneumatica, poi l’utilizzazione di fili per riprodurre le sembianze degli esseri animati, in terzo luogo i mezzi presi dall’→idraulica, e infine gli orologi idraulici. Così dunque, in quanto essa è, fin dall’ordinamento di →Proclo, una delle scienze matematiche applicate, la meccanica considerata come ‘genere’ include, fra le sue svariate componenti, sia la meccanica in senso stretto, sia la pneumatica e l’idraulica. È in qualità di ‘specie’ che la meccanica potrebbe essere messa allo stesso livello di queste due altre tecniche, come faremo nel seguito dell’esposizione. Inoltre, non ci si deve nascondere che è un procedimento artificiale tracciare, se non delle  



barriere, almeno dei limiti tra la meccanica, la pneumatica e l’idraulica. Per addurre un solo esempio, l’organo che viene definito ‘idraulico’ è descritto negli Pneumatica di →Erone di Alessandria [2] e la sua costruzione chiama evidentemente in causa la meccanica. Il termine ‘pneumatici’ designa un insieme di apparecchi che utilizzano il ‘soffio’, pneuma in greco, vale a dire la pressione dell’aria, del vapore e parimenti dell’acqua, mediante l’uso di sifoni, al fine di ottenere una reazione o un movimento. Della pneumatica, nel senso stretto così definito, hanno trattato nell’antichità greco-romana quattro autori : →Ctesibio, →Filone di Bisanzio, Vitruvio, Erone. Non sappiamo quasi nulla di Ctesibio, il più antico degli ingegneri alessandrini, né le sue opere sono state conservate. Le notizie provengono da Ateneo, all’interno dei Deipnosofisti, da Diodoro Siculo, da Vitruvio e da →Plinio il Vecchio ; le loro varie testimonianze permettono di collocare l’esistenza di Ctesibio nel iii secolo a.C., durante il regno di Tolemeo ii Filadelfo (283-247), il che fa quindi di Ctesibio un contemporaneo di →Archimede. Gli stessi autori posteriori parlano delle sue invenzioni, alle quali sovente si rifanno con ammirazione. Esse concernevano il campo della pneumatica. L’inventiva di Ctesibio si era orientata verso quattro direzioni : gli strumenti musicali, gli orologi idraulici, le macchine per sollevare l’acqua e le macchine da guerra ; l’antichità conosceva segnatamente una pompa antincendio chiamata ‘macchina di Ctesibio’, il che testimonia del prestigio di quest’ingegnere ; il funzionamento di quest’apparecchio è stato descritto da Filone di Bisanzio, da Vitruvio (10,7,1) e da Erone di Alessandria. Ma Vitruvio descrive anche (9,8,5) l’orologio di Ctesibio, facendo notare che aste e ruote erano in grado di determinarvi, mediante un sistema ingegnoso, « spostamenti di figure minuscole, rotazioni di terminali, il lancio di sassolini o di uova, o il suono di trombe ». Se la vita di Filone, originario di Bisanzio a dire di Vitruvio e di Erone, è quasi altrettanto poco conosciuta di quella di Ctesibio, una parte della sua opera è però giunta fino a noi. Filone appartiene senza dubbio alla generazione successiva rispetto a quella di Ctesibio, di cui dovette essere l’allievo in quanto asserisce che Ctesibio gli aveva mostrato il funzionamento dell’organo idraulico da lui inventato.  













pneumatica La sua vasta opera in nove libri sulle tecniche, Mechaniké Syntaxis, è il corpus meccanico alessandrino più antico che si possieda ; il quinto libro, Pneumatica, Questioni di pneumatica, è conservato interamente in una versione araba. [3] Un certo numero di passaggi filoniani dedicati alla pneumatica (sul carattere corporeo dell’aria ; sui sifoni ; sulle clessidre; etc.) si ritrovano pressoché identici negli Pneumatica di Erone di Alessandria. Ripresa di Ctesibio e di Filone non priva dell’aspirazione a una qualche forma di originalità, gli Pneumatica di Erone sono nondimeno l’opera di un mhcanikov~. Si può dire che costituiscano l’opera più rappresentativa di questo genere di letteratura nella misura in cui le Questioni di pneumatica dei predecessori sono scomparse, almeno in lingua greca, e nella misura in cui i passi di Vitruvio dedicati all’argomento sono disseminati nell’Architettura ; Erone, dal canto suo, ci ha lasciato un’opera di un’estensione relativamente consistente e dedicata unicamente alle questioni di pneumatica. Per queste ragioni, è il trattato di Erone che considereremo paradigmatico dei trattati antichi di p. In due libri di lunghezza disuguale e strutturati in modo un po’ approssimativo, l’autore descrive tutta una serie di apparecchi, alcuni dei quali possono vantare un’utilità incontestabile, come la pompa antincendio, distributori di bevande, o dispositivi che permettevano di alimentare in maniera automatica una lampada ad olio ; altri affermano chiaramente il loro carattere ludico, per esempio quelli che facevano ascoltare canti di uccelli, o musica ; altri infine hanno carattere stupefacente, atto a meravigliare chi li guarda : è il caso di recipienti nei quali si versa acqua e ne fuoriesce vino, o di lampade ad olio che si alimentano versandovi semplicemente acqua. Un secolo prima di Erone, Vitruvio l’aveva detto in latino, contrapponendo l’utilitas che si può rivendicare per certi apparecchi (10,7,5 : quae maxime utilia et necessaria iudicavi selegi) alle deliciae che potevano offrire altre invenzioni (9,8,4 ; 10,7,5). L’opera di Erone si presenta, a partire dal capitolo 8 del primo libro, in una maniera piuttosto confusa e senza un vero e proprio piano, il che contrasta con altri trattati eroniani come i Dioptrica o i Metrica. Tale circostanza ha indotto a pensare che quest’opera non sia stata ultimata : si tratterebbe forse dell’ultimo scritto di Erone ? In ogni caso, essa rappresenta, come si osserva spesso a proposi 























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to degli scritti scientifici alessandrini, nel contempo una sintesi dei dati precedentemente acquisiti e una proposta di alcuni progressi, anche se non sempre è facile distinguere gli uni dagli altri. L’autore, pensando soprattutto a Filone e a Ctesibio, riconosce infatti, fin dal principio dell’opera, il suo debito nei confronti dei predecessori (« noi riteniamo necessario riordinare a nostra volta ciò che gli antichi ci hanno trasmesso »), ma rivendica al tempo stesso talune innovazioni (« pur aggiungendovi, tuttavia, le nostre scoperte »). La lunga prefazione con la quale si aprono gli Pneumatica di Erone vuole dimostrare che l’aria è un corpo con parti di vuoto, e che in natura il vuoto continuo non esiste ; esiste soltanto un vuoto discontinuo intorno alle particelle delle quali si compongono i vari corpi : « Ogni corpo si compone di corpuscoli con particelle sottili, tra i quali si distribuiscono vuoti più piccoli di queste particelle ». Quindi, tutto l’interesse degli apparecchi pneumatici consiste nel fatto che predispongono artificialmente vuoti continui, entro piccoli spazi, in modo tale da attirare altri fluidi che non arriverebbero senza questo vuoto artificialmente creato ; infatti « man mano che una sostanza scompare, essa viene sostituita da un’altra, la quale riempie lo spazio che si vuota », conformemente al ben noto enunciato, la natura ha orrore del vuoto. Il nucleo centrale di questa teoria del vuoto è tratto da Stratone di Lampsaco, il quale fu, dal 286 fino al 268, a capo del →Liceo ; [4] la si ritrova, in un altro contesto, in →Erasistrato, medico alessandrino del iii secolo a.C., il quale, per spiegare il sistema di digestione ed il cammino percorso dagli alimenti ingeriti nell’organismo, chiamava in causa la tendenza della natura a riempire i vuoti. Ciò equivale ad affermare l’influenza della teoria pneumatica sulla medicina greca [→pneumatici]. Vi è in ciò una prova, riscontrabile in un gran numero di autori, dell’interazione tipicamente alessandrina fra la teoria e la pratica da una parte, e delle varie scienze tra di loro dall’altra. Nella sua prefazione, Erone espone così il fondamento della meccanica dei fluidi, e le sue spiegazioni hanno un tono piuttosto moderno, anche se alcune delle sue interpretazioni sono errate. Così egli sostiene che il fuoco rende « più sottile » l’aria rinchiusa nello sfiatatoio, la qual cosa le permette di passare attraverso i fori della parete ; che, se la rugiada si alza, se vi sono  





























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sorgenti calde, ciò avviene – dice lui – perché il Sole scalda la Terra quando si trova al di sotto di essa. Parlare, come fa, della debole forza di compressione dell’acqua, è ammissibile solo se si prendono in considerazione gli scarsi livelli di profondità raggiunti dai palombari. La spiegazione che Erone dà della riflessione e della rifrazione dei raggi solari, se va nel senso della dimostrazione dell’esistenza di vuoti, non è conforme al modello attuale. Quanto alla disposizione che il trattato presenta, basata solo sulla concatenazione di capitoli enumerabili, non ne daremo qui i particolari che ogni lettore può scoprire da solo, ma proporremo un altro assetto, che si fonda sul raggruppamento di apparecchi costruiti secondo i tipi di utilizzazione possibili. Nel libro i, un primo insieme di congegni raggruppa le tecniche di base ; si tratta degli apparecchi (o dei capitoli) dall’1 al 6, poi il 13. Essi presentano il principio del sifone ricurvo, o del sifone o ‘diabete’ rinchiuso. I capitoli 1, 2 e 3 spiegano il funzionamento del sifone, ed è a questo proposito che si presenta l’importante concetto riguardante la forma della superficie libera di un liquido in equilibrio : essa è sferica e il suo centro coincide con il centro della Terra (enunciato di Archimede, Corpi galleggianti, prop. 2 ; anche Vitruvio (8,5,3) vi faceva allusione). L’apparecchio 13 fornisce le condizioni di auto-adescamento di un sifone. I capitoli 4, 5 e 6 presentano alcuni miglioramenti tecnici concernenti la regolazione del flusso (cap. 4), la regolazione e l’aggiustamento del flusso (cap. 5) e l’adescamento mediante un dispositivo ausiliare (cap. 6). In un secondo gruppo possiamo includere alcune applicazioni sorprendenti e meravigliose, come dice Erone (capp. 7-9, 14, 18, 19, 22, 23, 25, 26, 35, 36, 40) : esse, riguardo ai sifoni e agli effetti della pressione, hanno un interesse pratico spesso poco evidente ; nella maggior parte dei casi, i dettagli del dispositivo vengono celati al pubblico, e si ha dunque l’impressione che si tratti essenzialmente di incastellature destinate a suscitarne la curiosità. Per esempio, il dispositivo 9 è una brocca per misture atta a versare vino, o una mistura di vino e di acqua, o acqua, poiché uno degli usi addotti era fare uno scherzo a qualcuno. Allo stesso modo, nel caso dei congegni 25 e 26, per far scendere vino da un recipiente, ci si può versare acqua, ovvero estrarne acqua. L’interesse ludico è ancora quello che si manifesta nel terzo gruppo, quel 









lo dei congegni automatici (12, 15-17, 21, 29-31, 37-39, 41) ; ma qui esso si accompagna ad un interesse tecnico. La complessità dei dispositivi è mutevole ; essi rispondono a combinazioni di effetti di sifone, di effetti termici, e ad altri sistemi di pulegge e di contrappesi. Il dispositivo automatico 16 è il più compiuto : l’acqua di una vasca, alimentata da una sorgente, si riversa in un piedistallo cavo, mentre degli uccelli artificiali appollaiati al bordo della vasca cantano fino a che il piedistallo non sia pieno ; un sifone svuota allora questo piedistallo entro un secchio, appeso ad una corda con puleggia e contrappesi, che scende facendo girare il posatoio d’un gufo ; quando il secchio è pieno, adesca un sifone che lo svuota a sua volta ; il gufo riprende quindi la sua posizione e gli uccelli il loro canto. Il dispositivo automatico 21, che permette di fare una libagione posando una moneta su un vassoio, può essere considerato un antenato dei nostri distributori di bibite. Esso risponde ad una valvola-rubinetto la cui tenuta stagna implica un’abilità nella levigazione dei metalli. Il capitolo 38 descrive l’automatizzazione di un tempio in miniatura le cui porte si aprono al momento di un sacrificio, poi si chiudono. La sua realizzazione combina gli effetti di dilatazione termica dell’aria, del sifone, dei vasi comunicanti (che dipendono dalla pneumatica), ed un macchinario di pulegge, assi e contrappesi (che dipendono dalla meccanica). Infine, il libro i include un quarto gruppo di capitoli, che presentano delle applicazioni « utili ed indispensabili alla vita umana » (capp. 20, 10, 11, 28, 34, 42 e 43). Il congegno 20 è una struttura ingegnosa che si richiama al principio dei vasi comunicanti: associando un galleggiante munito di una valvola-rubinetto ed un sistema di contrappesi, si ottiene un distributore di liquido a livello costante. Il capitolo 10 espone come ottenere, grazie ad una pompa e ad una valvola antiriflusso (cap. 11), un getto d’acqua pressurizzata. Questo sistema è migliorato nell’apparecchio 28 (quello che viene chiamato ‘pompa di Ctesibio’) : vi sono in questo caso due pompe collegate mediante un braccio oscillante che permette un sistema a doppio effetto. Il testo descrive inoltre un sistema di tubi incastrati che permettono di direzionare il getto d’acqua così ottenuto. Questo tipo di pompa antincendio era già stato descritto da Vitruvio (10,7,1 ; ma senza allusione esplicita all’utilizzazione di questo congegno  



















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contro gli incendi). Il capitolo 34 descrive un apparecchio semplice che grazie al gioco d’un galleggiante, di una ruota dentata e di una cremagliera, permette di assicurare una lunghezza costante allo stoppino di una lampada ad olio. Il capitolo 42 descrive la costruzione del celebre organo idraulico [6] (già descritto da Vitruvio, 10,8,1). Ritroviamo la pompa dell’aria fornita di una valvola di nuovo tipo e di un sistema di comando a leva. A ciò si aggiungono un sistema idraulico che funge da zavorra per la pressione dell’aria ed un dispositivo di comando e di selezione dei tubi sonori. Quest’organo, malgrado l’appellativo di ‘idraulico’ spesso attribuitogli, è proprio una macchina ‘pneumatica’, dal momento che l’acqua svolge soltanto la funzione di regolare la pressione. Il capitolo 43, infine, fornisce la descrizione di una variante di organo idraulico la cui pompa dell’aria è comandata da una ruota a pale, con un asse munito di camme che assicurano il moto alternativo del pistone e della pompa. Gli apparecchi descritti nel libro 2 possono egualmente essere raggruppati in tre insiemi, l’ultimo dei quali sarà un po’ eteroclito. La prima categoria include automi (3-5, 10, 15, 21, 32, 34-37) o giochi atti a destare meraviglia (9, 2224, 26). I capitoli 34 e 35 presentano dispositivi automatici che utilizzano gli effetti del vapore acqueo. Il dispositivo automatico 36 presenta un bovaro che fa bere un animale mentre gli taglia la testa. I capitoli 22-24 offrono varie modalità di riapprovvigionamento d’olio di una lampada, a cominciare da un serbatoio mimetizzato all’interno del candelabro che la sostiene. Si potrebbero raccogliere in un secondo gruppo i diversi sistemi per riversare liquidi che figurano nei capitoli 1, 2, 12-14, 16, 19, 20, 25, 27, 29-31 e 33 ; riversamento di volumi costanti (1), sistemi di mescolanze, di riversamento a richiesta (12, 30, 31, 33). Un terzo gruppo può riunire gli apparecchi 6 e 11 (applicazioni della forza motrice del vapore acqueo), 8 (sistema di misura della temperatura ?), 17-18 (applicazioni mediche di pompe a mano, per far aderire una ventosa senza ricorrere al fuoco, cap. 17, o per estrarre pus, cap. 18). È opportuno sottolineare che la costruzione realizzata nel cap. 11 (« far girare una sfera su di un perno mediante un paiolo collocato su una fiamma ») è quella cui generalmente si applica la denominazione di eolipila, nome che è tratto da Vitruvio (1, 6, 2), in cui si trova l’espressione Aeoli pila, « palla di  











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Eolo ». In Vitruvio, effettivamente, si ha una testa di Eolo, e il nome diverrà in seguito un termine comune designante il congegno, anche se ormai privo di quest’aspetto. Questa realizzazione era già stata attestata da Filone di Bisanzio (Pneum. 57, p. 196 della trad. di Carra de Vaux), in cui si dice che si accendesse così un brucia-profumi. La forma espositiva ‘euclidea’ è una caratteristica assolutamente notevole degli Pneumatica eroniani ; essa si ritrova, del resto, in altre opere dello studioso di meccanica alessandrino, come nei Metrica o nei Dioptrica. Il procedimento di esposizione e di dimostrazione di ciascun capitolo si conforma al modello cui si attiene ogni proposizione degli Elementi. Ogni problema, ogni teorema, si compone infatti di sei parti: [7] proposizione (o protasi), esposizione (ectesi), determinazione (diorismós), costruzione (kataskeué), dimostrazione (apódeixis) e conclusione (sumpérasma). Erone, adattando questo sistema alla materia di cui tratta, dà ai suoi capitoli una concatenazione che comporta invariabilmente una proposizione (è l’enunciato), una costruzione (il cui testo ha il ritmo scandito, come in geometria, da imperativi alla terza persona singolare, spesso al perfetto), ed una dimostrazione (« Se dunque noi procediamo in tale o in tal’altro modo, ne conseguirà che... », eja;n ou\n + congiuntivo aoristo, verbo principale al futuro) ; alla fine di alcuni capitoli, la ripresa finale dell’espressione utilizzata nell’enunciato richiama lo schema conclusivo euclideo. Il vocabolario stesso impiegato da Erone è quello della geometria euclidea. Si manifesta così la pregnanza del modello euclideo ed archimedeo nell’ambiente intellettuale greco ; niente di simile nei brani ‘pneumatici’ corrispondenti di Vitruvio. Si potrebbe dunque parlare, a proposito della scrittura degli Pneumatica, di fedeltà ad uno stile preciso ed austero, non privo di una certa bellezza : quello della letteratura scientifica greca. Si è potuto mettere in dubbio la realtà della costruzione di alcuni congegni pneumatici eroniani, poiché la precisione assai sottile che avrebbero richiesto era incompatibile con i mezzi tecnici dell’epoca. Va tuttavia osservato che nel vi secolo Cassiodoro, nelle sue Istituzioni, sembra menzionare delle lampade ad olio ad alimentazione automatica che ricordano quelle degli Pneumatica (1, 34 ; 2, 2223). Cassiodoro stesso, nelle sue Varie (45, 6), afferma di aver fatto costruire per Gundibaldo,  















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re dei Burgundi, un orologio ad acqua con degli automi atti a suscitare lo stupore del barbaro. Nel ix secolo, l’imperatore Teofilo avrebbe fatto appollaiare su un albero musicale in oro degli uccelli, pure in oro, che un meccanismo pneumatico faceva cantare. [8] Molto più tardi, si leggerà in Honoré d’Urfé, nella quarta parte dell’Astrée (1627), la descrizione di un piccolo tempio le cui porte sembrano aprirsi e chiudersi da sole : [9] esse sono in realtà azionate da un meccanismo pneumatico del tutto simile a quello descritto da Erone (Pneum. 1, 38) : « Costruzione di un piccolo tempio, in tal maniera che il fuoco sacrificale faccia aprire le porte da sole e che esse si richiudano quando il fuoco si estingue ». Infine, Jean-Jacques Rousseau, partendo all’avventura con un compagno, fa buon conto di trarre la propria sussistenza presentando sulle piazze pubbliche quella che chiama la fontana d’Erone.  





Note. [1] Questo testo è facilmente accessibile in Aujac 1975. – [2] Così in Vitruvio (10, 8, 1). – [3] Il quarto libro, Belopoiiká, ossia Armi da lancio, così come alcuni frammenti del settimo, Paraskeuastiká, Preparativi per la resistenza ad un assedio, e dell’ottavo, Poliorkétika, Macchine d’assedio, sono conservati in greco. Per le Questioni di pneumatica, ci si rifarà a Carra de Vaux 1903. – [4] Cfr. Lloyd 1960, 27-31. Vari passi della prefazione degli Pneumatica di Erone si possono ritenere attinti a Stratone, se seguiamo Wehrli 1969 (frr. 56 e 66 W.). – [5] Una pompa di questo tipo è attestata in Plinio, nella sua corrispondenza con Traiano (10, 33, 42 : nullus usquam in publico sipho, nullum denique instrumentum ad incendia compescenda). Su queste pompe, cfr. S. Dorigny, in DA, 4, 2, 1351-1352, s.v. sipho ; Pierrot 1965, 49 sgg. Esiste una documentazione archeologica, in particolare due pompe trovate a Bolsena e conservate al British Museum (Guide to the Exhibition illustrating Greek and Roman Life, ii ed., 1920, 120-121, figg. 127-128) e la pompa di Chiaruccia vicino a Civitavecchia (Kretzschmer 1966, 57). – [6] L’organo era molto usato a teatro, al circo, nei matrimoni ; è noto che uno degli ultimi ‘giocattoli’ di Nerone fu un organo idraulico (Suet. Nero 41). Numerose sono le testimonianze letterarie dell’ammirazione degli antichi per l’organo, da Cicerone (Tusc. 3, 18, 43) fino all’epoca tarda (Claud. 16, 316-320). Rimandiamo alle note molto dettagliate di Callebat-Fleury 1986, 170 sg. – [7] Lo schema ricompare in Procl. in Euc. 203, 1 Friedlein. – [8] Pierrot 1965, 222. – [9] ArgoudGuillaumin 1997. Vd. anche Vaganay 1925.  





Bibliografia. Argoud-Guillaumin 1997 ; Aujac 1975 ; Bauter 1960 ; Beaujeu 1949 ; Bedini 1964 ; Boas 1949 ; Brumbaugh 1903 ; Callebat-Fleury  



































































Jean-Yves Guillaumin







1986 ; Carra de Vaux 1903 ; Carré-Jézégou 1984 ; Cohen-Drabkin 1958 ; Daumas 1962 ; Drachmann 1948 ; Dugas 1950 ; Forbes-Dijksterhuis 1963 ; Hall 1971 ; Hammer Jensen 1927 ; Keller 1966 ; Kretzschmer 1966 ; Lana 1971 ; Lee 1973 ; Lloyd 1960 ; Loret 1890 ; Orinsky 1922 ; OrinskyNeugebauer-Drachmann 1941 ; Pierrot 1965 ; Prager 1974 ; Prou 1882 ; Rochas 1882 ; Rouanet 1974 ; Schmidt 1899 ; Tannery 1896 ; Vaganay 1925 ; Ver Eecke 1948 ; Wehrli 1969 ; Wikander 1981 ; Woodcroft 1854.

Pneumatici. La scuola pneumatica è fondata da Ateneo di Attalea (I sec. d.C.). Nella sua opera intitolata Peri; bohqhmavtwn (Dei rimedi) Ateneo parte dalla dottrina umorale di →Ippocrate e vi introduce la teoria dello pneuma, portatore delle funzioni vitali e psichiche più importanti, come ha appreso dalla dottrina stoica. [1] Lo pneuma è alimentato dall’aria introdotta nel corpo attraverso la respirazione e, come elemento di raffreddamento del calore, circola per mezzo delle arterie ; il corpo è formato dallo pneuma e dalle quattro qualità (caldo, freddo, secco e umido). La sede dello pneuma è nel cuore. La salute è determinata dall’equilibrio tra questo elemento e gli umori. La malattia è causata dallo squilibrio dello pneuma. [2] Per quanto concerne la terapeutica, la scuola pneumatica segue la scuola metodica con terapia basata su medicamenti blandi quali unzioni, frizioni, dieta, salassi ; riguardo alla dietetica, invece, le differenze tra scuola pneumatica e scuola ippocratica sono più marcate. I massimi esponenti della scuola pneumatica sono Ateneo di Attalea, →Archigene, →Eliodoro, →Areteo di Cappadocia.  







Note. [1] Vd. Gal. Meth. med. 13, 21 / 10, 929 K. – [2] Vd. Gal. Loc. aff. 3, 5 / 8, 149 K e Ps.-Gal. Def. med. 133 / 19, 386. Fonti. →Galeno nel De causis contentiuis chiarisce che Ateneo è stato discepolo di Posidonio di Apamea e che ha vissuto nella seconda metà del i secolo d.C. Lo pneuma e la scuola pneumatica vengono trattati negli scritti medici di Galeno (Methodus medendi e De locis affectis libri vi) e nelle Definitiones medicae pseudo-galeniche. Bibliografia. Baldin 2002b, 325-326 ; Kudlien, 1962, 419-429 ; Kudlien 1968c, 1097-1108 ; Mazzini 1997, 205-209 ; Nutton, 1997c, 363 ; Nutton, 2000, 1183-1184 ; Wellmann 1895a.  













Daniele Monacchini

polemologia Podagra. La podagra [podavgra, podagra] è una malattia articolare, lunga, dolorosa e tenace, affine all’artrite, ma che da questa si differenzia in quanto l’artrite colpisce tutte le articolazioni, mentre la podagra colpisce i piedi, o anche le mani, [1] o, più genericamente, altre parti localizzate del corpo. [2] Nel Corpus Hippocraticum la descrizione è precisa : dolori violenti al piede e in particolare all’alluce ; colpisce soprattutto gli uomini tra i 35 e i 65 anni, non colpisce le donne con mestruo, i giovani e gli eunuchi. [3] È malattia frequente in estate e in autunno ; è anche ereditaria [4] o è conseguenza di disordini di diaita o di vita oziosa ; come causa principale sono indicate un’alimentazione eccessiva, il bere smodato ed eccessi sessuali. [5] Nel Corpus leggiamo : « La podagra è la più violenta, la più lunga e la più tenace di tutte le malattie articolari di questo genere. Si verifica per accumulo di sangue corrotto nelle piccole vene della parte interessata a causa della mescolanza della bile e del flegma […] Se il dolore persiste fino all’alluce, si cauterizzino le vene un po’ sopra il condilo ». [6] Si conoscono attestazioni anche nella letteratura non medica. [7] Nella medicina post-ippocratica e poi di età ellenistico-romana e tarda alla malattia è dedicato grande interesse. Autori come →Erasistrato e, più tardi, →Areteo, scrivono opere specialistiche. Si continuano ad accogliere, in pratica, gli insegnamenti del Corpus. [8] La terapia, che si arricchisce in età ellenistico-romana, consiste in dieta stretta, salassi, clisteri, cauterizzazioni delle vene nelle articolazioni colpite e empiastri e impacchi. [9] Nella medicina tardo-antica si accenna a possibili metastasi (stomaco e polmoni) ; la podagra, secondo gli autori di questo periodo, può colpire donne ed eunuchi.  





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Fonti. Hp. Aph. 6, 28-30 /4, 570 L ; Morb. 1, 3 / 6, 144 L ; Aff. 31 / 6, 242 sg. L ; Prorrh. 2, 8 / 9, 26 sg. L ; Cels. 4, 31, 1-3/ 183-184 M ; Plin. nat. 25, 24 ; Plin. Epist. 1, 12, 4-6 ; Gal. Comp. med. sec. loc. 10, 2 / 13, 332-340 K ; In Hp. Aph. comm. 28 / 18, 1, 41 K ; soprattutto per rimedi refrigeranti o riscaldanti cfr. Ps. Gal. Intro. 13 /14, 756 K. ; Cael. Aur. chron. 5, 29 ; 5, 38-48 ; Orib. Syn. 9, 56 / 5, 549-551 ; eup. 4, 116 ; Syn. Syn. add. 6, 388-390 BDM.  

































Bibliografia. Gourevitch 1984, 217-247 ; Hassmann 1969 ; Mazzini 1997, 330-332 ; Stamatu 2005h, 356-358.  





Sergio Sconocchia























Note. [1] Chiragra : cfr. Celso e soprattutto Rufo. – [2] Agra : cfr. Cael. Aur. chron. 5, 27. – [3] Hp. Aph. 6, 28-30 /4, 570 ; Cels. 4, 31, 1-3 / 183-184 M. – [4] Plin. epist. 1, 12, 4-6 ; Aret. 8, 12, 1. – [5] Hp. Prorrh. 2, 8 /9, 26 sg. L ; Gal. In Hp. Aph. comm. 28 / 18, 1, 41 K ; Cael. Aur. chron. 5, 29. – [6] Hp. Aff. 31 / 6, 242 sg. L. ; cfr. Mazzini 1997, 331. Per altre notizie si veda Morb. 1, 3 / 6, 144 L.– [7] Cic. Tusc. 2, 45 ; cil 6, 7193a ; Suet. Galba 21 ; Gramm. 3; Mart. 12, 48, 9-10 ; Anth. Pal. 12, 243 ; Plin. nat. 25, 24 ; Plin. epist. 1, 12, 4-6. – [8] Così in Gal. Comp. med. sec. loc. 10, 2 / 13, 332 K ; cfr. In Hp. Aph. comm. 28/ 18, 1, 41 K. – [9] Gal. Comp. med. sec. loc. 10, 2 / 13, 336-340 K ; Cael. Aur. chron. 5, 38-48 ; si veda anche, soprattutto per rimedi refrigeranti o riscaldanti, Ps. Gal. Intro.  































Polemologia. 1. Generalità. – La p., così come la intendiamo oggi, è una scienza relativamente recente : la coniazione del termine si deve a Gaston Bouthoul (1896-1980) che nel 1946 lo utilizzò per indicare la disciplina che considera lo studio della guerra come fenomeno sociale ordinario, suscettibile di poter essere indagato per mezzo delle tradizionali scienze sociali. Nel riferirci al complesso degli studi e delle conoscenze tecnico-scientifiche sulla guerra nel mondo antico, è forse più opportuno utilizzare il termine ‘poliorcetica’ giacché il grosso della produzione letteraria che ci è pervenuta sull’argomento si occupa quasi esclusivamente di tattiche d’assedio e di difesa e di tecnologia applicata, con una predilezione per opere che trattano della costruzione di macchine da guerra, a testimonianza di come tale specifico settore rappresenti l’ambito applicativo privilegiato dalla →meccanica in epoca antica. Pur tuttavia non mancano, nell’ambito di altri generi di studi o di settori tecnici, riferimenti ad altre componenti, come il →diritto, la politica e l’economia, fondamentali per lo studio e la comprensione del fenomeno guerra. Nonostante dunque la poliorcetica costituisca un filone letterario ben definito è spesso difficile, come ha scritto G. Traina “separare tra autori ‘tattici’ puri da quelli che nell’ambito di altri generi o di altri campi tecnici, spesso si sono rivelati fondamentali per la ricostruzione della storia sociale”. [1] →Vitruvio, ma anche →Catone e Tucidide, se ci rivolgiamo al versante greco, infatti, dedicano ampio spazio della loro produzione alla trattazione di questioni relative alla guerra, contribuendo in maniera decisiva al successo di questo genere letterario nel corso dei secoli destinato a giungere, in al 



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cuni casi, ininterrotto fino all’epoca moderna (si pensi, per esempio all’opera di →Vegezio che tanta influenza ebbe su Machiavelli e che continuava ad essere usata come manuale di riferimento ancora presso gli eserciti del xix sec.). [2] 2. Il mondo greco. – Lo stato greco si fonda sull’interazione di due componenti basilari che insistono sulla stessa realtà territoriale e che trovano l’una nell’altra una reciproca ragion d’essere, la cwvra, il territorio esterno alla città che fonda in essa la sua determinazione politica e giuridica e ad essa fornisce i principali mezzi di sostentamento, e la povli~, ossia la città vera e propria costituita dalla realtà edificata, l’a[stu, e dalla cittadinanza, i poli`tai a pieno diritto. [3] Fin dai tempi più antichi, come potevano essere per esempio quelli delle Guerre Messeniche o della Guerra Lelantina, [4] la strategia attuata dalle povlei~ in lotta aveva come principale obiettivo la conquista del territorio della città nemica e, come dice il Garlan, era questa “si non une loi de la guerre, du moin un prejugé attaché à la conduite des opérations militaires, que l’on pouvait evidemment transgresser […] non sans raisons sérieuses ni précautions”. [5] L’invasione o il controllo di un territorio tramite incursioni o il possesso di punti strategici fortificati, secondo la pratica del cosiddetto ejpiteicismov~, [6] ossia del blocco era la prassi tradizionale di quell’arte dell’assedio che Tucidide definì poliorkiva, ossia il complesso di operazioni militari per cui si attuava l’investimento di una città, bloccandola fino alla resa. [7] Tale strategia prevedeva una reazione da parte dei difensori che opponeva al nemico la stessa determinazione nel saper resistere ad oltranza in una sorta di gara allo sfinimento. Con la rottura del tradizionale binomio cwvra-povli~, avvenuta probabilmente in occasione delle prime scorrerie spartane in Attica e dovuta alla consapevolezza di Pericle di non poter sconfiggere le armate di Archidamo in campo aperto, la città si configura sempre più come perno dell’organizzazione territoriale e diviene il principale obiettivo degli attacchi degli eserciti interessati al controllo della cwvra. [8] ProprioTucidide ci fornisce le prime notizie relative all’uso di tecniche ‘complesse’ per la presa di una città, in relazione all’assedio di Samo del 440/439 a. C. da parte degli Ateniesi, dove si fa menzione dell’uso di tre sbarramenti attorno alla città mentre la flotta  











bloccava il porto (Th. 1, 116 sgg.). Sempre nella stessa occasione, secondo Diodoro, Pericle fu il primo ad utilizzare macchine belliche, [9] come l’→ariete e la testuggine [→testuggini ed altre protezioni], con la supervisione di Artemone di Clazomene, e grazie alla quali, una volta abbattute le mura, riuscì ad aver ragione della città. Anche →Plutarco [10] (nonostante l’attribuzione a Eforo della notizia [11]), riferendosi allo stesso episodio, riporta diversi particolari relativi all’utilizzo di congegni meccanici per la presa della città, mettendone in dubbio però la paternità di Artemone e sottolineando soprattutto la meraviglia e lo stupore di Pericle nel vedere le macchine in azione, secondo un cliché che sarà ripetuto da molti degli autori che riferiscono notizie relative all’uso di macchine da guerra in fase d’assedio. Tali innovazioni tecniche, tuttavia, dovettero tardare nel dare i risultati sperati : ciò si desume, per esempio, dal fatto che lo stesso assedio di Samo durò per quasi nove mesi e anche nelle descrizioni degli assedi successivi, come quello di Potidea sempre ad opera degli Ateniesi, il contributo dato dalle macchine fu del tutto trascurabile. [12] Anche la conquista di Platea, da parte dei Peloponnesiaci, non riuscì a trarre beneficio dall’uso di alcune marchingegni. Tucidide, in questa occasione, descrive con dovizia di particolari sia le fasi dell’assedio sia i mezzi impiegati dagli uni per espugnare e dagli altri per difendersi. [13] In pratica, la città venne cinta da una palizzata affinché nessuno potesse uscire e, contemporaneamente, venne costruito un terrapieno presso le mura nemiche facendo ricorso soprattutto ad arieti per aprire varchi nelle fortificazioni della città. Tuttavia, le tecniche di difesa messe in atto dai Plateesi resero inutile l’uso di tali marchingegni e costrinsero gli assedianti a costruire un muro attorno alla città e a riccorrere, così, ancora alla tecnica del ‘blocco’ e alla presa per fame dopo due anni. [14] Data la cura con cui Tucidide descrive le varie tecniche impiegate dall’una e dall’altra parte, e, quindi, il grado di sviluppo tecnologico raggiunto, molti studiosi moderni hanno dubitato della veridicità del resoconto ma è più probabile, come hanno osservato altri, che “la descrizione minuziosa di Tucidide fosse destinata a lettori non abituati a quel genere di assalto e di difesa e che quindi tutto quanto l’episodio dovesse rappresentare una novità” (Garlan 1974, 35). Bisognerà comunque  









polemologia aspettare l’assalto di Minoa, durante la guerra del Peloponneso, per registrare i primi timidi successi nell’utilizzo di macchine d’assedio. [15] Particolarmente interessante, vista l’epoca, si rivelò l’utilizzo di macchine alle mura dalla parte del mare (con una tecnica che si ritroverà parecchio più tardi nell’assedio di Tiro posto da Alessandro) insieme a scale e torri [→elepoli] montate sulle navi. Durante l’attacco dei Beoti a Delion, invece, si fece un largo ricorso alle macchine incendiarie [→fuochi e tecniche incendiarie], congegni per cui i Greci potevano vantare una certa originalità di costruzione, come si deduce dalla descrizione che Tucidide fa di uno di questi strumenti : [16] una grande trave svuotata all’interno, attraversata da un tubo di ferro collegato con un braciere. Il dispositivo venne accostato alle mura e, azionando all’estremità opposta dei grandi manici, fecero sì che dal braciere si sprigionassero grandi fiammate capaci di appiccare il fuoco al parapetto di legno. Il potenziale incendiario e distruttivo di questi congegni decretò il successo e il sempre più crescente utilizzo di simili ritrovati anche se, nel complesso, l’utilizzo di macchine belliche durante la guerra del Peloponneso si rivelò infruttuoso e deludente, vista anche la facilità con cui spesso gli assediati, dall’alto delle proprie mura, riuscivano a metterle fuori uso. [17] Questa situazione non cambierà di molto nemmeno per gli assedi condotti nel corso del iv sec. a.C., almeno secondo quanto è possibile evincere dalle fonti, come →Senofonte per esempio. Nella Ciropedia, infatti, si fa riferimento semplicemente all’uso di scale e di arieti e le torri mobili menzionate appartengono al mondo persiano, senza nessuna relazione, dunque, con il mondo greco. Macchine come la testuggine di legno vennero usate senza successo nell’assedio di Librone a Larisa, in Eolide, [18] ma per lo più si continuò a far ricorso al metodo della circonvallazione, come mostrano i casi di Mantinea [19] o della vittoria di Agesilao sugli Acarnani. [20] Diversa, invece, è la situazione in Sicilia in questo periodo : è qui che nel iv sec. a.C. la cultura scientifica ellenica non solo produsse sul versante tecnologico le nuove macchine da guerra, ma fu in grado di razionalizzare in un progetto costruttivo l’utilizzo migliore delle artiglierie con macchine di diverso calibro e gittata, con effetti diversi al momento in cui veniva colpito l’obiettivo. [21] Queste invenzioni furono svi 













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luppate spesso sotto il diretto influsso e come necessaria reazione agli attacchi dei Cartaginesi, che disponevano di conoscenze tecniche molto superiori a quelle dei Greci di Sicilia : [22] furono tra i primi, infatti, ad utilizzare su larga scala macchine come la torre d’assedio mobile, che, essendo in grado di assicurare protezione agli altri assedianti che agivano con arieti o altri marchingegni, distraendo l’attenzione degli assediati, costituiva un mezzo spesso decisivo per l’esito di alcuni assalti (come dimostrano quelli contro Selinunte del 409 a.C. e Agrigento nel 406 a.C.), anche se la torre assediante poteva essere sempre ribaltata o, ancora meglio, incendiata. L’invenzione più interessante e rivoluzionaria di questo periodo fu senza dubbio la →catapulta, da attribuire, secondo Diodoro, [23] all’opera dei tecnici di Dionigi il Vecchio di Siracusa, anche se non è semplice delineare con esattezza le caratteristiche tecniche del primo modello a causa della scarsità di notizie disponibili. L’uso di questa macchina, tuttavia, segnò un notevole passo avanti nella tecnica poliorcetica, in quanto finalmente assicurava agli assedianti un’arma capace di vincere la resistenza degli assediati posizionati sulle mura, e, una volta aumentata la forza di propulsione, consentiva anche di arrecare notevoli danni alle fortificazioni, facilitando il lavoro di quanti erano impegnati ad agire con altri strumenti per aprirsi dei varchi e con il vantaggio, in più, di poter operare da una certa distanza. Con simili premesse, i risultati non tardarono ad arrivare : nel 397 a.C. Dionigi riuscì a strappare Mozia ai Cartaginesi grazie all’impiego di diversi tipi di macchine tra cui le catapulte, [24] alcune delle quali montate su navi. Dato che si trattava di un’invenzione recente, l’uso di simili accorgimenti dovette produrre un impatto psicologico devastante sugli assediati, come si desume dalla narrazione che ne fa Diodoro. In quest’occasione si fece ricorso anche a ponti mobili (ponti retrattili montati sulle torri), la cui invenzione pare debba attribuirsi ancora agli ingegneri di Dionigi, e che permisero di stanare gli assediati anche all’interno dei piani alti delle abitazioni in cui si erano rifugiati. [25] Le stesse tecniche d’assedio vennero usate sempre da Dionigi anche per l’attacco a Reggio, nel 388 a.C., [26] allorché questi fece costruire «macchine di grandi dimensioni per poter scuotere le mura», da identificare, verosimil 









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mente, con arieti di dimensioni inusuali. Altro merito di Dionigi nel campo della poliorcetica fu l’adozione della tecnica degli assalti continui, essenzialmente sconosciuta ai greci della madrepatria, e che si rivelò decisiva in più di un’occasione. [27] È in questo clima, con la moltiplicazione delle invenzioni di macchine belliche e delle tattiche di guerra, che comincia a prendere corpo l’esigenza sempre più impellente di disporre di una manualistica in grado di soddisfare le crescenti necessità degli eserciti in materia di mezzi e metodi di combattimento sempre più efficaci. Ad inaugurare questo filone letterario sarà →Enea Tattico autore, poco prima della metà del iv sec. a.C., dei Poliorkhtikav, una delle opere più importanti relative all’argomento[28] : l’interesse di questo testo risiede soprattutto nella varietà degli argomenti trattati, da quelli di tipo tecnico a elementi di economia e politica. Nell’opera sono distinte due tematiche principali : la difesa del territorio in occasione di invasione nemica e la difesa della città assediata sotto attacco nemico. Come arma per la difesa dagli attacchi delle macchine e dei reparti d’assalto, Enea consigliava il ricorso alle armi incendiarie e alle cortine fumogene, per la loro efficacia e la relativa semplicità nella messa in opera di questi dispositivi. Colpisce inoltre la varietà delle macchine belliche descritte, come torri, arieti, catapulte, speciali protezioni per scavare sotto le mura etc. Per questo periodo, tuttavia, a parte l’opera di Enea Tattico, non disponiamo di molti altri testi, anche se conosciamo dalle fonti i nomi di diversi autori ‘meccanici’. Si tratta di una perdita grave perché, come ha scritto Cambiano, « i testi di questi autori offrono l’opportunità di entrare nel mondo di chi la tecnica la viveva dall’interno, di chi pensava, progettava e faceva costruire macchine complesse ». [29] Nuova linfa a questo genere letterario verrà dalle imprese di Filippo ii e di Alessandro Magno. Le varie fonti che riferiscono sulle campagne militari dei due macedoni sono ricche di informazioni riguardo all’impiego di macchine belliche : e così possiamo osservare, come nel caso dell’assedio di Anfipoli del 358 a.C. posto da Filippo ii, l’uso massiccio di arieti e di altri mezzi diventati ormai comuni, come le torri mobili e le catapulte. [30] L’utilizzo di queste macchine rendeva poi più semplice il ricorso alla tecnica dell’assalto anche se l’uso  















combinato di questi due elementi non risultava sempre ancora vincente, come dimostra il tentativo di prendere Perinto nel 340 a.C., sulla costa settentrionale della Propontide. [31] Solo con Alessandro Magno si assisterà ad un completo sfruttamento delle possibilità insite nelle nuove conquiste tecnologiche : il macedone, infatti, utilizzò tutti i mezzi a disposizione, sperimentati in gran parte già da suo padre e, in alcuni casi, perfezionati, in modo da mettere le macchine in condizione di dare il massimo appoggio alle truppe impegnate nell’attacco. L’assedio di Mileto del 334 a.C. costituirà il primo banco di prova per gli eserciti di Alessandro nell’utilizzo di macchine da guerra : Arriano e Diodoro, gli unici autori a riferire dell’episodio, [32] accennano genericamente all’uso di ‘macchine’ che permisero di aprire brecce nelle mura, e, dunque, da identificare verosimilmente con arieti. L’operazione, come è noto, ebbe successo ma costò al macedone diversi mesi di impegno e parecchie perdite umane, a riprova di come le tecniche d’assedio, per quanto raffinate e complesse, dovevano essere ancora perfezionate. Anche la presa di Alicarnasso, dello stesso anno, effettuata con grande dispiego di mezzi, non fu immediata. [33] La città, infatti, era stata fortificata sotto gli Ecatomnidi con una serie di mura concentriche che seguivano le curve di livello delle alture circostanti e alla base delimitate da un fossato murario profondo sette metri e largo tredici. Questa cinta comprendeva anche due poderosi fortilizi. Inoltre, la sua posizione, nelle immediate vicinanze del mare, le assicurava rifornimenti continui permettendole di resistere ad un assedio a tempo indeterminato. L’esercito macedone si avvicinò alla città seguendo la strada costiera che va da Iaso e Bargylia. L’effetto nullo sortito dai primi tentativi portò Alessandro a puntare al sobborgo di Mindo, [34] centro satellite situato a 20 km sulla striscia di terra che corrisponde alla penisola di Alicarnasso : essendo però sprovvisto di macchine, l’esercito macedone tentò di far crollare una torre scavando sotto le mura, metodo che però non produsse la breccia sperata. L’arrivo di soldati persiani da Alicarnasso costrinse il giovane re a ripiegare verso l’assedio alla capitale caria. Qui, dopo aver colmato il fossato che circondava le mura, iniziò le operazioni d’assedio avvalendosi soprattutto di arieti, torri mobili e catapulte fatte arrivare dal mare,  













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secondo quanto riferisce Diodoro. Anche gli assediati si servirono di catapulte e altri mezzi per contrastare l’attacco di Alessandro, come racconta dettagliatamente →Arriano, arrecando non pochi danni agli armamenti dell’esercito avversario e costringendolo a ripetuti attacchi. [36] La presa di questa città, resa possibile grazie all’uso integrato di un gran numero di macchine ossidionali e tecniche d’assedio particolari, costituisce uno dei primi veri passi avanti della poliorcetica antica, e che sarà ulteriormente migliorato con l’attacco a Tiro nel 332 a.C. L’episodio è narrato con dovizia di particolari da diverse fonti come Arriano, Diodoro e Curzio Rufo, [37] a riprova dell’importanza che dovette avere proprio per l’evoluzione delle tecniche d’assedio. La città si ergeva su due isole unite artificialmente ; Arriano dice che essendo separata dalla terraferma da un braccio di mare largo quattro stadi « non potevano essere scagliati colpi se non da lontano e a bordo di navi, né venire appoggiate scale alle mura, le cui pareti a strapiombo sull’acqua avevano tolto ogni speranza all’avanzata della fanteria ». [38] A queste condizioni, l’unica soluzione che poteva permettere ad Alessandro di utilizzare il cospicuo parco di macchine belliche che aveva a disposizione era la costruzione di un grande molo d’assedio, impresa già tentata oltre due secoli e mezzo prima da Nabucodonosor, il quale per ben tredici anni aveva tentato la conquista della città, senza riuscirvi. Alessandro impiegò gran parte dei sette mesi occorsi per avere la meglio sui Tirii nella costruzione di quest’opera : si trattava, in sostanza, di unire l’isola alla costa e renderla così accessibile a macchine come l’elepoli, alle catapulte e agli arieti almeno da un lato e per fare ciò predispose la distruzione sistematica dell’antica Tiro, cinque chilometri a sud della città, per avere materiale di riempimento. [39] Le opere di costruzione, che dovevano coprire una distanza di oltre 700 metri, partirono dal lato della terraferma, e non solo perché chi vi lavorava era al di fuori della portata del tiro dei difensori. A ridosso della costa, infatti, i fondali erano estremamente bassi e pieni di fango, e ciò facilitava l’opera dei genieri, poiché la melma cementava le pietre che essi gettavano in gran quantità, e consentiva loro di piantare i pali di contenimento con estrema facilità. Per il legname, necessario all’allestimento di torri e zattere, venne praticamente disboscato l’im 

















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mediato entroterra libanese. Quando la costruzione arrivò a ridosso della città, nei pressi delle mura, l’opera ebbe difficoltà a proseguire perché i Tirii ostacolavano le operazioni. Vennero disposte a protezione dei ‘riempitori’, due grandi torri d’assedio che però vennero facilmente bruciate quando i Tirii, con l’aiuto della brezza marina, spinsero una nave incendiaria contro l’estremità del molo, distruggendo completamente le torri. [40] Alessandro ordinò allora una immediata ripresa dei lavori, stavolta su una base più estesa di circa sessanta metri, affinché potesse ospitare più macchine d’assedio. E, nonostante il cambiamento e di strategia e di tecnica costruttiva, le difficoltà create dai Tirii furono notevoli ; veri e propri ‘sommozzatori’ agganciavano e trascinavano via cedri interi del Libano che, una volta gettati in acqua, avevano la funzione di vere e proprie gabbie di contenimento per il materiale di costruzione. [41] La svolta in questa prima fase dell’assedio fu l’utilizzo di molte navi, capaci di avvicinarsi ad altri punti della città e in grado di trasportare numerose truppe, poste su ponti che tenevano unite le imbarcazioni a due a due, secondo quanto riferisce Curzio Rufo. [42] Alcune di queste navi furono munite di dispositivi balistici che fecero per la prima volta la loro comparsa su scenari di battaglia navale : tra questi troviamo catapulte di tipo petrobovlo~ in grado di lanciare pietre anche di grosse dimensioni, azionate da meccanismi a →torsione per aumentare la potenza di lancio e l’efficacia, e probabilmente, anche torri mobili o altri congegni come la →sambuca, usati per scalare fortificazioni dal mare. La città venne prese dopo sette mesi e mezzo di assedio e particolarmente significativo appare in questa circostanza il gesto di Alessandro di dedicare nel tempio di Ercole l’ariete con cui era stata aperta la prima breccia nelle mura della città, a dimostrazione dell’importanza acquisita dai mezzi tecnologici nella condotta degli assedi. [43] Dopo Tiro, Alessandro assediò Gaza degli Sciti. La città sembrava una roccaforte di difficile accesso : prossima al mare, circondata per circa tre chilometri e mezzo da sabbia e paludi lungo le quali era impossibile far avanzare torri mobili e macchinari ossidionali, aveva mura alte e spesse. Per vincerne la resistenza, gli ingegneri al servizio del macedone furono costretti ad approntare un terrapieno tutt’intorno al perimetro della città, un muro di con 







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trovallazione (periteicivsmata), che si appoggiasse alle pendici della collina, ammorbidisse il pendio e consentisse alle macchine, giunte via mare, di avanzare con maggiore celerità. Questo escamotage permise l’utilizzo delle macchine e delle tradizionali tecniche d’assalto come lo scavo di cunicoli alla base delle fortificazioni, consentendo un rapido svolgimento delle operazioni che si conclusero in soli due mesi, come narrano Arriano e Curzio Rufo. [44] Il ricorso allo scavo di cunicoli si avrà anche nei successivi assedi posti alle città di Nautaca, Massaga e Aorno, dove, in pratica, insieme all’utilizzo delle scale per raggiungere la sommità delle mura, costituiranno l’unica tecnica d’assalto, segno evidente che le fortificazioni di questi abitati non erano così resistenti da richiedere l’uso di macchine belliche più sofisticate. La fortuna delle imprese di Filippo ii e di Alessandro Magno, rese possibili in molti casi grazie alle trovate di famosi ingegneri come Poleidos Tessalo →Diade (che scrisse un trattato di poliorcetica menzionato da →Ateneo Meccanico e da Vitruvio) e Caria, sviluppò ulteriormente la produzione di una manualistica di tipo ‘meccanico’ tutta imperniata sulla costruzione e l’uso delle macchine da guerra, con particolare riferimento a quelle utilizzate in assedi famosi (come quelli di Tiro e di Gaza) e che tanta fortuna ebbero presso i regni ellenistici. Lo studio del funzionamento di questi congegni si sviluppò a tal punto da divenire un passaggio fondamentale all’interno della formazione aristocratica e, infatti, pare sia stato proprio un sovrano a ispirare una delle prime opere dedicate all’argomento : si tratta degli Strategika di →Demetrio Falereo che, purtroppo, non ci sono pervenuti. Di qualche anno successivo è il celebre assedio di Rodi del 305-304 a.C., [45] dove Demetrio si servì di una serie di macchine gigantesche per la presa della città, come la famosa elepoli, ideata per l’occasione da Epimaco di Atene, una torre mobile pesante circa 150 tonnellate e armata con 16 catapulte di diverso calibro. I Rodii opposero una forte resistenza, anche perché potevano contare su un formidabile arsenale e su molti e qualificatissimi ingegneri come Callia da Arado e Diogneto, che seppero mettere in atto le necessarie contromisure per resistere agli attacchi dell’esercito assediante, usando macchine come le gru girevoli capaci di sollevare le artiglierie nemiche e portarle dentro le mura,  

evitando così la caduta della città. Il tentativo di assedio si risolse con un nulla di fatto, ma l’episodio segna una tappa importante per la storia della poliorcetica ellenistica, non solo per l’uso di complesse e imponenti macchine belliche o di reparti sempre più specializzati nell’uso di questi congegni, ma perché rappresentò anche un momento di grossa competizione tecnica tra gli ingegneri dei due schieramenti, a dimostrazione di come certe competenze nel campo della meccanica per la guerra si andavano facendo sempre più raffinate e sempre più richieste, soprattutto nel versante della difesa. La grande diffusione di macchine di grandi dimensioni ed elevato calibro infatti, ormai alla portata di tutti gli eserciti, fece incrementare la ricerca per la costruzione di ‘antimacchine’, congegni in grado di mettere fuori uso le artiglierie e i ritrovati degli eserciti assedianti, e di nuove strategie di difesa sempre più sofisticate ed efficaci. È proprio in questa linea che può iscriversi la Sintassi Meccanica di →Filone di Bisanzio. Nella sezione dedicata alla guerra, accanto alle istruzioni per la progettazione e la costruzione di potenti macchine belliche, l’opera analizza l’utilizzo delle macchine da guerra per la difesa delle città durante gli assedi : tale argomento portò Filone a trattare della disposizione ottimale delle mura e della loro edificazione, spiegando come costruirle, suggerendo come adattarle alle caratteristiche topografiche del sito e insistendo, soprattutto, sulla necessità della difesa avanzata rispetto alla linea delle mura, poiché la realizzazione di opere antistanti ad esse (proteicivsmata) avrebbero reso difficoltoso o impedito lo scavo di mine e cunicoli, l’approccio delle macchine d’assalto e la sistemazione in batteria di macchine come le catapulte ad una distanza utile per colpire la cinta urbana, [46] oltre a rendere l’attaccante più vulnerabile. È questo un tema a cui Filone dedica ampio spazio, illustrando dettagliatamente tutte le varie fasi di allestimento e preparazione delle opere correlate, dallo scavo dei fossati al posizionamento delle macchine sulle mura. Ancor più importanti però, oltre alle indicazioni per la realizzazione di qualsiasi fortificazione in modo che non possa mai essere presa fra due punti di tiro, [47] risultano le istruzioni per la costruzione e la difesa delle opere sporgenti, ovvero le torri. Filone consiglia di erigere torri a pianta pentagonale o, comunque, con angoli  

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salienti in modo da far rimbalzare sui lati obliqui i proiettili delle catapulte lancia-pietre ; ma il vantaggio maggiore, “è dovuto al fatto che sia le torri pentagonali sia quelle quadrangolari, ruotate con un angolo verso il fronte d’attacco, potevano essere difese dal tiro delle macchine poste sulle cortine e quindi avvalersi del principio del fiancheggiamento per tutto il perimetro del loro corpo di fabbrica, così come esse garantivano la protezione alle cortine stesse. In questo modo nel pensiero di Filone il concetto di copertura reciproca fra tutte le strutture fortificate che concorrono alla creazione di un sistema difensivo risulta completo di ogni suo elemento”. [49] Nonostante la validità degli accorgimenti illustrati da Filone, furono comunque poche le città che adottarono queste nuove tecniche per la costruzione delle torri anche perché, nella maggior parte dei casi, si limitavano a riparare le cinte di cui già disponevano. Dai consigli e dalle raccomandazioni di Filone sulla difesa contro i pezzi di artiglieria si deduce la grande importanza che le macchine da guerra avevano acquisito negli scontri e l’alto grado di sviluppo tecnologico raggiunto in età ellenistica, tanto per quanto concerne le dimensioni dei congegni e la varietà di tipologie inventate, quanto per le strategie difensive. L’opera di Filone, dunque, può essere considerata una pietra miliare nel settore della →meccanica applicata alla guerra, destinata ad avere un enorme influenza sulla poliorcetica ellenistica e dei secoli successivi. 3. Il mondo romano. – Le conoscenze e le tecniche poliorcetiche adottate dai romani derivavano direttamente dall’esperienza acquisita negli scontri con gli eserciti greci, [50] dai quali appresero i vari metodi di assedio e l’uso delle macchine ossidionali, che copiarono e, in molti casi, migliorarono. Le fonti riferiscono di tre principali procedimenti di cui le legioni romane si servirono per la presa delle città : il più diffuso era quello dell’obsidio (o obsessio) che consisteva nel cingere la città avversaria con una linea fortificata, costituita da fortini e torri uniti da palizzate con o senza fosso e opportunamente presidiati. Tale tecnica veniva utilizzata per assediare città che disponevano di complessi circuiti difensivi e scarse possibilità di approvvigionamento di viveri per lunghi periodi. Un altro sistema era quello della repentina oppugnatio, ossia dell’assalto. In questo meto 



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do, molto utile contro città mal difese, contava soprattutto il fattore sorpresa, e si effettuava con la scalata repentina alle mura. La terza tecnica era quella della longiqua oppugnatio, metodo che consisteva nella fusione degli altri due sistemi, e che si rivelava particolarmente adatto negli assedi di lunga durata, permettendo il pieno utilizzo di tutte le macchine belliche a disposizione degli eserciti. Non siamo però in grado di sapere in che momento queste conoscenze e le artiglierie, soprattutto quelle più sofisticate che sfruttavano il principio della →torsione, entrarono a far parte della tecnica e dell’armamento in dotazione all’esercito romano : certamente, la diffusione di questi congegni dai regni ellenistici verso la penisola italica e il mondo occidentale in generale non fu immediata ; tuttavia le fonti parlano di un uso abbastanza precoce di strumenti come l’ariete, la sambuca e il tolleno. Le prime notizie relative all’uso di pezzi di artiglieria non a torsione da parte dell’esercito romano le dobbiamo a Livio (Liv. 6, 9, 2) a proposito della presa di Anzio da parte di C. Camillo nel 386 a.C. : in questo caso si fa riferimento a dei tormenta, da identificare con un tipo di catapulta anche se, per la verità, sulla genuinità del passo alcuni hanno avanzato forti dubbi, soprattutto per problemi legati alla cronologia dell’episodio. [51] Per quanto riguarda l’utilizzo di congegni a torsione, invece, è probabile che l’introduzione di questa tecnologia nell’area del mediterraneo occidentale si debba ai numerosi eventi bellici cui partecipano condottieri provenienti dall’Epiro, alleati delle colonie greche, come Alessandro il Molosso (334 a.C.) e Pirro (280 a.C.). Diodoro (22, 10, 7) narra infatti come il re dell’Epiro potè disporre di un certo numero di macchine da guerra di questo tipo in diverse occasioni nel corso dei suoi attacchi. Ma è con la Prima Guerra Punica che abbiamo la certezza documentaria dell’uso di pezzi d’artiglieria a torsione da parte dell’esercito romano (Diod. Sic. 1, 42, 9 ; 1, 53, 11) che, molto probabilmente, apprese l’uso di questi congegni dai Cartaginesi. Secondo Garlan (Garlan 2000, 114), tuttavia, ancora nel iv-iii sec. a.C. le armate di Roma non disponevano di una artiglieria propria ma utilizzavano le macchine che riuscivano a strappare al nemico, o più spesso, erano costrette a far ricorso a prestiti da parte delle città greche alleate, che inviavano anche ingegneri e personale specializzato nel far funzio 







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nare al meglio questi dispositivi. Fu proprio il contatto con queste maestranze specializzate che indusse i Romani, di lì a poco, a costruire macchine belliche in proprio, macchine che, uguali in tutto e per tutto a quelle greche, erano capaci di assicurare una certa indipendenza su questo piano e rendere più semplice il loro uso, come dimostreranno i fatti della Seconda Guerra Punica. [52] Il ricorso alle macchine belliche, in questa prima fase, era comunque ancora scarso. Episodi di cui abbiamo notizia sono il celebre assedio di Utica posto da Scipione nel 204 a.C. (Liv. 29, 35, 8) dove si fece largo uso di macchine sia costruite in proprio, sia requisite durante l’assedio di Carthago Nova (Liv. 26, 43-49 ; App. Hisp. 1, 20), o l’inizio della Terza Guerra Punica, nel 149 a.C., quando Scipione Nasica ricevette da Cartagine 2000 catapulte lancia-frecce e lancia-pietra (App. Pun. 80). Nonostante dunque la possibilità di disporre di mezzi e macchine d’assedio su grande scala, il loro utilizzo durante l’epoca repubblicana fu relegato solo a situazioni particolari preferendo, anche in assedi complicati come quello di Numanzia (App. Hisp. 92), il ricorso a metodi più tradizionali, come l’impiego della tattica dell’obsidio. Solo con Cesare si avrà l’ingresso definitivo e permanente di macchine in dotazione all’esercito come le catapulte usate sia come mezzo offensivo che come elemento difensivo di punti strategici, come nel caso dell’assedio di Alesia (Caes. Gall. 7, 73). In questo caso, si trattava di catapulte di piccolo calibro, facili da trasportare e da maneggiare e che dovettero avere un ruolo fondamentale per il successo nelle Guerre Galliche. [53] La crescente importanza che le macchine da guerra e i sistemi difensivi andarono acquisendo sul finire della repubblica è dimostrata dall’interesse che autori come Vitruvio dedicano a questi dispositivi : [54] un’ampia sezione del libro x del De Architectura, quello della →meccanica, è difatti dedicato alla costruzione di macchine da assedio e da difesa. Il testo, che dipende molto da Filone, godette di grande fortuna e rappresenta uno dei pochissimi manuali in lingua latina pervenutoci sull’argomento. In epoca imperiale, la dotazione di macchine belliche alle legioni aumentò notevolmente, vennero creati appositi raggruppamenti che potevano contare su propri equipaggiamenti e, spesso sotto la guida di esperti tecnici e ingegneri come →Apollodoro di Dama 



sco, [55] vennero formati veri e propri tecnici specializzati capaci non solo di far funzionare correttamente quei congegni ma anche di progettarli, costruirli e modificarli a seconda delle occasioni. [56] Fu in questo clima che vennero inventate macchine come la cheirobalistra di →Erone, evoluzione della balista. Ogni legione disponeva dunque di reparti specializzati nella manutenzione e nel controllo delle macchine ai quali sovrintendeva il praefectus fabrum. Questa carica, nota da alcuni autori [57] e attestata in moltissime epigrafi, designava dunque un funzionario investito di particolare responsabilità all’interno della struttura della legione stessa ed era nominato direttamente dal Governatore Provinciale o dal legatus legionis. Non sappiamo con precisione a quando data la sua comparsa, probabilmente con la fine della repubblica o l’inizio dell’impero, ma già all’epoca di Settimio Severo, con la regolamentazione della carriera equestre, scomparve definitivamente dal cursus honorum. [58] In epoca tardo antica, le tecniche di assedio non subirono particolari modifiche rispetto a quelle di età repubblicana e imperiale, salvo per il fatto che metodi come quello di costruire circonvallazioni intorno alle città caddero in disuso e alcune macchine furono usate di più rispetto ad altre che andarono lentamente perdendo il loro ruolo e finirono quasi per scomparire. [59] Così, la cheirobalistra e l’→onager, andarono a sostituire macchine come la balista, ma soprattutto si cercò di migliorare e semplificare i meccanismi di alcuni dispositivi, adattandoli alle esigenze di un nuovo tipo di guerra, quella di movimento, imposta dalle pressioni che le popolazioni barbariche esercitavano dalla Mesopotamia fino al limes germanico. [60] Questa nuova situazione di scontro, portò a modificare notevolmente alcune macchine, soprattutto nelle dimensioni, rendendole più maneggevoli in modo da poter essere utilizzate agevolmente e velocemente anche su fronti di battaglia molto ampi e portò alla creazione, in vari punti dell’impero, di vere e proprie fabbriche d’artiglieria, le c.d. fabricae ballistariae, come quella di Amida, in Mesopotamia, all’epoca di Costanzo (Amm. Marc. 18, 9, 1). Verso la metà del iii sec. d.C., sotto l’imperatore Gallieno, l’artiglieria e le macchine da guerra in generale passarono a costituire delle unità autonome all’interno della struttura dell’esercito, alle quali le legioni ricorrevano di

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volta in volta, mentre all’epoca di Costantino nessun reparto dell’esercito disponeva di una propria artiglieria. Si passò così alla costituzione di unità di ballistarii [→ballista], che disponevano di soldati specializzati in grado di poter raggiungere qualunque teatro di guerra e far funzionare i micidiali dispositivi. Secondo Rodríguez González (Rodríguez González 2003), le legioni di questo tipo durante il iv sec. d.C. erano di cinque tipi : Dafnenses, Seniores, Iuniores, Theodosiaci e Theodosiaci iuniores. Nonostante questi tentativi di migliorie e razionalizzazioni a livello di organizzazione, verso la fine del iv sec. d.C. la macchina militare imperiale non doveva godere di buona salute, visto che la più importante opera sulla guerra in lingua latina che ci sia pervenuta, l’Epitoma rei militaris di Vegezio, [61] scritta proprio in questo frangente, si propose quale rimedio allo sfacelo del glorioso esercito, presentando, sotto forma di compendio, il recupero di schemi tattici e strategici tratti dal repertorio della tradizione e attingendo da autori come Catone, →Varrone, →Celso, Paterno [→stratagemmi], o da leggi e regolamenti emanati da Augusto, Traiano e Adriano. Il grado di specializzazione degli eserciti, tuttavia, aveva raggiunto il suo massimo e restò invariato fino alla scomparsa delle legioni come unità da combattimento.

[41] Arr. 2, 23, 3. – [42] Curt. 4, 2, 8. – [43] Arr. 2, 18, 3-29 ; 21, 1-4 ; 22, 6; Diod. 17, 40, 3-42, 7 ; 43, 5-45, 6. – [44] Arr. 2, 25, 4-27 ; Curt. 4, 6, 7-30. Cfr. anche Diod. 19, 86, 3-4. – [45] Vd. Garlan 1974, 347-348 e Garlan 1992b. – [46] Phil. Byz. Synt. 5, A 82-83. – [47] Phil. Byz. Synt. 5, A 85. – [48] Phil. Byz. Synt. 5, A 65-66. Cfr. anche Marsden 1969, 148-149 e Garlan 1974, 331-338. – [49] Scofienza 2003. – [50] Vd. Garlan 1985, 18. – [51] Vd. Le Bohec 1996. – [52] Vd. Gabba 1980. – [53] Keppie 1998, 184-185. – [54] Vitr. 10, 15-19. Cfr. anche Russo 2004, 121-137. – [55] Per i Poliorketika di Apollodoro di Damasco si veda l’edizione italiana a cura di La Regina 1999. – [56] Vd. Pleket 1973; Le Bohec 1996. – [57] Nep. Att. 12, 1; Caes. civ. 1, 24; Veg. Mil. 2, 11. – [58] Vd. Le Bohec 1996. – [59] Sáez Abad 2005b, 142. – [60] Sáez Abad 2005b, 143. – [61] Vd. Formisano-Petrocelli 2003.

Note. [1] Traina 2002, 431-432. – [2] Vd. Formisano 2002. – [3] Vd. Bengston 1988, 130-132. – [4] Vd. Bengston 1988, 133-136. – [5] Vd. Garlan 1974, 21. – [6] Vd. Garlan 1974, 33-34. – [7] Vd. Garlan 1974, 3-5. Per gli eventi bellici principali cfr. Garlan 1974, 108-125 ; Warry 1998, 63-65. – [8] Vd. Bengston 1988. – [9] Diod. 12, 28, 3. – [10] Plu. Per. 27, 3. – [11] Cfr. fr. 194 Jacoby. – [12] Thuc. 2, 75 sgg. – [13] Thuc. 2, 77 sgg. – [14] Thuc. 3, 52. – [15] Thuc. 3, 51. – [16] Thuc. 4, 100. – [17] Significativo, al riguardo, è Xen. Cyrop. 6, 1, 52-55. – [18] Xen. hg 5, 2, 1-7. – [19] Xen. hg 3, 2, 11 ; 5, 3, 16-25. – [20] Xen. hg 3, 4, 55. – [21] Vd. Le Bohec-Bouhet 2000. – [22] Diod. 14, 42, 1. – [23] Diod. 14, 50, 4 e 14, 51, 1. – [24] Diod. 14, 47-51. – [25] Diod. 14, 48, 3. – [26] Plb. 16, 1-2; Diod. 14, 113, 1; 117, 9; 15, 1, 6. – [27] Marsden 1969, 58-59. – [28] Vd. Bettalli 1990, 1416 ; Oldfather 1923, 1-18 ; Whitehead 1990, 34-42. – [29] Di Pasquale 2004, 18. – [30] Diod. 16, 8, 2. Cfr. Garlan 1974, 236. – [31] Diod. 16, 74-76. – [32] Arr. 1, 19, 2 ; Diod. 17, 22, 1. – [33] Arr. 1, 20, 2-23 ; Diod. 17, 24, 4-27. – [34] Arr. 1, 20, 6. – [35] Diod. 17, 40, 4. – [36] Arr. 1, 20, 6. – [37] Arr. 2, 16-24 ; Diod. 17, 40-46 ; Curt. 2, 1-4, 18. – [38] Arr. 2, 18, 6. – [39] Diod. 17, 41, 3-4 ; Curt. 4, 3, 20. Vd. Ashley 1998, 239-246 ; Keyser 1994, 61-76. – [40] Arr. 2, 22, 7. –

Polieri. 1. Un antico problema. – Abbiamo chiamato ‘questione delle polieri’ quello che altrove si potrà trovare designato, troppo riduttivamente, come ‘enigma, mistero della trireme’ o simili. In realtà, se il problema si limitasse alla triere/trireme, non si dovrebbe parlare di enigma o di mistero, ma semplicemente di una cosa che conosciamo male e che possiamo ricostruire solo con qualche incertezza. Di enigma, cioè di questione che si presenta in termini apparentemente contraddittori, e la cui soluzione non si riesce di primo acchito neppure a immaginare, si può parlare solo per le navi di ordine superiore, dalla tetrere/quadrireme in su, e via via attraverso la pentere/ quinquireme etc., fino alla tessarakonteres ( !), la ‘quaranta’ (quaranta che cosa ?), un mostro alla cui esistenza non crederemmo se non fosse ben testimoniata. Che gli antichi, per aumentare la potenza propulsiva delle loro navi da guerra, disponessero i vogatori su diversi livelli in modo da farne entrare il maggior numero possibile in uno scafo snello, è sicuro ; che questi livelli potessero arrivare a tre è perlomeno































Bibliografia. Ashley 1998 ; Bengston 1988 ; Bettalli 1990 ; Cambiano 1996a ; Di Pasquale 2004 ; Ducrey 1995 ; Fara 1989 ; Fara 1993 ; Formisano 2002 ; Formisano-Petrocelli 2003 ; Gabba 1980 ; Vd. Garlan 1974 ; Garlan 1992b ; Garlan 1992b ; Garlan 1985 ; Keyser 1994 ; Keppie 1998 ; La Regina 1999 ; Le Bohec 1996 ; Le Bohec-Bouhet 2000 ; Marsden 1969 ; Oldfather 1923 ; Pelket 1973 ; Romano 1997a ; Sáez Abad 2005b ; Scofienza 2003 ; Traina 2002 ; Warry 1998 ; Whitehead 1990.  























































Lucio Benedetti







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assai probabile ; che essi fossero piú di tre è invece del tutto improbabile – e qui compare il vero enigma, che assilla da cinque secoli gli studiosi di questo speciale aspetto della guerra antica. Per la triere, cioè per una nave dove i vogatori sedevano su tre livelli, scaglionati in altezza nonché rispetto all’asse della nave, si è proposto un gran numero di soluzioni, spesso poco plausibili o addirittura insensate ; ma non è mancato chi ha applicato al compito di ricostruire mentalmente l’antica nave un’ingegnosità tecnica suffficiente a tranquillizzarci, per cosí dire : se pur la triere non era fatta proprio cosí, qualcosa di simile è immaginabile, e il margine di incertezza non è superiore a quello che accettiamo in cento altri casi, nello studio dell’Antichità. Pur tra molti dissensi, anche la recente ricostruzione della Olympiás (stavolta non solo mentale, ma in vero cantiere), uno spettacolare esempio di archeologia sperimentale, sembra aver dimostrato che una ‘nave a tre ordini di remi’, come spesso si definisce sbrigativamente, è possibile. Non altrettanto si può dire per una a quattro, cinque ordini etc., che nessuno oggi si attenterebbe a ricostruire, almeno procedendo lungo le linee poste a fondamento della triere, perché le inverosimiglianze o impossibilità che ogni passo avanti comporta, procedendo dalla tetrere alla pentere e cosí via, aumentano in maniera esponenziale (letteralmente). Citiamo : l’impossibile innalzamento del baricentro ; l’impossibilità che i remi dei presunti ordini più alti lavorassero con un angolo così forte rispetto alla superficie dell’acqua ; l’impossibilità che tanti remi, formanti una simile massa, riuscissero a muoversi con ordine senza intralciarsi fra loro. Ogni tentativo di sfuggire ad una di queste assurdità ne suscita altre peggiori. Insomma, la forza delle cose, cioè le leggi della fisica, a cominciare da quella dell’impenetrabilità dei corpi, costringono ad ammettere (per dirla da linguisti) che l’elemento -eres non significhi piú la stessa cosa quando è combinato con un numerale superiore a tre, come ora vedremo. Sembra una scappatoia arbitraria e disperata, ma è la meno peggiore che si sia escogitata, a fronte di analoghe incoerenze e illogicità che si incontrano in altre nomenclature tecniche, anche là dove non ce le aspetteremmo. 2. La soluzione oggi comunemente accettata. – Mentre per tutta l’epoca d’oro della triere, cioè fino a tutta la guerra del Peloponneso,  





ogni remo era affidato a un singolo vogatore, il rinnovamento nell’arte della guerra e nella costruzione degli armamenti che cominciò col iv secolo, [1] vide fra le tante anche questa novità : piú uomini allo stesso remo, due o tre o forse di piú (su questo non sappiamo davvero nulla), seduti affiancati sullo stesso banco. Quei numeri impossibilmente alti rappresenterebbero ora la somma di tutti i vogatori in ciascuna sezione trasversale della nave. Il principio dei livelli scaglionati in altezza fu probabilmente mantenuto, o forse no, o forse qualche volta sí e qualche volta no, perché l’incertezza rimane grande, ma senza mai superare quel numero di tre, giudicato unanimemente invalicabile. In questa maniera si arriva a numeri abbastanza alti, che possono applicarsi a queste polieri, come conviene chiamarle. Una pentere/quinquireme poteva essere una nave a due livelli o ‘piani’, con tre vogatori all’uno e due all’altro ; oppure a tre livelli, con i vogatori disposti due + due + uno ; oppure, infine, a un solo livello  











La teoria oggi comunemente accettata circa il remeggio delle polieri: dalla tetrere (quadrireme) in su, ogni remo è maneggiato da più di un uomo, a differenza di quello che avveniva fino alla triere. I numeri, impossibili se interpretati come livelli, sono dati dalla somma di tutti i vogatori disposti in ciascuna sezione dello scafo.

polmoni con grandi remi maneggiati ciascuno da cinque uomini. Con tre livelli di cinque uomini ciascuno, si arriva addirittura a una nave ‘da quindici’, e facendo posto da qualche parte a un vogatore in piú si arriva a una ‘da sedici’, cifre attestate dagli storici delle guerre dell’età ellenistica, fra i successori di Alessandro Magno. Si deve avvertire chiaramente : questo è un semplice schema teorico, senza la minima indicazione positiva in nessuna fonte. Esso non si può presentare altro che in nome della faute de mieux, sostenuto solo da due argomenti negativi : l’impossibilità di immaginare piú di tre livelli di voga, e il fatto che a nessuno sia mai venuto in mente nulla di piú convincente. 3. Conferme dalla storia. – Un sostegno alla teoria è stato ravvisato nella naturalezza con cui essa si inquadra nelle vicende storiche. La triere, si è detto, era l’espressione di un’epoca che dopo la guerra del Peloponneso si avviava al tramonto. Era l’epoca degli eserciti cittadini, ricchi di un impegno e di una disciplina quali non ci si poteva piú aspettare dopo il declino della polis. Per la marina, questo aveva significato la possibilità di reclutare quei magnifici equipaggi di vogatori, disposti ad assoggettarsi al durissimo addestramento necessario per fare della triere lo strumento di precisione che era : ognuno responsabile di un remo, ognuno elemento di pari importanza in una pluralità accordata con la perfezione di un’orchestra. Dopo la grande svolta rappresentata dal formarsi dei regni ellenistici, tutto era cambiato : in una società che non conosceva piú quelle motivazioni, non era facile trovare in numero sufficiente uomini disposti a intraprendere l’impegnativa carriera di virtuoso del remo. In compenso si disponeva di popolazioni immensamente piú numerose, tra cui si potevano scegliere quelli con le braccia piú robuste. Il nuovo sistema, oltre a concentrare una potenza propulsiva ancora maggiore in scafi non molto piú grandi di quello della triere, permetteva di realizzare una voga efficiente con un minor numero di uomini addestrati. Per ogni remo era sufficiente un ‘professionista’, quello che controllava l’estremità del manico ; gli altri, bastava che fornissero energia muscolare. Si può ricordare che sulle navi a remi dell’età moderna il galeotto che sedeva in questa posizione doveva essere piú capace degli altri, e portava un nome speciale : vogavanti. Insomma, sarebbe anche questo uno dei tanti  











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casi in cui la storia della guerra e degli armamenti va di pari passo con l’evoluzione sociale. Lo stesso mondo greco ne fornisce esempi ben noti, come quello della falange oplitica, le cui fortune furono legate all’organizzazione politica e sociale della polis. La storia della marina da guerra a remi nell’età moderna offre un parallelo quale non si potrebbe desiderare piú convincente. Anche qui si passò dalle cosiddette ‘triremi’, coi remi disposti a gruppi di tre e maneggiati ciascuno da un vogatore (‘a zenzile’), alle galere del tipo che doveva diffondersi incontrastato dal Cinquecento in poi, con molti uomini per remo, fino a otto (‘a scaloccio’). E anche in questo caso l’evoluzione andò di pari passo con mutamenti nella composizione e nel reclutamento degli equipaggi, riflesso dei fatti politici : la repubblica veneta del xv secolo, coi suoi equipaggi di volontari ben addestrati, somigliava all’Atene classica ; la Francia del Re Sole, con le sue schiere di forzati, piuttosto alle monarchie ellenistiche. Tutto ben costruito, forse troppo, ma in ogni caso dobbiamo accontentarcene. E occorre aggiungere che l’epoca delle grandissime polieri fu limitata, coincise in sostanza con la prima età ellenistica, quella della corsa agli armamenti fra le nuove monarchie in lotta incessante fra loro. Nelle guerre romane, prima fra tutte quella che va sotto il nome di prima guerra punica, e che fu soprattutto navale, sentiamo parlare quasi solo di penteri/quinquiremi ; piú tardi, è ben attestato che si andò progressivamente verso tipi piú agili, in cui il numero degli ordini scalati in altezza si ridusse a due, e forse piú frequentemente il sistema fu abbandonato del tutto. Due livelli di voga ebbero le navi bizantine per tutto il primo millennio d. C., poi di questa singolarità tecnica non rimase traccia nelle marine da guerra mediterranee, pur nei lunghi secoli in cui alle galere non si rinunciò del tutto.  





Note. [1] Ma la prima tetrere l’avrebbero costruita i Cartaginesi. Vd. Plin. nat. 7, 56, 206-209. Bibliografia. Anderson 1933 ; Basch 1969 ; Casson 1969 ; Foley-Soedel 1981 ; Janni 1996a, 241-274; Janni 1996b ; Morrison 1996 ; MorrisonWilliams 1968 ; Tarn 1930.  













Pietro Janni Polmoni [pleuvmone~, pulmones]. 1. Anatomia. – I polmoni, sospesi ai bronchi, hanno forma arrotondata con terminazione sempre più ri-

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stretta ; suddivisi in lobi di colore cinereo-biancastro, hanno tessuto spugnoso, come risulta già fin dai più antichi scritti biologici e medici. [1] Già fin dai tempi più antichi era nota la connessione tra cuore e polmoni e la funzione che i polmoni hanno per il raffreddamento del cuore e per l’eliminazione dei prodotti di scarto fuligginosi che ivi si formano. [2] →Galeno scrive [3] che il polmone è costituito, come il fegato, da un intreccio di vasi, colmato negli interstizi da tessuti di carne piuttosto spugnosa ; uno dei vasi proviene dalla cavità sinistra, un altro dalla cavità destra e un terzo dalla trachea. Il Pergameno conosce le differenze strutturali delle pareti dei vasi che portano al cuore e di quelli che escono dal cuore. [4] Associando erroneamente alla cavità destra del cuore le vene, alla parte sinistra le arterie, lo scienziato definisce i vasi che oggi sono denominati ‘arterie’ polmonari (escono infatti dal truncus pulmonaris), come ‘vene’ polmonari, quelle invece che portano alla parte sinistra del cuore, modernamente denominate ‘vene’ polmonari, come ‘arterie’ polmonari.  

Note. [1] Gal. Us. part. 6,10 / 3, 444 sg. K. Fonti. Hp. vm 22 / 1, 628 L ; Gal. Plac. Hp. et Pl. 8, 9 / 5, 713 K ; Arist. HA 1, 17, 496 b 1-11 ; Arist. PA 3, 6, 668b 33-669 b 13 ; Cels. 4, 1 / 147-151 M ; Ruf. 175 D R ; Gal. Us. part. 6, 2 e 8, 3 / 3, 410-412 e 620-625 K ; Us. part. 6, 10 / 3, 444 sg. K ; 7, 1 / 3, 517-518 K. 7, 8 / 3, 536 sg. K.  















Bibliografia. Mazzini 1997, 279-280 ; Siegel 1968.  

Fabio Cavalli





Note. [1] Hp. vm 22 / 1, 628 L ; Arist. HA 1, 17, 496 b 1-11 ; Cels. 4, 1 / 147-151 M ; Ruf. 175 D R ; Gal. Us. part. 7, 8 / 3, 536 sg. K. – [2] Arist. PA 3, 6, 668b 33669 b 13 ; Gal. Us. part. 6, 2 e 8, 3 / 3, 410-412 e 620625 K. – [3] Gal. Us. part. 7, 1 / 3, 517-518 K. – [4] Us. part. 6, 10 / 3, 444 sg. K.  









Fonti. Hp. vm 22 / 1, 628 L ; Arist. HA 1, 17, 496 b 1-11 ; Arist. PA 3, 6, 668b 33-669 b 13 ; Cels. 4, 1 / 147151 M ; Ruf. 175 D R ; Us. part. 6, 2 e 8, 3 / 3, 410-412 e 620-625 K ; Us. part. 6, 10 / 3, 444 sg. K ; 7, 1 / 3, 517-518 K. 7, 8 / 3, 536 sg. K.  













Bibliografia. Mazzini 1997, 218-219 ; Siegel 1968 ; Stamatu 2005c.  



Sergio Sconocchia 2. Fisiologia. – Il Corpus Hippocraticum fornisce poche informazioni sul pensiero dei medici greci a riguardo della fisiologia degli organi del torace. Per quanto riguarda i polmoni questi sono alimentati dal sangue contenuto nelle arterie e moderano il calore del cuore. Il pensiero medico ellenistico e soprattutto Galeno si occupano più a fondo del problema : i polmoni presiedono alla respirazione e sono destinati a ricevere l’aria attraverso la trachea ; non possiedono capacità autonoma di movimento, ma si muovono grazie ai movimenti del torace. Sono anche implicati nel meccanismo della fonazione. [1]  





3. Patologia. 3.1. Polmonite. – La descrizione della polmonite [peripleumoniva, peripneumoniva, peripneumonia] e la terapia relativa restano immutati per tutta l’età antica. È una malattia acuta. Può trasformarsi in pleurite e viceversa. È una malattia che colpisce soprattutto d’inverno, più gli uomini che le donne. Non c’era concordia di pareri se la polmonite fosse un’infiammazione dell’intero polmone o soltanto di una sua parte. [1] Come sintomi vengono menzionati febbre alta, difficoltà respiratorie, volto arrossato, occhi lucidi, tosse con espettorazione di catarro denso e sanguigno e un cambiamento di colore della lingua. Quando la malattia si aggrava, sopraggiungono insonnia e perdita di lucidità mentale. Si possono avere miglioramenti solo riuscendo a espellere la ‘materia corrotta’. La terapia consiste in dieta, salassi, impacchi caldi e assunzione di liquidi mescolati o espettoranti. [2] È prevista eventuale apertura chirurgica con incisione.  



Note. [1] Cael. Aur. acut. 2, 28, 147 sg. – [2] Hp. Morb. 3, 15 / 7, 136-142 L ; Anon. Paris. 9, 1-3 ; Cels. 4, 14 / 168-169 M ; Gal. Loc. aff. 2, 5 / 8, 120-135 K ; Cael. Aur. acut. 2, 25, 140-2, 29, 160.  







Fonti. Hp. Morb. 2, 44-48 / 7, 62-74 L ; Morb. 3, 15 / 7, 136-142 L ; Cels. 4, 14 / 168-169 M ; Anon. Paris. 9, 1-3 ; Aret. 15-16 H ; Cael. Aur. acut. 2, 25, 140-2, 29, 160 ; Gal. Loc. aff. 2, 5 / 8, 120-135 K ; In Hp. Progn. comm. 2, 49-67 / 18, 2, 180-218 K ; Orib. coll. 4, 552 B D M.  















Bibliografia. Leven 2005 o; Mazzini 1997, 343 ; Preiser 1971, 31-35.  

3.2. Pleurite. – L’idea di pleurite [pleuri`ti~, dolor laterum, pleuritica passio] indicava tipi diversi di infiammazione della pleura e della cavità del petto ; i sintomi erano bruciori, difficoltà di  

porti e fari respirazione, tosse, espettorazione anomala, densa, sanguigna o giallastra. Nel Corpus Hippocraticum sono descritte tre forme di pleurite, distinte per localizzazione del dolore, tipo di tosse ed espettorazione e altri sintomi interni, con localizzazione non esatta del riscaldamento. [1] Ognuna di queste tre forme poteva essere mortale. La pleure era conosciuta dall’età ellenistica ; autori tardi tramandavano, sotto il concetto di pleure, anche un’infiammazione della stessa, [2] cioè infiammazione delle costole dipendente da altre malattie. [3] Sintomi della febbre erano dolori violenti che si irradiavano nella cavità del petto, spesso fino al diaframma e alla clavicola ; inoltre febbre acuta e tosse alquanto forte. [4] Le stagioni più pericolose sono autunno e inverno, gli individui più esposti gli uomini ; la terapia consiste per lo più in salassi locali, purganti etc. ; la possibilità di guarire è legata alla possibilità di espellere le sostanze nocive.  















Note. [1] Morb. 2, 44-46 / 7, 62-64 L. – [2] Anon. Paris. 8, 1 ; Gal. Loc. aff. 3, 3 / 8, 141 K. – [3] Cael. Aur. acut. 2, 17, 101 sg. – [4] Gal. Loc. aff. 2, 5 / 8, 124 sg. K ; Aret. 5, 10.  



Fonti. Hp. Coac. 2, 20, 373-425/ 5, 662-680 L ; Morb. 2, 44-46 / 7, 62-64 L ; Cels. 4, 13 /166-168 M ; Aret. 5, 10 ; 12-14. 109-111 H ; Cael. Aur. acut. 2, 17, 101 sg. ; Gal. Loc. aff. 2, 5 / 8, 124 sg. K ; 3, 3 / 8, 141 K.  













Bibliografia. Mazzini 1997, 342-343 ; Smith 1990a, 190-207 ; Stamatu 2005 o, 713-714 ; Wilson, A. 2000.  





Sergio Sconocchia Porfirio di Tiro. È stato un filosofo neoplatonico del iii sec. a C., di origine fenicia, allievo di Plotino. Il nome, Porphyrios («rivestito dalla porpora») è una grecizzazione del suo nome semitico ‘Malkhos’ («re»). Si formò ad Atene presso la scuola di Longino ; all’età di trent’anni si trasferì a Roma dove frequentò gli ambienti senatoriali e dove conobbe →Plotino, divenendone allievo e, successivamente, editore e biografo. Noto per la sua avversione al Cristianesimo, si occupò di filosofia, retorica, analisi dei miti, religione, matematica, astrologia e musica. Nell’ambito astrologico, fu autore di un’Introduzione alle Previsioni astrologiche di Tolomeo, [1] un commentario fortemente influenzato dall’ ermetismo.  



Note. [1] Edd. Ae. Boer, St. Weinstock, ccag v 4, 187-228.

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Bibliografia. Gundel-Gundel 1966, 213-214 ; Karamanolis 2008, s.v. Porphyrios of Tire, in eans, 688-689 ; Urso 2002, 126.  



Carmelo Lupini Porti e fari. 1. Evoluzione del porto, mercantile e militare. – Un impianto, una sistemazione che meriti il nome di porto compare necessariamente quando la navigazione raggiunge un minimo grado di perfezionamento, per svilupparsi poi in ampiezza e complessità di pari passo coi progressi di quest’ultima. Cosí fu anche nel mondo classico, lungo un arco che possiamo seguire abbastanza bene, dai primordi della Grecia più antica fino all’apogeo dell’età imperiale romana e alla decadenza nella tarda Antichità. Nel mondo della poesia omerica i porti non hanno quasi alcuna parte. Né nella Pilo di Nestore, né nella Troia di Priamo si parla di porti. La grande flotta greca che ha traversato l’Egeo per assediare la città asiatica è stata tratta in secco (come si faceva normalmente in un’età cosí antica e come si farà ancora a lungo con le navi da guerra), e circondata da un muro difensivo. Per un paradosso solo apparente, la descrizione di un porto, con tocchi abbastanza realistici, si trova proprio in uno degli episodi piú fiabeschi dell’Odissea. Quando Ulisse arriva nel favoloso paese dei Feaci, trova tutto da ammirare : le mura, i palazzi, i giardini, ma soprattutto il porto, il doppio porto coi due bacini separati da una sottile lingua di terra, il porto « bello » dove c’è un sicuro riparo per tirare a terra tutte le ricurve, equilibrate navi (Od. 6,264-265 ; 7, 43). Il poeta ha rotto qui la stilizzazione arcaizzante dell’epica, e ha dipinto il vivace quadro del porto di una città di mare ionica, con la sua nautica tanto piú avanzata di quella attribuita convenzionalmente a Ulisse, rappresentante di una Grecia eroica in cui la marineria non godeva di alcun prestigio sociale. La topografia, i resti archeologici e le testimonianze letterarie permettono di ricostruire nelle grandi linee come si evolvettero la progettazione e la costruzione dei porti dall’età dell’arcaismo greco fino all’impero romano. Il porto arcaico è piú indifferenziato, è militare e mercantile allo stesso tempo, e insieme è meglio integrato nella struttura urbana, anche se fin dall’inizio si coglie la sua tendenza a costituire un’unità a sé stante, un ‘quartiere’ ben delimitato con un suo speciale carattere.  







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porti e fari

Esemplare è la descrizione erodotea del porto di Samo, fatto costruire dal tiranno Policrate (3, 60). Col perfezionarsi della guerra navale, e col crescere della sua importanza, si specializza sempre piú il porto militare, che occupa ora un bacino distinto, qualche volta del tutto separato. Qui, la cosa che piú colpisce è la grandissima importanza data a tutto il complesso di ripari, hangar e capannoni di vario genere, che servivano ad ospitare, all’asciutto, le navi da guerra e il loro equipaggiamento, quando non erano impegnate in missioni e crociere. È un’altra conseguenza delle profonde differenze fra navi mercantili e militari nell’antichità, e delle loro diverse esigenze in fatto di porti : fondali profondi nel primo caso, per navi che venivano ormeggiate, ripari e scivoli numerosi e agevoli nel secondo, perché la nave da guerra antica veniva tirata a secco quando non si impiegava, non era fatta per stare in acqua permanentemente (Höckmann 1985, 147). 2. Storie esemplari : Atene, Roma, Cesarea Marittima. – Famoso anche oggi, il Pireo era famosissimo nell’antichità, come grande centro di traffici marittimi, e parte integrante della maggiore città greca, anche se da essa lontano piú di sette chilometri. La città egemone dell’impero eminentemente marittimo noto come ‘Lega delio-attica’, non sorgeva sul mare, e per connetterla col suo ottimo porto naturale, al sicuro da ogni interferenza ostile, ci vollero le cosiddette Lunghe Mura, un corridoio fortificato. Le circostanze fortunose della loro costruzione, contro la diffidenza sospettosa delle città greche rivali, dimostrano quale importanza economica e strategica si desse a questa salda connessione della grande città, uscita trionfante dalla dura prova delle guerre persiane, col mare che sarebbe diventato il suo dominio, dopo un passato piú terrestre e agricolo. Al Pireo vero e proprio si affiancavano il minore porto di Munichia e la rada di Zea, la base militare. Qui restano ampie tracce dei grandiosi neósoikoi, i ripari delle trieri, orgoglio della città, e le famose iscrizioni dell’amministrazione navale, un tesoro di informazioni sui materiali depositati nei magazzini, attrezzature veliche e remi, sui nomi di trierarchi e costruttori navali, e perfino sui nomi stessi delle navi da guerra, scelti con una fantasia e un gusto sorprendentemente moderni. Le misure dei neósoikoi, 37 metri di lunghezza per poco meno di 6 di larghezza, ci danno una preziosa  



informazione sulle dimensioni della classica triere ateniese, un tipo di nave della quale non possediamo il minimo resto. Nel Pireo propriamente detto, un’attività pratica ininterrotta, che adattava senza posa gli antichi impianti alle proprie esigenze, è proseguita per secoli e secoli, trasformandoli cento volte, cioè distruggendoli nel modo piú radicale. Anche Roma, che la storia e la geografia costrinsero a diventare capitale di un impero collocato attorno a un mare, non nacque come città marittima, e rimase a lungo un pessimo approdo. La costa importuosa dove sfocia il Tevere vide per secoli interi le navi ancorate precariamente al largo e scaricate con barche, sempre sotto l’incubo di una libecciata (vd. Strabone, 5, 3,5). I trasporti di forte tonnellaggio, come le importantissime navi granarie, trovavano un porto sicuro nella lontana Pozzuoli, donde il carico arrivava alla capitale per via di terra, su oltre duecento lunghi chilometri delle pur eccellenti strade romane. Il merito di aver posto rimedio a una situazione cosí indegna della città imperiale spettò a Claudio, che allargò con una vasta opera di scavo una modesta insenatura, dove oggi è Fiumicino, e ne fece un porto che riuniva splendidamente l’aspetto architettonico con quello funzionale, stando alle lodi delle fonti antiche (oltre a D. C. 60, 11, dà notizie sui grandiosi frangiflutti Svet. Claud. 20). La prova dei fatti riuscí meno trionfalmente. Il bacino tendeva a insabbiarsi – non per nulla il mare sta oggi a tre chilometri di distanza ; inoltre era troppo grande per impedire l’agitazione dello specchio d’acqua sotto l’effetto dei venti : nel 62 d.C. una tempesta distrusse ben duecento navi ormeggiate all’interno del porto. Occorreva correre ai ripari, e ci pensò Traiano, scavando un nuovo bacino piú piccolo e piú interno, del tutto artificiale, cui diede la forma esagonale, di 380 metri per lato, conservatasi intatta fino al nostro tempo. Il porto di Claudio restò come una vasta anticamera, della quale si riconoscono oggi le tracce ben visibili. Tutto il complesso di vecchio e nuovo porto, canali, darsena dove le navi svernavano o venivano riparate, magazzini via via ampliati e perfezionati, costituí una città distinta da Ostia, e di essa piú importante, per secoli interi. La città si chiamò semplicemente ‘Portus’, con un nome ricordato ai Romani odierni soprattutto dalla Via Portuense e dalla Porta Portese. Su un tratto importuoso della costa tirrenica, Traia 



porti e fari no fondò anche il porto di Centumcellae (oggi Civitavecchia), che Plinio il Giovane celebra da perfetto cortigiano in una famosa lettera, dove insiste sui motivi del caso, tipici di questa specie di panegirici : l’artificialità della creazione, che imita e supera la natura, e la nuova sicurezza di cui godono ora i naviganti (Ep. 6, 31, 1617 ; cfr. Pan. 29,2 ; il porto di Centumcellae sarà descritto secoli piú tardi anche da Rut. Nam. 1, 239 sgg.). Sull’altro mare d’Italia, quello che gli antichi chiamavano superum, egli perfezionò e rese piú sicuro il porto di Ancona, la fondazione greca su una bellissima insenatura naturale. L’imperatore romano vi aggiunse il solito molo artificiale, adorno di un arco di trionfo, opera del suo architetto di fiducia, →Apollodoro di Damasco. Diverso dai precedenti è il caso del porto di Cesarea Marittima, in Palestina, esemplarmente scavato e pubblicato dall’archeologia israeliana. Voluto dal re Erode il Grande, esso suscitò l’ammirazione dei contemporanei (come suscita quella degli odierni visitatori), come impresa di audacia senza precedenti : la creazione tutta artificiale, tutta opera dell’uomo, di un grande porto su una costa molto inadatta. « Ma il re, con le sue spese e con la sua tenace ambizione, trionfò sulla natura ; costruí un porto piú grande del Pireo, e in fondo ad esso allestí altri profondi luoghi d’ormeggio. La sua ambizione lo spinse a lottare contro la natura dei luoghi, del tutto ribelle : la solidità delle costruzioni resisteva saldamente al mare, e la bellezza degli ornamenti era tale che sembrava non ci fosse stata nessuna difficoltà » : cosí scrive lo storico ebreo Flavio Giuseppe, di lingua e cultura greca, che del porto di Cesarea Marittima ha lasciato ben due ampie descrizioni (bj 1, 21,5-7 e aj 9, 6). Quello che l’archeologia ha rivelato, conferma pienamente la celebrazione dello storico, che si poteva sospettare di esagerazione retorica o di vanteria nazionalistica. L’audacia e la modernità delle tecniche impiegate sono tali che essa resta piuttosto al disotto del vero. Le ricerche sottomarine hanno rivelato la sapienza con cui furono costruiti i frangiflutti e i moli artificiali, immergendo degli enormi gabbioni di legno zavorrati, che venivano poi colmati di cemento idraulico, capace di ‘tirare’ sott’acqua, secondo una tecnica introdotta dai Romani ed esportata in tutto l’Impero. Celebrazione, abbiamo detto. I biografi di personaggi illustri, re e condottieri, non trascurano  

















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mai l’occasione di soffermarsi sulle loro realizzazioni in fatto di porti, e lo fanno sempre nello stesso, caratteristico tono, quello che si usa davanti alle meraviglie dell’ingegnosità e del lavoro umano. L’autore della migliore opera storica su Alessandro Magno rimastaci dall’Antichità, Arriano di Nicomedia, ricorda come il suo eroe facesse scavare per Babilonia conquistata un porto artificiale capace di ben mille navi da guerra e corredato degli immancabili neósoikoi, i capannoni per ripararvele (An. 7, 19,4). Anche le successive realizzazioni per il porto di Roma, ad opera degli imperatori, furono celebrate da vari scrittori latini e greci, con elogi in molti casi giustificati ; se essi possono apparire millanterie, ciò dipende da noi, che abbiamo troppo dimenticato la grandiosità monumentale di tanti porti dell’antichità. 3. Il Faro e i fari. – L’idea di collocare dei segnali di qualche specie in tratti critici di una costa, dove non esistessero punti naturali di riferimento, dovette presentarsi presto ai navigatori antichi. Le letterature greca e latina conoscono frequenti allusioni a costruzioni ben visibili, in particolare templi e tombe di personaggi eminenti, utili al navigatore che seguiva una costa o doveva doppiare un capo, e che erano state erette con un occhio anche a questo fine. Anche l’aiuto notturno, cioè un fuoco acceso a segnalare un promontorio o l’ingresso di una rada, dovette diventare molto presto cosa usuale, se già la leggenda epica racconta il perfido stratagemma di Nauplio, che per vendicare l’ingiusta condanna a morte del figlio Palamede, durante l’assedio di Troia, trasse in inganno con fuochi accesi nei posti sbagliati la flotta achea reduce dalla guerra, provocando la perdita di molte navi : una testimonianza indiretta, ma proprio per questo attendibile, dell’uso che di queste segnalazioni già si faceva. Le notizie su veri e propri fari sono scarse, forse anche perché tutti gli altri vennero eclissati da quello di Alessandria, la gigantesca torre di quasi cento metri, la meraviglia del mondo, che annunciava ai naviganti l’arrivo nella metropoli senza pari, di giorno e anche di notte, quando un sistema di specchi potenziava la luce del fuoco acceso sulla cima, in maniera analoga a quello che accade nei fari moderni. Costruito sotto il regno di Tolomeo ii (283-246), immortalò il suo architetto, Sostrato di Rodi, e trasformò in nome comune il nome  



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posidoni0 di apamea

proprio dell’isoletta di Faro, su cui sorgeva. Lo stile della costruzione, a elementi sovrapposti con sezioni di forma diversa, quadrata, ottagonale, rotonda, influenzò tutte le successive realizzazioni del genere (come il faro del porto di Roma imperiale), e anche torri di diversa destinazione, minareti islamici e campanili cristiani. Le tracce di questa influenza si sono riconosciute nella Giralda di Siviglia come nel campanile della basilica romana di S. Paolo. Oltre che il più famoso di tutti, fu anche il più fortunato, perché restò in piedi fino a un terremoto del xiv secolo. Aveva attraversato indenne i secoli più burrascosi, e sopravvisse ancora a lungo, più volte riparato e ripristinato, anche perché i nuovi padroni musulmani vi installarono un piccola moschea (Thiersch 1909, 70 sgg.). Oggi, la cosa che piú si avvicina a un faro antico rimasto in piedi, anzi in funzione fino al nostro tempo, è la cosiddetta ‘torre di Ercole’, presso La Coruña in Galizia ; la permanente utilizzazione che lo ha conservato, lo ha però anche molto alterato, attraverso le riparazioni e i restauri. Non c’è invece alcuna attestazione che avesse funzione di faro, e nemmeno che facesse parte del porto cittadino, il famoso colosso di Rodi, altra meraviglia del mondo. Del tutto fantastica è l’immagine di una gigantesca figura sotto le cui gambe allargate passassero le navi, immagine fortunata grazie a una cattiva divulgazione, o addirittura al cinema pseudostorico.  

Bibliografia. Caesarea Papers 1992 ; Caesarea Papers 1999 ; Chevallier 1968 ; Gallina ZeviTurchetti 2004 ; Höckmann 1985 ; Keay-MillerStrutt 2005 ; Lehmann-Hartleben 1923 ; Meiggs 1973 ; Pavolini 1983 ; Raban 1991 ; Testaguzza 1970 ; Thiersch 1909 ; Verduchi-Germoni-Papi 1999.  























Pietro Janni Posidonio di Apamea. 1. Vita, interessi e problemi metodologici. – Posidonio visse a cavaliere fra il ii e il i secolo a.C. Gli estremi cronologici non ci sono noti con precisione, ma l’ipotesi divenuta ormai canonica è che egli sia nato intorno al 135 a.C. e che sia morto intorno al 51 a.C. (sulla base soprattutto dello ps.-Luc. Longaevi 20, 223 = fr. A6 Vim., il quale attesta che P. visse 84 anni). [1] Originario di Apamea, in Siria, acquisì in seguito anche la cittadinanza di Rodi. Recatosi ad Atene negli ultimi decenni del ii secolo, fu uditore e allievo (fra gli altri) di Pane 

zio, filosofo stoico. [2] A sua volta, ascoltarono le sue lezioni Cicerone e Pompeo. [3] P. tenne la sua scuola filosofica a Rodi, dove rivestì pure la carica di pritano, forse nell’anno 87 a.C. [4] Un evento significativo nella vita dell’autore fu il celebre viaggio in Occidente, compiuto intorno al 90 a.C., che lo spinse a conoscere la →geografia e la cultura dei paesi che si affacciano sulle sponde del Mediterraneo : in particolare, le Gallie, la Penisola Iberica, l’Africa settentrionale e l’Italia. [5] P. fu un autore estremamente poliedrico, capace di interessarsi di numerosi ambiti del sapere, fra i quali : l’ontologia, la →fisica, l’etica, la →logica, l’→astronomia, l’→astrologia, la geometria, la storia, l’etnografia, la →geografia, la →mineralogia, la grammatica ed altro ancora. L’approfondimento di questi settori non rispondeva ad un mero spirito di erudizione, ma piuttosto alla volontà di verificare le diverse forme e manifestazioni del logos stoico (cioè della Verità) nella concretezza del reale. In tal senso P. cercò di indagare non soltanto l’essenza della causa ultima – la Natura come principio razionale e divino universale – ma anche le ‘cause intermedie’, cioè le diverse declinazioni del Principio nei molteplici ambiti disciplinari umani. La ricerca filosofica della ‘catena delle cause’ (eiJrmo;~ tw`n aijtiw`n) si estese così da quelle universali e necessarie a quelle più contingenti. A monte di questa prospettiva risiede la concezione stoica del cosmo come ‘organismo vivente’ (zw`/on), in cui le componenti sono in armonia fra di loro e in cui le scienze si trovano reciprocamente connesse. In P. la teoria stoica della sympatheia cosmica raggiunse forse la propria articolazione più definita, fino a diventare una concreta procedura metodologica. In mancanza di opere originali dell’autore, la piena determinazione e comprensione del pensiero di P. è resa ancor oggi difficile dall’esatta identificazione dei passi indiretti che a lui possono essere attribuiti con sicurezza. Al di là dei frammenti nominali, infatti, la tradizione degli studi ha alternato posizioni più generose nell’ascrivere a P. teorie attestate solo in fonti successive (ad esempio, Reinhardt 1921 e Theiler 1982, che sfociano non di rado nella cosiddetta tendenza ‘pamposidonistica’) a una maggiore sobrietà di intenti (Laffranque 1964, Kidd 1988). Della discrepanza fra i diversi approcci bisogna dunque  









posidoni0 di apamea tenere conto, valutando di volta in volta quali fonti e quali passi possano aver risentito dell’influsso dell’Apamense. Conosciamo il titolo di diverse opere scientifiche di P., fra le quali un trattato di Fisica, uno di Meteorologia (anche se ci sono pervenuti titoli diversi con contenuto analogo), un’opera Sul cosmo, una Sul vuoto, oltre al famoso trattato L’Oceano e le regioni che vi si affacciano. A ciò vanno aggiunte un’opera dedicata ai peripli e una di geometria, i cui titoli esatti ci sono però ignoti (su tutto questo si veda Vimercati 2004, 473-475). 2. Il pensiero filosofico e scientifico : caratteri generali. – P. fu un filosofo stoico. Il suo temperamento forte e vigoroso spinse Cicerone a considerarlo « il più grande di tutti gli Stoici ». [6] P. cercò di conciliare il ritorno ad alcune posizioni della Scuola delle origini (Zenone e Cleante in particolare) con la capacità di accogliere le più recenti e innovative istanze della filosofia cosiddetta ‘mediostoica’, sensibile agli influssi del pensiero platonico e aristotelico, specialmente in ambito psicologico ed etico. Una volta riaffermata la celebre tripartizione del sapere filosofico in →logica, fisica ed etica, P. (come il suo maestro Panezio) iniziò la propria esposizione dalla fisica. 3. La fisica, l’astronomia e la meteorologia. – Negando l’eternità del cosmo, sostenuta invece da Panezio in accordo con la tradizione aristotelica, P. ritornò alla ‘classica’ dottrina stoica della conflagrazione universale e della successiva palingenesi del cosmo. [7] Il cosmo era definito da P. come « un sistema di cielo e terra e delle loro intrinseche nature, oppure un sistema di dei, di uomini e di tutto ciò che viene creato per opera loro ». [8] L’intero cosmo, pertanto, ha una natura razionale e divina. Essendo dio ovunque diffuso, P. – in accordo con l’ortodossia stoica – ammetteva la divinazione. [9] Egli distingueva la fisica dall’astronomia : la prima ha per oggetto « la sostanza del cielo e degli astri, la proprietà, la qualità, la generazione e la corruzione », talora « in rapporto alla grandezza, alla forma e alla disposizione » ; la seconda, invece, studia propriamente « la disposizione dei corpi celesti, mostrando come realmente è il cielo, e discute della forma, della grandezza e della distanza della terra, della luna e del sole, delle eclissi e delle sinapsi degli astri, della qualità e della quantità dei loro moti ». [10] Pertanto, stando a P. il fisico si occupa delle qualità intrinseche di un corpo, cioè della sua natura  



































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sostanziale, mentre l’astronomo predilige le proprietà quantificabili e misurabili. P. approfondisce lo studio fisico e astronomico del sole (costituito di fuoco puro e più grande della terra), [11] della luna (composta di fuoco e di aria e anch’essa più grande della terra), [12] delle stelle, delle comete e delle costellazioni. [13] In ambito meteorologico egli si sofferma sui fenomeni della grandine, dell’arcobaleno, delle nubi e dei venti. [14] 4. La geografia e la geologia. – Particolarmente approfondito fu lo studio della geografia, reso possibile anche dai suoi numerosi viaggi. L’incipit dell’opera di →Strabone (1, 1, 1) ci testimonia come la geografia venisse considerata una scienza squisitamente filosofica ; infatti, « inizialmente ad occuparsi di questa disciplina furono dei filosofi, come Omero, Anassimandro di Mileto e il suo concittadino Ecateo ; […] Polibio e Posidonio furono ugualmente filosofi » ; inoltre, « l’ampia cultura (polymatheia), con la quale soltanto è possibile questo tipo di lavoro, è posseduta unicamente da chi ha investigato le realtà divine e umane, la conoscenza delle quali, dicono, costituisce il fondamento della geografia » ; infine, « l’eterogenea utilità della geografia […] presuppone che il geografo sia anche filosofo, che, cioè, sappia riflettere sull’arte della vita e sulla felicità ». [15] Questo è dunque il senso che la geografia, come scienza filosofica, aveva nel pensiero di Posidonio. Lo stesso Strabone dedica un’ampia sezione della propria opera alla presentazione del trattato posidoniano Sull’Oceano (cfr. Str. 2, 2, 1-3, 8 = frr. A129, A172 Vim., 49 E.-K., 13 Th.), da cui emerge l’interesse dell’Apamense per la forma e le dimensioni della Terra (valutate in 180.000 stadi, secondo Strabone, o in 240.000 stadi, secondo Cleomede) e delle sue diverse regioni, in rapporto soprattutto alle ricerche condotte da →Eratostene. [16] In merito all’individuazione delle zone climatiche del pianeta, P. si trovò in accordo con →Parmenide – considerato l’ideatore della suddivisione della Terra in cinque regioni climatiche – e in dissenso, invece, con Polibio, che ne identificò sei, e con →Aristotele, in merito all’estensione delle diverse regioni. Nel corso della propria permanenza nella Penisola Iberica, sulle sponde dell’Oceano Atlantico, P. riuscì ad individuare l’esatta eziologia delle maree, che non andavano spiegate in ragione dei venti, ma dell’attrazione lunare. [17] Sempre durante il proprio viaggio in  

































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posidoni0 di apamea [18]

occidente – osserva Strabone – P. potè trovare conferma di alcune indagini di Eratostene e di →Ipparco in merito al fatto che il cosiddetto ‘Capo Sacro’ (il punto più occidentale del mondo abitato), la città di Cadice, lo Stretto di Messina e l’isola di Rodi erano località disposte sullo stesso parallelo (oggi possiamo invece riscontrare una lieve differenza di ubicazione fra queste località situate fra il 36° e il 38° parallelo). Ciò sembrava confermato dal fatto che, in questi punti geografici, le ombre proiettate dalle meridiane e la durata dei giorni e delle notti più lunghe coincidevano. Nella stessa direzione va anche la constatazione che le località di Alessandria, di Siene e di Rodi giacevano sullo stesso meridiano (un’osservazione che servì a P. per calcolare le dimensioni della terra). [19] Da ricordare anche gli studi di P. sui terremoti [20] e sulla geologia della regione gallica, di quella iberica (ricche di metalli) e del Vicino Oriente (zona ricca di bitume e di sali profumati). [21] 5. La matematica e la geometria. – Gli studi posidoniani di →matematica e di geometria sono ricordati da →Proclo (in Euc., cfr. frr. A253-A258 Vim.). L’Apamense si preoccupò di definire alcuni dei concetti basilari di queste due scienze : ‘problema’ e ‘teorema’ (« Di qui gli allievi di P. distinsero, da un lato, la proposizione che determina l’essere o il non essere di qualcosa, e, dall’altro, quella che determina la qualità di questo qualcosa ; secondo loro, inoltre, la ‘proposizione teoretica’ deve affermare in modo categorico, come, ad esempio, ‘in ogni triangolo la somma di due lati è maggiore del lato rimanente’, oppure ‘in ogni triangolo isoscele i due angoli adiacenti alla base sono congruenti’, mentre invece la ‘proposizione problematica’, alla maniera di un’indagine, deve esaminare, ad esempio, la possibilità o meno che un triangolo giaccia su una determinata linea retta »), [22] ‘figura’, che indica solo il perimetro contenente e non lo spazio che vi è incluso (P. separa dunque il concetto di ‘figura’ da quello di ‘quantità’), ‘rette parallele’ (« quelle linee, giacenti sul medesimo piano, che né convergono né divergono, ma hanno congruenti tutte le perpendicolari condotte dai punti dell’una all’altra retta »). [23] P. classificò inoltre le diverse specie di poligoni. 6. La logica. – Non possediamo molte informazioni sulla logica di P. [24] È possibile che egli abbia ripreso le tesi consolidate dell’ortodossia stoica, soffermandosi solo su alcuni aspetti. Da  



















quanto sappiamo, l’Apamense indagò il concetto di ‘causa’ (intesa come « ‘il ciò grazie a cui’ o ‘il primo produttore’ o ‘il motivo’ di una produzione », fr. A246 Vim.) e le diverse tipologie di sillogismi. 7. La psicologia e l’etica. – A quanto sembrano attestare alcune fonti (soprattutto Gal. Plac. Hipp et Plat. ai frr. A189-195 Vim.) la psicologia di P. intendeva richiamarsi all’insegnamento della Stoà delle origini (di Zenone e di Cleante) per superare il monismo di Crisippo, il quale aveva ricondotto l’anima alla sola facoltà razionale. Le conseguenze aporetiche della posizione di Crisippo riguardavano specialmente la spiegazione delle passioni, che dal filosofo di Soli erano considerate come giudizi errati in quanto tali. In tal modo, era ammessa la possibilità che il logos umano potesse dare vita ad esiti irrazionali. Per rendere ragione dell’esistenza di più facoltà nell’anima, comprese quelle irrazionali, e per giustificare più coerentemente le passioni, P. si rifece all’insegnamento platonico (e aristotelico, secondo Galeno), introducendo così nell’anima una facoltà razionale, una concupiscibile e una irascibile. In tal modo, l’Apamense riteneva di dare maggior fondamento alla dottrina delle passioni, le quali erano dunque spiegate come un prodotto delle facoltà [25] irrazionali dell’anima, e non più della ragione. Alcuni degli interpreti più recenti [26] sembrano invece propensi a vedere una certa continuità nella dottrina psicologica stoica da Zenone a P., attribuendo così le differenze di vedute fra gli autori ad un’errata lettura delle opere stoiche, da ascriversi originariamente a Galeno. P. fu autore di un celebre trattato Sulle Passioni, andato perduto, ma riportato parzialmente nel De Placitis Hippocratis et Platonis dello stesso Galeno (cfr. frr. A197-A213 Vim.), secondo il quale P. considerava le passioni come ‘conseguenze di giudizi’ (e non come giudizi veri e propri, anche se errati, come invece riteneva Crisippo). Lo scopo dell’autentica vita etica era dunque quello di tenere sottomesse le facoltà irrazionali dell’anima mediante quella razionale. Interessante una serie di testimonianze di Diogene Laerzio (cfr. frr. A223, A225 Vim.), secondo il quale P. avrebbe aderito alla valorizzazione paneziana degli indifferenti in vista del conseguimento del fine etico. La virtù, che con Panezio aveva parzialmente perso la propria autosufficienza in vista della felicità, poteva ben servirsi di alcuni indifferenti – come la  



prassagora di cos salute, la forza e l’abbondanza di mezzi – per perseguire la felicità. Pertanto, anche in P. si nota una certa attenuazione della rigorosa distinzione veterostoica fra beni, mali e indifferenti, e un più proficuo ricorso a questi ultimi per realizzare la vita secondo Natura. 8. La storia. – Non da ultimo, P. fu autore di un’opera storica di carattere universale, che rappresentava la continuazione delle Storie di Polibio, le quali giungevano agli avvenimenti del 146 a.C. (distruzione di Corinto e provincializzazione della Grecia). A partire da questo periodo, P. dovette spingere il proprio racconto fino all’85 a.C. (pace di Dardano, fra Silla e Mitridate), all’82 a.C. (presa del potere da parte di Silla) o ad anni successivi. I frammenti più lunghi delle Storie di P. sono stati conservati da Diodoro Siculo e da Ateneo. Da essi emerge il carattere non puramente evenemenziale del racconto posidoniano, interessato altresì ad aspetti etnografici, della vita e della cultura dei vari popoli. Se, come pare, l’excursus di Diodoro nel v libro della sua Biblioteca (25-40) è riconducibile a P., l’Apamense può essere considerato un’importante fonte sul mondo e sulla cultura celtica. Non meno interessanti gli estratti – forse posidoniani – dei libri xxxiv e xxxv di Diodoro, sugli ultimi decenni del ii secolo a.C. [27]

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pp. 176.5-17 Fridlein = fr. A255 Vim. – [24] Cfr. frr. A243-A250b Vim. – [25] Più che di ‘parti’ dell’anima, P. preferiva parlare di ‘facoltà’ (cfr. Gal. Plac. Hipp. et Plat. 6, 151, p. 368 De Lacy = fr. A194 Vim.). – [26] Cfr., ad esempio, Cooper 1998 e Tieleman 1996. – [27] Cfr. frr. A268-A317 e B16a-B30 Vim. Edizioni dei frammenti. Edelstein-Kidd 1989 ; Jacoby 1986a ; Theiler 1982 ; Vimercati 2004.  





Traduzioni. Kidd 1999 ; Vimercati 2004.  

Commentari. Jacoby 1986b ; Kidd 1988 ; Theiler 1982 ; Vimercati 2004.  

Bibliografia. Algra 1993 ; Alonso-Nuñez 1994 ; Baltes 1978 ; Bees 2004 ; Bees 2002 ; Bees 2007 ; Bees 2008 ; Bringmann 1998 ; Cooper 1998 ; Desideri 1972 ; Desideri 1973 ; Desideri 2001 ; Dihle 1973 ; Diller 1934 ; Dobesch 1995 ; Dobson 1918 ; Drabkin 1943 ; Dragona-Monachou 1974 ; Edelstein 1936 ; von Fritz 1977 ; Goulet 1980 ; Hahm 1989 ; Hultsch 1897 ; Jones 1926 ; Jones 1932 ; Ju 2007 ; Kidd 1978a ; Kidd 1978b ; Kudlien 1962 ; Laffranque 1964 ; Lee 2002 ; Malitz 1983 ; Malitz 1999 ; Mette 1954 ; Modrze 1932 ; Neugebauer 1975 ; Pohlenz 1941 ; Radice 2000 ; Reinhardt 1921 ; Reinhardt 1926 ; Reinhardt 1953 ; Reydams-Schils 1997 ; Rossetti-Liviabella Furani 1993 ; Ruggeri 2000 ; Stevens 1993 ; Tieleman 1996 ; Vimercati 2004 ; Vimercati 2007.  



































































































Emmanuele Vimercati



Note. [1] Della vita di P. conosciamo due date significative : l’87/6 a.C., anno in cui il filosofo si recò a Roma per incontrare Mario, durante la Guerra Mitridatica (cfr. Plu. Mar. 45, 7 = fr. A28 Vimercati, T28 Edelstein-Kidd, T6 Theiler), e il 60/59 a.C., quando Cicerone gli fece pervenire le memorie del proprio consolato (cfr. Cic. Epist. ad Att. 2, 1, 2 = fr. A20 Vim.). – [2] Cfr. frr. A1, A8, A9, A11 Vim. – [3] Cfr. frr. A13, A22 Vim. – [4] Cfr. Str. 7, 5, 8 = fr. A27 Vim. – [5] Cfr. ibidem 2, 4, 2 = fr. A26 Vim. = T25 EK = T29b Th. – [6] Cfr. fr. A29 Vim. – [7] Cfr. fr. A55 Vim., A64 Vim. – [8] Cfr. fr. A52 Vim. (trad. di Vimercati 2004, anche di seguito, talora con modifiche). – [9] Cfr. frr. A105-A114 Vim. – [10] Cfr. Simp. in Ph. 2, 2 (193b23) = fr. A69 Vim. – [11] Cfr. frr. A70-A82 Vim. – [12] Cfr. frr. A83-A87 Vim. – [13] Cfr. frr. A88-A94 Vim. – [14] Cfr. frr. A115-A123 Vim. – [15] Cfr. Str. 1, 1, 1 = fr. A124 Vim. – [16] Cfr. frr. A125-A127b Vim. – [17] Cfr. Prisc. Lyd. Solutiones ad Chosroem 6, pp. 69.19-76.20 Bywater = fr. A139 Vim. – [18] Cfr. fr. A88 Vim. ; cfr. anche frr. A74a, A127a, A129, A130, A169 Vim. – [19] Cfr. fr. A127a Vim. ; cfr. anche frr. A74a, A127a, A129, A130, A169 Vim. – [20] Cfr. frr. A149-A152 Vim. – [21] Cfr. frr. A153-A160 Vim. – [22] Cfr. Procl. in Euc., pp. 77.7-81.4 Friedlein = fr. A253 Vim. – [23] Cfr. ibidem,





Prassagora di Cos. Nato nella seconda metà del iv secolo a. C., a Cos, il medico fu, pare, studente di →Erofilo, e appartenne alla scuola che fiorì nell’isola. La sua opera tutta affidata alla tradizione indiretta, in particolare grazie alle numerose citazioni di →Galeno (e.g. Meth. med. 5. 4 / 19, 185 K.). Si occupò di patologia, e fu noto specie per gli studi di patologia umorale : tracce significative del suo pensiero si trovano in studi successivi sul sistema arterioso e influenzarono la teoria dello pneuma elaborata dalla scuola cui si lega il suo nome. Oltre alla teoria degli umori, gli si ascrivono studi e titoli di farmacia, dietetica, fisiologia ; fu molto citato, da Galeno, →Rufo, →Celso, →Plinio, →Sorano, →Oribasio, oltre che da Ateneo e dagli scoliasti. Molto scrisse e ancor più gli fu attribuito : tra i titoli a suo nome, Sulle malattie, Sulle terapie, Scritti anatomici, Cause.  





Bibliografia. Capriglione 1983 ; Garofalo 1993, 345-368 ; Stok 1993b, 397 ; Nutton 2001d, 277 sg. ; Tieleman 2005b, 726-727.  







Daria Crismani

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presocratici

Presocratici. Con questo termine si indica l’intera serie dei filosofi che vanno da →Talete ai Sofisti. La costituzione del ‘gruppo’ è strettamente legata alla pubblicazione dei Fragmente der Vorsokratiker ad opera di H. Diels nel 1903. Da allora la generosa selezione dielsiana di frammenti, testimonianze e altri echi ha conosciuto una fortuna straordinaria, numerose nuove edizioni (definitiva quella del 1951-1952 a cura di W. Kranz), svariate traduzioni, molteplici tentativi di rifare l’intera raccolta con nuovi criteri (cosa che, a distanza di oltre un secolo, deve ancora trovare pratica e convincente attuazione, quantunque si abbia notizia di progetti anche molto ambiziosi al riguardo) e una vastissima gamma di nuove edizioni riferite a singoli autori (o, in qualche caso, gruppi di autori). La sedimentazione di una sterminata bibliografia specifica ha portato con sé la sempre più pacifica accettazione del nome e dell’idea stessa di filosofia presocratica. Anche la sua connotazione come filosofia eminentemente frammentaria è rimasta, essendo troppo grande la disanalogia tra lo stato, talvolta disperante, in cui sono conservati i frammenti di questi autori e l’avvenuta preservazione del 99% di tutto ciò che →Platone ha scritto. Le voci dissonanti, relativamente rare, hanno riguardato, a seconda dei casi, il nome (è stata proposta la denominazione di ‘presofisti’ e ‘preplatonici’), l’inclusione in questo corpus di →Democrito che, oltre ad essere nato qualche anno dopo Socrate, sembra essere sopravvissuto per anni alla morte del filosofo, l’accostamento di filosofi naturalisti e Sofisti, o anche la non facile distinzione tra scienziati e filosofi. Su quest’ultimo punto si consideri che nessuno dei p. risulta essersi attribuito la qualifica di philosophos. Per quanto è dato sapere, questa qualifica è entrata nell’uso con Socrate – o tutt’al più con Gorgia (cfr. Hel. 13) – ed è stata prontamente estesa alla generalità dei filosofi naturalistici e, sia pure con qualche esitazione, ai Sofisti. Al di là del nome, l’individuazione del gruppo deve molto alla lunga serie di opere intitolate →peri physeos e al ben poco controverso potenziale filosofico di molte delle idee messe in circolo da buona parte di questi intellettuali. In generale i primi p. si distinsero per la diffusa predilezione per una comunicazione ‘fredda’, nel senso che venne sviluppata la ten-

denza a fornire un sapere comprensibile e piuttosto caratterizzato, senza troppo indulgere nella funzione di intrattenimento, e così pure per il fatto di consegnare il loro sapere a opere in prosa, tendenzialmente onnicomprensive, che incorporano l’idea stessa di trattato. Un ulteriore fattore di coesione del gruppo è dato dalla relativa abbondanza di indicatori in base ai quali riusciamo a capire che molti di questi intellettuali ritennero di appartenere alla medesima categoria di sophoi, ebbero notizia delle opere altrui, talvolta ne hanno parlato espressamente, hanno esercitato una critica reciproca senza remore, hanno tutti investito molto nell’innovazione e, con esclusione dei Sofisti, hanno tutti perseguito finalità eminentemente conoscitive nel tentativo di mettere in piedi un sapere sul mondo fisico e sul mondo della vita che non era immediatamente utile. A ciò si aggiunga che già il sofista Ippia di Elide scrisse un embrione di storia delle loro teorie partendo dal nesso che egli ritenne di poter stabilire tra l’Oceano di Omero e l’acqua di Talete ; che tutti o quasi tutti i P. furono oggetto di sistematica attenzione da parte di →Aristotele ; che →Teofrasto dedicò alle loro teorie un’opera d’insieme avendo cura di rilevare convergenze e divergenze su singoli punti ; che in età imperiale Aezio, poi Diogene Laerzio, investirono considerevoli energie nel raccogliere informazioni sul loro conto, mentre Sesto Empirico e, più tardi, Simplicio ebbero cura di riportare ampi stralci delle loro opere. Il fatto che tutti questi autori non abbiano avuto difficoltà a individuare all’incirca lo stesso gruppo di sophoi rassicura non poco sul conto della correttezza insita nel parlare di p. Ferma rimane la distinzione tra ‘filosofi naturalisti’ e Sofisti non semplicemente perché i primi si interrogarono in particolare sul mondo fisico e il mondo della vita, ma anche e soprattutto perché con →Zenone e Protagora si affermò in Ellade una modalità di scrittura radicalmente alternativa rispetto al trattato sulla natura : la raccolta di brevi testi paradossali che non è accompagnata dall’esplicita offerta di un insegnamento positivo. Se il primo pubblicò la sua famosa raccolta di paradossi mantenendo il titolo tradizionale (Peri Physeos), il secondo pubblicò una raccolta di Antilogie anch’esse paradossali e tali da non avere una soluzione, anzi pensate allo scopo di precludere la facile individuazione di una soluzione. In seguito, se  







previsioni atmosferiche alcuni continuarono a scrivere dei Peri Physeos o altri scritti concepiti come deposito di un sapere già costituitosi come tale, i Sofisti coltivarono con insistenza (anche se non necessariamente in modo esclusivo) il nuovo tipo di scrittura, che ricorda lo spettacolo teatrale per il fatto di rappresentare esclusivamente delle situazioni problematiche più o meno bizzarre (per cui nel caso di questi scritti, e così pure della generalità dei dialoghi socratici di inizio iv secolo, si può legittimamente parlare anche di ‘teatro filosofico’). In questo Dizionario figurano sia schede su molti p., sia apposite sub-trattazioni nell’ambito delle voci →astronomia →cosmologia, →filosofia, →geografia →origini e →peri physeos. Bibliografia. Barnes 1979 ; Capizzi 1982 ; Casertano 2009 ; Cassin 1986 ; Curd-Graham 2008 ; Dumont 1988 ; Eggers Lan 1978-80 ; Gemelli Marciano 2007 ; Graham 2006 ; Guthrie 19621965 ; Kerferd 1981 ; Kirk-Raven-Schofield 1983 ; Laks-Louguet 2002 ; Laks 2006 ; Laks 2007 ; Mansfeld 1986 ; Osborne 1987 ; Paci 1957 ; Paquet-Roussel-Lafrance 1988-1989 ; PaquetLafrance 1995 ; Reale 2006 ; Rechenauer 2005 ; Robb 1983 ; Sassi 2006 ; Sijaković 2001 ; Thivel 1992 ; Untersteiner 1993.  



















































Livio Rossetti Previsioni atmosferiche. 1. Tra scienza e folklore. – →Teofrasto, parlando dello sviluppo dei vegetali domestici, riporta (per ben due volte : HP 8,7,6 ; CP 3,23,4) un proverbio che sintetizza le convinzioni degli antichi sull’importanza degli agenti atmosferici – e quindi delle previsioni di essi – in agricoltura : « il frutto lo dà la stagione, non la terra » (e[to~ fevrei, oujci; a[roura). Riuscire a prevedere il tempo atmosferico attraverso segni e pronostici fu dunque un’esigenza primaria dell’agricoltura di tutti i tempi. →Aristotele definì questo ambito con il termine di meteorologia, un sapere che i popoli antichi finalizzarono a differenti scopi, e che godette sempre di un largo interesse pubblico e istituzionale, legato anche alla divinazione e all’economia. In senso stretto il termine « meteorologia » è spiegato da Diogene Laerzio (a proposito di →Posidonio), come la disciplina che si occupa delle « cose che accadono nel cielo » (7, 138) ; tuttavia già da tempi antichi la meteorologia trattava una serie di problemi naturali di diverso genere : dalle comete alle meteore, dai fulmini ai venti,  





















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ai terremoti, alle maree, e altro. Aristotele ne ripercorre la storia nel primo libro dei Meteorologica. Già in Omero vi sono i primi segni di interpretazione non mitopoietica di fenomeni meteorologici. Ma è da →Esiodo (op. 381-617) che l’anno agricolo è ordinato in base alla levata e al tramonto di determinate stelle e costellazioni : solo chi conosce bene questo alternarsi, questi « segni », potrà avere successo nell’attività agricola e al tempo stesso potrà vivere in armonia con la natura [→calendario dei lavori]. Molti dei dati tradizionali elencati in parte già da Esiodo e successivamente nel filone meteorologico delle ‘previsioni atmosferiche’ venivano, a livello pratico, fissate su veri e propri strumenti di previsione del tempo, in legno o in pietra, detti parapegmata, di cui sono stati rinvenuti esemplari assai ben conservati (come l’anemoscopio di Pesaro, del i-ii sec. a.C., una sorta di ‘rosa dei venti’). L’indagine meteorologica, d’altra parte, proprio in ragione della variabilità dell’oggetto del suo studio, e di conseguenza della fallibilità, spesso, delle proprie conclusioni, si offrì nel mondo antico anche ad essere presa di mira come prototipo di scienza disordinata e incoerente, e quindi parodiata e bistrattata : si pensi agli attacchi dei comici attici del v sec. verso i meteorologoi, visti come ciarlatani, tra i quali viene inserito anche Socrate. Anche il rilevante bagaglio di tradizioni popolari relative alle previsioni del buono o del cattivo tempo contribuiva a fare della meteorologia antica una disciplina a metà tra impegno scientifico e sostrato folklorico. Una sezione quasi sempre presente nella tradizione agronomica antica è quella dedicata ai segni premonitori delle condizioni atmosferiche (già da Hes. op. 383 sgg. ; Verg. georg. 1,351-514 ; Plin. nat. 18,340-365). Le opere fondamentali per i pronostici atmosferici sono tuttavia il De signis attribuito a →Teofrasto e la seconda parte dei Phaenomena aratei (758-1141). Le indicazioni prognostiche di Teofrasto prima, di →Arato poi, sono in realtà diffuse pressoché nella medesima formulazione in tutto il mondo antico, e si ritrovano anche in opere che poco hanno a che fare con la tradizione manualistico-precettistica, in forma di indicazioni di massima, riferimenti atmosferici, metafore o similitudini. Tutto ciò, più che un indice della fortuna della precettistica atmosferica aratea (e aristotelica), va letto come riprova di una radicata diffusione della tradizione prognostica, a livello popo 











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proclo

lare. La comparazione delle indicazioni antiche con il bagaglio di credenze e osservazioni atmosferiche del folklore moderno, infatti, fa emergere chiaramente come tutti i cosiddetti ‘segni’ della tradizione greco-latina si ritrovino, pressoché identici, nella moderna astronomia popolare. Si tratta dunque di tradizioni folkloriche diffuse e antichissime, spesso rintracciabili in proverbi di matrice schiettamente popolare, che ancora oggi regolano la scansione del tempo e l’orientamento dei lavori agricoli nelle società meno modernizzate. Anche →Tolomeo, nel trattato astrologico, dedica un capitolo alla trattazione dei segni atmosferici : Tetr. 2,14. Notevole invece la sostituzione, negli Aratea di →Germanico, dei signa meteorologici di matrice popolare a pronostici di tipo astrologico (Montanari Caldini 1973). 2. La luna e il sole. – La luna è il primo astro a cui guarda la meteorologia antica (e quella popolare). Il precetto più generale è che la luna chiara indica bel tempo (Theophr. Sign. 51 ; Verg. georg. 1, 433 ; Plin. nat. 18,347), quella rossa temporale o vento (Arat. 782-5, 803 ; Theophr. Sign. 12 ; Plin. nat. 18, 347 ; Ptol. Tetr. 2, 14, 5). Lo ritroviamo, a livello di tradizione folklorica, nel proverbio « luna bianca, tempo bello/ luna rossa, venticello ». I pronostici, ovviamente, si interessano di più delle condizioni sfavorevoli : un passo di Virgilio sempre sulla luna rossa – attesta Quintiliano (inst. 5, 9, 15-16) – era divenuto proverbiale (o forse, era a sua volta la rielaborazione di un detto popolare ?) : vento semper rubet aurea Phoebe (georg. 1, 431). Così le credenze moderne, e i numerosi proverbi sulla luna rossa : « luna rossa/ o piscia o soffia », per esempio. I due corni « oscuri e smussati » della luna sono indizio certo di pioggia, così come la luna circondata dall’alone. Dopo la luna, il sole. « Il sole rosso scuro all’alba annunzia pioggia » (Theophr.Sign. 11) : così nel proverbio « rosso di mattina/ la pioggia si avvicina ». « Al tramonto, se appare intorno ai raggi una nuvola scura, si annunzia pioggia » (Geop. 1, 3, 2). 3. Animali e oggetti. – Vi erano poi quei comportamenti particolari di uccelli, insetti, o animali domestici, premonitori tutti di un peggioramento del tempo. Le gru, in particolare, erano annuncio di pioggia : « attento, quando senti il grido della gru : essa porta il segnale dell’inverno », aveva già ammonito →Esiodo (op. 448). Se le papere starnazzavano, sarebbe arrivato il temporale (Arat. 960-2 ; Theophr.  













Sign. 17 ; Ael. NA 7,7 ; Geop. 1, 3, 8) : così nel nostro proverbio « se starnazza l’oca o la gallina/ la pioggia s’avvicina ». Soprattutto il corvo gracchiante era segno di cattivo tempo (Arat. 963-6 ; Theophr. Sign. 16 ; Ael. NA 7, 7). Ancora un verso di →Virgilio era divenuto proverbiale, attesta sempre Quintiliano : « chiama a gran voce la pioggia la cornacchia » (georg. 1,388. Cfr. Quint. inst. 5, 9, 15). Così anche « quando la rana canta/ il tempo cambia », un pronostico ben attestato tra gli antichi (Arat. 946-947 ; Theophr. Sign. 15 ; Verg. georg. 1, 378 ; Plin. nat. 18, 361 ; Plu. 912c ; Geop. 1,3,11). Anche gli oggetti della vita quotidiana davano i loro segni : poteva capitare che « il fondo esterno di una pentola affumicata piglia fuoco » (Arat. 983-984 ; Theophr. Sign. 19 ; Plin. nat. 18, 358 ; Geop. 1,3,6). Quando il lucignolo del lume faccia il fungo, la pioggia è in arrivo, segno che compare in tutti gli autori antichi : Arat. 976-977 ; Theophr. Sign. 14 ; schol. Ar. Vesp. 262-263 (che sottolinea la natura popolare della credenza) ; Call. fr. 269 Pf. ; Verg. georg. 1, 392 ; Plin. nat. 18, 357.  

























































Bibliografia. Calderon Dorda 2005 ; Casanova 2005 ; Cusset 2003 ; Liuzzi 1996 ; Taub 2003.  







Emanuele Lelli











































Proclo [412-485]. 1. Generalità. – Nato a Bisanzio, i principali dati sulla biografia e sull’attività del filosofo si ricavano dalla Vita scritta dal discepolo Marino di Neapoli. Una volta avviati ad Alessandria studi prevalentemente retorici, P. li abbandonò per dedicarsi all’approfondimento della logica aristotelica e della matematica. Trasferitosi ad Atene, fu allievo dei neoplatonici Plutarco e Siriano. Diventato diadoco della scuola di Atene, avviò un grandioso progetto di sistemazione della tradizione filosofica e religiosa greca, che si realizzò sia attraverso una puntuale opera di commento, sia con la sistematizzazione dei nuclei speculativi della tradizione platonica. In particolare con la Teologia Platonica, P. portò a termine una vera e propria summa della filosofia neoplatonica, contaminando la riflessione metafisica con la teologia pagana. 2. Matematica. – Per quanto non manchino riferimenti anche estesi alla →matematica e al ruolo del numero nella struttura ipostatica anche altrove – nei commenti a Platone, ad esempio, e nella Teologia Platonica –, l’opera nella quale si trova l’esposizione più sistematica del sapere matematico di P. è il Commento al

proclo primo libro degli Elementi di Euclide. La scelta, da parte del filosofo, di commentare →Euclide risale a svariate ragioni. In primo luogo, è possibile che egli intravedesse negli Elementi la realizzazione del modello platonico di matematica. Euclide, più di ogni altro, avrebbe rivalutato il carattere intelligibile, piuttosto che sensibile, della →geometria. Anche il titolo dell’opera di Euclide sarebbe rivelatore di tale ascendenza platonica : per P. il termine ‘elemento’ (stoicei`on) allude, infatti, tanto al fatto che ciò che è anteriore è elemento per lo sviluppo del conseguente, tanto al fatto che esiste un ente semplice in cui si risolve un composto. Questo secondo dominio del termine che, a parere di P., è squisitamente platonico, è proprio quello al quale Euclide maggiormente si è attenuto. [1] Non è trascurabile l’opinione di quanti ritengono che la decisione di commentare Euclide rifletta anche il consapevole intento di prendere le dovute distanze dalla linea aritmologica avviata da autori come →Nicomaco o →Giamblico, per restituire all’→aritmetica il suo più autentico ruolo all’interno della gerarchia dei saperi. Tale affermazione non deve però prescindere da un ulteriore aspetto della posizione procliana, che consiste nell’innestare Euclide nel neopitagorismo e, più in generale, in un modello di subordinazione della matematica alla filosofia che è squisitamente platonico-neoplatonico. L’insistenza, da parte di P., sull’autonomia ontologica degli enti matematici fa così slittare il commento a Euclide verso un orientamento che è piuttosto di ontologia che non di scienza matematica. Anche il rapporto fra geometria e aritmetica è delucidato a partire da tale modello subordinazionista. Per quanto nel suo commento al Parmenide il rapporto fra esercizio dialettico e geometria sia espressamente dichiarato, anche per P. l’aritmetica risulta, infatti, superiore alla geometria in quanto più vicina all’intelligibile. [2] La superiorità dell’aritmetica risiede, in ultima analisi, nella più alta collocazione ontologica del numero rispetto alla figura. Ed è tale rapporto con la sfera intelligibile che al filosofo preme mettere in luce. Nelle due parti del Prologo che precedono il commento vero e proprio a Euclide, P. delinea i caratteri non solo di una storia, ma anche di una ontologia della matematica, il cui fine è dimostrare come la reale natura degli enti matematici si incardini in una struttura metafisica  





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che culmina nella dialettica. Come Giamblico, P. difende la dottrina della natura intermedia della matematica e dei suoi oggetti. Egli fa risalire ai pitagorici e a →Platone l’idea di una tripartizione del reale. [3] L’ente matematico non trova sede né fra i generi primi, né fra gli ultimi. Esso risulta collocato in una condizione intermedia fra le realtà semplici e indivisibili e quelle molteplici e divisibili. La superiorità degli enti matematici su quelli sensibili e della scienza che li assume a proprio oggetto è provata dal fatto che le nature sensibili sono contrassegnate dalla mutevolezza ; la matematica, al contrario, si fonda su ragionamenti stabili e irrefutabili. Ne consegue che è da escludere che gli enti matematici traggano origine per astrazione da quelli sensibili [→astrazione]. Se l’ ‘esattezza’ della matematica non può derivare dalla mutevolezza e mescolanza del sensibile, ne consegue che l’anima deve possedere in se stessa i modelli delle realtà esatte. Non è però l’anima la condizione ultima dell’esistenza degli enti matematici: lo è unicamente in quanto partecipe dei principi primi e dell’Intelletto. Gli enti matematici sono, allora, presenti nell’anima come ‘immagini’ e ‘proiezioni’ dei principi. In quanto, inoltre, l’anima è movimento eterno, del movimento eterno devono partecipare anche gli archetipi matematici che hanno in essa sede : ciò implica che la conoscenza matematica non può conoscere sosta e che essa sempre dispiegherà i concetti invisibili che sono nell’anima. [4] In tal modo P. implicitamente ammette che la soluzione geometrica proposta da Euclide, che pure egli considera perfetta, non è necessariamente definitiva, in quanto potrebbe non aver portato alla luce tutti i concetti invisibili implicati nell’anima. In quanto, infine, l’anima è senza parti, anche numeri e figure, nel loro aspetto originario, sono privi di parti. Ciò vale anche per gli oggetti della geometria, i cui archetipi sono privi di dimensione. Se le cose stanno in tali termini, come sarà possibile rendere ragione di tutte quelle operazioni che si confrontano con la moltiplicazione e divisione delle figure o con la differenza mediante maggiore e minore ? La soluzione offerta da Proclo fa appello alla corrispondenza tra facoltà e livelli di realtà : l’immaginazione (fantasiva), facoltà preposta alla conoscenza geometrica, intermedia fra l’incorporeo e il corporeo, inferiore alla conoscenza discorsiva vera e propria, è il ‘luogo’ nel  











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proclo

quale l’anima vede e moltiplica ciò che di per sé è unico e senza parti. Le forme, che per se stesse sono indivisibili, acquistano ‘dimensioni’ e ‘parti’ nell’immaginazione. Per quanto la funzione dell’immaginazione risulti indispensabile alla costruzione di figure, Proclo intravede in essa solo il ‘vestibolo’ della vera geometria, fine della quale deve essere condurre l’anima a vedere ciò che non ha dimensione né parti. [5] Anche P., come Giamblico, ammette l’esistenza di una scienza matematica comune, le leggi fondamentali della quale sono la proporzione e il rapporto – ovvero tutto ciò che consente di stabilire relazioni di somiglianza e dissomiglianza – e i cui principi sono il Limite e l’Illimitato : funzione del Limite, rispetto alle realtà numeriche e geometriche, è quello di frenare, rispettivamente, la successione numerica, in modo da consentire la determinazione di ciascun ente numerico come molteplicità limitata, e la divisibilità geometrica, in modo che non accada che la figura perda del tutto caratteri unitari. L’Illimitato, a propria volta, è principio dell’esistenza delle grandezze incommensurabili in ambito geometrico e della successione che si genera a partire dalla monade in ambito aritmetico. [6] La divisione del genere matematico nelle specie avviene, come in Giamblico, secondo il proprium di ciascuna e secondo la dignità dell’oggetto. Da un lato Proclo, come Giamblico, presenta ora una classificazione (tavxi~) in cui l’aritmetica è seguita dalla →musica (anche se le motivazioni da lui offerte fanno immediatamente appello al rapporto fra numeri e rapporti armonici presentato nel Timeo platonico), ora una in cui la geometria è seconda. Accanto a queste, Proclo riporta una ulteriore tavxi~, ascritta a →Gemino di Rodi ma presente anche in Anatolio, per cui la divisione della matematica riguarda in primo luogo quella relativa agli intelligibili e quella relativa ai sensibili. [7] Tale distinzione, accennata anche da Giamblico, sembra mostrare qui maggiore consapevolezza ed è prova dell’incisiva diffusione in età ellenistica delle scienze applicate. La matematica, che è unitaria e semplice nell’anima, si dispiega attraverso il ragionamento ; essa ha bisogno, per esplicarsi, di essere stimolata dall’esterno, anche se, una volta che ciò sia avvenuto, perviene nuovamente in sé, cioè nell’anima. Il fatto che molte delle applicazioni matematiche richiedano il confronto con la dimensione è prova della subordinazio 









ne degli enti matematici rispetto a quelle realtà che trovano direttamente in se stesse il proprio fondamento. Benché le essenze matematiche latenti si manifestino grazie allo stimolo prodotto dalle realtà divisibili, fine della matematica restano la contemplazione delle realtà più alte e la familiarità con l’incorporeo. Scopo ultimo di chi studia la geometria resta, in conclusione, quello di liberarsi dall’ausilio dell’immaginazione, strappando l’anima dal ricorso all’estensione, affinché essa si volga alla pura attività intellettuale, dove gli enti non hanno dimensione né parti, e, soprattutto, rivolga platonicamente lo sguardo dal sapere ipotetico a quello anipotetico. [8] Con ciò Proclo conferma la subordinazione della matematica alla dialettica : la prima conserva un carattere ‘iconico’ di cui la seconda è priva. [9] L’orientamento filosofico dell’indagine procliana trova conferma nell’Astronomicarum positionum hypotyposis. Oltre a costituire un’introduzione all’opera di →Tolomeo – in tal senso godrà di larga fama nel xvi secolo –, essa incarna l’intento di difendere la superiorità dell’ ‘astronomia filosofica’, avente per oggetto non i corpi dotati di materia, ma le cause intelligibili dei moti, e fondata su un attento commento a Platone.  





Note. [1] Procl. In Eucl. 68, 23-75, 4. – [2] Procl. In Eucl. 34, 11-19 ; In Parm. 6, 1092, 27-30. – [3] Procl. In Tim. 1, 8, 13-27 ; In Eucl. 3, 14-4, 8. – [4] Procl. In Eucl. 3, 1-5, 10 ; 10, 15-18, 4. – [5] Procl. In Eucl. 48, 1-57, 8 ; 141, 4-12. – [6] Procl. In Eucl. 5, 11-10, 14. – [7] Procl. In Eucl. 35, 17-37, 26 ; 38, 1-5 ; 48. – [8] Procl. In Eucl. 18, 5-25, 11 ; 44, 25-47, 8 ; 84, 8-23 – [9] Procl. In Parm. 1, 646, 30-31 ; Theol. Plat. 1, 4.  

















Bibliografia. Aujac 1976 ; Bechtle 1998 ; Breton 1969 ; Cambiano 1985 ; Charles-Saget 1982 ; Cleary 2000 ; Cuomo 2001 ; Giardina 2006 ; Gritti 2007 ; Kline 1991 ; Linguiti 2007 ; Mansfeld 1998b ; Morrow 1970 ; Müller 1987b ; Mueller 1987c ; O’Meara 1988 ; O’Meara 1989 ; Sambursky 1965 ; Schmitz 1997 ; Segonds 1987 ; Speiser 1952 ; Steel 2007 ; Timpanaro Cardini 1978 ; van der Waerden 1980.  













































Claudia Maggi 3. Astronomia e astrologia. All’interno della sua vasta produzione, di taglio prevalentemente filosofico, si trovano anche un’opera di astronomia, intitolata Breve Esposizione delle posizioni astronomiche in sette libri, [1] ed opere di argomento astrologico : una parafrasi delle Previsioni astrologiche di Tolomeo [2] e un commentario,  



psello frammentariamente conservato, agli Oracoli Caldei. [3] Questioni astrologiche, infine, sono occasionalmente affrontate nei commentari alla Repubblica e al Timeo di Platone, a Parmenide e alle Enneadi di Plotino.  

Note. [1] Ed. Manitius 1909. – [2] Ed. Melanchton 1554. – [3] Ed. Weinstock, ccag ix 1, 106-111. Bibliografia. Bernard 2008, 698-699 ; GundelGundel 1966, 245 e sgg. ; Urso 2002, 126-127.  



Carmelo Lupini Prodico di Ceo. È uno dei maggiori esponenti della prima sofistica, nato nell’isola di Ceo (Cicladi) tra il 470 e il 460 a.C., P. fu allievo di →Protagora di Nicea e maestro di Isocrate, Euripide, Teramene. Delle ventitré opere a lui attribuite restano solo scarsi frammenti. Nella sua opera più famosa, intitolata Ore, egli esaltava la dignità dell’uomo e la responsabilità del singolo, condensando il suo pensiero etico nella parabola di Eracle, al bivio tra vizio e virtù (contenuta nelle Ore ma parafrasata da →Senofonte[1]) : la scelta di Eracle, ricaduta sulla virtù nonostante la prospettiva di fatiche e sforzi futuri, rappresenta paradigmaticamente l’evoluzione dell’uomo dalla physis al nomos, dallo stato di natura alla legge etica. Tale legge non ha fondamento divino. Prodico sosteneva, infatti, la teoria evemeristica degli dei, spiegando la religione come divinizzazione, avvenuta in origine, delle cose utili per l’uomo, ad opera degli stessi uomini : « Il sole e la luna e i fiumi e le fonti e in genere tutto ciò che giova alla nostra vita, gli antichi li chiamavano dèi per la loro utilità, come gli Egiziani fanno per il Nilo, e per questo il pane fu chiamato Demetra, e il vino Dioniso, e l’acqua Poseidone, e il fuoco Efesto e così ciascuna cosa che ci è utile ». [2] La religione, intesa come celebrazione dei benefici dell’attività umana, rientra all’interno della visione che Prodico ha della storia dell’umanità, concepita come un cammino di progresso in cui le arti e le tecniche hanno un ruolo fondamentale : da uno stadio iniziale di ferinità e di sottomissione alla natura l’uomo approda ad una fase fondata sulle istituzioni civili e sulla legge proprio in virtù della techne. Famosa è, inoltre, la sua teoria del linguaggio e la dottrina da lui elaborata della sinonimica. Tale dottrina è basata sull’analisi della semanticità dei sinonimi e sull’attribuzione di un significato univoco ad ognuno di essi mediante  











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una rigorosa classificazione delle sfumature lessicali. [3]  

Note. [1] Xen. Mem. 2, 1, 21-34 = 84B2 D.-K. – [2] 84B5 D.-K. – [3] Nel Protagora (337a-c) Platone ne ridicolizza l’eccessiva sottigliezza. Sulla sinonimica e le sue implicazioni nella valutazione dei rapporti tra Prodico e Socrate cfr. Rosati 2005, cap. iv. Bibliografia. Cataudella 1940 ; Dupréel 1948 ; Momigliano 1929-1930, 95-107 ; Pasquinelli 1976 ; Rosati 2005 ; Untersteiner 1967.  









Maria Nicole Iulietto Protagora di Nicea. Astrologo del iii sec. a.C., fu autore di uno scritto, non pervenuto, dal titolo Synagogai (Raccolte), in parte recuperato e parafrasato da Efestione di Tebe [1] che ne ha utilizzato solo la parte relativa al movimento dei pianeti e ai loro influssi. L’opera doveva comprendere anche materiali di medicina astrologica, se citazioni di essa compaiono, insieme alla Iatromathematica di Ermete e Petosiride, in un codice bizantino dell’xi sec. [2]  

Note. [1] Vd. Heph. Astr. 3, 30 ; 3, 47 P. – [2] Ed. A. Olivieri, ccag 1, 126, 5 e sgg.  

Bibliografia. Gundel-Gundel 1966, 106 ; Jones 2008, s.v. Prōtagoras of Nikaia, 701 ; Urso 2002, 127.  



Carmelo Lupini Psello. 1. Vita e pensiero. – Costantino Psello, divenuto Michele nel 1054 quando si fece monaco, nacque in un sobborgo di Costantinopoli all’inizio del 1018 e morì in un anno compreso tra 1078 e 1097, forse nel monastero della Bella Fonte sul Monte Olimpo (Kriaras 1968 ; Criscuolo 1990). Benché cronologicamente estraneo al mondo greco classico, deve essere preso in considerazione perché è uno dei maggiori rappresentanti dell’atticismo nel Rinascimento Bizantino del xi secolo, quando la politica culturale delle dinastie Macedone e Comnena fu tesa a rivitalizzare la tradizione antica. Psello stesso, come direttore della scuola superiore di filosofia del palazzo imperiale, fu il braccio esecutivo di tale politica : da tipico razionalista bizantino qual era, non fu solo un poligrafo compilatore di altri compilatori, ma fu capace di scegliere il meglio della cultura antica per trasmetterlo ai contemporanei (e a noi). 2. Opere mineralogiche. – Nelle sue numerosissime opere è frequente incontrare riferi 



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pseudo-alessandro di afrodisia

menti ai minerali ed al loro trattamento, talora con qualche allusione all’alchimia, che però cerca di evitare per non incorrere nelle censure ecclesiastiche. Le principali opere di questo tipo sono la Crisopea (Peri; crusopoiiva~ o De auri fabrica oppure De auri conficiendi ratione : Albini 1988), un breve trattato in forma di lettera indirizzata al patriarca di Costantinopoli Michele Cerulario che descrive varie ricette per fabbricare l’oro e in cui si accenna anche, quasi di sfuggita, ai minerali e ai composti chimici da essi derivati (giacinto, smeraldo, perla, berillo, cinabro, allume, sale), e la Cronografiva (Cronographia), un importante documento storico della vita politica a Bisanzio nel xi sec., dove l’interesse curioso per le gemme è messo in evidenza come un carattere generale dell’allora dominante aristocrazia di corte, oltre che della famiglia imperiale. P. è autore di un breve testo specifico sui minerali che, chiaramente, è un’opera di compilazione : il Peri; livqwn dunavmewn (De lapidum virtutibus), scritto in una data imprecisabile, ma dopo il 1055 e prima del 1057 se dedicatario ne fu il patriarca Michele Cerulario (Duffy 1992) oppure tra il 1059 e il 1071 se è dedicato a Giovanni Duca, fratello dell’imperatore Costantino X (Galigani 1980). Il De lapidum virtutibus (Galigani 1980 ; Mottana 2005) è probabilmente un abbozzo incompleto, eppure rappresenta un valido specchio della cultura mineralogica bizantina del xi sec., intrisa di nozionismo e astratta dalla pratica, ma molto interessata alle pietre preziose come oggetto d’esibizione e attenta anche alle loro possibili applicazioni mediche, pur restando sempre vigile, però, a non lasciarsi coinvolgere in questioni di tipo magico e alchemico che potessero portare a un’accusa di irreligiosità. Vi sono elencate 24 pietre : le prime 18 sono in ordine alfabetico, le altre in ordine inverso rispetto all’alfabeto greco in modo che ultimo sia il topazio, che inizia con la lettera T, che nella chiesa greca indica la croce e che era usata spesso in chiusura di testi di cui si voleva affermare la totale aderenza alla dottrina cristiana. Per quanto incompleto, il trattato dimostra che P. ricavava le sue nozioni sui minerali da conoscenze empiriche raccolte dagli scienziati ellenistici, rifacendosi a compilazioni come il Liqognwvmwn (Lithognomon) di Senocrate di Efeso (Ullman 1974) scritto all’inizio dell’era volgare. Nel corso dei secoli esse erano state integrate con credenze sull’efficacia terapeutica delle pietre ereditate da autori mediorienta 





li ed egiziani d’età greco-romana, i primi che avevano proposto l’utilizzo delle pietre per prevenire e proteggere dai malanni, oltre che per il loro benefico influsso astrale. Mancano, invece, nel trattato di P. evidenze di significativi influssi della tradizione mistica giudeocristiana relativa alle pietre bibliche e non c’è neppure traccia della magia alchemica. Tutto ciò inserisce la cultura mineralogica di P. nella migliore tradizione della scienza greca, anche se piuttosto tarda e, in una certa misura, già alterata rispetto a quella ellenistica. Bibliografia. Albini 1988 ; Criscuolo 1990 ; Duffy 1992 ; Galigani 1980 ; Kriaras 1968 ; Impellizzeri-Criscuolo-Ronchey-Del Corno 1999-2000 ; Mottana 2005 ; Ullmann 1974.  













Annibale Mottana Pseudo-Alessandro di Afrodisia. È autore di un trattato apocrifo attribuito al filosofo aristotelico, il de febribus, dedicato a un medico Apollonio da un personaggio che dichiara la propria preparazione su qualsiasi argomento dell’arte, ma tradisce un’impostazione strettamente speculativa, di vaga ispirazione pneumatica. L’operetta fu composta, come si evince dalle frequenti citazioni da →Areteo e dagli evidenti rapporti col de febribus di →Galeno, tra il i e il ii d.C. L’edizione latina di Giorgio Valla (Venezia, 1498), condotta su un codice ora perduto, è entrata nella collazione dell’ultimo editore, P. Tassinari, che ne fornisce il testo completo. Bibliografia. Crismani 2002d, 328 ; Mazzini 1997, 63-64 ; Tassinari 1994.  



Daria Crismani



Pseudo-Igino (De munitionibus castrorum). Numerosi sono i problemi connessi a quest’opera, di cui non conosciamo né il nome dell’autore né il titolo. Soltanto per comodità di consultazione, pertanto, si è scelto in questa sede di riproporre l’attribuzione allo Pseudo-Igino, che compare nelle edizioni, benché manchi di fondamento. Anche il titolo dello scritto, De munitionibus castrorum, non è originario, ma apposto solo in età moderna (prima metà del xvi sec.) ed accolto in seguito da alcuni editori. Di contro Grillone 1977b, 794, propone la denominazione De metatione castrorum, più confacente al contenuto del libello : “in quanto l’autore espone con approfondimento non  

pseudo-scienza e credenze le fortificazioni, bensì l’argomento geometrico della metatio, cioè della distribuzione della superficie di un accampamento fra i vari corpi di truppa”. Anche sull’epoca cui attribuire il trattato i pareri della critica non concordano, variando la collocazione tra il ii e il iii sec. della nostra era. Difficile individuare le possibili fonti utilizzate, poiché l’autore non le menziona affatto, ma senz’altro dovevano costituire un modello seguito da vicino, come si evince dal carattere compilativo dello scritto. Nell’opuscolo si descrivono le tecniche per impiantare correttamente un campo militare, con istruzioni sulle opportune misurazioni [→matematica, →geometria] da eseguire e sulla scelta degli acquartieramenti più adatti a determinate unità dell’esercito. Una sezione finale, ancora, è dedicata alle necessarie fortificazioni. Dal punto di vista linguistico l’autore ricorre sovente a tecnicismi del registro militare, ma non mancano espressioni tipiche del parlato di epoca tarda. Bibliografia. Grillone 1977a ; Grillone 1977b ; Grillone 1982 ; Grillone 1987 ; Lenoir 1979 ; Lenoir 1996.  









Francesco Fiorucci Pseudo-scienza e credenze. 1. Generalità. – Nella prospettiva dominante in epoca odierna la pseudo-scienza è un complesso eterogeneo di teorie, con relativi apparati metodologici e pratici, che, pur avanzando pretese di dignità scientifica, concernono varie tipologie di fenomeni non riscontrabili (o diversamente interpretabili) secondo i criteri epistemologici di oggettività, ripetibilità e falsificabilità ; poste, dunque, dal loro carattere spiccatamente antimeccanicistico, in insanabile antitesi alla prospettiva galileiana e newtoniana. La cultura classica non tracciò nitidi confini tra il bacino delle conoscenze naturalistiche strettamente intese e quello della metafisica o della superstizione ; siffatti ambiti mostrarono, anzi, tendenziali influenze reciproche e cospicue sinergie. Non mancarono, tuttavia, notevoli tentativi di focalizzare l’attenzione sugli aspetti della realtà empiricamente conoscibili e di proporne chiavi interpretative diverse e ulteriori rispetto a quella magica o religiosa. Da qui, se non l’applicabilità della categoria, quanto meno il rilievo di una vivace e pregevole tensione dialettica e zetetica. 2. Magia e sacro. – Fin dagli albori della sua  



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storia, l’uomo dovette rapportarsi e interagire con l’ambiente e le forze dominanti della natura. Questo gli permise di intuire e riconoscere l’esistenza di rapporti di causa ed effetto regolati da leggi universali ; ma anche di elaborare la convinzione che particolari formule o gesti, codificati e ritualizzati, potessero in qualche maniera influire sul loro funzionamento, determinando esiti diversi. È questa l’essenza della magia, parola che, derivante dal greco mageiva, rimanda appunto ai sacerdoti della tribù dei Mavgoi, seguaci di un Mazdeismo mescolato con aspetti di origine ebraica e caldaica. Questi termini, come gli equivalenti latini magia e magi, derivano dall’antica radice indoeuropea *magh- / *mogh- , il cui significato originario (‘potere’, ‘essere in grado’) appare mantenuto nelle lingue germaniche (protogermanico *maga-, gotico magan anglosassone magan, inglese may, tedesco mögen, svedese , må) e nelle lingue slave (paleoslavo , russo могу, можешь, bulgaro мога, serbocroato moći, polacco móc). Nelle lingue classiche, invece, essa compare con un lieve slittamento, passando a indicare «ciò che si può» in prospettiva soprannaturale. È stato osservato che già nell’uso, da parte della cultura greca, di un termine di provenienza straniera sarebbe implicito un giudizio di empietà verso pratiche volte ad alterare e comprimere entro schemi forzati aspetti fenomenologici che sia la religione olimpica sia quella misterica percepivano come sacri. [1] Forse già dal Paleolitico superiore l’uomo, che viveva in stretto e quasi simbiotico contatto con la natura, si servì di stratagemmi magici per propiziare, ad esempio, la fertilità o il buon esito della →caccia ; particolarmente significative in tal senso apparirebbero le immagini raffigurate nella grotta di Trois Frères. [2] Ma un ruolo fondamentale nella capillarizzazione di queste attività dovette essere svolto dall’avvento della scrittura, che consentì di ordinare il mondo circostante come di tesaurizzare e codificare la parola e, dunque, anche quella magica. Il concetto di sacro rappresenta, infatti, il principale tentativo di affrontare il caos multiforme, delineando lo spazio riservato al divino e inaccessibile all’uomo e ricavando da esso quello simmetrico, ossia profano ; fra queste due dimensioni, interverranno gli strumenti necessari a dividerle ma anche a proteggerle reciprocamente qualora dovessero entrare in contatto. [3] Ciò è particolarmente evidente nella temperie vete 











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rotestamentaria, in cui la dimensione del sacro ha carattere fisico e rigoroso. Così YHWH ordina a Mosè di togliere i sandali poiché si trova in Terra santa, [4] mentre i due figli di Aronne, sacerdoti, muoiono per aver acceso un fuoco non legittimo perché non ordinato loro dal Signore. [5] Presso la cultura egizia, la magia faceva parte della quotidianità ; soprattutto in chiave difensiva. Per conoscere la parola adatta a circostanze particolari ci si poteva rivolgere ad autentici consulenti a pagamento : gli hekau, che detenevano il sa, cioè, appunto, la protezione soprannaturale. [6] Come accennato, la cultura classica non accettò ufficialmente questo tipo di pratiche ; che tuttavia riaffiorano, in suggestioni letterarie e credenze, il che è tipico di popoli provvisti di spiccato senso del trascendente e del sacro. Quel sacer, appunto, che Servio nel commento a →Virgilio indica come associabile alla contaminazione e all’orrido come alla purezza e alla serenità, in entrambi i casi al massimo grado. [7] 3. Apparizioni. – Acquisita consapevolezza della →morte e prospettata una sua interpretazione metafisica, l’uomo si interrogò circa l’ipotesi che entità ormai disincarnate fossero in grado di manifestarsi ancora a livello materiale e interagire con i viventi ; il che avrebbe potuto essere fonte di pericoli e contaminazioni. In particolare germinò la credenza, riscontrabile presso la gran parte delle civiltà antiche, che il defunto al quale era mancata regolare sepoltura o ritualità funeraria versasse in un permanente stato d’inquietudine e fosse capace di arrecare fastidi a chi gli era sopravvissuto. Questo timore era assai radicato in Egitto, dove si riteneva che anche l’osservanza dei rituali potesse, talvolta, non essere sufficiente a impedire al ka [→vita] di tornare e nuocere. Quindi, nell’ambito di una cultura che non ammetteva una radicale separazione tra il mondo dei vivi e l’aldilà, capitava che si rivolgessero vere e proprie lettere ai defunti, redatte perfino secondo un ordine terminologico e concettuale dai tratti giuridici. Da un papiro della xx dinastia si apprende il caso di un uomo che, tormentato dallo spirito della moglie che pure era stata benevolmente trattata, minaccia di farle causa ; in un decreto di Amon riguardante la scomparsa principessa Neskhonsu si afferma in modo esplicito che ella non dovrà far male ai parenti. Era predisposto, inoltre, un apparato di formule magiche ed esorcismi, questi ultimi praticati soprattutto verso morti ritenuti nocivi per un  

















gruppo sociale. [8] Sebbene le più antiche tradizioni ebraiche escludessero, in linea di principio, la possibilità di manifestazioni terrene dei defunti, [9] nell’Antico Testamento si riscontrano eccezioni significative ; tale è l’apparizione di Samuele [→mantica], mentre il sacerdote Onia e il profeta Geremia si mostrano a Giuda Maccabeo. [10] Per indicare i morti capaci di presentarsi come spettri è usato talvolta il termine refaim [11] che, probabilmente, designava in origine mitiche creature gigantesche. [12] In seno alla cultura classica il tema fu assai dibattuto. Una conclusione essenziale cui si pervenne fu che non tutti erano in condizione di tornare a interagire con i viventi, ma soltanto coloro il cui trapasso era avvenuto in uno stato di liminarità che presupponeva il bisogno di compiere qualcosa per ristabilire un ordine turbato. Era, dunque, possibile distinguere le apparizioni in tre principali categorie. La più antica, nota già a Omero, era quella degli a[tafoi, i defunti privi di sepoltura, o collocati in una sepoltura irrituale, che potevano quindi tornare indietro e chiederla ; è il caso di Patroclo e di Elpenore. Vi erano poi gli a[wroi, morti prematuramente. Seguiva la grande categoria dei biaioqavnatoi, deceduti per cause violente e ansiosi di tornare a farsi giustizia ; a Roma diverranno i lemures. Inoltre, i fantasmi potevano mostrarsi in sogno (o[nar) o in veglia (u{par). Così →Platone, ma anche Cicerone e i Pitagorici sostengono l’esistenza di anime che non hanno avuto accesso all’Ade e quindi volano, attratte ancora dai propri resti mortali. Credenze e narrazioni del genere aumentarono durante il periodo ellenistico, in sé incline verso una visione orientata al soprannaturale. Plinio il Giovane (Epist. 7, 27, 5-11) raccontò la storia del filosofo Atenodoro che, trovatosi in una casa infestata, aveva interagito con lo spettro che chiedeva che le sue spoglie avessero regolare inumazione. 4. Prodigi. – Erano anomalie di vario genere, che si verificavano in totale contrasto con i meccanismi fisici e biologici consueti che apparivano come sospesi o annullati. Esse erano percepite e interpretate, dunque, quali fenomeni direttamente imputabili a entità o forze preternaturali o soprannaturali, ulteriori rispetto all’ordinaria dimensione materiale e umana. L’idea di prodigio non poté che far seguito all’acquisizione della consapevolezza che esistono leggi di causa ed effetto ; prima di allora, l’intero ciclo naturale dovette apparire un susseguirsi fluido di eventi miracolosi. [13]  

















pugnale La storia delle antiche culture è intessuta di simili episodi tramandati, nella formazione dei quali concorrono fattori mitici e simbolici con frequenti richiami a stati archetipici di conoscenza. In Egitto la preghiera per ottenere miracoli era generalmente rivolta allo stesso sovrano, in virtù del suo stretto contatto con gli dei ; così prodigi sarebbero stati compiuti da Crasso e Vespasiano, in quel frangente storico identificati con tale ruolo. [14] Nella prospettiva giudaica, erano segni divini che si manifestarono soprattutto durante la fuga dall’Egitto : così l’apertura delle acque del Mar Rosso [15] o la caduta della manna. [16] Nella temperie greca, paradigmatico è il miracolo, associato ai misteri eleusini, della spiga d’orzo che rinasceva prodigiosamente, nel suo complesso significato di frantumazione degli schemi naturali, discesa agli inferi con successiva palingenesi e simultanea manifestazione di Demetra e Persefone. Simile era quello della vite, che si sviluppava con rapidità soprannaturale durante le celebrazioni dionisiache. [17] Alquanto diffuso inoltre, a titolo esemplificativo, il fenomeno delle statue che apparivano animate o, comunque, capaci di interagire e rispondere agli stimoli esterni ; ciò anche per le caratteristiche peculiari dell’oggetto, che rinviava magicamente al modello. [18] La tradizione greca ricorda numerosi fatti straordinari che sarebbero accaduti durante l’attacco a Delfi del 279 a.C. [19] Eventi meravigliosi del mondo romano furono raccolti e classificati da Giulio Ossequente ; nel suo Liber prodigiorum, giunto solo in parte, riferì di fenomeni di origine cosmica (fra cui i clypei liviani, corpi in movimento velocissimi e illuminati, ma anche navi e perfino un altare in volo), anomalie acustiche e terrestri, stranezze biologiche e zoologiche e, infine, parti anomali e altre singolarità, come gli ermafroditi. Una trasformazione in lupo mannaro è descritta da Petronio (61-62). Il concetto di miracolo ebbe notevole risalto nel Cristianesimo (si pensi alla Resurrezione).

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Bibliografia. Bearzot 1989 ; Brillante 1988 ; Centini 1997 ; Cosi 1990 ; Di Nola 1995b ; Dunand-Zivie Coche 2003 ; Gatto Trocchi 1998 ; Jesi 1969b ; Jesi 1969d ; Jesi 1969e; Magnani 2005 ; Stramaglia 1999.  



















Francesco Cuzari















Pugnale [ejgceirivdion, xifivdion, pugio]. Arma versatile, corta e di facile trasporto, simile ad un pugnale a doppia lama, in dotazione all’esercito romano e utilizzata, dunque, non solo come strumento offensivo, ma anche come semplice coltello. Le testimonianze archeologiche collocano l’uso di quest’arma tra il 218 a.C. ed il 133 a.C. [1] Pare che venisse anche portato da personaggi che ricoprivano importanti cariche nascondendoli sotto le vesti come difesa contro i pericolosi ‘imprevisti’ nel corso della loro attività nell’ambito della quale l’omicidio politico era piuttosto frequente. Infatti tra le armi comunemente utilizzate in assassinî e suicidi figura proprio il p., basti pensare che con un’arma analoga, così come riferisce Cicerone [2] e come conferma Svetonio, [3] si consumò l’assassinio di Giulio Cesare. Varî riferimenti si trovano anche in Tacito e Svetonio. L’etimologia del nome ricondurrebbe ad una radice indoeuropea *peug-, ‘bastone’, ‘pugnale’ di corte dimensioni (cfr. pungo), infat 







Note. [1] Jesi 1969b. – [2] Centini 1997, 25-32. – [3] Cosi 1990, 12-13. – [4] Ex. 3, 5. – [5] Le. 10, 1-2. – [6] Dunand-Zivie Coche 2003, 151. – [7] Jesi, 1969e. – [8] Dunand-Zivie Coche 2003, 190-192. – [9] Jb. 7, 9-10. – [10] 2 Ma 15, 11-16. – [11] Is. 14, 9. – [12] Di Nola 1995b, 274. – [13] Gatto Trocchi 1998, 14. – [14] Magnani 2005, 25-26. – [15] Ex. 14, 19-31. – [16] Ex. 16. – [17] Jesi 1969d. – [18] Brillante 1988. – [19] Bearzot 1989.

Fig. 1. Pugnale (pugio) con fodero.

Fig. 2. Tipi di pugiones.

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putrefazione

ti si trattava una lama a forma di foglia di circa 18/28 cm. di lunghezza e fino a poco oltre 5 cm. di larghezza, il manico era direttamente inchiodato sul corpo metallico rendendone la struttura più compatta e resistente, adatta ed efficace sulla corta distanza negli scontri corpo a corpo. Note. [1] Connolly 1998, 131. – [2] Cic. Phil. 2, 28, 1-5. – [3] Svet. Iul. 82, 2 sgg. Bibliografia. Connolly 1998.

a Canopo), di solito in alabastro ma talvolta in metallo o in pietra (in rapporto alla condizione socio-economica del defunto), i cui coperchi raffiguravano in genere i figli di Horo : Duamutef, Hapi, Mesti e Qebehsenuf. [5] Era quindi provvisto di amuleti, ricoperto di bende di lino, ornato con gioielli e una maschera (anche questi di fattura e valore proporzionati al ceto) e deposto in più sarcofagi, l’uno dentro l’altro, il primo dalle fattezze antropomorfe. [6] Tuttavia, nell’Egitto faraonico i tratti somatici del defunto erano scolpiti e l’immagine era poi rivestita con materiali preziosi ; nell’Egitto greco-romano prevalse, invece, la tendenza a dipingerli su una superficie piana. Una volta purificate [→miasma] presso il bacino apposito, le mummie erano quindi trasportate alla necropoli tramite ‘barche funerarie’ fluviali o terrestri, precedute da un sacerdote che spargeva incenso e seguite da parenti e lamentatrici. [7] Gli ebrei praticavano l’inumazione ; è stato rilevato come, al tempo di Cristo, ci fossero in Giudea quarantanove tombe oggetto di culto (di patriarchi, personaggi storici, profeti e di un martire). [8] Anche il cadavere di Giuseppe, che era stato imbalsamato, trovò poi sepoltura ; [9] lo stesso accadde a quello di Saul. [10] Nel mondo greco fu, invece, prediletta l’incinerazione ; da Omero [11] il fuoco della pira è definito ‘dolce come il miele’. Attorno alle urne cinerarie si deponevano fiori e offerte. Non vi erano particolari preoccupazioni circa un’esistenza ultraterrena, che semmai cominciano a subentrare in virtù dei culti misterici. Diversa la realtà romana, dove pure si tendeva a prediligere la cremazione ma nella quale convergevano influenze storiche e religiose di varia provenienza, comprese arcaiche tradizioni agrarie che delineavano un modo assai tipico di concepire la sepoltura e l’oltretomba. La decima Tabula conteneva severe norme in materia, tali da rappresentare un vero e proprio ius sepulcrorum. [12]  





Giuseppe Lupini Putrefazione [sh`yi~, putrefactio]. 1. Generalità. – È il più importante processo di decomposizione post-mortale delle sostanze organiche, in particolare di quelle proteiche. È cagionato dall’azione di batteri aerobi e, soprattutto, anaerobi, i cui enzimi determinano la fermentazione putrida dei tessuti e, dunque, la produzione di gas e di composti basici azotati (ptomaine). 2. Cenni storici. – Il verificarsi della →morte già dai tempi più antichi obbligò l’uomo a interrogarsi circa il senso della trasfigurazione che il defunto subiva e a predisporre strategie idonee ad allontanarlo dal gruppo sociale, evitando così di esporre quest’ultimo a pericoli igienici e sanitari. Sicché, al di là delle implicazioni religiose e rituali, fin dalla preistoria la sepoltura del →cadavere ebbe la precipua funzione di liberare da esso la comunità. [1] Altri espedienti adottati a tale scopo furono l’endocannibalismo, l’imbalsamazione e la cremazione. Il significato antropologico di quest’ultima è, in realtà, molto affine a quello dell’inumazione ; ardere il corpo, infatti, non equivale a distruggerlo totalmente, poiché residuano le ceneri. [2] La putrefazione era temutissima presso la cultura egizia. I Testi delle Piramidi come il Libro dei Morti indugiano sui vermi che divorano la salma ormai ridotta a massa putrida e nauseabonda ; [3] così, sul sarcofago di Zehapemon, funzionario reale del periodo saiticopersiano, la cui anima è raffigurata in bassorilievo mentre vola verso il sole, è scolpita una invocazione rivolta alla divinità affinché i suoi resti siano protetti dal degrado. [4] Per fronteggiare il fenomeno, fu messa a punto una complessa tecnica (naturalmente a beneficio di chi rivestiva alte cariche o possedeva bastevole ricchezza), applicata da operatori specializzati e che richiedeva un tempo di settanta giorni. I visceri erano estratti e conservati nei quattro vasi detti ‘canopi’ (poiché, dapprima, messi in relazione con un supposto culto tributato  

























Note. [1] Spedini 2005, 178. – [2] Morin 2002, 149. – [3] Dunand-Zivie Coche 2003, 185. – [4] Penso 1990, 8. – [5] de Rachewiltz 1983, 65. – [6] Dunand-Zivie Coche 2003, 195-196. – [7] de Rachewiltz 1983, 51-52. – [8] Jeremias 1958. – [9] Jo. 24, 32. – [10] 1 Ch. 10, 12. – [11] Hom. Il. 7, 410. – [12] Valvo 1990. Bibliografia. Dunand-Zivie Coche 2003 ; Grasso 2006 ; Jeremias 1958 ; Morin 2002 ; Penso 1990 ; de Rachewiltz 1983 ; Spedini 2005 ; Valvo 1990.  











Francesco Cuzari



R Reni [nefrov~, ren]. Le conoscenze relative ai reni nel Corpus Hippocraticum sono abbastanza approssimative : i due organi sono paragonabili alla forma del cuore e ritenuti cavi ; [1] sono di grandezza uguale e di colore simile alla mela ; [2] sono localizzati nella regione delle anche e sono circondati da grasso. [3] Anche i reni hanno ghiandole : saturandosi di umidità, la loro grandezza cresce notevolmente rispetto alle altre ghiandole. [4] Nei reni, che filtrano ciò che si è bevuto, avviene il processo di separazione di sangue e urina, che, per questo motivo, è talora rossiccia. [5] Anche ‘il seme’ giunge dai reni ai testicoli. [6] Articolata e più precisa è la descrizione di Ps. Rufo che, evidentemente, come →Galeno, attinge all’anatomia di età ellenistica : i reni sono posizionati all’altezza delle ultime vertebre del rachide ; hanno il colore delle lenticchie, piuttosto cinereo ; il rene destro è un po’ più grande e posizionato più in alto rispetto al rene sinistro ; la loro struttura è piuttosto densa e lobosa ; la parte concava ha delle membrane, forate come crivelli. [7] Per Galeno il rene destro è posizionato più in alto rispetto al sinistro. [8] Entrambi purificano il sangue e presiedono al mantenimento dell’equilibrio dell’eliminazione dell’acqua. [9] – Uretere. Parlando di rene, sarà opportuno fare un cenno all’uretere [oujrhthvr, ureter], citato numerose volte da Ippocrate, ma per indicare l’urethra, come è evidente dal passo seguente : « I calcoli non si manifestano nelle donne allo stesso modo che negli uomini ; in effetti l’ureter della vescica è corto e largo, in modo che l’urina può essere espulsa più facilmente ». [10] In diverse altre occorrenze è attestato oujrhvqrh. Anche in →Aristotele ureter è impiegato con il valore indubbio di urethra. Soltanto molti secoli più tardi →Areteo [11] usa uretere con valore moderno e distinto da uretra ; Galeno, nel secolo seguente, spiega il valore esatto di uretere : [12] « Infatti si sviluppano i cosiddetti ‘ureteri’ [...] ». Il termine è formato col suffisso gr. -thvr, derivato dall’indoeuropeo -ter, assai frequente per termini medici, sia per parti del corpo umano, come masse-ter, sphincter, cremas-ter, sia per strumenti, come ad es. cathe-ter, clys-ter, cau-ter etc.  











L. – [3] Ep. 23/ 9, 396 L. – [4] Gland. 6 / 8, 560 L. – [5] Oss. 4/ 9, 170 L. – [6] Genit. 1 / 7, 470 L. – [7] Ps. Ruf. Anat. 51-52 / 181 D R. – [8] Anat. admin. 6, 13 / 2, 580 K. – [9] Us. part. 5, 6 / 3, 367 K. ; Us. part. 4, 6 / 3, 273 K. – [10] Hp. Aër. 9 / 2, 40-42 L. – [11] 4, 3, 6. – [12] Us. part. 5, 5 / 3, 362-367 K.  

Fonti. Hp. Genit. 1. 7, 470 L ; Anat. 1 / 8, 538 L ; Oss. 4 / 9, 170 L ; Ep. 23/ 9, 396 L ; Gland. 6 / 8, 560 L ; Aer. 9 / 2, 40-42 L ; Ps. Ruf. Anat. 51-52 / 181 D R ; Aret. 4, 3, 6 ; Anat. admin. 6, 13 / 2, 580 K ; Us. part. 4, 6 / 3, 273 K ; Us. part. 5, 6 / 3, 367 K.  



















Bibliografia. Bleker 1975 ; Kölbing 1967 ; Marcovecchio 1993, 738, 899 ; Mazzini 1997, 226-227 ; Scarborough 1976b.  









Sergio Sconocchia

























Retorio. Astrologo greco del vi (o vii ?) [1] secolo d.C., originario dell’Egitto. La sua importanza nell’ambito della storia dell’astrologia è dovuta alla funzione di raccordo tra la tradizione astrologica tardo-antica e il mondo bizantino al quale consegna una serie di materiali appartenenti a metodi e tradizioni differenti, inglobando, tra l’altro, autori quali Antioco, Doroteo, Paolo Alessandrino, Teucro, Tolomeo, Vettio Valente. [1] Pare che il suo Compendio astrologico constasse di 118 capitoli, in buona parte pubblicati nelle appendici del Catalogus Codicum Astrologorum Graecorum. [2] Il testo di R. secondo l’epitome del cod. Paris. gr. 2425 è stato edito nella nuova, recentissima edizione di PingreeHeilen, che porta la data del 2009. [3]  







Note. [1] Pingree 1977, 203-223. – [2] Edd. F. Boll, ccag i, 140-64 ; ccag vii, 192-213 ; 213-226 ; A. Olivieri, ccag ii, 186 e s. ; St. Weinstock, ccag v 4, 122-154 ; F. Cumont, ccag viii 4, 115-225 ; ccag viii 1, 220-248. – [3] Pingree-Heilen 2009.  











Bibliografia. Gundel-Gundel 1966, 249 sgg. ; Pingree-Heilen 2009.  

Carmelo Lupini









Note. [1] Hp. Oss. 4 / 9, 170 L. – [2] Anat. 1 / 8, 538

Riproduzione vegetale. 1. – Nella →botanica teofrastea, di matrice aristotelica, sono distinte due tipologie di riproduzione vegetale : una naturale (kata; fuvsin) e una artificiale (ajpo; tevcnh~). Modalità di riproduzione naturale sono : riproduzione spontanea (aujtovmato~), per seme (ajpo; spevrmato~), per radice (ajpo; rJivzh~). Modalità artificiali : sono quelle  





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riproduzione vegetale

per talea (una qualsiasi parte di vegetale in grado di riprodursi), attraverso pollone (ajpo; paraspavdo~), rami, ramoscelli o parti di fusto (ajpo; ajkremovno~ h] ajpo; klwno;~ h] ajp’aujtou` tou` stelevcou~), inserite direttamente nel terreno (trapianto : ejmfuteiva) o su un altro esemplare (innesto : ejnofqalmismov~). La crescita dell’individuo è in ogni caso superiore con la riproduzione per talea, rispetto al seme (Theophr. HP 1,8 ; ripreso in Geop. 10,3). La fondamentale distinzione teofrastea è ripresa, poeticamente, da →Virgilio, nell’opposizione natura/ usus (georg. 2,9-34). →Varrone, da un punto di vista più agronomico, distingue riproduzioni per seme (semina), per trapianto, per talea e per innesto (r.r. 1,39,3) ; →Plinio (nat. 16,134) parla di riproduzione spontanea, per seme o per radice (sponte aut semine aut ab radice), ma poi divide i due libri sugli alberi in specie che crescono spontaneamente (xvi) e specie che si riproducono per la tecnica dell’uomo (xvii). 2. Riproduzione ‘naturale’. – Nelle piante non ‘addomesticate’ i modi di riproduzione quasi esclusivi sono per seme e per radice. La cosiddetta « generazione spontanea » (aujtovmato~), contemplata anche da →Teofrasto (HP 3,1,4, che tuttavia la ritiene « una cosa che sfugge per lo più all’osservazione dei sensi » ; CP 1,1,2 ; 1,5 ; Varr. r.r. 1,40,1 ; Plin. nat. 16,93-96) risaliva – come dottrina – ad →Anassagora, ed è attestata anche per Diogene e Clidemo : l’aria contiene i semi di ogni specie, così come l’acqua che, putrefatta e mescolata con la terra, può dare origine a vegetali. La cognizione che le piene dei fiumi, le piogge abbondanti o il terreno smosso diano origine a vegetazione è un punto fermo : gli autori oscillano però tra l’idea che tale generazione avvenga per via dei semi contenuti nella terra o trasportati dall’acqua, o perché « la terra abbia una certa virtù » (HP 3,1,6). Bagnare la semente, nella riproduzione di piante ‘domestiche’, è una pratica diffusissima, soprattutto per →legumi e →cereali. La crescita ‘naturale’ dei vegetali è sottolineata soprattutto dallo sviluppo dei germogli primaverile-estivo, che fa da contrappunto allo sviluppo dell’apparato radicale nel periodo autunnale-invernale (CP 1,11-12 ; Plin. nat. 16,97-104) : è da questi germogli che si selezionano le marze più resistenti e adatte alla riproduzione artificiale. 3. Riproduzione ‘artificiale’. – I vegetali coltivati si distinguono da quelli selvatici proprio  



































perché passibili di operazioni di riproduzione artificiale. E proprio nella programmazione, preparazione e cura della riproduzione vegetale (piantagione o propagazione) risiede in fondo il carattere distintivo e umano dell’→agricoltura, in confronto alla vegetazione naturale ([Ar.] Pr. 20,12, 924a ; Theophr. HP 2,5). La propagazione più comune è quella per talea o per seme. Ben nota era la predilezione di questa o quella specie per una piuttosto che per un’altra modalità di riproduzione. Ma la distinzione fondamentale è che gli alberi nascono soprattutto da talee, le altre classi dal seme (Theophr. HP 2,1,4 ; CP 1,1,3 ; 1,3,4). Dal metodo di riproduzione dipende anche lo sviluppo della pianta : molte specie (come la vite, il melo, il fico, il pero, l’olivo) si inselvatichiscono e degenerano se riprodotte per seme. Il seme, del resto, contiene in modo potenziato le qualità di una pianta ([Ar.] Pr. 20,10, 923b), in particolare la sostanza vitale (Theophr. CP 1,7,1-3, e già Emped. B 79 D.-K.). Nella riproduzione per seme la selezione delle sementi gioca un ruolo importantissimo (Theophr. CP 4,3,5 ; HP 1,1 ; 1,7,1-3 ; Varr. r.r. 1,40,3 ; Verg. georg. 1,193-203 ; Geop. 2,15-17 e 19) : i semi migliori sono quelli di uno o due anni ([Arist.] Pr. 20,17, 924b), ma ogni specie ha il proprio tempo di semina, che è essenziale conoscere (→calendario dei lavori : Colum. 2,8 ; Geop. 2,12-14), così come la quantità di semente da gettare sulla misura standard di terreno, per ogni specie (Varr. r.r. 1,44 ; Colum. 2,9 ; Plin. nat. 18,195201) ; importante è anche la preparazione del seme alla semina (per esempio l’ammollo), nonché alcuni accorgimenti per non farlo rovinare nei primi tempi dopo la semina (Geop. 2,17-19). Fondamentale è anche la preparazione del semenzaio : occorre pensare alla sua posizione, alla protezione dalle intemperie, alla composizione del terreno (Cat. agr. 46-48 ; Varr. r.r. 1,47 ; Plin. nat. 17,65-75). La riproduzione per talea è possibile – o riesce meglio – in proporzione alla quantità di linfa propria del virgulto da piantare : vegetali che hanno parti secche non sono adatti a questa tecnica di riproduzione (Theophr. CP 1,3). 4. L’innesto. – Fra le tecniche di riproduzione vegetale quella più ‘artificiale’ è l’innesto (insitio) : l’impianto di una parte vegetale (‘oggetto’, ‘nesto’, ‘marza’) su un’altra (‘soggetto’, ‘portainnesto’), allo scopo di dar vita ad un nuovo esemplare o di rigenerarne uno vecchio. È una delle tecniche agronomiche  







































rufo di efeso più raffinate e importanti, ed è descritta in ogni autore della tradizione antica : Theophr. CP 1,6 ; Cat. agr. 40-41 ; Varr. r.r. 1,40,5-41 ; Verg. georg. 2,47-82 ; Colum. 5,11 ; arb. 26-27 ; Plin. nat. 17-99-122 e 137-138 ; Geop. 10,75-77 ; Palladio dedica al tema addirittura un poemetto, il De insitione. Tre sono i principali tipi di innesto : per approssimazione (sub cortice), con contatto forzato di due rami non separati dalla pianta madre ; a spacco (in trunco), con inserimento di marza con gemme su un soggetto tagliato orizzontalmente ; a gemma (emplastrum), con inserimento di una marza con gemma sotto la corteccia del soggetto, attraverso un taglio a T. È Plinio a testimoniare la tradizione etiologica per cui sarebbe stata la natura stessa a dare l’esempio dell’innesto all’uomo : escrementi di uccelli contenenti semi digeriti, depositati sulle giunture dei rami, avrebbero dato vita a una nuova pianta (nat. 17,99) ; il caso avrebbe invece ispirato il tipo di innesto ‘a spacco’ : sempre Plinio racconta l’episodio leggendario di un agricola che avrebbe visto germogliare dai pali della sua recinzione, circondati da edera, nuovi rami : apparuitque truncum esse pro terra (nat. 17,101). In realtà, nonostante la sacralità di cui, per certi versi, è ammantata l’operazione dell’innesto, i numerosi metodi che già in antichità erano conosciuti per tale operazione sono il frutto di un lungo perfezionamento. Già in Teofrasto si formulano criteri essenziali per l’innesto, come la omogeneità tra soggetto e oggetto (i due vegetali devono essere oJmoiovfloia, oJmogenh`, oJmoiopaqh`) e il periodo migliore (CP 1,6 ; cfr. anche Colum. arb. 26-27). Si considerava propizio compiere l’operazione a luna crescente (simpateticamente simbolo di ‘sviluppo’, e quindi di buona riuscita dell’innesto). Le tecniche di innesto, dall’età alessandrina, avevano raggiunto un livello di sperimentalismo quasi parossistico, come garantiscono alcune testimonianze antiche (Geop. 10,69) ; Plinio (nat. 15,37) dichiarava : « in questo ambito si è da tempo raggiunto il livello massimo, perché gli uomini hanno saggiato ogni possibilità […]. Non è possibile escogitare trattamenti nuovi : è un fatto che già da tempo non viene scoperto un frutto nuovo. E non è permesso dalla religione di mescolare qualsiasi specie innestandola : è impedito ad esempio l’innesto sulle piante spinose, poiché non è facile scongiurare il presagio del fulmine e poiché il numero dei fulmini che si abbattono in un sol  











































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colpo corrisponde – si dice – a quello delle specie innestate ». E, invero, il catalogo di innesti virgiliano (che forse Plinio prendeva di mira) risulta assai fantasioso, con proposte irrealizzabili (georg. 2,33-72). 5. Il trapianto. – Il trapianto si distingue dalla riproduzione per talea in quanto è l’intero esemplare ad essere trapiantato in un altro sito. Una convinzione già antica vuole che alcune specie si giovino di un trapianto frequente. Teofrasto illustra alcuni princìpi guida per l’operazione : la stagione più opportuna (primavera), la necessità di acqua (CP 1,6). Cospicua è anche la sezione pliniana (nat. 17,76-87). Tra le specie adatte al trapianto è l’olivo (Cat. agr. 28). Possibile, ma sconsigliato, il trapianto per specie arboree di grande taglia (Geop. 10,85). 6. La propagginazione. – Un sistema molto impiegato, soprattutto per alcune colture, in primis la vite, ma anche l’olivo e alcuni alberi da frutto (fico, melograno, melo), nonché alcuni →arbusti (alloro e mirto), è la propagginazione (propagatio), che consiste nell’interramento di un pollone pedalico per sviluppare un apparato radicale ; una volta raggiunto questo stato, il pollone è reciso dall’albero e costituisce un nuovo esemplare. Non menzionata in Teofrasto, è descritta in →Catone (agr. 51, 133) e in Plinio (nat. 17,96-98). 7. La margotta. – Illustrato già da Teofrasto (HP 2,5,3), e poi da Catone (agr. 52), è tuttavia un metodo dispendioso e di non facile riuscita : gli agronomi romani non sembrano tenerlo in grande considerazione (Pallad. 3,10,6).  







Bibliografia. Isager-Skydsgaard 1992, 19-43; Maggiulli 1998.

Emanuele Lelli Rufo di Efeso. Medico greco; sappiamo che compì almeno una parte dei suoi studi ad Alessandria e visse sotto l’imperatore Traiano (98-117 d.C.), esercitando la sua professione anche a Roma. Ci restano di lui quattro scritti in greco. [1] Inoltre, a testimonianza della notorietà raggiunta da Rufo nel mondo antico e alto medievale, ci sono pervenute anche alcune →Traduzioni (mediche) in latino e arabo, nonché numerose citazioni da parte di autori successivi, quali →Galeno, →Oribasio, →Paolo Egineta e vari titoli di opere andate perdute. Il suo pensiero scientifico è impostato  

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rufo di efeso

sulla medicina ippocratica [→Ippocrate], di cui accolse, in ambito fisiologico [→fisiologia], la teoria umorale. Fu senz’altro un esperto di →terapeutica, occupandosi tra l’altro di →dietetica. Mantenne un atteggiamento autonomo nei confronti delle autorità del passato, non mancando di sostenere con decisione il proprio parere. La sua vasta cultura spaziava dalla →medicina alla →filosofia e ad altre branche del sapere, come possiamo dedurre dai continui rimandi rintracciabili nelle sue

opere, in cui vengono menzionati, tra gli altri, →Pitagora e →Aristotele. Note. [1] De renum et uesicae morbis, De corporis humani partium appellationibus, De satyriasi et gonorrhoea, Quaestiones medicinales. Bibliografia. Daremberg-Ruelle 1879 ; Ihm 2005b ; Nutton 2001c ; Sideras 1977 ; Sideras 1994 ; Thomssen-Probst 1994 ; Ulmann 1994.  











Francesco Fiorucci

S Salse. 1. Gli ingredienti. – Nella cucina antica, e in quella romana in particolare, il condimento aveva un’importanza determinante. Per le verdure e i legumi, come per la carne, i pesci e i frutti di mare, era la salsa che determinava la qualità del piatto modificando la natura degli odori e dei sapori che la materia prima perdeva durante le varie cotture. Tra gli ingredienti più consueti delle salse ricordiamo : la senape, il coriandolo, il ligustico, il cumino, l’aneto, il timo, la ruta, l’apio, il finocchio e poi la sapa, il miele, il passito. Molte erano le spezie esotiche utilizzate, come il pepe, che proveniva dall’India, prezioso, non tanto per il suo valore economico, quanto perché è lo strumento che meglio prepara la bocca all’accoglienza dei sapori e che ne sostiene più a lungo la memoria ; il laserpicio, il più raro e costoso dei condimenti dell’antichità ; il malabatro, il costo, lo zenzero ; queste spezie erano considerate molto preziose e il loro possesso sinonimo di lusso e ricchezza. Il loro valore economico derivava certamente anche dalla loro relativa rarità provenendo da luoghi lontani ed esotici. A questi si univa talvolta lo zafferano e il macerone. Data l’abbondanza di condimenti e spezie adoperati, potremmo dire che le salse si assomigliavano tutte, ma in realtà si differenziavano o per metodo di preparazione, o per la qualità degli ingredienti adoperati o per il sapore. Esse potevano essere crude, cotte, calde, o cotte ma da consumarsi fredde. 2 I termini più comuni. – Vari sono i termini che le contraddistinguevano. Esistevano nomi generici come sucus e humor e termini con molteplici significati, uno generico prevalente e tanti specifici. Tra questi ricordiamo conditura che, nel suo significato generico indicava ‘una salsa, un brodino’, e nei suoi significati specifici rappresentava sia il metodo di conservazione dei cibi sotto sale e aceto (Colum. 12, 4, 4 ; 12, 11, 1 ; 12, 11, 2 ; 12, 49, 9) sia il condimento usato per conservarli (Colum. 12, 7, 2 ; 12, 7, 5 ; 12, 49, 2 ; 12, 49, 4 ; 12, 49, 8) ; ed ancora la preparazione del miele da parte delle api (Sen. epist. 84, 4), o, addirittura, indicava la tecnica di manipolare il vetro per renderlo infrangibile (Petron. 51 e Isid. orig. 20, 2, 32). Altro termine con molteplici significati è ius che presentava il significato  























generico di ‘salsa, brodo, sugo, intingolo’ e poi altri significati quali ‘decotto’, soprattutto in relazione alla sfera semantica della medicina (per esempio il decotto di malva in Cels. 5, 27, 12), ed ancora ‘liquido’ usato per la conservazione di cibi sotto sale (Colum. 12, 4, 2 ; 12, 7, 2 ; 12, 7, 3, 5 ; 12, 7, 26 ; 12, 52, 15 ; 12, 58, 2) ; ‘succo tintorio di porpora’ (Plin. nat. 9, 138 ; 35, 44). Ius presentava anche un valore metaforico e ambivalente : ius = intingolo, sugo e ius = lex (Plauto, Cicerone, Petronio, Vespa, Claudiano e Venanzio Fortunato). Esistevano poi termini che, in origine, avevano un significato, e poi ne hanno assunto un altro, più specifico o traslato. Tra questi : embamma che, nel corrispondente termine greco e[mbamma, indicava una salsa in senso generico, un intingolo, un condimento nel quale si immergevano i cibi (e[mbamma deriva infatti da ejmbavptw, «immergo, intingo») e poi assunse una connotazione più specifica di ‘condimento a base di aceto, miele e mosto’ che veniva preparato per insaporire i cibi e stimolare l’appetito ; (h)ypotrimma (uJpovtrimma) che letteralmente significava ‘preparato amarognolo e piccante di erbe peste’, ma in età imperiale perse il suo significato originale e designò una salsa dolciastra, densa e saporita, ideale accompagnamento di insalate e verdure amare a base di formaggio, miele, aceto, varie spezie e mosto cotto ; (p)tisana che letteralmente indicava ‘l’orzo’ schiacciato e mondato, poi assunse un significato traslato di ‘crema o succo d’orzo’, una specie di crema intermedia tra la minestra e una salsa vera e propria. 3. Salse di pesce. – I Romani producevano quattro diverse salse di pesce : allec, garum, liquamen, muria. L’allec (a[llhx) veniva usato nell’antichità sia come condimento, sia come companatico. Il popolino romano, gli agricoltori e i soldati romani, non potendosi permettere il lusso del garum vero e proprio, lo gustavano avidamente come una ghiottoneria a buon mercato. [1] Nella sua accezione primaria, il termine significava faex gari, ossia il ‘residuo’ del garum, ma anche il garum allo stato intermedio di decomposizione, [2] la polpa del pesce non ancora giunta alla completa decomposizione liquida (Plin. nat. 31, 95). [3] In senso lato e in un momento successivo ha assunto il significato di ‘salsa di pesce’, preparata appositamen 





























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salse

te e a prescindere dal garum, impiegando la piccola acciuga o, comunque, pesci di piccole o modeste dimensioni, interiora o pezzettini di pesce disseccati e fermentati (Plin. nat. 9, 66 ; 31, 95). [4] Il termine garum (gavron) indicava una salsa che veniva ottenuta lasciando macerare in soluzione fortemente salina pesci di diverse qualità o talora anche le loro interiora. [5] Il garum, il cui uso, ereditato dai paesi orientali, era stato trasmesso dai Greci [6] ai Romani, divenne col tempo l’ingrediente principale della cucina antica. Il garum è uno degli alimenti più controversi tra quelli usati nella cucina romana, molto lontana dai nostri condimenti. Taluni, [7] considerando la sua composizione ed i suoi ingredienti, reputano questa salsa disgustosa, sgradevole e nauseabonda, affermando addirittura che i nostri stomaci non potrebbero tollerare una pietanza preparata con garum e che sarebbe adatta tutt’al più a dei palati barbari. [8] Essi si sono lasciati probabilmente influenzare dalle descrizioni negative fatte sul garum da Plinio, →Seneca, Marziale, →Celso. →Plinio infatti definisce la salsa di pesce putrescentium sanies, marciume di cose putrefatte, perché ottenuta facendo macerare nel sale intestini di pesci e altre parti che sarebbero da buttare via. [9] Anche Seneca, pur definendola pretiosa malorum piscium sanies, ‘prezioso succo di pesci decomposti’, mette in guardia dai danni che potrebbe arrecare allo stomaco. [10] Marziale lamenta invece lo sgradevole odore del garum, paragonando il cattivo odore di Taide a quello di un’anfora infetidita da salsa di pesci marcia [11] e criticando l’alito di Papilo che trasforma anche il profumo più prezioso in garum. [12] Celso lo annovera tra le pietanze nocive al pari della carne salata e del formaggio stagionato. [13] Recentemente i giudizi negativi sul garum si sono attenuati da quando alcuni studiosi hanno messo in evidenza come esso non sia per niente un liquido di pesce putrefatto, ma al contrario un autolisato proteico di grande valore nutritivo, composto di aminoacidi liberi assimilabili immediatamente dall’organismo. [14] Il liquamen (likouavmen) è la più enigmatica di tutte le salse. La parola compare nella letteratura latina a partire dal De re rustica di →Columella che risale al 60-65 d.C. e non ha alcun corrispondente nei termini greci. [15] Esso è stato usato dai Romani nel corso dei secoli per designare  





















liquidi diversi, incluso la salsa di pesce. Ancora oggi gli studiosi non sono concordi sull’esatto significato di questa salsa. Per il suo stretto legame col garum infatti liquamen è stato considerato dai più come l’equivalente latino del greco gavron ; per altri studiosi invece esso ha un significato diverso dal garum, più generico. Certamente, sarebbe molto riduttivo interpretarlo come un sinonimo di garum. Il termine liquamen infatti presenta molteplici valenze : il significato generico di ‘sostanza liquida’ tratta da vari tipi di cibi, diversi dal pesce ; il significato generico di ‘salsa di pesce’ ; o è usato come ‘sinonimo di garum’ ; o presenta il significato di ‘liscivia’. Muria era una salamoia nel senso attuale del termine – cioè un’acqua fortemente salata e aromatizzata destinata a conservare legumi, frutta, olive, pesci ; era anche il prodotto della fermentazione delle viscere e delle branchie del tonno, mescolato al sangue e agli altri liquidi che si scolavano da questo pesce. Il garum si usava spesso mescolato con altri ingredienti in modo da formare delle salse miscelate, composte di garum, di cui quattro prendevano il nome dal loro ingrediente base fondamentale : eleogarum (ejlaiovgaron), a base di olio, hydrogarum (uJdrovgaron), a base di acqua, oenogarum (oijnovgaron), a base di vino, oxygarum (ojxuvgaron), a base di aceto. 4. Gli hapax Apiciani. – Alcuni termini sono utilizzati solo da →Apicio, il quale scrisse un trattato sulle salse e i condimenti, il De Condituris, di cui restano ampi frammenti proprio nell’opera maggiore che gli viene attribuita, il De re coquinaria. Tra questi hapax apiciani ricordiamo : amulatum, coriandratum, cuminatum, laseratum (tutti aggettivi neutri sostantivati in -atum di derivazione sostantivale). L’amulatum era una specie di fecola ottenuta dalla farina per macerazione e successivo essiccamento ; il coriandratum era un condimento ricercato dagli ingredienti a base di coriandolo che serviva a condire l’aragosta ; il cuminatum, una salsa al cumino adatta anch’essa al pesce ; il laseratum, un condimento pregiato a base di laser, il più raro e costoso dei condimenti dell’antichità. Altre salse attestate solo da Apicio sono l’apotermum, che probabilmente era, più che una salsa, un budino freddo di semola, con pinoli, uvetta e mandorla, addolcito da mosto cotto e passito ; l’eleogarum, a base di garum e olio ; l’em 

























salse bractum – il cui termine presenta un’incerta etimologia (possiamo tradurlo solo con i termini generici di ‘salsa, sugo’, etc.) – che forse era una salsa piccante che si preparava in pentola o in umido ; la salsa moretaria, un miscuglio di erbe (menta, finocchi, ruta), spezie (coriandolo, ligustico, pepe) al mortaio, miele, liquamen e aceto ; la sala cattabia/caccabia (il cui termine ha un’etimologia incerta) che si presentava come una salsa preparata col brodo delle cosiddette ‘pignatte’, fatta di un misto di legumi, verdure e carni tagliate a pezzi. La salsa era caratterizzata da due elementi fondamentali : formaggio vaccino stagionato e pane. Indispensabile era ritenuto il raffreddamento, ottenuto sia depositando il piatto in un recipiente di acqua molto fredda, sia ricoprendolo di neve. 5. Usi terapeutici. – Nell’antichità esisteva uno stretto legame tra le ricette culinarie e quelle mediche. Molti condimenti infatti avevano la duplice funzione di ‘prescrizioni mediche’ e di ingredienti di base per vari tipi di piatti, come minestre, polte, zuppe di legumi, di carne o di pesce, e per gli spezzatini. Basti ricordare le salse a base di pesce, come l’allec, che possedeva delle proprietà terapeutiche per uomini e bestie : curava infatti l’ulcera e le verruche negli uomini, la scabbia negli ovini ; il garum, ottimo digestivo, rimedio contro la sciatica e la paralisi, contro la sordità e il tumore delle orecchie negli uomini, contro la cataratta nei cavalli ; le salse a base di garum : l’oxygarum, che era un buon digestivo e una buona medicina per l’eccesso di flemma o contro le emorragie ; l’(h)idrogarum che aveva la funzione di stimolare l’evacuazione ; l’oenogarum, efficace contro la paralisi e il mal di stomaco. Altre salse con questa duplice funzione erano : il piperatum, che nell’arte culinaria era un vino aromatizzato (così è ricordato da Plinio [16]) e una salsa a base di vino e pepe (Apicio [17]) e, nella medicina, era utile contro la diarrea ; la concicla, il cui termine indica la ‘fava cotta intera col suo baccello’, ma, con valore metonimico, una sorta di ‘purea’ a base di legumi, fave o piselli, e spezie, che serviva per cucinare carne o uova, [18] o un rimedio contro le infiammazioni dei testicoli ; [19] l’embamma – salsa a base di aceto, mosto [20] o miele [21] e liquamen – che aveva la funzione di insaporire le verdure o comunque i cibi dal sapore aspro, come la cicoria e la  























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carne di cervo, o i crispigni, ma che aveva varie funzioni terapeutiche : era utile contro i problemi respiratori, [24] contro i problemi di digestione [25] o serviva ad alleviare le irritazioni della gola. [26] Ricordiamo poi l’oxypor(i)um (ojxupovrion), un preparato a base di aceto e pepe, altre spezie ed erbe e, a volte, anche il garum, che aveva la funzione di digestivo : serviva infatti per digerire le lattughe e per rimettere a posto lo stomaco in subbuglio; nelle ricette più propriamente mediche si presentava costituito, non da aceto e garum, ma da spezie varie tritate e unite semmai al miele o al mosto, ed era una panacea per i calcoli, i dolori ai reni, le coliche, le emorroidi, o addirittura contro la tosse e il cancro alla mammella. Significativa è poi la (p)tisana, crema d’orzo che aveva una duplice proprietà, quella di alimento e quella di medicina prescritta spesso contro i problemi intestinali, per le malattie dell’apparato respiratorio, contro il mal di testa e le vertigini, e aveva delle proprietà curative anche per gli animali, ad esempio contro l’insolazione delle bestie da soma. [27]  



Note. [1] Valerio 1989. – [2] Dosi- Schnell 1990, 212. – [3] André 1981a, 112-113. – [4] Forcellini vol. 1, 175 s. v. ālec ; ThlL vol. 6 c. 2517, l. 38 s. v. (h) allec et (h)allex. – [5] Forcellini vol. 2, 576 s. v. gărum vel garon, 1, n. 2 ; Thll vol. 6, c. 1699, l. 48 s.v. garum, -ī. – [6] In Grecia il termine appare già a partire dal vi-v sec. a. C. La prima attestazione è in Eschilo (fr. 211 Radt) : per lui il garo è nome maschile, gavro~. Per gli altri autori greci invece è maschile, come poi sarà in latino : ricordiamo le attestazioni di Sofocle (Trittolemo, fr. 549 Radt) e dei poeti comici Cratino (fr. 312 K.-A.), Ferecrate (fr. 188 K.-A.), Platone (215 K.-A.). – [7] Paoli 1990, 82. – [8] Radcliffe 1926, 212. – [9] Plin. nat. 31, 93. – [10] Sen. epist. 95, 25. – [11] Mart. 6, 93, 6. – [12] Mart. 7, 94, 2. – [13] Cels. 2, 21, 28 ; 2, 25, 20. – [14] Cfr. Grimal-Monod 1952 ; Jardin 1961 ; PonsichTarradell 1965 ; Curtis 1983 ; Ricotti 1983. – [15] Il termine esiste solo nei →geoponica (20, 46) : To; kalouvmenon likouavmen ou{tw givnetai… – [16] Plin. nat. 14, 108. – [17] Apic. 102 ; 148 ; 292 ; 399. – [18] Apic. 175-178 ; 195 ; 196 ; 197-200. – [19] Marcell. med. 33, 1. – [20] Colum. 12, 34. – [21] Apic. 109 ; 345. – [22] Apic. 345. – [23] Plin. nat. 22, 88. – [24] Plin. nat. 22, 88. – [25] Marcell. med. 20, 74 ; 30, 41. – [26] Alex. Trall. 3, 19, p. 183 Puschmann. – [27] Veg. mulom. 2, 8, 6.  



































Bibliografia. André 1981a, 112-113 ; Curtis 1983 ; Dosi-Schnell 1990, 212 ; Grimal-Monod 1952 ;  



   

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sambuca

Jardin 1961 ; Paoli 1990, 82 ; Ponsich-Tarradell 1965 ; Radcliffe 1926, 212 ; Ricotti 1983 ; Valerio 1989.  









Annalisa Romano Sambuca [sambuvkh, sambuca]. La s. era una sorta di grande scala utilizzata negli assedi delle città. Montata normalmente sulle navi [→nautica], era dunque un’arma [→polemologia] in dotazione alla flotta, adatta per l’assalto delle fortificazioni dal mare. Era inizialmente adagiata sul ponte delle navi stesse e poi sollevata da gruppi di marinai con l’ausilio di funi assicurate a pulegge in cima agli alberi, mentre altri spingevano con delle pertiche. Alla sommità era dotata di una piattaforma che doveva giungere all’altezza delle mura o delle torri, per garantire un punto di manovra ai soldati che dovevano infine penetrare nelle difese nemiche. La costruzione e la gestione logistica di un mezzo del genere richiedevano sforzi non indifferenti, tanto che →Ateneo Meccanico (27-28) racconta di come certe sambucae mal costruite causarono la morte degli sventurati aggressori che furono chiamati a servirsene. Il nome sambuca è propriamente quello di uno strumento a corde simile ad un’arpa [→strumenti musicali], in seguito attribuito anche al mezzo militare, perché il complesso della nave e della scala con le corde tese per issarla somigliava appunto alla forma dell’originale sambuca (Plb. 8, 4). [1] L’episodio più celebre dell’antichità connesso all’utilizzo di questa macchina [→meccanica] è senz’al 

tro l’assedio di Siracusa da parte di M. Claudio Marcello nel 214-212 a.C., in cui trovò la morte anche il grande matematico →Archimede, coraggiosamente votato alla difesa della sua città (Plu. Marc. 15 sgg.). L’ammiraglio romano si servì di ben quattro grandi sambucae per attaccare la fortezza nemica che era a picco sul mare. Per dare un’idea della grandiosità dell’impresa, che traspare dalle parole degli autori che ce la raccontano, basti dire che ogni scala era posizionata su una piattaforma composta da due quinqueremi [→polieri] opportunamente modificate e legate insieme (Plb. 8, 4). Nonostante gli ingegnosi artifici dei Romani, la superiorità tecnica di Archimede all’inizio prevalse e la città cadde solo dopo lunghi sforzi. Non molto dissimile doveva essere il mezzo impiegato dal re Mitridate nel tentato assedio di Rodi del 88 a.C., poggiato sempre su due navi, che lo storico Appiano ci descrive come molto grande (Mithr. 26). Non possediamo molte informazioni sui pratici effetti di tale macchina, tuttavia pare che dal punto di vista strettamente militare non si sia rivelata particolarmente efficace, visto l’esito dei ricordati eventi di Siracusa e Rodi, dove forse conobbe la sua utilizzazione più massiccia. Questo giudizio sembra valere per la s. della flotta, ma siamo a conoscenza di un altro mezzo, stavolta terrestre, designato col medesimo nome, che aveva una diversa dinamica di impiego. Si tratta della macchina descritta da →Bitone (57-61) ed attribuita all’ingegnere Damis di Colofone. Le opinioni degli studiosi moderni non concordano sul suo funzionamento, anche perché le parole dell’autore greco risultano a volte poco chiare. Rimane certo il fatto che anche tale s. era una grossa scala con delle protezioni laterali per permettere un’ascesa sicura da parte dei soldati, fissata su un trespolo con ruote e dotata, alle due estremità, di una piattaforma simile a quella della s. in versione navale e di un contrappeso per il bilanciamento. Suscita invece dei dubbi il sistema di innalzamento della struttura, forse garantito da una vite verticale innestata sulla scala stessa o dal movimento di ruote su un asse orizzontale. [2] Ulteriormente diversa sembra la s. descritta da →Vegezio (mil. 4, 21), che dimostra l’evoluzione tecnica subita dal mezzo. Quest’ultima era dotata di un ponte levatoio alla sommità ed operava insieme ad altre macchine come il →Tolleno.  

Fig. 1. Sambuca (da Connoly 1998).

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(con denominazione latina e greca) : testa (caluaria, gr. kranivon, Cels. 8, 1, 1 / 363 M) ; cervice (ceruix, gr. travchlo~, Cels. 2, 6, 7 / 57 M ; aujchvn 2, 5, 2 / 55 M) ; spina dorsale (spina o rachis, gr. rJavci~, 4, 11, 4 / 162 M) ; clavicola (iugulum, gr. kleiv~, 8, 1, 16 / 370 M) ; osso che sostiene la clavicola (quod altera uerticis parte modice intumescens sustinet iugulum, gr. ajkrwmiva, 8, 1, 16 /370 M) ; costola più alta (summa costa, gr. pleurav 8, 1, 14. 15. 16 / 370 M ; ossa piatte oblunghe aperte o osso ampio delle scapole, wjmoplavtai, che altri chiamano palas: 3, 22, 12 /137 M wjmoplavta~ Graeci uocant ; 8, 1, 16 / 370 M Rursus a ceruice duo lata ossa utrimque ad scapulas tendunt : nostri scutula operta, omoplatas Graeci nominant ; sterno (os pectoris, gr. stevrnon, 8, 1, 14 / 370 M ; omero (umerus, gr. bracivon, 2, 10, 14 / 79-80 M ; 4, 11, 7 / 163 M) ; costole (costae, gr. pleuraiv, 8, 1, 11 / 366 M) ; costola spuria (notha costa, gr. novqh pleurav : 8, 1, 15 / 370 M, sub costis uero, prioribus, quinque, quas novqa~ Graeci nominant) ; vertebra (uertebra, gr. sfovndulo~, 2, 1, 19 / 49 M) : braccio (brachium, gr. ph`cu~, 2, 10, 14 / 79-80 M ; 3, 6, 6 / 111-112 M) ; radio (radius, gr. kerkiv~, 8, 1, 19. 20. 22 /371-372 M) ; ulna (cubitus, ph`cu~, 8, 1, 20. 26 / 371-372 M) ; anca (coxa, gr. ojsfuv~, 2, 7, 4 / 59 M) ; ischio (coxarum os, gr. ijscivon, 8, 1, 23 / 372 M) ; pettine (pecten, gr. h{bh~ ojsta', 8, 1, 23 / 372 M, a quibus oritur os, quod pectinem uocant) ; femore (femur, gr. mhrov~, 8, 1, 25 / 372 M, pauloque magis ad femoris os tendens inter omnes crurum flexus iuncturam tuetur) ; rotula (patella, gr. ejpigonativ~, 8, 1, 25 / 372 M, Quae commissura osse paruo, molli, cartilaginoso tegitur: patellam uocant ; 8, 21, 1 / 408 M) ; ossa gamba (crus, gr. skevlo~ 2, 3, 1 / 51 M ; knhvmh, 2, 7, 21 / 63 M) ; tibia (tibia, gr. knhvmh, 8, 1, 26 / 372 M, Alterum a priore parte positum, cui tibiae nomen est) ; sura o perone (sura, gr. perovnh, 8, 1, 26 / 372 M) ; osso dei talloni (os talorum, gr. ajstravgalo~, 8, 22 / 408-409 M). Per una efficace illustrazione delle ossa dello scheletro si veda Cels. ed. Fr. Marx, Lipsiae et Berolini 1915, CML I, tav. p. 367 (figura corredata di terminologia greca). 3. Ossa (descrizione di Celso). – Propongo qui, a titolo di riepilogo della trattazione specifica delle ossa, una mia traduzione della trattazione di Cels. 8, 1 / 363-373 M ; porrò in corsivo i termini più importanti, fornendo anche la denominazione latina e greca traslitterata : «[I] Resta quella parte di descrizione che pertiene alle ossa : parte di cui, perché possa essere più facilmente capita, indicherò prima le  

Note. [1] Vd. Landels 1966. – [2] Vd. Campbell, D. B. 2003a, 24 sgg. ; Marsden 1971, 90 sgg.  

Bibliografia. Campbell, D. B. 2003a ; Campbell, D. B. 2003b ; Landels 1966 ; Lendle 1983 ; Marsden 1969 ; Marsden 1971 ; Sáez Abad 2005b.  











Francesco Fiorucci Scheletro. 1. Storia della questione. – In greco skeletov~ ‘disseccato, asciugato’ originariamente agg. deverbativo (cfr. skevllein, ‘disseccare, asciugare’), lat. sceletus : come sostantivo designa il corpo disseccato, in analogia con la mummia egiziana [1] Lo scheletro, cioè la struttura ossea del corpo umano, è conosciuto con maggiore precisione a partire dall’età ellenistica. Mancano riferimenti precisi nell’epos omerico ; il termine, con significato praticamente moderno, è attestato per la prima volta in Filodemo di Gadara. [2] Non molto è documentato sulle ossa del corpo umano negli scritti del Corpus Hippocraticum, in cui troviamo anche imprecisioni e ingenuità. Così leggiamo in un testo ippocratico : «Le ossa induriscono attraverso il calore [...] Quando il feto è formato, gli arti e le membra si sviluppano, le ossa si consolidano e si fanno cave ; tutto ciò avviene per mezzo dello pneuma [...]». [3] Nel Corpus c’è una descrizione piuttosto sommaria dello scheletro e delle articolazioni ; più completa è la descrizione delle ossa degli arti, meno esauriente la descrizione delle ossa del bacino e della colonna vertebrale ; manca anche una distinzione tra ossa compatte e concave ; la funzione di nutrizione è attribuita al midollo delle ossa cave etc. In epoca ellenistico-romana lo studio delle ossa diviene una disciplina primaria. In questo periodo si viene formando una conoscenza precisa di posizione, suddivisione e nome delle ossa e articolazioni, dei vari ‘insiemi’, come cranio, colonna vertebrale ; [4] dei vari tipi di collegamento articolari (articolazione, sinartrosi, sinfisi e gonfosi) ; [5] si procede alla denominazione specifica delle singole ossa. →Galeno, che aveva potuto studiare anatomia in Alessandria, [6] descrive con precisione la struttura (gr. syntaxis) delle varie ossa (skeletov~). [7] Sono ben note le ‘dimostrazioni anatomiche’ in Roma, raffigurazioni più o meno coeve dello skeletos si trovano nei mosaici o in Petron. 34. 2. Ossa dello scheletro. – Riepilogando, le ossa dello scheletro sono, in Celso, a capite ad calcem  























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rispettive posizioni e figure. Il cranio (caluaria, gr. kranion) rappresenta l’inizio, concavo nella parte interna, gibboso e convesso dalla parte esterna, ben levigato da entrambe, e da quella che ricopre la membrana del cervello e da quella che protegge dalla cute che genera i capelli. È semplice a partire dalla nuca e dalle tempie, doppio invece dalla fronte fino alla sommità. Le sue ossa sono dure dalle parti esterne, più molli dalle parti interne, dove si connettono tra loro ; tra quelle scorrono delle vene, che si può pensare forniscano loro alimentazione. È raro un cranio solido, senza suture (suturae, gr. raphaí) ; lo si ritrova più facilmente nelle regioni molto calde ; e quel tipo di cranio è solidissimo e ben protetto contro il dolore. Tra gli altri tipi di cranio, quanto meno numerose sono le suture, tanto più è agevole la robustezza del cranio : né è definito infatti il numero delle suture, così come neppure la posizione. In genere tuttavia, due suture sopra le orecchie separano le tempie dalla parte superiore del capo ; una terza sutura, discendendo attraverso la sommità verso le orecchie, separa la nuca dalla sommità. Una quarta sutura dalla medesima sommità, attraversando la parte mediana del capo, procede fino alla fronte ; la sutura ora termina nel punto più basso della capigliatura, ora, tagliando la fronte stessa, ha termine tra le sopracciglia ***. Di queste suture, tutte le altre si saldano perfettamente : quelle invece che sopra le orecchie corrono trasversalmente, si assottigliano a poco a poco lungo tutti i margini e così le ossa inferiori si saldano leggermente alle superiori. L’osso più spesso invero tra le ossa del capo è quello posto dietro l’orecchio, dove i capelli, come è verosimile, proprio per questa ragione, non crescono. Sotto quei muscoli, che uniscono le ossa temporali, è posto un osso mediano inclinato verso la parte esterna. La faccia ha la sutura più grande, che, incominciando da una tempia, attraverso gli occhi e le narici, giunge all’altra tempia. Da questa, due suture corte, sotto gli angoli interni degli occhi, piegano verso il basso ; ma anche le mascelle hanno nella parte superiore due suture trasversali. Partendo dalla parte media del naso o dalle gengive dei denti superiori, una procede attraverso la metà del palato, mentre l’altra taglia trasversalmente il medesimo palato. Sono queste le suture nella maggior parte degli individui. I fori più grandi all’interno del capo sono quelli degli occhi, poi quelli delle narici, poi quelli che abbiamo nell’orecchio [...] [segue la descri 















zione dei fori]. E presso di quelle ci sono come due piccoli incavi ; sopra di essi è delimitato l’osso che, trasversalmente, tendendo in su dalle gote, è sostenuto dalle ossa inferiori : può essere denominato os iugale, in base alla stessa similitudine, in base alla quale i Greci lo chiamano zygodes. La mascella poi è un osso mobile ; è tutta di un pezzo ; la sua medesima parte media e più bassa insieme formano il mento, partendo dal quale, da una parte e dall’altra, procede verso le tempie ; solo quella si muove : infatti le guance, con tutto l’osso che spinge fuori i denti superiori, sono immobili [… Celso descrive l’osso mandibolare e i denti, distinti in incisivi, canini e molari, con le rispettive radici]. Il capo (caput, gr. kranion) è sostenuto dalla colonna vertebrale (spina, gr. rachis). Questa consta di ventiquattro vertebre (uertebrae, gr. spondyloi) : sette sono nel collo (ceruix, gr. trachelos, auchen), dodici all’altezza delle costole, le rimanenti cinque in prossimità delle costole. Queste sono ben tornite e tondeggianti e corte ; da entrambi i lati esibiscono due processi ; perforate al centro, per dove discende il midollo spinale collegato al cervello ; anche di lato sono pervie, grazie a due processi con due sottili cavità, lungo le quali, dalla membrana del cervello, corrono piccole membrane simili ; e tutte le vertebre, escluse le tre più alte nella parte superiore, hanno, proprio negli stessi processi, fossette poco profonde ; dalla parte inferiore lasciano discendere altri processi verso il basso. La vertebra più alta, dunque, sostiene il capo, accogliendo attraverso le sue due piccole cavità i due processi piccoli ; per questo avviene che è possibile muovere il capo in su e in giù. La seconda vertebra non è uniforme a causa di una piccola sporgenza. Per quanto concerne la circonferenza, la parte più alta termina con un cerchio più angusto e stretto ; così la vertebra superiore, adattandosi intorno ad essa nella sua parte più alta, permette che anche il capo possa essere ruotato ai lati. La terza vertebra riceve nello stesso modo la seconda ; da questo deriva la mobilità facile del collo [… Celso prosegue descrivendo la connessione delle vertebre con il capo e delle vertebre fra loro]. Sotto il collo, poi, la costola più alta (summa costa, gr. acromion) è posta alla stessa altezza dell’omero (umerus, gr. brachion) ; di lì le sei sottostanti giungono fino al petto ; ed esse sono nelle prime parti rotonde e leggermente, quasi ‘capitolate’, aderiscono ai processi trasversali delle vertebre, anche essi un po’ infossati ; di lì  



































scheletro si allargano e, un po’ incurvate verso la parte esterna, a poco a poco degenerano in cartilagine ; e in quella parte, di nuovo, piegate verso l’interno, si connettono con l’osso del petto. Questo, valido e duro, ha inizio dalla gola (fauces), lunato da entrambi i lati e, a partire dai precordi, già ben lui stesso reso molle dalla cartilagine, con essa termina : sotto le prime costole, invero, cinque, che i Greci chiamano nothas, costole piuttosto sottili e degenerate anch’esse poco a poco in cartilagine, aderiscono alle parti estreme dell’addome ; e la più bassa tra queste, per la maggior parte non è altro se non cartilagine. Di nuovo, a partire dal collo, due ossa larghe oblunghe tendono da entrambe le parti verso le scapole : i nostri le chiamano scutula operta, i Greci omoplatas. Queste due ossa, che si presentano con una fossetta nelle sommità, di qui in forma triangolare, poco a poco allargandosi, tendono verso la colonna vertebrale ; e quanto più sono larghe in ogni parte, tanto più sono leggere. E anche esse, cartilaginose nella parte parte più bassa, nella parte posteriore sono, per così dire, sospese, perché non aderiscono a nessun osso se non nella parte più alta, lì tuttavia sono tenute ferme da muscoli e nervi robusti. Ma, a partire dalla costola più alta (summa costa, gr. pleura), un po’ più internamente rispetto al punto dove questa è a metà, cresce un osso, in quel punto in verità sottile, che, tuttavia, avanzando progressivamente, quanto più si accosta all’osso largo delle scapole, tanto più (è) robusto e largo e un po’ incurvato verso l’esterno ; quest’osso, rigonfiandosi moderatamente nell’altra parte della sommità, sostiene la clavicola (iugulum, gr. akromion). Anche questa, ricurva e da non annoverare tra*** le ossa più dure, con una delle due estremità si incastra nell’osso di cui ho detto, con l’altra in una piccola fossa dell’osso pettorale, si muove un poco con il movimento del braccio e si salda, con l’osso ampio delle scapole, con nervi e cartilagine, sotto la sua estremità. Di qui ha inizio l’omero (umerus, gr. brachion), tumido nelle estremità da entrambe le parti, molle, senza midollo, cartilaginoso : nel mezzo liscio, robusto, ricco di midollo ; leggermente gobbo e nella prima parte e verso l’esterno. La prima parte è quella che si trova dal lato del petto, la parte posteriore quella che si trova dalla parte delle scapole ; la parte interna è quella che si volge verso i fianchi, la parte esterna quella che se ne allontana ; ciò che risulterà evidente, in seguito, essere estensibile  



















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a tutte le articolazioni. Tuttavia l’estremità superiore dell’omero, più rotonda di quella delle altre ossa, delle quali ho parlato finora, si inserisce con una piccola eccedenza nella sommità dell’osso ampio delle scapole, e, per la sua parte maggiore collocata fuori, è collegata ai nervi. Ma, nella parte inferiore, ha due processi, e la parte intermedia tra questi è più scavata anche nelle parti estreme. Questa incavatura fornisce la sede all’avambraccio, che ha due ossa. Il radio, che i Greci chiamano cercida, posto sopra e più corto e, nel primo tratto più sottile, con estremità rotonda e leggermente cava riceve il tubercolo piccolo dell’omero e lì è tenuto fermo da nervi e cartilagine. L’ulna (cubitus, gr. pechys), che si trova inferiormente più lunga e nel primo tratto più piena, emergendo nella parte più alta per così dire con due punte, si inserisce nella cavità dell’omero, che ho dimostrato sopra trovarsi tra i due processi dello stesso. Invero le due ossa dell’avambraccio, unite nel primo tratto, a poco a poco si separano, e di nuovo in prossimità della mano confluiscono, essendo così mutato il rapporto di grandezza, dal momento che lì il radio è più grosso, mentre l’ulna è veramente sottile. Di poi il radio, conformandosi in un’estremità cartilaginosa, si incava nella sua sommità. L’ulna, rotonda nell’estremità, ha un piccolo processo dall’altra parte […]. Nella mano poi la prima parte della palma consta di ossa molteplici e minute, il cui numero è incerto, ma tutte lunghe e di forma triangolare; secondo una determinata strutturazione si connettono tra loro, in modo che l’angolo superiore di uno, reciprocamente costituisca la base dell’altro ; da questo deriva l’apparenza di un solo osso derivante da questi, un po’ concavo verso l’interno. Dalla mano poi due piccoli processi si spingono negli incavi del radio ; poi dall’altra cinque ossa dirigendosi direttamente verso le dita, completano la palma ; da queste ossa nascono le dita vere e proprie, che constano di tre ossa ciascuna ; e la disposizione di tutte è identica. L’osso più interno è incavato in cima e accoglie la piccola protuberanza dell’osso esterno e i nervi li trattengono ; spuntando dai quali si induriscono le unghie e perciò, con le loro radici sono più attaccati non all’osso ma alla carne. E così sono disposte le parti superiori. La parte più bassa poi della colonna vertebrale poggia nell’osso che, traversale e di gran lunga  









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il più robusto, protegge la vulva, la vescica e l’intestino retto ; e quello della parte esterna, convesso, ripiegato indietro all’altezza della colonna vertebrale, lateralmente [cioè dalle stesse anche vere e proprie] (coxa, gr. ischion), ha due fosse rotonde ; da queste ha inizio l’osso che chiamano pettine, che, a sua volta, posto trasversalmente sopra gli intestini e sotto il pube, chiude l’addome ; più diritto nei maschi, incurvato di più verso l’esterno nelle femmine, in modo da non impedire il parto. Di lì hanno origine i femori, le estremità dei quali sono anche più rotonde di quelle degli omeri, pur essendo esse le più rotonde tra tutte le altre. Hanno sotto due processi, dalla parte anteriore e posteriore ; quanto al resto sono duri e ricchi di midollo e dalla parte esterna gobbi, nuovamente anche nelle estremità inferiori diventano tumidi. Le estremità superiori si introducono nelle cavità dell’anca, così come gli omeri in quelle ossa che sono delle scapole ; poi al disotto piegano leggermente verso l’interno, per poter sostenere in modo più equilibrato il peso delle membra che si trovano sopra. Ma anche le estremità inferiori si incavano nel mezzo, in modo da poter più facilmente essere sostenute dalle gambe. Questa articolazione è protetta da un osso piccolo, mobile, cartilaginoso : lo chiamano patella. Questa, sospesa sopra, né attaccata ad alcun osso, ma tenuta stretta da carne e nervi, e protendendosi un po’ di più verso l’osso del femore, protegge l’articolazione tra tutte le piegature delle gambe. La gamba stessa, poi, è costituita da due ossa ; infatti il femore è in tutto simile all’omero, la gamba invero è simile al braccio, così che anche aspetto e decoro dell’uno possano essere conosciuti da quelli dell’altro : ciò che, cominciando dalle ossa, corrisponde anche nella carne. Una delle due ossa in verità è posizionata dalla parte esterna [cioè sopra], e chiamano anch’essa sura. Quest’osso più corto e più sottile dalla parte superiore, si ingrandisce proprio in prossimità della caviglia. L’altro, posizionato nella parte anteriore, cui è attribuito il nome di tibia, più lungo e più grande nella parte superiore, è il solo che si articola con l’estremità inferiore del femore, così come l’ulna con l’omero. E anche queste ossa, congiunte in basso e in alto, si separano nella parte mediana come nell’avambraccio. La gamba, poi, è accolta in basso dall’osso trasversale delle  















caviglie ; e questo poi è posizionato sopra l’osso del calcagno, osso che, da una parte, si incava, dall’altra ha delle sporgenze, e riceve i processi della caviglia e s’incunea nell’incavatura di essa. Quest’osso, compatto senza midollo e maggiormente rivolto verso la parte posteriore, assume da quella parte una conformazione rotondeggiante. Tutte le altre ossa del piede sono strutturate a somiglianza di quelle che si trovano nella mano : la pianta corrisponde alla palma, le dita alle dita, le unghie alle unghie ».  





Note. [1] Str. 17, 3, 8 ; Plu. Ant. 75, 3. – [2] Mort. 30. – [3] Nat. puer. 17. 18 / 7, 497. 507 L. Trad. a cura dello scienziato. – [4] Celso e Ps. Rufo. – [5] Ps. Galen. Intro. passim / 14, 674 sgg. – [6] Anat. admin. 1, 2 / 2, 220 sg. K. – [7] Oss. 1 / 2, 734 K. – [8] Si preferisce in questo caso, come in altre parti riservate all’anatomia, questa sequenza, poiché la documentazione è tratta, in pratica, prevalentemente da Celso, di cui si forniscono il passo o i passi di riferimento secondo edizione e pagina di Fr. Marx. I termini corrispondenti in greco sono tratti per lo più da fonti diverse da Celso.  

Fonti. Per lo scheletro Hp. Nat. puer. 17-18 / 7 , 497-507 L ; Cels. 2, 10, 14 / 79-80 M ; 3, 6, 6 /111-112 M ; 4, 11, 7 / 163 M ; 8, 1, 363-373 M ; 8, 21, 1 / 408 M ; 347 K ; Ps. Gal. Intro. 14, 674-797 K ; per le ossa dello scheletro : Hp. Morb. 1, 182-184 / 6, 182-184 L ; Carn. 4 / 8, 588-590 L ; Cels. 8, 1 /363-373 M ; Ps. Ruf. 186-194 D R ; Gal. Anat. admin. 1, 2 / 2, 220 sgg. K ; Gal. Oss. Prooem. / 2, 732-739 K ; Us. part. 11, 18 / 3, 921-930 K ; Us. part. 16, 14 / 4, 340-341 K ; Us. part. 17, 1 / 4, 347 K.  

































Bibliografia. Laser 1983 ; Leven 2005p, 814-815 ; Luchner 2004 ; Mazzini 1997, 246-252 ; Roselli 1996, 217-227.  







Sergio Sconocchia Scribonio Largo. Poco si sa dell’origine di Scribonio Largo e della sua condizione sociale. [1] Nato presumibilmente intorno ai primi anni della cosiddetta era volgare, visse in qualche rapporto e frequentazione, a quanto sembra, con alcuni membri della famiglia giulioclaudia (da lui in vario modo citati nell’opera) ; fu legato da un rapporto clientelare, come pare, al potente liberto di Claudio, Giulio Callisto. La sua preparazione istituzionale è fatta risalire al tempo dell’imperatore Tiberio : tra i precettori di Scribonio, Apuleio Celso di Centuripe ; tra i condiscepoli Vettius Valens, forse prima anche lui maestro di Scribonio. Büche 







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ler propone per la stesura delle Compositiones, il primo trattato di farmacologia in lingua latina, gli anni 44-48 d.C. e, per la presentazione dell’opera a Callisto, gli anni 47 (anno in cui Callisto diviene, dopo la morte di Polibio, procurator a libellis) e 48 (anno in cui è uccisa Messalina). Cornario, senza basarsi su prove di fatto, sospetta che Scribonio abbia scritto le Compositiones in greco e che l’opera sia stata tradotta in latino da qualche dotto sconosciuto al tempo di Valentiniano. [3] Tutto ciò è comunque una riprova del carattere ‘latino-greco’ della lingua dell’opera. Non si può invece escludere che Scribonio stesso, come farà poi Teodoro Prisciano, abbia scritto le sue opere in greco e ne abbia poi tradotto una parte in latino. [4] L’espressione scripta mea Latina medicinalia (praef. 13 / 5, 5 S.) sembra far presupporre che Scribonio abbia scritto opere anche in greco. La raccolta contiene 271 ricette. Alcune di esse sono andate perdute (167-170 : cfr. infra). [5] Le Compositiones sono articolate in due blocchi : kata; tovpou~ (cc. 1-162), nella sequenza a capite ad calcem, secondo un criterio già seguito, anche se meno organicamente, da →Celso, criterio che si pone come modello per la letteratura medica in lingua latina successiva, e kata; gevnh. Seguono antidota, tra cui varie theriacae (cc. 163-199) ; poi, dopo c. 200, in cui ritroviamo un’affermazione dell’unità della medicina nelle sue tre parti costitutive che richiama Celso Prooem. 9 / 18 M, seguono emplastra (cc. 201-254), di cui Scribonio indica di solito autore, sostanze componenti e colore, malagmata (cc. 255-267) e acopa (cc. 268-271). [6] Delle ricette è spesso citato l’autore. Alcuni sono composti inventati da Scribonio stesso, che, comunque, in genere garantisce di aver preparato personalmente le compositiones e di averne sperimentato gli effetti positivi, dichiarando i casi in cui ha in parte modificato ingredienti e dosi. Altre ricette sono state preparate da amici di cui Scribonio si fida come di se stesso (c. 271). L’autore avverte che esse potranno avere effetti diversi a seconda dei tempi e dei luoghi (ibidem). Scribonio desume le sue ricette non solo da medici di fama o comunque professionisti (dei quali cita spesso il nome) ma anche da praticanti non medici, purché sia sicuro del loro effetto : così acquista una colice da una muliercula Africana quaedam che con essa ha operato molte guarigioni (c. 122). Molto ha dovuto faticare per procurarsi l’antidotos mirifica Paccii  















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Antiochi di cui vanta l’eccezionale qualità e dà descrizione minuziosa di indicazioni terapeutiche e ingredienti in un gruppo di capitoli che sono stati oggetto di numerose rielaborazioni nel tempo (vedi infra). Insiste molto sulla precisione di pondera et mensurae : cc. 38 ; 97 ; 199 etc. [7] La polemica contro le adulterazioni della medicina, contro pigmentarii, unguentarii, pharmacopolae e seplasiarii, già presente in Celso, è molto forte in Scribonio [8] e sarà fortissima, pochi decenni dopo, anche in →Plinio il Vecchio, che mette in guardia i lettori contro il chiasso, il lucro, il mercato che si fa della pratica medica (così nat. 29, 24 oppure 34, 108 : si veda anche André 1987, 82-83) e successivamente sentita anche da →Dioscuride, sensibile al problema della sofisticazione farmacologica, che rileva specificamente, nel proemio della Materia medica, quanto sia opportuno raccogliere le piante nel momento giusto, trattarle adeguatamente e conservarle nel modo più conveniente. Come emerge dalle Compositiones e da tutta la trattatistica medica contemporanea a Scribonio e successiva, le sostanze che entravano nella preparazione dei medicamenti erano spesso rare e per lo più provenienti da regioni lontane dell’impero, di difficile reperibilità e conservazione, quindi costosissime ; al punto che nella pratica medica si ricorreva spesso a sostanze alternative, di solito meno efficaci (vd. infra), che i praticanti e i mercanti meno scrupolosi alteravano o sostituivano. Le vie del commercio delle spezie medicinali verso le nazioni mediterranee erano piuttosto lunghe e per di più si trovavano sotto il controllo di popolazioni locali. [9] Gli effetti benefici delle ricette descritte sono fortemente esaltati. Di alcuni rimedi (cc. 122-162) Scribonio sottolinea l’efficacia contro il dolore. Sul valore medico effettivo delle ricette non abbiamo alcun giudizio : tuttavia qualche moderno tentativo di riprodurle [10] ne garantisce gli effetti, che dovrebbero essere buoni, se è da credere a Scribonio, generalmente fededegno. Tra le ricette sono prescritti talvolta rimedi magici : [11] così a c. 13 è raccomandato l’uso di un coagulum di hinnuleus (cervo giovane) che sia stato ucciso con un tinctorium, quo gladiator iugulatus sit. L’autore scende talvolta in chiarimenti circa l’uso dei mezzi impiegati. Insiste molto sul fatto che l’affidabilità delle ricette è comprovata da risultati positivi. Cita in continuazione referenze e guarigioni di personaggi noti (per no 















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scribonio largo

bilitare i medicamenti viene talora ricordato il loro uso da parte di membri della famiglia imperiale, tra cui Augusta, Augusto, Tiberio, Claudio, Messalina). Plinio nella Naturalis historia non cita mai Scribonio Largo. Nondimeno si possono cogliere tra i due autori, in più punti, convergenze anche formali, che possono essere spiegate o con una dipendenza di Plinio da Scribonio, da non escludere, ma comunque da dimostrare, o con l’utilizzazione da una o più fonti in comune : in questo caso la coincidenza, spesso ad verbum, tra i due autori, potrebbe essere anche avvenuta in condizioni di indipendenza tra loro. [12] Le Compositiones, utilizzate, tra altri, da Asclepiade Farmacione, →Galeno, sia pure indirettamente, Marcellus Burdigalensis (vedi infra), sono specchio della realtà medica contemporanea. [13] L’Epistula dedicatoria a Callisto, assai significativa per il suo contenuto dottrinario, per le dichiarazioni di principio, per il tono vivo di alta etica professionale oltre che per elevatezza stilistica, è un’esaltazione della medicina e dei medicamenti e una difesa della dignità professionale, una professio medici. Le Compositiones si inseriscono, come Epistula-trattato, in un genere letterario che ha i suoi modelli nella letteratura greca (si pensi alle lettere di →Epicuro) e, come è noto, in varie opere latine. [14] Sulla sostanziale autenticità di Index e lemmi si veda Sconocchia 1981, 55-60 e Sconocchia 1987, 628 e passim. Fino alla scoperta del Toletano gli studi sulla lingua di Scribonio sono abbastanza limitati, soprattutto in considerazione del fatto che l’edizione di Iohannes Ruellius ( J. du Rueil), con le sue frequenti normalizzazioni e classicizzazioni, aveva impedito agli editori e agli studiosi successivi di rendersi conto di fenomeni molto importanti che collocano Scribonio, di diritto, tra gli scrittori più interessanti di quella letteratura che si può definire ‘latinogreca’, una letteratura ricca di grecismi, neologismi, tecnicismi e volgarismi. Ciò si può spiegare anche con l’eventuale origine siciliana di Scribonio, un autore forse di madre lingua greca. È con la scoperta e l’utilizzazione del Toletano che alcuni caratteri della lingua e dello stile di Scribonio sono apparsi in tutta la loro importanza. Un primo contributo è contenuto in Sconocchia 1981, 61-87 (c. 3, Questioni di lingua e di stile). L’indagine evidenzia fenomeni interessanti, documentati almeno fin dall’archetipo : casi di Erstarrung, una serie di casi, nei  









cc. 202-221, di emplastrum neutro, nel lemma o in introduzione di capitolo, seguito da riferimenti (pronomi, aggettivi) al femminile : si può supporre che in più di un caso, traducendo dalle fonti greche, che Scribonio cita spesso in questa sezione, o da sue opere precedenti, scritte originariamente in greco, l’autore fosse influenzato dalla forma originaria e dalle relative concordanze ; volgarismi, forme morfologiche difficiliores etc. Sconocchia è ritornato ad uno studio della lingua di Scribonio in Sconocchia 1993a, con un contributo che ha il suo presupposto nelle Concordantiae Scribonianae (Sconocchia 1988a), in cui si indaga su alcuni aspetti della lingua : grecismi (prestiti, usati ‘assolutamente’ o accompagnati da perifrasi) ; calchi, suffissi greci e latini ; diminutivi positivati, anch’essi suddistinti per categorie di occorrenza ; volgarismi. Per tutte le categorie sono sempre evidenziati e distinti i casi di neologismo tecnico (come ad es. c. 200 pharmacia), e di hapax. Altre sezioni sono dedicate ai volgarismi, con sostantivi e verbi ; alle unità di misura ; alla sintassi dei casi : Nominativo-Accusativo (Rezeptnominativ ; Rezeptakkusativ) ; Genitivo ; infine una trattazione è dedicata ai cosiddetti costrutti adnominali. Da queste caratteristiche, spesso confermate anche da ritrovamenti recenti di testimoni indiretti, sono evidenziati i caratteri della lingua di un autore che utilizza abbondantemente fonti greche da cui spesso dichiara la dipendenza. Ben più di quello di Celso, il latino di Scribonio presenta caratteri importanti, e latino-greci e volgari, e offre un punto di osservazione privilegiato per lo studio della storia della lingua latina. La lingua di Scribonio, inoltre, costituisce un modello e avrà influenza sulla letteratura medica successiva in lingua latina. Sulle fonti di Scribonio si veda il già citato Sconocchia 1985, 155-161 (e tabella a 206) per le fonti dichiarate ; [15] 161-206 per le possibili fonti non dichiarate, tra cui una (o più) fonti comuni con Nicandro (cfr. 162-189 e tab. a 166-167) ; Celso e sue fonti 189-196, Plinio il Vecchio (196-205), per cui si possono ugualmente sospettare una o più fonti in comune con Scribonio. Con il richiamo della tradizione ippocratica e di Erofilo emergono in Scribonio, autore culturalmente engagé, punti di contatto con la tradizione di una grande scuola medica, quella di Alessandria. Per un’analisi dettagliata della tradizione si veda Sconocchia 1981, 11-30, la suddetta Praefatio  



























scribonio largo all’edizione 1983, pp. ix-xviii e, soprattutto per la tradizione indiretta, Sconocchia 1993a, 878885. All’editio princeps, curata da Iohannes Ruellius ( Jean du Rueil), fonte principale e quasi unica da cui dipendono le edizioni successive, comprese quelle di Helmreich 1887, si è aggiunto qualche anno fa il codice Toletano 98. 12 (T), sec. xvi in., precedente, come appare, alla princeps, conservato presso la Biblioteca della Iglesia Mayor di Toledo, individuato da Sergio Sconocchia nel corso di lunghe ricerche, attraverso una notizia di catalogo[16] (cfr. Sconocchia 1976 ; Sconocchia 1981, 11-15). Il Toletano contiene a f. 11 rv un elenco di compositiones edito per la prima volta in Sconocchia 1976, 264-265 e ascrivibile a età classica : si potrà pensare che esso sia l’elenco delle compositiones ulteriormente promesse a Callisto (praef. 14) : si veda ora Sconocchia 1998a, 168-183. Oltre che in Celso e in Plinio troviamo loci similes a quelli di Scribonio in Seneca, Dioscuride ed elementi di riferimento in autori successivi. Ma indubbiamente le citazioni più frequenti, accanto a Marcello, sono quelle che troviamo in Galeno. Per Galeno si veda Sconocchia 1985, 206-208, in cui discute relativamente al gruppo di compositiones compreso in 14, 138-144 K. (= Scrib. Larg. 177-199) che Galeno dichiarava di desumere da Asclepiade, evidentemente il Farmacologo (ma Fabricius 1982, 181 ritiene che in realtà sia Apollonius Mys). Fabricius 1982 ha dimostrato che la conoscenza di Scribonio da parte di Galeno, ritenuta diretta anche da studiosi insigni (ad es. Rhodius 1655, 12 ; Jourdan 1919, 10-11), è senza dubbio indiretta. Il problema dei rapporti con Scribonio di Marcellus Burdigalensis, il testimone più ampio della tradizione indiretta, è, per molti aspetti, ancora più interessante. Rinvio per un’analisi tuttora utile, anche se per forza di cose, sotto diversi punti di vista superata, a Helmreich 1882, soprattutto 392 sgg. e, per una discussione, a Sconocchia 1985, 208-210. Per i passi in cui Marcello escerta Scribonio (e per quelli in cui non lo utilizza) si veda la tabella nella Praefatio editionis, viii n. 6. [17] Non si può escludere che Marcello leggesse le Compositiones per intero, comprese le compositiones che non escerta. Un’opinione in questo senso esprime del resto anche Helmreich 1882, 394 : lo studioso ritiene che Marcello abbia escertato i passi di Scribonio assenti nel De medicamentis in un libro ii della sua opera. Per molte lezioni, come l’edizione teubneriana cu 











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rata dallo scrivente permette di verificare, il testo di Marcello, attraverso l’accordo con T o anche da solo, ha permesso ottimi recuperi. La fortuna di Scribonio si può documentare anche attraverso altri autori : per Medicina Plinii si veda Sconocchia 1985, 210-211 ; per la cosiddetta Physica Plinii Bambergensis si veda ancora Sconocchia 1985, 211. Ma la fortuna di Scribonio in età tardo-antica e medioevale si manifesta soprattutto in un genere di letteratura medica, i Ricettari (= Antidotaria). Già Mazzini aveva individuato rifacimenti di Scribonio nel codice Bodmeriano 84 del sec. ix: si veda Mazzini 1983b e Praefatio dell’edizione x-xi e xv sgg. Ma si veda soprattutto Sconocchia 1995b per un gruppo di ricette contenuto nel ms. M 19 Sup. della Biblioteca Ambrosiana di Milano, sec. xii o xiii, e per un importantissimo e nutrito gruppo di excerpta confezionati a Montecassino ma risalenti, pare, a Vivarium, contenuto nel ms. 69 dell’Archivio della Badia di Montecassino, sec. ix in minuscola beneventana. Attraverso queste testimonianze si può risalire a fasi molto antiche del testo delle Compositiones. Questi rifacimenti confermano in genere, in modo inequivocabile, diversi punti del testo costituito, rendono sicure congetture e scelte di varianti e apportano talora contributi utili per una migliore definizione del testo. Molto di recente sono stati individuati da Fischer parecchi nuovi excerpta di Scribonio in vari manoscritti : in merito si veda Fischer-Sconocchia 2008. Anche questi rifacimenti confermano in genere, diversi punti del testo costituito, rendono sicure congetture e scelte di varianti e apportano talora contributi inaspettati e utili per una migliore definizione del testo. Scribonio è spesso citato da medici di ogni luogo e di ogni tempo, in età tardo-antica, medioevale e umanistica, fino ai tempi più recenti (Sconocchia 1985, 206-213).  





Note. [1] Per una prima informazione relativa alla biografia di Scribonio e alla bibliografia relativa a questo autore si rinvia alla Praefatio dell’edizione teubneriana (Sconocchia 1983, v-ix e xx-xxiii) ; per l’opera e la fortuna a Sconocchia 1985, 151213, per dati e problemi relativi a Scribonio e per la tradizione manoscritta a Sconocchia 1993a, 843-922, rispettivamente 876-884 ancora per biografia e tradizione, 884-922 per dati bibliografici e fatti e problemi relativi alla lingua. – [2] Bücheler 1882, 321 sgg., soprattutto 321 e 327 sgg. – [3] Cfr. Praef. ad Marcelli librum De medicamentis, Basileae 1536, 8. Ma contro si veda Helmreich 1882, 391 e  

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scrittori di architettura

Sconocchia 1983, praef. vii n. 10. – [4] Così anche Wellmann 1912, 2 – [5] Della c. 169 sono state di recente parzialmente recuperate parti da Fischer, che ne ha dato notizia in un Convegno a Manchester (Fischer 2010), nel quale Sconocchia 2010, utilizzando gli stessi mss., a lui segnalati dall’amico studioso tedesco, ha presentato ulteriori testimonianze inedite e da valorizzare dell’Antidotos hiera (cc. 97-107). – [6] Su medicamenti composti come emplastra, malagmata, pastilli e acopa etc. si veda Sconocchia 1993b, 133-159. – [7] Vd. Sconocchia 1985 passim e Sconocchia 1993a 862-876, soprattutto 865-869. – [8] Sconocchia 1993a, soprattutto 868-869. – [9] Mirra, incenso e balsamo rappresentano i prodotti vegetali più costosi : Plinio tratta di questi problemi nella Naturalis historia, soprattutto l. 12. Le terre di origine di prodotti tanto preziosi, favorite, tra l’altro, da un clima più umido e piovoso di quello attuale, costituivano l’Arabia felix : cfr. Sconocchia 1993a, 871-872. – [10] Cfr. Singer-Singer 1950. – [11] Come farà anche Plinio, che talvolta si pronuncia contro ogni specie di pratica magica (nat. 30, 1 sgg.), ma in realtà accoglie spesso elementi attinti ad una tradizione popolare e superstiziosa ; anche →Catone prescrive il ricorso alla magia quando il potere dei medicamenti non sia più sufficiente ; gli stessi Celso e Scribonio ricorrono a pratiche di medicina popolare e magiche ; cfr. Önnerfors 1993 ; Capitani 1972. – [12] Sono convinto che, in numerosi casi, i rapporti possano essere spiegati con la derivazione indipendente da fonti comuni. Per i rapporti Plinio-Scribonio vd. Sconocchia 1985, 196-205. – [13] Sconocchia 1988b, 16-27, si pone interrogativi sull’indirizzo professionale di Scribonio, probabilmente quello empirico, su eventuali rapporti, magari indiretti, con la scuola dei Sestii e, più in generale, sulla sua collocazione nell’ambito della medicina romana del i sec. d. C. e sui rapporti con gli esponenti di quella che si può definire ‘koiné medico-culturale’ dell’età di Scribonio, con alcuni illustri personaggi indicati tra le fonti di Scribonio, soprattutto con rappresentanti di quella scuola di medicina che doveva avere radici in Sicilia. – [14] Cfr. Sconocchia 1987, 628 e passim. – [15] Hippocrates ; Herophilus ; Asclepiades Prusiensis ; quaedam honesta matrona ; Andron ; Apuleius Celsus ; Paccius Antiochus ; Antonius Musa, ma anche muliercula quaedam ex Africa e altri tra cui numerosi chirurgi, come Tryphon, praeceptor di Scribonio etc. – [16] Cfr. Haenel 1830, 995. – [17] In proposito si veda tuttavia ora il contributo di K.-D. Fischer al Convegno di Manchester 2007, Zopyros, in corso di stampa.  

























Edizioni. Ruellius 1529 ; Cratander 1529 ; Aldus 1547 ; Stephanus 1567 ; Rhodius 1655 ; Bern 









hold 1786 ; Helmreich 1887 ; Deichgräber 1950 ; Marsili 1956 ; Sconocchia 1983.  







Bibliografia. André 1987, 82-83 ; Bücheler 1882 ; Capitani 1972 ; Fabricius 1972 ; Fischer 2010 ; Fischer-Sconocchia 2008 ; Haenel 1830, 995 ; Helmreich 1882 ; Helmreich 1920 ; Helmreich 1921a ; Helmreich 1921b ; Jouanna-Bouchet 2000; Jourdan 1919 ; Mudry 1990 ; Lausdei 1985a ; Lausdei 1985b ; Lausdei 1988 ; Mazzini 1983b ; Mudry 1990 ; Önnerfors 1993a ; Römer 1987 ; Schonack 1912 ; Schonack 1913 ; Sconocchia 1976 ; Sconocchia 1981 ; Sconocchia 1983 ; Sconocchia 1985, 151-213 ; Sconocchia 1987 ; Sconocchia 1988a ; Sconocchia 1988b ; Sconocchia 1993a ; Sconocchia 1993b ; Sconocchia 1998a, 168-183 ; Sconocchia 2000a ; Sconocchia 2010 ; Singer-Singer 1950 ; Wellmann 1912.  





































































Sergio Sconocchia Scrittori di architettura. Più ombre che luci circondano gli scrittori di architettura dell’età ellenistica : poco più che nomi ricavabili dalle testimonianze più tarde, di →Vitruvio in particolare. Fra questi, Piteo, maestro dell’architettura ionica nel iv secolo (ricordato in 1, 1, 12 e 15 ; 3, 1, 3 ; 4, 3, 1 ; 7, praef. 12) : l’influsso della sua codificazione giunge a Vitruvio attraverso l’opera di un altro grande codificatore, il suo allievo Ermogene, architetto e teorico, originario di Priene ed attivo a Magnesia tra la fine del iii secolo e il 175 a.C. Nessun altro architetto della prima età ellenistica riceve tanti omaggi da Vitruvio. In particolare, egli è fonte accertata, anche se forse non la principale, per la trattazione sull’architettura templare ionica (dipendenza dimostrata da Gros 1978 ; 1990, 65) nel libro iii, dove, fra le sue realizzazioni, si ricordano il tempio di Artemide Leucophryne a Magnesia, come esempio di tempio pseudodiptero (3, 2, 6) e il tempio di Dioniso a Teos, come esempio di tempio eustilo, invenzione attribuita ad Ermogene (3, 3, 8 ; il tempio in realtà è periptero). Elogiato in Vitruvio (3, 3, 9) per i suoi disegni e ricordato (in 4, 3, 1) per la sua opinione sull’ordine dorico come inadatto ai templi e agli altri edifici religiosi, come scrittore Ermogene è ricordato, oltre che, genericamente, per aver lasciato fonti da cui i posteri potessero attingere i canoni dell’architettura templare ionica (3, 3, 9 : fecisse reliquisseque fontes unde posteri possent haurire disciplinarum rationes), più dettagliatamente, all’interno del catalogo delle fonti contenuto nel proemio al libro vii di De arch. (su cui cfr. infra), per aver  















scrittori greci di architettura lasciato due libri dedicati rispettivamente ai due templi sopra menzionati (7, praef. 12 ; ipotesi sul contenuto, come tentativo di codificare l’ordine ionico e rifiuto di quello dorico, in Tomlinson 1989). Altro architetto ellenistico che ebbe largo influsso su Vitruvio fu Ermodoro di Salamina, il primo architetto greco cui si deve la costruzione di un monumento pubblico a Roma, il tempio periptero di Iuppiter Stator nella porticus Metelli. Vitruvio, che pure lo ricorda come progettista di tale tempio in 3, 2, 5, non cita Ermodoro nell’elenco delle fonti scritte contenuto nel proemio al libro vii. Questo silenzio può essere inteso in due modi : o Ermodoro non aveva scritto trattati oppure Vitruvio non aveva letto direttamente questi scritti, ma li conosceva indirettamente, attraverso →Varrone (cfr. infra ; Gros 1973).  





Bibliografia. Gros 1973 ; Gros 1978 ; Gros 1990 ; Tomlinson 1989.  





Elisa Romano

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tori dei commentarii sugli edifici religiosi, fonti dei libri iii e iv del De architectura. Il termine commentarii definisce un genere ben preciso, quello delle monografie che accompagnavano la costruzione di un edificio, una sorta di descrizione e spiegazione dell’opera realizzata, rivolte a una cerchia di specialisti e destinate a diventare punto di riferimento per ulteriori realizzazioni (Gros 1990, 36 sgg.). Questa produzione letteraria era per lo più legata ai singoli ordini ; ecco, ordine per ordine, gli autori che compaiono nell’elenco vitruviano : - sull’ordine dorico : un Sileno non altrimenti noto « che pubblicò un libro sulle proporzioni delle strutture doriche »; Carpione (nome non attestato altrove) e Ictino, che scrissero « sul tempio dorico di Atena », cioè sul Partenone, costruito sull’Acropoli di Atene fra il 447 e il 438 a.C. da Ictino assieme a Callicrate ; - sull’ordine ionico : Teodoro di Samo, « che pubblicò un libro sul tempio ionico di Hera a Samo », eretto nel 560 a.C. circa (in realtà, il tempio era dorico, ma l’errore anziché di Vitruvio potrebbe essere della tradizione manoscritta); Chersifrone di Cnosso e suo figlio Metagene, autori « di un libro sul tempio ionico di Artemide ad Efeso » (560/550 a.C.); Piteo, che scrisse sul tempio ionico di Atena Poliàs a Priene (350-330 a.C.); Arcesio, autore di un’opera sul tempio ionico di Asclepio a Tralle (forse inizio del iv secolo a.C.), Ermogene (cfr. supra) ; - sull’ordine corinzio : il già citato Arcesio, che scrisse, in generale, « sulle proporzioni corinzie ». Un solo architetto è ricordato per aver lasciato un trattato d’insieme sugli edifici sacri (7, praef. 12 de aedium sacrarum symmetriis) : Filone di Eleusi (340/330 a.C.), che scrisse anche « sull’arsenale che aveva costruito nel porto del Pireo » (la skeuoqhvkh), unico edificio non sacro, quest’ultimo, fra quelli qui menzionati. Completano l’elenco : Teodoro di Focea, non altrimenti noto, autore di un’opera « sul Tempio rotondo che sorge a Delfi » (la tholos di Delfi in stile composito, 380-370 a.C.), fonte probabile della trattazione di Vitr. 4, 8, 1 sui templi rotondi ; Satiro, non altrimenti noto, e Piteo sul mausoleo di Alicarnasso (353-351 a.C.), forse all’origine della descrizione di questo monumento in 2, 8, 11. 3. Scrittori di arte. – Segue un catalogo, di evidente derivazione da un pinax di scrittori di arte in generale, di autori meno noti che  





















Scrittori greci di architettura nel vii libro del De architectura di Vitruvio. La prefazione del libro vii del De architectura di →Vitruvio costituisce un vero e proprio catalogo delle opere precedentemente scritte su temi affrontati nel trattato, che sono le fonti cui direttamente, ma spesso anche indirettamente attraverso fonti intermedie, Vitruvio attinge. All’interno di questa rassegna si possono individuare alcuni criteri di classificazione : sembra infatti riconoscibile un ordine cronologico (il primo nome è quello di un autore del v secolo a.C., Agatarco, nel par. 11, e in par. 12 si comincia dagli architetti più antichi), sia pur viziato da errori, cui si intreccia un criterio gerarchico, in base al quale viene relegata nel par. 13 una lista di autori meno importanti (minus nobiles multi), che mette insieme indistintamente architetti, scultori e pittori (Settis 1993, 477). L’elenco comprende 39 nomi, raggruppati nelle seguenti cinque categorie. 1. Agatarco, Democrito, Anassagora. – In 7, praef. 2, un pittore e due fisici del v secolo a.C. che avevano trattato dell’illusionismo pittorico e dei fenomeni della visione, Agatarco, →Democrito ed →Anassagora (non architetti in senso stretto, dunque, ma autori di scritti scientifici accostabili alle opere di architettura, citati forse al fine di nobilitare queste ultime : Settis 1993, 490). 2. Autori di commentarii sugli edifici religiosi. – In 7, praef. 12, sono nominati gli architetti au 





























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scrittori greci di architettura

hanno scritto trattati sulle proporzioni simmetriche (7, praef. 14 : praeterea minus nobiles multi praecepta symmetriarum conscripserunt, uti Nexaris Theocydes Demophilos Pollis Leonidas Silanion Melampus Sarnacus Euphranor). Fra questi nove nomi, sono noti quelli dello scultore Silanione (iv secolo a.C.) e di Eufranore, scultore e pittore del iv secolo a.C. (notizia confermata da Plin. nat. 35, 129 : volumina quoque composuit de symmetria et coloribus) ; Pollide è forse il bronzista del iv secolo a.C. citato anche da Plin. nat. 34, 91; Leonida è forse un pittore del iv secolo a.C., allievo di Eufranore. 4. Autori di trattati di meccanica. – Seguono gli autori di trattati di →meccanica (de machinationibus), i cui nomi sono elencati di seguito, senza ulteriori notazioni, in un ordine che non rispetta la cronologia : Diade, Archita, Archimede, Ctesibio, Ninfodoro, Filone di Bisanzio, Difilo, Democle, Carias, Polyidos, Pirro, Agesistrato. Anche in questo caso, è chiara la derivazione da un pinax : non è detto perciò che Vitruvio conoscesse direttamente tutti gli autori del canone, a parte il primo e l’ultimo della serie, →Diade (iv secolo a.C., ingegnere al seguito di Alessandro in Asia, autore di un trattato sulle macchine utilizzato anche da →Ateneo Meccanico) e Agesistrato (attivo nella prima metà del i secolo a.C., fonte dichiarata anche di Ateneo il Meccanico), per i quali è dimostrato che furono fonti dirette di alcuni passi del libro x (Callebat-Fleury 1986, 28 ; Fleury 1993, 281). Oltre a due grandi scienziati più volte citati nel corso del trattato, →Archita, qui ricordato per le sue invenzioni nel campo della meccanica e per l’artiglieria da lui allestita a Taranto, e →Archimede (287212 a.C.), anch’egli presente nell’elenco per le sue ricerche di meccanica e per le macchine costruite per la difesa di Siracusa, viene menzionato un altro autore che conta numerose citazioni da parte di Vitruvio (che in 9, 8, 2-4 propone una rassegna delle sue invenzioni): il meccanico alessandrino →Ctesibio (iii secolo a.C.), fonte del libro x per la descrizione sia della pompa pneumatica (10, 7, 1-5) sia delle macchine da guerra (→polemologia; gli scritti di ingegneria militare di Ctesibio, per noi perduti, sono fonte comune e dichiarata di Vitruvio, di Ateneo il Meccanico e di →Filone di Bisanzio). Degli altri autori del canone, Ninfodoro e Difilo non sono altrimenti noti ; di difficile identificazione anche Democle (forse  













l’omonimo autore citato da Plinio nell’indice delle fonti straniere per i libri 34 e 35 della nat.). È invece molto probabile l’identificazione di Pirro con il re dell’Epiro (319-273 a.C.), autore di un trattato di poliorcetica ricordato da Plutarco e da Ateneo. Completano l’elenco alcuni autori dalla fisionomia meglio ricostruibile : Filone, originario di Bisanzio [→Filone di Bisanzio] ed attivo ad Alessandria alla fine del iii secolo a.C., autore di contributi di architettura civile e militare, di meccanica teorica, civile e militare e di tattica, riuniti nei nove libri, solo parzialmente conservati, della Mhcanikh; suvntaxi~, quasi certamente fonte di Vitruvio in De arch. 1, 5, dedicato alla costruzione della cinta muraria (Garlan 1974, 279-404) ; Carias (iv secolo a.C.), ingegnere al seguito di Alessandro, come Diade, al cui nome è comunemente associato (ambedue furono allievi di Polyidos, che in ordine inverso a quello cronologico viene menzionato successivamente), ed autore di un trattato tecnico sulla costruzione delle torri di guerra, più volte ricordato da Ateneo Meccanico ; Polyidos (iv sec. a.C.), ingegnere militare di Filippo ii di Macedonia, originario della Tessaglia, ricordato soprattutto come costruttore a Bisanzio di una gigantesca torre mobile detta →elepoli, su cui Vitr. 10, 16, 3 (sugli autori di meccanica bellica cfr. Traina 1994 ; per i singoli casi di utilizzazione dei loro scritti da parte di Vitruvio cfr. Callebat-Fleury 1986 ; Fleury 1993 ; Romano 1997a). 5. Fonti latine. – L’ultimo gruppo, infine, comprende le poche fonti latine : Fuficio, Terenzio Varrone, Publio Settimio (7, praef. 14 : Fuficius enim mirum de his rebus primus instituit edere volumen, item Terentius Varro de novem disciplinis unum de architectura, Publius Septimius duo). L’identificazione del primo autore è problematica ; fra i personaggi con questo nome a noi noti, uno solo può essere preso in considerazione, il C. Fuficius Fango ricordato da Dione Cassio (48, 22, 1) come veterano di Cesare, forse attaccato da Catullo in 54, 5 (Fuficio seni recocto ; ma il passo è dubbio dal punto di vista testuale), divenuto senatore (Cic. Att. 14, 10, 2), poi seguace di Antonio, morto nel 40 a.C. →Varrone, figura dominante della vita intellettuale degli ultimi decenni della repubblica, è compreso nell’elenco di autori di architettura grazie ai Disciplinarum libri, opera composta in tarda età, poco prima della morte avvenuta nel 27 a.C., e dunque da poco pubblicata quando  



















scudo Vitruvio compone il suo trattato : primo tentativo di organizzazione sistematica del sapere a Roma nella forma di enciclopedia delle arti liberali (Della Corte 1970, 217 sgg. ; Rawson 1985, 185). Con una proposta innovativa, ma destinata ad avere ben scarso seguito, Varrone ampliava l’ambito delle disciplinae, cioè dei saperi con riconosciuto statuto intellettuale, aggiungendo alle sette tradizionali arti liberali (grammatica, retorica, dialettica, →musica, →geometria, →aritmetica e →astronomia o, secondo altri, filosofia) l’architettura e la medicina. Ad ognuna di queste artes era dedicato un libro. Varrone, autore dichiarato di Vitruvio, che gli dedica un elogio nel proemio del libro ix, è stato sicuramente una fonte importante per l’autore del De architectura : la stessa praefatio del libro vii per la prima parte, che narra episodi ambientati nella biblioteca di Alessandria, deriva probabilmente dal De bibliothecis di Varrone (Romano 1997a, 1012) e all’attività filologica e archivistica di Varrone sembrerebbe rimandare, innanzitutto per la sua organizzazione in pinakes, anche il catalogo delle fonti greche appena esaminato. Per quanto riguarda l’influsso di Varrone in quanto autore di architettura, il libro per noi perduto delle Disciplinae può avere rappresentato per Vitruvio la fonte intermedia per gli insegnamenti di Ermodoro, che, come abbiamo visto, non è nominato nell’elenco del proemio al libro vii, ma il cui contributo teorico è riconoscibile dietro al De architectura (Gros 1973). Altra fonte intermedia fra Ermodoro e Vitruvio potrebbe essere stata (Gros 1973) il Publio Settimio che conclude la rassegna : da identificare probabilmente con l’omonimo personaggio che fu questore durante la pretura (76 a.C.) o la propretura di Varrone, il quale gli dedicò i libri ii-iv del De lingua latina, probabilmente autore dei libri observationum a Septimio editi menzionati da Quint. inst. 4, 1, 19.

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Bibliografia. Callebat-Fleury 1986 ; Della Corte 1970 ; Fleury 1993 ; Garlan 1974 ; Gros 1973 ; Gros 1990 ; Rawson 1985 ; Romano 1997a ; Settis 1993 ; Traina 1994.  

















Elisa Romano Scudo [ajspiv~, qureov~, pavrmh, clipeus, scutum, parma]. Era uno strumento di protezione, generalmente realizzato in legno, utilizzato dagli eserciti greci e dall’esercito romano nel corso della sua lunga storia, durante la quale subì delle variazioni. Pare che la forma originaria dello s., detto clipeus (ajspiv~), fosse tondeggiante, [1] ma successivamente, verso la fine del v secolo a.C., venne sostituto da un altro tipo di s. (qureov~) dalla forma ovoidale e di maggiori dimensioni ; [2] tuttavia la fanteria leggera (leves, velites) e la cavalleria continuarono ad utilizzare uno s. più piccolo tondo (parma, pavrmh). [3] Il nuovo tipo di s. ovoidale aveva un profilo convesso e la sua superficie era solitamente coperta da tessuto di lino e pelle animale. [4] Per renderlo più resistente ai colpi inferti, i bordi dello s. venivano rafforzati applicandovi una struttura in ferro. [5] Il lato rivolto all’esterno era caratterizzato dalla presenza di un umbone, cioè una placca prominente di ferro la cui funzione era quella di far rimbalzare le frecce o altre armi da punta nemiche, ma anche pietre scagliate o altri oggetti contundenti. [6] A partire dal i secolo a.C. lo s. assunse una nuova forma rettangolare con incisi gli emblemi e il nome della legione e venne decorato con fulmini alati, saette circondate da ghirlande, corone d’alloro, un’aquila, una mezzaluna, ghirlande di gigli, etc. Era composto da tre strati di strisce di legno e internamente era rinforzato dall’applicazione di ulteriori strati ; anche questo nel lato esterno presentava un umbone. La superficie era ricoperta di cuoio. I bordi  



Fig. 1. Alcune tipologie di scudo.











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scuole mediche

erano rafforzati con strisce di cuoio cucite nel legno[7] ; è ipotizzabile che questa soluzione sia stata preferita al metallo per conferire allo s. maggiore elasticità e dunque maggiore capacità di assorbire i colpi inferti dal nemico. Il suo profilo rettangolare lo rendeva adatto ad essere utilizzato in un contesto tattico particolare in cui i legionari potevano adottare la famosa formazione di battaglia detta testudo, ‘testuggine’ [→testuggini ed altre protezioni].  

Note. [1] Liv. 4, 59-60 ; e 8, 8, 3. – [2] Plb. 6, 23, 2. – [3] Plb. 6, 22, 1-2 ; cfr. Connolly 1976, 10, 18, 34, 54-55. – [4] Plb. 6, 23, 3. – [5] Plb. 6, 23, 3. – [6] Plb. 6, 23, 5. – [7] Connolly 1976, 50.  



Bibliografia. Connolly 1976 ; Couissin 1926.  

Giuseppe Lupini Scuole mediche. Le scuole mediche [aiJrevsei~, sectae] nel mondo antico e poi tardo-antico sono correnti di pensiero medico ma anche aggregazioni di addestramento professionale. Si differenziano, più che sul piano della pratica terapeutica, soprattutto per ‘dogmi’ e principi teorici e per teorizzazione dei metodi terapeutici. Abbiamo scuole mediche già in età preippocratica, come le scuole della Magna Grecia, ad es. di Crotone, con →Democede di Crotone e →Alcmeone di Crotone, o la stessa scuola siciliana, fondata, secondo la testimonianza di →Galeno, dallo scienziato presocratico →Empedocle di Agrigento, sostenitore della celebre teoria dei quattro elementi ; [1] oltre alle scuole dell’Italia meridionale, altre scuole mediche sorgono a Cirene, a Rodi, a Cnido e, naturalmente, a Cos. Notevole è la scuola di Cnido, ricordata per i suoi scritti di ginecologia e per le sue raccolte di medicina pratica e di prescrizioni, le celebri Raccolte Cnidie, che, tra l’altro, precedono cronologicamente gli scritti dell’altra grande scuola, a indirizzo prevalentemente, come pare, dogmatico, la scuola di Cos, con le opere del Corpus Hippocraticum, corrente di cui faranno parte, oltre che →Ippocrate, →Diocle di Caristo, →Prassagora di Cos e poi anche, prima di fondare scuole proprie, →Erofilo di Calcedonia, →Erasistrato e altri. Si terrà adeguato conto anche della cosiddetta scuola medica di Alessandria, a cui sono da ascrivere appunto Erofilo ed Erasistrato e anche della cosiddette scuole di Pergamo e di Atene. Ma in Grecia fioriscono anche altre scuole, che avranno  

incidenza maggiore sullo sviluppo successivo della medicina, specialmente a Roma. Le scuole saranno particolarmente vivaci, attive e in polemica tra loro soprattutto tra il i sec. a. C. e il i sec. d. C. Abbiamo informazioni sufficientemente documentate per gli indirizzi seguenti : Erofilei, Erasistratei, Dogmatici, Empirici, Metodici ; ci saranno anche altre scuole, ma non sempre documentate sufficientemente ; ad es. nel primo periodo imperiale fiorirà la Scuola dei Sestii ; nella tarda antichità la celebre Scuola di Ravenna ; in età medioevale la nota Scuola medica salernitana. Relativamente alle scuole di età ellenistica e romana abbiamo notizie e dati piuttosto tardi. Come fonti si hanno, in prima età imperiale →Celso, De medicina, Prooem. 1-25 / 17-21 M, e, nell’età degli Antonini, soprattutto Galeno (Subfiguratio empirica, opera tràdita solo attraverso la versione medioevale di Nicola da Reggio), De experientia medica, conservato solo in tradizione araba ; De sectis ad eos qui introducuntur – con i relativi commenti in greco e in latino dei secc. v e vii – inoltre De optima doctrina, De optima secta ad Trasybulum). Il periodo di maggior interesse e polemica dottrinale sulle sètte mediche è compreso tra i secc. i-iii d.C., con un seguito di diatribe e dispute in trattati e commenti scolastici greci e latini che perdura fino ad età tardo-antica e, in lingua araba, fino ad età medioevale. Le scuole mediche sono al tempo stesso sistemi dottrinari e scuole di ginnastica e di pensiero morale, professionale e umana ; sono in genere collegate con le grandi correnti di pensiero, che ne favoriscono e canonizzano l’impostazione : a parte il pensiero ippocratico, che è sotteso a tutti gli indirizzi dottrinari, la dottrina dei →dogmatici può essere ricondotta al pensiero di →Platone e →Aristotele ; la scuola degli →empirici allo scetticismo di Pirrone di Elea ; la dottrina dei →metodici, soprattutto attraverso →Asclepiade di Prusa e →Temisone di Laodicea, alle premesse epicuree e, in prospettiva, all’atomismo di →Democrito e a teorie fisiche di →Empedocle ; la corrente degli →pneumatici, caratterizzata dagli stoicheia, ha una evidente ascendenza stoica. Questo sviluppo avviene nel rispetto e nell’osservanza dichiarata delle linee e dei principi fondamentali del pensiero ippocratico : così i Dogmatici ; così gli Empirici, che di Ippocrate si sentono in qualche modo continuatori ; così gli Pneumatici, che esaltano l’equilibrio tra lo ‘pneuma’ e  



























semeiotica medica le sue qualità (i quattro umori : caldo, freddo, secco e umido). Non a caso, contro i Metodici, che dichiaratamente si allontanano dai presupposti ippocratici, soprattutto nella sostituzione dell’eziologia umorale delle malattie con l’interpretazione atomistica e, nella terapeutica, con la preferenza accordata, soprattutto in età romana, alla diaeta intesa come armonica organizzazione di vita ed equilibrio fisiopsichico – ciò che diverrà poi mens sana in corpore sano – scatenano a più riprese proteste e accuse delle altre scuole : si pensi alla difesa appassionata dei medicamenta da parte di Scribonio nell’Epistula dedicatoria contro i nuovi medici che ne vorrebbero bandire l’uso terapeutico : Praef. 9 / 3, 27-28 S sed ista licentia nomine tantummodo propter quorundam neglegentiam latius processit ; [2] alle note posizioni di Plinio prima (nat. 29, 1) e di Galeno poi (Meth. med. 1, 2 / 10, 8 K) contro Tessalo di Tralle, accusato di definirsi iatronikes e di promettere di far divenire chiunque ottimo medico in soli sei mesi. [3] Su alcune di queste sette mediche abbiamo notizie e dati meno ampi (Dogmatici, Scuole di Cnido e Cos) ; per altre abbiamo notizie più circostanziate e attendibili (così sulle scuole di Erofilo, Erasistrato, su Empirici, Metodici, Pneumatici, →Episintetici). Le correnti di pensiero più importanti sono la dogmatica (detta anche logica, o razionale, o analogica), l’empirica, la metodica, la pneumatica. Ad esse si attribuisce di solito un auctor, un maestro : così, variamente, →Ippocrate, →Diocle di Caristo, →Erofilo, →Erasistrato, →Asclepiade, etc. Le scuole, particolarmente attive e in polemica tra loro tra i sec. a.C. e i sec. d.C., presentano divergenze più nel campo dei principi teorici che in quello della prassi terapeutica quotidiana. →dogmatici ; →empirici ; →metodici ; →pneumatici ; →episintetici.  





















Note. [1] Fr. 31 A 49 D.-K. – [2] Cfr. Sconocchia 1993a, 1996 e 2002a. – [3] Cfr. Sconocchia 1984, 125-157. Fonti. Fonti dirette di informazione sulle sètte mediche sono Celso, De medicina, Prooem. ; inoltre varie opere di Galeno, come Subfiguratio empirica, tràdita soltanto nella traduzione medioevale di Nicola da Reggio ; De experientia medica, conservata soltanto in arabo ; De sectis ad eos qui introducuntur ; De optima doctrina ; De optima secta ad Trasybulum ; importanti passi da scritti pseudo galenici come Introductio seu medicus e Definitiones ; per la fortuna  





   





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delle scuole, i commenti al De sectis, in greco, in latino e in arabo, ascrivibili ai secc. v-vii. Bibliografia. Bühler 1994, 140-152 ; Mazzini 1997, 189-209 ; Sconocchia 1984, 125-157 ; Sconocchia 1993a, 843-922 ; Sconocchia 1996 ; Sconocchia 2002a in lst 2002, 305-309 ; 314-315.  











Sergio Sconocchia Semeiotica medica. 1. Premessa. – Semeiotica, per ‘arte dei segni’, è intesa come applicazione pratica della semeiologia, titolo di un ‘trattato dei segni’ del medico Demetrio di Apamea, di datazione incerta, tra il sec. iii a. C. e il sec. i d. C., citato da Sorano. [1] La forma semeiotica del lat. scientifico moderno è attestata almeno dal sec. xvi ; invece la forma della trascrizione etimologica semeiotica / semeiotiké, che presuppone tevcnh (cioè ‘arte’, in analogia alla qerapeutikhv di →Platone) si è, con ogni probabilità, affermata con il titolo di un trattato francese dell’inizio del sec. xix. [2] Con il termine semeiotica si indica in pratica il complesso dei sintomi, cioè la sintomatologia : si vedano le citazioni frequenti dal Corpus Hippocraticum, 260, a →Galeno. Proprio per merito di quest’ultimo la semeiotica si suddivide in modo specialistico con triplice dimensione temporale, nei tre rami di Anamnesi, cioè ‘ricordo delle affezioni passate’ (praeteritorum cognitio), Diagnostica, cioè ‘conoscenza del presente’ (praesentium inspectio) e Prognosi, o ‘previsione delle situazioni future’ (futurorum prouidentia). Al greco shmei`on corrisponde in lat. signum. [3] L’opera di →Areteo è allineata a questo valore di shmeivwsi~. Il significato del sēmeion era anche nella sfera cultuale e religiosa, ad es. con i sacerdoti egiziani. [4] Nel Corpus Hippocraticum il termine sēmeion è attestato 260 volte : anche se la semiologia ippocratica non è perfezionata, Ippocrate è considerato dagli studiosi moderni il ‘padre e maestro della semeiotica’. [5] Dai ‘segni’ il medico può ricavare la prognosi e indicazioni terapeutiche : ci sono, ad es., segni particolari per la lingua nella ‘febbre ardente’, [6] l’aspetto del pus può rivelare una pneumonia, la caduta dei capelli può indicare un decorso che porterà al decesso. [7] In due scritti ippocratici, Prognosis e Prorrheticon (Praesagia) i medici ippocratici contestano che la semeiotica sia da rapportare ad alcuni aspetti della mantica [8] e si oppongono ad accostamenti dell’ars con l’arte della divinazione. Anche con Galeno semeiotikon indica l’insieme dei sintomi e quindi  



















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semeiotica medica

rinvia alla parte diagnostica della medicina. [9] Sēmeiōtikon era anche il titolo di uno scritto attribuito a Demetrio di Apamea. [10] Al campo della Semeiotica appartiene anche il concetto di sēmeiōsis. [11]  





Note. [1] shmeiotikovn : cfr. Sor. gyn. 2, 55, 1. – [2] Cfr. Laudré-Beauvais, Sémantique, ou traité des signes, Paris 1813. – [3] Cels. 2 Prooem. 1 / 45 M ; 2, 8, 25 / 72 M. – [4] Hdt. 2, 38, 2. – [5] Cfr. Kleinpaul 1888 passim. – [6] Hp. Morb. 3, 6 / 7, 124 L. – [7] Morb. 2, 47 sg. / 7, 72 L. – [8] Prorrh. 2, 1 / 9, 6 sg. L. – [9] Ps. Gal. Intro. 7 / 14, 689 K ; In Hp. Off. comm. 1, 1 / 18, 2, 633 K. – [10] Sor. gyn. 2, 55, 1. – [11] Gal. Plen. 8 / 7, 554 K ; Praesag. puls. 3, 7 / 9, 381 K. ; Sor. gyn. 3, 23, 1 ; 3, 43, 3.  











Fonti. Hdt. 2, 38, 2 ; Hp. Prog. / 2, 110-190 L ; Morb. 2, 47s / 7, 72 L ; Morb. 3, 6 / 7, 124 L ; Prorrh. 2, 1 / 9, 6 sg. L. – [3] Cels. 2 Prooem. 1 / 45 M ; 2, 8, 25 / 72 M ; Gal. Plen. 8 / 7, 554 K ; Praesag. puls. 3, 7 / 9, 381 K ; Ps. Gal. Intro. 7 / 14, 689 K ; In Hp. Off. comm. 1, 1 / 18, 2, 633 K ; Sor. gyn. 2, 55, 1 ; 3, 23, 1 ; 3, 43, 3.  























Bibliografia. Di Benedetto 1986, 97-125 ; Fausti 2005 ; Langholf 1997, 1, 912-921 ; Manetti 1993, 36-52.  





malati ; così sussisteva la disposizione del malato a ‘svelare se stesso’. [3] In modo simile un medico itinerante che si recava presso una città amica doveva riflettere sulle sue condizioni climatiche e mettere in guardia gli abitanti da alcune possibili malattie. [4] Un valore autonomo assumeva l’anamnesi nella medicina antica attraverso lo scritto di →Rufo di Efeso, Iatriké erōtēmata, cioè Le domande del medico ai malati. Le risposte dei pazienti alle domande davano anche informazioni sullo stato generale del corpo e dello spirito dei malati. [5] Il medico deve cercare di capire adeguatamente la situazione e l’ambiente soprattutto con vecchi e bambini ; per pazienti di lingua straniera sono necessari interpreti. [6] Rufo si disponeva comunque, senza problemi, a formulare una diagnosi fondata soprattutto sull’osservazione realistica dei sintomi.[7] Con le donne, naturalmente, l’anamnesi era più difficile : per determinate affezioni a organi e dolori particolari, subentravano pudore e vergogna da parte delle pazienti. [8]  







Note. [1] Hp. Epid. 1, 11 / 2, 670 sgg. L. – [2] Insomn. 87 / 6, 642 L. – [3] Hp. Prog. 1 / 2, 110 L. – [4] Aër. 1 / 2, 12 L. – [5] Qu. med. 1. – [6] Qu. med. 3 ; 9. – [7] Qu. med. 21 sg. – [8] Galeno richiama, in particolare, un caso di anamnesis con domande a una schiava del paziente : Gal. Praecog. 6, 21 ; 8, 2 / 14, 631 ; 641 K.  

2. Anamnesi. – Anamnesi [ajnavmnhsi~, anamnesis], ‘ricordo’, è vocabolo attinto e adattato dalla filosofia platonica (soprattutto Menone e Fedone). In medicina, con il passaggio semantico, nelle fonti antiche, da ‘rimebranza’ a ‘precedente / connessione’, indica l’acquisizione, da parte del medico, dei precedenti del paziente. Essi possono riguardare anche tutto il gentilizio (a. familiare) e i primi atti della vita di relazione (a. fisiologica), quanto le malattie sofferte dal paziente in precedenza (patologia remota) e gli antefatti immediati della malattia attuale (a. patologica prossima). La raccolta di tali dati è elemento prezioso per la diagnosi e per la terapia. Il medico ippocratico doveva riuscire, durante la visita, dall’osservazione dei segni (semeiotica), a stabilire Diagnosi e Prognosi : [1] doveva raccogliere attraverso le sue domande le indicazioni fornite dal paziente sul suo modo di vita, sui suoi traumi passati, [2] sulle sue malattie precedenti. L’anamnesi del medico ippocratico non consisteva tuttavia in nessun tipo vero e proprio di ‘investigazione’ durevole del paziente. Apparteneva spesso all’arte della ‘previsione’ (gr. pronoia), preistoria : conoscere, cioè, stato presente e decorso futuro della malattia, senza aggiungere indicazioni corrispondenti presso i  











Fonti. Hp. Aër. 1 / 2, 12 L ; Prog. 1 / 2, 110 L ; Epid. 1, 11 / 2, 670 L ; Insomn. 87 / 6, 642 L ; Pl. R. 3. 389c ; Ruf. Qu. med. 1 ; 3 ; 9 ; 21 sg. ; 41 ; Gal. Praecog. 6, 21 ; 8, 2 / 14, 631 ; 641 K.  























Bibliografia. Leven 2005q, 41-43 ; Sideras 1994.  

3. Diagnosi. – La diagnosi (diavgnwsi~, da diagignwvskw), cioè il ‘riconoscimento’ della malattia e della sua natura, si fonda, da Ippocrate in poi, per le malattie in sé evidenti sulla sintomatologia, per le malattie nascoste sull’immaginazione e sul ragionamento. Così si legge nel Corpus Hippocraticum : « Per ciò che riguarda le malattie meno evidenti e più difficili si deve giudicare più con l’immaginazione che utilizzando gli strumenti dell’arte medica » ; [1] ancora in epoca romana leggiamo : « Anche per la medicina è necessario il ragionamento, anche se non dobbiamo vedercela con cause oscure né con azioni naturali, tuttavia spesso** : infatti quest’arte è fondata sulla ‘congettura’. Né per la medicina è sufficiente non solo la ‘supposizione’, ma anche l’esperienza ;  















semeiotica medica talvolta non segue la febbre, non il desiderio di cibo, non il sonno, così come suole capitare in certi casi ». [2] Il paziente può essere di aiuto al medico nella formulazione della diagnosi : « È opportuno rivolgere al paziente stesso delle domande ; tramite esse, infatti, si potrà venire a conoscenza, con maggior precisione, di alcuni elementi relativi alla malattia, che potrà così essere curata con maggiore successo […] ». [3] Si tengono in gran conto condizioni oggettive dell’ambiente, come clima, localizzazione geografica, tempi, stagioni etc. e condizioni soggettive relative a malattia e paziente, come occhio, pulsazioni, facies etc., in un contesto molto ampio. Questo tipo di metodologia diagnostica generale perdura per tutta l’età antica. Leggiamo anche in →Galeno : « Impariamo a formulare la diagnosi delle malattie da questi elementi : dalla natura comune a tutte le affezioni e dai caratteri propri intrinseci ad ognuna di esse, dalle malattie e dal paziente, dai sintomi oggettivi e dagli elementi soggettivi forniti dal malato […] ». [4] Si aggiunga che, relativamente al concetto di malattia, possono acquistare maggiore importanza, ai fini della diagnosi, alcuni elementi o sintomatologie del paziente : ad es. il polso per gli →pneumatici, alcuni escrementi (come il sudore) per i →metodici, oppure, per alcune scuole, come quella degli →empirici, possono avere importanza solo i sintomi evidenti, percepibili cioè con i sensi (Mazzini 1997, 296). La diagnosi, infine, poteva essere anche retrospettiva.  























Note. [1] Hp. Flat. 1 / 6, 90-92 L. Trad. dello scrivente, qui e infra. – [2] Cels. prooem. 48 / 25 M ; cfr. Mazzini 1997, 297. – [3] Ruf. qu. med. 1-7/195-197 D R. – [4] Gal. In Hp. Epid. 1 comm. 3, 1 /17, 1, 203204 K.  

Fonti. Hp. Flat. 1 / 6, 90-92 L ; Epid. 1, 9 / 2, 668 L ; Off. 1 / 3, 272 L ; Cels. Prooem. 48 / 25 M ; Ruf. qu. med. 1-7/195-197 D R ; Gal. In Hp. Epid. 1 comm, 3, 1 / 17, 1, 203-204 K.  









Bibliografia. Garcia-Ballester 1994 ; Mazzini 1997, 296-298 ; Meyer-Steineg 1916, 45-72 ; Potter 1988a, 46-49 ; Potter 2005a, 219-220 e 2005c 220221 ; Urso 2000.  









4. Prognosi. – L’idea di prognosi [provgnwsi~, praecognitio] compare per la prima volta nel titolo del trattato ippocratico Coacae Praecognitiores, ascrivibile al 400 a.C. circa. Il Corpus Hippocraticum contiene trattati prognostici [1] e

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scritti di carattere aforistico al riguardo. Una trattazione sistematica sul tema è sviluppata, come è noto, in Prognosticon (Prog.). Nella dottrina del Corpus la conoscenza del decorso della malattia dal passato alle previsioni per il futuro è fondamentale, nel senso di comunicazione della ‘prognosi’ al malato. [3] L’atto della prognosi consiste, in effetti, sull’’anamnesi’ del presente, del passato e del futuro, cioè nel conoscere e saper dire con precisione la malattia dei singoli pazienti. [4] Come scrive →Ippocrate, «L’ottimo medico sembra a me quello capace di conoscere in anticipo. Infatti conoscendo anticipatamente e predicendo presso i pazienti il presente, il passato e le cose che verranno in futuro e spiegando quello che i malati omettono, il medico potrà conquistare in misura maggiore la fiducia dei pazienti, che, certi della conoscenza, da parte del medico, delle condizioni dei malati, si risolveranno meglio ad affidare se stessi alle cure del medico […] Guarire tutti i pazienti non è possibile : questo, certo, sarebbe di gran lunga preferibile al conoscere in anticipo il decorso futuro delle malattie». [5] La prognosi è così rivolta non solo, stricto sensu, al futuro. Attraverso di essa il medico può conoscere la natura segreta della malattia e se in essa vi sia qualche elemento ‘divino’. Chi conosce bene l’arte della Prognosi è davvero un ‘buon medico’. Nel trattato Sul morbo sacro (Epilessia) l’Autore dei Prognostica cita casi di morte, ma questi non sono provocati da intervento divino, o demoni : il ‘divino’ va inteso piuttosto come la Natura stessa in senso stretto : così Galeno [6] a proposito della relativa katastasis (situazione atmosferica). Nel caso in cui il medico predicesse la sopravvivenza o la morte dei malati era comunque anaitios, libero da accuse : questo dimostra la posizione incerta, di fatto, del medico ippocratico (Leven 2005r, 728). Le Epidemie ippocratiche indicano parimenti l’uso pratico dell’arte della Prognosi. In un passo si insiste sulla triplice valenza della prognosi : «ricordare il passato, conoscere il presente, predire ciò che avverrà nel futuro». [7] Due principi fondamentali sono strettamente legati alla prognosi stessa : il primo è che il medico «deve aiutare o almeno non danneggiare» (wjfelei`n h] mh; blavptein), il secondo riconosce che la medicina comprende tre elementi : la malattia, il paziente e il medico (gr. dia triōn : Leven 2005r, 729). In uno degli scritti ippocratici più tardi sulla Deontologia si ricorda che  





















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semiologia veterinaria

la dichiarazione non sincera e schietta degli esiti infausti della malattia ha spinto alcuni pazienti a gesti insani. [8] Alcuni scritti ippocratici trattano della Semeiotica, cioè dei sintomi (gr. sēmeia) relativi alla malattia (aspetto, disturbi, respirazione, secrezioni etc.) ; [9] sta al medico percepire questi aspetti con i suoi sensi, vista, udito, tatto, olfatto. [10] Manifestazione caratteristica è – con denominazione moderna – la facies Hippocratica, relativa appunto al momento della morte. [11] La Patologia, attraverso la prognosi, è collegata con la mantica, in alcuni testi ippocratici anche a livello linguistico. Le posizioni nei confronti dei Prognostica ippocratici sono diverse : così, se per →Aristotele la prognosi non è da mettere in discussione, [12] pare che Erofilo stesso abbia composto uno scritto contro il Prognosticon. [13] La prognosi si basa fondamentalmente sui sintomi nel loro complesso e tiene stretto conto dei fattori variabili soggettivi (età, complessione etc.) e oggettivi (stagioni, luoghi etc.). [14] Essa è fondamentale per la malattia presente e per prevenirne altre : «Il medico, conosciuta bene la malattia, avrà la possibilità di tenere lontane altre malattie che sono solite seguire ; di altre patologie inoltre sarà in grado di ridurre la violenza ; a tutte quante potrà opporre resistenza valida come un buon timoniere quando sta per sopravvenire una tempesta». [15] →Celso, nel diffondersi a parlare delle malattie e delle affezioni che infestano la vita dell’uomo, si sofferma a descrivere, in pratica, i valori della ‘prognosi’ : «In queste cose un medico deve sapere, prima di tutto, quali siano i mali insanabili, che richiedono una terapia particolarmente difficile e tempestiva. È infatti dovere di un uomo prudente, innanzitutto non toccare affatto il paziente che non può essere salvato, né soffermarsi a considerarne l’aspetto, come di un uomo in pratica già morto, che la sua stessa sorte ha eliminato ; in secondo luogo, dove sussiste una paura grave ma senza disperazione tuttavia certa, rivelare ai congiunti del paziente in pericolo che la speranza è ridotta al minimo perché, nel caso in cui l’arte sia stata vinta dal male, non sembri aver ignorato la gravità del male o aver voluto ingannare». [16] Galeno, a sua volta, commenta il Prognosticon di Ippocrate e compone uno scritto Sul Pronostico che, in pratica, è soprattutto volto a descrivere alcuni dei casi terapeutici eclatanti da lui trattati durante il suo primo soggiorno a Roma, compreso il trattamento terapeutico relativo a Marco  















Aurelio. Come nel caso della diagnosi, anche per la prognosi perdurano per tutta l’età antica i principi metodici di base ; le consuetudini e le specificità della prassi sono soggette invece a variare, a seconda dei tempi e delle scuole mediche. L’attendibilità incerta o addirittura erronea della prognosi, già segnalata nelle epoche antiche per singoli casi, viene chiarita, anche per principio, in età cristiana, così come, in seguito, nell’agiografia bizantina.  

Note. [1] Prog., Prorrh. 2 ; Aër. – [2] Prorrh. 1 ; Aph. ; Iudic. ; Dieb. iudic. – [3] Prog.1 / 2, 110 L. – [4] Prog. 1 /2, 110 L : cfr. Leven 2005r, 728. – [5] Prog. 1 / 2, 110-112 L : cfr. Mazzini 1997, 299. – [6] In Hp. Prog. comm. 1, 4 /18, 2, 21 K. – [7] Epid. 1, 5 /2, 632-636 L. – [8] Decent. 16 / 9, 242 L. – [9] Prog. 24 / 2, 181188 L – [10] Epid. 4, 43 / 5, 184 L : cfr. Leven 2005r, 729-730. – [11] Prog. 2 / 2, 112 sg. L. – [12] Metaph. 3, 5 / 1010 b, 13 sg. – [13] 1, 31 ; 261 von Staden. – [14] Per le stagioni si veda ad es. Hp. Aër. 10 /2, 48-50 L. – [15] Gal. In. Hp. Prog. Comm. 3 /18, 2, 5 K. – [16] Cels. 5, 26, 1c / 215 M.  





























Fonti. Hp. Aër. Aph. ; Dieb. iudic. Iudic. Progn., Prorrh. 1 ; Prorrh. 2 ; Hp. Aër. 10 /2, 48-50 L ; Prog. / 110191 L ; Epid. 1, 5 /2, 634 L ; Epid. 4, 43 / 5, 184 L ; Decent. 16 / 9, 242 L ; Arist. Metaph. 3, 5 / 1010 b, 13s. ; Herophil. 1, 31 ; 261 von Staden ; Cels. 5, 26, 1c /215 ; Gal. In. Hp. Prog. Comm. 3 /18, 2, 5 ; Praecog. / 14, 599-673 K ; In Hp. Prog. Comm. 1, 4 /18, 2, 21 K.  



























Bibliografia. Edelstein 1967b, 72-75 ; Kudlien 1977 ; Langholf 1983 ; Langholf 1992, 224-241 ; Leven 2005r, 728-731 ; Mazzini 1997, 298-299 ; Nutton 1979.  











Sergio Sconocchia Semiologia veterinaria. 1. Definizione di semiologia. – Con semeiotica si indicano gli studi medici che si occupano dei sintomi, ovvero la sintomatologia (→semeiotica medica) per la quale si può risalire alle riflessioni di medici come Ippocrate di Cos (→Ippocrate), e del medico e filosofo Galeno (→Galeno). Grazie a quest’ultimo, la semeiotica divenne un’area della medicina con un triplice orientamento temporale (praeteritorum cognitio, praesentium inspectio, futurorum providentia) : verso il presente (diagnostica), verso il passato (anamnestica), verso il futuro (prognostica). [1] Anche se della fase arcaica greca e latina non si hanno certezze circa il modus operandi non soltanto dei veterinari ma anche dei mulomedici o dei pastori dedicati alla cura degli armenti nelle  



semiologia veterinaria fattorie ; durante l’epoca imperiale romana e, ancor più, durante la fase tardo-antica la semiologia si è evoluta al punto da sviluppare una precisa metodologia di lavoro sia nei veterinari sia in chi si occupava della cura degli animali senza essere un erudito. Il modus operandi dei veterinari di queste due epoche storiche seguiva un percorso che prende inizio dalla sintomatologia che gli animali mostrano all’esterno. Su questo era basato il concetto di salute e quello di stato morboso : lo stato patologico di un animale, infatti, era definito dalla sintomatologia che lo stesso presentava. Lo studio sintomatologico non sempre seguiva un ordine logico nella suddivisione tra patologia generica e specifica, poiché la definizione di questo stato necessitava un precedente lavoro di raccolta e schematizzazione dei sintomi che, solo nel quarto secolo d.C., con Vegezio e Chirone, vedrà la sistemazione scientifica di tutto il materiale a disposizione dei mulomedici. La semiologia non si esauriva esclusivamente nell’osservazione e nella classificazione delle malattie ; comprendeva anche l’eziologia patologica, cioè la spiegazione delle cause della malattia. Per questa sezione specifica la veterinaria si è allineata e appoggiata alle tre teorie mediche più diffuse : la teoria umorale, la teoria dei →metodici e degli →empirici. In particolare è Chirone che si basa sulla teoria metodica, affermando, nel primo libro del suo manuale, che le malattie esistono perché in natura ci sono tre status diversi e che lo squilibrio di uno dei tre è causa della relativa patologia che andrà curata con terapie atte al ripristino dello status regolare. L’eziologia degli stati patologici non ha mai trovato nei veterinari veri e propri studiosi che volessero approfondire le tematiche proprie di questa materia : i veterinari erano uomini ‘pratici’, che spesso dovevano operare in condizioni particolarmente pericolose, come le guerre o i giochi circensi oppure durante pestilenze, quando l’interesse era tutto incentrato nella cura dell’animale malato e non c’era modo di approfondire le cause di un evento patologico. Ecco perché erano più importanti altri aspetti, quali l’identificazione dei sintomi specifici di ogni malattia e delle possibili cure. L’analisi semiologica era svolta attraverso tre gruppi di rilievi sull’animale malato : la facies, gli atteggiamenti particolari e le alterazioni delle singole parti del corpo. Per quanto riguarda le lesioni interne, soprattutto  











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dei ruminanti, poiché non era sufficientemente conosciuta l’anatomia dei loro organi interni [→anatomia], si praticava una medicina basata sull’osservazione dei sintomi esterni e si trascurava la diagnostica della lesione (proprio perché spesso invisibile). Si parla, dunque, di debolezza, tosse, dispepsia (fastidium), vomito, coliche e diarree, ma non di un’osservazione diretta dell’organo malato. Con facies si intendono, invece, le espressioni patologiche che l’animale malato assume (nella moderna veterinaria facies hippocratica indica lo stato preagonico e facies sardonica la fase agonica) e gli atteggiamenti tipici dell’animale sofferente. Spesso, nei manuali di epoca tardo-antica, ma anche di epoca imperiale romana, seppur con minore chiarezza semantica, si possono leggere termini specifici che tentano di spiegare questi stati patologici, ad esempio sonnolenza, stordimento, tristezza, languidezza, febbre (di origine interna o esterna cioè causata da ferite infette), avversione al cibo o all’acqua, occhio tumido, collo riverso in terra ed altri ancora. In un secondo tempo la malattia specifica è descritta attraverso i signa veri e propri. Tipici sono quelli delle malattie dermatologiche o ritenute tali dai veterinari dell’epoca ; in questo caso si possono leggere lemmi che si riferiscono al fastidio dell’animale quando la patologia è evidente dall’esterno quali, il grattarsi, lo sdraiarsi a terra, il dondolarsi o il guardarsi il fianco. Il terzo tipo di analisi era sviluppato attraverso la descrizione delle lesioni provocate dalla patologia. Queste rappresentano semplicemente tutto quanto non sia considerato il ‘normale’ stato dell’animale: le ferite, le mutilazioni, le escrescenze, le tumefazioni e l’interruzione delle funzioni fisiologiche normali dell’animale. A tutto questo seguiva la diagnosi di sopravvivenza dell’animale oppure l’evoluzione dello stato patologico da curabile ad endemico a fatale. 2. Breve excursus storico. – In campo veterinario la semeiotica si è andata sviluppando, anche se molto lentamente e a fasi alterne, già da Omero. Nell’Iliade e nell’Odissea, infatti, si trovano numerosi, seppur isolati, riferimenti alla medicina veterinaria ed alle ferite degli animali con particolare riguardo a quelle del cavallo. Già nell’Iliade leggiamo di una pestilenza che colpì muli e cani e che poi si propagò tra gli uomini. [2] Nel testo omerico non vi è la descrizione della sintomatologia, ma probabil 



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semiologia veterinaria

mente si era già formato il concetto di contagio perché nei tre versi dell’Iliade possiamo leggere prw`ton «prima» e aujta;r e[peita «dunque dopo» : termini che indicano il trascorrere del tempo durante il quale la malattia si è propagata dagli animali agli uomini. Con Aristotele, finalmente, appare anche per la veterinaria e per le scienze naturali, il concetto di ‘metodo scientifico’ cosicché anche la semiologia veterinaria acquista maggiori basi empirico-scientifiche pur non raggiungendo le profondità tecniche e teoriche di →Ippocrate e di →Galeno nella medicina umana. Aristotele sottolinea più volte che in quel tempo la veterinaria era ben sviluppata. I suoi scritti rispecchiano i principi ippocratici sulla semiologia nella medicina umana. Egli sostiene la necessità dello studio comparato per la patologia, come gli ippocratici avevano già istituito. L’autore dell’Historia Animalium si occupa sistematicamente, nei libri ottavo e nono, delle malattie del cavallo, dell’asino, dei bovini, del cane e dei suini, descrivendoci sommariamente malattie che probabilmente sono corrispondenti ad alcune moderne patologie. In merito alla semiologia, Aristotele apporta una vera e propria rivoluzione rispetto ai predecessori accusati di essere più filosofi che ‘scienziati’, poiché le loro conoscenze avevano l’unico scopo di formulare teorie, ma non avevano riscontri tecnici e pratici. Come è noto, infatti, Aristotele si è servito non soltanto di esperienze proprie per descrivere lo stato patologico degli animali, quanto più delle conoscenze provenienti da allevatori e pastori. La sua analisi semiologica si basa, per la prima volta, sulla descrizione dei sintomi della patologia presa in esame. Questi non sono ancora stati messi in correlazione[3] per dare loro una valenza complessiva, ma lo Stagirita accenna al decorso patologico, che inizia in un punto del corpo, oppure con un solo sintomo, che poi degenera espandendosi o aggravandosi. [4] I termini aristotelici più frequenti per la descrizione semiologica sono : l’aggettivo dh`lo~ per indicare le evidenze ovvero i signa [5] del morbo ; il verbo tugcavnw per indicare sia la parte del corpo subito colpita dal decorso patologico, sia lo sviluppo e l’evoluzione patologica nella sua complessità. [6] Segnaliamo, infine, il termine shmei`on che indica il sintomo o i sintomi della malattia. [7] Il lemma appena indicato non è sostituito da alcun altro sinonimo, quindi il lin 











guaggio di Aristotele risulta essere piano, quasi monotono. Non si rilevano periodi ipotattici nella descrizione sintomatologica : questa caratteristica, pur facilitando la comprensione del testo, va a discapito della vivacità letteraria che in questi paragrafi è del tutto assente. Le sezioni del testo che descrivono le patologie più comuni degli animali da allevamento, infatti, sembrano essere generate da una lista di malattie e sintomi rielaborati in formato testuale, mentre lo schema di ogni paragrafo è sempre il medesimo : nome della malattia, descrizione sintetica dei sintomi, prognosi o meno di morte dell’animale colpito, possibili cure. Con Senofonte abbiamo l’indicazione di alcune malattie specifiche per il cavallo ed il cane, ma l’analisi sintomatologica è del tutto assente. Negli Hippiatrica, così come nella manualistica veterinaria di epoca tardo-antica, l’osservazione dei sintomi trova ampio spazio e spesso giunge a diagnosi che comprendono l’ampio spettro della sintomatologia tipica di una patologia. Le diagnosi risultano precise anche se nella maggior parte dei casi inattendibili agli occhi moderni. Tra gli ippiatri è Ierocle che ha piena coscienza dello stato in cui versa la semiologia veterinaria : essa non ha le stesse basi scientifiche di quella umana perché i mulomedici, fino ad allora, non vi avevano dedicato tempo e studi approfonditi. [8] Nel mondo latino dobbiamo aspettare Varrone, ma ancor più Columella, per avere un’analisi semiologica delle patologie prese in esame. Catone il Censore, infatti, nel suo De re rustica si occupa di pochissime malattie del bestiame in maniera del tutto superficiale, tralasciando di analizzare i sintomi e dedicandosi esclusivamente alla cura che spesso si fa forza di formule magiche o superstiziose. Nel suo manuale la patologia è descritta con il solo nome [9] o con il sintomo che la contraddistingue maggiormente. [10] A tutto questo segue direttamente la ricetta per la cura. Nel suo manuale è comunque presente il concetto di ‘prevenzione’, poiché alcune ricette sono dedicate proprio all’allevatore o al fattore che non vuole che gli animali si ammalino. [11] Varrone, nel secondo libro, scrive alcuni capitoli sull’allevamento e sulle malattie del bestiame. Secondo questo autore vi sono due tipi di malattie : quelle causate da fattori esterni quali il troppo lavoro al freddo o al caldo e quelle causate da altri fattori. Questi due rami patologici  













semiologia veterinaria si differenziano proprio per la sintomatologia e per la cura ; il primo, infatti è curabile dal pastor diligens, il secondo, invece, proprio perché più grave e semisconosciuto, necessita del magister pecoris. [12] Egli riferisce anche di un libro che il magister pecoris ha con sé nel quale sarebbero segnate tutte le patologie conosciute e, probabilmente, anche il modo per individuarle tra le altre : se così fosse si potrebbe ipotizzare che questo piccolo manuale pratico, di cui non si ha alcuna testimonianza diretta, sarebbe stato il primo trattato di semiologia latina. [13] Per quanto riguarda, invece, il suo volume, non possiamo dire approfondita l’analisi semiologica delle patologie nelle varie specie anche perché spesso fa riferimento ad altri trattati più specifici o al libello sopraccitato. In particolare, per l’analisi semiologica delle patologie equine Varrone, riconoscendo l’importanza del cavallo rispetto alle altre specie animali, sottolinea che tante e tali sono le patologie e gli stati morbosi, che ogni fattore ne dovrebbe tenere memoria attraverso un libello personale, dove annotare i signa morborum (i sintomi) e le relative cure. [14] In conclusione, Varrone, pur riconoscendo come fondamentale il saper individuare una patologia dai suoi sintomi, non ne approfondisce ulteriormente le tematiche, probabilmente perché non le sente come pertinenti all’argomento. Columella nel sesto e nel settimo libro del suo De re rustica tratta di molte malattie degli animali domestici, quasi sempre con molta semplicità e chiarezza. Si diffonde con particolare dovizia nelle patologie dei bovini e degli ovini, ma non trascura nemmeno quelle dei cavalli. Pone molta cura nelle descrizioni sintomatologiche delle varie affezioni ; raramente il suo linguaggio risulta monotono o ripetitivo anche se altrettanto rari sono i termini tecnici o i nomi propri delle affezioni trattate. Per quasi tutte le malattie prese in esame Columella si sofferma molto sull’analisi semiologica e pone l’attenzione anche sull’eziologia di alcuni dei morbi presi in esame. [15] Per quanto riguarda gli ovini approfondisce particolarmente le patologie che colpiscono il manto, cioè le affezioni più pericolose per il loro allevamento. A tal riguardo, nel suo manuale non soltanto è presente il concetto di contagio, ma anche quello di decorso della patologia che, da guaribile, può diventare mortifera per il singolo animale, così come per tutto il gregge per 













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ché, nel suo stadio più grave, si diffonde agli altri animali della fattoria. [16] Le malattie dermatologiche sono per Columella, così come per tutti gli allevatori, le più pericolose e le più difficili da guarire, sia perché la distinzione tra una forma e l’altra spesso è labile e si ingenera confusione sia perché le malattie a carico della cute e del manto danneggiano irreparabilmente tutto il gregge. [17] La sintomatologia è descritta con cura e, in questo caso, non mancano sia termini tecnici o di derivazione greca, sia nomi di derivazione popolare. [18] Nella descrizione semiologica Columella adotta un linguaggio vario : non si trova solo la tipica frase «i segni della malattia sono [19] », ma anche «la malattia infesta gli animali in questo modo» oppure «così potrai capire se l’animale è colpito da questa malattia [20]». Per quanto riguarda le patologie non dermatologiche, Columella non cita spesso il nome proprio della malattia, ma la caratterizza con il sintomo più evidente o quello più grave, [21] per poi approfondire le altre sintomatologie ed il suo decorso. Tra tutti gli autori di res rusticae C. risulta essere il più attento alla semiologia, proprio perché il suo manuale è diretto ad allevatori che hanno necessità di un testo imperniato sulla pratica veterinaria per salvaguardare i loro interessi. Di semiologia in epoca classica si è occupato molto Columella, tuttavia sono gli ippiatri, e Vegezio in particolare, i veri fondatori di questa parte della medicina veterinaria. Pelagonio, fatta eccezione per alcune malattie descritte con particolare dovizia,[22] non mostra interesse per la semiologia: si distacca dagli altri ippiatri e soprattutto da Vegezio (che dedica parte del primo libro alla semiologia), poiché trascura anche di discutere le cause degli stati patologici. Pelagonio scrive quasi avendo come destinatari della sua opera veterinari altrettanto esperti di lui. Anche nel trattato di Pelagonio le patologie non sono descritte se non attraverso il nome tecnico o popolare e le diverse cure possibili ; qualche volta, in assenza del nome proprio, l’affezione viene descritta esclusivamente con il sintomo principale; [23] trascura la sintomatologia e l’eziologia perché egli attribuisce la maggior parte delle cause a fattori esterni allo stato dell’animale. Pelagonio, infatti, pur riprendendo lo schema galenico (→Galeno) di causa procatarctica, causa contentiva e causa antecedens, così come tutti gli altri veterinari, tiene conto quasi esclu 











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semiologia veterinaria

sivamente della causa procatarctica o «causa iniziale», cioè quella che prende in considerazione i fattori esterni quali l’eccessivo caldo, [24] l’eccessivo freddo, [25] l’umido, [26] o l’eccessiva fame [27] e lo sfinimento dal lavoro. L’attribuzione delle patologie animali a stati climatici e ad altri fattori esterni riflette una lunga e mai messa in dubbio tradizione popolare che si può ritrovare già in Catone, [28] in Varrone [29] e in Columella. [30] I veterinari tardo-antichi hanno accettato e fatto loro le teorie mediche sia per quanto riguarda l’analisi eziologica e fisiologica sia per la diagnostica, abbandonando, almeno in parte, le teorie magiche ancora forti in Catone. Questo progresso non ha portato i veterinari verso lo studio di un sistema scientifico, proprio esclusivamente della veterinaria frutto di una ricerca approfondita e di ampio spettro. Nella trattatistica veterinaria tardoantica è però presente un tipo di analisi estremamente più approfondito dei restanti settori di studio, che non si è sviluppato per imitazione delle ricerche mediche, ma che è stato implementato autonomamente dai mulomedici di epoca tardo-antica : si tratta proprio dell’analisi semiologica. [31] L’analisi patologica di epoca tardo-antica è stata approfondita in, ogni sua sezione, dall’analisi eziologica alle facies che di volta in volta l’animale assume, dall’individuazione della sintomatologia specifica alle cure nelle varie fasi della patologia. I veterinari di epoca tardo-antica hanno raggruppato, studiato e conseguentemente suddiviso una massa enorme di informazioni sia sulle patologie equine sia su quelle bovine. Tra gli esponenti di questa epoca spiccano Vegezio e Chirone. Se nell’opera di Vegezio possiamo trovare maggiore coerenza nella suddivisione delle tematiche semiologiche, in Chirone abbiamo tuttavia una sovrabbondanza di informazioni sui signa, le facies e gli stati patologici degli animali. Tra i due autori la differenza maggiore è questa : Vegezio ha tentato di strutturare la materia rinunciando in qualche modo a tutte quelle informazioni non rigorosamente classificabili, o da lui percepite come superficiali o ridondanti, mentre Chirone, seppur in maniera disorganizzata e spesso confusionaria, non sembra aver rinunciato alla trascrizione di tutto quanto fosse a sua conoscenza e concernente lo stato patologico degli animali. In entrambi i manuali i termini patologici sono coerentemente collegati tra loro così da creare un’area semantica ben  















definita, dove lo stato patologico può essere non solo catalogato, ma anche individuato tra gli altri stati patologici. Anche il linguaggio tecnico proprio della semiologia si è sviluppato notevolmente ; non soltanto sono stati presi termini medici per dare loro nuova valenza semantica, ma ne sono stati coniati di nuovi anche dal linguaggio popolare perché più adatti alla descrizione di stati che la medicina umana non poteva descrivere e perché (come accade con i dialetti anche al giorno d’oggi) più facilmente comprensibili a mulomedici, fattori, pastori ed allevatori non particolarmente dotti. Analizziamo brevemente i primi due libri dell’opera di Vegezio dove possiamo trovare la materia semiologica studiata in maniera razionale e, in un certo modo, scientifica. Nel primo libro c’è la definizione, tuttora valida nelle sue linee teoriche generali, secondo cui lo stato patologico di un animale è definito dalla sintomatologia che esso presenta. [32] I primi due paragrafi sono introduttivi e spiegano la differenza tra i segni di uno stato di malessere (valetudo, aegritudo) e quelli di uno stato patologico contagioso [33] (morbus). I successivi sette paragrafi sono incentrati sulle sette tipologie di morbus maleos, cioè le forme con cui tale stato patologico contagioso colpisce gli animali [→patologia veterinaria: vd. Morva] e le relative sette tipologie di cure. Più nello specifico, Vegezio dedica alle teorie semiologiche una classificazione sistematica dei vari sintomi cercando di arrivare a conclusioni che potessero sintetizzare i vari signa in una situazione patologica ben definita. Per la prima volta nella storia della trattatistica veterinaria si nota non solo un’attenzione particolare dedicata alla raccolta dei signa, ma anche una suddivisione scientifica della materia semiologica. Infine la raccolta dei signa avviene contemporaneamente attraverso tutti i cinque sensi del veterinario per la percezione e l’evidenziazione del sintomo. Ritroviamo la stessa cura anche per l’analisi semiologica delle patologie dei bovini ; fatto questo di grande importanza perché la precedente trattatistica non considera mai nello specifico questi animali. Le malattie trattate sono numerose e descritte con cura : le patologie non sono trattate con lo stesso rigore presente nel primo libro quando Vegezio descrive le affezioni che possono colpire il corpo del cavallo seguendo un rigoroso metodo anatomico.  







semiologia veterinaria Note. [1] Petrilli 2003, 95-116 ; Baer 1988 ; Vegetti 1965. – [2] Hom. Il. 43-53: «[…] i muli colpiva in principio e i cani veloci/ ma poi mirando sugli uomini la freccia acuta/ lanciava ; e di continuo le pire dei morti ardevano fitte» (trad. R. Calzecchi Onesti). – [3] Arist. HA 8, 21, 603b, 17-24: «sono pustolosi i maiali che hanno carni flaccide nelle gambe, nel collo e nelle spalle, parti nelle quali rigenerano soprattutto le pustole. I maiali pustolosi presentano segni evidenti : hanno pustole nella parte inferiore della lingua, e se si strappano dei peli dalla criniera questi appaiono insanguinati ; inoltre quelli che hanno le pustole non sono in grado di tenere fermi i piedi posteriori» (trad. di L. Carbone). – [4] Arist. HA 8, 21, 603a-b, 1-5: «quanto ai quadrupedi, i maiali si ammalano di tre malattie : una si chiama ‘branco’ e consiste soprattutto in un’infiammazione delle mascelle e dei bronchi, ma si sviluppa anche sul corpo, dove capita, poiché spesso attacca il piede e a volte l’orecchio e subito diviene infetta anche la parte circostante, finché arriva al polmone : allora l’animale muore. Inoltre il maiale non mangia affatto fin dall’inizio dell’affezione, per quanto questa sia lieve» (trad. di L. Carbone). – [5] Arist. HA 8, 21, 603b, 21 dh`lai d∆ eijsi;n aiJ calazw`sai. – [6] Arist. HA 8, 21, 603a-b, 1 givnetai de; kai; o{pou a[n tuvchÛ. – [7] Arist. HA 8, 24, 604a, 26 shmei`on de; th`~ ajrrwstiva". – [8] A tal riguardo negli Hippiatrica greci si ritrova il concetto che, come i medici più illustri e più seri cercano sintomi con i quali riconoscere una malattia, così anche un ippiatra debba adottare lo stesso metodo di ricerca. Studiare i sintomi della malattia sarà tanto più necessario nella pratica dell’ippiatria in quanto gli animali sono muti. Tale concetto base sarà ripreso più volte da Pelagonio e da Vegezio. – [9] Cat. agr. 96, 1 oves ne scabrae fiant, amurca condito ; […] ; Cat. agr. 126 ad tormina et si aluus non consistet et si taeniae et lubrici molesti erunt […] ; Cat. agr. 127, 1 Ad dyspepsiam et stranguriam mederi : malum punicum […]. – [10] Cat. agr. 72 Boves ne pedes subterant, priusquam in viam quoquam ages. – [11] Cat. agr. 103 boves uti valeant et curati bene sint […]. – [12] Varr. r.r. 2, 1, 21 Quarta pars est de sanitate, res multiplex ac necessaria, quod morbosum pecus est vitiosum et, quoniam non valet, saepe magna adficiuntur calamitate. Cuius scientiae genera duo, ut in homine, unum ad quae adhibendi medici, alterum quae ipse etiam pastor diligens mederi possit. Eius partes sunt tres. Nam animadvertendum, quae cuiusque morbi sit causa, quaeque signa earum causarum sint, et quae quemque morbum ratio curandi sequi debeat. – [13] Varr. r.r. 2, 2, 20 De sanitate sunt multa ; sed ea, ut dixi, in libro scripta magister pecoris habet, et quae opus ad medendum portat secum. – [14] Varr. r.r. 2, 7, 16 De medicina vel plurima sunt in equis et signa morborum et genera  























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curationum, quae pastorem scripta habere oportet. Itaque ab hoc in Graecia potissimum medici pecorum iJppiatroiv appellati. – [15] Colum. 6, 13, 2 Est et infesta pestis bubulo pecori ; coriaginem rustici appellant [...]. Ea res non aliter accidit, quam si bos aut ex languore aliquo ad maciem perductus est, aut sudans in opere faciendo refrixit, aut si sub onere pluvia madefactus est. – [16] Colum. 7, 5, 16 Est etiam insanabilis sacer ignis, quam pusulam vocant pastores. Ea nisi conpescitur intra primam pecudem, quae tali malo correpta est, universum gregem contagione prosternit. – [17] Colum. 7, 5, 11. – [18] Colum. 7, 5, 16-21. – [19] Colum. 6, 6, 1 Cruditatis signa sunt crebri ructus ac ventris sonitus, fastidia cibi, nervorum intentio, hebetes oculi […]; Colum. 6, 7, 1 Sequiturque interaminum vitium, quorum signum est cruenta et mucosa ventris proluvies. – [20] Colum. 6, 30, 5 capitis dolorem indicant lacrimae quae profluunt, auresque flaccidae et tota cervix cum capite aggravata et in terram submissa. – [21] Colum. 6, 30, 8-9 At si bilis molesta iumento est, venter intumescit, nec emittit ventos. […] Solent etiam vermes atque lumbrici nocere intestinis ; quorum signa sunt, si iumenta cum dolore crebro volutantur, si admovent caput utero, si caudam saepius iactant. – [22] Pelagonio si sofferma particolarmente sulla patologia della febbre, del «morbo regio», sul dolore alla testa del cavallo. – [23] Spesso possiamo leggere «Cura della tosse» oppure «se i denti e le gengive dolgono». – [24] Pelagon. 33, 2 evenit autem plerumque febris aut nimio labore, id est cum cursu agitur et post cursum non competentibus cibis aut potionibus curatur ; aut frigore, cum diligentia congrua post frigus non adhibetur ; aut nimio aestu aut cruditate […] ; Pelagon. 183 cum quibus membra aut sole nimio aut labore deficiunt […]. Per Pelagonio si usa l’edizione di Fischer 1980; per Chirone quella di Oder 1901; per Vegezio quella di Lommatsch 1903. – [25] Pelagon. 141, 2 interdum nimio frigore, cum satis alserit aut loco frigido aut umecto steterit ; […]. – [26] L’umidità, anche quella prodotta dall’urina stessa degli animali, era particolarmente temuta per la cura degli zoccoli ; questa, infatti, causava molte malattie alle unghie rendendole deboli o soggette a patologie completamente invalidanti. Colum. 6, 30, 2 multum autem refert robur corporis ac pedum conservare. Quod utrumque custodiemus, si idoneis temporibus ad praesepia, ad aquam, ad exercitationem pecus duxerimus ; curaeque fuerit ut stabulentur sicco loco, ne humore madescant ungulae; Pelagon. 30, 4 ante omnia sane curae tibi sit, ut stabuletur sicco loco, umore enim madescunt ungulae, quod facile vitamus; Veg. mulom. 2, 58, 1 Prudentius consilim est pedum tueri sanitatem quam passionem curare. Corroborantur autem ungulae, si iumenta mundissime et sine stercore vel humore stabulentur et stabula roboreis pontilibus consternantur; Chiron. 610 Ozenae autem sunt, quae videntur esse humores putridi. Chirone, inoltre afferma che  















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seneca, lucio anneo

(Chiron. 152) ex sudore autem nascitur tumor in cruribus, suffusio, febris, insania, spasmus, tussis. – [27] Pelagon. 4 Congruum est etiam medicinas aut potiones quibus morbi expellantur addiscere. morbos plerumque equi concipiunt aut lassitudine aut aestu aut frigore aut fame [...] ; Veg. mulom. 2, 102 Bulimum animalia sustinent frequenter ex fame, aliquando ex lassitudine. – [28] Cat. agr. 5, 7 scabiem pecori et iumentis caveto ; id ex fame et si inpluit fieri solet. [29] Varr. r.r. 2, 1, 22 fere morborum causae erunt, quod laborant propter aestus et propter frigora [...]. – [30] Colum. 6, 30, 3 morbos plerumque equi concipiunt aut lassitudine aut aestu frigore aut fame aut si, cum diu steterint, subito ad cursum fuerint stimulati. – [31] Adams 1995, 30-31. – [32] Veg. mulom. 1, 1, 1 Quibus signis aegritudo animalium cognoscatur. Continuo enim animal, quod valetudo temptaverit, maestius invenitur aut pigrius, nec consueto utitur somno nec solito se more transvolvit nec requiem ut sumat accumbit nec deputatum cibum assumit ex integro […]. Cum huiusmodi signa in iumento unum vel plura conspexeris, statim illud separabis a ceteris, ut contagionem non inferat proximis et facilius in solo iam causa morbi possit agnosci. – [33] Ortoleva 1999, 130-131. Veg. mulom. 1, 17, 1-2 Ea quae ad curam morbi malei execrabilis pertinebant, abundanter constat exposita. Nunc de pestilentia videndum rapacissima, quae praedictorum morborum signa saepe nulla profert […]. Sed tanta vis ipsius morbi est, ut nihil expediat omitti nam gregum in pascuis funestus interitus, animalium quoque in stabulis mortes innumerae ex ipsius contagione proveniunt, et ab imperitis vel negligentibus curam aut divinae iracundiae imputantur aut fato. Denique sicut superius declaratum est, ab uno animali incipit ipsa pernicies et festinanter ad ceterorum transit exitium.  



Bibliografia. Adams 1995, 30-31 ; Baer 1988 ; Edelstein 1967b ; Ortoleva 1999 ; Petrilli 2003 ; Vegetti 1965.  









Violetta Scipinotti Seneca, Lucio Anneo (Lucius Annaeus Seneca). 1. La vita. – Filosofo e poeta, figlio dell’omonimo retore, [1] col quale fu confuso nel medioevo e fino all’umanesimo. [2] Incerta la data di nascita, collocata o negli anni che immediatamente precedono l’era volgare [3] o nell’1 d. C. [4] Sicura è invece la patria (Cordova), attestata da Marziale (1, 61, 7-8) e S. stesso, se è suo l’epigr. 18 Prato (= 409 Riese ; 405 Shackleton Bailey). [5] Ebbe un fratello maggiore, M. Anneo Novato (detto Gallione dal nome del retore Giulio Gallione, che lo adottò), che nel 51-52 d.C. in qualità di proconsole della provincia di Acaia assunse una posizione neutrale nei con 

fronti dei giudei che accusavano s. Paolo, [6] e un fratello minore, M. Anneo Mela, noto per essere il padre di Lucano (su di lui Tac. ann. 16, 17 e Sen. dial. 12, 18, 3). Venuto presto a Roma, S. ebbe come maestri Sozione (Sen. epist. 49, 2 ; 108, 17-18 ; 22) e Papirio Fabiano (epist. 100, 12), filosofi della scuola dei Sesti (così detta dal suo fondatore Q. Sestio) ispirata a rigorismo morale e al vegetarianismo, e inoltre lo stoico Attalo (epist. 108, 3) e il cinico Demetrio (epist. 62, 3 ; dial. 1, 3, 3 ; 5, 5 ; benef. 7, 8, 2 etc.). Alla retorica fu avviato dal padre, che ebbe anche una grande importanza nella sua formazione spirituale. Dopo qualche tempo trascorso in Egitto presso una zia materna, moglie del praefectus Aegypti (dial. 12, 19, 4), tornò a Roma, dove iniziò la carriera politica ricoprendo la questura. Sotto Caligola (37-41 d.C.) rischiò la condanna a morte, ma si salvò perché la sua salute malferma lasciava presagire una fine imminente (Cass. Dio 59, 19, 8). [7] Con l’avvento di Claudio (41-54 d.C.), accusato da Messalina di adulterio con Giulia Livilla, fu relegato in Corsica (Cass. Dio 60, 8, 5). La revoca del bando avvenne dopo la morte di Messalina (49 d.C.), allorché Agrippina lo richiamò dall’esilio per farne il precettore di Nerone. Con l’ascesa al trono di quest’ultimo S. recita un ruolo politico di primo piano facendosi promotore di una forma di governo fondata sulla collaborazione fra princeps e senato e ispirata alla clementia, come antidoto della tirannide e « come giustificazione della superiorità di Roma e del suo dominio sui popoli ». [8] Questo equilibrio, che tentava una conciliazione di regnum e libertas, entrò progressivamente in crisi finché S. nel 62, dopo la fine di Burro (forse avvelenato da Nerone), si ritirò a vita privata. Coinvolto nella congiura di Calpurnio Pisone, si tolse la vita nel 65 d.C. [9] La sua morte è mirabilmente descritta da Tacito (ann. 15, 60, 2-64). [10] 2. Le opere filosofiche. Il teatro. – Una parte considerevole dell’opera filosofica di S. va sotto il nome di Dialogi in 12 libri, che la tradizione ha trasmesso in un ordine non corrispondente a quello cronologico, peraltro molto discusso : [11] 1. De providentia ; 2. De constantia sapientis ; 3-5 De ira libri iii ; 6. Consolatio ad Marciam ; 7. De vita beata ; 8. De otio ; 9. De tranquillitate animi ; 10. De brevitate vitae ; 11. Consolatio ad Polybium ; 12. Consolatio ad Helviam matrem. Il pensiero di S., che si svolge senza sistematicità, deriva dalla filosofia ellenistica il preminen 

































seneca, lucio anneo te interesse per i problemi morali. Centrale è quello del male e della teodicea : [12] il male non risiede negli eventi esterni, ma dentro di noi, per cui solo il sapiens, che sa tenere a freno le passioni (in questo S. si avvicinava ad Epicuro) e non si abbatte per i colpi della fortuna né si inorgoglisce per gli occasionali successi, ma persegue la virtus e non perde il suo tempo dietro false immagini di bene, può aspirare a una vita serena. Le sventure, i dolori che affliggono l’umanità sono una prova (non è questo il solo punto di contatto col cristianesimo e con →Agostino), [13] alla quale in casi estremi ci si può sottrarre ricorrendo al suicidio : la morte è una liberazione e forse il passaggio a una condizione migliore. [14] Non sempre la vita di S. fu coerente con la sua filosofia : nella Consolatio ad Polybium, col pretesto di consolare il potente liberto di Claudio della perdita di un fratello, adulò lui e l’imperatore nella speranza di ottenere il richiamo dalla Corsica, ma dopo la morte di quest’ultimo non si fece scrupolo di mettere Claudio in ridicolo con una feroce satira, l’Apokolocyntosis. [15] All’accusa di doppiezza morale S. stesso implicitamente rispose scrivendo in dial. 7, 18, 1 : de virtute, non de me loquor. Oltre ai Dialogi le altre opere filosofiche di S. sono il De clementia in 2 libri, indirizzato a Nerone, il manifesto delle sue idee politiche, [16] il De beneficiis in 7 libri, dedicato alla gratitudine e ai benefici effetti della sua pratica ai fini della serenità interiore, [17] e infine le Epistulae ad Lucilium in 20 libri (124 lettere), scritte da S. dopo il ritiro a vita privata, l’opera più letta e più nota, che è un po’ la summa del suo pensiero filosofico. [18] Il tema della virtus e della ratio come strumenti per combattere le passioni è presente anche nelle tragedie, ispirate a temi già presenti nei tragici greci (Hercules furens, Troades, Phoenissae, Medea, Phaedra, Oedipus, Agamemnon, Thyestes, Hercules Oetaeus [di dubbia autenticità]), in cui prevale il gusto per il macabro e l’orrido. [19] È oggetto di discussione se esse fossero destinate alla scena. Quasi certamente apocrifa è la praetexta Octavia. [20] 3. Seneca e la scienza. – Un posto a sé nella produzione senecana occupano le Naturales quaestiones, composte negli ultimi tempi della vita di S. L’opera, di natura filosofico-scientifica, è rivolta allo studio dell’atmosfera e dei suoi fenomeni [→agenti atmosferici], della terra (acque superficiali e sotterranee, venti, terremoti [→sismologia]) e del cielo (me 







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teore, pianeti, stelle e in particolare comete [→astronomia]). [21] Dedicata a Lucilio come il De providentia e le Epistole, consta di otto libri, che tuttavia nella numerazione corrente si riducono a sette, in quanto i due libri centrali, lacunosi rispettivamente alla fine e all’inizio, sono indicati come iva e ivb. Scienza e morale sono in S. strettamente connesse : la scienza non si giustifica di per sé, ma solo se persegue come fine il miglioramento morale dell’uomo ; d’altra parte, poiché per gli stoici Dio e natura coincidono, indagare la natura significa anche ricercare il senso della vita dell’uomo in rapporto alla natura, cioè a Dio. Il i libro tratta delle meteore, degli aloni e di altri fenomeni celesti, in modo particolare dell’arcobaleno, spiegato secondo la teoria speculare [→ottica] di →Posidonio e Artemidoro di Pario. [22] L’utilità degli specchi e il loro uso perverso (con digressione su un vizioso dell’età di Augusto, Ostio Quadra [23]) porta S. a una condanna del lusso sfrenato della sua epoca e a ribadire la necessità di ergere la mente verso le cose celesti, spogliandosi delle scorie terrene, come si dice nella prefazione di questo libro (11), uno dei momenti più alti dell’intera opera. Il ii libro è dedicato allo studio di tuoni, fulmini e lampi. S. ritiene, rifacendosi alle teorie di →Aristotele, →Posidonio e →Asclepiodoto, che essi si originino nelle nubi stesse e non, come voleva →Anassagora, che discendano dall’etere. La parte centrale del libro sviluppa il tema della →mantica connessa con i fulmini, e qui S. si scontra con un problema cruciale, quello del rapporto fra volontà divina e fato, fra destino e libero arbitrio. Il iii libro è occupato dalla trattazione delle acque terrestri. L’impostazione è improntata alla dottrina stoica, che riconosceva un’analogia fra terra e corpo umano [→microcosmo e macrocosmo] e fra mondo superficiale e mondo sotterraneo. La polemica con →Teofrasto non prova una dipendenza da Posidonio e Asclepiodoto. Dopo una nuova tirata contro il lusso, [24] la trattazione delle acque converge su quella del diluvio, che periodicamente rinnova l’umanità degenerata. Si tratta di una descrizione dai toni apocalittici, a cui conferisce pathos l’emulazione di Ovidio. [25] Il libro iva, dedicato al Nilo, manca della parte conclusiva, che si può approssimativamente ricostruire attraverso la testimonianza di →Giovanni Lido. La parte perduta conteneva probabilmente considerazioni di caratte 



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re morale, destinate a fare da pendant a quelle dell’esordio, in cui si esorta Lucilio a tenersi lontano dall’adulazione. Il libro ivb, mutilo nella parte iniziale, parla della grandine e di fenomeni affini (pioggia, rugiada, neve [→agenti atmosferici]). L’argomento ancora una volta si presta a considerazioni di carattere morale : la condanna per l’abitudine invalsa nelle case signorili di tenere in serbo la neve nelle neviere per refrigerare bevande. Il v libro riguarda i venti, per cui S. attinge a →Varrone e ad altre fonti che non siamo in grado di individuare. Lo spunto per la digressione morale è dato dalla navigazione a vela, che avrebbe dovuto avere uno scopo pacifico e invece si è trasformata in uno strumento di guerra ; i venti sotterranei a loro volta offrono il destro per esprimere condanna nei confronti di coloro che si immergono nelle profondità della terra alla ricerca di metalli preziosi. Il vi indaga il terremoto e le sue cause [→sismologia]. Per S. il terremoto è provocato dall’aria, che, agitandosi nel sottosuolo, trasmette vibrazioni alle regioni soprastanti. Sue fonti sono i naturalisti greci (→Talete, →Anassimadro, →Anassimene) e ancora →Posidonio e →Asclepiodoto. Il libro si distingue per una ricca dossografia, che attinge a fonti greche perdute, ma si fonda, qui come altrove, anche sulla diretta esperienza del filosofo. Le considerazioni morali si riallacciano a quelle del ii libro : la paura del terremoto non ha ragione di esistere, dato che la morte incombe continuamente sulla vita umana e non ha bisogno di ricorrere a grandi catastrofi per annientarla. Il vii libro riguarda le comete [→astronomia]. Per S., che aderisce in sostanza alla teoria di Apollonio di Mindo, le comete sono corpi celesti che hanno orbite non diverse da quelle dei pianeti, una concezione che si avvicina a quella moderna e che prende le distanze da →Aristotele e da →Epigene di Bisanzio, secondo i quali esse sarebbero il prodotto di esalazioni terrestri trascinate in alto da turbini e incendiate dal loro stesso modo rotatorio. Il libro si conclude con una considerazione sulla relatività della scienza e del progresso scientifico, che ha aspetti di sorprendente modernità. Mentre infatti →Plinio il Vecchio riteneva che tutto ormai fosse stato scoperto e che allo scienziato non restasse altro che allestire un ‘inventario del mondo’, S. è d’avviso che ogni età porta a nuove scoperte e che quello che oggi sembra certezza  





domani può diventare argomento risibile. In conclusione le Naturales quaestiones non sono un’opera di filosofia morale travestita da trattato scientifico, ma una vera e propria opera di scienza della natura, sia pure in una prospettiva filosofico-morale. Forte è la tensione stilistica, più evidente nelle prefazioni e negli epiloghi o laddove la scienza cede il passo alla morale, ma anche la trattazione nel suo insieme, pur non rinunciando alla limpidità che il genere richiedeva, si mantiene su un livello di alta elaborazione letteraria. [26] L’interesse preminente per la filosofia (filosofia morale e/o scienza della natura), la sola autentica sapientia, [27] non precluse a S. quello – presente nelle Naturales quaestiones e altrove – per alcune tevcnai, quali p. es. la →viticoltura (nat. 3, 7, 1), l’→olivicoltura (epist. 86, 14-21), l’→ottica (nat. 1, 2, 4 ; 1, 3, 2 ; 1, 5, 6-7), l’→architettura (epist. 86, 4-13), la →medicina (nat. 4b, 13, 5-11 ; epist. 53 ; 95 ; benef. 6, 15-16). [28] Talvolta in relazione a queste artes si fanno considerazioni di carattere morale : p. es. la descrizione della villa di Scipione e del suo modesto →bagno (epist. 86, 4-13) induce a un confronto con le raffinatezze eccessive della sua epoca, i medici sono chiamati in causa (benef. 6, 15-16) per la natura del rapporto medico-paziente [29] etc. È da rilevare infine che l’attenzione per argomenti scientifici occupò l’intero arco della vita di S., come testimonia una serie di opere non giunte fino a noi, come p.es. il De situ Indiae, il De situ et sacris Aegyptiorum, il De motu terrarum e il De forma mundi.[30]  











Note. [1] In realtà più declamatore che retore, come rileva Pianezzola 2003. – [2] Sabbadini 1971, 297. – [3] Schanz-Hosius 1935, 680, oscilla fra l’1, il 4 e l’8 a.C. ; Scivoletto 1966 propende per il 12-11 a.C. – [4] Così Grimal 1966, 1, sulle orme di Préchac 1934. – [5] Sugli epigrammi attribuiti a Seneca vd. Zurli 2000 ; Zurli 2004. – [6] Troiani 2003, 115-123. – [7] Il fisico gracile è testimoniato anche da Tac. ann. 15, 45, 3 ; 63, 3 e si rispecchia nell’iconografia (a parte l’erma di Berlino), per cui vd. Franchi dell’Orto 1999, 27-41 ; Zanker 2000, 47-58. – [8] Malaspina 2003, 149. – [9] Una ricca biografia in Fuhrmann 1977 ; sulla vicenda politica di S. da ultimo Squillante 2003, 159-175. – [10] Sul giudizio di Tacito su S. vd. D’Anna 2003, 193-210. – [11] Il problema è stato ampiamente trattato da Giancotti 1957. – [12] Su cui vd. Traina 1997, 7-31 e Dionigi 1997, 41-74. – [13] Sull’argomento Dionigi 1997, 62-70 ; von Albrecht 2001, 5-39 ; Lefèvre 2001, 55-71. Sul presunto scambio di  













senofane lettere con s. Paolo Mara 2001, 41-54 e, favorevole a una parziale autenticità, Sordi 2001, 113-127. – [14] Sui Dialogi vd. in particolare Abel 1967. Per un bel saggio d’insieme La Penna 2004, 15-46 ; in particolare sulle Consolationes Traina 1987a, 9-28. – [15] Sulla satira e il significato del titolo Russo 1985. – [16] Sul De clementia Chaumartin 2005, viilxxxvii, recensito da Parroni 2008 ; ottima l’edizione critica di Malaspina 2001. – [17] Vd. in particolare Chaumartin 1985. – [18] Sull’argomento esauriente Mazzoli 1989, 1823-1877. – [19] Su S. tragico Biondi 1984 ; Petrone 1984 ; Picone 1984 ; Schiesaro 1997, 89-111. – [20] Sul problema Schmidt 1985, 1421-1453. – [21] Uno sguardo d’insieme in Parroni 2004, 313-318. Edizioni critiche recenti : Vottero 1989, Hine 1996 e Parroni 2002. – [22] Sul problema delle fonti Setaioli 1988 ; Gross 1989 con la recensione di Parroni 1992. – [23] Se ne veda una fine analisi in Berno 2003, 31-63. – [24] Acute considerazioni in Berno 2003, 65-110. – [25] Discussione in Degl’Innocenti Pierini 1990, 177210. – [26] Su lingua e stile vd. soprattutto Mazzoli 1970 ; Setaioli 1985, 776-858 ; Traina 1987b ; De Vivo 1992. – [27] Parroni 1989, 473. – [28] Su epist. 53 Wenskus 1994. – [29] Lippi 2003, 35-37 ; antologia di passi senecani concernenti la medicina in Carini 2003, 115-123. – [30] Testimonianze e frammenti in Vottero 1998.  





















Bibliografia. Abel 1967; Berno 2003, 31-63 ; 65110; Biondi 1984; Carini 2003, 115-123; Chaumartin 1985; Chaumartin 2005, vii-lxxxvii; D’Anna 2003, 193-210; De Vivo 1992; Degl’Innocenti Pierini 1990, 177-210; Dionigi 1997, 41-74; Franchi dell’Orto 1999, 27-41; Fuhrmann 1977; Giancotti 1957; Grimal 1966, 1; Gross 1989; Hine 1996; La Penna 2004, 15-46; Lefèvre 2001, 55-71; Lippi 2003, 35-37; Malaspina 2001; Malaspina 2003, 149; Mara 2001, 41-54; Mazzoli 1970; Mazzoli 1989, 1823-1877; Parroni 1989, 473; Parroni 1992; Parroni 2002; Parroni 2004, 313-318; Parroni 2008; Petrone 1984; Pianezzola 2003; Picone 1984; Préchac 1934; Russo 1985; Sabbadini 1971, 297; Schanz-Hosius 1935, 680; Schiesaro 1997, 89-111; Schmidt 1985, 1421-1453; Scivoletto 1966; Setaioli 1985, 776-858; Setaioli 1988; Sordi 2001, 113127; Squillante 2003, 159-175; Traina 1987a, 9-28; Traina 1987b; Traina 1997, 7-31; Troiani 2003, 115-123; von Albrecht 2001, 5-39; Vottero 1989; Vottero 1998; Wenskus 1994; Zanker 2000, 4758; Zurli 2000; Zurli 2004, 345-353.  

Piergiorgio Parroni Senofane. Filosofo e poeta originario di Colofone, polis greca della Ionia. Come egli stesso ha occasione di dichiarare in una sua elegia,

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S. aveva venticinque anni all’epoca della conquista persiana della Ionia (cioè nel 546 o poco dopo) ed è vissuto molto a lungo, se una delle sue composizioni venne ideata, come dice, a 92 anni. Anziché accettare la subordinazione al re di Persia egli preferì l’esilio e visse in luoghi diversi della Sicilia e del sud-Italia. Le sue opere poetiche vennero composte in esametri epici così come, altre volte, con metro elegiaco e in giambi. Alcune composizioni ebbero carattere didattico, altre storico, altre filosofico. Mentre il primo trattato filosofico, quello di →Anassimandro, fu scritto in prosa, S. optò per l’esposizione delle sue vedute in forma metrica. In ciò fu seguito da →Parmenide, →Empedocle e, molto più tardi, →Lucrezio. Due delle sue elegie sono sopravvissute per intero e, al pari di altre citazioni più brevi, offrono una convincente prova delle sue qualità poetiche. Nondimeno per lui la poesia fu uno strumento e una risorsa per esprimere le sue idee. Verso i costumi e i valori del suo tempo egli adottò un atteggiamento che sorprende per la sua indipendenza e attitudine critica. Bersagli della sua disapprovazione furono la religione comunemente accettata, la diffusa ossessione per atleti di successo, la comune ammirazione per famosi poeti come Omero ed →Esiodo. Sostenne che le vittorie degli atleti non rendono le città meglio governate, che Omero ed Esiodo sbagliano ad attribuire gesta immorali agli dei e che i greci sbagliano a credere ai loro poeti. Così la sua critica non riguardò soltanto la saggezza tradizionale, ma anche nuove forme di saggezza : contrastò alcune idee di →Talete e ridicolizzò la dottrina pitagorica della trasmigrazione delle anime. Tra le sue polemiche spicca la negazione dell’antropomorfismo religioso. Egli osserva che gli dei degli Etiopi hanno il naso camuso e sono di pelle nera, mentre gli dei dei Traci hanno occhi celesti e capelli rossi. Ma, osserva se cavalli, buoi o leoni avessero le mani e potessero disegnare, i cavalli disegnerebbero figure degli dei simili a cavalli e i buoi simili a buoi. Le idee filosofiche di S. sono sopravvissute solo in poche citazioni scollegate e nella tradizione indiretta, e non tutte le testimonianze sono compatibili tra di loro. Anche se qualcosa del genere accade piuttosto spesso nel caso di altri →Presocratici, il caso di S. può ben essere speciale perché egli fu attivo fino a una età  

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molto avanzata, e non è impossibile che egli abbia modificato o anche mutato in modo significativo alcune idee nel corso della sua vita e che qualche incongruenza rifletta questo tipo di cambiamenti. Egli si sofferma su una questione che è stata centrale per i Milesi, l’origine di tutte le cose. Una riga citata dalla sua opera filosofica indica la terra come origine o ajrchv, ma →Aristotele sostiene che i primi filosofi proposero, quale origine di tutte le cose, l’acqua, l’aria o il fuoco, e nessuno avrebbe proposto la terra. Un compromesso che trova qualche riscontro nelle evidenze disponibili sarebbe che la produttiva terra di S. fu riempita sin dall’inizio di umido, per cui all’origine di tutto ci sarebbero due ajrcaiv : terra e acqua. Una alternata espansione della terra o dell’acqua costituirebbe il ciclo perenne di formazione e distruzione del mondo. Questa dottrina si basava sull’accumulazione di fatti significativi : che accade di trovare delle conchiglie anche nel terreno e in montagna, che nelle cave di Siracusa sono state trovate impronte di pesci e alghe marine, che a Paro è stata trovata l’impronta di una foglia nella profondità di una pietra e a Malta le forme appiattite di varie creature del mare. Egli spiegava che queste impronte si erano formate in un lontano passato, quando ogni cosa era immersa nel fango che in seguito si è essiccato. Egli affermava inoltre che tutti gli uomini vengono distrutti quando la terra sprofonda nel fango, dopodiché è la volta di una nuova generazione. La terra di S. è indefinitamente larga e la sua parte inferiore, egli dice, continua indefinitamente. Egli si misura con il problema, essenziale in Anassimandro, del motivo per cui la terra non cade verso il basso, ma offre una soluzione completamente diversa. A quanto pare, intende dire che, se non c’è niente sotto la terra, dove mai potrebbe cadere ? Concorda, comunque, con →Anassimandro nel non ammettere un sostegno della terra. Mentre è facile capire perché non era soddisfatto dell’idea di →Talete di una terra che fluttua sull’acqua (sarebbe l’acqua, a sua volta, ad aver bisogno di un supporto), è difficile dire perché avrebbe respinto l’idea di →Anassimene di una terra sostenuta dall’aria. Una possibilità è che la cosmologia di S. sia stata formulata prima di quella di Anassimene. Se la terra continua indefinitivamente verso il basso, i corpi celesti non possono passare al di  





sotto. Ad essere comunemente riconosciuto, nell’antichità, come il principale rappresentante del sistema cosmologico in cui i corpi celesti si muovono solo al di sopra della terra fu Anassimene, e di nuovo possiamo concludere che S. seguì Anassimene o supporre che Anassimene abbia offerto una più elaborata versione delle idee di S. L’idea centrale di quel sistema cosmologico era data dall’enfasi sull’illusione ottica, nel senso che gli oggetti sembrano più vicini all’orizzonte via via che si allontanano. Ora S. sostenne che il sole procede indefinitamente secondo una linea retta, ma a causa della mutevole distanza sembra che ci giri attorno formando un cerchio. Noi abbiamo ogni giorno un nuovo sole che si forma per accumulazione di scintille dovute all’evaporazione. Quanto alle eclissi di sole, invece, le nostre fonti rimangono problematiche perché il greco ekleipsis può riguardare ogni tipo di ‘scomparsa’, ed è difficile discernere tra i riferimenti all’eclissi e i riferimenti al tramonto, mentre è possibile che l’espressione «eclissi di sole che durò un mese» alluda all’inverno nell’estremo nord. Viene riferito inoltre che S. avrebbe spiegato il sorgere e il tramonto, così come la scomparsa mensile della luna, in termini di spegnimento e riaccendimento. I fenomeni meteorologici venivano ricondotti all’evaporazione dal mare, causata dal calore solare ; le porzioni di acqua dolce e salata vennero separate allorché il fango emerse dal mare ; le parti dolci, per il fatto di essere particolarmente sottili, si trasformano in nebbia, assumono la forma di nubi e ricadono in gocce a causa dell’accresciuta compressione. La formazione delle nubi sembra aver svolto un ruolo preminente nel suo modo di rendere conto degli eventi ‘celesti’ : anche nell’arcobaleno egli vide una sorta di nuvola. S. può essere chiamato il fondatore del monoteismo filosofico. Egli ha parlato di un solo dio in nulla simile agli esseri umani, che rimane sempre nello stesso posto e, senza fatica, scuote tutte le cose con la sua mente, vede tutto e sente tutto. È eterno e immutabile e, essendo uguale in tutte le direzioni, è sferico. Si discute se il suo dio sia coestensivo al mondo, né si capisce bene in che modo il dio di S. si raccorda con il suo modo di spiegare la struttura cosmica e i fenomeni celesti. Una possibilità è che la sua teologia appartenga a una età avanzata e abbia risentito dell’influenza di →Parmenide. Tra i frammenti di S. figurano anche le pri 





senofonte missime riflessioni sul carattere e I limiti della conoscenza umana. Egli dice che «nessuno ha, o avrà, la verità certa intorno agli dei e alle cose di cui parlo, e anche se per caso dovesse enunciare la perfetta verità, non lo verrebbe a sapere» (21B34 D.-K., da Sesto Empirico). Si tratta di un atteggiamento realistico, più che pessimistico, perché si può almeno arrivare a delle opinioni che si avvicinano alla realtà. S. parla infatti anche di progresso nella conoscenza : «gli dei non hanno rivelato ogni cosa ai mortali fin dall’inizio ; ma nel corso del tempo, attraverso la ricerca (zētountes), essi arrivano a conoscere meglio le cose» (21K18 D.-K., da Stobeo). La tradizione che associa S. ad Elea è antica. Aristotele cita l’opinione secondo cui Parmenide, cittadino di Elea, fu suo discepolo senza sollevare riserve. Di questo si continua tuttavia a dubitare, mentre non c’è motivo di dubitare che S. abbia scritto un’opera poetica sulla fondazione di Elea in cui egli celebrava la città fondata dai Focei che, al pari dello stesso S., lasciarono la loro città per evitare la sottomissione.  



Edizioni. Diels-Kranz 1952 ; Heitsch 1983 ; Lesher 1992.  



Bibliografia. Barnes 1979 ; Bicknell 1967 ; Classen 1989 ; Finkelberg 1990 ; Heitsch 1994 ; Messina 2007 ; Mourelatos 2002 ; Kirk-RavenSchofield 1983 ; McKirahan 1994 ; Mansfeld 1987 ; Schäfer 1996 ; Šijaković 2001 ; Vitali 2000.  























Dmitri Panchenko Senofonte. 1. Generalità – Ateniese, vissuto tra il 430 e il 355 a.C., S. è un personaggio difficile da abbracciare con un solo sguardo in quanto la sua opera – che dal punto di vista della varietà degli ambiti disciplinari è paragonabile a quella di →Aristotele – ha la caratteristica di indirizzare verso specializzazioni molto differenti e normalmente non abbracciate dalla stessa persona. In effetti l’ideologia politica delineata della Ciropedia, il trattato sulla riorganizzazione delle entrate della polis ateniese, la prosecuzione delle Storie di Tucidide, il trattato sulla impostazione di una efficiente azienda agricola, il trattato sulla gestione dei reparti di cavalleria, il trattato sulla caccia e gli scritti socratici sono tali da evocare, ogni volta, un frammento di realtà e un ambito disciplinare reciprocamente lontani o lontanissimi. Per queste ragioni quasi ogni profilo del

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personaggio tende a concentrarsi soltanto su alcune dimensioni della sua poliedrica personalità e della sua multiforme produzione. Sulla figura di S. grava inoltre un diffuso sentimento di minorità perché come storico egli non ha raggiunto i livelli di Tucidide e come socratico non ha raggiunto i livelli di →Platone. La sua vita è stata segnata dapprima dal discepolato presso Socrate e, come si ha motivo di ritenere, da forti simpatie per il regime oligarchico dei Trenta Tiranni, quindi dalla decisione di accettare l’invito di Ciro a prendere parte a una spedizione militare in Asia Minore nel tentativo di quest’ultimo di spodestare Artaserse e accedere al rango di mega basileus, quindi, da quasi trent’anni di attività come capo militare sostanzialmente mercenario e a favore di Sparta (tanto da venire esiliato dagli Ateniesi), quindi a partire dal 371, dal lungo soggiorno nel buen retiro di Scillunte (sulla strada che va da Sparta a Olimpia, come egli stesso scrive in An. 5, 3, 11) e da una grande operosità come scrittore, oltre che dal tentativo di ottenere la revoca dell’esilio (che in effetti arrivò intorno al 362, ma senza dar luogo, sembra, al suo effettivo rientro ad Atene). Molti aspetti di tale biografia vengono diffusamente riferiti dallo stesso S. nell’Anabasi e, più sobriamente, nelle Elleniche. Le sue opere hanno goduto di enorme fortuna nell’antichità classica, anche come esempio di bello scrivere e di puro attico. Il Corpus Xenophonteum, pervenuto in ottime condizioni, include : - opere di storia e scritti politici : Anabasi, Elleniche, Agesilao, Ciropedia, Ierone, Costituzione degli Ateniesi, Costituzione dei Lacedemoni ; - un trattato di economia politica : Poroi o Delle entrate ; - un trattato sulla funzione di comandante della cavalleria : Ipparchico ; - un dialogo socratico incentrato sui criteri con cui impostare l’azienda agricola familiare : l’Economico ; - gli altri tre scritti socratici : Memorabili, Apologia di Socrate, Simposio ; - altre due operette ancor più specializzate (una sull’equitazione e una sulla caccia) : Sull’Equitazione e Cinegetico. Mentre a proposito di quest’ultima opera si dubita che possa non essere autentica, da tempo si conviene che la Costituzione degli Ateniesi non possa essere di S. In anni non lontani sono state avanzate due ipotesi alternative : che  

























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senofonte

l’opera sia dovuta al leader dei Trenta Tiranni, Crizia, oppure a un altro Senofonte ateniese, più anziano dello storico, che un po’ alla volta finì per confondersi con l’altro, fino a perdere la sua identità. [1] Alcuni di questi scritti hanno il raro pregio di inaugurare, per quanto è dato sapere, la pubblicistica sui temi trattati : è il caso dell’Anabasi, dei Poroi, dell’Economico, del Cinegetico, dell’Ipparchico. 2. L’Anabasi, opera in sette libri, narra in dettaglio una spedizione durata due anni, dapprima sotto la guida di Ciro poi dello stesso S., e costituisce, al tempo stesso, la prima autobiografia di cui si abbia notizia. La vicenda viene narrata in terza persona (come farà poi Giulio Cesare). L’autore, da un resoconto volutamente asettico e pieno di informazioni diverse (es. molte misurazioni) passa, poco a poco, a una rievocazione partecipata, con pagine di grande effetto e, a tratti, segnate da inequivocabile enfasi autocelebrativa. 3. Le Elleniche, in sette libri, si riallacciano in modo inequivocabile alle Storie di Tucidide per il fatto di riprendere la narrazione al punto in cui quella tucididea si interrompe (anno 411 a.C.) e proseguirla fino al 362, ossia per cinquanta anni. La narrazione presenta significativi punti di contatto col modello tucidideo fino alla metà del libro ii, mentre poi se ne distacca (fra l’altro, guardando ai fatti non più dal punto di vista di Atene ma dal punto di vista di Sparta) e si fa anche piuttosto disorganica. 4. L’Agesilao propone un ritratto encomiastico del re spartano morto nel 360 a.C., offrendo dapprima una narrazione delle imprese e poi una celebrazione delle virtù del personaggio. 5. Di molto maggiore impegno è la Ciropedia, opera in otto libri che tratteggia la biografia e l’ideologia politica del fondatore dell’impero persiano. Ciò che campeggia nell’opera è il mito del sistema di potere (verticistico e sostanzialmente feudale) che avrebbe caratterizzato l’impero persiano sin dai tempi di Ciro il Grande, nel presupposto che quel sistema fosse stato ideato di sana pianta da Ciro e ne rispecchiasse fedelmente la personalità. Ciro viene pertanto presentato come un maestro di paideia politica : egli sa costruire e gestire il potere, governando con un sostanziale consenso dei suoi sottoposti, perché sa come ottenere che gli altri aderiscano volentieri alle regole da lui fissate e ai ruoli da lui attribuiti. Significativamente ritroviamo queste idee sul modo di  





legare a sé i sottoposti – in particolare l’enfasi sulla legislazione premiale – anche nello Ierone, nell’Ipparchico e nei Poroi. Una simile arte di saper ben esercitare il comando fa sì che l’opera assurga, in qualche misura, a controcanto della Repubblica platonica. 6. Una diversa utopia prende forma nella Costituzione dei Lacedemoni, dove l’autore appare impegnato a delineare una versione idealizzata della costituzione di Licurgo. La trattazione parte dall’austera educazione di bambini, ragazzi e adulti per poi trattare dei pasti in comune e di altre forme di condivisione dei beni, del divieto di utilizzare (o ricercare) oro e argento, della sottomissione alle autorità e del carattere dichiaratamente gerontocratico del sistema di potere. L’autore passa poi a dare un’idea dell’organizzazione dell’esercito, dell’accampamento, del re che guida le truppe e delle sue prerogative, presentando ogni aspetto in tono francamente ammirativo, salvo dedicare qualche cenno (nel cap. 14) alla degenerazione del sistema che si è venuta affermando in tempi recenti, senza peraltro dare alcuna indicazione su come porre rimedio al degrado presente. Ancora una volta l’autore appare pertanto appagato dalla possibilità di abbozzare un modello teorico di organizzazione dello stato. 7. Lo Ierone è concepito come un dialogo lato sensu socratico tra il tiranno siracusano Ierone e il poeta Simonide di Ceo. Verte sulle insidie e gli inconvenienti del potere autarchico, nonché sugli accorgimenti che possono permettere al tiranno di non essere odiato e temuto. Presenta significativi punti di contatto con la Ciropedia in quanto, dopo una prima parte dedicata a mostrare gli inconvenienti della tirannide per il tiranno (e i vantaggi del buon governo), l’autore passa a mostrare gli accorgimenti grazie ai quali il tiranno può ragionevolmente sperare di guadagnarsi l’attaccamento dei cittadini e la stessa loro disponibilità a tassarsi, dopodiché la sua vita e quella dei governati sarà impregnata di esperienze gratificanti. [2] 8. Nei quattro libri dei Memorabili vengono proposte circa sessanta unità dialogiche spesso brevi, tutte incentrate sulla figura di Socrate, che non di rado presuppongono o echeggiano altri dialoghi socratici già in circolazione. L’opera presenta una considerevole oscillazione tra la semplicità di molte unità narrative, che talvolta si esauriscono in poche righe (es.  

senofonte nel cap. 13 del iii libro), e la complessità di altre che sono molto più strutturate (es. il cap. 2 del libro iv), tra il tentativo di cogliere la specificità del filosofo e la propensione a fare di costui il mero portavoce di idee dell’autore (il cap. 3 del iii libro, ad es., presenta significativi punti di contatto con l’Ipparchico). [3] 9. La breve Apologia di Socrate propone una difesa non particolarmente creativa delle scelte che portarono il filosofo alla fine. 10. Il Simposio offre invece la rappresentazione di un ricevimento in casa di Callia nel corso del quale l’intrattenimento offerto da un comico, un giocoliere, una ballerina, una flautista e un giovane cantante cedono progressivamente il posto a una serie di discorsi che, su proposta di Socrate, vertono sul sapere che ciascuno giudica il più utile e sulla natura dell’eccellenza (la kalokagathia). Molteplici (e piuttosto problematici) i punti di contatto tra quest’opera e il Simposio platonico. 11. L’Economico. Nel quadro di un dialogo socratico in cui la figura di Socrate appare in più casi ricondotta nell’alveo dell’immagine media del filosofo, l’autore ha cura di rappresentare i compiti del proprietario e capofamiglia, i criteri di conduzione di beni e persone, le regole non scritte che dovrebbero presiedere alle relazioni di coppia e, in particolare, ai compiti della kyria, e così pure i fondamenti della coltivazione ben organizzata e della gestione delle risorse a ciò necessarie. Obliquamente prende forma perfino un profilo della casa o cascinale di cui famiglia e azienda hanno bisogno per poter ben funzionare. [4] In particolare i capitoli 5, 12 e 16-21 delineano un sobrio trattato di agricoltura. Per la conoscenza della vita privata, della vita in campagna e della cultura agricola dell’epoca l’opera presenta specialissimi motivi di interesse. 12. Il Peri hippikēs verte sulla gestione del cavallo domestico, incominciando dalla conoscenza dell’animale per poi occuparsi di come si doma il cavallo, dei compiti e dell’arte dello stalliere, di come lo si imbriglia, cavalca e addestra, come si gestisce l’impennata del cavallo e infine quali caratteristiche deve avere l’armatura del cavallo che va in guerra. Nell’insieme prende forma una trattazione apprezzabilmente organica. Significativamente all’inizio si fa riferimento a un analogo trattato scritto da Simone ateniese. Vd. anatomia veterinaria, 9. 13. Anche il Cinegetico è concepito come un  



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piccolo manuale che, dopo un primo capitolo dedicato ai cacciatori di cui è traccia nella mitologia olimpica, passa a trattare delle attrezzature per la caccia e poi dei cani, incominciando con l’offerta di criteri per discernere tra cani più e meno adatti all’addestramento specifico, poi della lepre, poi della caccia a tipi diversi di animali (dal pavone alla pantera), per poi finire con considerazioni sul valore formativo della caccia, che viene dichiarata particolarmente idonea a formare anche il buon soldato. 14. L’Hipparchikos si collega alle esperienze narrate nell’Anabasi (3, 3, 16-20) e nell’Agesilao (cap. 1) sull’importanza di affidare determinate operazioni militari ad appositi reparti di cavalleria. Coerentemente con quella logica, qui si parla anzitutto dell’arruolamento di reparti di cavalleria, dell’equipaggiamento, della disciplina, di parate e marce, di stratagemmi in funzione di circostanze diverse, e così pure degli accorgimenti con cui il capo può ragionevolmente sperare di assicurarsi il rispetto, l’obbedienza e l’attaccamento dei suoi cavalieri. 15. In Poroi, l’ultimo scritto di S., si discute a fondo delle misure più appropriate per rimettere in sesto le finanze ateniesi senza praticare una politica aggressiva e apertamente imperialistica ai danni di altre poleis. La ricetta di S. – che torna a considerarsi ateniese, essendo stata annullata, nel frattempo, la condanna all’esilio – è duplice : da un lato egli propone l’adozione di misure rivolte a commercianti e meteci, dall’altro propone di ripensare a fondo i criteri di gestione delle miniere d’argento del Laurio. Sul versante delle misure a favore di visitatori, commercianti e meteci imprenditori, il suo obiettivo è di accrescere l’attrattiva del Pireo con apposite strutture ricettive e agevolazioni specifiche, così da creare condizioni particolarmente favorevoli per i meteci, nelle cui mani è buona parte della ricchezza. Per loro propone, in particolare, l’esonero dalla partecipazione alle spedizioni militari, un tribunale speciale che si pronunci sulle vertenze con un massimo di rapidità, e un sistema di onorificenze che possa gratificarli adeguatamente. L’idea che la città impari a spendere di più a favore del ceto imprenditoriale, in modo da attirare capitali e attività economiche, e così incrementare anche le proprie entrate tributarie, sorprende per la sua straordinaria modernità. Nel capitolo ii l’autore giunge inoltre a ipotizzare l’emissio 

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ne, da parte della polis, di un prestito che sia remunerativo quanto basta per indurre all’investimento non solo molti cittadini ma anche non pochi stranieri. Si passa poi a trattare dello sfruttamento delle miniere d’argento del Laurio. S. osserva, per cominciare, che mentre il prezzo del rame, del ferro e dell’oro è inversamente proporzionale alla quantità di minerale prodotto, nel caso dell’argento questo non accade perché la sua abbondanza si traduce immediatamente in maggiore ricchezza per molti. La sua proposta è, pertanto, che la polis intraprenda la produzione d’argento anche in proprio, acquistando a tal fine un considerevole numero di schiavi. L’attenzione di S. è peraltro circoscritta alla produzione del metallo da coniazione (nulla dice intorno alla realizzazione delle monete [→zecche e coni]. Segue (cap. iv) una dettagliata proposta su come gestire questa attività imprenditoriale pubblica. L’opera include perfino la proposta di istituire dei magistrati incaricati di mantenere la pace (cap. v), e l’argomento principe a sostegno di tale proposta sono i benefici derivanti dal prestigio che una simile misura saprebbe assicurare ad Atene. Nell’insieme il breve scritto si distingue per la professionalità con cui, partendo da zero, l’autore ha saputo impostare e delineare una specializzazione che solo in età moderna ha conosciuto sviluppi degni di nota. Note. [1] Vd. rispettivamente Canfora 1980 e Rossetti 1997. – [2] Su questo dialogo verte un famoso libro, Strauss 1948. – [3] L’opera è attualmente oggetto di una rinnovata attenzione nel quadro degli studi sui dialoghi socratici di iv secolo. In proposito vd. Dorion 1999, Mazzara 2007, Narcy-Tordesillas 2008 e RossettiStavru 2008. – [4] Sull’argomento vd. Pesando 2006. – [5] Simone e il suo Peri hippikēs sono mal conosciuti, ma si sa che l’autore, da non confondere con Simone il calzolaio, fu contemporaneo di Socrate. Sembra che questi abbia scritto anche un Hippiatrikos (rudimenti di →veterinaria applicata ai cavalli). Bibliografia. Breitenbach 1966 ; Canfora 1980 ; D’Alessandro 2009 ; Dorion 1999 ; Ferrari 1995 ; Huss 1999 ; Lipka 2002 ; Mazzara 2007 ; Mossé 1975 ; Müller-Goldingen 2007 ; Narcy-Tordesillas 2008 ; Natali 1988 ; Pesando 1989 ; Plácido Suárez 2001 ; Pomeroy 1995 ; Rossetti 1997 ; Rossetti-Stavru 2008 ; Schorn 2008 ; Strauss 1948 ; Strauss 1970 ; Tedeschi 1986.  







































Sessualità. 1. Fisiologia. – La pratica sessuale è attestata, sulla base delle fonti, per i giovani a partire dai 14 anni, per le ragazze un po’ prima, [1] ma viene comunque sconsigliata al di sotto dei 12 anni, età minima indicata di solito per l’unione matrimoniale . [2] Non vi è accordo, tra i medici antichi, nella descrizione degli effetti concreti del coito, sia a causa delle concezioni differenti relative allo →sperma, sia a motivo delle implicazioni della sessualità, soprattutto, ma non solo, etiche. Ci sono età e stagioni, come giovinezza e primavera, in cui il coito è consigliabile. In inverno sono possibili rapporti sessuali più frequenti per gli uomini di una certa età rispetto agli uomini più giovani. [3] Ci sono cognizioni sullo sperma e sui suoi percorsi. [4] Ci sono anche cognizioni precise rispetto al coito, [5] mentre si discute poco, nei testi, di gravidanza e mestruazione. È nota la secrezione femminile ; [6] ci sono trattazioni adeguate su desiderio e attività sessuale. [7] Un trattato (non pervenuto) dell’autrice Elephantis descriveva e illustrava le posizioni del coito : confacente veniva considerata anche la posizione a tergo. [8] Nel periodo ellenistico-romano si accresce, in ogni caso, l’interesse per l’aspetto medico della sessualità, da porre in relazione anche con un insieme di fattori economico-socioculturali propri soprattutto del primo impero, come il maggiore benessere, l’emergenza dei nuovi ceti, la maggior libertà delle donne etc., che facilitano senza dubbio l’attività sessuale. Non a caso proprio in questo periodo i manuali medici prendono a trattare anche di malattie connesse con l’attività sessuale prima non adeguatamente considerate o definite, come satiriasi, gonorrea etc. Si evidenzia, nondimeno, soprattutto la nocività del coito. Una durata lunga del rapporto sessuale poteva provocare prurito sessuale; [9] anche frigidità e vaginismo (spasmi muscolari) erano ricondotti primariamente a cause organiche. [10] Per l’impotenza erano prescritti libri eroticamente stimolanti, [11] farmaci di diversa potenza, come testicoli di animali. [12] Erano noti la satiriasi [13] e il priapismo. Si conoscevano l’infibulazione e i suoi effetti. [14] Erano noti i contraccettivi, in parte di reale efficacia. Si conosceva e si curava la fimosi; [15] si curava l’ipertrofia della clitoride. [16]  





























Livio Rossetti

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era infrequente. Tra gli autori che nominano l’omossessualità delle donne senza condannarla, troviamo Plutarco [6] e Luciano. [7] Per contro →Celio Aureliano [8] nomina invece l’omosessualità femminile tra le malattie croniche e parla di malignae et foedissimae mentis passio e genuina passio. [9]  

Note. [1] Gal. San. tu. 6, 2 / 6, 387 K. ; Sor. 1, 24 sq. [2] Cod. Iust. 5, 4, 24. – [3] Vict. 3, 68 / 6, 597 L. – [4] Hp. Genit. 1 / 7, 470 L. – [5] Hp. Mul. 2, 128 ; 131 / 8, 276 ; 278-280 L. – [6] Arist. ga 1, 20, 727b-728a. – [7] Arist. HA 10, 5, 637a ; Gal. Us. part. 14, 11 / 4, 189 K. – [8] Lucr. 4, 1263-1266 ; Paul. Aeg. 3, 74, 10. – [9] Aet. 16, 78. – [10] Hp. Mul. 3, 227 / 8, 436 ; 3, 246 / 8, 458 sgg. L – [11] Aet. 2, 35. – [12] Gal. Alim. fac. 3, 6 / 6, 675 K ; Aet. 6, 35 ; Plin. nat. passim ; Dsc. passim. – [13] Aret. SA 2, 12. – [14] Cels. 7, 25 / 344-345 M. – [15] Paul. Aeg. 6, 55. – [16] Aet. 16, 106.  





















Fonti. Hp. Mul. 3, 227/ 8, 246; 3, 246 / 8, 458 sg. L. ; Hp. Vict. 2, 58 / 6, 572 L ; Vict. 3, 68 / 6, 596 L ; Hp. Mul. 2, 128 ; 131 / 8, 276 ; 278-280 L ; Xen. Oec. 7, 19 ; Arist. ga 1, 20, 727b-728a ; Arist. HA 10, 5, 637a ; Lucr. 4, 1263-1266 ; Cels. 1, 3, 39 / 38 M ; 7, 25 / 344345 ; Plin. nat. passim ; Gal. Us. part. 14, 11 / 4, 189 K passim ; Gal. San. tu. 6, 2 / 6, 387 K ; Ps. Gal. Ven. / 5, 911-912 K ; Gal. Alim. fac. 3, 6 / 6, 675 K ; Aet. 3, 8; 6, 35 ; Paul. Aeg. 3, 74, 10 ; Sor. 1, 24 sq. ; Cod. Iust. 5, 4, 24 ; Paul. Aeg. 6, 55.  























Note. [1] Pl. Smp. 182 c. – [2] ‘Sodomia’ cfr. in Gen. 19, 1-11 ; Lev. 18, 22. – [3] Catull. 24 ; 48 ; 81 ; 99 ; Svet. Galba 22 ; Tat. Adu. Graec. 28 sqq. ; Min. Fel. Oct. 28 ; Lact. inst. 6, 23, 10 ; Val. Max. 6, 1, 10 ; 8, 1, 12. – [4] Definita in gr. tribes, vd. tribein, ‘strofinare’, dihetiristria, Lesbia, lat. tribas, Mart. 7, 67 ; 7, 70 ; fric[a] trix ; uirago. – [5] Plaut. Truc. 262 sq. ; Sen. Vet. contr. 1, 2, 23 ; Phaedr. 4, 16 ; Mart. 1, 90, 8. – [6] Lyc. 18, 4. – [7] D. meretr. 5, 1-4. – [8] chron. 4, 9, 131-135. – [9] chron. 4, 135.  

















































Bibliografia. Adams 1982b ; Cantarella 1988 ; Dean-Jones 1992 ; Dierichs 1997 ; Hunter-Dierichs 1998 ; Kampen 1996 ; Mazzini 1997, 364-366 ; Nutton 2002b ; Pinault 1992b ; Schumann 1975 ; von Staden 1991a, 271-296 ; Wagner HaselStahlmann-King 1998.  











Fonti. Gen. 19, 1-11 ; Lev. 18, 22 ; Pl. Smp. 182 c ; Plaut. Truc. 262 sq. ; Catull. 24 ; 48 ; 81 ; 99 ; Plu. Lyc. 18, 4 ; Mart. 7, 67 ; 7, 70 ; Suet. Galba 22 ; Tat. Adu. Graec. 28 sqq. ; Min. Fel. Oct. 28 ; Lact. Inst. 6, 23, 10 ; Val. Max. 6, 1, 10 ; 8, 1, 12 ; Sen. Vet. Contr. 1, 2, 23 ; Phaedr. 4, 16 ; Mart. 1, 90, 8 ; Luc. D. meretr. 5, 1-4 ; Cael. Aur. chron. 4, 9, 131-135.  









































Bibliografia. Ariès-Béjin-Foucault 1986 ; Boswell 1980 ; Brooten 1996 ; Davidson 2001 ; Dover 1983 ; Halperin 1990 ; Hartmann 1998 ; Henderson 1991 ; Kroll 1925 ; Lilja 1983 ; Rabinowitz-Auanger 2002 ; Reinsberg 1993 ; Veyne 1986 ; Williams 1999.  







2. Omosessualità. – L’omosessualità, una caratteristica di definizione piuttosto complessa, a cavallo tra fisiologia e attività sessuale, dunque ascrivibile alla ‘dietetica’, sia pure di tipo particolare; era nel mondo antico molto più diffusa che nel mondo moderno. Per certi aspetti ed entro certi limiti, non era percepita come devianza sessuale : così la paiderastia era sentita come una specie di rapporto amoroso, non come ‘rapporto moralmente colpevole’. [1] In campo maschile, presso i Greci, era comune il termine arrhenomixía o arrhenokoitía, con implicazioni morali più complesse ; in campo femminile era diffuso il ‘lesbismo’ : si pensi a Saffo e al suo thiasos. Con la diffusione dei precetti biblici e con l’avvento del Cristianesimo, già in età romana, è forte l’influsso della Bibbia, ad es. per la condanna dell’omosessualità. [2] La paiderastia si realizza tra un erastēs e un erōmenos. [3] L’omosessualità tra donne [4] apparteneva spesso alla realtà sociale del mondo greco e romano. Le forme di ‘lesbismo’ di tipo saffico datano dal vii-vi sec. a.C. Un ruolo sessuale attivo di una delle due donne non  







































3. L’attività sessuale. – La sessualità, nel mondo antico, ricade soprattutto nel mondo della →dietetica. Anche feste come le Tesmoforie e i Floralia e anche i Misteri Eleusini avevano rapporto con aspetti di fertilità del sesso, innalzati a culto. Il ruolo delle donne sposate era di fatto limitato al governo della casa e alla generazione dei figli. [1] Nel mondo romano le donne sposate avevano alcune garanzie giuridiche, contemplate nella Lex Iulia de adulteriis, così come erano previste punizioni per commercio sessuale con donne non sposate o vedove. [2] Prostituzione e amori a pagamento, tollerati nel mondo pagano, vengono condannati con l’avvento del Cristianesimo. Per la pratica sessuale, attestata per i giovani a partire dai 14 anni, per le ragazze un po’ prima, [3] ma sconsigliata al di sotto dei 12 anni, età minima indicata per l’unione matrimoniale si veda supra. [4] Secondo gli autori del Corpus Hippocraticum il coito fa dimagrire, umidifica e riscalda a causa  





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dell’emissione di liquido spermatico che comporta ; riscalda o dissecca a causa della fatica e dell’emissione del liquido stesso ; attenua per l’evacuazione ; umidifica grazie a quanto resta nel corpo in seguito alla ‘inumidimento’ indotto dallo sforzo. [5] Ci sono età e stagioni, come giovinezza e primavera, in cui il coito è consigliabile. Nel periodo ellenistico-romano, con l’accresciuto interesse per l’aspetto medico della sessualità, si ritiene che i rapporti sessuali siano vantaggiosi nelle malattie che iniziano nell’infanzia, in quelle di origine flemmatica e che curino le malattie dell’età della crescita. Sono più frequenti le precisazioni circa la natura afrodisiaca o inibitoria di molti rimedi semplici (rucola, cece, asparago etc.) e sono più ricorrenti gli interventi chirurgici su organi genitali per facilitare o rendere possibile l’attività sessuale, come ad es. asporto dei timi delle parti genitali (come in →Paolo di Egina), asporto delle anomalie ermafroditiche negli uomini e nelle donne (secondo Paolo di Egina praticata già da Leonida), amputazione della clitoride ipertrofica (Paolo di Egina), asportazione di ascessi dell’utero (→Aezio e Paolo di Egina). Senza dubbio questa crescita di interessi è da porre in relazione anche con un insieme di fattori economico-socioculturali propri soprattutto del primo impero, come il maggiore benessere, l’emergenza dei nuovi ceti, la maggior libertà delle donne etc., che facilitano l’attività sessuale. Non a caso proprio in questo periodo i manuali medici prendono a trattare anche di malattie connesse con l’attività sessuale prima non adeguatamente considerate o definite, come satiriasi, gonorrea etc. Nell’età ellenistico-romana si evidenzia soprattutto la nocività del coito. I rapporti sessuali sono sconsigliati a causa del calore che producono, in estate e in autunno ; sono comunque più tollerabili in autunno. [6] Talora gli autori evidenziano i danni arrecati dai rapporti sessuali, ritenuti dannosi per idropici, tisici, epilettici, ma anche i vantaggi del coito, e non soltanto relativi alla sfera fisica. In questa ottica è interessante un passo di Rufo da Aezio : « I rapporti sessuali sono un fatto naturale. Nulla di ciò che è naturale è dannoso ; lo diventerebbe solo in caso di uso smodato e continuo e in momenti non opportuni […], esposti con la maggiore brevità possibile. Venendo ai vantaggi che il coito comporta […]  







essi sono i seguenti : evacua la pletora e rende il corpo intero leggero, lo fa crescere, lo rende più virile […] per i temperamenti secchi […] per il melancolico triste e misantropo. Riporta a una maggiore lucidità anche quelli che sono folli, ha guarito anche alcuni epilettici […] ». [7] È interessante anche un passo di Ps. Galeno, in cui, prendendo le mosse dall’opinione di →Epicuro, secondo cui nessuna pratica dei pensieri d’amore è salutare, l’autore disserta delle condizioni ottimali per il coito : « Il corpo non deve essere troppo pieno, né troppo vuoto, né troppo freddo né troppo riscaldato, né troppo secco né troppo umido ; tuttavia, se si dovesse ammettere qualche eccesso, almeno che l’errore sia piccolo […] ». [8]  













Note. [1] Xen. Oec. 7, 19. – [2] Inst. 4, 18, 4. – [3] Gal. San. tu. 6, 2 / 6, 387 K. ; Sor. 1, 24 sg. – [4] Cod. Iust. 5, 4, 24. – [5] Hp. Vict. 2, 58 / 6, 572 L. – [6] Cels. 1, 3, 39 / 38 M. – [7] Ruf. da Aët. 3, 8. Cfr. anche Mazzini 1997, 365-366. – [8] Ps. Gal. Ven. / 5, 911-914 K. Cfr. anche Mazzini 1997, 366.  

Fonti. Hp. Mul. 3, 227/ 8, 436. 3, 246 / 8, 458 sg. ; Hp. Vict. 2, 58 / 6, 572 L ; Vict. 3, 68 / 6, 596 L ; Hp. Mul. 2, 128 ; 131 / 8, 276 ; 278-280 L ; Xen. Oec. 7, 19. Arist. GA 1, 20, 727b-728a ; Arist. HA 10, 5, 637a ; Lucr. 4, 1263-1266 ; Cels. 1, 3, 39 / 38 M ; 7, 25 / 344345 ; Plin. nat. 24, 96-98 ; Gal. Us. part. 14, 11 / 4, 189 K passim ; Inst. 4, 18, 4 ; Gal. San. tu. 6, 2 / 6, 387 K ; Gal. San. tu. 6, 9 / 6, 420 K ; Ps. Gal. Ven. / 5, 911914 K ; Gal. Alim. fac. 3, 6 / 6, 675 K ; Aët. 6, 35 ; Paul. Aeg. 3, 74, 10 ; Sor. 1, 24 sg. ; Cod. Iust. 5, 4, 24 ; Paul. Aeg. 6, 55 ; Aët. 3, 8 / 319-20 D R.  













































Bibliografia. Adams 1982a e b ; Cantarella 1988 ; Dean-Jones 1992 ; Dierichs 1997 ; HunterDierichs 1998 ; Kampen 1996 ; Mazzini 1997, 364366 ; Nutton 2002b ; Pinault 1992b ; Schumann 1975 ; Serio 2002; von Staden 1991a, 271-296 ; Wagner Hasel-I. Stahlmann-H. King 1998.  































Sergio Sconocchia Sestio Nigro. Botanico e medico, autore del trattato Peri; u{lh~ ijatrikh'~ che venne utilizzato come fonte sia da →Plinio (nat. 2027 e 32-35), che da →Dioscuride. Di questo trattato rimangono soltanto pochi frammenti (Wellmann 1914). →Plinio (nat. 29, 23, 76 e 32, 13, 26) lo definisce diligentissimus medicinae e ne riferisce l’incredulità rispetto ad alcune leggende terapeutiche; parlano di lui anche Dioscuride e →Celio Aureliano. Secondo

sillogismo alcuni egli sarebbe da identificare con Quinto Sestio, filosofo romano dell’epoca augustea, fondatore di una propria scuola filosofica, in quanto gli studi di botanica e medicina di Sestio Nigro potrebbero essere messi in relazione con le convinzioni di Quinto Sestio legate ad un modello di vita vegetariano ; secondo altri, invece, Sestio Nigro sarebbe il figlio di Quinto Sestio e successore alla guida della scuola fondata dal padre ; per altri ancora, infine, resta incerto se Sestio Nigro sia da identificare con Quinto Sestio o con suo figlio. Se tale identificazione fosse vera, a Sestio Nigro dovrebbero essere ascritte tutte le notizie relative a Quinto Sestio. Egli ebbe come seguaci nella sua scuola, che si estinse dopo un’iniziale fioritura e non andò oltre la seconda generazione (Sen. nat. 7, 32, 2), Sozione di Alessandria, →Celso (autore dello scritto De medicina), Lucio Crassicio di Taranto (Suet. gramm. 18) e Papirio Fabiano.  



Bibliografia. Capitani 1991 ; Marganne 1982 ; Wellmann 1914.  



Francesco Ragni

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che coscientemente manifestano l’impiego e l’aderenza a tale struttura. [2] Non c’è dubbio, invece, circa l’originalità di Aristotele quando si considera la necessità sillogistica (ajnavgkh), che va distinta dal nesso deduttivo con cui un attributo inerisce ad una sostanza in un predicato e che giustifica il passaggio dalle premesse alla conclusione (cfr. APr. 15-16). [3] Dove poi Aristotele fondi la necessità sillogistica è un problema evidentemente ulteriore e va risolto in ambito ontologico. La trattazione aristotelica del s. costituisce il nerbo di uno dei sei trattati di cui si compone l’Organon, e precisamente degli Analitici Primi (in due libri). Aristotele cita gli Analitici a volte come ta; ajnalutikav (Int. 10, 19b 31 ; Top. 8, 11, 162a 11 e 13, 162b 32 ; SE 2, 165b 9 ; Rhet. 1, 2, 1356b 9, 1357a 30, 1357b 25 ; 2, 25, 1403a 5, 12) a volte come ta; peri; sullogismou' (APo. 1, 3, 73a 14, 15 e 11, 77a 34), ma già fin dall’antichità è prevalsa la prima denominazione. Eloquente è il passo di EN 6, 3, 1139b 31-33 in cui è detto : « la scienza, dunque, è una disposizione che dirige la dimostrazione e che possiede tutti quegli altri caratteri che abbiamo inoltre specificato negli Analitici » ; analoghe osservazioni vengono ribadite in Metaph. 4, 3, 1005b 2-5 e in EE 2, 6, 1222b 40-41. Gli Analitici si costituiscono dunque come la premessa necessaria per chiunque voglia accedere in maniera scientifica a tutte le altre discipline : gli Analitici Primi, trattando delle tecniche sillogistiche (cioè di calcolo) per costituire correttamente proposizioni mediante inferenze induttive [→assiomatica, 4] e deduttive, viene ad essere il primo trattato di logica formale della storia ; gli Analitici Secondi studiano l’applicazione di queste tecniche all’interno delle varie scienze, ed in particolare della matematica, per costruire modelli (sistemi) di scienza validi. La cosa più sorprendente nella sillogistica aristotelica è che si presenta come una novità assoluta e soprattutto come una dottrina già compiuta : si può affermare con ogni sicurezza che la sillogistica aristotelica rappresenta il primo sistema assiomatizzato della storia, [4] tale da saper distinguere i principi indimostrabili, gli enunciati da dedurre e gli schemi (o regole) per la deduzione. È significativo che per secoli tale sistema sia rimasto un modello di riferimento, insieme agli Elementi di →Euclide. In particolare la sillogistica aristotelica fu presentata per secoli secondo il classico modello occamista, oscurando peraltro la  













Sillogismo. 1. Definizione, origini e valore storico. – Sullogismovı deriva da sullogivzesqai, che nel significato generale di ‘contare’ già compare in Erodoto (2, 148). In →Platone lo troviamo nel senso più specifico di ‘inferire’ (Grg. 479c 5-6 ; R. 7, 516b 9, 517c 1) o nel derivato sullogismov" come ‘ragionamento’ (Cra. 412a 5-6 ; Tht. 186d 3). In →Aristotele ugualmente il termine sembra ricorrere numerose volte sia nell’accezione dell’‘inferire’ che del ‘ragionamento’ (cfr. Mignucci 1969, 189). Passi platonici come Phlb. 17a 3 sembrano suggerire che già in Platone ci siano tracce di compiute deduzioni sillogistiche. Questo ha fatto sì che già gli antichi commentatori si chiedessero a chi spettasse la sua invenzione : Alessandro d’Afrodisia rivendica il s. come esclusiva invenzione aristotelica ; di contro, la linea interpretativa che passa per Albino, Ammonio, Filopono, Olimpiodoro, dunque tutto il neo-platonismo di Alessandria ed anche Temistio, rintraccia nell’opera di Platone il luogo natale del s. [1] Resta fermo che, in ogni caso, non vanno confusi i ragionamenti suscettibili di una rielaborazione sillogistica (che dunque non possono considerarsi come prova) con i ragionamenti  























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sillogismo

logica megarico-stoica a lungo ingiustamente incompresa. Soltanto nel xix-xx secolo si avviò uno studio critico delle fonti, anche grazie all’avanzamento della logica matematica, e si constatò che il sistema sillogistico aristotelico (sia categorico che modale) costituiva una assiomatica compiuta. 2. Definizione e contenuto. – « Il s. è l’enunciabile in cui, poste alcune cose, per il fatto che queste sono, segue di necessità qualcosa di distinto da esse » (APr. 1, 1, 24b 18-20) : il s. categorico (composto da proposizioni categoriche) è un’argomentazione logica che, da due premesse, fa derivare necessariamente una conclusione. Meglio ancora è definire il s. come composto da tre protasi (premessa maggiore, premessa minore e conclusione) in tre termini (o{roi). Il termine detto medio è quello che « è in un altro, mentre in esso è un altro termine ancora, e che inoltre risulta medio anche per posizione » (APr. 1, 4, 25b 35-37), fungendo qualora da soggetto, qualora da predicato : affinché il s. funzioni occorre prendere almeno una volta il termine medio in tutta la sua estensione (ad esempio, non posso inferire che ‘Luca è Giovanni’ da ‘Luca è biondo’ e ‘Giovanni è biondo’ : il termine medio ‘biondo’ va utilizzato in riferimento a ‘tutti i biondi’ almeno una volta). Ci sono poi i termini detti estremi (a[krai) che sono « sia il termine che è in un altro, sia quello nel quale un altro termine è » (APr. 1, 4, 25b 37-39). In particolare, è « estremo maggiore il termine in cui è il medio, estremo minore il termine che è sotto il medio » (APr. 1, 4, 26a 23) ; gli stessi termini, inoltre, devono avere la stessa estensione nelle premesse e nella conclusione. La protasi va espressa nella forma ‘il predicato – inerisce (uJpavrcei) [5] al – soggetto’, per evitare di rendere il nesso tra predicato e soggetto come un’appartenenza tra (elementi di) classi (o insiemi). Grazie agli studi di Łukasiewicz, Patzig e Bochenski, infatti, si è compreso chiaramente che la forma originale del s. non era ‘p ; q ; quindi r’ (nota sul modello ‘Tutti gli uomini sono mortali. Socrate è un uomo. Perciò Socrate è mortale’) bensì ‘se p e q, allora r’ (ovvero ‘Se tutti gli uomini sono mortali e Socrate è un uomo, allora Socrate è mortale’) : si capisce bene che allora il s. aristotelico non è una regola ma una proposizione. Il s., cioè, è un enunciato condizionale il cui antecedente è  





























una proposizione risultante dalla congiunzione di due premesse. Il s. è anche un ‘calcolo’ : come emerge dalle stesse tecniche sillogistiche elaborate e presentate da Aristotele nel corso degli Analitici Primi, questo calcolo viene eseguito al fine di costituire (induttivamente o deduttivamente) associazioni valide tra soggetti e predicati. 3. Sillogismo categorico. – Un s. è detto categorico (o assertorio) quando le sue protasi sono categoriche ed esprimono una necessità. In tal caso, la necessità del conseguente è di tipo incontrovertibile e soprattutto deduttivo, poiché dal più universale si è discesi al meno universale. Nel trattare il s. categorico Aristotele utilizza sempre lettere (‘A’, ‘B’, …) e non parole : è la prima volta nella storia della logica che si utilizzano variabili usate in luogo di parole (e non ancora, comunque, di altre variabili). È essenzialmente questo passaggio alle variabili che fa della logica di Aristotele una logica formale. Combinando i tre termini che costituiscono il s. si possono ottenere tre figure, ovvero tre aspetti, tre schemi nei quali può darsi il s. (a seconda di come siano disposti i termini ed in particolare il termine medio). Va quindi tenuto conto della quantità riferita al soggetto (nella sua estensione) e si ottengono così quattro tipi di proposizioni : ogni-tutti (universale affermativa, A : ‘A appartiene a ogni B’), qualche (particolare affermativa, I : ‘A appartiene a qualche B’), qualche…non (particolare negativa, E : ‘A appartiene a non ogni B’, ‘A non appartiene a qualche B’), nessuno (universale negativa, O : ‘A non appartiene a nessun B’). Modificando le quantità A, E, I, O in ogni figura, si ottengono 43=64 combinazioni : per le tre figure si ottengono allora 192 combinazioni, delle quali però soltanto 14 superano il controllo di una corretta deduzione. Nella prima figura (APr. 1, 4, 26b 33, prw'ton sch'ma), il medio (B) compare alla fine della prima protasi e all’inizio della seconda (ovvero è soggetto nella premessa maggiore e predicato nella minore). Aristotele adotta le variabili terminali A, B, G. Si elencano i quattro modi della prima figura, in cui a indica ancora proposizioni universali affermative, i particolari affermative, e universale negative, o particolare negativa :  

















sillogismo

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ΑaΒ ⋅ ΒaΓ → ΑaΓ Barbara

ΠeΣ ⋅ ΡiΣ → ΠoΡ Ferison

ΑeΒ ⋅ ΒaΓ → ΑeΓ Celarent

ΠoΣ ⋅ ΡaΣ → Π oΡ Bocardo

ΑaΒ ⋅ ΒiΓ → ΑiΓ Darii

ΠiΣ ⋅ ΡaΣ → Π iΡ Disamis

Ci sarebbe poi una quarta figura, detta ‘galenica’, [9] nella quale sono invertite le premesse della prima figura. Per effetto di questa inversione, il termine medio funge da predicato nella premessa maggiore e da soggetto nella premessa minore (ZaX et UaZ→XiU). I modi della quarta figura sarebbero : Bamalip, Camenes, Dimatis, Fesapo, Fresison. Ma Aristotele non tiene conto di questa figura, ma non ne spiega le ragioni . [10] Più problematica è la costituzione, infine, del s. induttivo [→assiomatica, 4]. 4. Prove sillogistiche : conversione, dimostrazione diretta, per assurdo, e[kqesi~ – A questo punto dovrebbe risultare chiaro che la sillogistica si presenta come un vero e proprio sistema assiomatizzabile, dove alcune figure hanno priorità su altre e le altre si ottengono per calcolo deduttivo : nel costituirsi della deduzione è l’inventio medii che acquisisce una rilevanza centrale, di tipo forse più metodologico che formale, e sostiene il processo di assiomatizzazione della sillogistica. Aristotele verifica altre possibilità di figure sillogistiche, e decide per quelle sopra elencate perché riducibili alla prima figura in Barbara e Celarent. Per questo in APr. 1, 2 Aristotele introduce le regole di conversione delle protasi mediante le quali : l’universale affermativa ([A]) si converte in una particolare affermativa ([I]) ; l’universale negativa ([E]) si converte in un’altra universale negativa ([E]) ; la particolare affermativa ([I]) si converte in un’altra particolare affermativa ([I]) ; la particolare negativa ([E]) non si converte affatto. Quanto poi alla dimostrazione diretta (o ostensiva), questa discende dalle leggi della conversione secondo regole del genere « Se ‘se p e q, allora r’ e ‘se s, allora p’ sono valide, allora anche ‘se s e q, allora r’ è valida ». La dimostrazione indiretta (o per assurdo) è utilizzata da Aristotele per la riduzione di Baroco (APr. 1, 5, 27a 37-27b 3) e Bocardo (APr. 1, 6, 28b 19-22). La riduzione all’impossibile fa uso di due leggi, che Aristotele non descrive mai esplicitamente, ma alle quali ricorre. Esse sono :

ΠaΣ ⋅ ΡiΣ → Π iΡ Datisi

1) ( p ⋅ ¬r → ¬q) → ( p ⋅ q → r )



ΑeΒ ⋅ ΒiΓ → ΑoΓ Ferio

I nomi corsivi che qui figurano a destra sono, come è noto, epiteti introdotti dagli Scolastici. [6] Aristotele chiama la prima figura ‘perfetta’ : [7] Patzig ritiene che ciò dipenda dal fatto che un motivo sufficiente per stabilire la conclusione del ragionamento sia l’esposizione esplicita della transitività dei termini del sillogismo di prima figura (in altre parole sembra che ai tre termini venga semplicemente applicata la proprietà transitiva, ‘se a=b e b=c, allora a=c’). [8] Anche Celarent gode di un certo privilegio nel sistema aristotelico, poiché insieme a Barbara viene utilizzato come termine di paragone per dimostrare la validità dei sillogismi. La seconda figura (APr. 1, 5, 26b 36, deuvteron sch'ma) è propria dei sillogismi nei quali il medio sta all’inizio della prima e della seconda protasi (per cui è due volte predicato). Per questa figura Aristotele adotta le variabili terminali M, N, X :  







Μ eΝ ⋅ Μ aΞ → ΝeΞ Cesare Μ a Ν ⋅ Μ eΞ → ΝeΞ Camestres

Μ eΝ ⋅ Μ iΞ → ΝoΞ Festino















Μ a Ν ⋅ Μ oΞ → ΝoΞ Baroco



La terza figura (APr. 1, 6, 28a 12, trivton sch'ma) corrisponde alla forma di quei sillogismi nei quali il medio sta alla fine della prima ed alla fine della seconda protasi e per descrivere la quale Aristotele utilizza le variabili terminali P, S, R :  

ΠaΣ ⋅ ΡaΣ → Π iΡ Darapti ΠeΣ ⋅ ΡaΣ → ΠoΡ Felapton







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sillogismo

(Se alla congiunzione di p e non-r segue non-q, allora alla congiunzione di p e q segue r) 2) (q ⋅ ¬r → ¬p) → ( p ⋅ q → r ) (Se alla congiunzione di q e non-r segue non-p, allora alla congiunzione di p e q segue r) Un terzo genere di prova è la prova per e[kqesi~ (o prova per esposizione), utilizzata spesso in alternativa alla prova per impossibile o per conversione (APr. 1, 6, 28a 22-28b 6 ; 28b 20-29a 1). Il metodo si basa sull’equivalenza tra ogni proposizione particolare affermativa con il prodotto logico degli elementi comuni al suo predicato e al suo soggetto. Ovvero, la proposizione ‘qualche uomo è buono’ rappresenta gli ‘uomini buoni’ (prodotto logico di ‘uomini’ e ‘buoni’), e la stessa cosa vale per la proposizione particolare negativa. ‘Esponendo’ tale equivalenza, in particolare ‘esponendo’ il termine che rende comprensibile l’equivalenza suddetta, si può procedere nella dimostrazione, superando dei passaggi che sarebbero altrimenti ingiustificabili. [11] 5. Sillogismi modali e ipotetici. – Si tratta di sillogismi con premesse non categoriche, rilevanti, per le scienze non speculative. Nel caso di sillogismi modali possono comparire espressioni del tipo ‘è necessario’ (funtore ), ‘è possibile’ (funtore ◊) ; nel caso dei sillogismi ipotetici o misti una o entrambe le premesse sono ipotetiche (come ad esempio il modus (ponendo) ponens o (tollendo) tollens). [12] Aristotele non utilizza l’espressione ‘s. ipotetico’, ma parla di sillogismi che si fondano su di un’ipotesi (ejx uJpoqevsew~) chiarendo che tale genere di s. non è riconducibile alle figure proprie del s. assertorio : ci sono figure, ad esempio, che nella sillogistica categorica non sono valide mentre in quella modale lo sono. Lo studio dei sillogismi ipotetici viene svolto dallo Stagirita in maniera analoga a quello dei sillogismi categorici : [13] dopo aver vagliato oltre 130 formule, vengono individuati 8 gruppi a seconda che nelle premesse siano utilizzati funtori di necessità, funtori di possibilità o, più semplicemente, premesse categoriche. Questa sillogistica diviene, così, assiomatizzata, proprio come quella assertoria. C’è inoltre da tener presente la specifica dei sillogismi  











dialettici e dei sillogismi retorici [→entimema]. Sarà →Teofrasto, allievo di Aristotele, a sviluppare la logica modale, sebbene manchino testi esaurienti che ce ne mostrino la teoria complessiva e possiamo limitarci a dire che egli lavorò sul s. ipotetico. In ogni caso Teofrasto lo fece utilizzando due presupposti contrari a quelli aristotelici : (a) che le leggi di conversione che regolano i sillogismi ipotetici siano analoghe a quelle che regolano i sillogismi categorici ; (b) che il funtore non si possa applicare ad uno solo degli argomenti ma all’intero enunciato, per cui il s. viene ad essere ‘completamente ipotetico’. Con questi pochi elementi Teofrasto avrebbe potuto aprire la strada ai Megarici e agli Stoici, che invece si occuparono ampiamente di logica modale, sebbene si orientarono verso una logica proposizionale [→logica].  



Note. [1] Cfr. Mignucci 1969, 29-39. – [2] Per una discussione maggiormente approfondita su questo problema cfr. Marcacci 2009, 130-135. – [3] Cfr. Łukasiewicz-Negro 1965, 119. – [4] Meglio sarebbe dire che Aristotele presenta la prima classe di sistemi assiomatizzati : nell’esame dei sillogismi, infatti, assiomatizza in vari modi, prendendo come assiomi diversi gruppi di figure sillogistiche. Cfr. Bochenski 1972, 106-107. – [5] Cfr. Mignucci 1965, 185-186. – [6] I nomi assegnati ai modi contengono diverse informazioni interessanti. Ad esempio le prime due vocali indicano quantità e qualità delle premesse, la terza quantità e qualità della conclusione. Anche le consonanti esprimono informazioni interessanti : l’iniziale rimanda al modo della prima figura che si utilizza nella riduzione alla (cioè derivazione dalla) prima figura, la lettera c indica il ricorso ad una riduzione per impossibile, e così via. – [7] Cfr. Cosenza 2006. – [8] Patzig 1968, 43-60. – [9] Łukasiewicz 1957, 27-28 e 33-42, sostiene che la quarta figura non corrisponde alla figura galenica, poiché la prima argomenta con termini, mentre la seconda argomenta con proposizioni. – [10] Cfr. Mignucci 1965, 333-345. – [11] Per un’esposizione chiara e concisa della prova per e[kqesi~ ispirata a quella del Patzig, cfr. Mignucci 1969, 58-59. – [12] Boniolo-Vidali 2002, 31. – [13] È importante notare che la sillogistica modale aristotelica è stata a lungo guardata con diffidenza e rivalutata soltanto con Becker 1934.  



Bibliografia. Barnes 2006 ; Becker 1954 ; Bochenski 1968 ; Bochenski 1972 ; Boniolo-Vidali 2002 ; Calogero 1967 ; Calogero 1968 ; Celluprica 1982 ; Cosenza 2006 ; Łukasiewicz 1963 ;  



















sintesi Łukasiewicz-Negro 1957 ; Malatesta 1988 ; Mansion 1980 ; Maracchia 1987 ; Marcacci 2008 ; Mariani 2005 ; McCall 1963 ; Mignucci 1965 ; Mignucci 1969 ; Mignucci 2007 ; Patzig 1968 ; Ross 1939 ; Scholz 1983 ; Spangler 1993 ; Suchoń-Wesoły-Żarnecka-Biały 2003 ; Thom 1981 ; Unguru 1991.  































Flavia Marcacci Simone. All’inizio del suo Peri hippikēs →Senofonte fa riferimento a un altro trattato di ippica scritto da S. ateniese, dimostrando molta considerazione verso quell’opera e il suo autore. Il personaggio, da non confondere con Simone il calzolaio (l’interlocutore di Socrate sul quale verteva il Simone di Fedone), fu contemporaneo di Socrate, è menzionato nei Cavalieri di Aristofane (al v. 242) e in →Arriano, mentre sul suo conto si legge qualcosa di più in Hippiatrica Cantabrigensia. La Suda gli attribuisce anche la paternità di un Hippiatrikos dedicato alla veterinaria equina. Bibliografia. McCabe 2007, 195-197.

Livio Rossetti









esterni all’individuo, come appunto gli influssi astrali che per loro natura sono mutevoli, finisce per manifestarsi semplicemente come un accordo accidentale o contingente, occasionato dalle vicissitudini dell’esistenza e che col tempo può dissolversi. In base a tale concezione si può dunque riassumere che i rapporti ‘simpatetici’ esistono indipendentemente dal movimento degli astri, mentre i rapporti ‘sinastrici’ esistono per via del movimento. In generale, sono più durevoli i rapporti favoriti dagli astri in congiunzione, mentre possono variare in base ad altre configurazioni quali il trigono, l’esagono, e via dicendo. Note. [1] Radici Colace 1988b. Bibliografia. Bouché-Leclercq 1899 ; Pingree 1997 ; Radici Colace 1988b.  



Carmelo Lupini Sintesi. I vocaboli appartenenti alla famiglia semantica rappresentata dal sostantivo ‘sintesi’ assumono nel lessico della matematica greca principalmente tre significati : (1) nel primo caso il termine suvnqesi" e il verbo suntiqevnai identificano un insieme di attività grafiche attinenti alla composizione ed alla costruzione delle figure ; (2) nel secondo caso designano operazioni di calcolo quali l’addizione e la moltiplicazione in riferimento ai termini di una proporzione oppure tra due o più rapporti ; (3) nel terzo caso infine la parola s. assume un aspetto puramente metodologico, in quanto identifica un procedimento di connessione tra teoremi e problemi, secondo un ordine inverso rispetto all’analisi, alla cui definizione è spesso associata. Sebbene gli usi del termine s. afferiscano ad ambiti distinti, quali la rappresentazione empirica, il calcolo e la metodologia, si può rintracciare una affinità linguistica, insita nell’idea di composizione, a motivo dell’adozione originaria del vocabolo, volta a contraddistinguere l’attività di addizione dei diagrammi, cui si accompagnava la scoperta e l’esplicazione di teoremi. Tracce di questo uso sono documentate in →Platone e in →Aristotele. (1) Per quanto riguarda l’uso del sostantivo suvnqesi" e del verbo suntiqevnai in riferimento ad operazioni condotte sui diagrammi, si possono individuare due principali sfumature semantiche : la prima consiste nel ‘congiungere’  

Sinastria [sunastriva, synastria]. Per s. s’intende l’azione reciproca esercitata dalle posizioni planetarie di due diversi temi natali, ma il suo studio non esclude il rapporto tra un tema natale e una determinata situazione. Nei testi astrologici il termine sunastriva, infatti, così come lo stesso verbo sunastrevw, è connesso all’idea di felicità, prosperità, condizione propizia, influenza positiva che, per esempio, può favorire la riuscita di un’impresa o la guarigione da una malattia. Si tratta, quindi, di condizioni favorevoli occasionali che l’uomo può sfruttare a proprio vantaggio purché sappia interpretare correttamente il messaggio dei cieli : per esempio, Massimo di Efeso scrive : « Se si osserva la natività di un uomo a cui si voglia chiedere un favore, bisogna farlo quando la Luna giunge al luogo opposto a quello della sua nascita ». [1] Partendo, poi, dalla distinzione che fa Tolomeo tra la sumpavqeia e il suo contrario, ovvero l’ajntidikivva, cioè il ‘disaccordo’ (Tetr. 4, 7, 1-1), possiamo aggiungere che mentre la sumpavqeia è un vincolo duraturo tipico dei rapporti importanti, la sunastriva è invece tipica dei rapporti temporanei e meno importanti. Giacché quest’ultima dipende da fattori  

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sismologia

secondo un elemento comune una o più grandezze geometriche allo scopo di sommarle o semplicemente di compararle ; la seconda nel ‘costruire’ la figura richiesta ai fini della soluzione di un problema. Un esempio del primo caso è fornito dalla proposizione 32 del vi libro degli Elementi di →Euclide : « Se due triangoli, che abbiano rispettivamente due lati proporzionali a due lati, vengono uniti (sunteqh')Û in un angolo in modo che i loro lati omologhi siano anche paralleli, i lati rimanenti dei triangoli saranno tra loro in linea retta » (trad. Maccioni 1970). Il secondo uso del verbo suntiqevnai è frequentemente cristallizzato nella formula suntiqevnai to; provblhma, con la quale si intende esprimere la possibilità di ‘costruire la figura che risolve il problema’, come appare chiaro dall’uso che ne fa →Archimede nella dimostrazione della proposizione 1 del secondo libro Sulla Sfera e il Cilindro : « Il problema verrà impostato ora così (sunteqhvsetai dh; to; provblhma ou{tw") : si deve trovare una sfera uguale al cono, o cilindro » (trad. Frajese 1974). (2) L’espressione caratteristica ‘composizione di rapporto’ (hJ suvnqesi" lovgou) designa la proprietà di addizione tra i termini di una proporzione e si concretizza nella legittimità del passaggio dalla formula a :b = c :d alla formula (a+b) :b = (c+d) :d, sancito da Euclide nella definizione 14 del libro v degli Elementi : « Si ha composizione di rapporti quando si consideri la somma dell’antecedente e del conseguente in rapporto al conseguente preso da solo » (trad. Maccioni 1970). Nel lessico della matematica antica sono attestati anche usi di suvnqesi" per indicare la moltiplicazione di due o più rapporti fra grandezze. (3) Per quanto riguarda il significato metodologico assunto dalla parola s., in corrispondenza con il suo diretto concorrente, vale a dire l’analisi, punto di riferimento è la definizione fornita in un famoso passaggio contenuto nella Collezione Matematica di →Pappo (Pappi Alexandrini collectionis liber vii, Praef. 1-3, ed. Hultsch 634, 3-636, 30). Nell’analisi si ammette ciò che è cercato e si procede attraverso una serie di proposizioni fino a giungere a qualche principio noto che assume pertanto uno specifico primato. Si tratta, in altre parole, di una ricerca di antecedenti, la quale segue una direzione inversa rispetto alla naturale concatenazione tra teoremi e tra problemi. L’anali 





























si pertanto consisterebbe nell’ammettere per ipotesi l’oggetto cercato, quasi come una sorta di soluzione anticipata, e nel volgersi alla ricerca del criterio da cui dipende la possibilità della soluzione stessa. Nella sintesi al contrario si suppone come già raggiunto ciò che si collocava in ultima posizione nell’analisi, vale a dire il principio, e si avanza ordinando le proposizioni secondo le rispettive connessioni sistematiche, vale a dire secondo rapporti di antecedenza e conseguenza, fino a giungere al teorema da provare o al problema da risolvere. La descrizione di Pappo presenta notevoli punti di difficile interpretazione, che hanno determinato alcune controversie in merito alla precisazione dell’andamento seguito soprattutto nello svolgimento dell’analisi. È in ogni caso innegabile che la distinzione tra i due approcci consiste nella scelta del punto di partenza e conseguentemente del punto di arrivo : nell’analisi si inizia dall’oggetto cercato per giungere al principio ; nella sintesi si comincia dal principio per arrivare all’oggetto cercato. Come ha chiaramente messo in luce Szabó 1974, il termine ajnavlusi" non designa, come il corrispondente moderno, il processo di divisione di un intero nelle sue parti costitutive, di un complesso nei suoi elementi semplici, vale a dire l’insieme di attività identificate più propriamente nel vocabolario greco dal termine ‘divisione’ (diaivresi"). L’analisi al contrario andrebbe più correttamente intesa come una sorta di ‘soluzione all’indietro’, secondo il senso stabilito proprio da Pappo con l’espressione greca ajnavpalin luvsi". Precisato il significato di analisi, la sintesi, in quanto movimento inverso, corrisponderebbe al procedere da un principio riconosciuto come vero fino al risultato cercato, seguendo la naturale articolazione dei teoremi. Fondamento logico del metodo è la convertibilità tra le proposizioni matematiche, la quale permette di percorrere in duplice direzione la connessione istituita tra teoremi e problemi.  



Bibliografia. Heath 1921 ; Mugler 1958 ; Szabó 1974 ; Szabó 1994.  





Piero Tarantino Sismologia. 1. Generalità. – È il ramo della geofisica che studia i movimenti tellurici, con particolare riferimento alla loro origine e propagazione, alle problematiche annesse e con-

sogno incubatico seguenti e alle possibilità di previsione degli eventi sismici. 2. Cenni storici. – Già prima di acquisire gli strumenti necessari a una pur approssimativa valutazione razionale del contesto in cui era inserito, l’uomo primitivo dovette rapportarsi con i fenomeni sismici, che, con il loro singolare carattere insidioso e subdolo, erano più che mai rappresentativi della sua disparità al cospetto della natura, e potenzialmente idonei a sconvolgere ogni equilibrio non soltanto materiale ma anche antropologico e sociale. Secondo la mitologia egizia i terremoti erano provocati dai movimenti, più o meno bruschi, del dio tellurico Geb. I babilonesi li misero in rapporto con influenze astrali. I filosofi greci formularono invece diverse ipotesi, in varia maniera fondate sul rapporto fra i quattro elementi. →Talete, che aveva ipotizzato che la Terra galleggiasse sull’acqua, ritenne che le sue vibrazioni fossero dunque dovute a una sorta di beccheggiare ; questa tesi che, secondo Popper, era basata se non sull’osservazione quanto meno su un’analogia empirica e osservativa, [1] si coniugava altresì all’elemento mitologico in quanto Poseidone era, contemporaneamente, dio del mare e dei terremoti [2] e, tramite le scosse, manifestava la sua ira. [3] →Aristotele espone e critica alcune teorie elaborate in precedenza. Definisce ingenua e semplicistica la spiegazione di →Anassagora, secondo il quale sarebbe stato l’etere a penetrare nelle cavità sotterranee e spingere verso l’alto. [4] Riassume, quindi, la tesi di →Democrito, secondo il quale la Terra sarebbe stata piena d’acqua, sicché quella piovana avrebbe generato una pressione ulteriore ed eccessiva, all’origine dei terremoti ; che, inoltre, sarebbero potuti scaturire dal disseccamento che avrebbe indotto l’acqua medesima a spostarsi dagli spazi pieni a quelli vuoti. [5] Riferisce, poi, che →Anassimene aveva messo le scosse in rapporto ai lunghi periodi di siccità o di intensa pioggia ; nel primo caso, infatti, la terra finisce per spaccarsi e nel secondo per franare. Obietta, però, che se così fosse, i sismi dovrebbero verificarsi ovunque, e non soltanto in determinate zone, e che inoltre tenderebbero a diradarsi sempre più fino a scomparire. [6] Enuncia quindi la sua spiegazione. La terra secca, bagnata dalla pioggia e poi asciugata dal sole o dal suo stesso calore, genera una gran quantità di soffio (pneu'ma) che,  









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oltre a trovare sfogo verso l’esterno, può anche rivolgersi al suo interno ; infatti, afferma, i terremoti sono più violenti proprio in assenza di vento. Aggiunge che si verificano più intensamente e frequentemente di notte o verso mezzogiorno, quando il mare è agitato o la terra vicina è spugnosa, in primavera e in autunno e in periodi di siccità e ricorda due esempi di scosse associate a forte vento: uno a Eraclea, nel Ponto, e uno nell’isola di Iera (Vulcano). Tra i vari fenomeni correlati, appare descritto lo sciame sismico. [7] La teoria pneumatica fu condivisa da →Teofrasto [8] e da →Seneca [9] – che, citando →Posidonio, introdusse quindi la differenza tra moto ondulatorio e moto sussultorio, aggiungendone un terzo tipo descritto come una sorta di vibrazione [10] – e rimase a lungo dominante. L’antichità conobbe una buona casistica di terremoti associati a varie anomalie, essenzialmente luminose. Così sarebbero state scosse accompagnate da lampo sismico a colpire tragicamente, nel secolo ix a.C., l’area del lago di Bolsena. [11] Segni simili e prodigiosi [→pseudo-scienza e credenze] avrebbero accompagnato i forti sussulti che, nel 91 a. C., flagellarono gli Appennini. [12] Inoltre, un terremoto con oscuramento del cielo si sarebbe verificato durante la crocifissione del Cristo. [13]  









Note. [1] Antiseri 2005, 593. – [2] Pichot 1993, 322. – [3] Hom. Il. 20, 56-65. – [4] Arist. Mete. 2, 7, 365a, 20-35. – [5] Arist. Mete. 2, 7, 365b, 1-6. – [6] Arist. Mete. 2, 7, 365b, 7-20. – [7] Arist. Mete. 2, 8. – [8] Sen. nat. 6, 13, 1. – [9] Sen. nat. 6, 21, 1. – [10] Sen. nat. 6, 21, 2. – [11] Barzanò 1989. – [12] Sordi 1989. – [13] Ev. Mt. 27, 51-54. Bibliografia. Antiseri 2005 ; Barzanò 1989 ; Dragoni 1999 ; Pichot 1993 ; Sordi 1989.  







Francesco Cuzari







Sogno incubatico [ejgkoivmhsi", incubatio]. 1. Generalità. – Rituale magico-religioso, dalle funzioni terapeutiche o divinatorie [→mantica], di origine e notorietà antica ma tuttora praticato in particolari ambienti come i popoli del Nordafrica [1] (dove, tra i Nasamoni, è attestato fin da Erodoto) [2] o, in Europa, nuclei di impronta cristiana. 2. Cenni storici. – L’istintiva ricerca del contatto con il trascendente e l’idea della malattia come esito di fattori soprannaturali [→mia-

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sogno incubatico

sma, →pestilenza] dovettero far sì che l’incubazione esistesse già in epoca remota. Era certamente conosciuta in Israele e un episodio fu vissuto da Salomone a Gabaon. [3] Sulle sponde del Nilo se ne ha notizia fin dal Nuovo Regno, nell’ambito delle celebrazioni del dio Khonsu[4] ; è possibile che a tale scopo servissero anche le cellette laterali dell’Osireion di Abydos. [5] Ma divenne sempre più popolare dalla metà del secolo v a. C., quando il dio Asclepio salì a un rango panellenico e la sua fama taumaturgica prese a irradiarsi da Epidauro e Lebena. Nei secoli successivi moltitudini di pellegrini affluirono verso i luoghi a lui sacri, che frattanto si moltiplicarono anche col favore di sincretismi ispirati al comune elemento della promessa guarigione ; a ben poco sarebbero valsi, nel tempo, i rilievi critici di →Platone, [6] Cicerone [7] e →Artemidoro di Daldi. [8] In seguito il s.i. tornò a fiorire in Egitto, presso santuari che divennero molto noti, come quelli di Canopo e di Menfi (dove vi fu il ritrovamento della stele di un oniromante cretese, che affermava di agire per ordine divino), [9] associata a Iside e soprattutto a Serapide. [10] L’importanza di questa divinità crebbe talmente che Vespasiano, proclamato imperatore dalle legioni, volle recarsi nel Serapeo di Alessandria, durante una visita che sarebbe stata accompagnata e seguita da fatti miracolosi. [11] La venerazione per tali enti superiori, intrecciandosi con quella per Asclepio e Igea e senza scindersi dalle sfaccettature terapeutiche, coinvolse anche Pompei, [12] che intratteneva con l’Oriente fitti rapporti culturali e commerciali. Licofrone documenta l’esistenza di due punti in cui avvenivano abluzione e incubazione presso il fiume Alteno ; [13] Strabone conferma che i Dauni solevano dormire, avvolti in pelli di pecora, sulla tomba di Podalirio, per ricevere responsi attraverso il sogno. [14] Ottennero un certo seguito anche divinità incubatorie minori e di importanza locale, come Trofonio e Anfiarao. [15] Alessandro di Abonutico, sedicente profeta, creò una sorta di culto personale che prevedeva anche l’incubazione ; divenne oggetto degli strali ironici di →Luciano. [16] A Roma il rito incubatico, probabilmente, si svolgeva nel tempio sorto sull’Isola Tiberina nel 293 a. C. quando, esplosa una pestilenza durante la terza guerra sannitica, l’oracolo [→mantica] aveva suggerito di rivolgersi al figlio di Apollo. [17] Pur mancando  





























esplicite testimonianze in tal senso, ciò è desumibile da indizi come l’accenno di Plauto a un malato che incubat in Aesculapi fano [18] (che, sebbene lo scenario dell’opera sia Epidauro, si ritiene pertinente all’Isola Tiberina, poiché di questa lo scrittore aveva conoscenza diretta), il ricorrere di espressioni quali ex visu ed ex iussu numinis in dediche rivolte al dio e l’impiego del verbo crhmativzein in un racconto di guarigione. [19] Inoltre era presente in Sardegna, già nel corso della civiltà nuragica, dove il →sonno vicino ai sepolcri degli antenati aveva lo scopo di superare le malattie ma anche di ottenere consigli per affrontare momenti critici di vario genere. Dopo l’avvento del Cristianesimo l’incubazione, lungi dal cadere in desuetudine, [20] fu anzi liturgicamente accostata a Santa Tecla, a San Michele e soprattutto ai Santi Cosma e Damiano (le cui chiese erano provviste di una navata apposita) [21] i quali, a Costantinopoli, avrebbero in tal modo curato anche l’imperatore Giustiniano (che, per gratitudine, fece restaurare l’edificio sacro e volle che un altro fosse elevato in Panfilia) ; [22] la grave sofferenza di San Porfirio di Gaza sarebbe stata invece risolta direttamente da Cristo, tramite una visione sul Calvario durante la quale l’infermo avrebbe anche toccato il legno della croce. [23] Mai scomparso durante i secoli, il fenomeno è sporadicamente osservabile anche ai giorni nostri ; [24] tuttavia, a differenza che nell’antichità, il rapporto tra il sonno e il miracolo sembra essere diventato meno perentorio e vincolante. [25] 3. Svolgimento e interpretazioni. – Il devoto che si accingeva all’incubazione, dapprima accolto nel katagwvgion, ‘luogo di sosta’, doveva offrire sacrifici preliminari, sottoporsi ad abluzioni purificatrici nell’acqua oracolare, seguire divieti alimentari e assumere pozioni terapeutiche, tra le quali ricorrevano, forse, preparati alcolici ; [26] né si può escludere che, almeno talvolta, queste contenessero anche principi attivi dalla valenza ipnotica. [27] Quindi, preso posto nell’a[baton, ‘santuario’, fra intense preghiere scivolava in uno stato alterato della coscienza assimilabile a un sogno indotto o a un’estasi mistica, in virtù del quale sarebbe entrato in contatto con esseri celesti o comunque ultraterreni, quali spiriti di defunti [→pseudo-scienza e credenze], di cui sperimentava l’immediata presenza. La divinità  















solidi speciali appariva con sembianze antropomorfe e tratti somatici analoghi a quelli dei monumenti che la raffiguravano e, attraverso un dialogo semplice e scevro da simbolismi, annullava sul momento la patologia o, comportandosi appunto da medico, prescriveva una cura che era poi interpretata con l’ausilio del sacerdote. Il risveglio, secondo Pausania, era traumatico, denso di confusione e terrore. [28] Eppure si ottenevano così guarigioni o rivelazioni sul futuro, unite a un senso di corroborante palingenesi. Presso il tempio rimanevano testimonianze dei fatti accaduti, denominate sanationes, ed ex voto ; ad Atene ce n’era uno, in marmo che ritraeva il commediografo Teopompo mentre, emaciato dalla tisi, riceveva la grazia durante il sonno. [29] Elio Aristide (sec. ii d.c.) descrisse in forma autobiografica le sue esperienze incubatorie (Ascl. 41, 1 sgg. Jebb). Le tavolette di Epidauro furono pubblicate nel 1883 e accolte con forte scetticismo (Dodds 1998, 11) ; la casistica descritta fu, dapprima, radicalmente giudicata esito di frodi, di assistenza in realtà prestata da esperti o di autosuggestione. Si è poi giunti a una lettura di maggior equilibrio e prudenza, che si articola nella valutazione differenziata delle vicende e nella considerazione dei numerosi aspetti fenomenologici che interagivano tratteggiando quella che, in ogni caso, era una realtà complessa e delimitata da un particolarissimo orizzonte esistenziale. [30] D’altronde il miracolo non raggiungeva tutti ; così il lenone di Plauto decide di abbandonare il tempio, perché Asclepio, sebbene gli appaia, non vuole, evidentemente, soccorrerlo. [31] Anche questa imperscrutabilità era parte della straordinaria cornice in cui entravano in comunione uomini e dei.  













Note. [1] Laureano 2001, 105. – [2] Hdt. 4, 172, 3. – [3] 1 Ki. 3, 4-15. – [4] Lachaud 1997, 245. – [5] Guilmot 1999, 82. – [6] Pl. R. 381d. – [7] Cic. nat. deor. 3, 91. – [8] Artem. 4, 22. – [9] Dunand-Zivie Coche 2003, 335. – [10] Dunand-Zivie Coche 2003, 160. – [11] Vermaseren 1976, 34-35. – [12] Marcattili 2006, 40-43. – [13] Rossignoli 2004, 126. – [14] Rossignoli 2004, 138. – [15] Guidorizzi 1988, 89. – [16] Luc. Alex. – [17] Ov. Met. 15, 662-744. – [18] Plaut. Curc. 61-62. – [19] Guarducci 1983, 190. – [20] Loria 1994, 341. – [21] Melfi 2007, 406. – [22] Loria 1994, 339-340. – [23] Rizzo Nervo 2003, 418. – [24] Loria 1994, 599. – [25] Rossi 1969, 80. – [26] Marengo 2003, 209-210. – [27] Pontieri 1993, 21.

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– [28] Paus. 9, 39, 13. – [29] Grmek-Gourevitch 2000, 136. – [30] Edelstein-Edelstein 1988. – [31] Plaut. Curc. 216-218. Bibliografia. Dodds 1998 ; Dunand-Zivie Coche 2003 ; Edelstein-Edelstein 1988 ; GrmekGourevitch 2000 ; Guarducci 1983 ; Guidorizzi 1988 ; Guilmot 1999 ; Lachaud 1997 ; Laureano 2001 ; Loria 1994 ; Marcattili 2006 ; Marengo 2003 ; Melfi 2007 ; Nicosia 1988; Pontieri 1993 ; Rizzo Nervo 2003 ; Rossi 1969 ; Rossignoli 2004 ; Vermaseren 1976.  

































Francesco Cuzari Solidi speciali. Con il nome di ‘solidi platonici’ o ‘solidi speciali’ si identificano cinque poligoni regolari : piramide, cubo, dodecaedro, ottaedro e icosaedro. La loro scoperta è oggetto di controversia a causa delle notizie divergenti riportate dagli storiografi. La Suda ascrive a →Teeteto il merito di aver costruito per primo i cosiddetti cinque solidi regolari (Suid. q 93 = fr. 3 D 30 Lasserre). L’attribuzione appare parzialmente confermata da uno scolio ad Elementi xiii, libro dedicato da →Euclide allo studio delle cinque figure chiamate ‘platoniche’. La particolare denominazione, precisa lo scoliaste, trae origine dalla menzione dei cinque solidi nel Timeo (53c-55c), sebbene la loro identificazione non si debba a Platone. Tre di essi, il cubo, la piramide e il dodecaedro, furono costruiti dai Pitagorici, mentre i restanti due, l’ottaedro e l’icosaedro, risalgono a Teeteto. Euclide infine svolse il lavoro di sistemazione in elementi di questa sezione della geometria solida (Schol. Eucl. ad tit. libr. 13, 1, 654 Heiberg = fr. 3 D 37 Lasserre). Il libro xiii degli Elementi si occupa infatti della trattazione delle proprietà dei poligoni regolari, si sofferma sul problema della loro inscrizione in una sfera e chiarisce che non è possibile costruire ulteriori solidi regolari. →Proclo al contrario riconosce esclusivamente a →Pitagora la scoperta dei cinque solidi, senza fare alcun riferimento a Teeteto (in Eucl. 65-66). La notizia tramandata da Proclo risulta tuttavia scarsamente attendibile e pertanto indirizza ad una più attenta valutazione dei resoconti riportati nelle altre due testimonianze. In modo plausibile si può supporre, coerentemente con quanto riportato nella Suda, che Teeteto fornì per primo una definizione complessiva dei cinque solidi, tre  

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sonno

dei quali erano stati precedentemente scoperti dai Pitagorici, come riportato nello scolio. L’originalità del lavoro di Teeteto sarebbe allora consistita sia nell’introduzione dell’ottaedro e dell’icosaedro in campo geometrico, sia nella complessiva organizzazione della geometria solida, lavoro da cui probabilmente prese avvio la sistemazione generale condotta da Euclide. Bibliografia. Boyer 1989 ; Knorr 1975 ; Lasserre 1987 ; Müller 1981 ; Müller 1997 ; Thesleff 1990.  









Sonno. Come elemento della →terapeutica, il sonno [u{pno~, somnus] nella medicina antica è molto valutato : vi sono convergenze di opinioni molto ampie tra i vari autori : la misura ideale è da rapportare a stagioni, età, sesso ; deve essere usato con moderazione ; è di natura ‘fredda’. Nel mondo greco soprattutto arcaico è variamente collegato con la morte e personificato come fratello di questa divinità, [1] ad essa contrapposto in quanto conseguente ad una fuga parziale del sangue nelle vene, mentre con la morte la fuga del sangue è totale. [2] Quest’ultimo concetto è anche in →Aristotele, che, nel trattato Sul dormire e sullo stare desti, ascrive il sonno alla sfera delle capacità percettive elementari [3] e lo spiega come una ‘incapacità di funzione’, subordinato alle facoltà percettive di tutti i sensi: [4] luogo di formazione del sonno sarebbe il cuore, [5] in cui il sangue perviene, sulla base della digestione, a un raffreddamento temporaneo. Analogamente ad Aristotele il sonno è, del resto, considerato come conseguenza di un processo di raffreddamento anche in alcuni scritti del Corpus Hippocraticum ; il sangue si raffredda, scorre più lentamente e questo ha per effetto una sorta di debolezza, stanchezza : « Quando il sonno pervade il corpo, il sangue si raffredda, poiché il sonno è per sua natura freddo »[6] ; ancora leggiamo : « Quando si è a digiuno, il sonno fa dimagrire e raffredda, se non è prolungato, in quanto fa evacuare l’umore esistente. Se invece è prolungato, riscaldando consuma la carne e, sciogliendo il corpo, rende deboli. Dopo i pasti riscalda e inumidisce, distribuendo il cibo nel corpo. Dopo le passeggiate effettuate di mattina dissecca in sommo grado […] ». [7] Nel Corpus oggetto della ricerca  





































Piero Tarantino



è soprattutto l’osservazione del sonno di un singolo paziente. [8] Vengono osservati tempo, durata e qualità del sonno, dai quali elementi si potevano trarre conclusioni su tipi ed esiti di malattie varie. [9] Un disturbo dell’intero processo del sonno poteva verificarsi se, nel corso della nutrizione, si fosse verificata una mancanza di relazione tra assunzione di nutrimento e suo trasporto. [10] Con la medicina del periodo ellenistico-romano si realizzano nuovi approfondimenti e cognizioni : il sonno, se moderato, ha effetti riscaldanti ; ha effetti differenziati dopo l’assunzione di cibo o il bagno ; assume valore e significato diverso in relazione alla sua natura, se, cioè, sia leggero o profondo, breve o prolungato. →Celso discute anche di mezzi atti a provocarlo, come « un unguento a base di croco misto a olio irino spalmato sul capo ». [11] Anche →Galeno vede il sonno in connessione con una cattiva ripartizione del riscaldamento corporeo o con una diminuzione del calore interno, cioè con una specie di raffreddamento, o con aridità seguita da stanchezza che si poteva verificare a causa di assunzione abbondante di cibo. [12] Galeno discute variamente del sonno. [13] Ritenendo il cervello sede di conoscenza e percezione, lo scienziato di Pergamo attribuisce al livello di umidità del cervello i diversi gradi di percezione. [14] Il sonno è perciò, per Galeno, una ‘diminuzione della percezione cosciente’, ma non una cessazione completa, come quella che si verifica in occasione della morte. [15] Galeno ri conosceva dunque che i riflessi muscolari involontari come la respirazione funzionano di per sé nel sonno. [16]  















Note. [1] Il. 14, 231. – [2] Alkmeon A18 D.-K. – [3] Arist. Somn. Vig. 1, 454, 22 sg. – [4] Somn. Vig. 2, 455a 13-455b 13. – [5] Somn. Vig. 2, 456a 1-24. – [6] Flat. 14 / 6, 112 L, trad. dello scrivente, come anche infra ; cfr. anche Mazzini 1997, 358.– [7] Vict. 60 / 6, 572574 L ; cfr. anche Mazzini 1997, 358-359. – [8] Prog. 10 / 2, 134 L. – [9] Prog. 15 / 2, 148-150 L ; Aph. 2, 1-3 / 4, 470 L. – [10] Vict. 3, 71 / 6, 610 L. – [11] Cels. 3, 18, 12 / 124 M. – [12] Gal. Caus. puls. 3, 10 / 9, 140 K. – [13] In Hp. Aph. comm. 1 / 17, 2, 451-452 K. – [14] In Hp. Prorrh. comm. 2, 63 / 16, 646 K. – [15] Mot. musc. 2, 4 / 4, 439 K. – [16] Mot. musc. 2, 4 / 4, 440 sg. K.  





Fonti. Il. 14, 231 ; Hp. Prog. 10 / 2, 134 L ; Prog. 15 / 2, 148-150 L ; Aph. 2, 1-3 / 4, 470 L ; Flat. 14 / 6, 112 L ; Vict. 60 / 6, 572-574 L ; Alkmeon A18 D.-K. ; Vict. 3, 71 / 6, 610 L ; Arist. Somn. Vig. 1, 454, 22 sg. ; Somn.  

















spazio, concezione dello Vig. 2, 455a 13-455b 13 ; Somn. Vig. 2, 456a 1-24 ; Cels. 3, 18, 12 / 124 M ; Gal. Mot. musc. 2, 4 / 4, 439-441 K ; Caus. puls. 3, 10 / 9, 140 K ; In Hp. Prorrh. comm. 2, 63 / 16, 646 K ; In Hp. Aph. comm. 1 / 17, 2, 451-452 K.  











Bibliografia. Byl 1988b ; Lowe 1978 ; Mazzini 1997, 358-359 ; Siegel 1973, 98 sg. ; 144-147 ; Sprague 1977 ; Stamatu 2005v, 774-776 ; Stenger 2001.  













Sergio Sconocchia Sorano di Efeso. Nato ad Efeso nella seconda metà del i sec d.C., vive e opera a Alessandria e a Roma nella seconda metà del ii sec. d.C. Contemporaneo di→Galeno, è il più importante rappresentante della scuola metodica, (fondata da →Asclepiade di prusa e da→Temisone di laodicea), sotto Traiano e Adriano. È considerato dalla tradizione il fondatore della ginecologia e dell’ostetricia. Lo dimostrano i suoi più importanti testi conservati in frammenti: Dell’utero e degli organi genitali femminili (edito per la prima volta a Parigi nel 1554, nell’edizione di →Rufo di Efeso, dove S. dimostra che il mestruo è la funzione primaria dell’utero), i Gynaecia, in quattro libri, conservati in greco e nella traduzione di Muscione (vi sec. d.C.) e, in quella, più nota, dello stesso →Celio Aureliano (opera scoperta nel 1830, nel manoscritto Parisinus Graecus 2153 del xv sec.) e, infine, l’adattamento del lavoro ginecologico di S. nel Liber geneciae ad Soteridem obstetricem, dialogo fra la obstetrix Soteris e S. stesso. Al suo testo fondamentale, Delle malattie delle donne, documento prezioso per l’evoluzione della medicina e dell’ostetricia, fanno riferimento autori successivi fino al Rinascimento. Da questa opera emerge che S. eseguiva l’autopsia ai cadaveri e che dava una serie di indicazioni al destinatario della propria opera, le ostetriche, in ambito terapeutico e diagnostico (taglio dell’ombelico con legatura doppia e lavaggio degli occhi dei neonati sono accorgimenti da lui per primo inseriti). Tra le opere perdute spiccano a fianco di quelle a carattere medico, opere di ambito filosofico, come il trattato filosofico in quattro libri Peri; yuch'", noto dalle citazioni del nostro autore nel De anima di Tertulliano che definisce Sorano come maggior rappresentante dei →metodici [1] Ricordiamo tra le opere di medicina : i trattati biografici di autori medici a partire da Ippocrate (∆Etumologivai tou' swvmato~ tou' ajnqrwvpou), il perduto testo sulle  

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malattie acute e sulle malattie croniche, al quale supplirà Celio Aureliano con i tre libri delle Celeres siue acutae passiones e con i cinque libri delle Tardae siue chronicae passiones e un trattato sulle cause delle malattie oltre a trattati sui rimedi medici e sulla chirurgia. L’opera di S. si caratterizza rispetto alla letteratura ginecologica precedente per il rifiuto di concezioni magiche, presenti ancora nella spiegazione delle mestruazioni e del parto come nascita di una nuova vita, e per il superamento del concetto proprio di Ippocrate del maschio come salute della donna. Sorano dimostra di essere così un medico filologo.[2] Note. [1] Tert. anim. 6 : methodicae medicinae instructissimo auctore. Celio Aureliano definisce Sorano medicorum princeps. – [2] Cfr. Gourevitch 1987b e Burguière-Gourevitch-Malinas 19882003.  

Bibliografia. Burguière-Gourevitch-Malinas 1988-2003 ; Gourevitch 1987b ; Gourevitch 1991, 51-81 ; Gourevitch 1992, 597-607 ; Hanson-Green 1994 ; Ilberg 1927 ; Kind 1927 ; Lefkowitz-Fant 1992, 250-258 ; Reus 2001 ; Scarborough 1991a ; Temkin 1956 ; Waszink 1947.  





















Daniele Monacchini Spazio, concezione dello. 1. Generalità. – La creazione architettonica è espressione di una ideologia religiosa, politica e sociale determinata, nella quale assume un ruolo fondamentale la concezione spaziale che determina i diversi esiti architettonici. 1. Architettura egiziana. – Gli egiziani concepiscono lo spazio come attributo e privilegio esclusivo della divinità. L’estensione ridotta all’interno delle piramidi (edificate in un periodo compreso tra il 2650 e il 2350 a.C.), che pure sono riservate a uomini di statura divina come i faraoni, esprime infatti la rinuncia di questo antico popolo alla spazialità, poiché essa non compete alla volontà umana. La piramide egizia, solitaria ed enigmatica, destinata al mondo dei morti e alla dimensione ultraterrena, con le sue lisce superfici lapidee proclama la sua inaccessibilità ai mortali e, senza alcuna apparente continuità con la precedente architettura di area mesopotamica (templi e ziggurat), rivela la presa di coscienza del principio di verticalità (in termini astratti e concettuali) e la rinuncia consapevole ad ogni concessione estetica e de-

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spazio, concezione dello

corativistica, in nome della nuda essenzialità e della totale compressione dello spazio interno, utile a realizzare un volume compatto immesso nello spazio esterno. 2. Architettura greca. – I greci tralasciano lo spazio interno e concepiscono quello esterno quale ultima ‘veste’ dell’uomo, fino alle estreme conseguenze : il tempio greco [→architettura sacra] può infatti definirsi, più che un esempio di architettura, una scultura modulata all’esterno, dentro la quale non è possibile vivere. Sicché l’architettura greca classica si esprime all’aperto, fuori dai templi e dalle abitazioni, soprattutto nel tevmeno" e nell’acropoli, nel teatro [→architettura teatrale] e in un’urbanistica che ha per scenario l’orizzonte. Tale concezione è posta in crisi dall’architettura ellenistica, dotata di una ‘consapevolezza’ che mira a contestualizzare i singoli edifici, al fine di creare un quadro unitario, nel quale sono compresi anche i teatri, da questo momento dotati di scene stabili in muratura. 3. Architettura romana. – Logica evoluzione della concezione ellenistica, con i dovuti apporti autoctoni ed allogeni, è l’architettura romana, in cui lo spazio costituisce il luogo dell’azione, dell’esperienza e della conquista dell’uomo e quindi può e deve essere dilatato. Sperimentando l’impiego di materiali diversi – in particolare l’uso del cemento [→materiali edili], già utilizzato dai Fenici e Cartaginesi – e di tecniche costruttive innovative – quali l’arco, la volta, la cupola [→costruzione (sistemi e tecniche)], – alcune delle quali mai prese in considerazione dall’architettura greca, i Romani riescono a creare un linguaggio architettonico nuovo, volto ad ampliare gli spazi interni degli edifici. Tale risultato è ottenuto mediante l’adozione di schemi curvilinei, l’apertura delle pareti, lo sviluppo della cupola e il conseguente trasferimento dei sostegni dall’interno all’esterno, con la definitiva eliminazione di quelle colonne e architravi che invece nell'architettura greca sono ritenute così importanti. Tali ‘idee’ architettoniche sono la dimostrazione dell’abbattimento di una ulteriore distinzione, quella tra ‘interno’ ed ‘esterno’, e si esprimono in modo differenziato e contrastante nelle due parti dell’impero romano. Nella parte occidentale, infatti, l’ambiente centrale si coordina con le altre parti e diventa elemento dell’insieme in cui lo spazio è ulte 

riormente concentrato dalla copertura a volta ; in oriente, invece, i vani laterali sono secondari e subordinati a quello centrale, che, al posto della volta, ha come copertura una semplice tettoia ; ne consegue che ciascun elemento spaziale rimane isolato e teoricamente moltiplicabile all’infinito. Negli edifici occidentali, inoltre, il perimetro basale e la stessa pianta di una costruzione si articolano e configurano in stretta relazione con la presenza e la portata delle volte e della cupola. Nelle province orientali di gusto ellenistico (Siria e Anatolia soprattutto), evidenti resistenze impediscono di recepire la dilatazione spaziale come simmetria e ordine, producendo, come conseguenza, spazi periferici aggregati disordinatamente. Le città orientali, sostanzialmente, rifiutano alcuni elementi dell’architettura romana, preferendo la tradizionale tecnica di pietre squadrate all’opus coementicium e una copertura che non utilizza volte e cupole. Tale pregiudizio costruttivo si basa sulla dicotomia esistente tra la concezione architettonica greca, che si fonda sull’elemento ‘singolo’ e sul suo significato plasticostatico, e la concezione architettonica romana, basata sul ‘legamento’, cioè sull’unità complessiva della fabbrica, realizzata dalla copertura a volta e dalla cupola. Questa differenza di obiettivi architettonici ha radici politiche, poiché l’arte ellenistica e greca in generale rimane legata all’originario particolarismo culturale e politico di cui la polis è espressione e manifesto, mentre la mens romana concepisce, in ogni sua manifestazione, il principio dell’universalismo unitario espresso dall’Urbe. E se, in ambito ellenistico, le decorazioni scultoree e pittoriche dell’architettura (quali pilastri, archivolti, fregi e capitelli), hanno un valore funzionale e per questo sono rilevate e rese evidenti plasticamente, negli esempi romani, invece, essi non sono sporgenti dalla parete, ma agiscono come merlettature di superfici quasi inconsistenti, perchè traforate : perduto il loro significato tettonico, esse si inseriscono quindi nel gioco ottico e cromatico dello sfondo. Il capitello, che nell’arte greca è un nucleo plasticamente accentuato nel gioco delle forze, nell’arte romana diventa puramente decorativo, a causa del trasferimento del rapporto tra peso e sostegno dal nesso architrave-colonna ai muri d’ambito. Per gli stessi motivi i mosaici, che nei massicci muri greci, ornati di rilievi, non possono essere  





stelle, scrittura delle realizzati, nei muri romani sono fondamentali per dilatare lo spazio fino a trasformarlo in puro colore. Bibliografia. Adam 1994 ; Argan 1936 ; Bettini 1978 ; Brown 1963 ; Dinsmoor 1975 ; Doxiadis 1972 ; Gullini 1959 ; Martin 1989 ; Ortolani 1999.  















Shara Pirrotti Stelle, scrittura delle. 1. Generalità. – Non è un caso che in Omero (Il. 22, 30) il termine che indica la stella Sirio sia sh'ma, cui corrisponde in latino signum : in questa accezione, il significato originario del termine come ‘segno che viene dal cielo’ finisce col designare l’astro stesso, di cui sottolinea e sublima linguisticamente la facoltà predittiva, cioè la sua capacità di rimandare ad altro, in una parola la sua natura referenziale. Né è un caso che il verbo corrispondente, shmaivnw, che troverà largo impiego nella medicina ippocratica per indicare la complessa significatività degli indizi che avrebbero portato alla prognosi ed è il verbo principe della significatività del linguaggio umano, sia anche uno dei verbi più impiegati per indicare il pronostico derivante dalla combinazione astrale e il più esplicito indicatore dell’insistente ricerca di senso da parte dell’uomo nelle stelle. [1] Sul fatto che anche alle stelle venga riconosciuto un ‘linguaggio’, getta un’importante conferma la considerazione che tanto le lettere dell’alfabeto quanto gli elementi astrali si riconoscono sotto la definizione di stoicei'a/elementa, cioè di elementi allineabili e virtualmente scomponibili e ricomponibili in una serie infinita di unità significanti. Un verbo, shmaivnw, che prima di assumere il banale senso di ‘significare’ nel senso dell’instaurazione di un rapporto tra significante e significato, si riferiva al processo di comunicazione che il dio attivava nei confronti dell’uomo. Che alle stelle venisse riconosciuto un linguaggio, è confermato, oltre che dall’attribuzione ad esse della facoltà di parlare o di tacere, dal fatto che, al di là delle distinzioni basate sul presunto sesso degli astri, sul grado di umidità e siccità, sulla loro collocazione orientale od occidentale, o in relazione all’ordine gerarchico, i dodici segni dello Zodiaco sono stati classificati in tre categorie proprio in base alla loro capacità di ‘parlare’ (fwnhven 



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te", hJmifwnhvente", a[fwnoi e in latino sonantia,

semisonantia, muta) : una classificazione che, pur nella varietà degli inserimenti dei singoli segni in questa o quella categoria, è perfettamente sovrapponibile a quella che in ambito grammaticale aveva imparato a distinguere le lettere dell’alfabeto in sonanti, consonanti e mute [→stelle, voci delle]. Le connessioni tra stelle e alfabeto sono confermate dalle testimonianze antiche, che vedevano nel cielo un libro, dal profeta giudaico Isaia che parlava del cielo come di un rotolo di papiro in cui tutto è scritto (Is. 34, 4), fino a Euripide (Melanipp. fr. 506 N.), dove è detto che Zeus scriveva nel cielo. [2] Già Platone, nella Repubblica (617b) aveva immaginato che su ognuno dei kuvkloi delle sfere celesti montasse una Sirena, che emetteva un’unica voce (miva fwnhv). E dopo di lui, da Alessandro Efesio a Teone di Smirne fino a Giamblico in ambito greco e ad Apuleio, Mario Vittorino e Marziano Capella in ambito latino, alle stelle non solo viene attribuita una ‘voce’, ma la loro espressione sonora è definita addirittura wj/dhv, cantus (canto). Termini come snnwÊdiva e concentus, μevlo~ e cantus, fqovggo" e chorus ‘raccontano’ un romanzo delle stelle visto – e per certi sensi rimodellato sui cori angelici – essenzialmente come ‘voce’, che si esprime su una melodia, per diventare un canto corale. [3] È evidente che gli antichi hanno cercato di decifrare il cielo inizialmente per una prognostica ad usum nautarum et agricolarum, poi per leggervi i ‘segni’ di un futuro che investiva vari campi dell’attività umana. Lo dimostrano le ejrwthvsei" sempre più insistenti che riguardavano magna et parva (oroscopi cittadini e oroscopi individuali, genetliaci e iniziative spicciole – acquisto di schiavi, matrimonio, interventi chirurgici, taglio delle unghie e dei capelli, fino alla previsione se il cliente avrebbe o no pagato l’astrologo). Un mondo antico che, ad onta delle feroci stroncature dei critici (ex. gr. Cic. div. 2, 47), delle frequenti cacciate degli astrologi da Roma, [4] della tolleranza della Chiesa alla luce del motto che astra inclinant, non necessitant, ha sempre guardato al cielo come ad un grande libro in cui sono scritti i destini dell’umanità, con un suo alfabeto, con una sua grammatica, con una sua sintassi : un linguaggio complesso e misteriosamente affascinante, che richiedeva l’intermediazione degli interpreti e degli astrologi di professione  









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stelle, voci delle

e l’accesso guidato all’enciclopedia del sapere astrologico, ai libri che nel tempo avevano tramandato le dottrine dei palaiovtatoi. Note. [1] Radici Colace 1998b, 88. – [2] Dornseiff 1925, 89-91. – [3] Radici Colace 1993c. – [4] Cramer 1950.

dell’anonimo sopra esaminate mostra che c’è qualche differenza : ad esempio, Bilancia e Sagittario figurano tra i segni fwnhvente" in quanto ajnqrwpoeidei'~, mentre nell’anonimo una è muta e l’altro semiparlante. [5] Ma sembra di poter cogliere anche nelle differenze una linea di coerenza : la voce è attributo dei segni in quanto antropomorfizzati, mentre la semivoce è caratteristica di quei segni quae formantur ad imagines animalium balantium et mugientium et rugientium. [6] Ma non bisogna dimenticare che questa classificazione è perfettamente sovrapponibile a quella che in ambito grammaticale aveva imparato a distinguere le ventiquattro lettere dell’alfabeto greco in ‘sonanti’, ‘consonanti’ e ‘mute’ [→stelle, scrittura delle]. [7] A tale adattamento non è estraneo il fatto che tanto le stelle quanto le lettere dell’alfabeto si ritrovano sotto l’unica denominazione di stoicei'a, [8] cioè ‘elementi in ordine o ordinabili’, terminologia che esaltando l’allineamento e la componibilità dei singoli moduli ritrovava nel cielo le caratteristiche – in termini di espressività e significatività – del linguaggio umano. Nell’ottica complessiva di questo linguaggio, non ci meraviglia che Proclo abbia assimilato la musica delle sette sfere planetarie alle vocali (tau'ta me;n gavr ejsti fwnhventa) e le costellazioni dello Zodiaco alle consonanti (suvmfwna ta; tw'n zw/divwn) [9] ricomponendo una ‘grammatica’ diversa ed alternativa a quella risultante dalla classificazione delle dodici costellazioni in fwnh'enta, hJmivfwna ed a[fwna. Una possibilità di articolazione che è strettamente correlata con la possibilità di indicare il pronostico. Non a caso infatti uno dei verbi più impiegati per indicare il pronostico derivante dalla combinazione astrale è il verbo shmaivnw , tipico per definire il significato del linguaggio umano [10] e che anche il termine corrispondente sh'ma sia adoperato tanto per il significato di una parola nella sua forza espressiva, quanto per indicare un ‘segno’ astrale, in una esaltazione della sua capacità di ‘comunicazione’ con il destinatario che è l’uomo. [11] 3. Ascolto e parola. – Ma altri termini dimostrano che il messaggio si articola sub specie vocis anche all’interno di un sistema comunicativo che riguarda le sole stelle. Uno dei termini più frequenti per indicare il pianeta sottomesso all’influenza di un altro è ajkouvw. I manoscritti astrologici sono pieni di sezioni,  



Paola Radici Colace Stelle, voci delle. 1. Metafore della comunicazione. – È interessante osservare che accanto ad una applicazione diretta di termini afferenti al campo semantico della voce in senso proprio [→corpi celesti (silenzio, sonorità)] ve n’è un’altra, più sottile e per questo più intrigante, anche perché molto più invasiva ed imponente, che dal senso letterale si spinge fino alla metafora. Per indicare l’accordo o il disaccordo planetario, cioè un elemento che è stato da sempre alla base degli interessi degli uomini verso gli astri nella loro significatività prognostica, viene impiegato in una maniera massiccia, che poi tecnicizzandosi diventa univoca, il lessico della voce : sumfwniva, suvmfwno" e sumfwnei'n ed i loro contrarii descrivono la cooperazione (e per analogia, nei composti negativi, il contrasto/opposizione) tra i corpi celesti come un ‘parlare insieme’ un comunicare – e di conseguenza un esprimere l’accordo – in termini del tutto propri al microcosmo umano [1]. 2. Vocali e costellazioni. – Un altro aspetto rilevante è costituito dal fatto che le diverse costellazioni dello Zodiaco vengano classificate in tre categorie, e proprio a proposito della loro capacità di parlare : così in un anonimo testo astrologico compaiono segni fwnhvente", ‘parlanti’, hJmifwnhvente", ‘semiparlanti’, e a[fwna, ‘muti’. [2] E non è un caso che ad essere definiti ‘parlanti’, cioè capaci di esprimersi attraverso suoni, siano proprio quei segni zodiacali dotati di aspetto umano (ajnqrwpoeidei'") (Gemelli, Vergine, Aquario), o animale (Ariete, Toro) ; come ‘semiparlanti’, dotati sì di una fwnhv ma a[narqro" kai; a[shmo", [3] figurano costellazioni la cui iconografia è solita mostrarli di aspetto ‘misto’ (Sagittario e Capricorno), cui viene affiancato il Leone (il ruggito non è una ‘voce’ ma una ‘semivoce’). [4] Ad essere muti, secondo la logica interna a questo sistema, sono ovviamente i segni d’acqua (Cancro e Pesci), per natura ‘muti’, e un oggetto d’uso, la Bilancia. Vero è che in Efestione queste classificazioni cambiano, ed un confronto con quelle  





stelle, voci delle anonime e non, che contengono liste intitolate

peri; ajkouovntwn kai; prostassovntwn ajstevrwn.

È vero che si può giungere ad una significazione traslata del tipo : ‘segni che comandano’, ‘segni che obbediscono’, [12] ma è interessante osservare che il concetto è giocato all’interno dell’ambito semantico della voce e dell’ascolto : una parola imperativa che diventa comando ed un ascolto che si connota come obbedienza e sottomissione, in un sistema comunicativo dominato dalla parola-forza. Heph. Astr. i, p. 38, 11-15 Pingree, ha un capitolo intitolato peri; ajkouovntwn kai; prostassovntwn ajstevrwn, desunto da Ptol. 1, 15, in cui gli tmhvmata (« sezioni ») dello Zodiaco ricadenti nell’emiciclo estivo sono definiti prostavssonta (« dominanti »), mentre quelli ricadenti nell’emiciclo invernale sono definiti ajkouvonta (« sottoposti »). jAkouvonta sono peraltro Toro, Pesci, Gemelli, Aquario, Cancro, Capricorno, Leone, Sagittario, Vergine, Scorpione nell’anonimo testo edito da Ludwich. [13] Allo stesso campo semantico del ‘parlare’, ‘sentire’, ‘rispondere’ appartiene anche l’uso di varie forme del verbo ajmeivbw in relazione agli astri (Maneth. 2, 15, 148 ; 3, 190, 232). A volte però le stelle ascoltano anche se non debbono obbedire : è un ascolto benevolo e condiscendente della preghiera umana. Ed allora questo mondo astrale fatto soprattutto di luce, ma anche di canti, di suoni, di armonie e sinfonie, si popola delle voci degli uomini, che salgono imploranti fino al cielo, anche solo per chiedere la complicità degli astri e ottenere il compiacente silenzio come sono amica i tacita silentia della luna virgiliana. [14] 4. Voci degli uomini. – Ma questo rapporto di voci tra macrocosmo e microcosmo non si ferma qui. Con l’incremento dell’→astrolatria e la progressiva intensificazione dei catasterismi [→catasterismo], il cielo si popola di altre voci, di altri suoni. La Lyra, la costellazione identificata con lo strumento mitico con cui Orfeo aveva dato orecchie alle selve, non solo produce sulla terra con la sua influenza astrale la dos della voce e degli strumenti a corda risuonanti, amabile protettrice della garrula tromba e di tutti gli strumenti a fiato nonché dei canti che allietano i banchetti, ma continua ad espandere la sua stregata melodia nel cielo (Man. astr. 5, 324-338). Ed accanto a lei Cycnus, il personaggio che nella lotta con Achille, abbattuto, cadde con un grido simile a quello dei cigni morenti, ed in questa veste fu assunto  























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in cielo tra le costellazioni, e da lì, dalle stelle, insinua negli uccelli il sonus dell’umana voce, continuando a effondere i suoi mormorii (immurmurat) nell’immensità (Man. astr. 5, 381382). Ma nel cielo è finito anche il cane di Orione, eroe cacciatore bellissimo e gigantesco, il cui vagare errabondo per il mondo a caccia di tutti gli animali, selvatici e non, fu interrotto dal morso di uno scorpione, con il quale fu poi assunto in cielo a formare la costellazione di Sirio assieme al suo cane, responsabile della famosa canicola che al centro dell’estate infiamma la terra. Ed il cane di Orione, negli immensi prati del cielo, continua a fare quello che faceva sulla terra, quando accompagnava il suo smisurato e gigantesco padrone a caccia, cioè latrat, ‘abbaia’ (Man. astr. 5, 206-208). Ed il suo abbaiare significa per la terra fiamme, calore insopportabile, quasi una eruzione, ricordo della natura presiderale, ma anche spiegazione eziologica degli effetti delle stelle, poiché anche gli uomini nati sotto la canicola hanno una lingua che rabit e latrat loquendo (Man. astr. 5, 222-224). Il connubio tra terra e cielo è completo. In cielo succede tutto quello che succede sulla terra, perché pezzi di umanità sono andati a finire tra le stelle, e lì hanno continuato, nel perenne volgersi delle sfere celesti, in una fissità per certi aspetti allucinante, a girare facendo quello che facevano sulla terra, quasi un immenso meccano a figurine fisse. Un modo di esorcizzare la paura dell’infinito, di catturarlo e possederlo con le parole, di immaginarselo ad immagine e somiglianza: non solo nel dare agli astri un aspetto umano, ma nel conferire ai silenzi siderali anche i suoni, le voci, il parlottare per mettersi d’accordo o per litigare, che sono la caratteristica principale di un’umanità che non sa concepire nel suo immaginario un universo senza suoni. Note. [1] Per l’attestazione di sumfwnevw in senso planetario, vd. ex. gr. Heph. Astr. i, p. 43, 17 ; 202, 2 ; 229, 17 ; 328, 7 : ii p. 37, 27 ; 39, 19 ; 83, 9 ; 161,16 ;190, 19 ; 266, 2 Pingree etc. Per suvmfwno", molto frequente nella forma avverbiale sumfwvnw", si possono vantare più di 45 presenze nel ccag. – [2] La classificazione è presente in un catalogo astrologico anonimo edito da Ludwich 1877, 107, 2-5. – [3] Hübner 1976,123, n. 13. – [4] Bouché-Leclercq 1899, 150, n. 1. – [5] Radici Colace 1993e, 238, n. 25. – [6] Radici Colace 1993c, 238, n. 26. – [7] Pl. Cra. 393 e. – [8] lsj s. v. stoicei'on. – [9] Procl. anal. sacr. 5, 2 (p. 117 Pitra). – [10] LSJ s.v. shmaivnw  













   

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stomaco

3. – [11] Per sh'ma= ‘stella’, vd. già Hom. Il. 22.30 e i luoghi citati da lsj s.v. sh'ma 6, nei quali il significato originario del termine come ‘segno che viene dal cielo’ e quindi con funzione predittiva e prognostica finisce con lo slittare tout-court a designare l’astro. – [12] Vd. la traduzione Ptol. Tetr. di Feraboli 1985a, 63 : « Segni dominanti e segni sottoposti ». – [13] Ludwich 1877, 106, 12-13. – [14] Verg. Aen. 2, 255.  





Paola Radici Colace Stomaco. 1. Anatomia. – Organo collocato, come già attestato nel Corpus Hippocraticum, sotto il diaframma. Presiede alla digestione delle sostanze di cui ci nutriamo. [1] →Celso, che eredita le dottrine della medicina alessandrina, scrive : [2] « La regione dell’esofago e dello stomaco, che è principio dell’intestino, è ricca di nervi e di energia : ha inizio dalla settima vertebra della spina dorsale, all’altezza circa dei precordi si connette con lo stomaco. Lo stomaco poi, che è ricettacolo del cibo, consta di due membrane ; ed è posizionato tra milza e fegato ; l’uno e l’altro di questi due organi di poco gli si sovrappongono. E vi sono anche delle membrane sottili, attraverso le quali questi tre organi si connettono tra loro, e si congiungono a quel diaframma (saeptum) che sopra ho definito ‘trasverso’ (transuersum). Di lì la parte più bassa dello stomaco, piegando di poco verso la parte destra, si restringe e si congiunge con la parte più alta dell’intestino. Questa ‘congiuntura’ è chiamata dai Greci pyloron perché, a mo’ di porta, fa discendere verso le parti inferiori le sostanze che dobbiamo espellere ». [3] La parte interna, rugosa, anche se non troppo, è dotata di elasticità e si apre e si richiude dove passa il cibo. [4] Lo stomaco è fornito di due tuniche, che lo attraversano fino alla bocca, con fibre sistemate in disposizione simmetrica e opposta. [5] →Galeno scrive di quattro specifiche capacità legate alle funzioni dello stomaco : poter accogliere la nutrizione ; avere il modo di farla discendere ; avere la possibilità di espellerla con il vomito ; poter trasformare la nutrizione stessa. [6] Disturbi dello stomaco sono flatulenza e infiammazione : curati con sistemi soprattutto dietetici, sono destinati per lo più a restare cronici. [7]  



















Part. anat. 40 /178-179 D R. – [5] Gal. Nat. fac. 3, 8 / 2, 168 K. – [6] Nat. fac. 3, 4-8. / 2, 152-177 K. – [7] Cfr. Cels. 4, 12 / 164-166 M ; Cael. Aur. chron. 3, 13-45.  

Fonti. Arist. PA 3, 14, 674 a 13-17 ; Cels. 4, 1, 6-7 / 150 M ; 4, 12 / 164 M ; Ps. Ruf. Part. anat. 40 /178-179 D R ; Gal. Nat. fac. 3, 4-8 / 2, 152-177 K ; 3, 8 / 2, 168 K; Ven. art. diss. 1 / 2, 781-785 K.  









Bibliografia. Mazzini 1997, 221-222 ; Oser Grote 2004.  

Sergio Sconocchia 2. Fisiologia. – Per i medici di epoca ippocratica lo stomaco è preposto alla nutrizione, riscaldando o rinfrescando il corpo a seconda che sia vuoto o pieno : « Quello che la terra è per gli alberi, lo stomaco è per gli esseri animati : nutre, riscalda, rinfresca ; rinfresca se è vuoto, riscalda se è pieno ; come la terra, resa feconda dal letame, in inverno è calda, così lo stomaco […]; come un vaso nuovo lascia passare il liquido e come un vaso vecchio lo trattiene, così anche lo stomaco lascia passare il cibo e come un vaso ne conserva i resti […] ». [1] Più impegnativo, e collocato nell’ambito più generale della discussione sul meccanismo della digestione e del ricambio, è il contributo di Galeno, anche come sintesi del pensiero ellenistico : lo stomaco svolge la funzione primaria di digestione attraverso l’azione sui cibi del calore naturale preparando la successiva azione del fegato. Quanto più è freddo tanto più attira il cibo e si riscalda se i piedi si raffreddano. [2] Secondo lo Ps. Galeno la natura ha dato allo stomaco il compito di ‘cuocere’ il cibo ad esso affidato, che, dopo la cosiddetta ‘cozione’ ha l’aspetto del cremore dell’orzo ; il cibo, così elaborato, viene diffuso nel corpo dell’uomo attraverso quella porta già denominata ‘piloro’. [3]  





















Note. [1] Hp. Hum. 11 / 5, 490-492 L, trad. di F. Cavalli. – [2] Gal. Sympt. caus. 3,2 / 7, 216 K. – [3] Ps. Gal. Intro. 11 / 14, 717 K.











Note. [1] Arist. PA 3, 14, 674 a 13-17. – [2] 4, 1, 6-7 / 150 M, trad., qui e infra, dello scrivente. – [3] Cfr. Cels. ed anche Mazzini 1997, 221. – [4] Ps. Ruf.

Fonti. Hp. Hum. 11 / 5, 490-492 L ; Arist. PA 3, 14, 674 a 13-17 ; Cels. 4, 1, 6-7 / 150 M ; 4, 12 / 164-166 M ; Ps. Ruf. Part. anat. 40 /178-179 D R ; Gal. Nat. fac. 3, 4-8 / 2, 152-177 K ; 3, 8 / 2, 168 K ; Ven. art. diss. 1 / 2, 781-785 K ; Sympt. caus. 1, 7 / 7, 132 K ; Sympt. caus. 3, 2 / 7, 216 K ; Ps. Gal. Intro. 11 / 14, 717 K.  



















Bibliografia. Mazzini 1997, 280-281 ; Oser-Grote 2004 ; Stamatu 2005m, 581.  



Fabio Cavalli

strabone

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3. Patologia (stomaco e cardia). – Mentre la medicina ippocratica non sembra conoscere affezioni specifiche dello stomaco, la medicina successiva individua nel cardia, cioè nell’imboccatura dello stomaco, malattie diverse, come colera o morbo celiaco etc.

Fonti. Tra le fonti si prenderà in considerazione il Corpus Hippocraticum, passim ; inoltre Celso e Scribonio per i passi già indicati. Si terranno anche presenti Areteo, passim, e diversi altri autori e testi della tarda latinità, come Medicina Plinii, Physica Plinii, Celio Aureliano, Marcello Empirico e altri.

Fonti. Cels. 4, 18 / 172-173 M ; Aret. 24-25 H ; Gal. Const. art. med. 15 / 1, 282 K ; Meth. med. 7, 2 / 10, 460 K ; In Hp. Epid. 2 comm. 56 /17, 1, 155-157 K.

Bibliografia. Oser Grote 2004 ; Stamatu 2005m.













Sergio Sconocchia

Bibliografia. Oser-Grote 2004, 216-220.

4. Terapeutica. – Nel periodo classico, nel Corpus Hippocraticum, relativamente a stomaco e cardia si fa soprattutto cenno alle ferite e alle cure relative. Con i progressi della medicina ellenistica, quando si sono venute a localizzare nello stomaco e nel cardias, la sua imboccatura, una serie di affezioni, come colera, morbo celiaco, nausea, incontinenza dei cibi, la terapia tende a divenire volta per volta specifica. Per fare solo qualche esempio, in Celso si fa cenno all’anatomia di fegato, stomaco [1] e intestino e, passim, si accenna ad alcuni disturbi, [2] per i quali si raccomandano soprattutto regole di vita e si consiglia di vivere un’esistenza il più possibile tranquilla. Una preziosa miniera di indicazioni terapeutiche per lo stomaco troviamo in Scribonio Largo, [3] poi in Plinio, passim, e in molti autori della tarda latinità, fino a →Medicina Plinii, →Physica Plinii, →Celio Aureliano, →Marcello Empirico e altri.  

Note. [1] Cels. 4, 1, 6 / 150 M. – [2] 4, 15, 1-4 / 169170 M : Ira, trepidatio, pondus, ictus, cursus inimica sunt. – [3] A c. 52 sono consigliati pastilli anche per stomachi nausea ; a c. 92 pastilli per la stomachi imbecillitas ; a c. 104, per stomachi dolor è particolarmente consigliata la celebre antidotos hiera Paccii Antiochi, che remediat enim eos, quibus frequenter inacescit cibus ed è valida per ogni genere di disturbi ; si veda anche c. 105, con rimedi per l’auoné ; a c. 108 è consigliato un medicamento ad stomachi dolorem et inflationem et cetera uitia interius ; a cc. 109-110 abbiamo composti ad stomachi dolorem et inflationem ; a cc. 111-112 abbiamo rimedi ad coeliacos et torminosos et ad uentris diutinum dolorem. Altri rimedi sono consigliati a c. 120, Cassii medici colice bona valida anche ad stomachi inflationem et suspirium ; a c. 263 è consigliato un malagma che, accanto ad altre affezioni, giova anche ad lumborum dolorem atque inflationem stomachi uel coli.  















Strabone. Gli antichi lo chiamarono ‘il Geografo’ per eccellenza, come Omero era il ‘Poeta’, e anche per noi l’opera di Strabone (di Apamea nel Ponto, 64/63 a.C.- 24/25 d.C., quindi vissuto a cavallo fra Repubblica e Impero) resta un vertice della geografia antica, costituisce un patrimonio unico, nel naufragio di tanta letteratura forse non meno meritevole di salvarsi (vd. Aujac 1966). Sorprendente è che →Plinio il Vecchio non lo nomini, fra le centinaia di autori, per due terzi greci, citati nella vera e propria bibliografia premessa alla Historia naturalis. I diciassette libri della Geografia, Gewgrafikav, rappresentano il massimo esempio della geografia descrittiva antica, un grandioso ‘giro dell’ecumene’, che stavolta coincide in sostanza, secondo l’idea ufficiosamente professata e propagandata, con l’impero romano : siamo nell’epoca di Augusto, in un clima di trionfo politico e culturale. L’opera è piena di notizie sul mondo umano in ogni suo aspetto e sulla sua interazione con l’ambiente fisico, ma è povera di scienza autentica, terreno su cui S. fa la figura del dilettante, anche se, a differenza di Polibio, non rinuncia alla vera gewgrafiva, cioè non rinuncia a discutere la carta del mondo, mettendo spesso bocca in questioni piú grandi di lui, come quelle relative alle critiche mosse da →Ipparco a →Eratostene. La descrizione è preceduta infatti da due libri di prolegomena che trattano problemi di carattere generale, spesso in tono polemico, soprattutto quando criticano la carta eratostenica e difendono l’attendibilità della geografia omerica. La forma del mondo è disegnata mentalmente, dibattendo a lungo, e con minuzia, di distanze sul terreno e di latitudini, fra Europa, India e Africa. Per quest’ultimo aspetto, purtroppo, si disponeva di rileva 

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stratagemmi

menti astronomici scarsi e quasi sempre molto approssimativi, quelli oltre i quali l’Antichità andò solo in singoli casi, del tutto insufficienti al tracciamento di una carta paragonabile a quelle moderne. La descrizione che segue passa in rassegna i continenti e i paesi, procedendo per contiguità proprio come un itinerario o un periplo. Otto libri sono dedicati all’Europa, cominciando con l’Iberia e procedendo da ovest a est, sette all’Asia, e significativamente uno solo all’Africa, compreso l’Egitto. Nel suo orgoglio di suddito dell’impero, S. si sente in grado di descrivere la forma stessa dell’ecumene e di stabilire i suoi limiti. Per prima cosa ne afferma con sicurezza il carattere di isola, situata per intero in una metà dell’emisfero boreale. La sua forma è anche per lui allungata da occidente a oriente, e i termini da lui impiegati di lunghezza e larghezza, mh`ko" e plavto", diventeranno attraverso la loro latinizzazione i nostri longitudine e latitudine, giustificabili solo storicamente. Non bisogna dimenticare che prima della Geografia egli aveva composto un’opera storica in ben quarantasette libri, dalla distruzione di Corinto nel 147 ai suoi tempi. In effetti gli interessi dello storico rimangono in lui vivissimi, non solo nel contenuto della sua descrizione del mondo, ma soprattutto nelle dichiarazioni programmatiche esposte fin dal principio dell’opera. Il lettore che egli si augura non dev’essere una persona di poca cultura e di bassa condizione, guidato da una superficiale curiosità, bensí un uomo autorevole, di alto rango, che porta nella lettura la sua esigenza di istruirsi sulle terre degli uomini, per poter prendere piú oculatamente le sue importanti decisioni. Greco per eredità culturale, anche se dilettante in fatto di scienza fisica e matematica, S. è romano per questa idea della geografia come sapere pratico, utile anzi indispensabile a chi agisce nel mondo delle nazioni e degli stati. Edizioni. Biffi 1988a; Biffi 1988b; Biffi 2005; Biffi 2006; Biraschi 1988; Jones 1917-1923; Radt 2002-2005. Bibliografia. Aujac 1966; Bianchetti 2008; Biraschi-Maribelli-Massaro-Pagnotta 1981; Cordano 1992; Janni-Lanzillotta 1988, 121-160; Maddoli 1986; Maddoli 1988; Prontera 1984; Prontera 1991.

Pietro Janni

Stratagemmi. Del mondo antico conosciamo soltanto due raccolte di S. (Strathghvmata, Strategemata [1]), quella di Frontino e quella di Polieno. Il primo è lo stesso autore del noto De aquae ductu urbis Romae, vissuto nella seconda metà del i sec. d.C. L’opera sugli stratagemmi ci è giunta in quattro libri, sebbene l’ultimo sia concordemente ritenuto non autentico (aggiunto in seguito, forse da un contemporaneo), sulla scorta di quanto esplicita lo stesso autore, il quale dichiara di esporre la materia in tre libri. [2] Frontino rivendica l’originalità del proprio scritto, distinguendolo per valore scientifico e sistematicità d’esposizione sia dal genere storico che dalle raccolte di exempla. [3] Si tratta dunque di un repertorio delle ‘astuzie’ adottate da grandi generali sul campo di battaglia o in caso d’assedio [→polemologia], che devono servire ai futuri comandanti come modello di saggezza. Gli stratagemmi sono suddivisi per tematiche, tra le quali per esempio come scegliere il momento o il luogo per lo scontro ; come nascondere i propri piani, ma scoprire quelli del nemico ; come sfruttare la sorpresa o celare le proprie debolezze. Tra i personaggi citati compaiono grandi glorie dei Romani, come Scipione l’Africano e Quinto Fabio Massimo il Temporeggiatore, ma anche molti greci e comandanti nemici come Annibale. L’opera sembra essere stata concepita dall’autore come un completamento di un altro scritto de re militari, andato perduto. [4] Tra i modelli frontiniani vanno riconosciuti gli storici latini come Livio e Sallustio, ma soprattutto le già ricordate raccolte di exempla, che nel mondo romano erano rappresentate dagli scritti di Cornelio Nepote e Valerio Massimo. Rimane invece da chiarire il possibile debito nei confronti dell’opera di →Onasandro. [5] I suoi Stratagemmi conobbero una buona fortuna, essendo citati come fonte da →Vegezio (mil. 1, 8, 10) e noti al tardo Paolo Diacono (viii sec. d.C.). Il ritratto più significativo di Frontino nella sua veste di scrittore di argomento bellico ci viene restituito da →Eliano, il quale nel proemio della sua Tactica Theoria lo descrive come un uomo di grande fama nell’arte militare (Tactica, pr. 3). Di Polieno sappiamo che era di origine macedone ed in età avanzata al momento di redigere il suo trattato, come lui stesso ci informa  











strumenti chirurgici (1, pr.). L’opera (Strategemata) è dedicata agli imperatori Marco Aurelio e Lucio Vero in occasione della guerra contro i Parti del 161-166 d.C. Polieno esplicita i propri intenti all’inizio della trattazione, dove dichiara di confidare nella vittoria e si augura di tornare utile alla causa romana col fornire il suo contributo di conoscenza. [6] I suoi Stratagemata si basano sul principio che l’astuzia può rappresentare un’arma micidiale, forse anche più della forza, per conseguire la vittoria. Si tratta di una raccolta sistematica di aneddoti che narrano a mo’ di esempio il comportamento di grandi comandanti del passato. Lo scritto fu molto apprezzato e studiato in epoca bizantina, come dimostrano gli excerpta e gli adattamenti risalenti a quel periodo. [7] Gli Stratagemata costituiscono anche una fonte preziosa per ricostruire determinate fasi biografiche di certi personaggi, come per esempio Alessandro Magno, restituendo alla memoria notizie ed episodi altrimenti ignoti. Tra le fonti utilizzate ci sono i classici storici quali Erodoto, Tucidide e →Senofonte, ma anche le raccolte di aneddoti, mentre tra i latini senz’altro Svetonio. [8] Polieno, esaltando le virtù dell’astuzia e dell’inganno, richiama più volte, all’inizio del trattato, l’eroe astuto per antonomasia, cioè Ulisse. [9] Numerosi sono i condottieri protagonisti degli episodi narrati, quasi tutti greci. Ritroviamo allora figure quali Epaminonda, Filippo di Macedonia, Dionisio di Siracusa e Cesare. Alcuni stratagemmi che aprono la raccolta sono anche attribuiti a mitici eroi come Pan, nelle vesti di un condottiero di Eracle, o Teseo. Va ricordato, infine, che una parte degli episodi è incentrato sulle eroiche gesta di donne che si distinsero in guerra.  







Note. [1] Sui termini vd. Wheeler 1988. – [2] Vd. Frontin. strat. 1, pr. 2 ; Wachsmuth 1860 ; Schanz 1889. – [3] Vd. Santini 1992. – [4] Frontin. strat. 1, pr. 1. – [5] Vd. Ambaglio 1981. – [6] Polyaen. 1, pr. 1-2. – [7] Dain 1931. – [8] Vd. Bianco 1997, 8 sgg. – [9] Vd. Bolling 1929.  



Bibliografia. Ambaglio 1981 ; Bendz 1963 ; Bianco 1997 ; Bolling 1929; Dain 1931 ; Galli 1999 ; Giuffrè 1974 ; Krentz-Wheeler 1994 ; Lammert 1931 ; Lenoir 1996 ; Phillips 1972 ; Santini 1992 ; Schanz 1889 ; Wachsmuth 1860 ; Wheeler 1988.  

























Francesco Fiorucci

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Strumenti chirurgici. 1. Strumenti chirurgici attestati nell’opera di Celso (con cenni alla tradizione precedente). – Per la conoscenza degli strumenti chirurgici dell’antichità classica (o[rgana, arma, instrumenta) sono importanti soprattutto i ritrovamenti archeologici. Poiché tuttavia gli strumenti sono di bronzo o di ottone, assai di rado ci sono pervenuti integri, ma, per lo più, corrosi o privi di alcune parti. Ci si riferisce soprattutto a quelli a noi più noti per via di ritrovamento, in pratica alla strumentazione del periodo romano ; si utilizza soprattutto la testimonianza dell’opera di →Celso, in particolare dei ll. 7-8. Gli strumenti chirurgici erano in genere in bronzo, più di rado in ottone ; il ferro veniva in pratica utilizzato per la confezione di cauteri o di strumenti un po’ più grezzi ; il piombo, a sua volta, veniva utilizzato per la preparazione di cateteri. Il bisturi aveva di solito lama di ferro; anche grazie a un processo di carburizzazione tecnica, nota ai fabbri del tempo, il ferro acquisiva qualità del moderno acciaio. Più di rado le lame erano in bronzo martellato o molato. I metalli preziosi non erano utilizzati molto di frequente, anche se i manufatti conservati attestano un eccellente livello di conoscenze artigianali. I chirurgi romani praticavano anche la trapanazione per la rimozione di ossa craniche danneggiate da processi infettivi degenerativi o da fratture con infossamenti di frammenti ossei ; per quest’ultima operazione venivano usati due tipi di trapani : il modiolus, a corona dentellata, e la terebra, a punta aguzza. Il primo tipo di trapano a corona (modiolus, truvpanon : nella presente documentazione il termine greco segue quello latino) è uno strumento rotondo, concavo, dentato, con al suo interno un chiodo, che serve a tenerlo fermo quando ruota e sega l’osso ; viene azionato mediante una correggia (habena, iJmav"), striscia di cuoio utilizzata anche per altri usi, come contenere, ricomporre fratture etc. Il secondo tipo è il trapano a punta aguzza. Due trapani a corona sono stati ritrovati in una tomba in Germania, a Bingen, presso Mainz. [1] Celso peraltro raccomanda di ricorrere alla trapanazione del cranio con grande cautela e solo nel caso in cui altre terapie siano risultate inefficaci. Non si sa se gli strumenti in ferro fossero opera di fabbri o di coltellinai (arte che aveva raggiunto livelli molto alti) e poco si co 











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strumenti chirurgici

nosce della loro diffusione per via di commercio. Pochi sono gli esemplari pervenuti dalle epoche più antiche (Oriente, Egitto, Grecia di età classica ed ellenistica) ; assai più numerosi i manufatti del periodo romano. Per l’epoca più arcaica e l’epos omerico, in assenza di un catalogo sistematico, notizie relative alle attrezzature dei chirurgi sono desumibili in pratica soltanto dai testi letterari : così Macaone e Patroclo usano, come è noto, un coltello (mavcaira) per ‘estrarre’ frecce penetrate nelle carni dei combattenti. [2] Nell’età successiva esercita l’arte →Democede di Crotone, al quale, tuttavia, mancano gli strumenti (ejrgalei`a) necessari. [3]. Soltanto testimonianze letterarie ci forniscono notizie su alcuni strumenti particolari di età classica ed ellenistica, come il cyathiscus Diocleus (kuaqivsko" Diokleuv") [4] o lo ‘sminuzzatore di embrioni’ (ejmbruosfavkth") usato da Erofilo. [5] Per il periodo greco sono attestate come simbolo della medicina anche in rilievi rappresentazioni di ventose (cucurbitae, sikuvai). A Roma non era sconosciuta nemmeno la chirurgia estetica : Scribonio Largo, [6] racconta come sia stato possibile eliminare lo stigma (marchio) di un dispensator (amministratore) di Sabino Calvisio con un trattamento prodigioso ; anche Marziale, [7] ci riferisce di Eros, esperto rinomato nel far sparire il marchio impresso sulla fronte di serui colpevoli di furti o di altri misfatti. Interventi abbastanza comuni erano quelli alle narici, che venivano cauterizzate con il ferro rovente o scisse attraverso incisione della cute con il bisturi. Si devono anche ricordare l’eliminazione della cataratta e l’operazione dei calcoli della vescica o litotomia. Lo strumentario dei chirurgi romani era molto ricco : le fonti di conoscenza, accanto alle descrizioni di Celso, sono di diverso tipo : nei corredi funerari sono stati ritrovati di norma pezzi singoli, appartenuti ad un set di cui non conosciamo la consistenza o il criterio di composizione : costituisce un’eccezione la già citata tomba del medico di Bingen, scoperta nel 1924, del sec. ii d. C., che comprende circa sessanta strumenti. [8] Ci sono poi numerosi rilievi che rappresentano astucci chirurgici aperti. I ritrovamenti più celebri sono stati effettuati a Ercolano e a Pompei, ma in molte regioni dell’impero, nelle tombe e anche negli ospedali militari sono stati rinvenuti strumenti chirurgici. [9] Uno strumentario di circa quat 





















trocento strumenti rinvenuto in tombe di medici a Pompei fornisce attestazione ampia, con valenze anche ‘simboliche’ relative allo status professionale di vari chirurgi. Le lame dei bisturi erano di solito di ferro. I metalli preziosi di solito non erano usati ; ci sono tuttavia esemplari di strumenti con incrostazioni d’oro e d’argento. In pratica si può affermare, nell’insieme, che qualità e precisione degli strumenti erano eccellenti, tanto da restare insuperata fino a tempi recenti. La fattura è accurata, precisa, specie nei manufatti decorati. Lo strumentario, arricchito ma non in modo rilevante dall’epoca ellenistica a quella tardo antica e, in pratica a quella medioevale, comprendeva un nucleo essenziale, costituito dagli elementi seguenti : bisturi, pinze, uncini, sonde, specilli, cateteri e cannule, aghi e forbici. Sono stati già menzionati altrove coppette o ventose. Il bisturi (culter, scalpellus, scalpellum, scalprum o scalper, smivlh) aveva la lama in ferro e il manico in bronzo e aveva anche, di solito, all’estremità opposta, una spatola. Lo scalprum o scalpellum era utilizzabile sia dal lato della lama che da quello del manico. Vari verbi di ne definiscono le funzioni più disparate : abscidere, concidere, eradere, exasperare etc. La lama aveva forme diverse (a bordo panciuto, concavo, convesso e ad uncino) ed era di varie misure ; quando si consumava poteva essere sostituita. Le lame sono andate talvolta perdute a causa della corrosione, mentre si sono conservate le impugnature con le relative spatole : queste avevano margini netti ma non taglienti. Una volta effettuato il taglio con la parte affilata e girato rapidamente il bisturi, le spatole erano usate ad es. per divaricare i bordi di una ferita o anche per isolare una vena dai tessuti vicini senza danneggiarla. Serie di bisturi erano riposte di solito, con altri strumenti, in contenitori di legno con cardini, come è attestato da alcuni rilievi. Le pinze o tenaglie, che, come funzione, sostituivano la presa delle mani, erano di solito in bronzo. Le tenaglie si articolano intorno ad un perno, mentre le pinzette (uulsella, labiv~), unite in giuntura elastica, erano riservate a funzioni più delicate, come afferrare o sollevare tessuti, estirpare ciglia (trichiasi) ; le più piccole, a ganasce lisce, erano utilizzate anche nella cosmesi. C’erano poi anche pinzette a forma speciale, con ganasce a dentellatura seghettata, adatta a una presa più ferma e prolungata.  











strumenti chirurgici Le pinze sono dentellate per isolare ed estrarre tessuti molli, come tumores, tonsille, ugola ed emorroidi. Di tali pinze esistono anche versioni a tenaglia : tra queste la stafulavgra o ‘tenaglia uvulare’, lunga cm. 18. Le tenaglie (forceps o forfex, gr. a[gra, attestata in composti) erano usate soprattutto per le parti ossee : ricordiamo la ojstavgra o tenaglia per ossa, utilizzata anche per i denti ; per questi ultimi erano usate anche la ojdontavgra o rJizavgra, specialmente per estrarre le radici ; questi ultimi strumenti erano anche usati per estrarre schegge d’osso o punte di freccia. Sono spesso rappresentate sui rilievi. Di foggia particolare erano le tenaglie con ganasce a becco, ritrovate a Pompei e raffigurate in un affresco pompeiano con Enea curato da Iapix. Ben note e diffuse erano le leve ortopediche (eleuatoria, ajnaboleuv~, moclikov~), che venivano usate per riportare le ossa fratturate nella posizione corretta. Questa operazione richiedeva forza : le leve artopediche dovevano dunque essere non troppo sottili e dotate di estremità appiattite e leggermente ricurve. Un altro strumento usato frequentemente era ‘l’uncino vulnerario’ (hamus o hamulus), che era di due tipi : ‘acuto’ (h. acutus) e ‘smussato’ (h. retusus). L’hamulus acutus veniva di solito impiegato per afferrare o trattenere i bordi di una ferita, per risollevare lembi di tessuti e nel corso di interventi su pterygia oculari o anche per estrarre tonsille ; [10] l’hamulus retusus invece veniva usato per lo più per scostare o sollevare vasi sanguigni, soprattutto per la resezione delle ossa. Inoltre erano usate anche seghe (serrula, privwn) ; lime (raspatorium, xusthvr) ; coltelli (scalper, ejkkopeuv~). Si disponeva anche di aghi in bronzo con sezione angolare rotonda, talora ricurvi, per suturare ferite : i margini di queste erano ricuciti con fili di lino e di lana. [11] Era nota sia la sutura continua che la sutura a punti separati. Per la verità solo gli aghi a sezione triangolare e dai margini tagliati potevano essere usati per suturare ; gli aghi a sezione circolare e di calibro largo erano impiegati per fissare le bende. Tra i ritrovamenti figurano specilla, cioè ‘sonde’ per l’esplorazione delle cavità interne come naso o orecchie, o anche per valutare la profondità di una ferita o di una fistola. Le sonde, che erano custodite in un apposito astuccio cilindrico, erano realizzate nelle forme più svariate, in rapporto alle diverse  





















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possibilità di impiego : in genere erano a doppio uso, ossia con le due estremità lavorate in modo differenziato. Per lo più un’estremità aveva la forma di un nocciolo di oliva. La sonda con spatola (spaqomevlh) aveva un’estremità a nocciolo e l’altra a forma di spatola piatta e allungata, per poter coadiuvare, con i suoi bordi smussati, l’azione del bisturi. Le sonde potevano servire anche da cauteri improvvisati o essere utilizzate per tenere premuta la lingua nel corso di visite alla gola. L’estremità a forma di bulbo fungeva, oltre che da sonda, anche da strumento usato in farmacia per amalgamare i medicamenti ; la parte a spatola serviva per applicarli e spalmarli. La notevole quantità e varietà di strumenti di questo genere induce a ritenere che essi potessero essere usati anche in altri campi : ad es. dai pittori per impastare i colori e nella cosmesi. [12] Altrettanto comune e nota era la sonda a cucchiaino, denominata, con termine coniato da Milne, kuaqiskomevlh, per distinguerla dalla precedente. Questo tipo aveva appunto un’estremità non a spatola piatta, ma a forma di cucchiaino allungato. Sono da menzionare anche specoli anali o vaginali, specilli auricularii e ligulae, costituite da steli cilindrici sottili terminanti a un’estremità con un cucchiaino rotondo o un piccolo piattello circolare, leggermente angolato rispetto al manico. Questi strumenti venivano utilizzati per la rimozione, ad es., di corpi estranei dall’orecchio o di piccoli calcoli del condotto urinario, come anche, in virtù della loro sottigliezza, per applicare medicinali per la pulizia delle ferite. Si fornisce qui elenco di alcuni degli strumenti chirurgici più diffusi tra quelli non descritti nell’analisi precedente. Procederò in ordine alfabetico, secondo la terminologia latina (le cui attestazioni sono più numerose, almeno per la medicina di età imperiale romana, fornendo poi, dove possibile, anche quella greca) : agli strumenti chirurgici veri e propri farò seguire un elenco di strumenti o materiali sussidiari e complementari: [13] per alcuni si veda Mazzini 1997, 369-372 ; Nutton 1997b ; Leven 2005f, 459-461. - acus (belovnh o anche rJafiv~) : ‘ago’, multiuso. - calamus scriptorius (kavlamo~) : ‘canna o cannuccia per scrivere’, utilizzata per insufflare medicamenti in parti profonde. - canalis, canaliculus (ojcetov~) : canale o cana 



















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strumenti chirurgici

licolo di assicelle, era finalizzato alla contenzione di fratture. - clyster : ‘clistere’, klusthvr ; era usato per introdurre liquidi nell’ano o in altre cavità ; veniva determinato da attributi vari : ad es. clyster auricularius, cioè ‘clistere auriculare’, strumento che serviva, oltre che tener pulito il canale auricolare, per ripulire altri organi o parti del corpo di accesso difficile, come fistulae etc., o ad introdurre medicamenti in parti profonde, come nella vescica etc. - coruus (kovrax) : ‘corvo’ ; era un bisturi particolare, utilizzato nell’incisione dello scroto con ernie. - cucurbitula (più raro cucurbita) : ‘ventosa’ ; strumento di materiale vario, ad es. vetro o bronzo, usato per aspirare, o disperdere materia varia, applicabile in parti varie del corpo ; veniva usata per estrarre la materia corrotta, ma anche per arrestare o deviare un umore che defluisce in modo eccessivo o dannoso. Ventose venute alla luce nella tomba di Ialysos sono attribuibili al V sec. a. C. [14] In Celso si vedano 5, 27, 1a / 230 M ; 6, 6, 9b / 265 M ; 6, 6, 16 B / 268 M ; 7, 26, 5 B / 351 M. - cyathiscus Diocleus (‘kuaqivsko~ Diokleuv~’ : ciatisco diocleo, cioè ‘bicchierino di Diocle’ usato per estrarre dardi piuttosto larghi. - ferramentum, o anche ferrum (sivdhro~ ; cfr. infra, in questo stesso § 3, nella trattazione sulle cauterizzazioni) : ferro o ferramento chirurgico ; designa, privo di attributi, genericamente qualunque strumento chirurgico di metallo o non altrimenti determinato, o anche accompagnato da altre precisazioni varie : ad es. in Celso, a 7, 10 / 326 M si legge ferramento acuto in modum spathae facto resolvere ab osse oportet ; a 7, 26, 3C / 350 M leggiamo ferramentum adhibetur crassitudinis modicae, prima parte tenui sed retusa ; a 7, 5, 2B / 309 M Celso scrive caro diduci debet ferramento ad similitudinem facto Graecae litterae*. - fibula : fibbia ; era usata soprattutto per accostare i lembi di una ferita, sia occasionale, sia da intervento chirurgico. - fistula (aujlivsko~, kaqethvr) : ‘cannello’ o ‘fistola’. Si diversifica per forma, materiali e uso : così può essere fictilis, cioè ‘di terracotta’, aenea, cioè ‘di bronzo’ ; plumbea, ‘di piombo’ come era la fistula usata per lo svuotamento dell’ascite. La fistula poteva essere utilizzata anche come ‘catetere’ per la vescica di uomini e donne.  

















































- membranae custos o meningophylax (mhniggofuvlax) : ‘custode o guardiano della menin 

ge’ ; era una lamina di rame smussata, liscia nella parte esterna, che veniva introdotta, in caso di trapanazione, tra cranio e meninge. - scala gallinaria : lett. ‘scala delle galline’ ; era usata per ridurre le lussazioni dell’omero. - strigil (stleggiv"): ‘strigile’ ; spazzola di metallo o di corno per strofinare la pelle dopo il bagno ; usato anche per spandere o detergere medicamenti, soprattutto liquidi. Seguirà ora un elenco di materiali sussidiari o supplementari, anch’essi ordinati in sequenza alfabetica : acia, filo doppio, attorcigliato, per suture ; fascia (zwvnh, tainiva, per bambini spavrganon), ‘fascia’, di dimensioni varie ; ficulnea folia, ‘foglie di fico’, utilizzate soprattutto per eliminare le asperità del tracoma delle palpebre, o come alternativa a strumenti chirurgici veri e propri, come sonde o bisturi ; lanula, ‘fiocco di lana’, in pratica corrispondente ai nostri attuali batuffoli di cotone ; lana sucida, ‘lana ancora sporca, non sgrassata’, ma prelevata direttamente dalla tosatura delle pecore ; lemniscus (lhmnivsko"), ‘nastro’ o ‘fascetta’, in origine di lino, ma poi anche di altri tessuti, originariamente arrotolato nel senso della lunghezza ; linamentum, benda o filaccia ; linteolum (ojzovnion) ‘pannolino’ o ‘fazzoletto’, in seguito anche ‘lenzuolo’, utilizzato per applicare medicamenti ; mitella (tainiva, desmov") : ‘benda’, ‘fascia’ ; serviva per sostenere un braccio spezzato o slogato ; paxillus : ‘paletto’, a forma di ‘cuneo’, ben levigato, in genere di legno, da inserire tra le due estremità di una frattura ; penicillus, ‘pennello’ o anche ‘tasta’ o spugna, per applicazioni diverse ; (pittacium, cerotto o ‘fascia di cuoio’ per applicare medicinali. Una menzione particolare meritano la cauterizzazione, le sue caratteristiche, la strumentazione relativa utilizzata nella medicina antica. Si farà riferimento soprattutto al contributo di Jouanna Bouchet 2007. [15] La studiosa richiama dapprima materiali e strumenti usati per cauterizzare : ignis già fin da Ippocrate (Aph. 7, 87 / 4, 608 L), poi nella medicina ellenistica e romana ; ferramentum e ferrum sono presenti in Celso, secondo una proporzione di 2/3 per ferramentum e 1/3 per ferrum ; [16] in →Columella non è presente cauterium, ma è documentato ferrum candens, che con ferrum calefactum è attestato anche in Plinio ; cauterium è attestato tre volte in  

















































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→Scribonio Largo (cc. 114 ; 240 bis), ma solo per esaltare l’efficacia di un medicamento che produce gli stessi effetti di un cauterio ; cauterium o cauter (prevalente in →Celio Aureliano) sono documentati negli autori successivi e spesso anche in campo veterinario. [17] Diversi sono i tipi di affezioni, per uomini e animali, trattati con gli strumenti di cauterizzazione, ferramentum, ferrum, cauterium e cauter, sia relativamente ad affezioni esterne (ad es. degli occhi ; delle labbra ; emorragie ; fistole, polipi, tumori etc.), [18] che ad affezioni cosiddette interne (come mal di testa, phthisis ; tetano, opisthotonos, emprosthotonos, idropisia). [19] Si dovrà tener conto anche delle caratteristiche degli strumenti, come forma, [20] materiali, tecniche e temperature di utilizzazione, rischi etc. [21] Ci sono infine termini alternativi a quelli più comuni : si terranno presenti acus ; character ; forma ; lamina ; penna (pinna) ; crystallina pila e staphilocaustes ; testa ; ueru candens. [22]

di infezioni ; per questo era in uso fino al Medioevo e oltre ( Jackson 1988, 116). – [17] Iouanna Bouchet 2007, 88-93. – [18] Iouanna Bouchet 2007, 94-98. – [19] Iouanna Bouchet 2007, 98-101. – [20] Cfr. 101-104 : ad es. in Celso si cita un ferramentum tenue et acutum, più tardi si citano un cauter simplex, serratus, trisulcus, aduncus in modum gammae litterae etc. ; anche il cauterium usato in veterinaria può essere rectum, quadratum, semis, strogtuvlon, platuv etc. [21] Iouanna Bouchet 2007, 104-109. – [22] Iouanna Bouchet 2007, 109-111.

Note. [1] Künzl 1982 ; Jackson 1986. – [2] Il. 11, 515 ; 844. – [3] Hdt. 3, 131, 1. – [4] Cels. 7, 5, 3 / 309-310 M. – [5] Vd. fr. 247 von Staden. –– [6] Scrib. Larg. c. 231. – [7] 10, 56, 6. – [8] Vd. n. 1; cfr. Krug 1990, 77. – [9] Vulpes 1847 ; Milne 1976, Tabanelli 1956, Künzl 1982. – [10] Milne 1976, 85 ; Jackson 1986, 139 ; Krug 1990, 89. – [11] Cels. 5, 26, 23 / 220-222 M. – [12] Krug 1990, 98. – [13] Per alcuni strumenti si veda Mazzini 1997, 369-372 ; Nutton 1997b ; Leven 2005f, 459-461. Aggiungerò al termine latino la terminologia greca solo in alcuni casi concordemente accolti. – [14] Vd. Künzl 1996 ; Mazzini 1997, 373-374. – [15] Il lavoro si inserisce nel quadro di preparazione di un’opera collettiva sugli strumenti medici latini attualmente condotta dal centro di ricerche Romanitas, Axe médical, sotto la direzione di F. Biville presso l’Università di Lyon ii. Viene tenuta contemporaneamente presente sia la documentazione relativa alla medicina umana che alla veterinaria. – [16] Osserverei che Celso, che pure raccomanda l’uso di strumenti come aghi o lame di bisturi per cauterizzare varici, distruggere ossa malate etc., sembra ritenere gli strumenti specifici per cauterizzare piuttosto eccezionali e si pone sulla linea della tradizione antica, di far ricorso a metodi terapeutici piuttosto drastici e brutali soltanto se veramente necessario. Il cauterio, generalmente in ferro, di cui ci sono pervenuti pochi esemplari, quasi certamente perché consumati dall’ossidazione nel corso dei secoli, era comunque considerato nella medicina romana un male minore rispetto al bisturi, anche perché incruento ; inoltre il ferro rovente diminuisce l’incidenza

Bibliografia. Baker 2004 ; Berendes 1914 ; Bliquez 1994 ; Diller 1949 ; Garzya 1984 ; Jackson 1986 ; Jackson 1995 ; Jackson 1997 ; Jouanna Bouchet 2007 ; Kind 1921b ; Krug 1985 ; Krug 1990 ; Krug 1993b ; Künzl 1982 ; Künzl 1983 ; Künzl 1996 ; Künzl 1999 ; Künzl 2001 ; Leven 2005f, 459461 ; Mazzini 1997, 369-372 ; Meyer-Steineg 1913 ; Milne 1976 ; Nutton 1991 ; Nutton 1997b ; Nutton 2004 ; Scheller 1967 ; Stamatu 2005b ; Tabanelli 1956 ; Vulpes 1847.

































































Fonti. Come si è già avuto modo di dire, il De medicina di Celso, soprattutto con i ll. vii-viii, rappresenta una fonte di conoscenza fondamentale per la varietà della chirurgia di età ellenistica e, ovviamente, anche per la conoscenza degli strumenti chirurgici utilizzati all’epoca di Celso. Ma si vedano anche, specie per la cauterizzazione, autori precedenti a Celso, come →Catone, →Varrone, Columella, o seguenti, come →Gargilio Marziale, Chirone, →Pelagonio, →Marcello Empirico, etc.  























































2. Strumenti chirurgici e alcuni tipi di intervento estranei al Corpus Hippocraticum. – Occorre premettere che alcuni strumenti, anche tra quelli che si menzioneranno in questa sezione, sono attestati per la prima volta in Celso, anche se la loro origine, come provano le citazioni stesse del De medicina, è da attribuire a epoche più antiche : questo vale, ad es. per il cyathiscus Diocleus, come prova il nome inventato o almeno ampiamente utilizzato da →Diocle di Caristo. Gli strumenti chirurgici citati o descritti per la prima volta in Celso sono numerosi : [1] così, per richiamarne soltanto alcuni, si potrà fare riferimento a un genus terebrae « che ha inizio come da una punta acuta di spada, per poi divenire improvvisamente più ampio; poi di nuovo da un altro principio procede verso l’alto poco meno che in piano », [2] che viene utilizzato per praticare fori su ossa o per recidere parti di ossa, senza penetrare fino a ledere la parte sana o i tessuti sottostanti ; la  











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strumenti chirurgici

ventosa (cucurbita), già menzionata, in corno o in bronzo, usata per estrarre umori nocivi ; le forfices, il membranae custos. Anche il numero degli interventi descritti nel De medicina è notevole : così, per fare solo qualche esempio sono attestati interventi su meliceridi, steatomi e ateromi del capo, calazi e orzaioli, blenorrea degli occhi, egilope e lagoftalmia ; riposizione degli intestini, ernia ombelicale, calcoli della vescica, fimosi del prepuzio, imperforazione degli organi genitali femminili, infibulazione, cateterismo. [3]  







Note. [1] Vd. Cels. passim ; cfr. Tabanelli 1956, passim ; Mazzini 1997, 373 ; Leven 2005f, 459-461. – [2] Cels. 8, 3, 1 /374-375 M : Terebrarum autem duo genera sunt : alterum simile ei, quo fabri utuntur, alterum capituli acuto mucrone incipit, dein subito latius fit, atque iterum ab alio principio paulo minus quam aequaliter sursum procedit. Trad. it. dello scrivente.– [3] Cfr. Mazzini 1997, 373 ; Nutton 1997b.  













Fonti. Fonte principale per questa sezione è il De medicina di Celso, da rileggere tenendo presente la bibliografia moderna citata per questa parte. Bibliografia. Baker 2004 ; Berendes 1914 ; Bliquez 1994 ; Diller 1949 ; Garzya 1984 ; Jackson 1986 ; Jackson 1995 ; Jackson 1997 ; Kind 1921 ; Krug 1985 ; Krug 1990 ; Krug 1993b ; Künzl 1982 ; Künzl 1983 ; Künzl 1986 ; Künzl 1988 ; Künzl 1999 ; Künzl 2001 ; Leven 2005f, 459-461 ; Mazzini 1997, 373-374 ; Milne 1976 ; Nutton 1991 ; Nutton 1997b ; Tabanelli 1956 ; Vulpes 1847.  















































Sergio Sconocchia 3. Interventi chirurgici e strumenti non attestati nel ‘De medicina’ ma documentati nella tradizione chirurgica successiva. – La cura dei difetti estetici, l’intervento nelle cavità interne e i disturbi della vita sessuale costituiscono le nuove direzioni imboccate dalla →chirurgia romana di età imperiale e dell’alto Medioevo. C’è una serie di interventi chirurgici non presenti ancora nel De medicina [→celso] e che, invece, sono adottati in epoca successiva, come, ad esempio, per limitarci alla sfera sessuale, la circoncisione e l’asportazione delle anomalie ermafroditiche negli uomini e nelle donne. Peraltro proprio Celso parla dell’utilizzo di una serie di strumenti o di oggetti non propriamente medici e di una serie di interventi chirurgici mai descritti prima nella letteratura sin dal periodo di Ippocrate, come l’asportazione di gangli

meliceridi o la tecnica di riposizione degli intestini. Esistono una serie di strumenti per interventi specifici usati nella letteratura chirurgica posteriore a Celso, in Antillo, in →Aezio di Amida e in→Paolo di Egina, come, ad esempio, l’acantobolo (ajkanqobovlo"), una pinza per estrarre dalla faringe le spine (pinze, pinzette e tenaglie sono utilizzate largamente per le operazioni chirurgiche), la dioptra (diovptra, speculum uaginale), l’embriotomo (ejmbruotovmo~, atto a sezionare il feto prima di estrarlo dalla vagina, il glossocatoco (una specie di cucchiaio per abbassare la lingua), il koparion idrocelico, una sorta di ‘bisturi per l’idrocele’ (da sottolineare che i bisturi, assieme ai coltelli erano gli strumenti più utilizzati nella medicina dell’antichità), il metroscopio, lo pterigotomo (pterugotovmon), per staccare lo pterigio dalla cornea, [1] lo stafilotomo (stafulotovmon), per l’asportazione dell’ugola, e la stafilagra (stafulavgra), una pinza per staccare l’ugola prima di asportarla. Luciano di Samosata critica l’abitudine di certi medici di nascondere il loro mediocre sapere dietro lo sfarzo di strumenti decorati, anche se è vero che il medico doveva disporre di denaro per acquistare strumenti medici e farmaci. 3.1. Usi e funzioni. – Strumenti molto usati sono, inoltre, i cauteri, conosciuti con la denominazione ferrum o ferramentum, che in Celso possono essere di varie dimensioni e forme (sottili, a forma di spazzola, a punta, perché sono, per lo più, in ferro), i cateteri e lo specillum, una sonda talvolta atta anche a cauterizzare il luogo del taglio. [2] Inoltre si utilizzano largamente le coppette (cucurbitulae) di vetro o di bronzo e il trapano (modiolus). La trapanazione del cranio è una pratica simbolico-religiosa, diffusa sin dalla preistoria : come pratica medica viene descritta nel Corpus Hippocraticum e in Celso [3] o anche in →Seneca, [4] come emerge in Künzl 1996, 2451 e in Nutton 1991. Considerazioni particolari spettano allo speculum, impiegato da→Diocle di caristo, uno strumento dotato di un meccanismo a vite, come confermato da Paolo di Egina, [5] e alle protesi. Il livello degli strumenti medici dell’età imperiale è stato raggiunto di nuovo dalla scienza medica solo nel xvii-xviii sec. Anche i materiali utilizzati per ogni strumento cambiano in relazione all’evoluzione tecnologica degli stessi. È il caso della ventosa, dapprima in bronzo e in  







strumenti musicali ferro, in seguito anche in vetro. Gli strumenti medici bizantini riprendono la forma degli strumenti medici romani del I secolo d.C., così come sono descritti da Celso e ne perpetuano il valore simbolico e rituale che era loro attribuito. Note. [1] Cfr. Cels. 5, 26, 23g / 222 M. – [2] Già ampiamente attestato in Celso, →Scribonio, →Plinio. – [3] Cels. 8, 3, 4 / 375 M. – [4] Sen. benef. 5, 24, 3 : postea ad Mundam in acie oculus mihi effosus est et in capite lecta ossa. – [5] 6, 73.  

Fonti. Per le fonti relative a questa sezione si può utilmente consultare la letteratura chirurgica posteriore a Celso (cfr. anche Fonti, nella voce Chirurgia, qui sopra) e le opere di →Seneca, Antillo, →Oribasio, →Aezio di Amida e Paolo di Egina. Bibliografia. Baker 2004 ; Berendes 1914 ; Bliquez 1994 ; Daremberg 1880; Diller 1949 ; Garzya 1984 ; Geroulanos-Bridler 1994 ; Grant 1960 ; Grmek 1989 ; Gurlt 1964 ; Jackson 2003 ; Krug 1985 ; Krug 1990 ; Kind 1921b ; Künzl 1983 ; Künzl 1988 ; Künzl 1996 ; Künzl 1999 ; Künzl 2001 ; Matino 1996 ; Mazzini 1997, 367-382 ; Nutton 1991 ; Nutton 1997b ; Nutton 2004 ; Pormann 1999 ; Pormann 2004 ; Skoda 1988 ; Stamatu 2005d ; Tabanelli 1956.  





















































Daniele Monacchini Strumenti musicali [o[rgana, organa]. Aristosseno (fr. 95 Wehrli, ap. Ath. 4, 174e), classifica gli strumenti musicali in strumenti a corda (ejntatav), a fiato (ejmpneustav) e a percussione (kaqaptav). Tale tripartizione, divenuta canonica, fu trasmessa in epoca medievale da Boezio (Mus. 1, 2, p. 189 Friedlein), e da Cassiodoro (Inst. 2, 5, 4, p. 144 Mynors), anche se lo scolio vaticano a Dionisio Trace (p. 111 Hilgard), propone una diversa tripartizione, distinguendo tre ei[dh di strumenti : a fiato (ejmpneustikovn), cui afferiscono la siringa e la tromba, a tatto (aJptikovn), cui appartiene la cetra, e misti (sunamfovteron), cui appartengono gli auli, in quanto suonati non solo soffiando nello strumento, ma anche toccandolo con la mano. Lo Ps.Plutarco (Hom. 2, 148, p. 81 Kindstrand), opera, invece, una bipartizione degli strumenti, quelli a fiato (ejmpneustav) e quelli a corda (ejntatav). Una bipartizione è presente anche in Polluce (4, 58), che tiene distinti gli o[rgana krouovmena dagli ejmpneovmena o[rgana, inserendo nella prima categoria sia gli strumenti a corda sia quelli a percussione. Gli strumenti a corda vengono chiamati ejntatav  

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(Aristox. fr. 95 Wehrli, ap. Ath. 4, 174e ; Ps.Plu. Vit. Hom. 2, 148, p. 81 Kindstrand ; Aristocl. Hist. fr. 12 Müller, FHG iv, ap. Ath. 4, 174c ; Porph. in Ptol. Harm. 1, 3 p. 40 Düring ; Nicom. Harm. 2, p. 240 Jan ; Anon. Bellerm. 2, 17, p. 6 Najock ; Schol. Ar. Nu. 313a, p. 263 Koster), katateinovmena (Arist. Quint. Mus. 2, 16, p. 85 WinningtonIngram), e[gcorda (Phillis fr. 2 Müller, FHG iv, ap. Ath. 14, 636c), aJptikav (Schol. Vat. in Dion. Thr., p. 111 Hilgard). Gli strumenti a fiato vengono denominati ejmpneustav (Aristox. fr. 95 Wehrli, ap. Ath. 4, 174e ; Ps.Plu. Vit. Hom. 2, 148, p. 81 Kindstrand ; Aristocl. fr. 12 Müller, FHG iv, ap. Ath. 4, 174c ; Porph. in Ptol. Harm. 1, 3, p. 40 Düring ; Nicom. Harm. 2, p. 240 Jan ; Anon. Bellerm. 2, 17, p. 6 Najock ; Schol. Ar. Nu. 313a, p. 263 Koster), ejmpneustikav (schol. Vat. in Dion. Thr., p. 111 Hilgard), ejmpneovmena (Poll. 4, 58), ejmfuswvmena (Phillis fr. 2 Müller, FHG iv, ap. Ath. 14, 636c). Gli strumenti a percussione vengono designati con il nome di kaqaptav (Aristox. fr. 95 Wehrli, ap. Ath. 4, 174e ; Aristocl. fr. 12 Müller, FGH iv, ap. Ath. 4, 174c), kroustav (Porph. in Ptol. Harm. 1, 3, p. 40 Düring ; Nicom. Harm. 2, p. 240 Jan ; Schol. Ar. Nu. 313a, p. 263 Koster), e[nhca (Phillis fr. 2 Müller, FHG iv, ap. Ath. 14, 636c). Nicomaco (Harm. 2, p. 240 Jan), sostiene che tutti gli strumenti musicali sono stati realizzati imitando la voce umana. 1. Strumenti a corda. – Gli strumenti a corda si differenziano a seconda che abbiano a) corde della stessa lunghezza, b) corde di lunghezza diversa, c) manico unico e allungato. Chelys. – La cevlu" è la lira primitiva, inventata da Hermes. La sua costruzione è descritta nell’inno ad Hermes (Hymn. Hom. 4, 24-25 ; 3954). Hermes, tagliati nella giusta misura steli di canna, li infisse nel guscio di una tartaruga e, dopo aver teso intorno al guscio una pelle di bue, vi collocò due bracci congiungendoli con una traversa. Vi aggiunse poi sette corde di minugia di pecora, dotò lo strumento del plettro (plh'ktron) e saggiò le corde. Secondo la Suda (s 107 Adler), il plettro sarebbe stato, invece, inventato da Saffo. Lo strumento musicale inventato da Hermes è chiamato, nel suddetto inno, cevlu" (153 e 242), luvra (423), fovrmigx (64 e 506), kivqari" (499, 509 e 515). Lyra. – La luvra è lo strumento più importante e più nobile dell’antica Grecia e viene associato ad Apollo. Alla cassa di risonanza (hjcei'on), costituita dal guscio di una tartaruga,  































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strumenti musicali

o anche da una ciotola di legno rivestita da una pelle di bue tesa, erano applicate le corna di un animale (phvcei", chiamate anche kevrata, Poll. 4, 62), collegate da una traversa (zugovn), sulla quale, per mezzo di piroli (kovllaboi o kovllope"), erano fissate le corde (cordaiv o neuraiv). Queste erano unite alla cassa di risonanza per mezzo di una cordiera (cordotovno" o cordotovnion) e di un ponticello di legno dolce (magav"), la cui funzione era quella di trasmettere all’hjcei'on le vibrazioni delle corde. Solitamente la cassa di risonanza era di legno ed era rinforzata da lamine di metallo o di osso che vibravano. Le phvcei" potevano essere corna di antilope o di cervo oppure montanti in legno o avorio. I piroli, o chiavette, in origine erano di cuoio bovino e, grazie ad uno strato di grasso colloso, tenevano fisse le corde. Successivamente si usarono piroli di metallo o d’avorio. Essi avevano non solo la funzione di tenere le corde attaccate alla traversa, ma anche quella di tenderle e di accordare lo strumento. Le corde erano realizzate o con lino o canapa o con un budello ritorto o con i tendini di animali. Il numero delle corde variò nel tempo e le testimonianze al riguardo non sono univoche. L’invenzione della luvra/cevlu" da parte di Hermes è raccontata da Apollodoro (3, 10, 2). Secondo Diodoro Siculo (1, 16), la lira di Hermes era fornita di tre corde, ad imitazione delle tre stagioni dell’anno ; Nicomaco (ap. Boeth. Mus. 1, 20, pp. 205-206 Friedlein), sostiene che essa aveva invece quattro corde e che Corebo, figlio di Ati, re dei Lidi, aggiunse la quinta, Iagni di Frigia la sesta e Terpandro la settima, ma negli Excerpta Nicomachi (1, p. 266 Jan), si legge che la lira di Hermes era dotata di sette corde. Probabilmente la versione degli Excerpta va attribuita al compilatore che subì l’influenza di Hymn. Hom. 4, dove, al v. 51, è detto chiaramente che Hermes dotò la lira di sette corde. L’antichità dell’eptacordo è attestata dalla sua raffigurazione nel sarcofago di Haghia Triada (Aign 1963, 44, fig. 15 ; Paquette 1984, 90, fig. 10) e da molteplici rappresentazioni vascolari (Wegner 1968, 3-16), ma poiché numerose sono le testimonianze che attribuiscono a Terpandro l’invenzione dell’eptacordo (Terp. test. 11, 24, 48, 49, 53a, 54 Gostoli), è verosimile ritenere che con Terpandro si affermasse l’uso della lira a sette corde, peraltro da lui modificata (Exc. Nicom. 1, p. 266 Jan) con l’aggiunta di una nuova corda, la nona, detta nete, e con l’eliminazione della trite (Ps. Arist. Pr. 19, 32, 920a 16-17. Vd.  



anche Ps. Plu. Mus. 28, 1140f, che attesta solo l’introduzione della nete). L’aggiunta dell’ottava corda è attribuita a Pitagora da Nicomaco (Harm. 5, p. 244 Jan), a Licaone di Samo da Boezio (Mus. 1, 20, p. 205 sg. Friedlein), a Simonide dalla Suda (s 439 Adler s.v. Simwnivdh"). La nona è attribuita a Profrasto o Teofrasto di Pieria, la decima a Istieo di Colofone (Exc. Nicom. 4, p. 274 Jan), l’undicesima a Timoteo (Tim. fr. 791, 230 Page, Exc. Nicom. 4, p. 274 Jan, Sud. t 620 Adler s.v. Timovqeo~), la dodicesima a Melanippide (Pherecr. fr. 155, 5 kassel-austin, ap. Ps. Plu. Mus. 30, 1141e) e a Timoteo (Pherecr. fr. 155, 25 kassel-austin, ap. Ps. Plu. Mus. 30, 1142a). La contraddittoria informazione di Ferecrate che attribuisce le dodici corde sia a Melanippide sia a Timoteo si spiega con il fatto che il numero dodici, come nota Düring 1945, 181, appartiene ai ‘round numbers’. La lira poteva essere suonata con il plettro (krouvein) o poteva essere pizzicata con le dita (yavllein). Filostrato (Im. 6), descrive un suonatore che impugna il plettro con la destra e tocca le corde con la sinistra. La cassa di risonanza era collegata all’avambraccio sinistro del suonatore per mezzo di una fascia (telamwvn) ed era tenuta in posizione verticale inclinata in avanti. Il termine luvra, oltre ad indicare un particolare strumento, fu utilizzato per tutta la categoria degli strumenti a corde di eguale lunghezza. Phorminx. – La fovrmigx è l’antico strumento degli aedi, citato e descritto brevemente da Omero (Il. 9, 187). Ha una cassa di risonanza ampia idonea anche all’esecuzione in spazi aperti. Era chiamata anche kivqari~. È stata identificata con uno strumento raffigurato in vasi dello stile geometrico (Davison 1961, 8384, fig. 127). La cassa di risonanza (hjcei'on) continua nei bracci che sono perpendicolari al suo diametro. Le corde sono quattro. In alcune raffigurazioni se ne vedono solo tre, ma sulla esattezza di tali raffigurazioni si nutre qualche perplessità, perché tre corde avrebbero permesso una estensione tonale troppo ristretta (Comotti 1991, 66). Il termine fovrmigx viene adoperato anche come sinonimo di lira. Pindaro (P. 2, 70 sg.), la definisce eJptavktupo" e (N. 5, 24) eJptavglwsso", Strabone (13, 2, 4, 618) eJptavtono", per cui si deduce che lo strumento era dotato di sette corde. La fovrmigx veniva utilizzata sia durante i simposi (Il. 1, 601-604 ; 24, 63 ; Od. 8, 65 sgg., 99, 471 sgg. ; 17, 271) sia durante gli spettacoli all’aperto (Od. 8, 254 sgg.). Kitharis. – La kivqari" in Omero è equivalen 





strumenti musicali te alla fovrmigx. Differisce dalla kiqavra, come sostiene Ammonio (271 Nickau), il quale riporta la testimonianza di Aristosseno (fr. 102 Wehrli), secondo cui la kivqari" è la luvra. Comunque il verbo kiqarivzein significa sia « suonare la kivqari" » sia « suonare la kiqavra ». Kithara. – La kiqavra è uno strumento professionale la cui forma è più elaborata di quella della lira, dalla quale, per di più, differisce perché i bracci costituiscono la continuazione della cassa di risonanza, mentre nella lira essi sono strutturalmente distinti dalla cassa stessa. Inoltre l’hjcei'on, a forma di trapezio isoscele, è molto più grande. La sonorità è pertanto molto maggiore. La lira è comunemente usata per l’educazione dei giovani, la kiqavra è, invece, lo strumento dei professionisti, adatto per la performance solistica e utilizzato nelle competizioni cittadine e nei giochi panellenici. →Aristotele (Pol. 8, 1341a, 18-19) definisce, infatti, la kiqavra tecniko;n o[rganon, strumento professionale. Aveva sette corde e presentava intagli ed intarsi d’avorio e di legni pregiati. Era suonata da uomini, raramente da donne. Probabilmente era di origine orientale, se è corretta l’identificazione di questo strumento con la kiqavra chiamata ∆Asiav". Lo Ps. Plutarco (Mus. 6, 1133c) informa, al riguardo, che la kiqavra acquisì la sua conformazione per la prima volta con Cepione, discepolo di Terpandro, e che ebbe il nome di ∆Asiav" perché fu utilizzata dai citarodi di Lesbo, i quali abitavano vicino all’Asia. Sulle sue origini orientali si vedano Strabone (10, 3, 17 ); lo scoliaste ad Apollonio Rodio (2, 777, p. 187 Wendel); Esichio (a 7665 Latte s.v. ∆Asiav") e Stefano di Bisanzio (s.v. ∆Asiva). La cetra a culla o Wiegen-Kithara è uno strumento con la cassa di risonanza a forma circolare, simile ad una culla vista di fronte, ed è dotata di sette corde (Wegner 1949, 206-208). Nelle rappresentazioni vascolari è suonata da figure femminili. Lyrophoenix. – La lurofoi'nix, detta anche lurofoinivkion, è una specie della kiqavra (Hsch. l 1434 Latte). Fu inventata dai Siri ( Juba, FGrH 275 F 15, ap. Ath. 4, 175d). Phoenix o phoenikion. – Il foi'nix o foinivkion è uno strumento a corde le cui braccia, secondo la testimonianza di Erodoto (4, 193), sono fatte con le corna degli orii. Ateneo (14, 637b) riferisce varie opinioni sull’origine del nome dello strumento : secondo Eforo (FGrH 70 F 4) e Scamone (FGrH 476 F4) veniva chiamato fenice, perché era stato inventato dai Fenici, secondo  











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Semo (FGrH 396 F 1), perché i suoi bracci erano costruiti con il legno della palma che cresce a Delo. Nell’Etymologicum Magnum (797, 21, Gaisford) Fenice è ritenuto l’inventore dello strumento di cui divenne eponimo. Riguardo al foinivkion, lo Ps.Aristotele (Pr. 19, 14, 918b) osserva che l’accordo di ottava creato da questo strumento, come quello creato dalla voce umana, non si avverte e sembra omofono. Per questo Marenghi 1967, 96, lo inserisce nella categoria degli strumenti a corda ajntivfqoggoi. Michaelides 1978 (s.v. phoenix) considera il foi'nix uno strumento simile alla magadis e alla pektis. Barbitos. – Il bavrbito", chiamato anche bavrbiton o bavrwmo" o bavrmo" o baruvmiton, ha una cassa di risonanza piccola, quasi circolare e corde molto lunghe rispetto ad essa ; i bracci che sorreggono la traversa hanno le estremità ricurve verso l’interno (vd. ad esempio la raffigurazione nel kavlaqo"-yukthvr attico a figure rosse del pittore di Brygos, Staatlichen Antikensammlungen, inv. 2416 WAF). Non si conosce il numero delle corde, ma dovevano essere numerose se Teocrito (16, 45) definisce il barbiton policorde. Il suono era di intonazione grave. Era uno strumento adatto ad ambienti chiusi, utilizzato quindi nei conviti e nei tiasi (Procl. Chr. ap. Phot. 321a 12). Era, infatti, lo strumento dei poeti di Lesbo ed è rappresentato nella pittura vascolare in scene conviviali (Maas-Snyder 1989, 133 fig. 9). Nel Ciclope di Euripide (40) i sileni cantano e danzano al suono del barbiton. In alcune raffigurazioni vascolari è connesso al komos (Wegner 1949, tavv. 14, 15 a, b), per cui è lecito ipotizzare il suo uso anche in ambito dionisiaco. Secondo Pindaro (fr. 125 Maehler, ap. Ath. 14, 635d), Terpandro inventò il bavrbito" come accompagnamento della phktiv". Neante di Cizico (FGrH 84 F 5, ap. Ath. 4, 175e), ritiene, invece, che inventore del bavrbito" fu Anacreonte. Spadix. – La spavdix è uno strumento a corde che Nicomaco (Harm. 4, p. 243 Jan), definisce simile alla kiqavra e alla luvra. Polluce (4, 59) la pone fra gli strumenti krouovmena. Pentachordon. – Il pentavcordon ha cinque corde ed è di origine scita. Aveva la cassa armonica rinforzata da strisce di pelle bovina cruda e veniva suonato con un’unghia di capra utilizzata come plettro (Poll. 4, 60). Byrte. – La buvrth è una lira secondo quanto attesta Esichio (b 1333 Latte). Kinyra. – La kinuvra è simile alla kiqavra. Il suo nome deriva dal fatto che le corde veniva 

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no vibrate (Sud. k 1650 Adler). Era utilizzata per accompagnare canti trenodici, come si evince da Esichio, k 2746 Latte). Psaltinx. – La yavltigx è un nome della kiqavra, come attestano Esichio (y 56 Schmidt) e la Suda (y 17 Adler). Pythikon. – Il puqikovn veniva usato dai citaristi ed era chiamato da alcuni daktulikovn (Poll. 4, 66). Kindapsos o skindapsos. – Il kindayov" o skindayov", aveva quattro corde (Matro, SH 539, ap. Ath. 4, 183a) e la forma di lira (Theopomp. Coloph., SH 765, ap. Ath. 4, 183a). Era di origine indiana e, secondo la testimonianza di Eliano (NA 12, 44) era utilizzato per ammansire gli elefanti. Il suo nome deriva dalla popolazione chiamata Kivndayo" (EM 514, 34 Gaisford). b) Psalterion. – Lo yalthvrion oltre ad essere uno strumento specifico è anche un termine generico con cui viene designata la categoria delle arpe. Polluce (4, 59), lo menziona in un elenco di strumenti. Secondo la testimonianza di Giuba (FGrH 275 F 83, ap. Ath. 4, 183c) Alessandro di Citera aggiunse alcune corde e dedicò la sua invenzione ad Artemide, nel santuario di Efeso. Apollodoro (FGrH 244 F 219, ap. Ath. 14, 636f ) attesta che yalthvrion è il nome con cui al suo tempo veniva chiamata la mavgadi". Pektis. – La phktiv" è un’arpa triangolare, simile alla mavgadi" ; anzi, secondo Aristosseno (fr. 98 Wehrli), e Menecmo di Sicione (FGrH 131 F 4b) – entrambi ap. Ath. 14, 635e – sono lo stesso strumento. Al contrario, per il poeta tragico Diogene (TrGF 45 F 1, ap. Ath. 14, 636a-b) e per Fillide di Delo (fr. 2 Müller, FHG iv, ap. Ath. 14, 636b) sono due strumenti diversi. Sopatro (fr. 12 Kassel-Austin, ap. Ath. 4, 183b) dice che la pettide era bicorde, ma →Platone (R. 3, 399d) la inserisce nel novero degli strumenti policordi da bandire dallo Stato ideale. Dal momento che la pettide era un’arpa, è impossibile che abbia avuto solo due corde, per cui il termine divcordo" deve significare « a doppie corde », cioè con coppie di corde disposte in modo che suonassero l’una a intervallo di ottava rispetto all’altra (Pearson 1917, 74). Aristosseno (fr. 99 Wehrli, ap. Ath. 14, 635b) attesta che la pettide era suonata senza l’uso del plettro. La melodia che si realizzava era in tonalità acuta (Pindaro, fr. 125 Maehler, la definisce uJyhlhv e Teleste, fr. 810 Page, ojxuvfwno"), Menecmo (loc. cit.) afferma che Saffo usò per prima la pettide. Probabilmente era di origine lidia (Pi. fr. 125 Maehler ; Hdt. 1, 17). Magadis. – La mavgadi" era molto antica,  







come attesta Euforione (ap. Ath. 14, 635a), il quale aggiunge che essa ha subito trasformazioni ed ha cambiato il nome in quello di sambuvkh, arpa triangolare, che →Porfirio (in Ptol. Harm. 1, 3 p. 34 Düring) chiama anche trivgwnon. Aristosseno e Menecmo di Sicione la identificano, come si è detto, con la phktiv". Apollodoro (FGrH 244 F 219, ap. Ath. 636f ) informa che al tempo suo la mavgadi" era assimilata allo yalthvrion. La mavgadi" cadde presto in disuso e la sua memoria si affievolì a tal punto che, in Ateneo (14, 634c) Emiliano, uno dei deipnosofisti, chiede a Masurio, esperto di musica, se la mavgadi" sia uno strumento a corda o a fiato. La domanda era legittima perché esisteva un aujlov" chiamato mavgadi" (Trypho, fr. 110 Velsen, ap. Ath. 14, 634d-e). Masurio, sulla scorta di Didimo, precisa, però, che si tratta di un aulo usato per accompagnare la cetra (Ath. 14, 634e-f ). Mavgadi" è, quindi, un appellativo derivante dallo strumento a cui l’aulo si accompagna. Quanto all’origine della mavgadi", Duride (FGrH 76 F 28, ap. Ath. 14, 636f ) la considera tracia, dal momento che desume il suo nome dal tracio Magdi. Sull’origine tracia concorda anche Cantaro (fr. 12 Kassel-Austin, ap. Poll. 4, 61) mentre Ateneo (14, 634f ) riporta la testimonianza di Anacreonte secondo cui la mavgadi" fu inventata dai Lidi. L’antichità di questo strumento è confermata dal fatto che esso è citato da Alcmane (fr. 101 Davies). Anacreonte (fr. 96 Gentili) afferma che la mavgadi" aveva venti corde. →Posidonio (fr. 471 Theiler, ap. Ath. 14, 635c-d) precisa che le corde erano ventuno, in quanto per realizzare le scale melodiche frigia, dorica e lidia – scale nominate da Anacreonte – occorrono sette corde per ciascuna scala. Perciò, puntualizza Posidonio, quando Anacreonte parla di « venti corde », usa un numero tondo, lasciandone una. Ateneo (14, 637a) afferma che, secondo Teleste, la magade aveva cinque corde e cita, a sostegno della sua affermazione, un passo del ditirambo di Teleste intitolato Imeneo, dove compare appunto l’espressione mavgadin, / pentarravbdw/ corda'n ajrqmw'/ (fr. 808, 2-3 Page). Ateneo, quindi, riteneva pentavrrabdo" sinonimo di pentavcordo". Tale interpretazione è molto singolare, non solo perché un’arpa di sole cinque corde appare molto strana, ma anche, e soprattutto, perché Teleste viveva ed operava in un’epoca di sperimentalismi attuati per mezzo dell’incremento del numero delle corde. Pare, perciò, attendibile l’interpretazione di Comotti 1983, 57-71, secondo cui il poeta  



strumenti musicali descrive la mavgadi" come un’arpa a fuso, con intelaiatura costituita da cinque bastoni disposti in modo tale da formare un rombo allungato. Questo tipo di strumento è raffigurato in alcuni vasi attici del v sec. a.C. (Beazley, arv2, 1126, 1 ; 1126, 3 ; 1126, 5 ; 1313, 7 ; 1133, 196 ; 1684 ; 1470, 163). La mavgadi", come si evince da Anacreonte e come dice espressamente Aristosseno (fr. 99 Wehrli, ap. Ath. 14, 635b) era suonata senza plettro, pizzicata con le dita. Fillide (fr. 2 Müller, FHG iv, ap. Ath. 14, 636b) attesta che le corde erano disposte in modo che suonassero ad intervallo di ottava e che erano accordate per accompagnare in contrappunto le parti dei cantanti. Secondo Barker 1988, 97, la mavgadi" è uno strumento immaginario, mai esistito ed il termine indicherebbe un effetto musicale dal momento che in Senofonte (An. 7, 3, 32-33) ed in Filocoro (FGrH 328 F 23, ap. Ath. 638a) esso assume il significato di « discanto », di « produzione di armonie acute al di sopra della tonalità normale dello strumento usato ». Sambyke. – La sambuvkh o savmbux è a forma triangolare. Andrea di Palermo (FGrH 571 F1, ap. Ath. 14, 634a) la paragona, proprio per il suo aspetto, alla macchina da guerra chiamata sambuca. Il geografo Pitagora (ap. Ath. 14, 634a) dice che ha quattro corde ed è usata dai Parti e dai Trogloditi. Ateneo (14, 637f ) riferisce che la sambuca fu inventata da un certo Sambice da cui prende il nome e che la Sibilla la utilizzò per prima. Neante di Cizico (FGrH 84 F 5, ap. Ath. 175e) attribuisce l’invenzione della sambuca a Ibico. La stessa notizia si legge nella Suda (s 73 Adler). Aristide Quintiliano (Mus. 2, 16, p. 85 Winnington-Ingram), dice che la sambuca aveva corde corte e suono acuto di carattere effemminato e ignobile. Iambyke. – La ijambuvkh ha forma triangolare ed accompagnava il canto dei giambi. Alcuni la identificano con la sambuca, come attesta Fozio (i 6 Theodoridis s.v. ’Iambu'kai) ma lo stesso Fozio (i 5 Theodoridis s.v. ijambuvkh) distingue la ijambuvkh dalla sambuvkh asserendo che il primo strumento derivò il suo nome dal fatto che accompagnava il canto dei giambi (cfr. anche Phillis fr. 2 Müller, FHG iv, ap. Ath. 14, 636b), il secondo, più recente, era stato così denominato dal suo inventore, Sambice. Esichio (i 49 Latte s.v. ijambu'kai) si limita a rilevare :  





















ijambu'kai: o[rgana mousika; ãtrivgwnaà ejn oi|" tou;" ijavmbou" h\/don. hJ de; sambuvkh e{teron ojye; euJrhmevnon. Trigonon. – Il trivgwnon o trivgwno" è di forma

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triangolare. Ha le corde di uguale spessore, ma lunghe in modo graduato (Ael. fr. 25a, ap. Porph. in Ptol. Harm., p. 34). Esichio (t 1368 Schmidt s.v. trivgwnon) lo definisce una specie del salterio. Euforione (fr. 180 van Groningen, ap. Ath. 182e) lo colloca fra gli strumenti antichi. Quanto alla sua origine, Sofocle (fr. 412 Radt, ap. Ath. 4, 183e) lo considera frigio, Giuba (FGrH 275 F 15, ap. Ath. 4, 175d) siriaco. Eupoli (fr. 148 KasselAustin, ap. Ath. 14, 638e) e Platone Comico (fr. 71, 13 Kassel-Austin, ap. Ath. 15, 665b) attestano che era utilizzato per canti lascivi. Ateneo (14, 636f ) informa che al tempo suo era obsoleto. Epigoneion. – L’ ejpigovneion è fornito di quaranta corde e prende il nome dal suo inventore, Epigono di Ambracia, che lo suonò senza plettro (Poll. 4, 59). Sachs 1980, 155, interpreta il nome come derivante da ejpiv = sopra e govnu = ginocchia, perché lo strumento era posto di traverso sulle ginocchia del suonatore che stava seduto. Secondo la testimonianza di Giuba (FGrH 275 F 84, ap. Ath. 4, 183c-d) Epigono aveva trasformato l’antico strumento in uno yalthvrion o[rqion, cioè posizionato verticalmente, mentre prima era tenuto in posizione orizzontale. Simikon o simikion. – Il simikovn o simivkion ha trentacinque corde (Poll. 4, 59). Pelex. – La phvlhx appartiene, come attesta Polluce (4, 61) alla famiglia del salterio. Nabla. – La navbla (o navbla" o navblon o nau'la) è presentata da Esichio (n 2 Latte s.v. navbla), come equivalente allo yalthvrion o alla kiqavra. La Suda (y 15 Adler) attesta che lo yalthvrion era chiamato anche nau'la. Molto probabilmente la nabla era un tipo di arpa. Secondo Giuseppe Flavio (Ant. Jud. 7, 12, 3) aveva dodici corde che venivano pizzicate con le dita. Sopatro (fr. 15 Kassel-Austin, ap. Ath. 4, 175c) oltre a presentarla come un’invenzione dei Fenici, aggiunge che aveva un timbro gutturale (laruggovfwno") e (fr. 10 Kassel-Austin, ap. Ath. ibid.) la definisce non melodiosa (oujk eujmelhv"). La stessa valutazione è fornita da Esichio (n 3 Latte) secondo il quale il navbla" è un ei\do" ojrgavnou mousikou' dushvcou. c) Trichordon. – Il trivcordon ha tre corde ed è chiamato anche pandouvra (Poll. 4, 60). Appartiene alla famiglia del liuto. Ha una piccola cassa di risonanza e un manico lungo. Secondo Polluce fu inventato dagli Assiri, secondo il geografo Pitagora (ap. Ath. 4, 183f ) dai Trogloditi che lo fabbricarono con il legno della mangrovia bianca. Poiché Nicomaco (Harm.

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4, p. 243 Jan) attesta che alcuni identificavano i favndouroi (= pandouvrai) con i monovcorda, si può supporre che anche la pandura era usata per lo studio delle teorie musicali. Esichio (p 331 Schmidt) informa che la pandura era chiamata anche pandouriv". Monochordon. – Il monovcordon ha una sola corda e venne chiamato dai Pitagorici kanwvn (Nicom. Harm. 4, p. 243 Jan). Claudio Tolemeo (Harm. 1, 8, pp. 17-19 Düring) lo descrive come uno strumento costituito da una sola corda tesa su di un manico e provvisto di un cursore con il quale era possibile modificare la lunghezza della parte di corda che vibrava e quindi l’altezza del suono. Era, dunque, utilizzato da Pitagora per determinare le relazioni matematiche dei suoni musicali (Nicom. Harm. 6, p. 248 Jan ; Iamb. vp 26, 119). Polluce (4, 60) dice che il monocordo è un’invenzione degli Arabi. Il monocordo non fu solo uno ‘strumento di laboratorio’, ma anche un o[rganon mousikovn. Strumenti a corde di cui è difficile stabilire il genere. Klepsiambos. – Il kleyivambo" è uno strumento a corde, menzionato da Polluce (4, 59) fra gli o[rgana krouovmena e da Aristosseno (fr. 97 Wehrli, ap. Ath. 4, 182f ) fra quelli di origine straniera ed è indicato da Fillide (fr. 2 Müller, fhg iv, ap. Ath. 636b-c) come strumento con cui parelogivzonto ta; ejn toi'" mevtroi". Hermann corregge parelogivzonto in parakatelogivzonto, per cui, se la correzione è esatta, i kleyivamboi accompagnerebbero il recitativo ritmico. Pariambos. – Il parivambo" è citato da Polluce (4, 59) fra gli o[rgana krouovmena. Se ne ignorano forma e caratteristiche. Tripous. – Una menzione a parte merita il trivpou" inventato da Pitagora di Zacinto vissuto nella metà del v sec. a.C. (Diog. Laert. 8, 46). Secondo Artemone di Cassandria (fr. 12 Müller, FHG iv, ap. Ath. 14, 637b-f ) fu utilizzato per breve tempo perché era difficile da maneggiare e finì per essere dimenticato quasi del tutto. Diogene Laerzio, prima di procedere ad una dettagliata descrizione di questo strumento, precisa che esso prende il nome dalla sua somiglianza con il tripode di Delfi e dal fatto che veniva utilizzato come una triplice kiqavra. Era formato da un supporto girevole sopra il quale vi era la cassa di risonanza, mentre negli spazi intermedi fra i tre piedi erano tese le corde. Si ottenevano così tre sistemi di corde, intonati ciascuno su una harmonia diversa, la dorica, la  

frigia e la lidia. La mobilità della base, toccata opportunamente dal piede, permetteva di scegliere prontamente l’accordatura di volta in volta desiderata. 2. Strumenti a fiato. – Gli strumenti a fiato si dividono in a) strumenti privi di ancia e b) strumenti ad ancia. a) Syrinx. – La siringa (su'rigx, fistula) tipica del mondo pastorale, legata a Pan (cfr. ex. gr. E. El. 702 sg. ; Ion 498 ; Ba. 952 ; Paus. 8, 31, 3 ; Nonn. 27, 294), fu inventata da Hermes (Hymn. Hom. 4, 511-512 ; Apollod. 3, 115). Platone (R. 3, 399d) la considera utile per i pastori ; Aristosseno (fr. 95 Wehrli, ap. Ath. 4, 174e) precisa che può essere suonata, come del resto gli auli, anche da persone prive di istruzione. Sono attestati due tipi di siringhe : i) la monokavlamo" e ii) la polukavlamo" (Euph. fr. 182 van Groningen, ap. Ath. 4, 184a). i) Syrinx monocalamus. – La su'rigx monokavlamo" – da identificare con l’aujlo;" a[glwtto" citato da Poll. 2, 100 e 108 – è chiamata anche su'rigx kalamivnh (Ar. fr. 738 Kassel-Austin, ap. Poll. 4, 67) e i[ugx (EM 480, Gaisford ; An Graec. p. 265 Bekker). Era costituita da un’unica canna sottile provvista di fori per la diteggiatura. Euforione (fr. 182 van Groningen, ap. Ath. 4, 184a) afferma che fu inventata da Hermes, mentre, secondo altri, sarebbe stata inventata dai maidi Seute e Ronace. Quest’ultima versione attribuisce, quindi, allo strumento un’origine tracia. ii) Syrinx polycalamus. – La su'rigx polukavlamo" è comunemente chiamata « flauto di Pan ». Trattasi di uno strumento provvisto di più canne unite insieme dalla cera e da una legatura di lino (Poll. 4, 69). Esse potevano essere di lunghezza diversa, gradualmente decrescente, così che lo strumento assumeva una forma trapezoidale simile, come dice Polluce, (loc. cit.) ad un’ala di uccello, oppure potevano essere di pari lunghezza, formando in tal modo un rettangolo (Theocr. 8, 18-19 e schol. ad loc., 205-206 Wendel), come appare, ad esempio, nel vaso François ed in monete arcadiche del iv sec. (Reinach 1911, 1597 ; Haas 1985). Nel caso della siringa rettangolare i diversi suoni venivano ottenuti introducendo nelle varie canne cera in proporzioni differenti, come spiega lo Ps. Aristotele (Pr. 19, 23, 919b 9-10). Euforione (fr. 182 van Groningen, ap. Ath. 4, 184a) dice che la su'rigx polukavlamo" fu inventata da Sileno e che Marsia unì le canne con la cera. Diodoro Siculo (3, 58, 2) ne attribuisce l’invenzione a Cibele e Polluce (4, 77) la dice di origine celtica.  





















strumenti musicali Hydraulis. – L’organo idraulico (uJdrauliko;n o[rganon o u{draulo" o u{drauli", hydraulis) è detto da Polluce (4, 70) turrhnov" aujlov". Ari-

stocle (fr. 12 Müller, Fgh iv, ap. Ath. 174d) lo definisce uno strumento a fiato (ejmpneustovn) perché l’aria è spinta nello strumento dall’acqua. Fra gli strumenti a fiato è collocato anche da Nicomaco (Harm. 4, p. 243 Jan). Informazioni sulla sua struttura e sul suo funzionamento sono fornite da Erone (Spir. 1, 42) e da Vitruvio (10, 8) oltre che da Aristocle (loc. cit.). L’organo idraulico risulta costituito da una siringa capovolta alle cui canne l’aria arriva da un compressore, immerso nell’acqua, per mezzo di valvole collocate fra il collo del compressore e le canne stesse unite ad una pompa a pistone azionata da un giovane che aiutava il musicista. Le canne, come si desume dall’organo di Aquincum, erano senz’ancia e, poiché Vitruvio (10, 8) attribuisce all’organo idraulico canne provviste di lingulae, è probabile che siano esistiti anche organi ad ancia. L’organo idraulico fu inventato da Ctesibio (un barbiere, secondo Aristocle, un ingegnere, figlio di un barbiere, secondo Vitruvio, Arch. 9, 8) vissuto al tempo del secondo Evergete. Tale datazione è stata messa in dubbio da Perrot 1965, che colloca Ctesibio al tempo di Tolemeo ii Filadelfo. L’organo idraulico ebbe larga diffusione in età ellenistica e romana, come attestano, fra l’altro le raffigurazioni pittoriche pompeiane. Grazie alla sua possente sonorità era particolarmente adatto per esecuzioni in luoghi aperti. Inoltre, poiché la sua accordatura consentiva la realizzazione di musiche in sei modi, iperlidio, iperionio, lidio, frigio, ipolidio e ipofrigio (Anon. Bellerm. 2, 28, p. 8 Najock), si potevano effettuare performances mimetiche e virtuosistiche. Polluce (4, 70) menzoina anche l’organo pneumatico, molto più piccolo e maneggevole rispetto all’organo idraulico. b) Aulos. – L’aulo (aujlov", tibia), erroneamente tradotto con il termine « flauto », è uno strumento a fiato, a semplice o doppia ancia, più simile, quindi, all’oboe che al flauto. I Latini lo chiamavano tibia, molto probabilmente perché in origine era ricavato dalla tibia di un animale. Polluce (4, 71) informa che esso poteva essere realizzato utilizzando diversi materiali, non solo ossi di cervo, ma anche canna, bronzo, legno di loto, bosso, avorio. Era costituito da uno o due tubi (bovmbuke"), provvisti di un bocchino, dove era collocata un’ancia (glw'tta o glwttiv"), che nel periodo classico era doppia, ed era inserita  



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nella strozzatura che collegava il bocchino stesso a due rigonfiamenti (o{lmoi), a loro volta collegati, per mezzo di un’altra strozzatura (uJfovlmion) al tubo (bovmbux), sul quale erano praticati dei fori (truphvmata o trhvmata). Polluce, oltre a indicare le parti dell’aulo (4, 70), attesta che in epoca antica i fori erano quattro e che il loro numero fu accresciuto da Diodoro di Tebe (4, 80). Tale informazione è confermata dal fatto che gli auli ritrovati nel santuario di Artemide Orthia a Sparta, risalenti al vii sec. a.C., non presentano più di quattro fori (Dawkins 1929). Riguardo all’aumento del numero dei fori risultano utili le testimonianze di Pausania (9, 12, 5) e di Ateneo (14, 631e) secondo cui Pronomo di Tebe riuscì a suonare sugli auli tutti i tipi di scale. Da tale informazione è ovvio dedurre che il famoso auleta aumentò il numero dei fori e munì lo strumento di chiavi o di collari rotanti che permettevano di variarne l’accordatura. Pausania, infatti, precisa che mentre prima gli auleti si servivano di tre diversi tipi di aulo per suonare composizioni nelle diverse armonie, dorica, frigia e lidia, Pronomo utilizzava un unico strumento per le tre armonie. Il tipo di strumento inventato da Pronomo è stato individuato da West 1992, 87-88, in alcuni auli ritrovati a Meroe (Bodley 1946, 217-240) e Pompei. Quanto all’aumento del numero dei fori, va ricordato che in alcuni esemplari pompeiani essi arrivano fino a 15. L’aulo di Axos del Museo di Candia presenta 24 fori, ma potrebbe trattarsi di un plagiaulo. Ad un meccanismo particolare, indicato con il termine su'rigx, fanno riferimento Aristosseno (Harm, 1, 21, p. 27 Da Rios) lo Ps. Aristotele (Aud. 804a 14) e Plutarco (Non posse vivi, 1096b). Consiste in un dispositivo che, mediante il suo abbassamento, consentiva all’intonazione dell’aulo di elevarsi all’acuto. Forse era un foro situato vicino all’imboccatura che veniva coperto o scoperto tramite un nastro mobile. L’aulo poteva essere ad una sola canna, movnaulo", o a due canne, divaulo" o dikavlamo", designato anche con le espressioni divdumoi aujloiv o divzuge" aujloiv (tibiae geminae). Le raffigurazioni vascolari mostrano uno strumento con canne della stessa lunghezza e con i fori nella stessa posizione. Difficile risulta stabilire quali funzioni siano state assegnate alle due canne : ad una poteva essere affidata la melodia, mentre l’altra fungeva da accompagnamento oppure si potevano alternare, l’una al grave, l’altra all’acuto.  

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strumenti musicali

L’aulo, che poteva essere suonato da persone prive di un’educazione musicale, come sostiene Aristosseno (fr. 95 Wehrli, ap. Ath. 4, 174e) fu utilizzato anche e soprattutto da veri e propri professionisti. Gli auleti professionisti utilizzavano la forbeiav (ejpistomiv" o peristovmion o kapivstrion, capistrum), una fascia di cuoio o di tela che copriva la bocca, provvista di due fori dove venivano introdotte le canne. Era legata dietro la testa da due lacci uniti alla benda da anelli, ai quali era fissata una seconda fascia che passava sopra la testa dell’auleta per impedire alla prima di scivolare. La forbeiav aveva una duplice funzione : 1) correggere o nascondere la deformazione del volto dell’auleta (Plu. De cohib. ira, 456b-c), 2) regolare l’immissione dell’aria nella canna, con il risultato di rendere il suono più dolce (schol. Ar. V. 582b, p. 93 Koster). Al deturpamento del volto provocato dal suono dell’aulo è legata la tradizione relativa all’origine dello strumento, riferita da Ateneo (14, 616e-617a). Questi cita un passo tratto dal Marsia di Melanippide (fr. 758 Page), nel quale è presentata Atena che getta via l’aulo quando vede il suo volto sfigurato mentre suona lo strumento, e riporta poi il passo di Teleste (fr. 805a-c Page) in cui il ditirambografo si dichiara incredulo di fronte ad un racconto che vuole la dea dell’intelligenza, votata alla verginità, gettare via, per paura di un’indecorosa bruttezza, lo strumento da lei inventato, permettendo così che esso, raccolto da Marsia, divenisse gloria del satiro. La verità, prosegue Teleste, è un’altra : la dea donò l’aulo a Dioniso, al quale insegnò l’arte di suonarlo. Tale versione si accorda con il fatto che l’aulo è uno strumento orgiastico, legato al culto dionisiaco. Un’interpretazione razionalistica del mito è proposta, invece, da Aristotele (Pol. 8, 1341b) secondo cui Atena, dea dell’intelligenza e dell’arte, gettando via l’aulo vuole icasticamente raffigurare l’auletica come un’arte che non ha nessun effetto sull’intelligenza e che, pertanto, deve essere esclusa dall’insegnamento impartito ai giovani. Secondo altre tradizioni inventore dell’aulo fu Iagni, il padre di Marsia (Marm. Par. 10, FGrH 239 ; Ps. Plu. Mus. 5, 1132f ; 7, 1133e) o Marsia o Olimpo (Ps. Plu. Mus. 14, 1135f ) o Apollo (Ps. Plu. ibid.) o Sirite, un libico della tribù dei Numidi (Duris, FGrH 76 F 16, ap. Ath. 14, 618c) o Ardalo di Trezene (Paus. 2, 31, 3). Ad Apollo è attribuita l’invenzione dell’aulo come quella  







della kiqavra, in quanto dio della musica. L’aulo era lo strumento tipico della Beozia e pertanto veniva utilizzato non solo nelle cerimonie in onore di Dioniso, ma anche in quelle in onore di Apollo, ad esempio, nelle dafneforie, come risulta da Pindaro (fr. 94b, 14 Maehler). Gli auli furono classificati in vario modo : in base all’altezza dei suoni, alle diverse occasioni, alle melodie cui erano destinati, all’origine, al materiale di costruzione, al carattere, alla forma. In base all’altezza dei suoni Erodoto (1, 17, 1), distingue gli aujloi; gunaikei'oi dagli aujloi; ajndrei'oi, contrapponendo l’intonazione femminile, che è acuta, a quella maschile, che tende al grave. Aristosseno (fr. 101 Wehrli, ap. Ath. 14, 634f ) fornisce un elenco più articolato, comprendente cinque tipi di auli, che vanno dall’acuto al grave : parqevnioi, paidikoiv, kiqaristhvrioi, tevleioi, uJpertevleioi. Precisa inoltre (Harm. 1, 20, p. 26 Da Rios) che la distanza tra il suono più acuto dei parqevnioi ed il più basso degli uJpertevleioi era di tre ottave. Polluce (4, 81) chiarisce che i parqevnioi accompagnavano i cori delle fanciulle, mentre i paidikoiv quelli dei pai'de" ; i kiqaristhvrioi prendevano il nome dal fatto che si univano al suono della kiqavra nella sunauliva ; i tevleioi servivano per il nomos pitico, che era eseguito senza coro, e per i peani ; gli uJpertevleioi erano utilizzati per i cori maschili. Polluce inserisce questi ragguagli in un elenco di auli distinti in base alle melodie, per cui (4, 82) puntualizza che alcuni non li ritengono ei[dh di auli, ma di melodie. La distinzione degli auli è, quindi, effettuata in base alla diversa accordatura. Vengono ricordati : due auli fra loro consonanti, uno più grande, di intonazione grave, per lo sposo e uno più piccolo, di intonazione acuta, per la sposa, utilizzati per il gamhvlion au[lhma ; gli auli paroivnioi, destinati al simposio, di piccola dimensione ; gli spondeiakoiv che accompagnavano gli inni durante le libagioni ; i puqikoiv utilizzati per i peani e per il nomos pitico ; i corikoiv per i ditirambi ; i paravtrhtoi (cioè forati lateralmente) dal suono acuto per i threnoi ; i bovmbuke" per le melodie di carattere orgiastico ; gli ejmbathvrioi per i prosodii ; i daktulikoiv per gli iporchemi (4, 80-82). Gli e[lumoi sono auli di origine frigia, legati al culto di Cibele, costituiti da due canne in legno di bosso, di lunghezza diversa, ricurve all’estremità (Poll. 4, 74), delle quali la più lun 



























strumenti musicali ga terminava con un padiglione (Ath. 4, 185a, vd. anche 176f ). Secondo quanto attesta Giuba (FGrH 275f 81, ap. Ath. 4, 177a) erano chiamati skutalei'ai per la loro grossezza, ma Polluce (4, 82) dice che con il termine skutavlia si designavano auli piccoli. Ateneo (4, 176f ) cita anche altri auli : i divopoi, a due fori, che secondo West 1992, 92, sarebbero formati da due canne con ancia, suonate con la mano sinistra e da una terza canna suonata con la destra ; i mesovkopoi, di media grossezza ; gli auli uJpovtrhtoi, forati nella parte inferiore ; gli auli hJmivopoi, citati da Anacreonte (fr. 95 Gentili) e da Eschilo (fr. 91 Radt) più piccoli di quelli tevleioi, e con tre fori. Vi era poi un aulo chiamato mavgadi", citato da Ione di Chio (fr. 26b Leurini). Didimo (ap. Ath. 14, 634e) ed Esichio (m 3 Latte) affermano che si tratta di un aulo kiqaristhvrio", usato per accompagnare la cetra, ma Ateneo (14, 634d) attesta che né Aristosseno né Archestrato né Pirrandro né Fillide di Delo né Eufranore parlano dell’aulo mavgadi". In realtà mavgadi" è l’appellativo, come si è detto, derivante dallo strumento a cui l’aulo si accompagna. Il movnaulo" è chiamato anche tituvrino" (Hsch. t 997 Schmidt; Amerias ap. Ath. 4, 176c), cioè « pastorale » o aujlo;" kalavmino" (Hsch. loc. cit.). L’origine egiziana del monaulo è attestata da Giuba (FGrH 275 F 16, ap. Ath. 4, 175e) là ove informa che gli Egiziani attribuivano l’invenzione del monaulo a Osiride, e da Polluce (4, 75) il quale definisce lo strumento eu{rhma Aijguptivwn. Esso accompagnava i canti in diverse circostanze : durante le feste nuziali (Anaxandr. fr. 19 Kassel-Austin, ap. Ath. 4, 176a ; Poll. loc. cit.), le cerimonie funebri (Poll. loc. cit.) ed i simposi (Hedyl. 10 Gow-Page, ap. Ath. 4, 176c-d). Un monaulo di origine fenicia o caria, di piccole dimensioni, associato al culto di Adone ed utilizzato dai Cari per le cerimonie funebri, è il givggra", così detto perché i Fenici chiamavano Adone Givggrh" (Ath. 4, 174f ; Poll. 4, 76). Veniva impiegato anche durante le cerimonie legate al rito, negli spettacoli e nel simposio (cfr. Comotti 1975, 222). Barker 1984, 263 n. 13, avanza l’ipotesi secondo la quale i givggroi sarebbero strumenti simili all’organo idraulico. Salpinx. – La savlpigx, la « tromba », il cui nome latino è tuba, era usata per segnalazioni militari e come il kevra", il « corno », aveva origine etrusca (Ath. 4, 184a). La savlpigx era lunga, diritta, in genere di bronzo. Polluce  

























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(4, 85) attesta che era fornita di ancia in osso (hJ ... glw`tta ojstivnh), ragguaglio confermato dall’espressione glw`ssaiv tine~ salpivggwn di Simplicio (in Arist. phys. 9, 681, 7) e, poiché alcune raffigurazioni vascolari inducono a supporre che le savlpigge~ fossero prive di ancia, si può ipotizzare l’esistenza di due tipi di tromba, una senza ancia e una con ancia. La savlpigx produceva suoni differenziati, adatti a impartire i vari ordini. Al riguardo Polluce (4, 86) distingue l’ejxormhtikovn per l’attacco o la partenza, il parakeleustikovn per l’incitamento, l’ajnaklhtikovn per la ritirata, l’ajnapausthvrion per la sosta e Aristide Quintiliano (Mus. 2, 6, p. 62 Winnigton-Ingram) chiama mevlh i motivi eseguiti con la savlpigx. Esichio (s 125 Schmidt) attesta che nelle armate navali era usata la qalassiva savlpigx. Altro strumento militare è la bukavnh (bucina) menzionata insieme alla savlpigx da Polibio (15, 12, 2) e definita dalla Suda (b 591 Adler) o[rganon mousikovn. Plagiaulos. – Il plagivaulo", come attesta Polluce (4, 74) era fatto di legno di loto ed aveva origine libica. Bione (fr. 10, 7 Gow) lo presenta quale invenzione di Pan. Riguardo alla tipologia dello strumento le fonti risultano di difficile interpretazione. Giuba (FGrH 275 F 16, ap. Ath. 4, 175e) informa che esso era chiamato anche fw'tigx, termine così glossato da Esichio (f 1135 Schmidt) su'rigx. lwvtino" aujlov", ªwJ"º ei\do" savlpiggo". Lo Ps. Aristotele (Aud. 801b) parla di uno strumento fornito di ance infisse di traverso. In base a questa testimonianza, peraltro non sicura a causa del testo in alcuni punti corrotto, la maggior parte degli studiosi considera il plagivaulo" uno strumento ad ancia affine all’aulo (West 1992, 93, 113). Al contrario Landels 1999, 71-72, sulla scorta della documentazione iconografica, esclude che si tratti di uno strumento ad ancia. Rhombus. – Va menzionato a parte il rJovmbo", strumento classificabile fra gli aerofoni. È costituito da un bastone o da una tavoletta legato/a ad una corda e fatto/a roteare in aria. Esso provocava un suono simile al muggito di un bue o ad un tuono o ad un sibilo. →Archita (47 B 1 D.-K.) dice che quando è mosso con calma emette un suono grave, quando è mosso con forza emette un suono acuto e precisa che veniva utilizzato nei riti misterici (vd. anche Hsch. r 433 Schmidt s.v. rJovmbo"). 3. Strumenti a percussione. – Gli strumenti a percussione erano usati per le cerimonie orgia-

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suffrutici

stiche ed erano sentiti estranei alla tradizione greca. Tympanon. – Il tuvmpanon era un tamburello rivestito di pelle. Veniva percosso con la mano ed era utilizzato per i riti in onore di Dioniso e Cibele (Hsch. t 1638 Schmidt s.v. tuvmpana, Suda t 1166 Adler s.v. tuvmpanon). Talvolta era munito anche di sonagli, come appare nel mosaico della casa di Menandro a Mitilene (Charitonidis-Kahil-Ginouvès 1970, tav. 6). Krotala. – I krovtala sono costituiti da due o[straka o da due pezzi di legno o di bronzo (Eust. ad Il. 11, 160, iii 176 van der Valk ; vd. e. g. Eur. Cycl. 205 ; Call. fr. 761 Pfeiffer), uniti da una cerniera e battuti l’uno contro l’altro. Venivano utilizzati non solo in occasione di riti orgiastici, ma anche per le feste popolari e, come attesta Saffo fr. 44, 25 Voigt, per le cerimonie nuziali. Krembala. – Di difficile identificazione sono i krevmbala, di cui parla Dicearco (fr. 60 Wehrli, ap. Ath. 14, 636c-d). Sono da lui descritti come strumenti che si colpiscono con le dita e che producono un suono simile a quello delle patelle strappate dagli scogli. Secondo West 1992, 125, potrebbero essere piccoli cimbali montati su clappers, secondo Barker (1984, 298 n. 194) una specie di sistro. Cymbala. – I kuvmbala sono dischi di bronzo impugnati con le due mani e battuti l’uno contro l’altro. Esichio (k 4538 Latte) fornisce due sinonimi del kuvmbalon, cioè bakuvlion e babouvlion. Seistron. – Il sei'stron è connesso con Iside (Plu. Is et Os. 376c-d). Secondo Polluce (9, 127) è sinonimo di krovtalon, un sonaglio con cui le nutrici addormentavano i bambini lenti a prender sonno.  



Bibliografia. Abert 1920 ; Abert 1927 ; Aign 1963 ; Barker 1984 ; Barker 1988 ; Barker 2002 ; Bodley 1946 ; Chailley 1979 ; Charitonidis, Kahil, Ginouvès 1970 ; Comotti 1975 ; Comotti 1983 ; Comotti 1991 ; Davison 1961 ; Dawkins 1929 ; Del Grande 1932 ; Di Giglio 2000 ; Düring 1945; Haas 1985 ; Higgins-Winnington-Ingram 1965 ; Howard 1893 ; Huchzermeyer 1931 ; von Jan 1986 ; Landels 1999 ; Maas-Snyder 1989 ; Marenghi 1957 ; McKinnon 1980 ; Michaelides 1978 ; Paquette 1984 ; Pearson 1917 ; Perrot 1965 ; Raffa 2000 ; Reinach 1904 ; Reinach 1911 ; Reinach 1919a ; Reinach 1919b ; Sachs 1980 ; Schlesinger 1912; Wegner 1949 ; Wegner 1968 ; West 1992.  



































































Suffrutici. 1. – Secondo la classificazione teofrastea i suffrutici (fruvgana) costituiscono uno dei quattro gruppi in cui si divide il mondo vegetale : « il suffrutice sorge dalla radice con più tronchi e più rami » (HP 1, 3, 1). Di questo genere sono in maggior parte i vegetali selvatici, caratterizzati dalle foglie spinose e, in generale, dalla presenza di spine, mentre i suffrutici ‘domestici’ sono costituiti quasi esclusivamente da specie floreali (come la rosa, anch’essa spinosa) e alcuni ortaggi (cavolo e ruta). Si riproducono in modo migliore (se non esclusivo) per talea, e non per seme. Tra le più note e impiegate suffruticose selvatiche vi sono : l’asparago (ajspavrago"), l’origano (ojrivgano"), il timo (quvmo"), la coniza (kovnuza, inula), il cappero (cfr. anche Colum. 11, 3, 54-55), e le ferulacee (nartece, mandragora, cicuta, elleboro e altre). Altri due, tuttavia, sono i suffrutici più famosi : innanzi tutto il leggendario silfio, di difficile identificazione, ora sicuramente scomparso, preziosissimo aroma proveniente dalla Libia, dalle foglie colore dell’oro e le radici assai saporite (Plin. nat. 19, 38-46 ; 22, 100-107) ;[1] quindi il papiro, originario dell’ambiente nilotico, diffusissimo per i molteplici usi (HP 6, 3 ; Plin. nat. 13,68-89). [2] L’impiego sostanziale dei suffrutici coltivati è costituito dalla realizzazione delle ghirlande [→fiori], un elemento decorativo diffusissimo e antropologicamente rilevante nella cultura greca e, in parte, anche romana : ghirlande di diverso tipo erano impiegate per occasioni distinte (simposi, cerimonie, riti di passaggio), per uomini ma anche per statue o tombe (Theophr. HP 6, 6 ; Ath. 15, 669c-686c). Tecnicamente, i suffrutici coronarii si dividevano in due gruppi : quelli odorosi completamente (nel fusto, nelle foglie e nel fiore) e quelli parzialmente odorosi (solo nel fiore). Le specie di →fiori più impiegate e meglio conosciute erano : rose, viole, narcisi, gigli. Altro importante impiego dei suffrutici era quello medicinale [→farmacologia] : le trattazioni più importanti sono in →Plinio (libri xxvxxvii) e →Dioscoride (iii-iv).  



























Note. [1] Notevole la bibliografia : vd. da ultima Roselli 2001. – [2] Vd. Cirillo 1983.  





Emanuele Lelli



Simonetta Grandolini

Suino. [suv", u|", coi'ro", devlfax; sus scrofa, sus aper, porcus, verres] 1. Caratteri generali. – Il

suino suino e il cinghiale sono sentiti come appartenenti ad un’unica specie nel mondo antico e sono due dei principali animali addomesticati dall’uomo sin dal Neolitico benché, dal punto di vista quantitativo, l’allevamento suino fu sempre meno diffuso rispetto a quello ovicaprino. I trattati degli →agronomi antichi sull’argomento analizzano le caratteristiche fisiche che l’animale destinato all’allevamento debba avere : i verri sono preferibili quando hanno stazza grande, ma anche collo ampio, ventre basso, coda attorcigliata, e sono di conformazione quadrata ; le scrofe, quanto al resto simili ai verri, devono invece avere il collo più allungato (Colum. 7,9). In →Varrone (rust. 2, 4, 3) e nei →Geoponica (19, 6) vengono indicati i suini di un solo colore come da preferirsi a quelli variegati. 2. Diffusione. – Il suino è altamente diffuso in tutta l’area mediterranea, non solo in Europa ma anche in Africa. Erodoto, nel libro ii delle Historiae, ne parla relativamente all’Egitto dove, sebbene il consumo fosse condizionato da restrizioni sacerdotali, tuttavia la carne suina rientrava nell’alimentazione dei ceti poveri. Varrone (rust. 2, 4, 10-11) ne parla invece come di un animale diffuso ed utilizzato in Iberia e in Gallia : soprattutto in Gallia esso è molto apprezzato, e qui sono state anche rinvenute monete e insegne con l’effigie dell’animale (vd. Mascheroni 1927). Resti di sus scrofa tali da dimostrare un addomesticamento sono stati trovati in Turchia, Siria, Iraq e Iran. Non presente nel mondo orientale sia perché disprezzato come animale sia perché la sua carne non viene utilizzata (Plin. nat. 8, 79), →Eliano (NA 5, 27) rintraccia il suino in Etiopia, ma afferma che esso non è presente in India per ribrezzo verso la sua carne (ib. 16, 37). 3. Utilizzo. – L’utilizzo peculiare del suino nel mondo classico, così come nel mondo moderno, è rivolto all’allevamento. Le carni dell’animale, infatti, sia di quello domestico che di quello selvatico, sono molto apprezzate e ogni parte dell’animale viene mangiata. Inoltre, se per gli altri animali si può ricavare un unico sapore, nel maiale se ne rintracciano fino a 50 (così Plin. nat. 8, 77). Come gli agronomi antichi anche →Aristotele (HA 8, 595a) cita la pratica di ingrassare i suini : quest’ultimo afferma che, dopo aver tenuto l’animale a digiuno per alcuni giorni, lo si deve far ingrassare per i due mesi successivi mentre per →Catone (agr.  







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44) si ingrassa la scrofa al punto che non le è più consentito reggersi in piedi. Cicerone (nat. deor. 2, 160) sostiene, poi, che all’animale sarebbe stato dato il sale al posto dell’anima per conservare meglio le carni. Nell’→agricoltura il maiale ha due ulteriori impieghi : il suo concime trova posto a fianco di altri ma non è abbastanza buono in quanto produce calore e brucia la semente (Geop. 2, 21, 8) ; inoltre sarebbe stato impiegato nella trebbiatura del grano : la fonte erodotea per l’argomento (2, 14), a lungo contestata, troverebbe un riscontro nel Pap. Cair. Zen. 59433, 10-11 ; dai papiri di età tolemaica sembrerebbe altresì diffuso l’impiego del suino per sradicare le radici delle piante palustri e degli arbusti (vd. Thompson 2002). Il suino troverebbe ampio utilizzo nell’età antica anche nei sacrifici tanto che Varrone (r.r. 2, 4, 9) sostiene che il termine u|" deriverebbe dal verbo quei'n « sacrificare », volendo l’autore indicare che si tratta di un animale particolarmente adatto ai sacrifici. In Omero si trova l’utilizzo del suino sia nell’allevamento che come vittima di olocausto offerta a Cibele, Afrodite e Poseidone. Erodoto racconta di suini sacrificati in Egitto a Selene e a Dioniso (Hdt. 2, 47). Dalle tavolette di età micenea siamo a conoscenza che a Cnosso il maiale viene allevato per le sue carni, ma anche come oggetto di sacrificio, mentre per Pilo, data l’esiguità degli esemplari enumerati, si può parlare di un allevamento esclusivamente rivolto a produrre animali per contesti cultuali (vd. Guidi 1990). A Roma, infine, viene sacrificato a Marte, Cerere, Saturno e soprattutto a Maia dal quale il maialis prenderebbe il nome (vd. Burlini 2004). Animale « stupido » per eccellenza, come afferma Plin. nat. 8, 207, è tuttavia uno dei simboli delle legioni e molte famiglie romane prendono il cognome dall’animale, come i Verres e gli Scrofa, o anche il nome, come la gens Porcia. 4. Cura. – Per gli agronomi antichi il suino deve essere allevato in stalletti separati e coperti, tenuti puliti e asciutti, di tre o quattro piedi di altezza, cosicché né i piccoli né la scrofa saltino fuori, ma tali che il porcaio riesca a guardarvi dentro per controllare che le scrofe non schiaccino i piccoli. Gli stalletti sono perlopiù riservati alle scrofe, separate tra loro, ciascuna con i propri nati, per evitare che quelle gravide abortiscano venendo schiacciate. Nel mondo omerico il porcaio Eumeo (Od. 14, 14-108) costruisce stalletti in pietra che sono riservati alle  















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suino

scrofe (Ballarini 1999). Per quanto attiene al nutrimento, il maiale è un animale onnivoro e, preferibilmente, si nutre delle piante dei boschi; laddove queste scarseggino deve essere condotto in zone paludose o in campi coltivati. Particolare cura è riservata alle scrofe gravide o che hanno partorito, alle quali va somministrato dell’orzo cotto. Il maiale soffre la fame, e le scrofe affamate arrivano al punto di mangiare i propri nati (Colum. 7, 11 ; Ael. NA 10, 16) ; il maiale soffre poi moltissimo la sete, per questo è bene, in particolare d’estate, che abbia sempre a disposizione dell’acqua, o che sia condotto in zone paludose o fangose dove esso possa rotolarsi nel fango o nell’acqua per trovare refrigerio dal caldo. Il maiale domestico si distingue dal cinghiale per quanto riguarda la riproduzione : infatti, per il primo, il maschio è in grado di generare dai sei mesi fino ai quattro anni e la femmina dal primo anno fino ai sette anni ; il cinghiale si può riprodurre dal primo anno di vita, e la femmina, a differenza del maiale domestico che partorisce due volte all’anno, ha un solo parto all’anno ; le femmine sono in grado di generare fino a venti piccoli, ma di occuparsi solo di otto (Colum. 7, 9). La monta deve avere luogo in primavera, in  









modo tale che la gestazione, che dura quattro mesi, termini in estate quando i nati possono cibarsi di erbe più salutari. Il rapporto tra scrofe e verri per ogni gregge dovrebbe essere di dieci a uno. Il verro e i cinghiali vengono castrati tramite la privazione dei testicoli : questa pratica viene effettuata per far ingrassare le bestie (Colum. 7, 9-11) ; anche le femmine vengono castrate tramite il ferimento della vulva. Il maiale è un animale che soffre di diverse patologie : le più comuni sono la febbre suina, per la quale il suino piegherebbe la testa da un lato, e per la quale il rimedio consisterebbe nel fare dei salassi all’orecchio (Colum. 7, 10) ; il maiale inoltre può venire affetto da cisti (Arist. HA 8, 603b), altrimenti definite « ghiandole gonfie » del collo da →Columella e da →Virgilio (georg. 3, 495-6), per le quali il rimedio consiste nello strofinare la bocca con del sale misto a grano o a salsa di pesce. I maiali soffrono infine di milza, di dissenteria, di nausea e di infezione ai bronchi.  











Bibliografia. Ballarini 1999 ; Burlini 2004 ; Guidi 1990 ; Mascheroni 1927 ; Thompson 2002.  





Chiara Diomedi



T Tagete. Personaggio della mitologia etrusca, identificato in seguito dai Greci con Ermete ctonio, nato da Genio (divinità italica a volte raffigurata con le sembianze di un serpente) e dalla Terra, fu chiamato Tagete dal contadino che, secondo il mito, mentre arava, lo vide uscire dal solco sotto le sembianze di un bambino, che l’iconografia raffigura spesso con i capelli bianchi, sottolineandone la saggezza. Visse soltanto il tempo necessario per insegnare agli Etruschi l’arte di predire il futuro, [1] scomparendo poche ore dopo la sua miracolosa apparizione. Come per la figura mitica di →Ermete Trismegisto, la tradizione attribuisce a T. la rivelazione di una sapienza le cui norme furono trascritte e raggruppate su tre serie di libri sacri detti Libri tagetici : gli Aruspicini, i Fulgurali e i Rituali, che comprendevano anche i Libri Acherontici. Questa raccolta, che conteneva le norme e le indicazioni per decriptare la volontà del divino ed approntare i relativi rituali, costituì la fonte principale della conoscenza della religione etrusca, basata sull’importanza della divinazione che permetteva di interpretare la volontà degli dei e sulla necessità di istituire precisi rituali per ogni circostanza della vita sia pubblica che privata.  



Note. [1] Lyd. Ost. 3.

di predire fenomeni astronomici conoscendone le cause, come nel caso di un’eclisse di sole (forse quella del 30 settembre 610 o, più probabilmente, quella del 28 maggio 585). [8] Secondo →Plinio, [9] T. avrebbe ricavato la corretta misura dell’altezza di una piramide dalla lunghezza della sua ombra nell’ora in cui essa è pari al corpo che la produce, mentre →Plutarco [10] sostiene che la misurazione sarebbe avvenuta attraverso la comparazione di due triangoli di ombra. →Proclo attribuisce a Talete l’ideazione di diverse dimostrazioni geometriche, dalle quali si ricavano i seguenti enunciati : il diametro è la linea che seca il cerchio a metà ; [11] gli angoli alla base di ogni triangolo isoscele sono uguali ; [12] se due rette si secano tra loro, gli angoli al vertice sono uguali ; [13] due triangoli sono uguali se hanno uguali due angoli ed un lato. [14] Considerata la frammentarietà delle notizie conservate in relazione alla speculazione di T., l’attendibilità delle fonti, che gli attribuiscono i teoremi e gli enunciati, è stata al centro del dibattito critico. [15] T. è anche ricordato come scopritore dell’Orsa Minore [16] e dell’intervallo tra solstizio e solstizio. [17] Diogene Laerzio [18] gli attribuisce anche la misurazione della grandezza di sole e luna in base al diametro delle rispettive orbite, sebbene questa stima, in realtà, sia dovuta ad Aristarco ; secondo una delle versioni riportate da questa stessa fonte, T. sarebbe autore soltanto di due opere, Sul solstizio e Sull’equinozio, e non avrebbe affrontato altri aspetti della conoscenza astronomica ritenendoli inaccessibili alla mente umana (ajkatavlhpta).  



















Bibliografia. Gundel-Gundel 1966, 135 e sg.

Carmelo Lupini Talete. 1. Dati biografici. – Nobile di stirpe tebana divenuto cittadino di Mileto, [1] è annoverato tra i sette sapienti[2] ; le informazioni sulla sua vita e sulla composizione delle opere sono frammentarie. [3] Due episodi significativi della sua vita, la previsione di un’eclisse durante il sesto anno della guerra tra Medi e Lidi e la partecipazione all’attraversamento del fiume Halys con l’esercito di Creso durante una spedizione contro i Persiani, sono riportati da Erodoto, [4] e sulla base di questi avvenimenti si fonda la datazione tra vii e vi sec. a. C. [5] È apprezzato dalle fonti antiche soprattutto come cultore di scienze matematiche e fisiche :[6] gli sono, infatti, attribuiti la definizione di numero come monavdwn suvsthma, il merito di aver utilizzato per primo il concetto di ajrchv, in particolare riferendolo all’acqua, [7] la capacità  











Note. [1] Diog. Laert.1,22. – [2] Vd. Pl. Prot. 343 a. – [3] Fonti su T. e frammenti della sua opera in Diels-Kranz 1951-1952, I [11], 67-81 . – [4] Vd. Hdt. 1,74,2 ; 1, 75, 3-5. – [5] Sulla collocazione cronologica di T. vd. Zeller-Mondolfo 1950, 102-104 . – [6] Vd. Agazzi 1984, 32-50. – [7]Vd. Arist. Metaph. 1, 3, 983b ; Galli 1963, 13-20. – [8] Vd. Hdt. 1, 74 ; Diog. Laert. 1, 23 ; Theo Sm. Expos. 14-18 H. – [9] Vd. Plin. nat. 36, 82. – [10] Vd. Plu. sept. sap. conv. 147A. – [11]Vd. Procl. In Euclid. 1, 157, 10-11 F. – [12] Vd. Procl. In Euclid.1, 250, 20-251,2 F. – [13] Vd. Procl. In Euclid. 1, 299, 1-5 F. – [14] Vd. Procl. In Euclid. 1, 352, 14-18 F. ; Enriques-Amaldi 1992, 211-215 . – [15] Vd. Dicks 1959. – [16] Vd. Call. Iamb.fr. 191, 51-53 Pf. ; Diog. Laert. 1, 23-24. – [17] Diog. Laert. 1, 2324 ; Theo Sm. Expos. 14-18 H. – [18] Diog. Laert. 1, 23-24.  













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Bibliografia. Acerbi 2007b ; Agazzi 1984 ; Bowen-Goldstein 1994 ; Bretschneider 1870 ; Burkert 2008 ; De Santillana 1961 ; Dicks 1959 ; Diels-Kranz 1951-1952 ; Enriques-Amaldi 1992 ; Frajese 1951 ; Frajese-Maccioni 1970 ; Galli 1963 ; Graham 2006 ; Hartner 1969 ; Heath 1981 ; KirkRaven-Schofield 1983 ; Laurenti 1971 ; Lebedev 1990 ; Marcacci 2004a ; Marcacci 2008 ; McKirahan 1994 ; Mosshammer 1981 ; Neugebauer 1974 ; O’Grady 2002 ; Panchenko 1993 ; Panchenko 1994 ; Rossetti 1984 ; Rossetti 2008e ; Sambursky 1967 ; Tannery 1887 ; Tannery 1888 ; Tezas 1990 ; White 2008 ; Wright 1995 ; Zeller-Mondolfo 1938 ; Zeller-Mondolfo 1950.  































































Livia Radici 2. La fortuna di Talete. – Il nome di T. risulta incluso nella lista dei Sette Sapienti (Pl. Prot. 343a), ed incluso in una posizione di rilievo da quanto racconta Diogene Laerzio (1, 22) : sembra infatti che nel 582-581 la città di Atene abbia conferito al Milesio il titolo di sophos, sotto l’arcontato di Damasio, tanto da stabilire la consuetudine che portò al canone dei Sette. La notizia, sistematicamente trascurata o comunque non giustamente evidenziata (ma vd. Mosshammer 1976), è sintomatica rispetto a T., che aveva predetto l’eclisse del 585, sulla quale si dirà in seguito, e che probabilmente aveva visto accrescere la sua fama (→filosofia, nota 1). Riferimenti a T. figurano inoltre in Senofane (ca. 570-480), Eraclito (ca. 540-480), Democrito (ca. 460-360). Da tralasciare è invece l’indicazione di Flegonte di Tralle (Suid. s. v. [da Esichio] =11A12 D.-K.), e che dichiara il Milesio celebre nella settima olimpiade (752-749 a.C.) : forse confonde il nostro T. con qualche omonimo o vuole invece abbreviare intendendo la trentasettesima olimpiade (632-629 a.C.). Pure degna di nota è la storia dell’ammirazione di Mandrolito di Priene per la misurazione dell’ampiezza angolare del sole (11A19 D.-K., da Apuleio). L’immagine di T. ha risentito profondamente dell’impostazione data da →Aristotele nel celebre resoconto svolto in Metafisica 1, 3, 983b 6-984a 5 (Thal. 11A12 D.-K.), dove l’immagine del filosofo si organizza attorno all’idea dell’acqua come archē :[19] di seguito sono molteplici, ma non eccessive nel numero, le testimonianze che seguono queste indicazioni. Di tutt’altro  





Flavia Marcacci







impatto è la figura del Milesio se andiamo a ricollezionare l’insieme delle fonti e distinguere in esse diversi ambiti disciplinari, estremamente interessanti in vista di una ricostruzione dei contenuti tecnico-scientifici del pensiero di vi-v secolo.

3. Il multiforme sapere di Talete. – Non è facile inquadrare il sapere legato alla figura di T. perché egli sembra essersi occupato di moltissime cose diverse, dall’archē alla misurazione dell’altezza delle piramidi, dalla previsione delle eclissi alla formulazione di alcune proposizioni matematiche, dalla misurazione dell’ampiezza angolare del sole alle massime sapienziali ai riferimenti al mondo divino, il tutto in un’epoca in cui ancora non si aveva idea delle specializzazioni disciplinari. Grande, pertanto, è il rischio di selezionare un limitato gruppo di emergenze documentate non perché più rappresentative ma perché rispondono alle esigenze conoscitive di particolari discipline. Così i filosofi trovano naturale concentrarsi sulla nozione di archē, i matematici sui ‘proto-teoremi’, i cultori di storia dell’astronomia sulla predizione dell’eclissi, e così via. Stante la difficoltà di individuare un filo conduttore obiettivo, è di aiuto la rilevazione delle molte misurazioni alle quali T. si è dedicato con particolare acribia e creatività, tanto più che nessuno degli altri sophoi di Mileto risulta essersi dedicato all’effettuazione di analoghi accertamenti quantitativi credibili. Pure degna di particolare nota è la sua rilevazione di almeno due irregolarità nei tempi dei fenomeni ‘celesti’ e la propensione a ravvisare in essi dei problemi, ossia qualcosa di deviante rispetto alle attese e, perciò, sorprendente. Il sapere di T. sembra inoltre distinguersi per essersi affermato, appunto, come un sapere e una forma molto speciale di eccellenza, facilmente distinguibile dalla produzione di massime sapienziali. La sua indiscussa fama anche tra i contemporanei induce inoltre a pensare che T. abbia contribuito non poco a creare sia un clima di attenzione per le scoperte più o meno strabilianti che a lui si dovettero, sia un gruppo di studiosi in grado di dare un degno seguito alla sua opera di apripista. Livio Rossetti

talete 4. Talete studioso dei fenomeni naturali. – Non serve elencare i numerosi passaggi nei quali i testimoni riportati nel Diels-Kranz sostengono un interesse significativo di T. per i fenomeni naturali, celesti (in quanto ta; metevwra ovvero tutto ciò che accade nel cielo) e terrestri. Tanto più che le fonti (Plu. De Pyth. Or. 18, 402E = fr. B1 D.-K. ; Schol. Arat. 172 p. 369, 24 = fr. B2 D.-K. ; Diog. Laert. 1, 23 = fr. B4 D.-K. ; Simp. Phys. 23.29) attribuiscono a T. la composizione di opere dal titolo Sull’equinozio, Sul solstizio e Astrologia nautica : notizie che possono anche non essere attendibili (le stesse testimonianze esprimono un certo grado di perplessità), ma è pur sempre significativo che a T. vengano associati argomenti siffatti. Da qui probabilmente deriva addirittura il famoso episodio della caduta nel pozzo, avvenuta allorquando era intento all’osservazione del cielo e per cui una servetta tracia lo avrebbe deriso per il fatto di osservare le stelle senza sapere neanche osservare la strada dove camminare (Pl. Theaet. 174a = 11A9 D.-K.). Provando però ad identificare questi interessi in maniera più particolareggiata, emergono notizie decisamente interessanti circa le ricerche che il Milesio dovette compiere intorno ad astri, stagioni, solstizi, equinozi, attorno alle fasi lunari e alle eclissi di sole e luna, intorno alla terra e alle cause di alcuni fenomeni. Ad esempio sembra che sia stato T. ad identificare la costellazione dell’Orsa minore, introducendo in Grecia il riferimento alla Stella polare in navigazione (Call. Iamb. [fr. 94 + Pap. Oxy. vii 33] = 11A3a D.-K. ; Diog. Laert. 1, 23 = 11A1 D.-K. ; Schol. in Plat. Remp. 600a = 11A3 D.-K.). T. avrebbe anche determinato il tramonto mattutino delle Pleiadi (Plin. nat. 18,213 = 11A18 D.-K.). Maggiore fatica avrebbe destinato allo studio di equinozi e solstizi, individuandone i periodi o addirittura tentandone una spiegazione (Suid. s.v. = 11A2 D.-K.). Un altro ambito di forte interesse deve essere stato l’osservazione della Luna e delle sue fasi, attestato da riferimenti disseminati in tutto il corpus di testimonianze raccolto da Diels e Kranz : fonte ulteriore è anche P. Oxy. 3710 coll. 2, 33-3, 19 (Od. 20, 156) che riporta la notizia per cui T. avrebbe compreso il ruolo determinante della luna nell’eclissi di sole (« …T. ha detto che il Sole è eclissato quando la Luna si trova davanti ad esso… »). Questa ulteriore determinazione  

















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conforta un’altra serie di testimonianze che alludevano più vagamente al tentativo di Talete di spiegare il fenomeno della eclissi di sole e addirittura di prevederla (molte attestazioni a partire da Hdt. 1, 74, 2), probabilmente intorno all’anno 585 a.C. Senza entrare nei dettagli che la questione solleva, estremamente numerosi e di notevole complessità, [20] è essenziale osservare che questa collezione numerosa di rimandi ad una qualche ‘coscienza’ scientifica di T., crea un contesto nel quale inserire altre sparute informazioni relative alla divisione in 365 giorni (Diog. Laert. 1, 27 = 11A1 D.-K.) o alla grandezza del sole (di cui si è detto sopra) e simili, senza privarle di valore ma, al contrario, potendo intuire che il Milesio si era probabilmente dato una certa idea di ‘cosmo’ entro il quale assumere ragionevolmente la fatica di certe sue ricerche.  

Flavia Marcacci 5. Talete misuratore di fenomeni ‘celesti’. – Occupiamoci ora di specifiche misurazioni tentate da T., limitatamente alla sfera cosmologicoastronomica. Mentre sappiamo che egli ha ‘studiato’ Pleiadi, Iadi e, soprattutto, Orsa minore, si parla di misurazioni nel caso di ampiezza angolare del sole, durata dell’anno, durata del semestre tra solstizio e solstizio, eclissi di sole e durata del novilunio. Sulla misurazione dell’ampiezza del disco solare ci è stata tramandata (in Diog. Laert. 1, 24) una quantificazione di speciale interesse non solo perché la misura di mezzo grado (1/720) si avvicina in modo impressionante alle quantificazioni offerte dalla moderna astronomia (circa 31’) e a causa dell’ammirazione che avrebbe suscitato in Mandrolito, ma anche perché la notizia sembra avere un suo impensato riscontro in →Eraclito allorché questi si compiace di affermare che l’ampiezza apparente del disco solare corrisponde all’ampiezza dei nostri piedi. [21] Se Eraclito non fosse stato a conoscenza di ricerche volte a stabilire quanto è ampio il disco solare e del successo arriso per questo a T., difficilmente avrebbe potuto pensare al piede come strumento empirico e alternativo per la misurazione. È pertanto verosimile non solo che egli intenda irridere la ‘scoperta’ di T. (con cui risulta essersi confrontato anche a proposito del novilunio), ma anche che la misurazione sia avvenuta e abbia fatto notizia. Sul modo di  

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effettuare una simile misurazione vd. la voce →cosmologia. Sulla durata dell’anno, T. è accreditato di un altro numero memorabile : 365. [22] Si presume che per questo dato egli abbia effettuato ricerche personali (fondate sull’accurata comparazione dei punti dell’orizzonte in cui il sole sorge e tramonta in date diverse : astronomia orizzontale) a partire da informazioni non troppo vaghe sulle misurazioni accreditate dai sapienti babilonesi. Di maggior rilievo è però la rilevazione della ineguale durata dei semestri da solstizio a solstizio (11A17 D.-K., da Teone di Smirne) perché si tratta di una rarissima asimmetria nei rapporti terra-sole. Anche la previsione dell’eclissi costituisce una forma di attenzione per altre asimmetrie cosmiche, ma soprattutto una memorabile sfida nel tentativo di penetrare i ‘segreti del cielo’. La notizia compare in Erodoto (1, 74, 2, più volte ripresa da autori antichi = 11A5 D.-K.). Ci si chiede da sempre se la notizia possa avere qualche fondamento e come la si possa eventualmente spiegare. Un buon argomento per non dubitare del fatto è la durevole propensione dell’opinione pubblica greca a vivere l’eclissi come un fenomeno straordinario e, per definizione, destabilizzante, quindi come un messaggio divino (così interpretarono, notoriamente, anche alcuni strateghi ateniesi durante la guerra del Peloponneso : Plu. Nic. 23). Ciò costituisce un buon indizio per pensare che l’idea di previsione fosse loro estranea e che non sarebbe loro mai venuto in mente di inventare una storia del genere. Quanto alla natura della previsione, pur nel permanere di tenaci divisioni tra gli studiosi, si distingue l’ipotesi che T. abbia potuto affermare che il fenomeno si sarebbe verificato durante il novilunio, il che equivaleva a individuare le sole tredici occorrenze possibili, e con ciò a escludere ben 352 giorni su 365. Ulteriori approfondimenti in →cosmologia 2.1. Quanto poi alla durata del novilunio, un papiro di Ossirinco (P. Oxy. 3710, pubblicato nel 1986, su cui vd. Mouraviev 2002, 229-242) riferisce che T. rilevò l’irregolare durata delle neomēniai (espresse in numero di notti senza luna), mentre Eraclito avrebbe fatto osservare che l’irregolarità non incide sulla durata complessiva del mese lunare. Ciò significa che, in questo caso, T. registrò e segnalò l’impossibilità di quantificare la durata del novilunio. Si direbbe che T. abbia letteralmente introdotto  



in Grecia una speciale attenzione per l’esattezza delle misurazioni. Quel che più conta, le sue misurazioni si prestavano ad essere ripetute, verificate, assestate con l’apporto di allievi e collaboratori, così da dar luogo a un sapere condiviso. Livio Rossetti





6. Talete matematico. – Un interesse piuttosto generale di T. per le discipline matematiche è attestato da →Proclo (In Eucl. 65, 3 = 11A11 D.K.) allorché fa presente che il Milesio importò nella sua terra le conoscenze possedute dal popolo egizio. Si può però notare una specifica attitudine di T. nella rappresentazione grafica di forme geometriche : così leggiamo in Callimaco (fr. 191 Pf. = 11A3a D.-K.), Diogene Laerzio (1, 25 = 11A1 D.-K.) ed Erodoto (1, 75 = 11A6 D.-K.). Più in particolare, il nome di T. è legato tradizionalmente a cinque proposizioni di contenuto geometrico : (1) il cerchio è dimezzato dal suo diametro (Procl. In Eucl. 157, 10 [da Eudemo] = 11A20 D.-K.), (2) gli angoli alla base del triangolo isoscele sono uguali (Procl. In Eucl. 250,20 = 11A20 D.-K.) ; (3) due rette che si tagliano determinano angoli opposti al vertice congruenti (Procl. In Eucl. 299,1 [da Eudemo] = 11A20 D.-K.) ; (4) triangoli che hanno un lato e gli angoli adiacenti uguali sono uguali (Procl. In Eucl. 352,14 [da Eudemo] = 11A20 D.-K.) ; (5) l’angolo in una semicirconferenza è retto (Diog. Laert. 1,24 [da Pamfila] = 11A1 D.-K.). Si tratta di proposizioni che si rintracciano tutte negli Elementi di →Euclide, rispettivamente alla definizione 1,17 per la proposizione (1), alla proposizione 1,5 per la (2), alla proposizione 1,15 per la (3), alla proposizione 1,26 per la (4) e alla proposizione 3,31 per la (5). Con ciò mancano dati rilevanti per decidere quanto T. ne avesse dato una elaborazione astratta e cosciente. Probabilmente si trattava di semplici intuizioni, o di revisioni di conoscenze di geometria provenienti dall’Oriente. Circa la notazione ‘teorema di T.’ è caso quanto mai particolare che solo in Italia ad essa corrisponda il teorema delle parallele tagliate da una trasversale (cfr. Euc. 1, 27-30). Se infatti è plausibile che tale teorema possa essere stato usato da T. nella risoluzione del problema della piramide di cui si dirà tra breve, nulla ci dice che sia stato proprio il Milesio ad elaborarlo. Probabilmente gli fu attribuito ad honorem, tra  









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la fine del xix e gli inizi del xx secolo in Italia ; ne può essere prova che nei paesi anglosassoni con ‘teorema di T.’ si intitola il teorema (5) di cui sopra. In ogni caso indizi più sicuri circa l’interesse per la geometria si trovano allorché leggiamo che T. tentò di risolvere problemi pratici riducibili a problemi di geometria piana e solida : il calcolo dell’altezza di una piramide, altezza di per sé inaccessibile, mediante la misurazione della sua ombra nel momento in cui essa è pari all’altezza dei corpi (Diog. Laert. 1, 27 = 11A1 D.-K., Plin. nat. 36, 82 = 11A21 D.-K., Plu. Conv. vii sap. 2 = 11A20 D.-K.) e il calcolo della misura della distanza delle navi dalla riva, grandezza questa ugualmente inaccessibile (Procl. ad Eucl. 352, 14-18 = 11A20 D.-K.). Volendo si potrebbe anche aggiungere il calcolo del diametro angolare del sole (Schol. in Pl. Resp. 600A [da Esichio] = 11A3 D.-K. ; Apul. Flor. 18 = 11A19 D.-K. ; Diog. Laert. 1, 24 = 11A1 D.-K.), misurazione lineare indiretta, che però potrebbe presupporre ulteriori conoscenze astronomiche. Circa i metodi di misurazione abbiamo ben poche informazioni e ci si è sempre mossi per ricostruzioni. Qualche notizia in più si ha relativamente al calcolo dell’altezza della piramide : →Plinio, infatti, parla di una misurazione diretta dell’ombra. Più complesso è il ragionamento allorché lo stesso Plinio sostiene che il problema fu risolto impostando una proporzione tra altezza ed ombra della piramide e altezza ed ombra di un oggetto di riferimento. Questo secondo caso è più dubbio : la tradizione interpretativa fa risalire ad →Eudosso l’invenzione e la sistemazione del concetto di ‘proporzione’ ; inoltre, nella misurazione che si sta considerando, probabilmente il ricorso alla proporzione farebbe peccare la dimostrazione di sovrabbondanza teorica. Ribadiamo, in ogni caso, che ci muoviamo nel terreno argilloso delle presupposizioni. Può essere significativo notare, infine, che tra i pensatori ionici T. fu l’unico espressamente interessato a problemi di natura matematica. Se è noto, infatti, che la dottrina del principio fu interpretata e ridiscussa almeno da →Anassimandro e →Anassimene, altrettanto non può dirsi dei contenuti matematici. Di questi pensatori c’è da segnalare semmai quanto segue : Anassimandro potrebbe avere avuto una certa dimestichezza con figure solidi e rapporti quando va a calcolare le dimensioni reciproche delle  















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sfere degli astri e della terra (2A21-22 D.-K.), tanto più se avesse composto un trattato dal titolo La sfera (12A2 D.-K.), mentre quando si interpreta il termine apeiron come ‘infinito’ ne è impraticabile l’interpretazione matematica ; nulla di specifico emerge sul conto di Anassimene. Non abbiamo fonti, infine, che ci informano se si interessò alla matematica di T. quel Mandrolito da Priene (11A19 D.-K.), del quale si conosce solo il nome.  

Flavia Marcacci Note. [1] Vd. Diog. Laert. 1, 22. – [2] Vd. Pl. Prot. 343a. – [3] Fonti su T. e frammenti della sua opera in Diels-Kranz 1951 i, 11, 67-81. – [4] Vd. Hdt. 1, 74, 2 ; 1, 75, 3-5. – [5] Sulla collocazione cronologica di T. vd. Zeller-Mondolfo 1950, 102-104. – [6] Vd. Agazzi 1984, 32-50. – [7] Vd. Arist. Met. 1, 3, 983b ; Galli 1963, 13-20 – [8] Vd. Hdt. 1, 74 ; Diog. Laert. 1, 23-4 ; Theo Smyrn. Expos. 14-18. – [9] Vd. Plin. nat. 36, 82. – [10] Vd. Plu. Conv. vii sap. 2, 147a. – [11] Vd. Procl. In Euclid. 1, 157, 10-11. – [12] Vd. Procl. In Euclid. 1, 250, 20, 251, 2. – [13] Vd. Procl. In Euclid. 1, 299, 1-5. – [14] Vd. Procl. In Euclid. 1, 352, 14-18 ; Enriques-Amaldi 1992, 211-5. – [15] Vd. Dicks 1959, 294-309. – [16] Vd. Call. fr. 191, 51-53 Pf. ; Diog. Laert. 1, 23-24. – [17] Vd. Diog. Laert. 1, 23-24 ; Theo Smyrn. Expos. 14-18. – [18] Vd. Diog. Laert. 1, 23-24. – [19] Cfr. Marcacci 2004a. – [20] Bowen-Goldstein 1994 ; Mosshammer 1981 ; Panchenko 1994 ; Stephenson-Fatoohi 1997 ; Mouraviev 1992. – [21] Il riferimento sole-piede compare non soltanto in Sesto Empirico (11A3 D.K.), ma anche nel Papiro di Derveni, col. 4. Per dare un senso plausibile alla frase di Eraclito è sufficiente ipotizzare che l’osservatore stia sdraiato e sollevi il proprio piede, ponendolo di fronte al disco solare. Per l’integrazione delle due fonti e la letteratura di settore vd. Mouraviev 2008, 9 sg. – [22] Diog. Laert. 1, 22. – [23] Cfr. Procissi 1984.  





















Bibliografia. Acerbi 2007b ; Agazzi 1984 ; Bowen-Goldstein 1994 ; Bretschneider 1988 ; Burkert 2008 ; De Santillana 1961 ; Dicks 1959 ; Diels-Krantz 1952 ; Enriques-Amaldi 1992 ; Frajese 1951 ; Frajese-Maccioni 1970 ;Graham 1997 ; Graham 2006 ; Hartner 1969 ; Heath 1981 ; Kirk-Raven-Schofield 1983 ; Laurenti 1971 ; Lebedev 1990 ; Loria 1914; Marcacci 2004a ; Marcacci 2009a ; Marcacci 2009b ; McKirahan 1994 ; Moscarelli 2005 ; Mosshammer 1976 ; Mosshammer 1981 ; Neugebauer 1974 ; O’Grady 2002 ; Panchenko 1993 ; Panchenko 1994 ; Rossetti 1984 ; Rossetti 1998 ; Sambursky 1967 ; Tannery 1887 ; Tannery 1888 ; Tezas 1990 ; Van der Waerden 1974; White 2008 ; Wöhrle 2009 ; Wright 1995 ;  











































































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Zeller-Mondolfo 1938 ; Zeller-Mondolfo 1950.  

Teeteto. 1. Generalità. – Insigne matematico ateniese, T. è nato dopo il 420 a.C. e deceduto in battaglia nel 369 a.C. (per inferenza sulla base di Pl. Thaet. 142a) e trattato con grande considerazione da →Platone nel dialogo che porta il suo nome. I contributi più significativi apportati da T. in campo matematico possono essere raggruppati nella trattazione degli irrazionali, nella definizione dei cinque solidi regolari e nella probabile formulazione di una teoria delle proporzioni. I brillanti risultati conseguiti furono largamente assimilati da →Euclide negli Elementi, opera nella quale tuttavia è occultato qualsiasi riferimento agli autori dei singoli contenuti, conformemente ad un principio di omogeneità e uniformità, adottato dall’estensore nella costruzione dell’edificio matematico. Acquistano pertanto grande valore nel lavoro di ricostruzione delle biografie scientifiche di T. e degli eminenti matematici dell’→Accademia le annotazioni, spesso accidentali, riportate nei testi dei contemporanei e le notizie sporadiche tramandate dai dossografi. Esse permettono di semplificare l’arduo compito di delineare l’evoluzione dei procedimenti matematici, individuandone i differenti stadi progressivamente sedimentatisi negli Elementi. Il nome di T. è strettamente posto in relazione al libro x degli Elementi da →Pappo di Alessandria, il quale ha dedicato al testo di Euclide un apposito commentario, pervenuto nella versione araba. Scopo del libro x degli Elementi è investigare le proprietà delle grandezze razionali e irrazionali. Storicamente il settore di ricerca rappresentato dallo studio delle quantità commensurabili e incommensurabili, in cui i Pitagorici effettuarono per primi alcune investigazioni, subì un notevole incremento grazie all’opera di T. Questi, annota Pappo, selezionò con precisione ciascun gruppo di quantità irrazionali e definì le proprietà ad essi relative fornendo prove incontrovertibili. In tal modo fu condotta una generale sistemazione della teoria degli irrazionali (Eudem. Hist. geom. ap. Papp. In x Eucl. Elem. [uersio araba] 1, 1, p. 63 = Fr. 3 D 3 Lasserre). Il lavoro svolto dovette essere così durevole da non temere confronti con le opere dei successori e così profondo da suscitare l’ammirazione dei contemporanei, compreso Platone, il quale intitolò a T. uno

scritto, forse per suggellare la grande stima che nutriva nei suoi confronti. 2. Le grandezze irrazionali. – Proprio il testo platonico, in cui è inscenato un colloquio fittizio tra Teodoro, Socrate e T., ha preservato una traccia verosimilmente attendibile, sebbene non esente da difficoltà interpretative, del procedimento adottato nella classificazione delle grandezze irrazionali. Il dialogo contiene, nella parte iniziale, una sezione in cui vengono illustrati il metodo adottato dal matematico Teodoro nell’enumerazione di alcune grandezze incommensurabili e il tentativo di definizione generale delle stesse, condotto da T. in collaborazione con il il giovane Socrate. Teodoro aveva mostrato ai suoi allievi, tra cui T., alcune costruzioni geometriche riguardanti le «potenze» (dunavmei"), vale a dire quelle grandezze equivalenti a numeri che diventano interi solo se elevati al quadrato e corrispondono alle radici quadrate secondo una denominazione estranea alla matematica classica. La trattazione di queste grandezze non poteva essere condotta numericamente, poiché esse esulavano dal campo dei numeri naturali che definiva rigidamente l’ambito di operatività dell’aritmetica greca. Gli irrazionali erano pertanto affrontati esclusivamente attraverso rappresentazione grafica. Teodoro partiva dalla constatazione che la potenza (= radice quadrata) di tre piedi e la potenza di cinque piedi non sono commensurabili in lunghezza con la potenza di un piede. In altre parole egli mostrava che i lati dei quadrati aventi rispettivamente area pari a tre piedi quadrati e a cinque piedi quadrati non sono commensurabili in lunghezza con il lato del quadrato di area pari ad un piede, assunto come unità di misura. Teodoro proseguiva nell’applicazione dello stesso procedimento allo scopo di selezionare altre potenze, fermandosi a quella di diciassette piedi. T. e Socrate il giovane, prendendo atto che l’enumerazione, intrapresa da Teodoro, poteva essere condotta all’infinito, perseguirono il tentativo di raccogliere tutte le potenze sotto un’unica denominazione, in modo da fornirne una caratterizzazione generale. Essi procedettero dividendo tutti i numeri in due gruppi : nel primo inserirono quelli generati dal prodotto di due fattori uguali, definendoli ‘numeri quadrati’ o ‘equilateri’, poiché graficamente rappresentabili con il quadrato ; nel secondo posero quelli risultanti dal prodotto di due fattori differenti, identificandoli come ‘numeri rettangoli’, in quanto  



teeteto geometricamente corrispondenti alla figura del rettangolo, la quale è appunto delimitata da lati disuguali. Infine denominarono ‘lunghezza’ ogni linea che quadra (tetragwnivzei) un numero quadrato od equilatero e chiamarono ‘potenza’ ogni linea che quadra un numero rettangolo. Una potenza quindi corrisponde al lato di un quadrato avente superficie espressa da un numero rettangolo ed è pertanto incommensurabile in lunghezza (Pl. Theaet. 147c-148b = fr. 3 D 1 Lasserre). La definizione proposta suscita qualche esitazione, dal momento che non risulta applicabile anche al caso della potenza di un piede, che pure Teodoro aveva esplicitamente preso in esame. La perplessità sembra destinata ad accrescersi anche alla luce dell’uso del vocabolo fatto da Pappo, il quale impiega la parola «potenza» per indicare grandezze sia incommensurabili sia commensurabili, ascrivendone la distinzione tra i principali meriti di T. (Eudem. Hist. geom. ap. Papp. In x Eucl. Elem. 1, 1, p. 63 = fr. 3 D 3 Lasserre). L’oscillazione semantica del termine sembra documentare la coesistenza tra un senso generale del vocabolo «potenza», inteso probabilmente come lato di un quadrato avente superficie equivalente ad un numero intero, come suggerisce il Müller (1997, 280), e un significato più ristretto e preciso espresso nella conclusione della sezione matematica del Teeteto, quasi a voler sancire anche linguisticamente la separazione teorica tra quantità razionali e irrazionali operata dal matematico ateniese. Sebbene →Platone collochi la riflessione di T. in un contesto puramente aritmo-geometrico, ulteriori testimonianze non tralasciano il ruolo decisivo della scienza armonica quale sfondo culturale della trattazione degli irrazionali. In primo luogo Pappo, sulla scorta del racconto di Eudemo, sostiene che T. ripartì secondo i differenti medi le tre linee irrazionali maggiormente note, cioè la mediale, la binomiale e l’apotoma, rispettivamente tra la geometria, l’aritmetica e l’armonica (fr. 3 D 3 Lasserre). Il matematico ateniese, riferisce sempre Pappo, assunse due linee commensurabili al quadrato allo scopo di provare che, se si pone tra di esse una linea in un rapporto di proporzione geometrica, si ottiene la mediale, mentre se si inserisce una linea in proporzione aritmetica si ottiene la binomiale e infine, se si pone una linea in proporzione armonica, si ottiene l’apotoma (Papp. In x Eucl. Elem. 2, 17 = fr. 3 D 4 Lasserre). Uno scolio al teorema eucli-

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deo 10, 9 suggerisce un punto di raccordo fra il resoconto riportato nel Teeteto e la più articolata manipolazione degli irrazionali descritta da Pappo. Secondo lo scoliaste il resoconto platonico rappresenta una versione particolare del più generale teorema 10, 9 degli Elementi, attribuito a T., in cui sono esplicitate le condizioni di commensurabilità di un medio geometrico tra due linee rette (Procl. schol. 62 ad loc., p. 450 Heiberg = fr. 3 D 20 Lasserre). Sembrerebbe dunque plausibile ipotizzare che T. abbia perseguito più in generale la ricerca della commensurabilità del medio geometrico, del medio aritmetico e del medio armonico fra linee commensurabili e la successiva verifica della commensurabilità di ciascun medio con le rispettive linee di partenza. La formulazione della teoria degli irrazionali potrebbe essere stata indotta dallo studio della geometria solida, condensata da Euclide nel libro xiii degli Elementi. Non a caso la caratterizzazione della binomiale e soprattutto dell’apotoma trova la sua utilità nella costruzione di alcuni solidi. Alcune perplessità in merito all’assegnazione a T. di una trattazione ampia e generale delle quantità irrazionali sono state recentemente sollevate da Nails (2002, 274-278). La studiosa, facendo riferimento a questioni di carattere puramente cronologico e biografico, pone in dubbio il contributo di T. all’avanzamento della teoria delle grandezze incommensurabili e ipotizza un lavoro collettivo sugli irrazionali condotto dai matematici operanti nell’Accademia, ridimensionando la figura di T., la cui rilevanza sarebbe più il risultato di una costruzione letteraria che di un’effettiva opera condotta singolarmente dal matematico. La studiosa assume così una posizione isolata rispetto agli storici contemporanei della scienza greca, i quali al contrario trovano largamente attendibili le testimonianze di Platone e di →Eudemo, su cui si basano le tradizionali ricostruzioni, da lei revocate in dubbio. Nella Suda viene riconosciuto a T. il merito di aver costruito per primo i cosiddetti cinque solidi regolari (Hesych. Miles. in Sud. Q 93 = 3 D 30 Lasserre). L’attribuzione trova in parte riscontro in uno scolio al libro xiii degli Elementi, testo consacrato da Euclide alla trattazione delle cinque figure chiamate ‘platoniche’ [→solidi speciali]. La particolare denominazione, precisa lo scoliaste, trae origine dalla menzione dei cinque solidi nel Timeo (53c-55c), sebbene la loro descrizione non sia stata condotta

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da Platone. Tre di essi, la piramide, il cubo e il dodecaedro, furono costruiti dai Pitagorici, mentre i restanti due, l’ottaedro e l’icosaedro, risalgono a T. Ad Euclide infine spetta la paternità del lavoro di sistemazione in elementi di questa sezione della geometria solida (Schol. Eucl. 13, 1, p. 654 Heiberg, Eucl. op. 5 = fr. 3 D 37 Lasserre). Proclo, al contrario, riconosce esclusivamente a →Pitagora la scoperta dei cinque solidi, senza fare alcun riferimento a T. (Procl. in Eucl. 65-66). La scarsa attendibilità della notizia tramandata da Proclo indirizza ad una più attenta valutazione dei resoconti riportati nelle altre due testimonianze. In modo plausibile si può ipotizzare, in linea con la Suda, che T. fu il primo a fornire una definizione complessiva dei cinque solidi, tre dei quali erano stati precedentemente identificati dai Pitagorici, come riportato nello scolio. L’originalità del lavoro di T. consisterebbe allora sia nell’introduzione dell’ottaedro e dell’icosaedro in campo geometrico sia nella trattazione generale della geometria solida. 4. La teoria delle proporzioni. – L’ipotesi di una formulazione, da parte di T., di una prima teoria delle proporzioni si fonda su alcune considerazioni altamente speculative, difficilmente supportabili da effettivi riscontri documentari. Punto di partenza della congettura è la constatazione della coesistenza nel corpo degli Elementi di tre differenti trattazioni della proporzionalità : la prima, contenuta nel libro v ed attribuita tradizionalmente al matematico →Eudosso, riguarda le grandezze ; la seconda, adottata nel libro vii, fa riferimento ad una definizione di proporzionalità valida per i numeri ; la terza, presente nell’esposizione dei teoremi 5-8 del libro x, introduce alcune proporzioni valide sia per i numeri sia per le grandezze. Quest’ultima trattazione si presenta come indipendente rispetto alle altre due, poiché il libro v e il libro vii tralasciano rispettivamente lo studio di proporzioni numeriche e la considerazione di grandezze incommensurabili, congiuntamente oggetti del libro x. A chiarire le origini del procedimento adottato nel libro x si può richiamare un passo di →Aristotele, contenuto nei Topici, a proposito del concetto di definizione. Lo Stagirita, nel sottolineare l’importanza della definizione nel facilitare la dimostrazione delle proposizioni matematiche, fa riferimento al caso di una retta che, tracciata parallelamente ad un lato di un parallelogramma, divide in modo simile il lato  





e la superficie della figura. Per comprendere la proprietà illustrata, conclude Aristotele, è necessario conoscere la definizione di proporzionalità : oggetti che sono nello stesso rapporto hanno la stessa ajntanaivresi", cioè subiscono la medesima sottrazione reciproca (Arist. Top. 8, 3, 158b 24-35 = cfr. fr. 3 D 14a Lasserre). Alessandro di Afrodisia, nel commentare il passo in questione, ripropone la nozione di proporzionalità adottata dai matematici ed assunta da Aristotele : sono reciprocamente proporzionali le grandezze che hanno la stessa ajnqufaivresi". Il commentatore precisa che Aristotele adotta il termine ajntanaivresi" in luogo di ajnqufaivresi" (Alex. Aphr. in Arist. top. p. 545 Wallies = fr. 3 D 14b Lasserre). Entrambi i vocaboli designano il metodo dell’antiferesi, consistente nell’operare ripetute sottrazioni tra due grandezze omogenee : in un primo momento si assume la grandezza più piccola come unità di misura della più grande, successivamente si prende ciò che resta della più grande per misurare la grandezza precedentemente scelta come unità e si procede così fino ad esaurire ogni resto. Il procedimento costituisce il nucleo di una antica teoria delle proporzioni, probabilmente cronologicamente anteriore a quella formulata da Eudosso, nota anch’essa ad Aristotele, e distinta dalla dottrina di impostazione pitagorica. Si potrebbe allora in modo plausibile accreditare a T. la paternità della definizione della proporzionalità fondata sull’antiferesi. Sebbene l’idea trovi consenso tra gli studiosi, essa sembra destinata a restare una supposizione, in quanto difficilmente verificabile.  





Edizioni. Lasserre 1987. Bibliografia. Becker 1936a ; Becker 1936b ; Burnyeat 1978 ; Hellweg 1994 ; Knorr 1975 ; Knorr 1978 ; Müller 1981 ; Müller 1997 ; Nails 2002 ; Thesleff 1990.  

















Piero Tarantino Temisone di Laodicea. Le fonti ce lo tramandano come auditor [1] e prosecutore di →Asclepiade di Prusa, dalle cui teorie prese in seguito le distanze, sebbene dal punto di vista dottrinale i rapporti tra i due non siano del tutto chiari, visto soprattutto lo stato di conservazione delle loro opere, giunteci solo in frammenti. Considerato da molti il fondatore della setta metodica [→metodici], visse a cavallo tra ii e i sec. a.C., trascorrendo parte della sua esperienza professionale a Roma. Lo menzionano a più riprese

teofrasto →Celso, →Plinio il Vecchio, →Sorano di Efeso, →Galeno. La tradizione ce lo presenta anche come precursore di →Tessalo di Tralle, altro esponente metodico. Si interessò soprattutto della cura delle malattie [→patologia] acute e croniche, su cui scrisse anche dei trattati, come dimostrano alcuni titoli di cui abbiamo notizia in tradizione indiretta, quali De acutis uel celeribus passionibus e De tardis passionibus. Nella pratica →terapeutica si servì di rimedi astringenti e rilassanti, tra i quali ultimi va ricordato soprattutto il salasso, secondo la teoria delle ‘comunità’. Note. [1] Vd. Plin. nat. 29, 6. Bibliografia. Ihm 2005c ; Mazzini 1997, 37-38 ; Nutton 2002a ; Pigeaud 1993.  





Francesco Fiorucci Teodoro Prisciano. Vissuto verso la fine del iv sec. d.C., fu medico di professione e autore di un’opera intitolata Euporista, originariamente composta in greco e poi volta in latino [→traduzioni (mediche)] dallo stesso Teodoro. Si tratta di un prontuario di rimedi per varie patologie [→patologia], descritte secondo il classico schema a capite ad calcem e redatto quando l’autore era in età avanzata, come lui stesso ci informa. Si tratta di facili espedienti terapeutici [→terapeutica] di pratico utilizzo e di provata efficacia, destinati a non esperti dell’arte e basati sul principio che la natura fornisce tutto il necessario per la cura delle malattie che ella stessa crea. Il libro iii degli Euporista è dedicato alla →ginecologia. Dell’autore conosciamo anche un’altra opera, i Physica, di cui rimangono soltanto due capitoli e nella cui sezione proemiale Teodoro definisce magister →Vindiciano. [1] Sulla base del riferimento a Vindiciano e sulle somiglianze linguistiche con →Celio Aureliano e →Cassio Felice, la critica tende ad inserire l’autore nel contesto dell’Africa romana dell’epoca, sebbene manchino ancora studi approfonditi sulla questione. Difficile valutare l’orientamento dottrinale cui si ispira il suo pensiero, visto il carattere eclettico della sua opera, ma sembra che un influsso importante abbia avuto la scuola metodica [→metodici] . [2] Tra le possibili fonti vanno annoverati →Asclepiade di Prusa, →Temisone di Laodicea, →Galeno e →Sorano di Efeso.  



Note. [1] Zurli 1992a. – [2] Migliorini 1991.

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Bibliografia. Formisano 2004 ; Ihm 2005d ; Langslow 2000 ; Meyer 1909 ; Migliorini 1991 ; Zurli 1992a.  





   

Francesco Fiorucci Teofrasto. 1. Generalia. – T. nacque ad Ereso, nell’isola di Lesbo, nel 372 o 371 a.C. per poi diventare il migliore allievo e collaboratore di →Aristotele, quindi il suo successore come scolarca per oltre tre decenni (fino alla morte, avvenuta nel 288 o 287 a.C.). I 225 titoli del catalogo delle sue opere (vd. Diog. Laert. 5, 42-50) impongono di ritenere che la sua opera ebbe attitudine a spaziare su una non meno impressionante molteplicità di argomenti. Il destino delle opere di Aristotele e di T. è stato inizialmente segnato dal testamento di T., che lasciò la propria biblioteca a Neleo di Scepsi, probabilmente presumendo che questi sarebbe stato il suo successore alla testa del Liceo. Le cose andarono diversamente: la funzione di scolarca venne attribuita a Stratone di Lampsaco e, forse per questo, Neleo requisì le opere di Aristotele e T. e se le portò a Scepsi, nella Troade. Il fatto ebbe conseguenze singolari : la scuola si ritrovò priva di molte opere fondamentali (quindi gravemente depauperata) che non circolarono più per quasi due secoli. Sul finire del ii secolo a.C. l’intero patrimonio librario, evidentemente conservato con ogni cura, fu oggetto di compravendita e tornò ad Atene, ma per essere ben presto accaparrato da Silla e mandato a Roma, dove si costituì una biblioteca apposita, frequentata, in particolare, da Cicerone. La nuova vita di queste opere diede luogo a una memorabile edizione di tutto Aristotele e almeno ad un accurato catalogo delle opere di T., ma moltissimo è andato disperso. Di T. possiamo ancora leggere: (a) i notissimi Caratteri ; (b) le due grandi opere di botanica (Historia plantarum, in nove libri, e De causis plantarum, in sei libri) ; (c) un bel gruppo di brevi trattazioni, per lo più concepite come una successione di domande e risposte, che vertono in particolare sulle pietre, sul fuoco e sui venti, sugli odori, sul sudore, sulle vertigini e sulla stanchezza ; (d) parte di un testo sulle sensazioni che esplorava analiticamente il pensiero presocratico, (e) frammenti ed echi di moltissime altre opere. Un evento nella storia degli studi su T. è stato il lancio del Theophra 







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stus Project presso la Rutgers University (nj) nel 1979 per iniziativa di W. →Fortenbaugh. Livio Rossetti 2. Lo scienziato naturalista. – La botanica – con le due fondamentali opere Ricerche sulle piante e Cause delle piante, che costituiscono il punto di riferimento della disciplina dall’antichità al Rinascimento – sembra esser stata veramente uno dei poli d’interesse prediletti da Teofrasto : ne fanno fede le numerose descrizioni sicuramente autoptiche presenti nelle sue opere, nonché la notizia di un giardino lasciato in eredità, forse il primo orto botanico della storia (Amigues 1988, ix-xvi). Avvalendosi anche dei dati raccolti durante le campagne di Alessandro Magno, T. cercò di fornire alla botanica una sistemazione analoga a quella che Aristotele aveva fornito alla →zoologia. Pur rimanendo nel solco dell’impostazione della biologia e delle categorie aristoteliche, T. si distinse dal maestro in alcuni punti-chiave delle scienze della natura (French 1999, 103-126) : l’idea della causa finale, prima di tutto, non rappresentò mai un principio ispiratore, e anzi fu sottoposta, in alcuni casi, a una seria critica ; al più, T. considerò la produzione di frutti come lo stadio finale dell’evoluzione di un vegetale, ma solo per la funzione rispetto all’uomo. A differenza del maestro, T. è più incline a credere che gli eventi, come anche le generazioni e trasformazioni naturali delle piante, avvengano per necessità, per coincidenza o per caso. Aristotele aveva indicato nel maschio adulto la realizzazione migliore della natura propria di ogni specie animale : T., che del resto si trova ad indagare il mondo vegetale, ben più multiforme e mutevole di quello animale, non esprime mai questa idea. Aristotelico, invece, è il metodo di ricerca e di analisi teofrasteo, che procede per determinazione di analogie e differenze. Anche in questo caso, tuttavia, il mondo vegetale offriva una varietà e un’incertezza assolutamente incomparabili con gli altri orizzonti naturali (e più volte l’autore lo dichiara apertamente). T. propose dunque di individuare nell’albero (devndron [→arboricoltura]) la categoria ‘migliore’, più realizzata, di pianta, e di farlo assurgere a modello per determinare le differenze rispetto alle altre categorie : frutice [→arbusti], →suffrutici e →erbe. Pur in un impegno scientifico così approfondito, T. non propose sistematicamente un lessico speciali 









stico botanico fondato su formazioni nuove, ma impiegò termini già esistenti, chiarendone di volta in volta i significati (vd. Blanc 1993). Nelle Cause delle piante il valore assegnato da T. al termine aijtiva non è il medesimo della visione biologica aristotelica : come già detto, non c’è valenza teleologica. La causa di un vegetale consiste nel suo modo di →riproduzione : attiene quindi al suo sviluppo materiale, non alla funzione per l’uomo (o per altre specie viventi). La produzione del →frutto, del resto, è una caratteristica della natura della pianta in sé. Un binomio di fondo che attraversa tutte le opere botaniche teofrastee è senza dubbio l’opposizione tra naturale e artificiale. Ma anche in questo caso T. afferma decisamente che la coltivazione delle piante non è attività che si oppone allo sviluppo naturale dei vegetali, ma anzi si integra con esso e lo perfeziona, evitando la degenerazione del seme (e quindi dell’esemplare) che colpisce a lungo termine le piante esclusivamente selvatiche. Nel Peri; futw'n iJstoriva (Historia plantarum), composto probabilmente negli ultimi anni del iv sec. a.C., T. affronta i problemi legati alla nomenclatura e alla morfologia botanica, dedicando quindi numerosissime sezioni all’analisi di diverse specie. Alla conoscenza diretta, in più circostanze dichiarata, si accostano fonti tradizionali (persino Omero ed →Esiodo) e specialistiche (Androzione, autore di un manuale di agricoltura ; Nearco, che aveva redatto un’Anabasi dell’India). Il libro primo è dedicato alle questioni generali della classificazione morfologica del mondo vegetale : parti formali e sostanziali del vegetale, foglia, seme, frutto ; di qui si delineano le specie e i generi. Nel secondo libro si indaga la riproduzione vegetale, e le possibili degenerazioni (anche prodigiose) di un esemplare ; si descrivono alcune operazioni tecniche di coltivazione. Dal terzo all’ottavo libro si passano in rassegna numerose specie (e loro produzioni) appartenenti ai quattro generi della botanica teofrastea : alberi (libri iii-v), arbusti (vi), suffrutici (vi) e erbe (vii-viii). Nel libro terzo : alberi selvatici (riproduzione, habitat, fruttificazione, sviluppo, radici, produzione di ghiande e bacche, resina, pece e corteccia). Nel quarto : descrizione delle specie provenienti dall’Egitto, dalla Libia, dall’Asia, dal Settentrione (con alcuni mira) ; →piante acquatiche ; alcune →malattie delle piante. Nel quinto : il →legno (taglio, qualità, lavorazione, carbo 























teofrasto ne). Nel sesto : i suffrutici, selvatici e coltivati ; i →fiori. Nel settimo : le →erbe domestiche e la loro coltivazione. Nell’ottavo : i →cereali, la loro coltivazione e conservazione ; i →legumi. Il nono libro, forse aggiunto ai precedenti (e da alcuni ritenuto di dubbia autenticità), tratta degli estratti vegetali : resina, pece, incenso e altre piante aromatiche ; della preparazione di alcuni farmaci e →veleni. Il Peri; futw'n aijtiw`n (De causis plantarum), in sei libri, è dedicato a questioni di fisiologia vegetale e a temi di botanica applicata. Ancor più che nell’Historia, è evidente nel trattato il binomio oppositivo natura/tecnica, nell’analisi di ciò che un esemplare vegetale può realizzare in natura, e ciò che può produrre se coltivato. Nel primo libro si descrive la fisiologia naturale dei vegetali : generazione, crescita, germinazione, fioritura, fruttificazione. Nel secondo libro sono analizzati in particolare gli effetti delle stagioni (naturali) e dell’attività umana (tecnici) sulla crescita delle piante. Nel terzo e quarto libro, dopo una sezione iniziale sulle piante che rifiutano la coltivazione, sono descritte alcune attività agronomiche : semina, viticoltura, olivicoltura. Nel quinto si menzionano alcuni risultati prodigiosi della tecnica agricola (innesti, produzioni) ; si passa dunque alla patologia vegetale. Nel sesto libro sono presi in considerazione sapori e odori dei vegetali, argomento che doveva essere trattato anche nel perduto settimo libro.  



















Emanuele Lelli 3. Diritto. – Ai temi del diritto T. risulta aver dedicato poco meno di quaranta libri, sui quali è peraltro disponibile una documentazione molto esigua. In tali condizioni, ha risalto proprio il dato quantitativo in quanto T., come del resto anche Aristotele, risulta aver investito moltissimo nella trattazione di questi temi pur non presentandosi come uno specialista del settore. [1] Tra le opere pertinenti spicca il Novmoi kata; stoiceivwn, compilazione monumentale in 24 libri, di cui è frequente traccia nei lessici e altrove, e alla quale si conviene di ascrivere il fr. 650 Fortenbaugh (da Stobeo) che ha per oggetto la normativa sui contratti. In questo caso T. confronta la normativa vigente a Cizico con quella vigente a Turii (vi compare inoltre un riferimento alle norme fissate da Caronda, e sorprendentemente, da →Platone). Se ne inferisce che, molto probabilmente,  

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l’opera ebbe carattere comparativista, come si addiceva a una società estremamente frazionata quale quella delle poleis e a un’opera a destinazione panellenica. Anche la raccolta di oltre centocinquanta Costituzioni curata dal suo maestro – e alla quale è verosimile che T. abbia attivamente collaborato – di fatto rendeva possibile la comparazione ma, mentre in quel caso venne predisposta la descrizione di singole costituzioni una ad una, nei Nomoi si parte dagli istituti giuridici ricorrenti nelle varie città per poi cogliere la specificità di ognuno, cosicché la comparazione ha luogo all’interno di ogni singola voce della grande compilazione. La specifica kata; stoiceivwn rinvia alle ventiquattro lettere dell’alfabeto greco in analogia con i poemi omerici. Gli studiosi hanno peraltro notato, con sorpresa, che qualche subtrattazione risulta essere assegnata a un libro non congruente con la lettera con cui inizia la corrispondente parola-chiave. Dell’opera venne pubblicata anche una vasta epitome in dieci libri, ed è possibile che altre due opere, Peri; novmou e Peri; paranovmwn, ciascuna in un libro, siano state concepite come epitome dell’epitome. Di T. sono ricordati anche un Peri; nomoqevtwn in quattro libri e un Peri; o{rkou. Tutte queste opere, non pervenute, si distinguono abbastanza nettamente dai molti altri titoli d’argomento politico. Nondimeno tuttora accade raramente che sia riconosciuta la specificità di queste opere di T. in quanto testi di carattere inequivocabilmente giuridico. Livio Rossetti 4. Medicina. – Teofrasto è fonte importante della terapeutica botanica, da →Crateva, a →Nicandro, a →Dioscoride, ai →geoponica e a Cassiano Basso (Zumbo 2002a, 194), fino al frutto tardo e maturo: quel Peri phyton pseudoaristotelico che il dotto bizantino Massimo Planude ritradusse in greco dalla retroversione arabo-latina di Nicolao Damasceno. A T. furono debitori, per le applicazioni in medicina che la botanica favorisce, →Plinio, →Gargilio Marziale, Antonio Musa, lo Pseudo Apuleio, la →Medicina Plinii e molti altri noti herbarii medioevali. Daria Crismani 5. I trattati mineralogici. – Il Peri; livqwn (De lapidibus) è il primo trattato mineralogico che sia mai stato scritto [→mineralogia], e anche

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teofrasto

il primo che sia mai stato stampato (Venezia, febbraio 1497). Il testo arrivato a noi è solo una parte di un progetto espositivo più vasto che doveva comprendere anche un πeri; metavllwn (De metallis), andato perduto già nell’antichità. Fu scritto, probabilmente, tra il 323 e il 315 a.C., quando Aristotele fuggì da Atene e T. prese su di sé l’insegnamento al Liceo, riflette osservazioni dirette da lui compiute tra il 340 e il 335 sotto l’influenza del metodo di indagine naturalistica propugnato da Aristotele, nonché nel ricordo dell’insegnamento teorico ricevuto alla scuola di →Platone (354-347). Pur se a tratti lacunoso, come testo tràdito, e pertanto spesso di difficile comprensione, il De lapidibus è completo sul piano espositivo. Parte dalla teoria sulla genesi delle sostanze solide sviluppata da Aristotele nei Metewrologikav (Meteorologica) [→mineralogia], che T. adotta pur con qualche riserva, e fornisce una dettagliata descrizione di 60 diversi tipi di ‘pietre’, intendendo con ciò tutti i materiali solidi (minerali, gemme, argille, rocce, terre e perfino perle) che possono essere o trovati in superficie oppure estratti dal sottosuolo, esclusi i metalli, appunto, ai quali era dedicato l’altro libro. Purtroppo, il perduto De metallis è solo parzialmente ricostruibile sulla base di 42 riferimenti contenuti in parte nel De lapidibus, in parte nei tre trattati di botanica che costituiscono il grosso della produzione scientifica di T. (vd. n. 2 sopra), in parte in altri 11 suoi opuscoli che ci sono pervenuti frammentari sia per trasmissione diretta sia per il tramite di traduzioni siriache ed arabe, ed infine tramite altre 24 testimonianze dirette e 34 riferimenti indiretti, anonimi ma a lui riconducibili, contenuti nelle opere di autori greci, latini, siriaci ed arabi attivi tra il iii sec. a.C. e il xiii sec. d.C. Non è possibile ricostruire l’esatta struttura di questo trattato, ma si può ugualmente intuire che esso doveva consistere di una parte mineraria, relativa all’estrazione e alla preparazione di grezzi metalliferi, e di una parte metallurgica, relativa al loro trattamento metallurgico e alle modalità di utilizzazione del metallo che ne era estratto. T. non appare aderire strettamente alle teorie di Aristotele, che fa dei metalli il risultato della condensazione sotterranea dell’esalazione umida reagente con l’elemento terra, ma, pur senza mai rifiutare decisamente la teoria del suo maestro, se ne discosta alquanto e si riallaccia alle idee di Platone, secondo il quale i metal-

li sono una forma solida dell’elemento acqua e pertanto possono essere caratterizzati al meglio in base alle proprietà che presentano quando sono sottoposti a fusione. In particolare, egli fa capire che certe loro proprietà si spiegano bene quando si osservano le leghe che essi formano, vale a dire con la loro reciproca soluzione ad alta temperatura. Questo è un modo di ragionare del tutto tipico di T., che cerca sempre la spiegazione più semplice dei fenomeni osservati in natura (Vallance 1988). Nonostante l’attuale frammentarietà, i due testi rappresentano il primo tentativo coerente conosciuto di costruire una classificazione sistematica dei minerali, delle pietre e dei metalli partendo da una teoria genetica unitaria e contengono tutte o quasi le nozioni che i Greci possedevano sull’argomento, prima che dall’uso dei minerali come grezzi industriali si passasse alla loro utilizzazione come componenti di prescrizioni farmacologiche [→mineralogia]. Le loro relazioni con le teorie sulla genesi della materia solida sviluppate in modo molto generale da Aristotele e Platone sono state studiate da Eichholz 1965, autore dell’ultima edizione critica, mentre Caley-Richards 1956, Mottana-Napolitano 1997 e Mottana 2001 hanno puntato ad identificare i termini mineralogici usati da T. per renderli corrispondenti con quelli in uso nella scienza attuale. A tal fine hanno fatto uso di forme, colori e proprietà fisiche dei materiali così come essi sono descritti da T. Mancano, al momento, studi che mettano in relazione le conoscenze teofrastee con quanto si può trovare in precedenti testi egizi e, soprattutto, caldei-babilonesi, dai quali i Greci più tardi, soprattutto durante il periodo imperiale, ereditarono un’altra concezione ancora : quella che fa dei minerali i depositari di influenze astrali e magiche [→mineralogia].  

Note. [1] Sulle ragioni di un così cospicuo investimento nel diritto da parte di intellettuali che non furono e non si considerarono giuristi si veda la voce Diritto di questo stesso Dizionario. Bibliografia. Amigues 1994 ; Amigues 1998 ; Amigues 1999 ; Caley-Richards 1956 ; Eichholz 1965 ; Fortenbaugh et alii 1993 ; French 1994, 103126 ; Mottana-Napolitano 1997 ; Mottana 2001 ; Pezzaro 1997 ; Rossetti 2001 ; Rossetti 2002 ; Rossetti 2004a ; Szegedy-Maszak 1981 ; Vallance 1988 ; Wöhrle 1985.  





























Annibale Mottana

terapeutica Teone Alessandrino [iv sec. d. C.]. 1. Dati biografici. – Notizie sulla vita di T. si trovano nella Suda, [1] che lo vuole vissuto sotto Teodosio I. La collocazione cronologica, in effetti, è confermata da riferimenti presenti nel vi libro del suo commento all’Almagesto, dove si descrivono due eclissi osservate ad Alessandria nel 364, quella solare del 16 giugno e quella lunare del 26 novembre ; inoltre, nel Piccolo commento alle Tavole facili di →Tolomeo sono proposti esempi di calcolo attraverso le tavole riferibili a date del 360, e nella stessa opera si alluderebbe ad un ‘quadro’ astronomico del 17 novembre 377. [2] 2. Opere e dottrina. – Dell’opera di T., che ha come oggetto le scienze matematiche, restano : il Commento all’Almagesto di Tolomeo, [3] di cui sono andate perdute alcune parti, tra cui quella relativa al libro xi, e che mostra l’utilizzo, da parte di T., del commento di →Pappo ; un Grande commento alle Tavole facili di Tolomeo[4] ; un Piccolo commento alle Tavole facili di Tolomeo; [5] è testimoniato anche l’interesse di T. per i problemi relativi alla ‘visione’ [→ottica, 4]. Astronomo, geometra, filosofo, massimo esponente della scuola matematica alessandrina ed autore, col Commento dell’Almagesto di Tolomeo, di quello che viene considerato uno dei migliori lavori di astronomia della scuola alessandrina, fu lui ad introdurre in matematica il termine ‘analisi’. Fu padre e maestro di →ipazia, destinata a fornirgli collaborazione nelle sue imprese editoriali.  















Note. [1] Vd. Suda, T 265, iv, 26, 3-7 Adler. – [2] Vd. Tihon 1978, 205-232. – [3] Vd. Rome 1936 ; Rome 1943. – [4] Tihon 1991 ; sull'interpretazione delle Tavole maneggevoli di Tolomeo da parte di T. vd. Tihon 1985, 106-113. – [5] Vd. Tihon 1978.  



Bibliografia. Rome 1936 ; Rome 1943 ; Tihon 1978 ; Tihon 1985 ; Tihon 1991.  







Livia Radici Terapeutica. 1. Terapeutica medica. – Il termine qerapeiva o qeravpeuma (cura o curatio) è impiegato in greco originariamente in contesti non solo medici con il valore di ‘trattamento dei malati’, ‘cura’ . Negli scritti antichi di medicina trovano largo spazio termini come anamnesi, diagnosi e prognosi (→semeiotica medica). Viene ad instaurarsi e diviene comune nella prassi medica un rapporto medico-paziente.

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Con il tempo si verranno configurando le diverse scuole mediche, con il loro orientamento filosofico-religioso (→Erasistrato, per fare solo un esempio, rifiuta i salassi). Si deve tener conto del noto presupposto, nel mondo greco, come in quello ebraico, di malattia percepita come conseguenza, in pratica, di offesa alla divinità, individuale (Edipo), o collettiva (epidemie nei poemi epici e nei tragici) : cfr. quanto detto nella voce →medicina. C’è un forte collegamento uomo-divinità, con richiesta di aiuto a quest’ultima e formule magiche.[1] Forme di terapeutica sono presenti già in Omero, sotto forma di estrazione di frecce, cura di ferite, imposizione di erbe etc. C’è naturalmente un continuo progresso e sviluppo, le cui fasi più importanti possono essere individuate nel periodo ippocratico, nel proseguimento attraverso la tradizione alessandrina, nel confluire della scienza greca nella koiné greco-romana (meglio sarebbe dire romano-greca : si pensi a →Galeno) e poi tardo-antica e cristiana. I progressi più consistenti si verificano in età ippocratica : si afferma, ad es., il concetto di forza terapeutica della natura (uis medicatrix naturae) ; si delinea una coscienza e una deontologia medica : « aiutare e non nuocere ». [2] Nel Corpus Hippocraticum si rintracciano terapie sempre più differenziate ; prendono campo la cosiddetta teoria umorale e la patologia umorale. Si vengono affermando i concetti di eucrasia (cattivo equilibrio umorale) e discrasia (buon equilibrio umorale). Alla teoria umorale sarà legata la somministrazione di medicamenti vari. Rimedio piuttosto costante nelle terapie era il vino, per lo più diluito. Nel Corpus Hippocraticum la farmaceutica occupa, anche se non ancora sviluppata in opere monografiche, la parte più ampia. Le terapie sono suddistinte in numerosi settori e specializzazioni : antidotari, generi diversi di medicamenti etc. Vengono a diversificarsi una terapia generale (malattie dell’intero corpo) e una terapia parziale o settoriale (qualche volta anche di singoli organi). Nelle opere e nei trattati si segue di solito lo schema articolato a capite ad calcem. Già nel cosiddetto Giuramento di Ippocrate si contempla, accanto alla dietetica e alla farmacologia, la pratica della chirurgia : tevmnein kai; kavmnein, ‘tagliare e bruciare’. Nel periodo greco-romano si afferma sempre più il rapporto medicopaziente (con →Celso, come è noto, medicus amicus-paziente). Si diffonderanno opere che  





















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terapeutica veterinaria

trattano di rimedi in se stessi utili (euporista) : cfr. →Teodoro Prisciano ; Ps. Diosc. Perì haplōn pharmākon. Con Celso si afferma la celebre tripartizione della medicina : →dietetica, →farmacologia, →chirurgia. [3] La dietetica copre un’area più ampia (Cels. 1, Prooem. 4). Alcune malattie si sottraggono a questi ambiti e sono praticamente incurabili. [4] Le regole della →dietetica tendono, in ogni tempo, alla prevenzione. Vengono praticati spesso interventi chirurgici . [5] Già con Celso e poi con →Scribonio Largo, con →Dioscuride e in seguito con →Plinio il Vecchio e con la medicina successiva si sviluppa, come è noto, una farmacologia approfondita. Si terrà costantemente presente, per la figura del →Medico, terapeuta per eccellenza, la tensione morale e il senso di professionalità, molto alto in ogni tempo, già nella medicina greca, a partire dal Giuramento pseudo-ippocratico, riaffermato di continuo nella medicina romana, in modo esplicito e spesso con accenti appassionati, in Celso, Scribonio Largo e Plinio il Vecchio (cfr. Sconocchia 1993a, 863-870 ; Sconocchia 1998 b, 173-225, e Sconocchia 2000 a, 315-357). Con Galeno si vengono a differenziare una T. generale ed una individuale, con stretto rapporto medico-paziente, anche se, talora, si arriva a curare il paziente per corrispondenza epistolare. [6] In questo periodo continuano a essere praticate una terapeutica magico-teurgica e una terapeutica razionale ; soprattutto con il Cristianesimo prenderà campo una medicina legata al soccorso divino. Galeno stesso, d’altro canto, prescrive di condurre i pazienti, per praticare cure in fasi piuttosto disperate, all’Asclepieion di Pergamo. [7] Del resto, in casi estremi, ad es. di ferite incurabili, i medici antichi consigliavano già la rinuncia ai medicamenti : una sorta di affermazione di rinuncia, diremmo oggi, al cosiddetto ‘accanimento terapeutico’. Le prescrizioni terapeutiche si diversificano nel tempo con la formazione e la differenziano delle varie scuole mediche : così i metodici contestano lo studio dell’→anatomia [8] e, più in generale, attraverso le posizioni di →Tessalo di Tralle, la necessità stessa di una preparazione specifica per i medici. [9] La medicina dell’antichità conosce una terapia razionale ed una sorta di terapeutica passiva. [10] Per quanto riguarda le donne sono frequentemente attestate ostetriche, medichesse, esperte in campo ginecologico ; si trovano anche testimonianze  



























di ‘praticone’. [11] Nell’insieme, nella grande tripartizione della medicina antica, ha larga diffusione la dietetica. Sono attestate forme allopatiche (curare con contrari) e omeopatiche (curare con simili). Non è possibile controllare i dati in questo campo, ma pare che, in molti casi, nell’antichità le capacità diagnostiche o di prognosi fossero positivamente sviluppate : anche diverse terapie risultano, da testimonianze di autori antichi (autori del Corpus, medici di età ellenistica, di età imperiale romana, da →Scribonio a →Galeno), in diversi casi efficaci : lo si può del resto, almeno per la dietetica e per la chirurgia, ben comprendere. La terapeutica è suddivisa nella medicina antica in →dietetica, →farmacologia e →chirurgia.  





Note. [1] Si pensi, per la Grecia, a Hom., Il. 1, 6468 ; per Roma, a Cat. agr. 160, o all’utilizzazione di amuleti vari (Apul. Apol. 61). – [2] Hp. Epid. 1, 5/ 2, 636 L. – [3] Cels. 1, Prooem. 9 / 18 M. – [4] Cels. 1, Prooem. 3 / 17 M. – [5] Cels. 7-8. – [6] Cfr. Gal. Loc. aff. 4, 2 / 8, 227 K. – [7] Gal. In Hp. Epid. 6 comm. 4, 8 /17, 2, 135-137 K : cfr. Gal. Loc. aff. 4, 2 / 8, 227 K. – [8] Gal. Meth. med. 5, 10 / 10, 349 K. – [9] Gal. Meth. med., ibid. passim. – [10] Gr. aijwvrhsi", lat. gestatio : cfr. ad es. Cel. Aur. chron. 3, 86 sg. – [11] Cfr. Scrib. Larg. c. 122 muliercula quaedam ex Africa etc.  





Fonti. Tutte le opere di medicina del periodo greco e romano: in particolare si menzionano Hom., Il. 1, 64-68 ; Hp. Epid. 1, 5/ 2, 636 L ; Cat. agr. 160 ; Cels. 1, Prooem. 3 / 17 M ; 1, Prooem. 9 / 18 M ; ll. 7-8 ; Scrib. Larg. Comp. ; Gal., In Hp. Epid. 6 comm. 4, 8 / 17, 2, 135-137 K : cfr. Loc. affect. 4, 2 / 8, 227 K ; Meth. med. 5, 10/ 10, 349 K ; Apul., Apol. 61 ; Cael. Aur. chron. 3, 86 sg.  





















Bibliografia. Brockband 1955 ; Brunner 1977 ; Bynum-Nutton 1991 ; Debru 1997 ; Eijk, v. d. 1999b, 389-404 ; Garofalo-Lami-Manetti-Roselli 1999 ; Jouanna 1999, 13-42 ; Kölbing 1985, 1-38 ; 53-68 ; Kollesch-Nickel 1993 ; Matino 1996 ; Nutton 1999c ; Potter-Maloney-Desautels 1990 ; Sconocchia 1993a, 863-870 ; Sconocchia 1998b, 173-225 ; Sconocchia 2000a, 315-357 ; von Staden 1990, 75-112 ; Touwaide 1997 ; Wittern 1979.  



































Sergio Sconocchia Terapeutica veterinaria. La terapeutica veterinaria non si distacca da quella medica nei suoi fondamenti ideologici e metodologici [→terapeutica], ma nella pratica della somministrazione. La mancanza di un paziente che sappia esprimere la sintomatologia di cui soffre così come l’assenza di riscontri certi sul

terapeutica veterinaria buon esito della terapia somministrata hanno fatto sì che la terapeutica veterinaria si distaccasse dalle pratiche magiche in maniera ancora più lenta che nella terapeutica umana. [1] La portata di questi rimedi apotropaici si è andata attenuando nell’epoca tardo-antica senza mai scomparire del tutto per tornare in auge in epoca medievale. L’uso stesso dei trattamenti era condizionato dal valore magico che era loro attribuito, attraverso rituali quali formule incantatorie, gesti, amuleti ed altro ancora. [2] La terapeutica veterinaria si basava su due principi fondamentali: rimedi topici e quelli generali. L’intento non era quello di guarire l’animale dalla patologia che lo aveva colpito, quanto quello di risolvere la causa del suo malessere. Questo modo di vedere la terapeutica faceva sì che all’epoca non venisse presa in considerazione quasi mai la sintomatologia in sé, quanto le cause prime del malessere : queste andavano curate attraverso rimedi che riequilibrassero la natura dell’animale. Ogni elemento terapeutico era catalogato in base a colore, sapore, consistenza, funzione e natura affinché potesse curare il suo opposto. La farmacologia è il processo che manipola e trasforma in medicamenti, anche tramite la loro combinazione, degli elementi ‘semplici’ (→farmacologia) attinti soprattutto dal regno vegetale, in misura minore dal regno animale e pochissimo dal regno minerale, in ‘medicamenti’. I principi della farmacologia veterinaria sono quelli della medicina, ma diverso è l’uso degli elementi ‘nobili’ (quali i minerali o i vegetali rari d’importazione) poiché il semplice reperimento ed il costo di questi prodotti probabilmente non rispondeva alle esigenze di una medicina che risulta essere socialmente ed economicamente popolare. Poiché i principi e gli elementi base della farmacologia veterinaria sono simili a quelli della →farmacologia umana si rimanda a quest’ultima per maggiori dettagli sulle sostanze minerali, vegetali ed animali. Anche la somministrazione delle pozioni e le composizioni farmaceutiche avvenivano in maniera simile a quella usata per l’uomo. Le terapie da applicare sull’animale potevano avere forma semisolida o liquida. I beveroni, che avevano la funzione di ‘risolvere’ molti dei problemi legati alle patologie degli organi interni, erano somministrati per via orale o per via nasale attraverso corni di bue o sifoni [3] (quest’ultima possibilità era spesso più nociva della malattia in sé poiché causava irritazione dell’apparato  





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orofaringeo, dei polmoni e delle mucose che potevano portare l’animale anche alla morte). I boli [trocivskoi, pastilli], invece, erano somministrati per via orale essendo composti morbidi ; [4]questo rimedio, di per sé poco pericoloso, non era usato frequentemente, data la difficoltà di far ingerire all’animale un insieme di ingredienti spesso dal sapore e dall’odore nauseabondo ; inoltre, un bolo non poteva incorporare un gran numero di ingredienti poiché non poteva essere troppo voluminoso. Liquidi erano anche i clisteri [kluvsmata, klusth`re~, clysteres] usati nelle affezioni più disparate : i veterinari erano particolarmente fieri della percentuale di guarigione degli animali curati con questo sistema. Consideravano già uno stadio positivo il fatto che l’animale, dopo essere stato curato con uno o più clisteri, avesse moti evacuatori : questi erano ritenuti purificatori dalla malattia stessa (in realtà spesso erano frutto di ulteriori aggravi quali coliche, infezioni). Gli unguenti erano usati per patologie topiche, dalle semplici piaghe a malattie più complesse che avevano una sintomatologia a carico della cute. Questo tipo di cura poteva apportare, in alcuni casi rari, un effettivo miglioramento quando non fossero stati presenti ingredienti nocivi come lo sterco di animali o sangue o altri ingredienti improbabili. Gli unguenti potevano essere di diversi tipi : l’e[mplastro~ / emplastrum era un composto semiliquido da applicare nella zona da curare ; il kataplavsma / cataplasma - malagma, invece, era applicato caldo sulla parte dolente e generalmente era formato da un sacchetto che conteneva ingredienti triturati e cotti in un liquido come latte o vino. [5] Erano usati anche composti a base di lardo o grasso, usati soprattutto per animali costipati o che necessitavano di essere purificati, detti liparaiv / liparae. Per le patologie polmonari erano frequenti anche i suffumigi [qumiavmata / suffumenta] ottenuti attraverso un vaso in cui venivano fatti sobbollire gli ingredienti i cui vapori andavano fatti inspirare all’animale o incanalati verso la parte del corpo malata. Altro metodo curativo era costituito da un particolare regime alimentare, cioè da una dieta. Questa non solo era composta da lunghi e forzati digiuni, ma anche da una lista di cibi da prescrivere o da proibire. Alcuni dei consigli che ritroviamo nei manuali di veterinaria sono tuttora validi: ad esempio ad un animale con l’indigestione non veniva somministrato cibo per alcuni giorni;  













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terreno

all’animale indebolito era prescritta una dieta ricca di orzo); tuttavia il più delle volte, i consigli dati ai fattori risultano, ai giorni nostri, piuttosto ‘bizzarri’. Il digiuno, in particolare, era fortemente legato ad una valenza magica mai del tutto ignorata fino alla fine dell’epoca medievale. Note. [1] Adams 1995, 20 ; Hoppe 1927 ; Björck 1944 ; Önnerfors 1988. – [2] Adams 1995, 21-33. – [3] Veg. mulom. 1, 10, 1 liquaminis floris unciam, vini veteris [...] infundes in naribus; ad siphonem autem paulatim infundes, non semel ad cornu. – [4] Veg. mulom. 1, 11, 7 Post hoc melle, butyro, axungia, salibus et picula, offis pro aequa omnium portione confectis. – [5] Termine del latino tardo è sacellio, “una sorta di sacchetto riempito di crusca o orzo abbrustoliti, che venivano applicati sulle parti interessate più o meno come oggi la borsa dell’acqua calda” Ortoleva 1999, 175.  





e sia esposto a mezzogiorno » (r.r. 1, 7, 1). La composizione del terreno è parimenti importante e determina la scelta di una coltura. La terra può essere argillosa, sassosa, sabbiosa, arenosa, rossa, nera, e ancora umida o secca, grassa o magra. Secondo →Columella il miglior terreno è quello pingue ma sciolto, sito in pianura (2, 2, 8-10). →Plinio, in modo quasi poetico, ha lasciato la più sentita descrizione della terra migliore, « quella detta nera. Questa sarà la migliore, sia per il lavoro sia per i raccolti. La terra di questo tipo è feconda nella giusta misura, è morbida e facilmente coltivabile, e non è né bagnata né secca. È quella che brilla dopo il passaggio del vomere […]. È quella su cui, quando è rivoltata di fresco, si gettano gli uccelli temerari, che accompagnano il vomere, e i corvi che beccano le stesse orme di chi ara » (nat. 17, 37; trad. A. M. Cotrozzi ; la rassegna dei terreni è in 17, 25-49, seguita dalla trattazione sul →concime ; ma vd. anche 18, 163-166). Nei Geoponica (2, 9-11) si passano in rassegna numerosi tipi di terreno e si menzionano alcuni metodi (a volte molto particolari) per ‘saggiare’ la qualità di un suolo.  







Bibliografia. Adams 1995 ; Björck 1944 ; Hoppe 1927 ; Önnerfors 1988.  





Violetta Scipinotti Terreno. La concezione della terra come dea madre che dà i suoi frutti se ben lavorata e venerata è in Xen. oec. 5, 12 (cfr. già Hes. op. 298 ss.), e si ritrova in Varr. r.r. 1, 1, 5 ; Colum. praef. e 2, 1, in cui si polemizza con chi attribuisce all’‘invecchiamento’ della Terra la decadenza dell’→agricoltura (dovuta invece, secondo l’agronomo romano, al disinteresse delle classi colte) ; Plin. nat. 18, 1-5. Già →Teofrasto afferma che « è cosa di grandissima importanza assegnare a ogni pianta il terreno adatto, perché solo in tal modo prospera » (HP 2, 5, 7) : è, questo, un precetto ripetuto da tutta la tradizione agronomica antica. Nec vero terrae ferre omnes omnia possunt, riassume →Virgilio (georg. 2, 109). Una rassegna di alcuni tipi di terreno, in relazione a tipi di colture convenienti, è già nel trattato catoniano (agr. 34-35), e poi in Virgilio, che vi incastona le lodi dei fertili suoli italiani (georg. 2, 110-258). →Varrone elenca le quattro caratteristiche che occorre esaminare : la conformazione, la qualità, l’estensione, la sicurezza (r.r. 1, 6, 1) ; quindi viene l’altitudine : pianura, collina o montagna. Ognuno dei tre livelli ha i suoi pregi e i suoi difetti, e occorre conformare le colture più adatte ai diversi luoghi. Ma anche Varrone (per bocca di Stolone, protagonista del dialogo), conviene con le parole di Catone (agr. 1, 3), che « il miglior fondo è quello che sta situato alle falde di un monte  



















Bibliografia. Andrei 1981, 13-40 ; Bruno 1969, 1525 ; White 1970b, 86-109.  



Emanuele Lelli Tessalo di Tralle. Fiorito attorno al i secolo d.C., Tessalo fu autore di un trattato medicoastrologico, in cui la tradizione della medicina alessandrina è applicata alle teorie sugli influssi planetari. Sia la sua biografia che la sua formazione culturale sono ancora oggetto di discussione, e legati alla figura altrettanto complessa di →Ermete Trismegisto. Fu apprezzato dall’imperatore Nerone, e noto, quanto criticato (Plin. nat. 29, 9, Gal. Meth. med. 1, 1 sgg. / 10, 1, sgg. K; Adu. Iul. 1 / 18, 1, 247 K; si veda anche passim), esponente dei →metodici. Aspre critiche suscitò la sua azione divulgatrice della professione, attività invero, come rileva Sconocchia 1984 e 1986, molto opportuna nella società in evoluzione dell’epoca, ma vista con sospetto dai colleghi, che gli rimproverarono mancanza di scrupolo. Dai suoi trattati – Alim. fac., Meth. med. etc. e dai numerosi Commentarii a Ippocrate – trassero fondamento molti dei principi della scuola metodica, ma il suo nome è legato soprattutto a un’opera dubbiosamen-

testuggini ed altre protezioni te attribuita all’autore : il De plantis duodecim signis et septem planetis subiectis, traduzione, pare, di un originale greco diretta a Nerone, opera che ebbe lunga fortuna, e continuò a destare interesse fino alla tarda antichità.  

Bibliografia. Friedrich 1968 ; Leven 2005b, 862 ; Sconocchia 1984, 125-157 ; Sconocchia 1986, 71-90 ; Sconocchia 1996, 388-406 ; Sconocchia 2002a, 349-350 e 360-361 .  







Daria Crismani Testuggini ed altre protezioni. Nell’arsenale bellico antico [→polemologia] non mancavano le macchine che dovevano schermare i soldati sui campi di battaglia, antesignane dei moderni mezzi corazzati e disegnate con lo scopo di poter offendere pur potendo rimanere al riparo dai contrattacchi nemici. Il termine ‘testuggine’ (celwvnh, testudo) indica propriamente l’animale [→zoologia], richiamando immediatamente le caratteristiche che da sempre gli sono attribuite, cioè le lentezza e l’idea di solidità derivante dalla sua corazza. La forma della macchina [→meccanica] ricorda da vicino l’immagine di una tartaruga che avanza. La testuggine, infatti, appariva come una specie di grosso tetto munito di ruote, che doveva garantire la necessaria protezione alle truppe che operavano in prossimità delle mura avversarie durante gli assedî. Ne esistevano di vari tipi, ma con strutture analoghe. →Ateneo Meccanico (15,9 sgg.) ci parla della cosiddetta celwvnh cwstriv", impiegata per riempire i fossati scavati in difesa delle città. [1] Questa t. permetteva dunque di spianare il terreno, come attesta anche Cesare (civ. 2, 2, 4), creando  

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le condizioni per una più sicura avanzata delle macchine pesanti, come l’→elepoli. Il ruolo della t. era perciò molto importante, costituendo la punta di diamante degli eserciti assedianti e dovendo assorbire il primo impatto con la difesa. Era formata da una piattaforma di circa 6 m. di lato (ma ne conosciamo anche di ben più grandi), ai cui angoli erano disposte delle ruote che ne permettevano lo spostamento. Su questa era installata la copertura a spiovente, sufficiente per ricoverare un buon numero di uomini. Il tetto era rinforzato con tavolati e Ateneo Meccanico raccomanda a proposito l’uso di →legno di palma, particolarmente robusto, cui doveva seguire un’ulteriore copertura di vimini fresco intrecciato e l’aggiunta di pelli cucite e riempite di alghe marine e pula imbevuta d’aceto, materiali adatti a resistere agli attacchi incendiarî [→fuochi e tecniche incendiarie]. La t. poteva anche servire come riparo per manipoli di soldati ausiliarî appostati con compiti di copertura e osservazione. Del tutto simile alla precedente era la celwvnh ojruktriv" (lett. «t. scavatrice»), adatta a raggiungere le fortificazioni nemiche per scalzarne le fondamenta (Ath. Mech. 19, 3 e Vitr. 10, 15, 1). L’unica differenza sostanziale col modello sopra descritto era il diverso disegno del lato anteriore, che risultava verticale per poter aderire alle mura. Gli ingegneri antichi sfruttarono le potenzialità della t. anche per altri scopi, alloggiando sotto la copertura gli arieti [→ariete]. Le t. arietarie erano delle armi formidabili. Famose furono quelle costruite da →Diade e da Egetore di Bisanzio, che conosciamo sempre grazie ad Ateneo Meccanico (12, 12 sgg. e 21, 2 sgg.) e →Vitruvio (10, 13, 6 e 10, 15, 2-7), sebbene sulla pratica realizzazione della seconda la critica abbia mosso alcuni dubbi. [2] Le dimensioni di tali congegni erano notevoli, avendo una base di circa 18x14 m, mentre l’ariete poteva superare i 30 m. Erano anche munite di torrette d’osservazione e di piani intermedi per ospitare batterie di artiglieria. L’efficacia di queste t. risiedeva nell’enorme peso del trave, issato e mosso da robuste corde, che garantivano colpi a brevi intervalli, sebbene dalla potenza relativamente limitata a causa della minima sospensione del trave stesso. Un modello di t. arietaria in dotazione all’esercito romano era invece quello costruito da →Apollodoro di Damasco (153, 8 sgg.), che sfruttava diverse innovazioni. Doveva infatti essere più manegge 

Fig. 1.

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teucro di babilonia

vole e l’ariete era sospeso su corde più lunghe, in modo tale da ampliare l’arco di oscillazione ed aumentare la violenza dell’impatto. Un dettaglio importante era anche la maggior sicurezza dell’intera struttura e la copertura della punta, protetta dunque dalle contromisure dei difensori. Lo stesso Apollodoro di Damasco (140, 9 sgg.) definisce celwvnh una speciale protezione che ricordava la forma del rostro delle navi [→nautica]. Si trattava di due pareti lignee, rinforzate presumibilmente con piastre di ferro, congiunte ad una estremità, così da formare un angolo dietro il quale i soldati potevano ripararsi. La struttura era munita di ruote per permetterne lo spostamento e concedere allo stesso tempo stabilità e resistenza agli impatti una volta conficcate nel terreno. Questa t. doveva infatti proteggere gli assedianti dagli oggetti che i difensori lasciavano rotolare dalle proprie fortificazioni, risultando quindi utile in caso di attacco a città poste su alture. Non era prevista una copertura superiore ed era piuttosto piccola, perché la maneggevolezza costituiva un fattore essenziale. Apollodoro di Damasco consiglia infatti di costruirne parecchie, ma di piccole dimensioni. Infine, col medesimo termine gli antichi indicavano anche una speciale formazione difensiva, descritta da Dione Cassio (49, 30), in cui i cavalieri e la fanteria leggera venivano schierati al centro di un quadrilatero con ai lati i ranghi muniti di un lungo scudo. A loro volta altri soldati alzavano i propri scudi piatti e larghi, fornendo protezione agli altri reparti dal lancio dei proiettili avversi. Altri tipi di protezioni, sempre adatte ad operare in prossimità delle mura, ma più leggere, erano anche la ‘vigna’ (a[mpelo", vinea), il pluteus e il musculus. La prima, secondo Apollodoro di Damasco (141, 5 sgg.) era una specie di tenda costituita da un’intelaiatura di pertiche conficcate nel terreno e coperte con pelli, in grado di assorbire l’impatto di frecce ed altri proiettili. Fungeva da ricovero per gli assedianti che combattevano nelle t. a forma di rostro (vd. sopra). La vinea descritta da →Vegezio (4, 15), invece, era simile ad una galleria, sempre costruita con intelaiatura lignea e copertura di vimini ed altri materiali leggeri e resistenti al fuoco, sotto la quale i militari raggiungevano le mura. Era formata di brevi sezioni lunghe circa 5 m. che venivano disposte in fila per ottenere la lunghezza necessaria. Simile ad un

abside era invece il pluteus (Veg. 4, 15). Dotato di una copertura ad arco e di ruote, doveva proteggere gli uomini che attendevano l’assalto con le scale. Sul musculus (lett. ‘topolino’), siamo informati da Cesare (civ. 2, 10), che se ne servì durante l’assedio di Marsiglia del 49 a.C. Aveva sempre la forma di una galleria, ma molto più robusta delle protezioni precedenti, adatta pertanto a sostenere l’impatto di una forte difesa avversaria, in grado di usare leve e macchine sollevatrici per scaraventare pesi oltre le mura. Il musculus di Cesare era lungo 18 m. e dotato di tetto a spiovente con laterizi e fango quale protezione contro gli attacchi incendiari. Note. [1] Vd. anche Vitr. 10, 14. – [2] Vd. Whitehead-Blyth 2004, 120 sgg. ; Campbell 2003a, 19 sgg.  

Bibliografia. Callebat-Fleury 1986 ; Campbell 2003a ; Lendle 1975 ; Whitehead-Blyth 2004.  





Francesco Fiorucci Teucro di Babilonia. Astrologo greco del ii-i sec. a.C., è autore, oltre che di frammenti rifluiti in antologie successive [1] di uno scritto intitolato Paranatevllonta toi`~ dekavnoi~, [2] di cui sopravvive un esteso brano. L’opera è fondamentale per la trasmissione del sistema ellenistico dei decani secondo la tradizione egizia, ormai grecizzato nelle identificazioni dei vari luoghi celesti. La teoria dei decani comporta una suddivisione del cerchio zodiacale in 36 parti, e collega ogni decano (terza parte di un segno) alla giurisdizione di un pianeta, comportando un’ulteriore complessità nella previsione astrologica.  

Note. [1] Ed. Boll 1903, 16-21 ; 41-52 e ccag vii, 192-213 ; cfr. anche 465 sg. – [2] Ed. Weinstock, ccag ix 2, 180-186.  



Bibliografia. Gundel-Gundel 1966, 112-113 ; Rochberg 2008c, 778.  

Carmelo Lupini Tisi. Nella medicina ippocratica con il concetto di tisi [fqivsi", fqovh, tabes, più tardi phthisica passio] viene indicata in generale una ‘decadenza’ del corpo, [1] oppure, fondamentalmente, ogni malattia che consuma : atrofia, specialmente dei tessuti, deformazione, dimagrimento. [2] La sintomatologia è, in ogni caso, molto ampia : tosse, dolore al petto  







tolleno e alla schiena, eccessiva salivazione, gonfiore degli arti inferiori, febbri leggere e piuttosto continue, caduta dei capelli, dimagrimento. La causa della phthisis è collocata nei polmoni ed è legata spesso a eccesso di flegma e bile. Spesso si indica un’affezione polmonare che, attraverso consunzione, conduce alla morte. Nel Corpus Hippocraticum vengono descritti tre tipi di fqivsi~.[3] Il primo è costituito da flegma che scende dalla testa ai polmoni : questo tipo è, pressoché in tutti i casi, mortale. I sintomi di questo primo tipo, che certo ricorre più spesso, sono febbre continua, anche notturna, forte traspirazione con sudori freddi, tosse con espettorazione, anoressia estrema. [4] Ippocrate si diffonde a parlarne anche in Morb. : « Malattia denominata phthoē. Quando sussiste questa affezione del polmone, il paziente tossisce, l’espettorazione è densa e acquosa […] ». [5] Ancora Ippocrate precisa che i tipi più pericolosi sono quelli che dipendono da una rottura delle grandi vene o dal flegma che discende dalla testa. [6] A questo primo tipo di affezione si riferisce in pratica Celso [7] « denominato dai Greci phthisis, che inizia nel capo e poi scende nel polmone, cui segue la formazione di ulcere e ancora febbriciattole più o meno ricorrenti » con sintomi, manifestazioni e proposte di terapia, soprattutto cambiamenti di aria e cielo, tramite navigazione o altro. Il secondo tipo di phthisis è, secondo Ippocrate, costituito prevalentemente da affaticamento, ha decorso analogo al primo e conduce poi in tre anni alla morte. Il terzo tipo, che proviene dal midollo, che si satura di sangue o bile, è, secondo Ippocrate, trascorso lungo tempo, sanabile. [8] In età ellenistico-romana il concetto di phthisis-tabes viene semanticamente definito e non indica più, ad es., il dimagrimento da fame e da non assimilazione di cibo, ma definisce solo relazione con malattie polmonari. Anche il quadro diagnostico della malattia diviene più preciso. Così per →Areteo sono tisici gli individui emaciati, ma anche quelli consumati da febbri persistenti, con tosse frequente, secca, e che non hanno alcuna escrezione. [9] Descrizioni più tarde aggiungono che i pazienti di phthisis polmonare emanano un odore molto forte, [10] che nasconde il pericolo di un contagio. [11]  

























Note. [1] vm 6/ 1, 582 L. – [2] Mazzini 1997, 314. – [3] Una descrizione efficace dei tre tipi di phthis è contenuta rispettivamente in Hp. Int. 10, 11, 12-13 (phithisis dorsale) / 7, 188-201 L. – [4] Epid. 1, 2 / 2,

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604 sg. L ; Epid. 3, 13s. / 3, 92-98 L. – [5] Hp. Morb. 2, 49 / 7, 74 L. Trad. qui e in seguito dello scrivente; cfr. Mazzini 1997, 315. – [6] Coac. 21, 430-431 / 5, 680 L. – [7] med. 3, 22, 3-14 / 135-137 M. – [8] Hp. Int. 11-12 / 7, 192-198 L. – [9] Aret. Caus. acut. chron. 3, 8, 3-4 / 48 H. – [10] Anon. Paris. 27, 2 – [11] Ps.-Arist. Pr. 7-8, 887 a 22-40 ; Gal. Diff. febr. 1, 3 / 7, 279 sg. K.  



Fonti. Hp. vm 6 /1, 582 L ; Epid. 1, 2 /2, 604 sg. L ; Epid. 3, 13 sg. / 3, 92-96 L ; Aph. 5, 12 / 4, 536 L ; Coac. 21, 430-431 / 5, 680 L ; Morb. 2, 48 / 7, 72-74 L ; Int. 10-13 / 7, 188-201 L ; Cels. med. 3, 22, 3-14 / 135 -137 M ; Aret. Caus. acut. chron. 3, 8, 3-4 / 48 H ; Gal. Plac. Hp. et Pl. 8, 4 / 5, 679 K ; Rem. parab. 2, 13 / 14, 443-445 K ; In Hp. Prog. comm. 2, 60 / 18, 2, 201-202 K ; Ps. Gal. Def. med. 260-261 /19, 419 K.  























Bibliografia. Grmek 1989 ; Grmek 1995 ; Mazzini 1997 314-317 ; Stamatu 2005u.  





Sergio Sconocchia Tolleno. Questa grande macchina, nota in italiano anche come ‘altaleno’ o ‘mazzacavallo’, aveva soprattutto funzione difensiva, servendo quindi a colpire gli eserciti e i mezzi avversari che si appressavano alle mura delle città assediate. Era costituita essenzialmente da due lunghe travi di legno, l’una conficcata nel terreno e l’altra disposta orizzontalmente in cima alla prima, in modo da permetterle un movimento basculante. Si trattava quindi di una specie di gigantesca leva. Con tale congegno si potevano sollevare dei grossi pesi e precipitarli sui nemici. Nonostante la semplicità del principio di costruzione, il t. si rivelò molto efficace, soprattutto nelle abili mani del matematico →Archimede. Fu infatti durante il famoso assedio di Siracusa del 214-212 a.C. che la macchina trovò la sua pratica applicazione più massiccia e spettacolare. [1] Secondo il racconto degli storici Polibio (8, 6, 2-4) e Livio (24, 34, 10-11) al t., che sovrastava le alte mura siracusane a picco sul mare, con grande effetto visivo, erano state applicate delle mani di ferro attaccate con potenti catene, in grado di agganciarsi alle navi nemiche e di sollevarle, per poi sbatterle di nuovo in mare con violenza. Lo stesso principio era sfruttato dal t. descritto da →Vegezio (mil. 4, 21), utilizzato però dagli assedianti per sollevare piccoli manipoli di soldati fino alle mura nemiche. L’oscillazione era in questo caso garantita da funi controllate da gruppi di uomini, per permettere una migliore precisione nella manovra. Con lo stesso nome era noto in →agricol 

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tolomeo

tura uno strumento capace di sollevare l’acqua da un pozzo con un secchio ed utile quindi per l’irrigazione dei campi (Plin. nat. 19, 60). Il nome deriva infatti probabilmente dal lat. tollere, ‘sollevare’. Note. [1] Vd. anche →sambuca. Bibliografia. Campbell, D. B. 2003a ; Lendle 1983 ; Marsden 1971.  



Francesco Fiorucci Tolomeo (o Tolemeo) [ii sec. d.C.]. 1. Dati biografici. – Sulla vita di T. non possediamo notizie certe, eccetto che visse ed operò ad Alessandria sotto Adriano e Antonino Pio ; uno scolio in manoscritti piuttosto tardi che tramandano la sua opera riporta la notizia, non confermata altrove, che T. sarebbe vissuto fino al principato di M. Aurelio (161-180 d.C.). La sua collocazione cronologica è basata su riferimenti a eventi astronomici descritti nell’Almagesto, nel quale sono citati fenomeni che vanno dal 127 (26 marzo : Saturno in opposizione al Sole) al 141 d.C. (Mercurio in massima elongazione). T. è giustamente annoverato tra i massimi scienziati dell’antichità ; ha, infatti, esplicato la propria attività di studio e di ricerca su una grande varietà di campi collegati, dall’→astronomia alla →fisica, dalla →geografia alla →matematica, isolando principi scientifici fondamentali e formulando teorie che hanno goduto di incontestabile fortuna fino al sec. xvi. 2. Opere e dottrina. – Il corpus delle opere di T. è copioso, e in esse la ricerca è sempre condotta attraverso una prospettiva fisica e geometrica : 1) un trattato intitolato originariamente Maqhmatikh; suvntaxi", [1] tradizionalmente noto con il nome di Almagesto ; la tradizione medievale, infatti, ha soprannominato l’opera con il superlativo megivsth, denominazione che ha finito per condizionare il titolo della traduzione araba, Tahrir al maghesti, redatta nel 1247 da Nasīr ad-Dīn at-Tūsī. Tale nuova denominazione è pienamente giustificata dalla densità teorica e scientifica dell’opera, nella quale per la prima volta la formulazione di teorie astronomiche è rigorosamente fondata sul sapere matematico, geometrico e stereometrico di matrice euclidea. L’opera, riscoperta in Europa occidentale soprattutto attraverso le traduzioni arabe e le traduzioni dall’arabo (Gerardo da Cremona), e poi attraverso le traduzioni dal greco (Giorgio da Trebisonda, detto Trape 











zunzio), è strutturata in 13 libri che hanno come oggetto: (i) la concezione geocentrica dell’universo alla luce delle conoscenze trigonometriche [→trigonometria], (ii) la posizione delle sfere planetarie in funzione della posizione dell’osservatore sulla Terra, (iii) il sole, il suo ciclo e la sua interazione con pianeti e stelle fisse, (iv, v) la luna, il suo ciclo e la teoria del parallasse, (vi) le eclissi, (vii, viii) le stelle fisse e quelle visibili da Alessandria, (ix, x, xi) i cicli planetari e la longitudine, (xii) la posizione e il moto retrogrado dei pianeti, (xiii) la latitudine dei pianeti. Il trattato, inoltre, è ricco di indicazioni relative al calcolo delle posizioni astrali in momenti determinati, con una dettagliata esposizione dei procedimenti necessari al raggiungimento delle esatte soluzioni. L’eccezionalità dell’opera è motivo della sua indiscussa fortuna, a partire dai Commentarii di →Pappo e →Teone Alessandrino ; 2) due libri di Ipotesi planetarie [2] (ÔUpoqevsei" tw'n planwmevnwn), conservati in traduzione araba (eccetto una parte del primo libro, tràdita anche in greco), in cui, oltre al riassunto dei principi fondamentali esposti nell’Almagesto, sono esposti, attraverso teorie fisiche, i rapporti tra i cicli dei pianeti ; 3) un Planispherium, [3] conservato indirettamente in latino e arabo, opera fondamentale anche per le rappresentazioni cartografiche, in quanto espone i principi per l’elaborazione di proiezioni stereografiche sul piano dell’equatore ; 4) un’opera intitolata Analemma, [4] tradita quasi esclusivamente in traduzione latina, nella quale si tratta delle tecniche nomografiche applicate a problemi di geometria sferica ; 5) le Tavole facili [5] (Provceiroi kanovne"), commentate da Teone che sono al contempo sintesi e rielaborazione approfondita di tabelle di calcolo sul modello di quelle già presenti nell’Almagesto, in cui si fa particolare attenzione alla trigonometria sferica ; 6) due libri sulle Fasi delle stelle fisse [6] (Favsei" ajplanw'n ajstevrwn), di cui rimane soltanto il secondo, in cui si tratta del sorgere delle stelle fisse, della loro posizione e delle previsioni metereologiche che ne dipendono. Argomenti, questi, che, pur rientrando nel campo d’interesse dell’astronomia tradizionale, sono affrontati da T. con il rigore tipico della trigonometria e della geometria euclidea [→euclide] ; 7) una Guida al disegno della Terra [7] (Gewgrafikh; uJfhvghsi"), in otto libri, in cui vengono fornite istruzioni per la creazione di mappe secondo criteri geometrico-matematici e stereometrici ben definiti  















tolomeo (libro i), vengono elencate le coordinate geografiche di oltre 8000 siti, raggruppati in 82 sezioni corrispondenti alle divisioni regionali dell’ecumene (libri ii-vii) e sono, infine, delineate 26 carte regionali sulla base di un procedimento matematico diverso da quello utilizzato per l’elaborazione della carta dell’ecumene (libro viii). Sebbene T. stesso sia cosciente che i risultati dei suoi calcoli sono suscettibili di correzione, è da sottolineare come i principi matematici e geometrici per l’elaborazione di mappe in scala raggiungano in quest’opera livelli fino a quel momento sconosciuti ; 8) le Previsioni astrologiche [8] (∆Apotelesmatikav o Tetravbiblo") composte di quattro libri che costituiscono, di fatto, il complemento astrologico all’Almagesto ; il i e il ii libro trattano di astrologia universale, mentre il iii e il iv di astrologia individuale ; 9) il Centiloquio o Frutto [9] (Karpov"), una raccolta di 100 aforismi tratti dalle Previsioni astrologiche, sulla cui attribuzione, però, si nutrono dubbi ; 10) un trattato di Ottica [10] [→ottica] composto in cinque libri, di cui ci resta solo una traduzione latina dalla versione araba, pure mancante del primo libro e della parte finale del quinto. [11] Il i libro, perduto, trattava della teoria della visione secondo il principio dei raggi visuali. Il ii libro è composto da 3 sezioni : la prima (§ 3-21) ha come oggetto gli elementi visibili considerati oggettivamente (classificazione degli elementi visibili, i colori, i rapporti tra la nitidezza della visione e le forze in gioco, l’oscurità) ; la seconda (§ 2282) tratta della percezione soggettiva degli elementi visibili (principi generali, percezione del colore, percezione della posizione con distinzione tra la visione monoculare e quella bioculare, percezione della grandezza, percezione della forma, percezione del movimento, transizione) ; la terza (§ 84-142) espone sistematicamente la questione delle illusioni ottiche (classificazione generale ; fenomeni relativi alla percezione attraverso gli altri sensi ; transizione ; illusioni ottiche specifiche della vista ; definizione delle passiones della vista tra cui sono annoverati fenomeni come diplopia, riflessione e rifrazione, vertigine, senso di prospettiva ; illusioni ottiche derivanti da processi di razionalizzazione). Nel iii libro sono esposte le leggi generali della riflessione attraverso dimostrazione sperimentale, giustificazione teorica e note sulla fallacia delle immagini speculari (§ 3-24), alcune questioni preliminari relative ad analogie e differenze tra la visione monoculare  

























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e quella bioculare (§ 25-62), considerazioni sulle immagini speculari in generale (§ 63-66), caratteristiche di specchi a superficie piana (§ 6796) e a superficie convessa (§ 97-132). Il libro iv, che ha come oggetto gli specchi concavi (§ 1-155) e quelli composti (§ 157-182), tratta in particolare del numero di riflessioni possibili secondo le posizioni dell’occhio e dell’oggetto, oltre che di considerazioni su distanza, grandezza, forma e direzione dell’immagine. La parte superstite del v libro espone osservazioni sperimentali sulla rifrazione (§ 5-22), concetti relativi alla rifrazione astronomica (§ 23-30), le leggi generali della rifrazione (§ 31-45), questioni quali convergenza, divergenza e parallelismo (§ 46-63) e considerazioni sulle immagini visualizzate per rifrazione (§ 64-86). Confrontato con la letteratura precedente in materia di ottica, soprattutto con →Euclide, [12] il trattato di T. permette di rilevare un notevole progresso sia dal punto di vista squisitamente scientifico (è, infatti, uno scritto ricco di riferimenti matematici, geometrici e fisici ben precisi), sia da quello dell’interazione tra aspetti squisitamente meccanici della visione ed elementi psicologici inerenti alla percezione ; 11) un opuscolo Sulle facoltà di giudizio e di controllo [13] che tratta questioni epistemologiche ; 12) un’opera di Scienza armonica [14] ( JArmonikav), nella quale T. si confronta con le teorie armoniche e matematiche già esposte dalle dottrine pitagoriche ed empiriche, stabilendo i principi razionali da applicare all’analisi dei suoni e delle strutture melodiche. Abbiamo notizia di alcune opere perdute, [15] tutte relative a questioni di geometria e di fisica, di cui restano riferimenti soprattutto nel Commentario al De Caelo di Aristotele di Simplicio; [16] qui si accenna a un trattato Sulle dimensioni (Peri; diastavsew"), riferendo che in questa sede T. avrebbe provato l’esistenza di sole tre dimensioni, e si citano un’opera sugli Elementi [17] (Peri; tw'n stoiceivwn) e un Peri; rJopw'n, [18] probabilmente da identificare con il trattato di Meccanica (Mhcanikav) [→meccanica] in tre libri di cui riferisce la Suda. Da Proclo, infine, abbiamo notizia di un commento al ‘postulato sulle parallele’ di →Euclide.  











Note. [1] Vd. Heiberg 1898-1903 ; sulle versioni medievali araba (al-Hağğāğ) e latina (Gerardo da Cremona) vd. Kunitzsch 1974. – [2] Vd. Heiberg 1907 ; Goldstein 1967. – [3] Vd. Heiberg 1907 ; Anagnostakis 1984. – [4] Vd. Heiberg 1907 ; Edwards 1984. – [5] Vd. Halma 1822-1825 ; Rome 1931-1943.  









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torsione

– [6] Vd. Morelon 1981, 3-22 ; per il secondo libro, vd. Heiberg 1907. – [7] Vd. Nobbe 1843-1845 ; per la riproduzione delle mappe vd. Fischer 1932. – [8] Vd. Hübner 1998 ; Feraboli 1995. – [9] Vd. Boer 1961a. – [10] Vd., per la versione latina dell'opera, Lejeune 1956. – [11] Vd., sul diretto antigrafo della versione araba, probabilmente greco, e sulla sicura attribuzione dell'opera, Lejeune 1956, 15*-18* ; 18*26*. – [12] Vd. Lejeune 1948. – [13] Vd. Lammert 1961. – [14] Vd. Düring 1930 ; per la traduzione italiana e un commento anche dal punto di vista musicologico vd. Raffa 2002. – [15] Vd. Heiberg 1907, 263. – [16] Vd. Simp. in Cael. 9. – [17] Vd. Simp. in Cael. 20. – [18] Vd. Simp. in Cael. 710.  









Bibliografia. Anagnostakis 1984 ; Boer 1961a ; Düring 1930 ; Edwards 1984 ; Feraboli 1995 ; Fischer 1932 ; Goldstein 1967 ; Halma 1822-1825 ; Heiberg 1898-1903 ; Heiberg 1907 ; Hübner 1998 ; Kunitzsch 1974 ; Lammert 1961 ; Lejeune 1948 ; Lejeune 1956 ; Morelon 1981 ; Nobbe 1843-1845 ; Raffa 2002 ; Rome 1931-1943.  



























     



Livia Radici Torsione. I primi pezzi di artiglieria furono i vari modelli di →gastraphetes, che sfruttavano l’energia prodotta dalla tensione della corda e dalla flessione dell’arco per rilasciare i dardi. Col tempo, l’esigenza di scagliare proiettili sempre più grandi a distanze sempre maggiori portò gli ingegneri antichi a sviluppare un nuovo sistema di propulsione, molto più potente. Il risultato di tali ricerche fu la torsione, che permise la realizzazione di macchine [→meccanica] come vari tipi di catapulte [→catapulta]. Il nuovo motore era costituito da un telaio che ospitava due matasse ritorte, disposte verticalmente e sporgenti dalla struttura mediante appositi fori. Eccezionale da questo punto di vista era l’→onager, azionato invece da una singola, enorme matassa orizzontale. Il telaio era ligneo, rinforzato con piastre di ferro, mentre per la matassa si utilizzavano tendini animali, crini di cavallo o anche capelli. Le matasse ritorte erano poi bloccate alle due estremità tramite perni di ferro. Una miglioria fu l’adozione di modioli bronzei che scorrevano su supporti di ferro (che fungevano da rondelle) su cui poggiavano a loro volta i perni, per evitare il contatto tra quest’ultimi ed il telaio. La pressione causata dalla stretta della matassa, infatti, poteva risultare talmente forte da far affondare i perni nel legno. Nelle due matasse venivano poi inseriti i bracci, collegati con una corda, che riproducevano la funzione dell’arco in uno

strumento a tensione. Tirando indietro la corda, infatti, si agiva sulle matasse ed il successivo rilascio sprigionava l’energia immagazzinata. Un avanzamento tecnico fu l’introduzione di un nuovo disegno per la disposizione dei bracci nelle matasse, che permetteva a questi di ruotare su un angolo più ampio, garantendo maggior potenza al rilascio. Bibliografia. Campbell 2003 ; Marsden 1969 ; Marsden 1971 ; Russo 2004.  





Francesco Fiorucci Tossicologia. 1. – Generalità. A ridosso dei progressi della →medicina e della →farmacologia si viene costruendo in Grecia, a partire dal v sec. a.C., un sapere medico che ha per oggetto lo studio delle sostanze venefiche di natura animale [→animali velenosi], vegetale [→erbe velenose, →funghi] o minerale [→mineralogia], con la finalità di individuarne gli effetti sull’organismo, di fissare i principali sintomi di avvelenamento e di indicare gli antidoti e le cure [→veleni e contravveleni, →contravveleni composti]. 2. La letteratura tossicologica anteriore a Nicandro. – →Plinio [1] attesta che già →Ippocrate, e, dopo di lui, →Diocle di Caristo, →Prassagora di Cos ed →Erasistrato, avevano manifestato, nei propri scritti, una particolare attenzione alle sostanze venefiche e ai relativi antidoti, e tra i precedenti diretti di →Nicandro si può annoverare con certezza Apollodoro d’Alessandria (iii a. C.), autore di un’opera Peri; dhlhthrivwn farmavkwn e di un Peri; qhrivwn. [2] L’interesse per la tossicologia sviluppatosi nel iii sec. a. C. è testimoniato anche da →Erasistrato e dalla sua scuola (Stratone, Apollonio Menfita), in cui veniva affrontata con attenzione particolare la materia iologica, ripresa poi, nella metà dello stesso secolo, dall’opera di Filino, autore di un trattato di Qhriakav. Questo titolo, particolarmente fortunato, sarà lo stesso dell’opera di Numenio di Eraclea, [3] che può essere considerato l’antecedente in versi dei due poemi di →Nicandro di Colofone, intitolati Qhriakav [4] ed jAlexifavrmaka, [5] datati intorno alla metà del ii sec. a. C. 3. Il ruolo di Nicandro di Colofone. – Nicandro svolge un ruolo fondamentale nella conservazione e nella trasmissione del sapere tossicologico, in quanto si pone come collettore della letteratura di genere a lui precedente, e costi-

trapano tuirà un punto di riferimento per la letteratura tossicologica a lui successiva, fino ad essere riconosciuto, in età umanistica, la massima auctoritas in materia, come è dimostrato dalla presenza di un notevole numero di edizioni e traduzioni in versi, da parte di medici e grammatici umanisti, che vedono la luce in diverse nazioni d’Europa. [6] 4. La letteratura tossicologica in età imperiale e tardoantica. – Nella trattatistica tossicologica successiva a Nicandro rientra anche l’opera di →Galeno Peri; ajntidovtwn, il trattato del coevo Filumeno [7] Peri; ijobovlwn zwv/wn, il trattato Peri; tw`n ijobovlwn qhrivwn kai; dhlhthrivwn farmavkwn dello Pseudo-Elio Promoto, [8] nonché le singole sezioni relative all’argomento nelle opere di →Oribasio (iv d. C.), →Aezio (vi d. C.) e →Paolo Egineta (vii d. C.). Note. [1] Plin. nat. 26, 10. – [2] Jacques 2002, xxxiiixxxvii ; 285, 292 ; Touwaide 1991, 71-75. – [3] Jacques 2002, xv-liv. – [4] Jacques 2002. – [5] Jacques 2007. – [6] Manutius 1499 (15232) ; Lonicerus 1531 ; Gorraeus 1549 ; Steve 1552 ; Gorraeus 1557 ; Grevinus 1571. – [7] Wellmann 1908. – [8] Ihm 1995.  













Bibliografia. Gorraeus 1549 ; Gorraeus 1557 ; Grevinus 1571 ; Ihm 1995 ; Jacques 2002 ; Jacques 2007 ; Lonicerus 1531 ; Manutius 1499 (15232) ; Steve 1552 ; Touwaide 1991 ; Wellmann 1908.  



















Livia Radici Traduzioni (mediche). Quello delle traduzioni è un fenomeno che attraversa tutta la storia della letteratura latina, nata proprio sotto la spinta della cultura greca, con opere che sono spesso, nell’insieme, traduzioni o adattamenti dal greco (cfr. le fonti dichiarate) o rifacimenti. Per quanto riguarda l’ambito medico [→medicina], dopo il periodo arcaico e classico, a partire dal periodo tardoantico si riaffacciò l’esigenza di trasporre in latino l’immenso sapere della scienza greca, per sopperire alla progressiva perdita di conoscenza della lingua dell’Ellade. Non a caso appartiene al iv sec. d.C. quello che rappresenta senz’altro il massimo esempio di traduzione in lingua latina del mondo antico, sebbene con modi e forme differenti rispetto ai generi tecnici, cioè la Vulgata di S. Girolamo. Sono gli stessi autori ad informarci che le loro opere sono latinizzazioni di precedenti greci, secondo vari procedimenti del uertere che non trovano sempre diretta corrispondenza col nostro concetto del ‘tradurre’. Di solito certi ‘traduttori’ intervengono con riduzioni e ma-

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nipolazioni varie, anche piuttosto consistenti, enfatizzando in tal modo la loro autonomia dai modelli. Una forma tipica del uertere è l’explicatio, che mira a riprodurre il sensus, cioè le forme del pensiero del testo di riferimento. Tra i molteplici fattori che rendono oltremodo preziose per noi le traduzioni tardoantiche è il fatto che queste ci consentono di stimare le conoscenze mediche del periodo che le ha prodotte, costituendo al contempo una verifica della sopravvivenza di certe opere piuttosto che di altre. Dalla circolazione di scritti di carattere manualistico nel Basso Impero, per esempio, si intuisce l’esigenza di attingere ad un sapere con finalità pratiche, che garantisse le necessarie conoscenze di base al →medico praticante [→terapeutica]. Attraverso l’indagine sulla tecnica di traduzione possiamo anche individuare l’influenza di spinte esterne, come quella del Cristianesimo. I traduttori del v-vi sec., infatti, si trovarono alle prese con opere pagane che dovevano essere rese accessibili ad uomini di fede cristiana. Inoltre l’analisi linguistica delle traduzioni ci permette di verificare i fenomeni subiti dal latino nel periodo in questione. Un ruolo considerevole fu svolto anche dalla civiltà islamica, attraverso la quale ci sono giunte in traduzione araba numerose opere greche, che concorrono in maniera rilevante alla nostra comprensione del vasto e complicato fenomeno del →Galenismo [→Galeno]. Sulle traduzioni, infine, si basa il fulcro dell’attività scientifica e scolastica del circolo di Ravenna, dove furono volti in latino scritti di →Ippocrate e →Oribasio. Bibliografia. Chiesa 1995 ; Ieraci Bio 1994 ; Mazzini 1983a ; Mazzini-Palmieri 1991 ; Reiff 1959 ; Traina 1989 ; Vazquez Bujan 1984.  











Francesco Fiorucci Trapano. Questa macchina [→meccanica] fu ideata per far breccia nella parte bassa delle mura nemiche. Il nome deriva dal noto utensile da falegnameria, cui l’arma somigliava, sebbene quest’ultima non possedesse il movimento rotatorio proprio dell’originario trapano [vd. anche →strumenti chirurgici]. Da →Ateneo Meccanico (14-15) e →Vitruvio (10, 13, 7) conosciamo la versione costruita da →Diade, ingegnere di Alessandro Magno. Era costituito da un’impalcatura provvista di montanti, all’interno dei quali era collocala una stretta piattaforma orizzontale (su`rigx,

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trasillo di alessandria la forma attuale, raggruppandone gli scritti in 9 tetralogie e assegnando a ciascun dialogo un sottotitolo che ne indicasse sommariamente la tematica principale. Contemporaneo di Germanico e →Manilio, vantò grande credito per la sua professione di astrologo alla corte dell’imperatore Tiberio. Di lui si ricorda un’opera di argomento astrologico intitolata Pivnax, [2] non pervenuta se non in un riassunto bizantino, [3] nella quale oltre al peso della tradizione più autorevole (→Nechepso e Petosiride, Ermete Trismegisto) che l’autore cita esplicitamente, dovette confluire anche la sua esperienza di astrologo praticante.  



Fig. 1. Trapano (da Connolly 1998).

canalis) che fungeva da canale di scorrimento per la punta ferrata. Il canale era munito di una serie di cilindri disposti orizzontalmente, che permettevano un movimento più agile della punta stessa. La caratteristica principale del trapano, da cui dipendeva anche buona parte della sua capacità offensiva, era proprio la presenza del canale, che dava all’arma una eccellente precisione, in modo non troppo dissimile dal corpo del →gastraphetes dove era poggiato il dardo o, per fare un esempio moderno, dalla canna di un fucile. L’operazione di caricamento e rilascio era consentita da un sistema di funi in tensione, manovrate dagli addetti che operavano probabilmente all’interno della impalcatura. Agendo nelle dirette prossimità delle fortificazioni, la macchina doveva essere dotata anche di una copertura che potesse garantire la necessaria protezione dagli attacchi dei difensori, somigliando in questo aspetto alle →testuggini. Il trapano sapeva coniugare la precisione con una grande potenza, visto che le sue dimensioni erano davvero imponenti. Vitruvio spiega infatti che il canale era lungo più di 20m., quindi il vero e proprio trapano, sporgendo da questo, superava sensibilmente tale misura. Bibliografia. Campbell 2003a, 18 sg. ; Lendle 1983, 128 sgg. ; Whitehead-Blyth 2004.  



Francesco Fiorucci

Note. [1] Gundel-Gundel 1966, 150, n. 21. – [2] Cfr. Gundel-Gundel 1966, 149. – [3] Ed. F. Cumont, ccag viii 3, 99-101. Bibliografia. Gundel-Gundel 1966, 148 sgg. ; Urso 2002, 129.  

Carmelo Lupini Trigonometria. 1. Generalità. – La t. è quella parte della →matematica che cerca la risoluzione di un triangolo generico, ovvero la misura dei suoi elementi caratteristici (lato, angolo, mediane), mediante funzioni che mettano in relazione un elemento con gli altri (almeno tre, di cui almeno una lunghezza). Gli ambiti di applicazione sono molteplici, ed i più immediati sono senz’altro la →geometria (piana e sferica) e l’→astronomia, tanto che in Grecia la maggior parte delle conoscenze trigonometriche furono sviluppate da astronomi anziché da matematici di professione. Per secoli la t. utilizzata fu quella di →Ipparco e →Tolomeo ; tuttora possiamo dire che, con le dovute integrazioni apportate in epoca rinascimentale e dalla scienza araba, la t. resta la parte della matematica più squisitamente greca, conservata nel suo spirito quasi intatta. 2. Goniometria. – Si definisce goniometria (da gwniva, angolo, e mevtron, misura) lo studio degli angoli e delle funzioni ad essi connesse. Fin da Talete si possono raccogliere indizi che attestano l’interesse per gli angoli (→Talete, 6). [1] D’altra parte già le regolarità delle scanalature delle colonne ioniche rendono convincente l’idea che una certa dimestichezza con gli angoli fosse posseduta fin da tempi alti. Si può così pensare anche al famoso problema speciale della tripartizione dell’angolo risolto da Ippia, e anche al problema della quadratura  



Trasillo di Alessandria. Vissuto tra il i secolo a.C. e il i secolo d.C. fu un apprezzato filologo, filosofo e studioso di astrologia, padre dell’astrologo →Balbillo, tenuto in grande considerazione da Valente e da →Efestione. [1] Fu lui a dare all’edizione del corpus platonico  

trigonometria del cerchio (→geometria, 5) : il calcolo della lunghezza della circonferenza di un cerchio, infatti, suppone che, posta l’equidivisibilità del circolo, ad essa corrisponda l’equidivisibilità della circonferenza e che possa dunque stabilirsi una qualche relazione tra l’estensione dell’angolo e la lunghezza della relativa porzione di circonferenza. Sebbene con qualche cautela, potrebbe ritenersi pitagorica la scoperta che la somma degli angoli interni di un triangolo è pari a due angoli retti (Procl. in Eucl. p. 379 Friedlein), ma per una definizione esplicita di ‘angolo piano’ come « inclinazione delle linee l’una rispetto all’altra » dobbiamo leggere il i libro degli Elementi di →Euclide (in particolare i termini 8, 9, 11, 12, relativi all’angolo piano, retto, ottuso, acuto), mentre troviamo un’ampia trattazione di angoli e triangoli anche nei Data dello stesso autore (ad es. proposizioni 39-55, 63-67). Ad attestare il vivo dibattito circa la natura dell’angolo, →Proclo dedica all’argomento un ampio excursus quando commenta la def. 8 del i libro degli Elementi di Euclide : la controversia doveva insorgere tra quanti ritenevano l’angolo una relazione (tra rette o piani), quanti lo ritenevano una proprietà della superficie o dello spazio e quanti infine lo ritenevano una quantità (Procl. in Eucl., p. 121-128 Friedlein). 3. Trigonometria. – Dalla misurazione degli angoli e dalle relative proprietà angolari delle figure, si passa alla t., che letteralmente significa ‘misurazione dei triangoli’ (da trivgwno", triangolo, e mevtron, misura). Un tratto distintivo della t. antica è il ricorso alla tabulazione delle corde (associando corde e valori numerici, secondo un uso introdotto da Ipparco e perfezionato da Tolomeo), anziché dei seni come avviene nell’approccio moderno, ma ciò non determina differenze sostanziali. [2] Si stabilisce un’equivalenza tra parti della circonferenza e parti del diametro suddividendo in 360 parti la circonferenza del cerchio e in 120 parti il diametro. Ogni parte così ottenuta nel cerchio e nel diametro è ulteriormente divisa in 60 parti, ed ognuna di queste in ulteriori 60 parti. Ogni numero di parti del cerchio viene allora associato ad un certo numero di parti della corda. Già Eucl. opt. A, prop. 8 (le grandezze uguali e parallele disugualmente intervallate dall’occhio non sono viste proporzionalmente agli intervalli ; cfr. anche opt. A, prop. 18), sembra intuire l’equivalenza di tanga/tangb>a/b, con a e b angoli acuti tali che a>b : è normale che  













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ciò avvenga nell’ambito degli studi di ottica, nel quale viene postulata la direzione rettilinea dei raggi luminosi e viene ad essere indispensabile lo studio degli angoli di incidenza per capire il fenomeno della visione e il comportamento della luce. Lo sviluppo maggiore dello studio delle proprietà trigonometriche si ha però in sede di ricerche astronomiche, poiché nell’astronomia greca i moti degli astri venivano considerati perfettamente circolari : ciò ha fatto sì che si potesse distinguere, ed in un certo senso premettere, una t. sferica (relativa alle proprietà di triangoli su superfici sferiche) ad una t. piana. Molte delle nozioni trigonometriche in possesso nell’antichità sono dunque compendiate in quegli scritti che sono intitolati Sphaerica. 4. Momenti della ‘scienza della sfera’. – La necessità di studiare la sfera e le proprietà delle figure in essa iscritte fu diretta conseguenza della concezione del sistema cosmologico greco, basato su due sfere concentriche : la sfera esterna è tale da delimitare il cosmo e di sostenere il moto delle stelle fisse ; la sfera interna, invece, è identificabile con la terra. Nel rapporto tra le due sfere la seconda ha dimensioni di gran lunga inferiori, tanto da poter essere considerata il centro puntiforme della prima. Osservando la sfera esterna da punti diversi della terra, si osservano mutazioni anche notevoli sulla volta celeste, che devono necessariamente essere spiegate. Analogamente è necessario spiegare il differente corso del sole e la sua differente luminosità durante il ciclo delle stagioni. La suddivisione del cerchio in 360 parti è molto probabilmente dovuta ai cicli annuali di 360 giorni già in uso nei primi calendari [→calendario astrometereologico] ed è usata in maniera più programmatica da Ipsicle d’Alessandria, dovendo dar conto delle levate delle stelle (Anaphoricus, 150 a.C. ca). Tracce significative di conoscenze trigonometriche si trovano però già nel iv sec. a.C. in →Eudosso (nella perduta opera Phaenomena), →Euclide (soprattutto nei Phaenomena) e Autolico (De ortibus, De sphaera quae movetur), sebbene il loro approccio resti ancora acerbo. Sembra che sia stato →Ipparco di Nicea nel ii sec. a.C. (che scrisse un Trattato sulle levate simultanee e Sulle ascensioni dei dodici segni zodiacali) a compilare una prima tavola trigonometrica, per risolvere ogni possibile triangolo, ovvero individuare tutti gli angoli e le lunghezze dei lati quando è  





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trigonometria

nota solo una parte di essi. La tavola di Ipparco si basava su una circonferenza data di raggio r per calcolare il valore della corda sottesa dagli angoli minori di 180°. Ipparco avrebbe anche scoperto il modo di rappresentare la superficie della sfera su un piano equatoriale mediante proiezione stereografica dal polo sud della sfera. Per l’ulteriore definirsi di questa t. furono preziosi gli astronomi e i matematici di area alessandrina. La loro peculiarità sembra quella di aver dato alla scienza greca un’attitudine pratica, capace di produrre una matematica ed un’astronomia quantitative : dalle cosmologie di →Platone e →Aristotele si sentì il bisogno di passare ad una astronomia con approccio più ‘calcolistico’, capace di fornire previsioni di fenomeni intorno ai quali si andava indagando ormai da molto (ne è un esempio la questione della previsione di eclissi o lo studio dello zodiaco). Devono aver dato il loro contributo Teodosio di Tripoli (De diebus et noctibus, De habitationibus, Sphaerica, i sec. a.C.: cfr. Str. 12, 4, 9) e →Gemino di Rodi, che compendiò in una Introduzione ai fenomeni celesti le conoscenze relative al modello cosmologico a due sfere. Infine, arrivando al i sec. d.C., fu Menelao di Alessandria (Sphaerica, i-ii sec. d.C.) a profondere un impegno di rilievo nella ricerca trigonometrica poiché a lui si deve la prima denominazione dei triangoli sferici (ejn toi'" sfairikoi``" tripleuvroi~), nonché l’esame delle differenze tra le proprietà dei triangoli piani e dei triangoli sferici ed infine il teorema noto come ‘teorema di Menelao’. [3] La t. sferica trova ampio spazio nell’opera di Tolomeo, ed infine nei commenti degli alessandrini →Pappo e →Teone. 5. Tolomeo. – Basandosi sul sistema ideato da Ipparco, →Tolomeo (100-178 ca. d.C.) sviluppa la t. nella sua opera più conosciuta : originariamente intitolata Collezione matematica (Maqhmatikh; suvntaxi"). È qui che Tolomeo elabora una tavola delle corde : lavorando sugli angoli compresi tra 0° e 180°. Tolomeo vuole mostrare come è possibile trovare tutti gli elementi caratterizzanti un triangolo, combinando un certo numero di elementi noti. Queste operazioni sono possibili e sono spiegate ricorrendo ad alcune proposizioni fondamentali di t. come il già citato ‘teorema di Menelao’.  







Questo, relativo ai triangoli sferici, afferma che, dati due archi di circolo massimo AB e AG tracciati sopra una sfera e minori di una semicirconferenza, ed altri due CD e BE terminanti ai due primi e con punto di intersezione in F, si avrà sinCE = sinCF sin DB . Un esempio di apsin EA

sin FD sin BA

plicazione trigonometrica all’astronomia è in Almag. 4, 6 (cfr. Neuegebauer 1974, 247-251). I teoremi trigonometrici sono introdotti da Tolomeo per un fine preciso : il calcolo delle tavole dei tempi di levata e degli angoli. Lo studio della sfera è completato nel Planisphaerium, inerente il metodo per la costruzione di un astrolabio, e negli Analemmata, vertenti sulla costruzione di un sistema di coordinate sulla sfera per una determinata regione.  

Note. [1] Probabilmente intendendo l’angolo come una ‘figura’ avente una certa forma, alla maniera del seqet egiziano. Questa era una grandezza rappresentante il rapporto tra la diagonale di base di una piramide e il suo spigolo e ricorre con una certa frequenza nei calcoli del papiro matematico di Rhind. Cfr. Heath 1921, 131 e Rankin 1960. – [2] Si tratta di tenere conto delle equivalenze : sin x = corda 2x / 120 e cos x = corda (p-2x)/120. – [3] Per il piano : Se i punti P, Q, R appartenenti rispettivamente ai lati (o ai loro prolungamenti) AB, BC e CA di un triangolo ABC sono collineari, allora vale (AP/PB)(BQ/QC)(CR/RA)= -1.  



Bibliografia. Acerbi 2007b ; Berggren 1991-a ; Berggren 2001 ; Cohen-Drabkin 1948 ; Goldstein-Bowen 1991 ; Duke 2002 ; Heath 1921 ; Heiberg 1907 ; Jones 2002 ; Loria 1914 ; Neugebauer 1974 ; Pedersen 1974 ; Rankin 1960 ; Schmidt 1943 ; Sidoli 2004 ; Toomer 1973 ; Toomer 1984 ; Vogt 1925 ; Wilson 1997.  



































Flavia Marcacci

U Urbanistica. 1. Urbanistica greca arcaica (xiiivii sec.). – L’architettura greca primitiva scaturisce da una comunità sociale e politica inquieta, basata sull’unione fra gruppi familiari e sociali legati da interessi comuni, in cui i diritti politici dipendono dalla proprietà e dall’ambiente familiare. Il carattere di questa architettura, pratico e utilitaristico, senza pretese di monumentalità, non rileva differenze sostanziali tra il tempio, dimora degli dei, e la casa, dimora degli uomini ; entrambi sono infatti caratterizzati da una sola stanza, dapprima di pianta ellittica, poi rettangolare e infine absidale, fatta di mattoni crudi o di argilla battuta. L’aula unica poggia generalmente su un basamento di pietre o pietrisco. Alcuni pilastri di legno disposti all’interno, sull’asse principale, permettono di sostenere una copertura rudimentale, composta da una tegola di colmo da cui si diramano elementi laterali. Col passare del tempo le abitazioni vengono realizzate con blocchi squadrati e poi con ortostati, grandi lastre di pietre verticali che rimarranno in uso per tutta la storia dell’architettura greca. La comparsa del triangolo sul frontone, nel quale un’apertura rischiara il sottotetto e lo rende abitabile, coincide con l’ingrandimento della pianta absidale, che comporta una facciata rettilinea e la comparsa di portici a pensilina, destinati a proteggere e ingrandire la cellula iniziale. 2. Urbanistica greca classica. – Sin dalla più remota antichità le società dimostrarono interesse a disporre con un ordine funzionale le abitazioni, qualunque esse fossero (capanne, palafitte o case). Presso le culture più evolute, come Tirinto o Troia, le abitazioni comparivano tutte all’esterno della cinta muraria, ad eccezione del tempio, del palazzo e della fortezza, dove, in caso di assalto o assedio, gli abitanti potevano rifugiarsi e proteggersi. Per comporre i propri insediamenti, le culture greca e italica preferirono, tra le diverse forme geometriche, il quadrato o il rettangolo (quest’ultimo, com’è noto, è in realtà la deformazione del quadrato). La preferenza per queste due forme consentiva un’assialità predominante e una certa facilità di comporre e scomporre il sito in figure complesse e  

dinamiche, ma anche perfettamente regolari, regolate sui quattro punti cardinali. Il sito archeologico di Olinto, per esempio, scavato negli anni ‘30 dallo statunitense Robinson, ha permesso di ricostruire alcuni dati relativi all’edilizia privata della Grecia preellenistica, basata sul concetto di ‘ordine’ e regolarità delle forme. Questo concetto fu fondamentale per la creazione della città greca, poichè era strettamente connesso al suo ordine sociale : una città dotata di edifici disordinati, infatti, avrebbe finito col sovvertire l’organizzazione sociale dello stato, le sue leggi, il suo governo e avrebbe irrimediabilmente condotto alla stavsi~ (nel senso di ‘sedizione’, ‘guerra civile’ [1]) e alla disintegrazione della comunità stessa. La progettazione di una città, quindi, non implicava semplicemente la ricerca di un sito adatto in cui definire i blocchi, tracciare le mura della città, decidere la collocazione dell’agorà, dei templi [→architettura sacra], e degli altri edifici pubblici [→edilizia pubblica]. L’urbanistica greca era piuttosto la manifestazione di un modello ideale di comunità tradotto in forma fisica. I Greci, come altre civiltà del mondo mediterraneo, utilizzano tessuti urbanistici con assi viari orientati in direzione nord-sud e est-ovest. Dopo la battaglia di Micale del 479 a.C. un nuovo sistema pianificatorio, su base geometrica regolare, ideato da →Ippodamo di Mileto viene adottato appunto per la ricostruzione di Mileto. Al contrario, la ricostruzione di Atene, distrutta anch’essa dai Persiani, rimane ancorata a modelli arcaici, con l’acropoli isolata nel luogo in cui in precedenza sorgevano i palazzi reali [→architettura minoicomicenea] e che adesso ospita le dimore delle divinità. La città nuova si concepisce al Pireo su progetto di Ippodamo, il quale ripartisce gli spazi e propone edifici diversi, rispondenti alle funzioni politiche, amministrative, religiose e commerciali della città, che dialogano reciprocamente. Ognuna di queste zone è delimitata da cippi. Il complesso monumentale occupa la zona centrale, mentre i quartieri residenziali si articolano in tre zone intorno ad esso. La concezione ippodamea tiene conto della presenza di ceti di recente inurbamento e del fatto che tutti gli strati sociali, in età classica, abbiano assunto nuovi stili di vita ; il che rende obbligatorio fissare regole generali intese a definire  



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urbanistica

in anticipo l’evoluzione degli spazi urbani. È difficile, tuttavia, stabilire oggi quale sia stato il volto dell’Atene ippodamea, la cui concezione urbanistica, in realtà, venne anticipata molti anni prima nelle colonie della Magna Grecia, come Megara, Camarina e Selinunte. 3. Urbanistica ellenistica. – La città ellenistica non è il prodotto dell’applicazione di un ‘modello’ di città, quanto un ‘sistema’ di pianificazione, secondo un ordito e una trama attagliati alle peculiarità geotopografiche di ciascun centro. Gli impianti più generalmente adottati, quindi, sono quelli a reticolo geometrico, dove si possano predisporre lotti edificatori già localizzati in partenza, di dimensione diversa a seconda delle esigenze funzionali di ciascuna delle parti del tessuto urbanistico. Nell’ambito regolare dell’impianto a griglia, che prevede strade maggiori e minori, particolare rilievo viene dato all’ajgorav e ai suoi edifici, al teatro, all’area portuale. Un esempio significativo di città ellenistica è rappresentato da Pella : destinata ad essere capitale dell’impero macedone, fu realizzata alla metà del iv sec. col bottino che Filippo aveva strappato ai Persiani, ed organizzata in due parti : nella prima, a sé stante, c’è la reggia, e nell’altra la città vera e propria. Distinti dagli altri lotti, rigorosamente su uno schema a griglia, si trovano i lotti per edifici pubblici, quelli per funzioni speciali e quelli dei ceti più elevati. Questi ultimi si caratterizzano per l’adozione del sistema a peristilio o a doppio peristilio, nonché per la ricercatezza delle soluzioni decorative, come la pavimentazione a mosaico con ciottoli di colore differente o con figurazioni mitologiche. I medesimi principi urbanistici e pianificatori sono adottati da Alessandro Magno ad Alessandria d’Egitto e in  



altre città da lui fondate o ricostruite, e da Lisimaco nella nuova Efeso. 4. Urbanistica romana. – Con il termine città (povli", a[stu, civitas, urbs) si intende nella Roma antica sia il centro urbano che i suoi abitanti. In epoca repubblicana la civitas, intesa come condizione propria dei cives, cioè come cittadinanza, si riferiva sia all’urbs stricto sensu, sia alla suburbs, cioè a tutto il territorio sottoposto alle stesse leggi. La distinzione tra città e campagna, propria dell’epoca moderna, infatti, non esisteva, e l’una si succedeva all’altra nello spazio senza soluzione di continuità, come realtà non differenziate sia sotto il profilo geografico che della condizione civile. Nella Roma imperiale le assialità degli edifici più importanti costituiscono l’asse di simmetria per ordinare tutto lo spazio cittadino senza mai uscirne : ne sono evidenti esempi l’organizzazione edilizia dei Fori imperiali romani e la disposizione degli spazi differenti che compongono la Villa Adriana di Tivoli. Nelle province, le città romane originate da un castrum presentano la pianta a scacchiera del cardo e del decumano [→infrastrutture e servizi], derivata, evidentemente, dalla disposizione spaziale delle città etrusco-latine ; ad essa si è sovrapposta la praticità empirica dei manuali militari romani.  



Note. [1] Radici Colace-Sergi 2002. Bibliografia. Adam 1994 ; Argan 1936 ; Bise 1923 ; Bozzoni-Franchetti Pardo-Ortolani-Viscogliosi 2006 ; Burns 1976 ; Cahill 2002 ; Castagnoli 1956 ; Castagnoli 1963 ; Castagnoli 1971 ; Franchetti Pardo 2006 ; Fyfe 1965 ; Lauther 1999 ; Lippolis-Livadiotti-Rocco 2007 ; Robinson-Graham 1938 ; Wycherley 1962.  



























Shara Pirrotti

V Varrone, M. Terenzio. 1. Generalità. – Conservatore, come suggerisce anche la sua origine sabina (nacque a Rieti nel 116 a.C.), e concretamente realista, fu prima sillano, poi pompeiano, comunque sempre avversario dei populares. Si arrese a Cesare per necessità, prima quando in Spagna, durante la guerra civile, gli si consegnò con le truppe che guidava, poi dedicando a lui pontifex maximus, le Antiquitates Rerum divinarum, la seconda sezione della sua maggiore e significativa fatica, ed ottenenedo dall’illuminato dittatore l’incarico di dar vita alla prima biblioteca pubblica di Roma. A V. sono attribuite opere per un totale di oltre 600 volumi : un attività di poligrafo (polygraphotatos lo definì Cicerone) straordinariamente importante (visse una lunga e attiva esistenza ; morì solo nel 27 a.C. a circa 90 anni), indirizzata a cercare e comprendere le radici della romanità e sistemare enciclopedicamente lo scibile relativo agli uomini e agli dei, in una dimensione storico-scientifica e religiosa, ma soprattutto politica. La produzione creativa, soprattutto le Saturae Menippeae in prosimetro e i Logistorici in prosa, è subissata quantitativamente dalle opere di reinterpretazione e sistemazione del precedente sapere. Si guadagnò dal preumanista Petrarca l’apprezzamento di ‘terzo gran lume romano’ dopo →Virgilio e Cicerone, avendo messo a disposizione dei posteri una produzione tanto vasta quanto necessariamente sommaria. V. volle essere studioso di →filosofia e aderì in linea di massima alla Accademia di Antioco di Ascalona (che superava lo scetticismo di Carneade, attenuato da Filone di Larissa, circa la possibilità di arrivare alla verità, ponendo l’esigenza di partire da punti fermi) al pari di Cicerone, che gli dedicò un libro dei suoi Academica posteriora (cfr. ad fam. 9, 8, 1) ma come l’Arpinate, con il quale i rapporti non furono mai calorosi, V. fu in realtà un eclettico, termine che oggi può apparire dispregiativo, ma che al contrario sta per lui, come per Cicerone, ad indicare la capacità di individuare e mettere a frutto il meglio delle varie teorie filosofiche. Ai tempi di V. lo stoicismo originario era stato rivisitato in profondità da prima da Panezio e recentemente da →Posidonio e il Peripato, dopo secoli di prevalenza della  



componente scientifica, era tornato ad una dimensione più filosofica, a seguito dell’acquisizione delle opere acroamatiche dello Stagirita. In definitiva era proprio →Aristotele e la sua visione storico-naturalistica a fornire alla classe dirigente di Roma il tessuto connettivo delle conoscenze, che V. etiologicamente ricercava, ripercorrendo la storia a ritroso per arrivare all’origine, garanzia di verità. Per questo definire V. ‘antiquario’ ed erudito appare limitativo ; si fa così prevalere la sistemazione di quanto appreso, prevalentemente dalla tradizione, sulla ricerca della verità, che sta a monte e che costituisce il momento più importante. Tutto ciò vale in primis per la ricerca linguistica e grammaticale. 2. Varrone e il linguaggio : dal De antiquitate litterarum al De lingua Latina. – La lingua è per V. il primo e principale elemento di distinzione e di unità di un popolo (e alla origine e alle peculiarità del popolo romano fanno riferimento i titoli di opere perdute quali : De vita populi Romani, De gente populi Romani, De familiis Troianis). Anche sotto questo profilo, con l’età di V. arriva a compimento un processo iniziato nell’epoca degli Scipioni, volto allora a porre le basi di una lingua lettararia latina, ora a stabilire una storia della lingua, come elemento di distinzione dei latini rispetto agli altri popoli, partendo dall’alfabeto, per poter vantare antichità e originalità, per non sentirsi solo secondi, ma anche eredi della grecità migliore. Secondo V., ma non solo, l’alfabeto latino derivava da quello greco eolico (a monte dell’alfabeto greco erano i Caldei, non i Fenici, cfr. fr. 1 Fun.), in particolare da quello dell’arcade Evandro (cfr. fr. 295 Fun.), quindi storicamente precedente alla colonizzazione dorica, che aveva avuto in Taranto la città egemone, cui è legata anche la nascita della letteratura e poi della grammatica latine, ad opera di poeti semigreci (cfr. Suet. gram. 1). Non a caso la riflessione grammaticale sulla lingua era nata solo con l’arrivo a Roma di Cratete di Mallo, quindi con il filone stoico-pergameno, mentre una scienza grammaticale autoctona si ha solo con Elio Stilone, di cui V. è considerato alunno (cfr. Gell. 16, 8, 2). Il De antiquitate litterarum, dedicato ad Accio, muove dallo studio delle litterae, quindi dell’alfabeto e della corretta scrittura, in cui si erano impegnati in precedenza  





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soprattutto Lucilio e Accio. La littera è suono e segno, ma anche vis. Essa è la base, il nucleo primo della superiorità dell’uomo, che è capace di esprimersi articolando la sonorità più e meglio degli altri animali (cfr. Lucr. 5, 10291090). L’esame dell’espressione linguistica passa attraverso lo studio della littera, quindi attraverso la dimensione della sillaba coinvolgendo la prosodia, la metrica e quindi la →musica, che è armonia (l’attenzione alla armonia e alla numerologia hanno fatto parlare di un V. pitagorico) ; infine attraverso lo studio della parola, con il suo bagaglio di significante e significato ; il che comportava già dai tempi del Cratilo di →Platone il problema della rispondenza della parola alla verità. Tornando all’alfabeto, sappiamo da Prisciano e da Pompeo che nel De antiquitate litterarum V. si chiedeva : cur tot sint [litterae], quare eo ordine positae, quare iisdem nominibus vocentur (cfr. fr. 2 Fun.). Secondo Varrone le lettere dell’alfabeto erano originariamente sedici (secondo la testimonianza di Sergio e Diomede diciassette, numero ottenuto ecludendo per motivi diversi le lettere h, k, q, x, y e z, cfr. fr. 239 Fun.), poi aumentate ex superfluo a ventitré. Si trattava quindi di individuare le lettere veramente latine e quindi utili rispetto a quelle introdotte più tardi e superfluae. L’approccio di V. al problema era quindi, per quanto ne sappiamo, rivolto ad un ritorno alle origini, alla scaturigine della lingua, allo scopo di essere più vicini all’autenticità, alla verità, ma anche allo scopo di nobilitare il latino come lingua derivata dal greco, ma con caratteristiche proprie. Anche gli studi su Plauto e sul teatro antico (Quaestiones Plautinae, De scaenicis originibus, De actionibus scaenicis, De personis) sono in buona parte riconducibili al problema della lingua, alla sua nascita e veridicità. Su Plauto si era esercitata anche la scienza grammaticale precedente, in particolare quella di Accio e di Elio Stilone, ambedue legati alla dimensione stoica, che con Crisippo aveva teorizzato la certezza di poter arrivare all’etimologia (in latino veriloquium) di ogni parola. Se pure Crisippo era oramai lontano e simili certezze erano state via via incrinate dalle trasformazioni cui la lingua era sottoposta, proprio Plauto poteva essere l’autore in cui poter cogliere la lingua nel suo stadio più vicino a quello originario. E se Elio Stilone, cui dobbiamo studi sui documenti più antichi del latino, sul Carmen saliare e sulle Leggi delle xii tavole,  





aveva attribuito a Plauto 25 commedie su criteri interni di lingua, stile e metrica (cfr. Gell. 3, 3, 12), V. restrinse il numero delle genuine a 21, introducendo come metro di giudizio, accanto ai criteri interni, l’autorità della tradizione, del consensus dei dotti, in linea con le teorie di Antioco di Ascalona, che aveva imbrigliato così ulteriormente il probabilismo accademico. V. avrà ancor più chiaro del suo maestro l’obiettivo da raggiungere : la lingua al suo stadio originario, quella del re Latino o di Romolo, molto più autorevole ai suoi occhi di quella della lingua di poeti per di più semigreci, come Ennio e Livio Andronico (ling. 5, 9), che a lui sembrava recente e arbitraria, volta al diletto più che all’utilità. È questa la base teorica della chiara preferenza accordata dal Reatino alla prosa. Del De lingua latina, opera di importanza capitale, che porta a maturità la riflessione di V. grammatico sulla lingua, sulla sua nascita e sulla sua trasformazione, restano due triadi, i libri 5-7 e 8-10 (la struttura dell’opera in 25 libri, 1 di introduzione, + 4(2x3), è rigorosamente triadica). Nella prima triade (perduta) veniva trattato il problema della lingua dal punto di vista della ricostruzione storica, nella seconda Varrone cerca di arrivare all’origine della parola attraverso l’etimologia, nella terza discute di anomalia e analogia. Ricercare le origini non significa accettare le manie arcaicizzanti (cfr. 5, 5) di chi tenta di richiamare in vita ciò che è inesorabilmente passato, ma andare a ritroso attraverso le varie trasformazioni (cfr. 5, 6) per arrivare alla forma prima della parola. La ricerca etimologica si articola su quattro gradi (5, 7-8) : il primo, il più basso, è intuitivo, alla portata dell’uomo comune, il secondo è proprio dei grammatici antichi che si sono applicati ai testi poetici, il terzo, cui si iscrive V. stesso, è quello della philosophia, che è in grado di spiegare l’etimo delle parole di uso comune, ovvero della prosa. Quanto al secondo gradino V. cita Aristofane di Bisanzio, scolaro di Callimaco ed editore di Omero, di Pindaro e di Euripide, per il terzo il filosofo Cleante, che impresse alla scuola stoica una chiara caratteristica teoretica e speculativa. Al gradino finale, quello in cui si trova il santuario delle origini della lingua latina, risalenti al tempo del re Latino, V. cercherà di arrivare anche per via di congettura. E sappiamo bene come le non poche etimologie congetturali, che alla linguistica moderna appaiono fantastiche, siano state utili a V.  



varrone m. terenzio non tanto a soddisfare l’assunto di Crisippo, quanto a colmare le lacune della ricostruzione storica con un balzo all’indietro, direttamente al traguardo. Sull’annosa questione se la nascita della lingua fosse dovuta ad atto volontario e quindi arbitrario (per il Socrate del Cratilo a dar vita ai temini sono stati i nomoteti) o per convenzione (in tal caso si mette in risalto il momento in cui il termine viene adottato come vero dai parlanti) V. prende posizione nella seconda triade dei libri che possediamo (libri 8-10), con una ampia trattazione. Vi si illustrano le ragioni dell’anomalia (che trae la sua ragione di esistere dall’usus, dalle trasformazioni della parola, dall’eccezione che ha resistito alla regolarizzazione del linguaggio), poi dell’analogia (ratio, proportio, come criterio grammaticale); si ravvisano quindi gli elementi che permettono di andare al di là di una contrapposizione fra le due istanze (pro, contra, de re). Gia nel libro ottavo, il Reatino enuncia il proprio convincimento : «la mia opinione è che si debbano seguire tutti e due i criteri, perché nella declinazione volontaria opera l’anomalia, in quella naturale maggiormente l’analogia» (8, 9, 23). Non si tratta di una comoda via di fuga, ma della constatazione che «nella declinazione volontaria si osserva il processo della natura e in quella naturale l’intromettersi dell’arbitrio». In buona sostanza, il superamento della netta contrapposizione fra regola (analogia) e eccezione (anomalia) poggia sulla constatazione che la lingua non è matematica, che senza ammettere la sua trasformazione non si sarebbe dato il giusto peso alla verità che sta alle sue origini, che senza ammettere le eccezioni anche l’affidarsi sempre alla regola finisce per entrare in crisi. Una lezione di realismo, che porta V. a non essere rigido. Non si tratta però dell’assunzione semplicistica della via di mezzo. Come può definirsi il Latine loqui ? È il ben parlare in lingua romana, osservando, nelle parole, natura, regola, consuetudine, autorità : la natura è immutabilis, la regola (analogia) sermonis a natura proditi ordinatio est ; consuetudo non ratione analogiae sed viribus par est, ideo sola recepta, quod multorum consensione convaluit, ita tamen ut illi artis ratio non accedat sed indulgeat. Si ricorre all’auctoritas degli autori solo quando fanno difetto le altre norme (cfr. fr. 268 Fun.). Insomma verrebbe da dire che lingua è soprattutto analogia, ma che l’usus, che poggia sul consenso di molti, non le permette di essere del tutto rego 







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lare. Sulla scienza grammaticale Varrone tornò successivamente in quell’opera di sistemazione delle artes che sono le Disciplinae, probabilmente niente aggiungendo a quanto chiarito a se stesso e agli altri con il De lingua latina. Bibliografia. Dahlmann 1997; Della Corte 1970; Cavazza 1981; Cardauns 2001.

Aroldo Barbieri 3. Il De re rustica. – Iniziato all’età di ottant’anni, nel 37 a.C., l’opera agronomica di Varrone costituisce un prezioso documento del passaggio dall’agricoltura tardorepubblicana a quella del primo secolo. V., ormai lontano dalla vita politica, cerca senza dubbio nell’« arte dell’agricoltura » un campo di studio sereno e familiare (il primo libro è dedicato alla moglie Fundania). Al tempo stesso, tuttavia, le tecniche e le scelte agronomiche propugnate non si inquadrano certo in un’economia di tipo domestico, ma in un sistema aziendale che fa della produttività e del profitto il fine ultimo dell’attività agricola. È questo il difficile equilibrio su cui si fonda il De re rustica : preoccupazioni di umanità nel trattamento degli schiavi seguono a indicazioni precise su come ottimizzare prodotti e colture ; ricordi d’infanzia e menzioni di riti folklorici agricoli sono poste accanto all’invito a intraprendere allevamenti di specie esotiche o ‘di lusso’, ricercate e redditizie sul mercato della Roma aristocratica. L’opera è strutturata in tre libri, ognuno in forma di dialogo, con ambientazioni diverse e diversi personaggi. Alcuni dei protagonisti del dialogo sono personalità ben note del tempo, esperti di agronomia e zootecnia ; altri sono figure a noi ignote : tutti sono scelti, forse, anche per i loro cognomina ‘parlanti’, che ricordano la realtà della campagna : Fundanio, Agrio, Agrasio, Stolone (cioè ‘virgulto’), Scrofa, Vaccio, Merula, Pavone, Pica, Passero. Ognuno, non a caso, è introdotto a parlare dell’argomento più ‘affine’ al proprio nomen/omen. Nel primo libro si affrontano i temi più propriamente agricoli : la coltivazione dei →cereali, della vite e dell’olivo ; pochi i riferimenti all’→arboricoltura. Nel secondo e terzo libro sono affrontati più distesamente argomenti zootecnici : allevamento del bestiame, in ordine di grandezza (ii libro) ; animali da cortile : pollame, volatili, ma anche pavoni e tordi, selvaggina, ghiri e lumache, →apicultura e itticoltura (iii libro). La scel 























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vegezio

ta di dedicare due libri su tre alla zootecnia è probabilmente legata all’intenzione di colmare una lacuna nella tradizione romana, ove non pochi erano i trattati ‘sbilanciati’ sul versante agronomico. Lunga la lista, inserita nella prefazione, di autori (soprattutto greci) impiegati come fonti. Numerosi, e disseminati in tutta l’opera, i riferimenti personali all’esperienza diretta dell’autore (o del personaggio introdotto a parlare) : una caratteristica dei trattati tecnici. Peculiare di V. è invece il frequente innesto di divagazioni erudite e in particolare linguistico-etimologiche. La prosa è ricca di colloquialismi, di termini popolari e agricoli.  

Bibliografia. Boscherini 1993a ; Della Corte 1970 ; Heurgon 1978 ; Martin 1971 ; White 1973.  







Emanuele Lelli

Veleni e contravveleni. 1. Aceto [bavmma, o[[xo", acetum]. 1.1. Efficacia della sostanza. – L’uso dell’a. come sostanza disintossicante e depurativa, da solo o in composizione con altri elementi, era abbastanza diffuso nell’antichità ; [1] tra le virtù riconosciutegli, quella di essere un potente anticoagulante del sangue. [2] 1.2. Impieghi terapeutici. – →Dioscuride [3] prescrive l’a. contro ogni forma di avvelenamento e contro i morsi degli animali velenosi in particolare, per le sue qualità antinfiammatorie ; →Plinio, [4] nel riportarne gli usi terapeutici, lo prescrive contro l’ingestione della sanguisuga, contro il morso dell’aspide, contro le punture dello scorpione, dello scolopendro, del toporagno, del millepiedi e di tutti gli animali con aculei. 1.3. Interazione con altre sostanze. – L’a. è spesso consigliato in soluzione con altri elementi : con il miele è indicato per combattere gli effetti nefasti dell’aconito [→erbe velenose] ; [5] con la gomma è efficace contro l’intossicazione da latte cagliato; [6] nell’impasto di farina d’orzo e foglie di ruta è indicato contro l’ingestione di farico (vd. par. 3). [7] 2. Biacca [yimuvqion, cerussa]. 2.1. Identificazione ed efficacia della sostanza. – Si tratta di una sostanza bianca e densa annoverata dalle fonti tra i veleni, [8] identificata con il carbonato di piombo ; [9] Dioscuride [10] e →Galeno [11] forniscono una descrizione precisa dei procedimenti da seguire per ottenere la b., molto temuta per la sua tossicità, [12] ma utilizzata, in dosi stabilite, nelle ricette mediche, [13] oltre che come cosmetico. [14] 2.2. Sintomatologia. – L’intossicazione da b. provoca la secrezione di bava particolarmente viscosa, secchezza delle fauci, tosse secca, dolore al petto e sensazione di soffocamento, oltre che nausea, spossatezza, vertigini, allucinazioni e brividi di freddo. [15] 2.3. Antidoti. Contro l’avvelenamento da b. si prescrive olio d’oliva di vario tipo in dosi abbondanti per favorire l’evacuazione della sostanza, latte non scremato, sesamo tritato, foglie e rami di malva in decotto, [16] anche con aggiunta di ortica ed erba mercuriale, [17] e noci con olio. [18] 3. Farico [farikovn, pharicum]. 3.1. Identificazione ed efficacia della sostanza. – Sull’identificazione del f., sostanza giudicata dalle fonti [19] mortale e dall'effetto molto rapido, erano in  









Vegezio (Publius Flavius Vegetius Renatus). Vissuto tra la fine del iv e l’inizio del v sec. d.C., di questo autore si sa pochissimo. Il suo contributo allo studio della poliorcetica, tuttavia, è enorme ed è condensato nel noto trattato Epitoma rei militaris (anche conosciuto come De re militari), che tratta in quattro libri dell’arte della guerra e fu scritto, come lo stesso autore dichiara, su espressa richiesta dell’imperatore (la cui identificazione, per la verità, è incerta : si è pensato in particolare a Teodosio I, oppure a Valentiniano ii o Valentiniano iii). [1] L’opera di V. analizza minuziosamente tutti gli aspetti dell’arte militare, dall’arruolamento delle truppe al loro allenamento, dall’organizzazione interna dell’esercito alla disciplina dei reparti, dalle tattiche di guerra e assedio alla guerra navale (alla quale è dedicata un ampia e dettagliatissima sezione). Queste caratteristiche fecero del trattato di V. il manuale di guerra più influente per gli strateghi del mondo occidentale, antico e moderno, capace di dettare per secoli le regole dell’arte della guerra e di stupire personalità come Niccolò Machiavelli, il quale se ne servì come fonte principale per la sua Arte della Guerra. [2]  





Note. [1] Vd. Formisano-Petrocelli 2003, xii sg. – [2] Vd. Formisano 2003. Bibliografia. Formisano 2002 ; Formisano-Petrocelli 2003 ; Reeve 2004.  



Lucio Benedetti























veleni e contravveleni [20]

dubbio anche gli antichi ; Esichio si limita a riferire che si tratta di un veleno composto, mentre →Scribonio Largo [21] aggiunge che il suo gusto è simile a quello del nardo. Il nome deriverebbe da Fa'ri", città della Grecia, o dal nome dello scopritore. [22] 3.2. Sintomatologia. – L’assunzione di f. provoca spasmi e svenimenti, [23] dolori alla mascella e al cavo orale ; inoltre, il f. ha effetti sull’equilibrio e sul sistema nervoso. [24] 3.3. Antidoti. – Contro l’intossicazione da f. sono prescritti nardo, mirra o iris triturati, un composto di farina d’orzo e foglie di ruta in aceto da applicare alle tempie. [25] 4. Galbano [calbavnh, galbanum]. 4.1. Identificazione ed efficacia della sostanza. – Il g. è una gommoresina che si ricava dal fusto di varie specie del genere ferula, [26] generalmente di provenienza mediorientale[27] ; il succo di questa sostanza, ricca di olii essenziali e la cui viscosità funge da collante nei composti, trova largo impiego nella confezione di ricette, [28] tanto che è consigliato come rimedio contro qualsiasi forma di affezione. [29] 4.2. Impieghi terapeutici. – Filumeno [30] prescrive l’utilizzo del g. contro l’avvelenamento provocato da diversi animali : è efficace contro il morso di vipera, scorpione, falange, oltre che contro il veleno della salamandra. [31] Il fumo sprigionato dalla combustione del g. allontana gli animali velenosi, tanto che →Nicandro [32] ne consiglia la fumigazione per la bonifica di terreni boschivi e Plinio [33] afferma che il g., spalmato sulla pelle, tiene al riparo dai serpenti. 4.3. Interazione con altre sostanze. Il g., in composizione con olio e pastinaca, era ritenuto mortale per i serpenti, [34] e, in soluzione con il vino, era usato come antidoto per l’avvelenamento da tossico (vd. par. 10). [35] 5. Litargirio [liqavrguro", spuma argenti]. 5.1. Identificazione ed efficacia della sostanza. – Con il nome di l. si intendeva, nell’antichità, il piombo o la polvere di piombo prodotta come scarto dell’argento o dell’oro durante la lavorazione nelle fornaci ; si tratta di una sostanza la cui assunzione provocherebbe, secondo le fonti, [36] sintomi da intossicazione acuta. [37] Dioscuride [38] ne distingue tre tipi utilizzati anche a scopi terapeutici : la molubdi'ti", frutto della lavorazione di sabbia e piombo, l’ajrguri'ti", esito della composizione di piombo e  



































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argento, e la crusi'ti", che nasce dalla mistione tra piombo e oro. 5.2. Sintomatologia. – L’assunzione di l. provoca coliche e sensazione di appesantimento, gonfiore e infiammazioni addominali ; inoltre, la pelle si illividisce, si gonfia tutto il corpo e le minzioni urinarie si bloccano. [39] 5.3. Antidoti. – Per l’avvelenamento da l., Nicandro [40] consiglia mirra, ormino, iperico o issopo, fico selvatico e melograno. Galeno [41] e Scribonio Largo [42] prescrivono, oltre alla mirra, anche pepe e prezzemolo. 6. Mirra [smuvrna, myrrha]. 6.1. Identificazione ed efficacia della sostanza. – La m. è una gommoresina di provenienza mediorientale prodotta da varie specie di arbusti, per essudazione o leggera incisione del fusto dal basso verso l’alto ; [43] oltre che utilizzata nella confezione di unguenti e profumi, [44] la m. è ritenuta un efficace antisettico e al suo succo vengono riconosciute proprietà astringenti. [45] 6.2. Impieghi terapeutici. – Nicandro [46] prescrive l’utilizzo della m. contro l’avvelenamento da litargirio (vd. par. 5) ; Filumeno [47] lo prescrive in varie modalità di somministrazione : per via orale allo scopo di favorire la disintossicazione dai veleni attraverso l’evacuazione intestinale, in soluzione contro il veleno del ceraste e in uso topico contro il morso dell’aspide. 6.3. Interazione con altre sostanze. – La m., in composizione con galbano e vino, è ritenuta un potente contravveleno contro il tossico (vd. par. 10), [48] mentre composta con olio e pastinaca è ritenuta letale per i serpenti. [49] 7. Nardo [navrdo", nardum]. 7.1. Identificazione ed efficacia della sostanza. – Pianta aromatica di cui nell’antichità si individuavano diverse specie in base alla provenienza ; [50] era utilizzato nelle terapie di affezioni dermatologiche e gli erano riconosciute proprietà decongestionanti. [51] 7.2. Impieghi terapeutici. – Il n., in particolare la varietà celtica, era spesso indicato come terapia contro il morso di animali velenosi ; [52] Filumeno [53] ne prescrive l’utilizzo in decotto contro l’avvelenamento provocato dal morso della dipsade ; Nicandro lo consiglia contro il veleno del camaleonte [54] e in caso di avvelenamento da farico. [55] 7.3. Interazione con altre sostanze. – Nicandro [56] ritiene che la radice, in un composto con  















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veleni e contravveleni

aristolochia, iris, galbano, piretro e pastinaca, sia efficace contro il morso della sanguisuga. 8. Sangue di toro [ai|ma tauvrou, tauri sanguis]. 8.1. Efficacia della sostanza. – Il sangue di toro era ritenuto un veleno potente, di rapido effetto e sostanzialmente indolore. Proprio queste caratteristiche ne fanno uno dei venefici utilizzati, secondo la tradizione, in caso sia di omicidio che di suicidio : oltre a personaggi mitici come Giasone, [57] ucciso da Medea con una veste intrisa di questo liquido, e re Mida, [58] così si sarebbero dati la morte anche il re egizio Psammenito [59] e Temistocle. [60] La notizia sulla tossicità della sostanza, largamente attestata dalle fonti, [61] è, però, falsa ; tra le ipotesi formulate per spiegarne la supposta tossicità, la possibilità che la sostanza fosse mescolata ad altri elementi [62] o la semplice evidenza della rapidità con cui si condensa una volta prelevata. [63] 8.2. Sintomatologia. – L’individuazione dei sintomi, su cui le fonti sono sostanzialmente concordi, potrebbe derivare dalla scarsa capacità, da parte degli antichi, di distinguere tra gli apparati digerente, cardio-circolatorio e respiratorio. [64] L’assunzione di sangue di toro provocherebbe una progressiva coagulazione del sangue, che si concentra nei polmoni provocando, di conseguenza, convulsioni e asfissia. [65] 8.3. Antidoti. – Per l’avvelenamento da sangue di toro, Plinio [66] consiglia il rafano, Galeno [67] prescrive l’induzione del vomito dopo la somministrazione di aceto caldo o, in alternativa, di laserpizio, salnitro sciolto nel vino e fichi triti con aceto. 9. Silfio [sivlfion, silphium, laserpitium]. 9.1. Identificazione ed efficacia della sostanza. – Pianta spontanea di origine nordafricana, non identificabile con certezza ma assimilata al genere ferula, già rara al tempo di →Strabone. [68] Il s. era molto utilizzato nell’antichità, e ogni sua parte era destinata ad un preciso impiego : dalla radice si ricavava un aroma per la preparazione di cibi, [69] mentre dalle foglie veniva estratto un succo utilizzato nella confezione di medicamenti ; [70] alla sostanza, inoltre, erano attribuite proprietà profilattiche. [71] 9.2. Impieghi terapeutici. – Nicandro consiglia la radice di s. sminuzzata per allontanare gli animali velenosi [72] e contro l’intossicazione da latte cagliato, [73] mentre Plinio [74] lo prescrive, in pozione o in uso topico, per le ferite provocate da frecce avvelenate.  







9.3. Interazione con altre sostanze. – Il s. composto con olio si applica come impiastro sui morsi degli scorpioni, [75] mentre con il vino è efficace contro il morso del camaleonte [76] e contro l’avvelenamento da cicuta [→erbe velenose]. [77] 10. Tossico [toxikovn, toxicum]. 10.1. Identificazione ed efficacia della sostanza. – Con t. le fonti [78] intendevano la sostanza, nella quale popolazioni barbariche, in particolare Parti e Sciti, usavano intingere le frecce per avvelenarle ;[79] a questo uso, o alla rapidità con cui il veleno agisce, sarebbe dovuta la sua denominazione. L’identificazione del t. è abbastanza complessa ; secondo Plinio, si tratterebbe di veleno di serpente, [80] di elleboro [81] o di limeo. [82] La posizione all’interno del testo di Nicandro, però, induce a classificarlo tra i veleni di origine vegetale. [83] 10.2. Sintomatologia. – L’assunzione di t. provoca rigonfiamento di tutte le membrane del cavo orale, irritazione gengivale, tosse secca ; [84] inoltre, alla sostanza sono associati vaneggiamento, balbuzie e altri disturbi neurologici. [85] 10.3. Antidoti. – A chi è vittima di avvelenamento da t. è consigliata l’assunzione di vino puro allo scopo di stimolare il vomito, o, in alternativa, di mele selvatiche o cotogne trite e composte in acqua con puleggio e olio di rosa o di iris. [86]  





Note. [1] Vd. Cels. 5, 27, 4. – [2] Vd. Dsc. 5, 13 ; Plin. nat. 23, 54-56. – [3] Vd. Dsc. 5, 13. – [4] Vd. Plin. nat. 23, 54-58. – [5] Vd. Nic. Al. 49. – [6] Vd. Nic. Al. 369. – [7] Vd. Nic. Al. 411-414. – [8] Vd. Sconocchia 1985, 170. – [9] Vd. Touwaide 1994b, 243. – [10] Vd. Dsc. 5, 88. – [11] Vd. Gal. 12, 243-4 K. – [12] Vd. Cels. 5, 27, 12 ; Sconocchia 1985, 175-6. – [13] Vd. Andorlini 1981, 33-81. – [14] Vd. Ar. Eccl. 878, 929 ; Lys. 1, 14. – [15] Vd. Nic. Al. 74-86 ; Scrib. Larg. 184. – [16] Vd. Nic. Al. 87-114. – [17] Vd. Scrib. Larg. 184. – [18] Vd. Paul. Aeg. 5, 60. – [19] Vd. Sconocchia 1985, 170. – [20] Vd. Hsch. f 168,1 Schmidt. – [21] Vd. Scrib. Larg. 195. – [22] Vd. Schol. Nic. Al. 398a. – [23] Vd. Scrib. Larg. 195. – [24] Vd. Nic. Al. 397401. – [25] Vd. Nic. Al. 402-414. – [26] Vd. Theophr. HP 9, 1, 2; 9, 7, 2. – [27] Vd. Dsc. 3, 83. – [28] Vd. Gal. 12, 153, 243-244 K ; Paul. Aeg. 7, 3. – [29] Vd. Nic. Th. 934-942. – [30] Vd. Philum. 23, 12 ; 17, 22 ; 21, 7. – [31] Vd. Nic. Al. 554-556. – [32] Vd. Nic. Th. 51-54. – [33] Vd. Plin. nat. 24, 22. – [34] Vd. Dsc. 3, 83. – [35] Vd. Plin. nat. 24, 22. – [36] Vd. Sconocchia 1985, 170. – [37] Vd. Touwaide 1997, 265. – [38] Vd. Dsc.  













ventre 5, 87. – [39] Vd. Nic. Al. 594-600 ; Scrib. Larg. 183. – [40] Vd. Nic. Al. 601-610. – [41] Vd. Gal. 14, 142 K. – [42] Vd. Scrib. Larg. 183. – [43] Vd. Plin. nat. 12, 66 ; Steier 1933. – [44] Vd. Plin. nat. 14, 107. – [45] Vd. Andorlini 1981, 33-81 ; Dsc. 1, 64 ; Plin. nat. 20, 212, 249, 251. – [46] Vd. Nic. Al. 601-613. – [47] Vd. Philum. 13, 13 ; 22, 18 ; 25, 27. – [48] Vd. Plin. nat. 24, 22. – [49] Vd. Dsc. 3, 83 ; Plin. nat. 24, 22. – [50] Vd. Dsc. 1, 7-9 ; Steier 1935. – [51] Vd. Scarborough 1977, 15. – [52] Vd. Dsc. 1, 8 ; Nic. Th. 604-606. – [53] Vd. Philum. 27, 4. – [54] Vd. Nic. Al. 305-307. – [55] Vd. Nic. Al. 402-405. – [56] Vd. Nic. Th. 934-941. – [57] Vd. Apollon. Lex. hom. 156, 18. – [58] Vd. Str. 1, 3, 21 ; Apollon. Lex. hom. 156, 18. – [59] Vd. Hdt. 3, 15, 4. – [60] Vd. Ar. Eq. 83 ; Plu. Them. 31, 6 ; Cic. Brut. 43 – [61] Vd. Sconocchia 1985, 170. – [62] Vd. Lewin 1920, 155-156. – [63] Vd. Touwaide 1979, 5-14. – [64] Vd. Touwaide 1979. – [65] Vd. Nic. Al. 312-318 ; Scrib. Larg. 196. – [66] Vd. Plin. nat. 20, 25. – [67] Vd. Gal. 14, 143 K. – [68] Vd. Str. 17, 3, 22. – [69] Vd. Dsc. 3, 83. – [70] Vd. Gal. 12, 123 K ; Paul. Aeg. 7, 3. – [71] Vd. Philum. 2, 3. – [72] Vd. Nic. Al. 80-85. – [73] Vd. Nic. Al. 368-369. – [74] Vd. Plin. nat. 22, 103. – [75] Vd. Plin. nat. 22, 103. – [76] Vd. Nic. Al. 308-309 ; 695-698. – [77] Vd. Nic. Al. 203204. – [78] Vd. Sconocchia 1985, 170. – [79] Vd. Paul. Aeg. 5, 54. – [80] Vd. Plin. nat. 11, 279 – [81] Vd. Plin. nat. 25, 61. – [82] Vd. Plin. nat. 27, 101. – [83] Vd. Gow-Scholfield 1953, 194. – [84] Vd. Nic. Al. 209-223. – [85] Vd. Scrib. Larg. 194. – [86] Vd. Nic. Al. 224-243.  











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delle città assediate era quello di rendere inutilizzabili le riserve idriche, contaminandole, per esempio, con l’elleboro (Frontin. strat. 3, 7, 6 ; Polyaen. 6, 13). Anche vespe ed api potevano rappresentare una seria minaccia contro i nemici annidati nelle gallerie sotterranee: Aen. Tact. 37, 4 (→Enea Tattico).  



Francesco Fiorucci

















Bibliografia. Andorlini 1981 ; Gow-Scholfield 1953 ; Lewin 1920 ; Scarborough 1977 ; Sconocchia 1985 ; Steier 1933, Steier 1935 ; Touwaide 1979 ; Touwaide 1994b ; Touwaide 1997.  















Livia Radici Veleni, uso bellico. I veleni non mancavano nemmeno nell’arsenale bellico antico, rappresentando gli antesignani delle moderne armi chimiche e batteriologiche. Per difendersi dall’assedio dell’imperatore Settimio Severo nel 198-199 d.C., gli abitanti di Atra, città mesopotamica situata nei pressi del fiume Tigri, gettarono sugli assalitori vasi pieni di insetti velenosi [→insetti nocivi], causando gravi perdite (Hdn. 3, 9, 5). Con analoghe modalità anche Annibale, durante uno scontro navale col re Antioco, fece scagliare vasi di vipere sui ponti dei vascelli avversari, creando scompiglio tra i marinai (Frontin. strat. 4, 7, 10) [→stratagemmi : Frontino]. Un altro efficace e quanto mai subdolo espediente per piegare le resistenze  

Ventre. Con il termine koiliva [uenter, più tardo] la medicina greca indica nel suo insieme la parte cava del nostro corpo, dalla gabbia toracica al bacino. Il termine, ricorrente con grande frequenza soprattutto nel Corpus Hippocraticum, è in ogni caso assai più in uso nel periodo arcaico e classico che nel periodo ellenistico e poi romano, quando, per merito delle specifiche conoscenze anatomiche e dei progressi delle nozioni relative ai vari organi registrati nel campo della patologia e della terapeutica, vengono per forza di cose a determinarsi meglio una nomenclatura specifica e una terminologia più precisa e specialistica. Il termine koiliva comprende l’insieme dei visceri superiori e inferiori (hJ a[nw koiliva e hJ kavtw koiliva), cioè ‘parte superiore del ventre’ e ‘parte inferiore’: indica rispettivamente la cavità toracica sopra e sotto il diaframma e la cavità addominale. Significati più precisi si deducono dal contesto, in riferimento a un organo o ad un elemento particolare o a più organi, in relazione alla loro localizzazione. La documentazione, in base a quanto si è detto, è relativa soprattutto al Corpus Hippocraticum. Sono specificate ad esempio malattie del ventre come pleurite, polmonite, causo e frenite ; [1] relativamente all’evacuazione si precisa che nel ventre vanno alimenti e bevande. Dal ventre si allungano fibre verso la vescica, che filtra i liquidi ; [2] si è a conoscenza che, con l’assunzione di cibi, si viene a determinare un eccesso di aria ; poiché la koiliva è ostruita, i venti si diffondono per tutto il corpo. [3] Definizioni di tipo ippocratico perdurano fino a →Galeno, soprattutto in opere riconducibili alla dottrina ippocratica : Galeno specifica ad es. che per gli antichi il torace è a[nw koiliva, mentre è kavtw koiliva il ricettacolo del cibo sotto il diaframma o sottostante l’intestino crasso ; alcuni definiscono kavtw koiliva soltanto il kw'lon. [4]  













Note. [1] Hp. Aff. 6 / 6, 214 L. – [2] Hp. Loc. hom. 8 / 6, 290 L. – [3] Hp. Flat. 7 / 6, 100 L. – [4] Gal. In Hp. Acut. comm. 4, 94 / 15, 896 K.

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vescica

Fonti. Hp. Aph. 7, 38 / 4, 588 L ; 7, 71 / 4, 602 L ; Aff. 6 / 6, 214 L ; Loc. hom. 8 / 6, 290 L ; Hp. Flat. 7 / 6, 100 L ; Gal. In Hp. Acut. comm. 4, 94 / 15, 896 K.  









Bibliografia. Hirtl 1880 ; Mazzini 1997, 227229 ; Oser-Grote 2004.  

Fonti. Hom. Il. 13, 651 sg. ; Hp. VM 22 / 1, 626 sg. ; Prog. 12. 2, 142 L ; Hp. Mochl. 1 / 4, 342 L ; Aph. 6, 18 / 4, 566 sg. L ; Loc. hom. 8 / 6, 290 L ; Anat. 1 / 8, 538 L ; Cels. 4, 1, 11 / 151 M ; Gal. Us. part. 5, 7 / 3, 373-377 K ; 5, 16 / 3, 405-406 K.  



















Bibliografia. Mazzini 1997, 229-230 ; Oser Grote 2004.  

Sergio Sconocchia Vescica. – Alla vescica si fa già cenno per la prima volta nell’Iliade. [1] Le conoscenze del Corpus Hippocraticum non sono ancora molto approfondite : ferite alla vescica possono essere mortali.[2] Si evidenzia soprattutto funzione e struttura dei tessuti della vescica : l’organo è cavo, a forma di imbuto, [3] posizionato alla curvatura della spina ; [4] la sua funzione consiste fondamentalmente nel filtraggio dei liquidi bevuti che, attraverso lo stomaco, attraverso vasi sottili, scorrono verso la vescica ; [5] i tessuti dell’organo sono di tipo ‘nervoso’. [6] Una malattia della vescica, secondo i medici ippocratici, poteva influire sulla formazione delle urine, così che in esse si rifletteva non la situazione generale del corpo, ma prevalentemente quello della vescica. [7] In epoca romana confluiscono nei testi dottrine e conoscenze ellenistiche. Così in →Celso leggiamo che la vescica è costituita di tessuti nervosi nella parte cava, mentre nel collo è piena e carnosa ; è unita per mezzo di vene all’intestino e all’osso che sottostà al pube. È piuttosto libera e posizionata diversamente a seconda degli individui di sesso maschile e femminile : negli uomini si trova presso l’intestino retto, piuttosto inclinata verso sinistra ; nelle donne è posta sopra l’apparato genitale, e, è sostenuta dalla stessa vulva.[8] Le conoscenze ippocratiche vengono approfondite da →Galeno attraverso la descrizione approfondita di vasi sanguigni e nervi della vescica. [9] Il collo della vescica è differente negli uomini e nelle donne. Inoltre, al momento della minzione, i muscoli hanno una funzione importante ; nel collo c’è un muscolo volontario in grado di chiudere la vescica stessa ; gli ureteri si inseriscono nella vescica con posizionamento obliquo ; la vescica è costituita di fibre varie come posizione.[10]

Sergio Sconocchia































Note. [1] Il. 13, 651 sg. – [2] Hp. Aph. 6, 18 / 4, 566 sg. L. – [3] Hp. vm 22 / 1, 626 sg. L – [4] Hp. Mochl. 1 / 4, 342 L. – [5] Hp. Loc. hom. 8 / 6, 290 L. – [6] neurōdes : Anat. 1 / 8, 538 L. – [7] Prog. 12 / 2, 142 L. – [8] Cels. 4, 1, 11 / 151 M. – [9] Us. part. 5, 7 / 3, 373-377 K. – [10] Us. part. 5, 16 / 3, 405-406 K.  

Veterinaria. 1. Definizione della veterinaria antica e tardo-antica. – La veterinaria è l’area della medicina che ha come oggetto l’allevamento e la cura degli animali addomesticati dall’uomo : usiamo questo termine che pure ha avuto riconoscimento scientifico moderno solo a partire dal xviii secolo. Nel suo sviluppo abbraccia un complesso di dottrine che vanno dall’anatomia alla zoonosi animale. Questo ramo della medicina ha avuto una lenta ma persistente crescita dai Greci fino a raggiungere il suo culmine (per l’età antica), nell’epoca tardo-latina ed araba (proprio quando la medicina registrava, nel Medioevo, il suo momento di maggiore difficoltà). 2. Etimologia di veterinaria e mulomedicina. – La parola veterinaria è documentata per la prima volta in →Columella [1] (7, 3, 16 […] Quare veterinariae medicinae prudens esse debet pecoris magister, ut si res exigat vel integrum conceptum, cum transuersus haeret locis genitalibus, extrahat vel ferro divisum citra matris perniciem partibus educat, quod Graeci vocant embryoulkein). Tale termine apparve dunque nell’età classica della lingua latina, usato con significato estensivo alla medicina per tutti gli animali domestici. Questo termine ebbe maggior uso solo in epoca tardo antica e nelle lingue romanze. Non a caso, infatti, fu ripreso nel xviii secolo dalle prime scuole scientifiche veterinarie di Francia. [2] Sebbene abbia un significato ampio ed oggi ben definito, la sua etimologia non è certa : è un aggettivo sostantivato formato dal suffisso -arius utilizzato per indicare chi esercita un’arte o un’attività in genere manuale. Il termine veterinus dunque sta ad indicare secondo Festo [3] quegli animali adatti solo alla soma. [4] Anche la parola mulomedicus (e mulomedicina) indica colui che si prende cura degli animali domestici. La sua derivazione, da mulus, riallaccia tale pratica a quell’animale che, per antonomasia, era legato alla macina del mulino. Altro termine usato dai Romani era medicus veterinarius o  







veterinaria medicus equarius. Il termine mulomedicus è un volgarizzamento usato per la prima volta da Vegezio nel prologo della sua Mulomedicina. La fine dell’impero romano ha decretato, almeno momentaneamente, il disuso di queste parole sostituite da vocaboli di origine ‘barbara’ i cui esiti sono ancora in uso anche se con altri significati: ‘maresciallo e maniscalco’, mutuati da marah ‘cavallo’ e skalks ‘servo’ assumono l’attuale valore proprio per l’importanza crescente che hanno avuto durante il Medioevo la ferratura dello zoccolo del cavallo. [5] Eppure, la veterinaria non era praticata solo dai veterinari professionisti ; molto più spesso, infatti, era lo stesso vilicus o bubulcus che si occupava delle mandrie e degli animali della fattoria (non di rado si occupava anche della cura della salute dei servi e degli schiavi che vi lavoravano): solo di rado, in caso di grave contagio o di pericolo di morte di un animale importante per l’economia della fattoria, veniva chiamato ‘lo specialista’. La veterinaria a Roma, infatti, pur essendo strettamente legata, per secoli, all’agricoltura, ebbe in epoca tarda una sua crescita indipendente. Fino ad epoca augustea, comunque, non esistevano veterinari di professione. [6] Spesso, infine, chi ha scritto i ‘manuali di veterinaria’ in epoca tardo romana [7] altri non era se non un nobile con particolare propensione alla cura dei propri animali. Importanza crescente, comunque, ebbe la figura del veterinario durante le interminabili guerre di confine dei Romani, quando la salute dei cavalli era importante tanto quanto quella dei soldati. Diocleziano impose per editto l’entità dello stipendio del veterinario di guerra e si hanno testimonianze dell’esistenza dell’infermeria per i cavalli dell’esercito. 2. Accenni di storia della veterinaria presso i Greci. – Anche per la veterinaria, i Greci poterono usufruire di tutte le conoscenze che i popoli orientali avevano già acquisito in materia. Purtroppo, nessun testo specifico è giunto fino a noi e le notizie che abbiamo circa le conoscenze di veterinaria presso i Greci non sono così vaste come meriterebbe una materia scientifica di tale importanza. 3. La veterinaria greca nelle opere a carattere didascalico. – Come accadrà anche a Roma, le cognizioni scientifiche giunte dall’oriente, frutto di studi secolari e di interessi specifici, sono andate a sovrapporsi a uno spesso strato di tradizioni popolari, cultura agricola e  





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pratiche magiche. Questo fenomeno ha dato vita ad una cultura veterinaria basata sull’esperienza e sulla trasmissione diretta delle pratiche più in uso. Richiami all’ars non mancano nell’Iliade, [8] la nostra più importante ed antica fonte di veterinaria, ricca di descrizioni particolarmente accurate circa l’anatomia del cavallo ed il modo di curare le ferite provocate dal loro utilizzo per i carri da guerra. Esiodo, [9] nelle Opere e i giorni, riporta le tradizioni (e le credenze) della sua terra : narra, infatti, che il sesto giorno dalla nascita è buono per castrare i capretti e gli arieti del gregge, così come per costruire un recinto per il bestiame. Durante l’ottavo giorno del mese si possono castrare il porco ed il toro, mentre il mulo solo nel dodicesimo. Nel decimo giorno le femmine partoriranno buoi e montoni maschi, infine il ventisette del mese è possibile, con minor fatica, mettere il giogo sul collo dei buoi, dei muli e dei cavalli. [10] Così come gli aedi viaggiavano di città in città, anche i medici di professione trovavano lavoro trasferendosi dove c’era bisogno di loro: la veterinaria dei bruti, degli incolti, di coloro cioè, che a Roma sarebbero stati i villici, poté usufruire dei loro metodi e delle loro esperienze per ampliare le proprie conoscenze, confrontare i sintomi e le cure. Importanza rilevante ebbe la figura del veterinario anche quando si diffusero pestilenze tra gli animali domestici, tra cui muli e cani. [11] 4. Le scuole mediche e la loro influenza sulla veterinaria. – Tutto ciò che sappiamo in materia di veterinaria presso i Greci, prima dell’epoca ippocratica, è vago e di tradizione pressoché indiretta. Ma quando sorsero le prime scuole mediche, tra le quali famose erano quelle di Cirene e di Crotone, anche la ‘medicina dei bruti’ ebbe una crescita e sviluppò un’attenzione razionale, non solo empirica quindi, verso l’osservazione degli stati morbosi e la connessione tra sintomi simili. Il primo libro greco riguardante argomenti di medicina, di cui rimangono pochissimi frammenti, è il Peri; fuvsew" di →Alcmeone di Crotone, [12] seguace della scuola pitagorica. Da questo testo scritto tra il 500 ed il 450 a. C., apprendiamo, come, per primo, Alcmeone praticò la dissezione di cadaveri di animali (sottolinea, infatti, come il cervello sia una massa gelatinosa e fredda) e di come abbia studiato anche le cause della sterilità del mulo. [13] Teorizzò che le capre avessero l’apparato respiratorio situato nelle orecchie  













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veterinaria

perché, nell’analizzare la loro anatomia deve aver individuato un canale che metteva in comunicazione l’orecchio interno con la bocca della capra. Questo autore, facente parte della scuola italica, è il primo tra i filosofi della Sicilia che a partire dal vi-v sec. a.C. valorizzano il concetto pitagorico del metodo scientifico che tanto sviluppo avrà poi nella medicina, ma i cui risultati sono percepiti anche in una scienza ‘figlia’ come la veterinaria. →Columella [14] riporta che notizie circa le malattie del bestiame si avevano anche in un trattato oggi disperso di Epicarmo, filosofo pitagorico siciliano : Epicharmus autem Syracusanus, qui pecudum medicinas diligentissime conscripsit, adfirmat pugnacem arietem mitigari terebra secundum auriculas foratis cornibus, qua curvantur in flexum. Eius quadripedis aetas ad progenerandum optima est trima, nec tamen inhabilis usque in annos octo. Femina post bimatum maritari debet iuvenisque habetur quinquennis ; fatiscit post annum septimum. Dopo Alcmeone di Crotone trascorre quasi un secolo prima di ritrovare testi che trattino di veterinaria in maniera più dettagliata. Autore di questi è →Senofonte, [15] polivalente sia negli scritti che negli interessi. Tra le sue opere tecnico-didattiche, nel 370 – 350 a.C. circa, dedica un trattato all’arte dell’equitazione (Peri; iJppikh'") nel quale illustra le tecniche per andare a cavallo, allevare l’animale ed addestrarlo sia per scopo domestico che militare, ed un Cinegetico ‘discorso sulla caccia’ (Kunhgetiko;" scil. lovgo"), di paternità ancora discussa, dove riporta dati tecnici ed informazioni pratiche sulla caccia, nonché un testo sull’ipparchico, cioè sul comandante di cavalleria. Il Peri; iJppikh'" ed il Kunhgetikov" costituiscono i più antichi trattati sull’equitazione oggi esistenti ed ancora validi per molti aspetti tecnico-pratici: si vedano, ad esempio, le sezioni dedicate alle accortezze da dedicare nella scelta di puledri e di cavalli adulti ; sull’addestramento, la doma e l’imbrigliamento, nonché sul cavaliere ed il suo assetto sul cavallo nelle varie situazioni. →Ippocrate, insostituibile per il suo contributo alla medicina, non può non essere menzionato anche per la veterinaria perché dette impulsi in senso razionale e scientifico anche a questa area della medicina. Trattò di questa materia in un’opera andata perduta nella quale si poteva leggere anche il frutto dell’applicazione del metodo dell’anatomia comparata condotta in base agli esperimenti di anatomia sugli anima 





li. Ippocrate ed i suoi discepoli non erano soliti comparare la medicina umana con quella veterinaria e la patologia animale non era studiata se non al fine di facilitare lo studio della medicina umana. Per l’idropisia, Ippocrate si avvale dell’esempio di buoi, pecore e maiali ammalati per provare come nell’uomo tale morbo dipendesse spesso dalle idatidi che si formano nel petto. Nel corpus di opere attribuite a lui e risalenti al 400 a.C. circa, dunque, si possono leggere i primi tentativi di classificazione tassonomica. Fu, tuttavia, →Aristotele, nelle tre opere che dedica al mondo animale, a dare completa dignità filosofica e scientifica, in senso moderno, agli studi di zoologia e veterinaria che, nei suoi trattati, comprende anche materie quali →fisiologia e →anatomia. A. fu, dunque, il primo ad elaborare un sistema scientifico di classificazione basato sulla struttura e sulla fisiologia dei diversi organismi ; più nello specifico, la classificazione aristotelica raggruppa gli animali che hanno caratteristiche simili in genera, all’interno dei quali lo scienziato distingue poi le diverse species. Tale criterio prendeva in considerazione soprattutto il tipo di riproduzione e l’habitat. A. istituisce principalmente due tipologie nel mondo animale, precisamente animali con e senza sangue ; questa suddivisione corrisponde approssimativamente alla moderna distinzione tra vertebrati ed invertebrati (con le dovute differenze ed eccezioni). Il più importante trattato dei tre, l’Historia animalium, è considerato il primo trattato di zoologia. Negli otto libri che lo compongono, A. descrive 581 diverse specie di animali ; mostra una conoscenza approfondita e diretta dell’anatomia di molti degli animali che prende in considerazione. Nel penultimo e nell’ultimo degli otto libri, descrive anche alcune patologie proprie degli animali domestici e da allevamento con le relative cure da somministrare. Tra le varie malattie menziona anche la gotta, la morva, la rabbia, le coliche e la polmonite. Lo Stagirita, nel suo De partibus animalium [16] in quattro libri, invece, pone l’attenzione sulla classificazione degli esseri viventi a lui noti, a seconda delle loro caratteristiche principali, rimanendo esclusivamente all’interno di un campo rigidamente scientifico e universalmente accettabile. In questo testo determina anche la funzione dei vari organi, mostrando di avere conoscenze approfondite di anatomia acquisite con la pratica della dis 





veterinaria sezione animale ; Aristotele, infine, è il primo a descrivere i quattro stomaci dei ruminanti e la ruminazione. Nel De generatione animalium [17] e nel De incessu animalium, tratta rispettivamente della riproduzione e degli organi che usano per il movimento. Infine ci rende notizia della scienza veterinaria come fiorente e ben radicata nella tradizione scientifica e rurale. 5. La veterinaria in epoca alessandrina. – Dopo che la Grecia ebbe passato lo scettro ad Alessandria, le scuole mediche greche, così come in precedenza avevano interagito con l’Oriente, adesso si fondono con la cultura e le conoscenze egiziane. La ‘medicina dei bruti’, la veterinaria empirica, sono le fonti della raccolta di testi di veterinaria più importanti in lingua greca : gli Hippiatrica o Corpus Hippiatricorum Graecorum. [18] Con questi nomi si definiscono due raccolte di libri compilate per ordine di Costantino vii Porfirogenito (905-952 d.C.) : il Geoponicum e l’Hippiatricum. La compilazione dei →Geoponica risulta essere molto estesa nei secoli tanto che la comprensione dei vari passaggi di formazione in alcuni punti è piuttosto lacunosa. I Geoponica, così come i trattati di agricoltura di epoca repubblicana e di prima età imperiale romana, raccolgono le tecniche e le ‘leggi’ che governavano la vita nei campi, nonché molti accenni e rimandi alla veterinaria. All’interno dei xx libri che compongono i Geoponica, infatti, gli ultimi sette sono completamente dedicati agli animali da allevamento e addomesticati, all’apicoltura ed alla piscicoltura. Sono formati da un nucleo centrale proveniente da un trattato bizantino di Anatolio Vindanio di Beirut [19] autore del iv secolo d.C. di opere di agricoltura (secondo un filone di studi si tratta di Anatolio di Beirut, secondo altri si tratta di Anatolio precettore dell’imperatore Teodosio, da tenere distinto sia da Vindanio, sia da Berizio): Cassiano Basso, [20] autore che nella tradizione degli studi spesso è stato ritenuto creatore di tutta l’opera, nel vivii secolo compila un testo avendo come fonte primaria questo trattato bizantino e l’opera, in greco ed oggi perduta, di Didimo di Alessandria, vissuto tra il iv ed v secolo d.C. Quest’ultimo, a sua volta, si era avvalso di fonti illustri tra le quali Ippocrate, Absirto e →Varrone. Altre fonti dei Geoponica sono →Virgilio, →Plinio il Vecchio, →Pelagonio, Magone e Zoroastro (o testi attribuiti a lui). Tutta questa raccolta è poi stata raggruppata in due  









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testi per volere di Costantino vii Porfirogenito nella metà del x secolo d.C. Del Corpus Hippiatricorum Graecorum, invece, si hanno maggiori informazioni. Gli editori E. Oder e K. Hoppe citano dieci manoscritti e hanno identificato quattro famiglie : - Hippiatrica Berolinensia (= B), famiglia per la quale si sono affidati principalmente ad un manoscritto : Berolinensis Graecus del decimo secolo. - Hippiatrica Parisina, in Parisinus Graecus 2322 (= M), dell’undicesimo secolo. - Hippiatrica, Cantabrigiensis Collegii Emmanuelis iii, 3,19 (= C), xii secolo, e Londinensis Bibliothecae Sloanianae 745 (= L), del tredicesimo secolo, che risale a un archetipo D. - Hippiatrica, Lugdunensis Vossianus Graecus D. 50 (= V), del quindicesimo secolo. In questa raccolta di testi possiamo leggere principalmente sette autori diversi : Apsirto, Anatolio, Eumelo, Teomnesto, Ippocrate Greco (vissuto sotto Costantino il Grande), Ierocle e Pelagonio. Spicca tra tutti Absirto, [21] veterinario di fama indiscussa, nato a Clazomene e vissuto tra il 300 ed il 334 d.C., che, nei sui scritti in forma epistolare, ebbe il merito di separare definitivamente la veterinaria dalla medicina. Ierocle, [22] vissuto nel v secolo d.C., invece, si è limitato a compendiare gli scritti di Apsirto in una forma più elegante e raffinata. Gli altri autori citati negli Hippiatrica hanno rilevanza diversa: si passa da un testo unico di Emilio Ispano, Littorio Benevento, Imerio, Africano, Didimo, Diofane, Panfilo e Magone Cartaginese, per terminare con i centoventuno testi di Absirto, i trentuno di Teomnesto, i quarantotto di Pelagonio, i dieci di Anatolio ed i trentasei di Ippocrate. Il Corpus Hippiatricorum Graecorum è una silloge di altri trattati di epoca precedente ora scomparsi. Gli Hippiatrica, pur essendo giunti fino a noi in quattro manoscritti diversi, solo nel xvi secolo d.C. sono stati pubblicati in greco ed in latino ; fino ad allora nessuno si era più preoccupato di dare a questi scritti una redazione completa. [23] Come dice il testo stesso, questi diversi manuali trattano specificatamente dell’allevamento, della cura e dell’addestramento del cavallo, ma l’analisi degli Hippiatrica presenta una difficoltà maggiore rispetto agli altri trattati di veterinaria perché i testi non sono raggruppati con metodo, ma alcune volte sono stati riuniti per materia ed altre per autore. Per una panoramica dei temi degli Hippiatrica prendiamo ad esempio  











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una parte del trattato berlinese che segue il seguente schema : - malattie generali - salasso e prescrizioni - malattie di vario genere, localizzate secondo uno schema anatomico - rimedi quali bevande, beveroni ed unguenti - varie tipologie di salassi e indicazioni terapeutiche : salasso palatale, temporale e facciale. Prosegue poi con le fratture, gli azzoppamenti e le malattie degli occhi. Questi trattati sono stati presi a modello nei secoli successivi per tutta la trattatistica ippiatrica veterinaria. A Ierocle si è accennato prima, sicuramente deve tanto nelle sue opere ad Absirto. Teomnesto contribuisce con 31 testi agli Hippiatrica: fu veterinario militare, scrittore brillantissimo e colto, ma non ebbe fortuna in epoca medievale. Cita Absirto nel suo testo e probabilmente pubblica la sua opera tra il 313 ed il 324 d. C.; è attivo dunque al tempo del re persiano Cosroe al quale dedicò la sua opera che, probabilmente, potrebbe corrispondere a quella che Giovanni Damasceno, nel ix secolo, tradusse dal sanscrito all’arabo. 6. Accenni di storia della veterinaria a Roma. – La disciplina della veterinaria si è distaccata con difficoltà dalle regole e dalle tradizioni che caratterizzano l’agricoltura, in un primo tempo e, successivamente, la medicina umana. Scarsamente stimata dai Romani, ancora meno della medicina, la veterinaria aveva, però, la funzione fondamentale di salvaguardare la salute degli animali da allevamento e domestici. [24] Molte delle tecniche, delle tradizioni e delle conoscenze sugli animali domestici a Roma furono tramandate, per secoli, quasi esclusivamente per via orale ; non esisteva infatti a Roma e, più in generale, in tutta l’antichità, il concetto di scuola veterinaria: questa scienza non era considerata sufficientemente nobile da meritare di essere insegnata ; per impararla, dunque, l’unico metodo era quello di ‘apprenderla sul campo’. Mentre fioriva il genere di letteratura che trattava di agricoltura, la cura degli animali rimaneva relegata a materia di poco conto, atta solo ai bruti o agli armentari. [25] La figura del veterinario, comunque, in epoca imperiale, come ci attesta anche l’Editto di Diocleziano, [26] era figura pagata per i propri servizi seppur in maniera così esigua che pochissime persone si impegnavano nell’apprendere questa professione. [27] È probabile  















che nei grandi allevamenti di cavalli o nelle vaste fattorie di provincia esistessero e fossero impiegati dei veterinari, ma anche che, nelle piccole realtà rurali, i proprietari non avessero né sufficiente cultura né sufficienti finanze per poter usufruire dei servizi di un veterinario se non in casi veramente gravi e particolari. Si ha notizia che i veterinari prestassero il loro servizio nelle legioni, che ricevessero un salario e che non potessero avere un’età troppo avanzata per prestare i loro servigi nell’esercito e, infine, che fossero impiegati anche nel servizio postale imperiale. [28] Sempre all’interno dei ranghi dell’esercito esistevano anche veterinari specializzati nelle cure degli animali destinati alla macellazione : i medici pecuarii. In piena epoca imperiale la veterinaria acquisiva ‘gradi’ anche sul campo di battaglia dove i cavalli, forse più dei soldati, dovevano godere di una salute ‘di ferro’. Nasce e si sviluppa la figura del veterinario da campo, così come esisteva il medico, mentre i cavalli impiegati nelle guerre potevano godere di una propria infermeria e stalle appositamente loro riservate ; soprattutto nelle lunghe guerre di confine. 7. Breve storia della trattatistica veterinaria romana. – Proprio la veterinaria ha avuto il merito di far sentire ai Romani la necessità di scrivere manuali e prontuari d’uso di consultazione e linguaggio semplice per fattori che dovevano gestire intere tenute, ma spesso erano poco più che analfabeti. Al contrario di quanto accadeva agli albori della letteratura latina, in epoca tardo-antica, il manuale di veterinaria era spesso scritto da nobili che si dilettavano nell’allevamento dei cavalli e volevano quindi fare sfoggio della loro cultura in merito. [29] Prescindendo dunque, dal disinteresse della maggior parte degli autori di epoca arcaica e classica, la disciplina ebbe attenzioni particolari da coloro i quali avevano necessità pratica di salvaguardare le proprie tenute agricole e le proprie fattorie. Eppure, già in epoca arcaica, cominciavano i primi accenni a questa materia, anche se non in scritti ad essa dedicati, ma all’interno di opere di più ampio respiro. Per poter studiare la veterinaria a Roma è, quindi, importante valutare anche i modi in cui è stata tramandata fino alla nascita delle moderne scuole scientifiche nella Francia del xviii sec. d.C. Ipotizzare una suddivisione dei trattati che ne hanno parlato, sembra essere il modo migliore per avere un’amplia pano 







veterinaria ramica di quel che è accaduto, nel corso dei secoli, a questa disciplina. Una prima caratterizzazione, sia cronologica sia metodologica, può essere riconosciuta in una suddivisione tra trattati di agricoltura e trattati specifici di veterinaria. Del primo gruppo fanno parte tutti gli autori che hanno scritto implicitamente di veterinaria nelle loro opere di carattere agricolo : tra gli altri possiamo ricordare autori come →Catone, →Varrone, →Celso (frammenti del De agricultura), Columella. Altro punto cardine può essere considerato l’argomento del trattato stesso ; molto presto, infatti, vi fu una suddivisione tra opere di carattere generale sugli animali da allevamento ed opere specifiche sul cavallo. Questa seconda tematica, in epoca tardo latina e medievale, riscuoterà particolare interesse. Criterio di orientamento successivo a quelli appena elencati potrebbe essere la classificazione dei trattati che sono sopravvissuti sulla base delle fonti in esse utilizzate. [30] Secondo questo criterio le opere di ippiatria potrebbero essere valutate secondo tre tipologie : 1. Le Mulomedicine (ne fanno parte i trattati dell’antichità non influenzati dalla cultura araba, quindi i trattati di Absirto, Pelagonio, Vegezio, Mulomedicina Chironis e Ierocle insieme all’antologia di Hippiatrica); 2. Le Mascalcie (ne fanno parte i trattati scritti nel tardo Medio Evo che risentono dell’influsso delle conoscenze arabe di ippologia e ippiatria: autori tipici sono Giordano Ruffo, Mosè da Palermo, Bonifacio di Calabria, Guglielmo da Saliceto, Lorenzo Rusio ed altri ancora). 3. I trattati con fonti eterogenee : ne fanno parte tutti i trattati che usano sia fonti classiche sia arabe (in questa categoria possiamo annoverare Teodorico Borgognoni, Dino Dini, Agostino Columbre). Gli ultimi due gruppi trattano di opere e di autori di epoca medievale ; quindi, pur essendo state citate qui per completezza, esulano dalla trattazione di questo volume. Ci occuperemo, per l’epoca arcaica e classica, di opere a carattere prettamente agricolo e di opere specifiche per l’epoca tardo-antica. 8. La proto-veterinaria come settore dell’agricoltura. – Di proto-veterinaria si parla soprattutto per l’epoca medievale, età prossima alla nascita delle moderne scuole scientifiche di medicina. In questo ambito, però, si può definire con proto-veterinaria tutta quella serie di trattati non specifici che hanno caratterizzato l’epoca arcaica e classica di Roma antica intendendo, come  











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floruit della veterinaria classica, l’epoca tardo antica, quando sono stati scritti i più importanti trattati di mulomedicina. Di questa epoca fanno parte autori come Catone il Censore, Varrone Reatino, Virgilio, Celso, Columella e Plinio il Vecchio. In questo periodo, forse più che in epoca tardo-antica, la veterinaria risente di pratiche magiche ed empiriche : non mancano formule rituali, invocazioni e preghiere che assumono la funzione di allontanare il morbo stesso come fossero incantesimi. [31] Questo ‘modo di curare’ gli animali tornerà fortemente in uso anche durante il medioevo, quando la melothesia (teoria secondo cui ogni organo dell’uomo, e del cavallo, è associato ad una delle dodici costellazioni) sarà alla base di molte ricette di guarigione, essendo i segni dello zodiaco associati alle varie membra ed esercitando ciascuno uno speciale potere in fatto di salute e di malattia sulla parte assegnata. [32] Il presupposto per cui gli astri influenzano la natura si trova già in autori come Plinio il Vecchio, Teofrasto e Dioscuride. Altra teoria alla base della veterinaria, ancora ritenuta pseudoscienza, è la concezione aristotelica, secondo la quale la materia che forma le cose è unica, mentre i corpi e le loro peculiarità, dipendono dalla combinazione di caldo, freddo, secco e umido, ‘umori’ che sono le qualità base di ogni essere vivente. Da qui è derivato il sistema galenico che ha poi influenzato sia la medicina sia la veterinaria. A tutto questo va aggiunto un altro elemento, quello forse più originale ed eterogeneo tra tutti gli autori : l’esperienza diretta, l’empirismo che ha permesso, alla fine, di far progredire la veterinaria fino a farla diventare scienza, fino a farle acquisire un metodo con basi solide, con teorie reali, ripetibili e quindi comprovabili da terze persone. Il buon senso, spesso, ha avuto la meglio sulle pratiche magiche anche se tecniche come il salasso, rimasto in voga fino al 1800, erano praticate come panacee universali. Agli albori di questa scienza, dunque, a Roma, c’erano gli scrittori di res rusticae. La veterinaria non era indipendente, ma derivata da altre scienze più ‘nobili’, quali la medicina, l’agricoltura e l’astrologia. →Catone rispecchia tutto questo. Nel suo De agricultura dedica singoli capitoli alla cura degli animali (capp. 70, 71-73, 83, 96, 102, 103), dove non mancano preghiere, [33] incantesimi, superstizioni e superficialità; ha, comunque, il merito di essere stato  









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il primo a scrivere di veterinaria. Tutti i consigli contenuti nei suoi precetti sono finalizzati al guadagno : non più solo agricoltura di sostentamento, ma fonte di ricchezza. Si doveva mirare al mercato : chi lavora i campi deve badare a vendere, non a comprare. Questa logica è sottesa anche alla gestione del bestiame: C. si preoccupa, infatti, dell’igiene e della salute degli animali allevati solo perché devono essere produttivi : se malati, infatti, andrebbero abbattuti, causando così un danno alla fattoria. La figura del veterinario non è delineata né curata; siamo ben lungi dalla concezione virgiliana quasi ‘umanizzata’ degli animali da allevamento. In Catone, ma anche negli altri autori che lo seguiranno, uno ‘specialista’ doveva essere chiamato in aiuto del pastore o del proprietario della fattoria solo in casi gravissimi, che necessitassero anche di operazioni chirurgiche di particolare gravità. Era il vilicus, infatti, a dover sovrintendere alla gestione di tutta la fattoria e, quindi, anche alla cura degli animali. Sotto di lui, vi erano diverse figure destinate alla cura di animali vari : il bubulcus [34] si doveva occupare dei bovini ; l’asinarius si prendeva cura degli asini e l’opilio era armentario delle greggi. In veterinaria, così come in medicina, Catone non mostra alcuna conoscenza anatomica, né alcun pensiero clinico. Egli si attiene strettamente al solo elenco dei sintomi senza una ricerca eziologica, [35] che possa fare da base per conoscenze più approfondite. Tra tutti gli animali della fattoria si occupa principalmente dei buoi ; questa caratteristica della sua opera va controcorrente rispetto alla trattatistica veterinaria più tarda, quando gli equini saranno i protagonisti indiscussi. →Varrone Reatino offre molte più informazioni, anche di carattere storico, circa il mestiere del veterinario. Nel suo Rerum rusticarum libri tres, sia il secondo che il terzo libro sono dedicati agli animali ; nello specifico, è il secondo che spiega le regole per allevare gli animali, mentre il terzo è dedicato alla cura delle loro malattie. L’autore stesso ci mette a parte del fatto che esistevano due scienze atte a mantenere la salubrità : una praticata dai medici, l’altra dal pastor diligens. [36] Varrone parla di una gerarchia tra i semplici attendenti agli animali della fattoria ed il medico veterinario. Si preoccupa, inoltre, di assegnare compiti diversi ai servi della villa : con medicus pecorum [37] indica il veterinario, mentre con magister pecoris [38] chi cura  





















sia il gregge sia le malattie degli uomini, e quindi non può essere sine litteris. [39] L’armentarius [40] (o mandriano) è, tra i servi, l’addetto agli animali con maggiore libertà di decisione e, forse, più esperienza : quindi, in discreta autonomia, può curare i buoi. Il mandriano stesso, però, non essendo specializzato nella cura del bestiame, deve avere con sé un manuale, opus ad medendum, [41] non solo per essere facilitato nel proprio compito, ma, soprattutto, per non incorrere in errori e poter riconoscere le malattie meno gravi da quelle che necessitano di intervento del veterinario perché mortali. Dunque, tramite Varrone, abbiamo la certezza che anche presso i Romani sussistevano due livelli diversi per la cura degli animali : uno più generico, più empirico, basato sulle conoscenze popolari, sulle tradizioni e su usi e costumi rurali, l’altro più specializzato, insegnato da un veterinario ai propri allievi, che esulava, almeno in parte, dalla semplice cura dal pastore o dal mandriano. Per quanto concerne più strettamente la →patologia, Varrone sottolinea come debba essere accorto il magister pecoris circa i sintomi delle varie malattie attraverso un breve ‘prontuario d’uso’ ; [42] inoltre deve aver ben chiara la differenza che intercorre tra i signa che manifestano gli ovini ed i bovini e quelli degli equini perché si differenziano sostanzialmente tra le tre specie. [43] Varrone, dunque, più di Catone sembra essere particolarmente attento ad una base eziologica per lo studio delle varie patologie, inoltre, nelle sue parole si può intravedere la ricerca di una qualche scientificità sulla quale fondare poi la conoscenza empirica. Infine, per primo, sottintende che il magister pecoris debba essere persona istruita per poter consultare il ‘prontuario’ veterinario. Rimanendo tra gli autori di res rusticae →Virgilio [44] con il terzo libro delle Georgiche, sebbene non tratti di veterinaria in senso stretto, in un passo “sottolinea la grande e prodigiosa novità che è la vita animale rispetto a quella vegetale, ma sente che entrare nel mondo degli animali significa entrare nel mondo della sofferenza”. [45] Virgilio si premura di istruire i contadini nell’arte dell’allevamento sottolineando come anche gli animali da lavoro possedessero un’anima. In particolare narra della cura da prestare durante il periodo di accoppiamento affinché fosse assicurata la riproduzione di ogni specie, specificandone l’importanza per i cavalli. [46] Alla veterinaria intesa  







veterinaria come cura ed allevamento di animali domestici, dedica pochi versi : da 49-283 i protagonisti sono gli animali di piccolo taglio, mentre dal 284 al 413 lo sono gli animali più grandi. Trarre dal terzo libro delle Georgiche notizie di veterinaria, prescindendo da tutto il resto, è impresa azzardata perché Virgilio non aveva come scopo quello di scrivere un manuale di agricoltura come fecero prima di lui Catone o Varrone. È comunque possibile estrapolare molte informazioni circa la cura degli animali da allevamento in uso durante i primi anni dell’Impero Romano. Ai cavalli, alla descrizione delle loro caratteristiche migliori, agli atteggiamenti in battaglia e in malattia, sono dedicati i versi 70128, segno di una valenza superiore assegnata a questo animale rispetto agli altri animali della villa. In particolare, V. dedica ampio spazio alla cura ed all’allevamento dei puledri : devono esser scelti con particolare oculatezza quelli atti alla monta, perché a loro è riservata la speranza della razza. [47] Per quanto riguarda gli armenti, è interessante notare l’importanza assegnata all’addomesticamento dei vitelli che, fin da giovanissimi, devono imparare a camminare in coppia, prima legati al collo con cappi di leggeri vimini, successivamente con il collo libero. Anche il foraggio deve essere diverso tra vitelli e animali adulti. Ultime annotazioni sugli armenti riguardano i tori ed il modo per addomesticarli e allevarli, separati dalle giovenche e dagli altri animali della fattoria, ma anche tra loro. Dopo gli armenti, al v. 295 è la volta delle greggi. Accenni troviamo anche per i cani, importanti per la custodia delle stalle e per la caccia al cinghiale. L’ultima parte del libro è più strettamente connessa con la cura delle malattie. Particolare preoccupazione doveva destare la scabies, perché considerata contagiosa. L’elenco dei remedia per scongiurare la diffusione di questa malattia è più ricco (diverrà fonte unica per Columella che lo riporterà ad verbum).[48] Per curare le ulcere provocate dalla scabies Virgilio consiglia vivamente di non perdere tempo chiedendo migliori auspici agli dei : l’infezione, infatti, si nutre e vive restando al coperto, mentre il pastore è restio a mettere le mani sulla piaga per sanarla. [49] Riguardo alla turpis scabies Virgilio consiglia che il magister pecoris si affretti, più che a curarla, a prevenirla con semplici gesti quali la pulizia del gregge e la cura con linimenti dopo la tosatura. Virgilio, indirettamente, ci fornisce indicazioni  





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preziosissime sui compiti del pastor che, dunque, svolgeva anche le funzioni di un veterinario tanto da eseguire anche operazioni chirurgiche. Siamo ben lontani dunque da Catone e dalle sue scarne se non del tutto assenti descrizioni dei malanni per cui scrive consigli e prescrizioni. La scabies è dettagliatamente descritta sia nelle sue cause sia nelle sue manifestazioni sulle greggi ; il pastor può effettivamente ‘toccare con mano’ quello che può accadere al suo gregge se non si premura di prevenire e curare questa malattia nel più breve tempo possibile ; inoltre sta regredendo l’uso delle pratiche magiche alle quali non è lasciato il solo buon esito delle cure, è invece il pastor che deve provvedere a cure chirurgiche senza indugio. Il libro si conclude con la descrizione della peste (afta epizootica) del Norico, [50] con scene particolareggiate sulla morte degli animali e sull’evidenza di questa malattia anche nei comportamenti del bestiame moribondo : famosa è la scena del cavallo che rifugge l’acqua, che non mangia, mentre colpisce con lo zoccolo, ripetutamente, la terra ; gli penzolano le orecchie e intorno a queste si diffonde un sudore freddo e caldo ; la pelle, infine, si fa dura e resistente al tatto. Questi sono i signa della peste descritti con dovizia di particolari e attenzione anche alla gestualità dell’animale, e non solo ai segni esteriori della malattia. Ai versi 72-112 non manca la descrizione di uno stallone in perfetta salute e conformazione, che tanta importanza assumerà poi con gli autori di mulomedicina tardo-antica e medievale. →Columella con il suo De re rustica [51] non si discosta eccessivamente da Varrone, pur essendo già nella metà del i secolo d.C. La sua opera costituisce, per noi, l’opus enciclopedico sulla tecnica agricola più completo e scrupoloso dell’antichità. Il suo è un trattato, in dodici libri, su tutta la vita rurale, dunque anche sulla veterinaria, alla quale ha dedicato due libri : il sesto che tratta degli armenti e dei cavalli ed il settimo riguardante le greggi e gli altri animali da cortile, con particolare attenzione alle greggi di pecore e capre : come allevarle, sceglierle e curarle, nonché tutti i servizi utili che giovano al pastore. La figura del veterinario si è ulteriormente evoluta: in questo trattato il magister pecoris [52] è solo uno degli attendenti della fattoria con qualche conoscenza di veterinaria, mentre il veterinarius [53] è colui che cura gli animali nelle situazioni più gravi. Inoltre, Columella ci informa che  













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nei grandi allevamenti il veterinario era in loco, non veniva dunque chiamato da fuori come poteva capitare nelle piccole fattorie rurali. Nel sesto libro C. tratta degli animali da allevamento. I primi ad essere annoverati, come in tutte le opere di agricoltura analizzate, sono gli animali da soma, quindi i buoi : come sceglierli, ed ottenere il maggiore profitto da questi importantissimi animali da lavoro; vengono inseriti nel primo gruppo di animali a quattro zampe, allevati allo scopo di coadiuvare e facilitare il lavoro degli uomini (praef. 6 : Igitur cum sint duo genera quadrupedum, quorum alterum paramus in consortium operum, sicut bovem, mulam, equum, asinum, alterum voluptatis ac reditus et custodiae causa, ut ovem, capellam, suem, canem ; de eo genere primum dicemus, cuius usus nostri laboris est particeps). Gli animali trattati nel settimo libro sono allevati, invece, perché apportano ricchezza e introiti alla villa. Nell’economia del trattato, ad ogni specie Columella dedica un paragrafo per il pascolo, la custodia, la riproduzione e le terapie da seguire. Per la sanità del bestiame, tra →chirurgia veterinaria, →terapeutica veterinaria, dieta e farmacopea, Columella spesso preferisce la dietetica, prescrivendo liste lunghissime di ingredienti da tutti e tre i regni naturali, da somministrare insieme a rituali magici. [54] Molta importanza assume la cura del piede e dello zoccolo degli animali da tiro [55] così come viene prestata particolare attenzione ai morsi dei serpenti ed alla scabies, malattia pericolosissima per le greggi. →Plinio il Vecchio (cfr. anche →zoologia) più che di veterinaria tratta di zoologia. Per questo motivo accenniamo brevemente agli argomenti, senza soffermarci con dovizia di particolari sulla sua opera enciclopedica. Il libro dedicato alla veterinaria è l’ottavo, suddiviso in due sezioni. La prima riguarda gli animali esotici, la seconda gli animali domestici ed autoctoni. In questo ambito Plinio tratta anche dei cani, dei cavalli, degli armenti e delle loro malattie. Infine, →Gargilio Marziale ci ha lasciato un’opera giunta solo frammentaria circa la cura boum. Nei brevi stralci che ci rimangono possiamo leggere le patologie degli armenti : buoi e giovenche. 9. La veterinaria come scienza. – Per parlare di veterinaria come materia scissa dalla medicina e dall’agricoltura, dobbiamo arrivare al iv secolo d.C., epoca di autori come Vegezio e l’anonimo detto Chirone, ma anche di Pelago 







nio e Palladio. Anche se quest’epoca è definita come tardo-latina, di transizione dunque, in questo momento che la veterinaria ha il suo floruit. Gli autori che ne trattano si preoccupano di compilare esclusivamente manuali di mulomedicina o di veterinaria più in generale, senza includervi altri argomenti : fonti immense non solo di notizie specifiche, ma anche di quella lingua che aveva perso un po’ della sua ‘formalità’, rivelando il sostrato più vero e colloquiale, nonostante gli sforzi di un autore come Vegezio [56] per essere elegante. Non solo, quindi, attenzione sempre crescente per gli animali, la loro cura, il loro allevamento, in pace ed in guerra, ma anche per l’insegnamento della materia stessa e per il metodo di trasmissione delle notizie scientifiche. Prosegue sotterranea l’opera dei non addetti, ma questa non è più l’unica fonte di erudizione. Nuovo interesse suscitano i manuali per allevare i cavalli, non solo come metodo pratico per scongiurare cattivi acquisti o perdite economiche, ma anche per fare sfoggio di sapere, un nuovo modo per mostrare la propria cultura e la propria ricchezza. Gli autori dei manuali di epoca tarda, infatti, come hanno avuto modo di sottolineare già altri studiosi, [57] non sono dei veri e propri iJppiatroiv, quanto aristocratici con il passatempo dell’allevamento equino. Dunque nella veterinaria cominciano ad essere distinte aree di studio differenti : l’allevamento delle greggi, degli armenti, degli animali da tiro e la cura dei cavalli. Inoltre, la figura del veterinario è ormai quella di un medico specializzato soprattutto in chirurgia : si definisce, anche a Roma, la figura dell’ippiatra, di colui cioè che si occupa esclusivamente di equini ed asini. Il veterinario, insomma, ha un proprio ruolo nella società civile ed in guerra, con una paga fissata ed un grado nell’esercito. I manuali riflettono tutto questo con libri o capitoli dedicati a ciascuno degli argomenti sopraccitati nei cui prologhi sono descritte le finalità dell’autore. La maggior parte di coloro che si occupavano degli animali, rimane, comunque, di estrazione sociale bassa se non servile ; molto pochi erano i veterinari altamente specializzati, i più continuavano ad essere poco più che analfabeti. Permangono, ancora, dei forti retaggi della proto-veterinaria soprattutto nell’uso, seppure in continua diminuzione, di riti magici, di amuleti ed incantesimi. Quando la malattia ha un esito infausto, l’unica soluzione era ricorre 







veterinaria re a pratiche magiche che facessero perno su fenomeni soprannaturali. La dietetica e la farmacologia [→terapeutica veterinaria] erano campi in cui la magia e l’astrologia erano comunemente applicate : spesso, infatti, si può leggere di somministrare una pozione solo in un determinato periodo del giorno o di raccogliere una determinata pianta solo con una ‘luna’ particolare. Mentre Roma va verso il suo declino, si assiste, comunque, ad un forte ridimensionamento di queste pratiche così come ad una continua perdita di fiducia in una loro effettiva valenza medica ; molto più spesso gli autori ne scrivono più per rendere omaggio alla precedente tradizione secolare che per altro. Catone ne faceva largo uso tanto da essere alle volte l’unico rimedio per alcune malattie particolarmente gravi o sconosciute; [58] Vegezio, cinque secoli dopo, vi ricorre in maniera molto più moderata, (pur rimanendo nel suo trattato ampie tracce di pratiche sia magiche sia astrologiche). Le prime, infine, erano associate, (e quindi in qualche modo giustificabili anche ai nostri occhi che vivono in epoca scientifica) all’uso di sostanze di cui si conosceva l’esistenza ma non le proprietà come accadeva per i metalli a cui sempre venivano associate capacità curative. Le pratiche magiche, così come il salasso ed il digiuno, venivano prescritte praticamente ogni volta che non si conosceva altro modo per curare sintomi imperscrutabili agli occhi di un veterinario (così come a quelli di un medico). A differenza delle prime, però, il salasso [→chirurgia veterinaria] ed il digiuno [→terapeutica] hanno continuato ad avere stima e fiducia da parte di ogni sorta di medico praticamente fino alle soglie del 1900. Se per il salasso è difficile giustificare un così largo uso, per il digiuno è facile intuire che un corpo debilitato ed uno stomaco completamente vuoto possono subire gli effetti di qualsiasi sostanza in maniera molto più evidente di un corpo vigoroso. Contemporaneamente alla diminuzione delle pratiche magiche, la veterinaria si è andata arricchendo di tutte le conoscenze della pratica medica sia nella terminologia [59] che nelle teorie mediche che nello studio eziologico che nello studio della sintomatologia [→semiologia veterinaria]. Se nella →patologia e nella →anatomia veterinaria i veterinari erano costretti a far uso dei soli termini veterinari ed in minore quantità dei termini medici, nelle altre aree della  



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veterinaria le proporzioni si invertono con una sostanziale traslazione di significato da una scienza all’altra. [60] La veterinaria, quindi, ha imparato ad imitare la lingua medica, con le dovute differenze, ma ancora non ne ha appreso il metodo scientifico se non nella descrizione e nella classificazione delle varie sintomatologie, soprattutto per quanto riguarda gli equini (di importanza strategica per tutta la storia socioeconomica dell’Impero Romano). Tale accuratezza nella classificazione delle patologie equine si è andata approfondendo nella tarda latinità fino a raggiungere il floruit con autori come →Pelagonio, →Vegezio e l’autore della →mulomedicina Chironis. Note. [1] Vd. Lundström 1917 ; Corsetti 1982, 7-23 ; Cossarini 1987, 1839-1846. – [2] Prime scuole di veterinaria: Claude Bourgelat a Lione aprì la prima scuola di veterinaria ; era il 13 febbraio del 1762. Fu fondata la Luigi XV per approfondire gli studi sulle malattie del bestiame e I loro trattamenti. Nel 1765 sorse quella di Parigi, poi Vienna e quindi, quarta nel mondo, nel 1769 quella di Torino. Cianti 1995 ; Cabassi 2005. – [3] Cfr. De Ponor 1889 – [4] Sull’origine di veterinaria Adams 1992, 70-95. – [5] Le fonti per questa scheda etimologica sono state: Weise 1882 ; Walde-Hoffman 1938-1956 ; Carnoy 1955 ; Battisti-Alessio 1950-1957 ; Ernout-Meillet 1959 ; Devoto 1967 ; Castelli 1975 ; Palmer 2002 ; Pieraccioni 1975 ; Grmek 1985 ; Loewe 1965. – [6] Si vedano in questo senso tutti i trattati dedicati all’agricoltura, fin dall’epoca repubblicana, che, all’interno, hanno sezioni più o meno ampie, di veterinaria De agri cultura di Catone, De re rustica di Columella, De re rustica di Varrone, fino ai trattati di agrimensura che, pur in misura molto minore, sfiorano anche gli argomenti dedicati all’allevamento e quindi alla veterinaria. – [7] Pelagon., Giordano Ruffo, Lorenzo Rusio, et alii. – [8] Hom. Il. 8, 80. – [9] Per una bibliografia essenziale su Esiodo: Arrighetti 1975 ; Arrighetti 1984 ; Colonna 1977 ; Rzach 1902 ; Solmsen 1983. – [10] Rzach 1902 passim. – [11] Hom. Il. I 50. – [12] Alcmeone di Crotone - Testi ed edizioni critiche: Dörrie 1970, 22-26; Ebner 1969, 25-77 ; Lebedev 1993, 456-60 ; Longrigg 1993 ; Taylor 1997 ; Timpanaro Cardini 1964, 124-153 ; Triebel-Schubert 1987, 190-199 ; Wachtler 1896. – [13] Chalcid. in Tim. 237, 279 ; Aët. 5, 14 I. – [14] Colum. 7, 3, 6. – [15] Senofonte, Peri; iJppikh`~ : Delebecque 1978 ; Morris Morgan-Allen 2002 ; Salomone 1980. – [16] Aristotele, Le parti degli animali, trad. L. Carbone, Milano 2002. La bibliografia su Aristotele è vastissima; per i problemi connessi ad Aristotele si rinvia a Berti 2007. – [17]  





















































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Aristotele, de generatione animalium: Lanza-Vegetti 1996 ; Berti 2007. – [18] Corpus Hippiatricorum Graecorum: Amann 1983 ; Appel 1983. – [19] Fehrle 1920 ; Habbi 1990, 77-92 ; Oder Hoppe 1924-1927. – [20] Beckh 1994. – [21] Index fragmentorum. Fragmenta Anatolii de bubus in corpore Hippiatricorum servata (E. Oder, K. Hoppe, Corpus Hippiatricorum Graecorum (Lipsiae, 1927), vol. 2, pp. 330-336) ; Geoponica 16.1 ; Geoponica 16.3-8 ; Geoponica 16.13-16 ; Geoponica 16.19 ; Geoponica 16.21. – [22] Index fragmentorum. Fragmenta Anatolii de equis ; Hippiatrica Berolinensia, Hippiatrica Cantabrigiensia, Hippiatrica Parisina passim ; Geoponica 16.9 ; Geoponica 16.10 ; Geoponica 16.11. – [23] Numerose sono le edizioni cinquecentine ed anche più tarde fino a quelle di Beckh 1994 ; Meana-Cubero-Sáez 1998. – [24] Si veda in merito Veg. mulom. Prologus. – [25]Nei trattati di agricoltura di epoca repubblicana o di prima età imperiale, infatti, vi erano una o più sezioni dedicate alla cura ed all’allevamento degli animali domestici, ma non si faceva diretto accenno alla figura del veterinario. Catone nel suo de agri cultura usa parole quali pastor, pater familias, vilicus, bubulcus, ma non veterinarius o mulomedicus o armentarius. – [26] Edictum de pretiis rerum venalium [quae pr]etia [in singularem rerum venditionibus ex]cedere nemini licitum sit, [hic i]nfra oste[nditur], 7 de mercedibus operariorum, de aeramento, 22 mulomedico tonsurae et aptaturae pedum in capite uno * sex 23 deplerae et purgatrae capitis per singula capita * viginti 24 tonsori per homines singulos * duos 25 tonsori pecrum in uno capitae pasto * duos. – [27] Veg. mulom. prol. 2, 1. – [28] Adams 1995, 66102. – [29] Questo aspetto avrà straordinari risultati fino all’epoca rinascimentale, fino a quando si svilupperanno le prime scuole di veterinaria nel 1700. In merito si veda Trolli 1990a ; Brunori Cianti - Cianti 1993 ; Aprile 2001 ; Gualdo 1988 ; Ortoleva 1996. – [30] Aprile 2001, 228 sg. – [31] Seppilli 1989 ; Adams 1995 ; Barker Prince 1980 ; Coltro 1983 ; Federici Vescovini 1983, 169-194 ; Lloyd 1979 ; Phillips 1981, 57-60. – [32] Altieri Biagi 1970 ; Delprato 1865, Delprato 1867 ; Guglielmo da Saliceto 1546 ; Moulé 1890 ; Polle Drieux 1966, 10-167. – [33] Cat. agr. 83, 1 Votum pro bubus, uti valeant, sic facito. Marti, Silvano in silva interdius in capita singula boum votum facito.[…] hoc votum in annos singulos, si voles, licebit vovere. – [34] Cat. agr. 10, 1 Vilicum, vilicam, operarios quinque, bubulcos III, asinarium I, subulcum I. – [35] In merito segnaliamo solo alcuni passi in cui è possibile notare l’assenza di analisi eziologica Cat. agr. 70, 1 Bubus medicamentum. Si morbum metues, sanis dato salis micas tre ; Cat. agr. 71, 1 bos, si aegrotare coeperit, dato continuo ei unum ouum gallinaceum crudum […] ; Cat. agr. 96, 1 Oves ne scabrae fiant, amurcam condito […] ; Cat. agr. 126 Ad tormina et si aluus non  





























































consistet et si taeniae et lumbrici molesti erunt, triginta mala punica acerba […]. – [36] Varr. r.r. 2, 1, 21 Quarta pars est de sanitate […]. Cuius scientiae genera duo, ut in homine, unum ad quae adhibendi medici, alterum quae ipse etiam pastor diligens mederi possit. – [37] Varr. r.r. 2, 16 De medicina vel plurima sunt in equis et signa morborum et genera curationum, quae pastorem scripta habere oportet. Itaque ab hoc in Graecia potissimum medici pecorum iJppiatroiv appellati. – [38] Varr. r.r. 2, 2, 20 De sanitate sunt multa ; sed ea, ut dixi, in libro scripta magister pecoris habet, et quae opus ad medendum, portat secum. – [39] Varr. r.r. 2, 10, 10 Quae ad valitudinem pertinent hominum ac pecoris et sine medico curari possunt, magistrum scripta habere oportet. Is enim sine litteris idoneus non est, quod rationes dominicas pecuarias conficere nequaquam recte potest. – [40] Varr. r.r. Praef. 2, 4 Alius enim opilio et arator ; nec, si possunt in agro , armentarius non aliut ac bubulcus. – [41] Varr. r.r. 2, 5, 18. – [42] Varr. r.r. 2, 1, 23 ad alios morbos aliae causae et alia signa, in omni pecore quae scripta habere oportet magistrum pecoris. – [43] Varr. r.r. 2, 7, 6 Emptio equina similis fere ac boum et asinorum, quod eisdem rebus in emptione dominum mutant, ut in Manili actionibus sunt perscripta. – [44] La bibliografia su Virgilio è sconfinata: si consiglia di procedere per gradi dalla voce Virgilio nelle Enciclopedie di Letteratura Latina per poi approfondire gli aspetti che più interessano di questo autore: Paratore 1987, 23312400 ; Billiard 1928. – [45] La Penna 1973, 89. – [46] Verg. georg. 3, 72-75 Nec non et pecori est idem dilectus equino /tu modo, quos in spem statues summittere gentis, /praecipuum iam inde a teneris impende laborem. /continuo pecoris generosi pullus in aruis. – [47] Verg. georg. 3, 75-83 continuo pecoris generosi pullus in aruis/altius ingreditur et mollia crura reponit ;/primus et ire uiam et fluuios temptare minacis/ audet et ignoto sese committere ponti,/nec uanos horret strepitus. illi ardua ceruix/argutumque caput, breuis aluus obesaque terga,/luxuriatque toris animosum pectus. honesti/spadices glaucique, color deterrimus albis/et giluo. – [48] Verg. georg. 3, 440 -441 Morborum quoque te causas et signa docebo./turpis ouis temptat scabies. – [49] Verg. georg. 3, 454-456 alitur uitium uiuitque tegendo, /dum medicas adhibere manus ad uulnera pastor/abnegat et meliora deos sedet omina poscens./quin etiam. – [50] Verg. georg. 3, 478565. – [51] Corsetti 1982b, 7-23 ; Cossarini 1987, 1839-1846 ; Lundström 1917. – [52] Colum. 7, 6, 9 Magister autem pecoris acer, durus, strenuus, laboris patientissimus, alacer atque audax esse debet, ut qui per rupes, per solitudines, per vepres facile vadat et non ut alterius generis pastores sequatur, sed plerumque et antecedat gregem. – [53] Colum. 7, 3, 16 Quare veterinariae medicinae prudens esse debet pecoris magister. – [54] Solo come esempio Colum. 6, 4, 1 quae utraque custodiuntur large dato per triduum medicamento,  











vetro quod componitur pari pondere triti […], cupressique et cum aqua nocte una sub divo habetur ; idque quater anno fieri debet ultimis temporibus veris, aestatis autumni, hiemis […]. Multi largo sale miscent pabula, quidam marrubium deterunt cum oleo et vino ; quidam porri fibras, alii grana thuris, alii sabinam herbam rutamque pinsitam mero diluunt. Eaque medicamenta potanda praebent. – [55] Colum. 6, 12, 1 Sanguis demissus in pedes claudicationem affert. Quare cum accidit, statim ungulam inspicito. Tactus autem fervorem demonstrat ; nec bos vitiatam partem vehementius premi patitur. Sed si sanguis adhuc supra ungulas in cruribus est, frictione assidua discutitur vel, cum ea nihil profuit, scarificatione demitur. At si iam in ungulis est, inter duos ungues cultello leviter aperitur; Colum. 6, 12, 3 Si sanguis in inferiore parte ungulae est, extrema pars ipsius unguis ad vivum resecatur […]. Si dolore nervorum claudicat, oleo et sale genua poplitesque et crura confricanda sunt, donec sanetur. – [56] Veg. mulom. prol. Mulomedicinae apud Graecos Latinosque auctores non fuit cura postrema. Sicut enim animalia post hominem, ita ars veterinaria post medicinam seconda est. In equis enim ac mulis et adiumenta belli et pacis ornamenta consistunt […] (nam mulomedicinae doctrina ab arte medicinae non adeo in multis discrepat sed in plerisque consentit) […] Chiron vero et Apsyrtus diligentius cuncta rimati eloquentiae inopia ac sermonis ipsius vilitate sordescunt. – [57] Adams 1995, 51-65 ; Ortoleva 1999, xxxii-xxxiii. – [58] Cat. agr. 83 Votum pro bubus, uti valeant, sic facito. Marti, Silvano in silva interdius in capita singula boum votum facito. – [59] Adams 1995, 239-360 ; Fischer 1980. – [60] Esempio tipico di questa traslatio di significato si ha per tutte le malattie dermatologiche che in veterinaria hanno particolare importanza e gravità. Negli allevamenti di greggi, infatti, malattie che colpiscano la cute o il pelo degli animali è fonte di danni economici doppi rispetto a quelli degli equini. È per questo che le malattie dermatologiche, insieme a quelle degli zoccoli occupano nei trattati tanta parte delle sezioni dedicate alla terapeutica. Inoltre, tutta questa attenzione verso le malattie dermatologiche ha fatto sì che il linguaggio specifico si dettagliasse e personalizzasse non solo tra la medicina umana o veterinaria, ma perfino tra specie e specie. Si vedano in merito i casi scabies ed impetigo.  









Bibliografia. Adams 1984, 7-32 ; Adams 1992 ; Adams 1995 ; Ahlquist 1909 ; Altieri Biagi 1970 ; Amann 1983 ; André 1958 ; André 1985 ; Appel 1983 ; Aprile 2001 ; Arrighetti 1975 ; Arrighetti 1984 ; Barker Prince 1980 ; Barnes 1982 ; Battisti -Alessio 1957 ; Baumgartner 1976 ; Beare 1906 ; Beck 1994 ; Berti 2007 ; Billiard 1928 ; BlackmanBetts 1989 ; Blood-Henderson 1960 ; Bodson 1986a, 7-14 ; Bodson 1991a, 215-241 ; Bourdy 1988 ;  

















































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Brunori Cianti-Cianti 1993 ; Cabassi 2005 ; Carnoy 1955 ; Castelli 1975 ; Cianti 1995 ; Colonna 1977 ; Coltro 1983 ; Corsetti 1982b, 7-23 ; Cossarini 1987, 1839-1846 ; Delebecque 1973 ; Delebecque 1978 ; Delprato 1865 ; Delprato 1867 ; Devoto 1967 ; Di Lorenzo-Pellegrino-Lanzardo 2006 ; Doyen 1981, 258-273 ; Doyen Higuet 1984, 111-120 ; Ebner 1969, 25-77 ; Enderle 1975 ; Ernout 1952 ; Ernout - Meillet 1959 ; Federici Vescovini 1983, 169-194 ; Fehrle 1920 ; Fischer 1980 ; Fischer 1985, 255-271 ; Fischer 1988, 222-229 ; Fischer 1991, 351-365 ; Fischer-Najock 1983 ; Frik 1979 ; Göbel 1984 ; Goujard 1975 ; Greppin 1987 ; Grmek 1985 ; Gualdo 1988, 135-159 ; Guggenbichler 1978 ; Guglielmo da Saliceto 1546 ; Guthrie 1962, 341-359 ; Habbi 1990, 77-92 ; Heurgon 1978 ; Hoppe 1933, 503-513 ; Hyland 1990 ; Ihm 1892 ; Krüger 1981 ; Lamprecht 1976 ; Langslow 1989, 33-53 ; Lanza-Vegetti 1996 ; La Penna 1973 ; Lebedev 1993 ; Lloyd 1979 ; Loewe 1965 ; Lommatzsch 1903 ; Longrigg 1993 ; Lundström 1917 ; Morris Morgan-Allen 2002 ; Moulé 1890 ; Moulé 1891 ; Mynors 1990 ; Neumann 1965 ; Niedermann 1910 ; Niermeyer 1976 ; Oder 1901 ; Oder-Hoppe 19241927 ; Önnerfors 1991-[1993], 142-173 ; Ortoleva 1992, 369-383 ; Ortoleva 1996 ; Ortoleva 1999 ; Ortoleva 2001a ; Ortoleva 2001b, 91-107 ; Palmer 2002 ; Paratore 1987, 2331-2400 ; Pellegrino 2006 ; Petrocelli 2001 ; Pfister 1990 ; Phillips 1981 ; Pieraccioni 1975 ; Polle - Drieux 1966, 10167 ; Reiter 1981 ; Robles Gómez 1986 ; Robles Gómez 1999 ; Rodgers 1975a ; Rodgers 1975b ; Rodgers 1980 ; Roeren 1977 ; Rupp 1984 ; Rzach 1902 ; Salomone 1980 ; Schäffer 1981 ; Schwarzer 1976 ; Sconocchia 2002b, 51-90 ; Sconocchia 2004, 493-545 ; Seppilli 1989 ; Solmsen 1983 ; Sturz 1964 ; Svennung 1935 ; Taylor 1997 ; Teall 1971 ; Teodorico da Cervia 1546 ; Tessier 1989 ; Timpanaro Cardini 1958-64, 124-153 ; TriebelSchubert 1984, 40-50 ; Triebel -Schubert 1987, 190-199 ; Trolli 1990a ; Trolli 1990b, 186-192 ; Wachtler 1896 ; Walde-Hoffmann 1938-1956 ; Wäsle 1976 ; Weise 1882 ; West 1971 ; Wilberg 1943 ; Wohlmuth 1978 ; Wright 1981 ; Zaffagno 1990a, 241-245 ; Zaffagno 1990c, 243-255 ; Zellwecker 1981 ; Zhmud 1997.  



































































































































































































































Violetta Scipinotti Vetro [u{alo", u{elo", vitrum ]. 1. Origine e composizione. – Il v. è un materiale ottenuto dalla fusione ad altissima temperatura (da 1300° a 1500°C) di una miscela costituita da varie sostanze, tra cui componente essenziale è la silice (ricavata dalla sabbia, da ciottoli di fiumi o dal quarzo etc.), combinata con ossido di calcio (o di magnesio o di bario o con allumina), usato

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vetro

come stabilizzante, e carbonato di sodio (soda) o di potassio (potassa), come fondente, per facilitarne la fusione. In molti casi sono presenti anche piccole quantità di ossidi di metallo, in particolare ferro, che conferiscono al composto un caratteristico colore verde. La qualità del v. dipende dai suoi componenti e dalla temperatura di fusione : nell’antichità, per l’impossibilità di raggiungere temperature molto elevate, si realizzava una fusione parziale intorno a 1000°C, che non garantiva una perfetta trasparenza del v. per l’incompleta eliminazione delle impurità presenti nella pasta vitrea e la permanenza di bolle d’aria nella massa. 2. Cenni storici. – Smentendo la notizia riferita da →Plinio, [1] secondo cui l’invenzione del v. sarebbe da ascrivere ai Fenici, i reperti più antichi testimoniano la presenza di tale materiale in Medio Oriente, in un’area geografica compresa tra la Mesopotamia e l’Egitto, già nel iv millennio a. C. È, tuttavia, probabile che molto prima che i recipienti di v. facessero la loro apparizione in queste regioni, gli antichi avessero sperimentato la produzione di materiali vetrosi come la faience, ottenuta riscaldando fino alla fusione in una massa solida granuli di quarzo triturato. Un’altra sostanza simile al v. era ottenuta fondendo silice, ceneri di piante o natron e calcio. Le prime testimonianze di oggetti in v. riguardano grani per collane policromi e non trasparenti, foggiati ad imitazione delle pietre preziose, mentre i primi recipienti in v. si datano ai secoli xvi-xv a.C. e sono riconducibili alle aree siriane e mesopotamiche. Particolarmente fiorente fu l’industria del v. in Egitto, che presenta, a partire dal 1500 a.C. circa, una produzione cospicua dal punto di vista quantitativo e qualitativo. Tra il ix e il vii sec. a.C. la produzione egiziana declina, mentre rifiorisce quella mesopotamica e si diffonde l’arte vetraria in Palestina e in Fenicia. Ai Fenici si deve l’introduzione del v. trasparente e l’invenzione della soffiatura. La produzione fenicia conobbe una notevole diffusione e durò per diversi secoli, anche in epoca cristiana. Da queste regioni l’arte di produrre il v. passò in Grecia e a Roma. I Greci non coltivarono in modo particolare l’arte del v., sebbene lo considerassero un materiale pregiato al pari dell’oro, [2] ed è probabile che le officine attive sul territorio greco fossero gestite da egiziani. La manifattura vetraria conosce un periodo di rinascita e di fiorente sviluppo in epoca ellenistica, quando si moltiplicano i centri di lavorazione del v. e  





Alessandria diventa uno dei principali centri di produzione, ereditando molte delle tecniche decorative [→decorative, tecniche] già in uso, come il v. a mosaico di origine mesopotamica, o introducendone di nuove, come la decorazione a foglia d’oro racchiusa tra due lastre di v. I prodotti dell’arte vetraria ellenistica, di eccezionale qualità tecnica e formale, rari e costosi, si diffusero in ambito romano, dove in particolare incontrarono il gusto del pubblico i v. a mosaico multicolore, a foglia d’oro, a cammeo. La produzione vetraria fu agevolata a Roma dall’invenzione della soffiatura. Tale innovazione comportò anche un cambiamento nel gusto e nello stile : mentre, infatti, la produzione delle epoche precedenti si era concentrata sul colore e sulla decorazione, ora si prestava particolare attenzione alle caratteristiche di trasparenza e leggerezza del materiale, determinando, intorno al i sec. d.C., il sopravvento del v. acromo, valutato, come afferma Plinio, [3] al pari del cristallo di rocca. Nei secc. iii-iv d.C. si riafferma una produzione di lusso, che trova il culmine nei v. dorati e nei vasa diatreta, celebrati da Marziale per il loro valore. [4] Con la frammentazione del potere centrale in età tardo-antica e il trasferimento della capitale da Roma a Costantinopoli, la produzione romana del v. perde il suo carattere di omogeneità e internazionalità a favore di una maggiore provincializzazione, in cui si impongono caratteri regionali, diversificati dal punto di vista tecnico e formale. 3. Tecniche di fabbricazione. – Molteplici erano le tecniche di fabbricazione in uso nell’antichità. 3.1. Colatura. – Fu probabilmente la prima tecnica ad essere utilizzata sin dalla scoperta del v., per la semplicità della sua applicazione : consisteva, infatti, nel far colare il v. fuso in stampi premodellati e lasciarlo raffreddare e solidificare. Questa tecnica consentiva, tuttavia, di produrre unicamente oggetti di v. pieno. 3.2. Stampaggio. – Per ottenere oggetti cavi fu utilizzata la tecnica dello stampaggio, consistente nel far colare la pasta vitrea fusa su stampi in positivo e nel livellarla a caldo sullo stampo stesso. Quando la pasta vitrea si era raffreddata e solidificata, si procedeva all’eliminazione dello stampo, modellato in materiale friabile come l’argilla. Si passava poi alla rifinitura mediante molatura o incisione. 3.3. Colatura su anima.- Molto diffusa per la  







vindiciano produzione di oggetti cavi fu la colatura su un’anima di sabbia. Questa era prima immersa nella pasta vitrea fusa ; l’oggetto non ancora solidificato era, poi, fatto rotolare su lastre di metallo, al fine di regolarizzarne la forma ; avvenuta la solidificazione, infine, si procedeva all’estrazione del nucleo. In alcuni casi il procedimento consisteva nell’avvolgere fili di pasta vitrea intorno al nucleo. Per ottenere grani per collane o perle di v., si calavano nella pasta vitrea fili di ferro : le gocce di v. si solidificavano intorno all’anima di metallo che veniva estratta una volta avvenuta la solidificazione. 3.4. Taglio a freddo. – Tale tecnica interveniva quando il v., colato prima in stampi di forme non definite, si era solidificato. La lavorazione era effettuata per mezzo di molatura, taglio e incisione della pasta vitrea, fino ad ottenere la forma desiderata. 3.5. Soffiatura. – L’invenzione di tale tecnica, che comportò una riduzione dei costi del v. e, di conseguenza, una sua maggiore diffusione, oltre che un miglioramento delle sue caratteristiche strutturali (maggiore trasparenza, minore presenza di impurità, maggiore sottigliezza), si colloca in Medio Oriente nel i sec. a.C. e si fa risalire ai Fenici : il v., preliminarmente fuso all’interno di un forno a crogiolo, veniva prelevato per mezzo di un lungo tubo di ferro, di dimensioni variabili, detto ‘canna’ da soffio. La pasta vitrea fusa prelevata, definita bolo, era fatta dapprima rotolare su una lastra metallica, affinché acquistasse una forma approssimativamente cilindrica ; in un secondo momento il soffiatore, posta la canna in posizione verticale, cominciava ad insufflare aria dentro il bolo, che gradualmente si gonfiava, fino ad assumere la forma desiderata.  









Note. [1] Plin. nat. 36, 191. – [2] Cfr. ex. gr. Ar. Ach. 73-74. – [3] Plin. nat. 37, 10. – [4] Mart. 12, 70, 9. Bibliografia. Berretta-Di Pasquale 2004 ; Davidson Winberg 1992 ; Forbes 1966a, 110-196 ; Harden 1966 ; Isings 1957 ; Maltese 1998, 137169 ; Morin 1919 ; Neuburg 1949 ; Neuburg 1966 ; Plantz Horster 1998 ; Sternini 1995.  



















Nadia Cacopardo Vettio Valente di Antiochia. Astrologo del ii sec. d.C., fu autore di un’opera in nove libri, le Antologie, [1] in cui si occupa della durata della vita e dei sui rapporti con gli astri. Il floruit di V. può essere posto, in base alla natività ripor-

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tata nella sua opera, tra il 150 e il 185 d.C. [2] Il gran numero di oroscopi dimostra le finalità essenzialmente pratiche di questo testo, strettamente connesso con l’attività di astrologo dell’autore. Delle costellazioni l’autore considera gli influssi delle loro varie parti ai fini della previsione meteorologica, gli elementi celesti che sorgono e tramontano con le costellazioni stesse e le regioni della Terra sottoposte al loro influsso. L’opera, che riveste una certa importanza dal punto di vista documentativo, in quanto riporta integralmente brani appartenenti a diversi autori, è stata a sua volta ripresa e rielaborata, mentre sotto il suo nome sono circolati anche testi non autentici. [3]  



Note. [1] Ed. Pingree 1986. – [2] Neugebauer 1954, 65-67. – [3] Cfr. Gundel-Gundel 1966, 221. Bibliografia. Bara 1989 ; Gundel-Gundel 1966 ; Neugebauer 1954 ; Pingree 1986 ; Urso 2002, 129130.  







Carmelo Lupini Vindiciano. Fu comes archiatrorum, cioè capo dei medici di corte, con ogni probabilità sotto l’imperatore Valentiniano I (364-375 d.C.) e dedicatario di un rescritto sui privilegi degli archiatri. La corretta forma del nome Helvius Vindicianus ci è restituita da un’iscrizione rinvenuta a Mustis, città dell’antica Africa romana, dedicata all’imperatore Teodosio. [1] Dalla stessa epigrafe e da una testimonianza di →Agostino (conf. 4, 3, 5) sappiamo che rivestì la carica di proconsole d’Africa, sua terra d’origine, probabilmente nel 380/381, mentre rimane dubbia l’identificazione con un Vindicianus uicarius di una diocesi dell’Occidente. La sua opera è andata in gran parte perduta, rimanendo soltanto la Epistula comitis archiatrorum, restituitaci grazie a →Marcello Empirico, il quale la antepone, insieme ad altri scritti, al suo De medicamentis liber. L’Epistula descrive con toni realistici l’intervento di Vindiciano in merito a due casi clinici [→terapeutica], cogliendo forse uno spaccato dell’esperienza cortigiana dell’autore, in cui emergono rivalità e controversie tra i medici. Il racconto è infatti venato di tratti polemici che mirano a delegittimare l’operato dei colleghi imperiti e negligenti, esaltando invece le caratteristiche professionali e personali del buon medico, incarnato ovviamente dal nostro. Poco chiari sono ancora i rapporti con le possibili fonti, ma pare certo che Vindiciano conoscesse il greco,  

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virgilio

come emerge anche da personalità a lui vicine quali →Teodoro Prisciano, che nel proemio ai Physica lo definisce magister. Sussistono invece fattori di dubbio sull’attribuzione della Epistula ad Pentadium, come recentemente emerso da alcuni studi; ma sulla questione si attende ancora il parere definitivo della critica. [2] Il breve scritto rappresenta un compendio di fisiologia umorale [→fisiologia], forse destinato all’apprendimento. Vindiciano dovette rappresentare senz’altro una delle più grandi personalità dell’epoca nell’ambito della →medicina, come risulta dalle testimonianze dei contemporanei, come Agostino (Ep. 138, 3) e dalle menzioni di autori posteriori come →Cassio Felice.  

Note. [1] Vd. Beschaouch 1968. – [2] Vd. Jouanna 2005. Bibliografia. Barnes, T. D. 1985 ; Beschaouch 1968 ; Ensslin-Deichgräber 1961 ; Fiorucci 2008 ; Jouanna 2005 ; Lepelley 1992 ; Marasco 1998 ; Marasco 2000 ; Nutton 1977 ; Sabbah 1998 ; Zurli 1990 ; Zurli 1992b.  





















Francesco Fiorucci Virgilio. Publio Virgilio Marone, poeta tra i più rinomati, conosciuti e rappresentativi non solo dell’età augustea, ma anche di tutta la civiltà romana. 1. Vita. – Publio Virgilio Marone, nato il 15 ottobre del 70 a.C., trascorse i primi anni della sua vita e della sua formazione ad Andes, un piccolo villaggio, a cui corrisponderebbe l’attuale Pietole lungo la riva del Mincio, nei pressi di Mantova. V. ebbe la fortuna di frequentare le migliori scuole del tempo inizialmente a Cremona, poi a Milano, a Roma ed a Napoli, dove ebbe come maestro Sirone, filosofo epicureo (cfr. Catalepton 5). Dalle Bucoliche si deduce con evidenza che Virgilio ha vissuto con molta ansia ed apprensione gli anni drammatici della politica postcesariana, gli anni delle guerre civili tra Antonio ed Ottaviano. La preoccupazione del poeta si radicava nella convinzione che il suo podere in quel di Mantova potesse correre il rischio di essere confiscato dagli imperatores (generali con pieni poteri / triumviri) per lo stipendium (la paga) ai veterani dopo la battaglia di Filippi : in un primo tempo, infatti, gli fu risparmiato da C. Ottaviano (cfr. Buc. 1, 6 sgg.), anche se in un secondo momento gli fu espropriato (cfr. Buc. 9, 1 e sgg.). Nel contesto  

di questi avvenimenti politici (42-39 a.C.) si colloca la composizione delle Bucoliche o Ecloche, cioè dieci componimenti poetici in esametri conchiusi in se stessi secondo i dettami della poetica callimachea ed ellenistica in generale. La permanenza a Roma diede a Virgilio la possibilità di instaurare rapporti d’amicizia con le personalità eminenti della politica della cultura e della letteratura. Il legame d’amicizia stretto con Gaio Mecenate è particolarmente significativo, perché è proprio quest’ultimo ad introdurlo nel suo circolo letterario, di cui tra gli altri facevano parte Orazio e Properzio. L’amicizia con Mecenate implica indirettamente anche un rapporto impegnativo con Cesare Ottaviano, che nel 27 a.C. diverrà Augusto in quanto accresciuto di potere. Per il tramite di Mecenate, infatti, a Virgilio viene garantita ed offerta quella protezione riservata agli intellettuali dai detentori del potere politico, nel caso specifico da Cesare Ottaviano in cambio di encomio, che si traduce in sostegno al suo programma politico moralizzatore e culturale. Prova indiscutibile ne è la composizione delle Georgiche, poema epico-didascalico, per esaltare il lavoro della terra). Dal 29 al 19 a.C. si dedicò alla composizione dell’Eneide, poema epico-eroico, in cui confluiscono gli echi omerici, apolloniani, neviani ed enniani con evidente ed incontestabile intento encomiastico della gens Iulia attraverso la celebrazione dell’ascesa di Roma dalle sue origini mitiche all’età augustea. 2. Georgiche. – Le Georgiche si inseriscono nel filone della letteratura didascalica, che, avuto come iniziatore →Esiodo, è andata evolvendosi nel corso dei secoli e, soprattutto, nell’età ellenistica e primo secolo a.C. a Roma con →Lucrezio, differenziandosi sostanzialmente dai suoi primordi. Certamente V. ha avuto come modello Esiodo nella composizione della sua opera, così come ha scelto a modelli Teocrito per le Bucoliche ed Omero per l’Eneide. È scontata la dipendenza di V. anche da altre opere erudite di epoca ellenistica, senza incorrere, però, nella medesima pedanteria del modello. Il poeta augusteo è un emulatore, che sa ricreare il materiale altrui arricchendolo di una nuova e personale sensibilità, della mentalità romana anche con il pragmatismo linguistico. La poesia didascalica ha trovato suoi cultori anche a Roma, e la voce più eloquente è rappresentata da Lucrezio. Dalla lettura e dall’analisi attenta delle Georgiche si evince con

virgilio indubbia certezza che V. ha guardato ecletticamente a modelli greci sia dell’età arcaica sia dell’età ellenistica e a quelli romani, in particolare a Lucrezio ed a →Varrone, i cui echi sono facilmente intuibili. Se si mettono a confronto le opere dei modelli greci e quelle dei modelli romani (Lucrezio e Varrone) balzano evidenti le notevoli differenze di prospettiva ; se poi questo confronto avviene con le Georgiche di V. si scopre che al moralismo utilitaristico di Esiodo, allo sfoggio di erudizione di →Arato e di →Nicandro si oppone decisamente una proposta ideale di vita. Ma chi tra i modelli ha esercitato maggiore influenza su V. è stato Lucrezio, con cui si riconosce una perfetta sintonia di vedute sia sul piano strutturale sia su quello contenutistico. Da un confronto tra il De rerum natura e le Georgiche si evince una chiara affinità per quanto attiene alla costruzione dei libri : come l’opera lucreziana, divisa in diadi, è dotata di proemi, di excursus e di epiloghi, così è strutturata anche quella virgiliana. I quattro libri dell’opera virgiliana, infatti, presentano tutti un proemio, un excursus e un epilogo in climax ascendente, di disuguale estensione. Se questi aspetti strutturali sono anche di chiara derivazione ellenistica, il tracciato contenutistico è, invece, modellato sulla poesia didascalica di Lucrezio. Come il De rerum natura non può essere definito un manuale di filosofia epicurea, ma un veicolo della conoscenza della imperturbabilità del saggio epicureo agli aristocratici del i secolo a.C., ormai sviati e catturati dall’individualismo e dall’arrivismo politici, mali che causano sconvolgimento, turbamento ed affanno interiori, in una parola causa impediendi del piacere catastematico, così le Georgiche non sono un manuale di regole, di precetti, di ordini e di imposizioni di tecniche inderogabili per la coltivazione della terra, ma una proposta di uno stile di vita perseguibile con l’onesta laboriosità, ai contadini della seconda metà del i secolo a.C., che hanno abbandonato le loro campagne per riversarsi tutti nella città. Le Georgiche, in quattro libri, sono dedicate all’amico G. Mecenate e lette a Cesare Ottaviano l’anno dopo la battaglia di Azio nel 30 a.C. La struttura dell’opera, pur modellata su quella del De rerum natura di Lucrezio, obbedisce ai canoni della poetica ellenistica, in particolare a quelli della composizione di un poema epico, a sua volta erede della teoria  



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aristotelico – peripatetica, secondo cui l’estensione di un poema epico non può superare la somma dei versi di una tetralogia tragica. La compresenza dei proemi, degli excursus, degli epiloghi rivela l’assimilazione della struttura segmentata di ascendenza euripidea ed ellenistica. Tutti questi aspetti strutturali concorrono a ravvivare una materia, che può risultare non gradevole, non rispondente alla voluptas di lucreziana memoria. I temi cantati nei quattro libri sono così ripartiti : il primo libro è dedicato alla coltivazione dei campi ; il secondo illustra l’arboricoltura ; il terzo verte sull’allevamento del bestiame ; il quarto è la celebrazione dell’apicultura. Questa ripartizione della materia non va intesa nell’accezione che le attività agricole prescelte dal poeta siano le uniche, per quanto fondamentali, perché accanto ad esse ve ne sono altre sempre di primaria importanza. La loro scelta è con ogni probabilità funzionale all’obiettivo didascalico del poema : indurre i contadini dell’epoca ad una vita onesta attraverso le immagini poetiche, le allegorie e le allusioni desumibili dai quadri paesaggistici e mitologici. Per comprovare il didascalismo di V. ed il suo distacco dai modelli greci, si pensi anche solo all’incipit delle Georgiche, ove si avvertono gli echi di un passo delle Opere e i Giorni (468 sgg.) di Esiodo, il quale indica con tono perentorio come periodo dell’aratura del terreno l’inizio della primavera : « E non appena il tempo d’arare viene per gli uomini, affrettati allora, gli schiavi e tu stesso ; che sia secco o piova, arando al tempo d’arare, di buon’ora sollecito perché ti si empiano i campi ; rivolta in primavera la terra ; d’estate arata di nuovo non ti deluderà ; semina il maggese quando ancora è leggera la terra, il maggese tiene i mali lontani ed acquieta i bambini ». Le somiglianze contenutistiche risultano indubbie : il modello e l’emulatore sostengono entrambi che il contadino si affretti ad arare il terreno in primavera, e[ari polei`n (Esiodo) vere novo (V.), lo ari di nuovo in estate qevreo~ newmevnh, ou[ s∆ajpathvsei (Esiodo), prima dell’inverno (V.), tenga pulito il maggese perché darà un raccolto abbondante e sostentamento al contadino e ai suoi figli neio;n de; speivrein e[ti koufivzousan a[rouran, illius immensae ruperunt correa messes. La sostanza del messaggio dei due passi accomuna i due poeti quanto alle indicazioni, a cui il contadino dovrebbe attenersi nella coltivazione  

























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vita, concezione della

del proprio fondo. Le somiglianze tra i due poeti finiscono qui. Esiodo, infatti, prescrive e ingiunge i doveri a cui il coltivatore della terra deve assolvere, se vuole procacciarsi un raccolto abbondante e congruo alle esigenze sue e della propria famiglia tenendone lontana la povertà (il maggese tiene lontani i mali ed acquieta i bambini). È l’etica utilitaristica del lavoro, che si deduce chiaramente dall’uso dell’infinito – imperativo e dal congiuntivo esortativo. Il poeta romano, al contrario, con la rappresentazione del lavoro agricolo e dei suoi tempi propone un ideale ed uno stile di vita, a cui il contadino può pervenire con la sua onestà e laboriosità, come conferma l’uso dei tempi verbali espressi in terza persona. È un’etica diversa del lavoro, che non è visto come punizione, ma come risorsa dell’homo faber fortunae suae. Se Esiodo e →Catone con i loro precetti perentori mirano al moralismo utilitaristico, al lucro immediato del lavoro dei campi, V., invece, si premura di somministrare non medicine amare (le leggi dure e punitive), ma un farmaco condito di miele (la poesia), cioè la rappresentazione della vita agricolopastorale di un tempo, in cui i patres anteponevano il bene della repubblica all’interesse personale. L’esposizione delle caratteristiche delle attività agricole sempre con la terminologia tecnicamente precisa e specifica, i proemi con l’enunciato del tema di ogni libro, gli excursus con l’esaltazione della vita del contadino, le inserzioni mitiche e gli epiloghi richiamanti eventi storici, quotidiani e mitologici hanno una chiara funzione psicagogica. L’aspirazione del poeta è avviare un processo di palingenesi della società romana, in particolare di quella contadina con l’attrattiva della poesia suasiva. Ma la struttura armonica, i registri linguistici sempre controllati e senz’alcuna sbavatura, l’uso dell’esametro stilizzato, la creazione misurata delle imagines, lo stile ben costruito, le allusività e la congruentia tra forma e contenuto dell’opera inducono ad una riflessione sull’obiettivo prefissato. Il grado di alfabetizzazione e d’istruzione generale delle masse popolari e contadine è di basso livello, se non addirittura scarso. Un tessuto sociale culturalmente disagiato non è in grado di leggere e, soprattutto, capire il messaggio di un’opera poetica impeccabile sul versante del contenuto e su quello della forma, che è solenne, aulica e studiata con una scelta lessicale

sempre pertinente e calibrata con molta precisione all’argomento cantato. La conclusione è questa : le Georgiche, prova inconfutabile della poetica della brevitas, del labor limae e della doctrina, sono un’opera destinata all’ascolto o alla lettura d’altri poeti nei circoli letterari del tempo, richiamando alla mente i famosi fines interpretes di oraziana memoria.  

Bibliografia (sulle Georgiche). Büchner 1972 ; Castiglioni 1947 ; Conte 1980 ; La Penna 1966 ; Pridik 1971 ; Putnam 1979.  









Francesco Moliterno Vita, concezione della [zwhv, vita]. 1. Generalità – Il complesso fenomenologico dal quale risulta la vita manca di una definizione, scientifica o filosofica, unanimemente condivisa e immune da perplessità. Il termine è, in genere, riferito alla condizione di ogni essere caratterizzato da attività conservative, riproduttive e di sviluppo, in grado di relazionarsi con l’ambiente e con gli altri organismi che lo popolano ; secondo la celebre sintesi del Bichat, è “l’insieme delle funzioni che si oppongono alla morte” [1] [→morte, concezione della]. 2. Cenni storici. – Molto presto l’uomo acquisì coscienza del fenomeno vitale e della sua fragilità, trovandosi a osservarne quotidianamente la cessazione ; il che dovette indurlo ad assumere comportamenti finalizzati a proteggerlo e perpetuarlo. Presso la cultura dell’Antico Egitto, che affrontò ed elaborò con lucidità tali problematiche, la vita (ankh) aveva origine da un soffio divino che segnava l’inizio della respirazione (viceversa, l’esserne privati era la causa della morte). [2] Così accadeva per l’essere umano e per l’animale, che riceveva il respiro anche mentre si trovava nell’uovo come attesta un inno enoteistico dedicato ad Amon e contenuto nel papiro di Bulaq. [3] Il fenomeno vitale nel suo insieme era l’esito della compresenza di una pluralità di elementi, fra i quali particolare risalto avevano l’akh, il ba e il ka. Il primo era il più elevato dei principi spirituali dell’uomo ; attribuito esclusivamente alle divinità e ai faraoni e solo in seguito esteso ai normali individui, era simboleggiato dall’ibis, [4] . Il secondo, altro principio meglio assimilabile al concetto di ‘anima’, era raffigurato con le sembianze di uccello antropocefalo, , nell’atto di conferire il soffio vitale al corpo in forma di mummia. [5] Il ka, generalmente rappresentato come un paio di braccia alzate, ,  











viticoltura era il punto di contatto tra l’elemento fisico e quelli spirituali, per certi aspetti più vicino all’umbra latina. [6] Anche dopo la morte, dunque, l’esistenza sarebbe proseguita in altre forme, ma a tale scopo occorreva assumere i giusti accorgimenti, in primo luogo preservando il corpo fisico dalla →putrefazione. Viceversa, grazie alla ritualità prescritta (nel cui ambito aveva grande importanza la Cerimonia di Apertura della Bocca) e alla corretta conservazione del simulacro, questo avrebbe continuato una sorta di esistenza ; non era prevista la resurrezione dei corpi. [7] Secondo la dottrina ebraica, la vita ha avuto origine dall’intervento di una divinità suprema che, dopo aver generato dal nulla il cielo e la terra crea ogni altro essere e, infine, l’uomo a propria immagine e somiglianza[8] ; quindi, dopo averlo fatto cadere in uno stato di torpore, gli toglie una costola e da quella forma la donna. [9] Il tema giudaico della creatio ex nihilo, degli esseri viventi ma anche del resto dell’universo, torna al principio del Vangelo secondo Giovanni (1, 1 sgg.). Nella Grecia antica, i filosofi presocratici si concentrarono sulla ricerca dell’ajrchv più che dell’origine della vita. →Platone, nell’insistere sul concetto di ‘anima’ come principio di quest’ultima (zw/tiko;n ai[tion), individuò la sua caratteristica nella capacità di autogenerarsi e autoregolarsi, a partire da un principio ingenerato (ajgevnhton). [10] Ma fu →Aristotele a elaborare un pensiero più complesso e vicino alla dignità scientifica modernamente intesa. La sua concezione della fisica vedeva i quattro elementi inclusi nella medesima categoria dei vari organismi, avendo in sé il principio del loro movimento ; sicché, anche il Cosmo era da considerarsi un vivente. [11] Ma, soprattutto, egli tentò una definizione della vita e una classificazione degli esseri, rilevando che le loro proprietà (la nutrizione, la riproduzione, l’avvertire sensazioni, il muoversi e l’elaborare pensieri) sono possedute in misura che diventa via via minore partendo dall’uomo, passando per gli animali superiori e arrivando alle piante. [12] Nell’evo antico furono effettuate anche osservazioni di →embriologia, come quella descritta in Hp. De natura pueri 29, consistente nel tenere in incubazione una ventina di uova e aprirne uno al giorno per valutare il processo formativo; ma il tutto avveniva sullo sfondo della tesi della generazione spontanea, già comune ad altre culture e che sarebbe rimasta  







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dominante addirittura fino al secolo xvii. Così Ovidio racconta che, dopo il diluvio, Deucalione e Pirra ripopolarono la Terra seminando pietre che diventavano uomini, mentre dal suolo nascevano gli animali (met. 1, 253 ss.), e →Virgilio insegna a ottenere le api dalle interiora di un vitello ucciso (georg. 4). Note. [1] Defanti 1999, 52. – [2] Dunand-Zivie Coche 2003, 185. – [3] Penso 1990, 5. – [4] de Rachewiltz 1983, 14. – [5] de Rachewiltz 1983, 47. – [6] de Rachewiltz 1983, 104-105. – [7] DunandZivie Coche 2003, 196. – [8] Gen. 1. – [9] Gen. 2, 18-23. – [10] Pl. Phd. 105c e Pl. Phdr. 245c. – [11] Pellegrin 2005, 482. – [12] Defanti 1999, 92. Bibliografia. Defanti 1999 ; Dunand-Zivie Coche 2003 ; Pellegrin 2005 ; Penso 1990 ; de Rachewiltz 1983.  







Francesco Cuzari











Viticoltura. 1. – La più importante produzione specializzata dell’antichità insieme all’→olivicoltura, una delle basi dell’economia mediterranea greco-latina, nonché, a livello socio-culturale, uno dei pilastri della civiltà classica. Il processo di ‘addomesticamento’ della vite, originariamente selvatica, e le trasformazioni plurisecolari cui essa fu sottoposta a cominciare dal neolitico, fecero del vino – il principale prodotto ricavatone – una delle bevande più diffuse e apprezzate dall’uomo antico. Già nei bassorilievi della tomba di Ti, nella necropoli di Menfi, sono rappresentate le operazioni di viticoltura e vinificazione ; Osiride, in Egitto, è dio scopritore del vino. Della vite e del vino si parla diffusamente nella Bibbia. Il cosiddetto ‘trattato di agricoltura nabatea’ di Ibn-Wahschiah, databile al x sec., risale con tutta probabilità a scritti cuneiformi dell’età di Nabucodonosor (cfr. Unwin 1993, 59-84). In Grecia, già da Omero il vino è la bevanda degli uomini per eccellenza : nominata in quasi tutti i canti dei poemi omerici, il vino è già per gli eroi un mezzo « per obliare gli affanni ». Il suo valore sacrale nel banchetto e nelle libagioni, ma anche nei riti funebri, può essere accostato a quello del sangue nelle cerimonie sacrificali. In età arcaica il « bere vino insieme » diventa il fondamento dell’istituto socio-culturale greco più importante, il simposio, incentrato appunto sulla consumazione di vino. Una vera e propria letteratura nasce dall’occasione simposiale, e sviluppa al tempo stesso una precettistica  











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inerente all’‘etica’ del simposio, alle norme del bere corretto e alla condanna dell’ubriachezza, con regole improntate all’eleganza e alla misura. Al dio del vino Dioniso (o Bacco), divinità di origine nord-orientale, come probabilmente la coltura vinicola, proveniente dal Caucaso, è dedicata in età classica la festa in cui si collocano il teatro tragico e comico, le Dionisie. A Bacco sono rivolte le preghiere contenute nel più antico testo romano, il carmen fratrum Arvalium, per la prosperità delle vigne. Ma ancora, nei più diversi generi letterari, nelle testimonianze materiali ed epigrafiche di Grecia e Roma, il vino ha un ruolo di assoluto rilievo per l’uomo antico. [1] I miti che legano Dioniso-Bacco alla vite sono diversi : secondo uno di essi Dioniso, giovinetto, affidato a Cibele, cacciando nei boschi della Frigia incontra Ampelo, un fanciullo bellissimo, e se ne invaghisce, ma Ate lo uccide scatenandogli contro un toro infuriato. Dioniso prega la dea di farlo rivivere in una pianta che produca una bevanda soave : ed ecco l’ampelos, la vite. Di enorme importanza in conclusione lo spazio dedicato alla trattazione della viticoltura nella tradizione agronomica antica, da →Catone ai →Geoponica. Questo dato, nonché l’accuratezza delle classificazioni e dei procedimenti propri della viticoltura e dell’enologia antiche, dimostrano che in questo campo la scienza agraria dei Greci e dei Romani aveva raggiunto risultati straordinari, fondati sulla sperimentazione e sull’esperienza plurisecolare. Gli →agronomi romani riconoscono ai Greci la priorità nella scienza vinicola (Colum. 1, 1), e in fondo anche questo filone dell’agricoltura antica rimonta al trattato in venti libri di Magone. Ma molti autori romani avevano dedicato monografie alla coltura del vino : Grecino e Attico, Celso e Scrofa. Le sezioni a noi giunte più rilevanti sulla viticoltura antica sono in →Columella (46), →Plinio (nat. 14), e nei Geoponica (4-8). La trattazione degli argomenti procede, in genere, come segue : classificazione dei tipi di vite, impianto, coltivazione e cura, vendemmia e vinificazione, tipi di vino. 2. Classificazione. – Il precetto più volte ricordato nelle fonti è che ogni →terreno, ogni zona, hanno la loro propria qualità di vitigno. Già →Teofrasto affermava che « le varietà di vite sono infinite ; e si dice che tante sono le specie di vite quante quelle di terreno » (HP  















2, 5, 7). Le specie più note e apprezzate, che gli studiosi moderni hanno più volte tentato di identificare, senza esiti soddisfacenti, sono descritte in una lunga sezione di →Plinio (nat. 14,20-43). Le più celebrate, in Grecia, fin dall’età antichissima, sono le uve di Chio e di Taso ; a Roma la più famosa è la aminnea, che deriva il nome da una località campana ; [2] poi la nomentana, laziale ; quindi la apiana, il nostro moscato ; la eugenia, delle terre siciliane ; la spionia, dell’agro ravennate ; la murgentina, campana ; tra le qualità da tavola la più rinomata è invece la duracina. Alcune fonti (in particolare Geop. 4, 5-9) riportano altresì una serie singolarissima di procedimenti di ibridazione per innesto finalizzati ad ottenere viti alterate, precoci o tardive. Si tratta di procedure tanto sofisticate quanto, a volte, inverosimili (uva antivenefica, uva-mirto). L’atteggiamento degli antichi riguardo alla ‘contaminazione’ di specie diverse di piante, tuttavia, è improntato in generale ad un rispetto religioso (e superstizioso) dei limiti naturali : la credenza popolare voleva, tra l’altro, che i fulmini si abbattessero sulle piante innestate tante volte quanti fossero gli innesti (Varr. r.r. 1, 59, 1 ; Plin. nat. 15, 57). 3. Impianto. – L’impianto del vigneto è l’operazione più delicata della viticoltura, e anche la più rischiosa. È condotto in base alle tre fondamentali tecniche di →riproduzione vegetale antiche : la barbatella o magliolo, l’innesto e la propagginazione. Il materiale da moltiplicazione, che va selezionato accuratamente (oggi sono in vigore disposizioni legislative precise, con certificati di garanzia e ‘passaporti’ rilasciati da appositi uffici), si ottiene da tronchi cosiddetti ‘selvatici’, viti lasciate crescere in modo naturale e incontrollato, per potersi servire dei rami migliori. Tali piccoli rami (le ‘talèe’) si piantano in un vivaio accuratamente controllato, mettono radici e danno vita alle ‘barbatelle’ (e[nrizoi ; viviradices), che dopo due anni, al momento della gemmazione primaverile, possono essere messe a dimora in un terreno preparato per la vigna. Tra i vari tipi di talea vanno ricordati i cosiddetti maglioli : « il magliolo è un tralcio nuovo, nato su uno dei tralci lasciati l’anno avanti e chiamato così per il suo aspetto, perché dalla parte dove viene tagliato dal tralcio vecchio offre una prominenza bilaterale che ricorda un martello » (Colum. 3, 6, 3) ; anche questa tipologia di talèa va fatta sviluppare nel piantinaio e successivamente, dopo  





























viticoltura un paio d’anni, messa a dimora. Per l’innesto, in relazione al quale venivano scelti i rametti di vite provenienti dalla potatura estiva, e la propagginazione, non sussistono particolari differenze rispetto ai metodi di →riproduzione vegetale generici. La struttura dell’impianto antico prevede alcune tipologie canoniche. La cosiddetta vite rampicante o ‘maritata’ (iugata, nella terminologia agricola latina), cioè accoppiata con altre colture, dunque su supporto vivo, è tipica dell’agricoltura antica. Sembra essere probabilmente di origine etrusca, e dall’Italia diffusa nel bacino mediterraneo, [3] ed è stata abbandonata solo intorno alla metà del secolo scorso. Più frequenti, tuttavia, i filari (su sostegni verticali o ‘a cavalletto’) e, soprattutto, il pergolato, particolarmente sfruttato nei giardini delle villae. 4. Coltivazione e cura. – Nelle fonti antiche il processo di produzione vinicola è condotto sulla base di una precisa organizzazione del lavoro. [4] La zappatura della vigna è tradizionalmente il lavoro più oneroso, e deve essere costante. Tre sono le zappature da effettuare in un anno, legate, secondo la credenza rispecchiata in Colum. 4, 28, al ciclo della vite : « il primo quando ingrossa le gemme, il secondo quando fiorisce, il terzo quando matura i frutti ». L’impiego di →concime principalmente vegetale è un precetto diffuso : in particolare ghiande e morchia. La vite è tradizionalmente oggetto di due potature, una verde, cioè primaverile, e una autunnale/invernale. Sui tempi di queste operazioni non sempre gli agronomi antichi e moderni sono concordi : cfr. Colum. 4, 21 ; Plin. nat. 190-198. Il taglio della vigna è operazione carica di valori simbolici e religiosi : Numa aveva interdetto il sacrificio agli dèi con vino di vigna che fosse stata potata ; una dea, Puta, rappresentata con in mano il falcetto, presiedeva tale attività (Ov. met. 14, 628). Alla potatura erano riservati canti popolari e religiosi particolari (Colum. 10, 225). La leggenda voleva che una vecchia di Nauplio, in Grecia, avesse per caso reciso dei tralci di una vite, e avesse in seguito notato come la pianta fosse divenuta straordinariamente feconda : di qui avrebbe avuto luogo la pratica della potatura (Paus. 2, 38). Notevoli anche le sezioni dedicate ai rimedi contro le malattie della vite in particolare Plin. nat. 17, 216 sgg. ; Geop. 5, 30-42). Va detto, contro l’opinione diffusa, che nell’antichità le malat 























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tie della vite erano molto più lievi e minori di quelle contro le quali si combatte oggi, frutto di contaminazioni fra specie e importazioni da un territorio ad un altro. La brina è uno dei pericoli ai quali è più esposta la vite ; un preparato a base di morchia, da spalmare sulla corteccia delle viti, era consigliato per prevenire gli →insetti nocivi. Ancora altri rimedi hanno sapore magico-superstizioso : pelle di orso, sangue di capra, sangue mestruale di vergine. Sembra, dalle descrizioni delle fonti, che si fossero già individuate le malattie ancora oggi più frequenti : il fungo della peronospora, il carbonchio o ruggine, la flavescenza dorata. 5. Vinificazione. – La prima fase nel processo di vinificazione è la vendemmia, uno dei momenti più importanti della civiltà contadina antica e moderna, carico di suggestioni antropologiche e religiose. Il profeta Geremia la definisce « gioia e piacere delle campagne » (48, 53) e nello scudo effigiato di Achille è una delle scene più icastiche (Il. 18, 570) ; a Roma, durante il periodo della vendemmia, si accordava particolare libertà agli schiavi (Hist. Aug. Heliog. 11) e l’attività veniva considerata un piacevole passatempo anche dagli aristocratici (Macrob. Sat. 7, 7 ; Plin. ep. 7, 16) ; vere e proprie feriae vindemiarum erano concesse ai lavoratori (Gell. 9, 15) e durante la raccolta il clima festoso era accentuato dai canti e suoni di ragazzi (Hor. serm. 2, 6, 75). Alle successive fasi di vinificazione erano destinate tutte le uve non riservate alla tavola o alla conservazione [→conservazione degli alimenti] attraverso il metodo dell’appassitura. I locali ove avveniva il processo completo erano delle vere e proprie ‘officine’, progettate per ottenere il massimo rendimento ottimizzando spazi, tempi e forza lavoro. Laddove le uve non fossero pigiate, il torchio poteva essere anche molto elaborato, a traino generalmente umano [→attrezzi agricoli]. Il vino veniva conservato in ‘dogli’, grandi contenitori in terracotta, con manici in alto e forma cilindrica più larga ai fianchi. Questi dogli erano spesso contrassegnati da simboli o stemmi gentilizi, ed erano considerati ‘beni immobili’ nel diritto romano (Dig. 18, 78). Venivano interrati per due terzi, o almeno per metà. La loro misura poteva variare molto, da quelli per uso ‘domestico’ a quelli ‘industriali’, alti fino a due metri, larghi altrettanto e capaci di contenere fino a 8 ettolitri di  















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vino. Solo nelle regioni galliche – stando alla testimonianza di →Plinio (nat. 12, 132) – si impiegavano botti di legno per la conservazione del vino : di qui l’uso moderno. Va detto, tuttavia, che i dogli in creta conservavano il vino in modo più asettico ; l’invecchiamento, infatti, è favorito oggi dal contatto con il legno delle botti ; di qui, nell’antichità, diversi ritrovati per invecchiare artificialmente il vino, e per ottenere diversi vini sofisticati e terapeutici. Oltre al vino, dalle vinacce appena pigiate o torchiate si ricavava, con l’aggiunta dell’acqua, una bevanda di seconda categoria (deutevrion, lora ; « acquato ») che, secondo Plin. nat. 14, 86, « non si può a rigore definire vino » e che non aveva lunga durata. L’ultima fase del processo di vinificazione, ed anche una delle più delicate, consisteva nella ‘svinatura’, ossia nell’apertura dei dogli di vino novello. In ambito greco il giorno dell’apertura dei dogli costituiva una festa importante, inserita nell’ambito delle Antesterie (ben conosciute per Atene, ma anche per altre città greche), che si svolgevano nel mese di Antesterione, corrispondente grosso modo a febbraio-marzo. Il primo giorno era riservato all’operazione dell’« apertura dei dogli », o Pithoiga : prima ancora che il sole sorgesse si aprivano i dogli di vino novello, sigillati ad ottobre, e si dedicavano i primi boccali a Dioniso. Le feste continuavano nei due giorni successivi : si faceva benedire il vino da Dioniso nel giorno dei Choes (« i boccali »), e si teneva una gara di bevitori, a cui erano ammessi anche i bambini. Nella sera dello stesso giorno (che faceva parte, nel computo antico, del giorno successivo) si offrivano piatti (Chytroi) di frutta ai defunti. [5]































Note. [1] Vd. Curtel 1903, 1-15 ; Billiard 1913, 204-235 ; Dalmasso 1933 ; Beta-Della Bianca 2002 ; Unwin 1993, 59-131. – [2] Vd. Mele 1999, 3943. – [3] Sulla coltura vinicola degli Etruschi, oltre a Billiard 1913, 366-378, vd. Torelli 1999 e Agostiniani 1999. – [4] Gli aspetti dell’organizzazione dell’azienda agricola antica, in particolare romana, sono indagati da Carandini 1989, DuncanJones 1974, Tchernia 1986. – [5] Vd. Curtel 1903, 108-110 ; Billiard 1913, 466-475, con apparato iconografico ; Marangou-Lerat 1999.  











Bibliografia. Allen 1961 ; Amouretti 1988 ; Amouretti 1996 ; Beta-Della Bianca 2002 ; Billiard 1913 ; Bouvier 2001 ; Carandini 1989 ; Coarelli 1995 ; Curtel 1903 ; Dalmasso 1933 ; De Angelis 1995, 121-208 ; Duncan-Jones 1974 ; Hyams 1987 ; Longo 2003 ; Marangou-Lerat 1999 ; Mc 





























Govern 2003 ; Mele 1999 ; Purcell 1985 ; Sernagiotto 1896 ; Tchernia 1986 ; Tchernia-Brun 1999 ; Younger 1966 ; Unwin 1993.  













Emanuele Lelli Vitruvio. 1. La vita. – Tutto quello che sappiamo, o che possiamo ricostruire in modo fondato, su V. – autore dell’unico trattato di architettura giuntoci dall’antichità, il De architectura, opera in dieci libri composta negli ultimi decenni del i secolo a.C. e dedicata ad Augusto – deriva dai riferimenti autobiografici contenuti nel trattato. Poche e malsicure sono invece le testimonianze esterne : nella tradizione antica il suo nome è citato solo nove volte (tre delle quali da parte di Plinio il Vecchio, che lo ebbe fra le sue fonti), e delle numerose testimonianze in cui compare il gentilizio Vitruvius nessuna sembra avere un rapporto sicuro e diretto con lo scrittore, anche se in passato sono state formulate alcune ipotesi di identificazione, la più nota delle quali si fonda su un’iscrizione proveniente da Announa nella provincia romana di Numidia (oggi Thibilis, in Algeria) : si tratta di cil 8, Suppl. 2, 18913 (= ils 5566). La menzione in essa di un M. Vitruvius Mamurra costruttore di un arco ad Announa ha indotto a ritenere Mamurra il cognomen del nome Vitruvius. Tale ipotesi, formulata per la prima volta da Giglioli 1908 e accolta da Münzer 1928, spinse poi Thielscher 1961 a identificare il Mamurra cavaliere di Formia, che fu prefetto dei genieri (praefectus fabrum) di Cesare durante la campagna militare in Gallia (ricordato per le sue immense ricchezze da Plin. nat. 36, 48 e violentemente attaccato da Catullo in alcuni carmi) con l’autore del De architectura : dimostrazione fondata su indizi troppo deboli e immediatamente confutata da Ruffel-Soubiran 1962. Non può essere identificato con il nostro autore nemmeno un altro V. noto dalla documentazione epigrafica, il L. Vitruvius Cerdo il cui nome si legge sull’Arco dei Gavi a Verona (cil 5, 1, 3464), un liberto attivo come architectus negli anni del principato di Tiberio. Se l’identificazione prosopografica dell’autore del De architectura è impossibile sulla base dei dati in nostro possesso, e se è anche dubbia la forma completa del suo nome, siamo invece in grado di ricostruire la sua fisionomia sociale, professionale e culturale. Alcuni studi recenti (Gros 1997) hanno dimostrato che V. appar 





vitruvio teneva con ogni probabilità, come del resto la maggior parte degli architetti attivi nel settore pubblico, civile e militare, all’ordine degli apparitores : una categoria socioprofessionale che comprendeva quei tecnici specializzati che venivano assegnati, come consulenti e funzionari, ai magistrati e in genere a tutti gli uomini che avevano incarichi direttivi nell’amministrazione centrale e provinciale. Egli doveva appartenere alla decuria (fra quelle di cui si componeva l’ordine) degli scribae armamentarii, ovvero una categoria di scribae con funzioni militari : la documentazione epigrafica dimostra che il titolo di scriba armamentarius era attribuito a liberti romani oppure a uomini di condizione libera, ma originari di città italiche, e che la loro attività era molto simile a quella che V. descrive quando ricorda di essersi occupato della fornitura e della riparazione di baliste, scorpioni e altre macchine da getto nell’esercito di Cesare, un’attività cioè di ingegneria militare, diversa da quella del praefectus fabrum, il cui compito era dirigere gli operai. Le principali tappe della sua carriera sono delineate nella prefazione autobiografica all’opera (1, praef. 2) : in breve, un’attività cominciata sotto Cesare, proseguita, sotto il segno della continuità, durante il secondo triumvirato al servizio di Ottaviano (va tuttavia ricordata l’ipotesi di una prima adesione allo schieramento di Antonio : Gabba 1980a), fino al ritiro durante i primi anni del principato. L’allusione alla raccomandazione di Ottavia farebbe ritenere che, grazie all’interessamento della sorella di Ottaviano, V. mantenesse il suo stipendio a titolo di pensione anche dopo la cessazione dell’attività, cosa che evidentemente non doveva essere scontata. Non tutta la sua attività di tecnico specializzato si svolse nel settore militare, se è vero che, come si deduce da un passo del trattato (8, 6, 2), egli ebbe un ruolo nell’organizzare la distribuzione urbana dell’acqua, quasi certamente come consulente di Agrippa, nel periodo in cui il genero e collaboratore di Ottaviano ricoprì l’incarico di curator aquarum, cioè responsabile della politica delle acque, dal 33 a.C. per qualche anno, come sappiamo da un passo del De aquae ductu di Frontino (98, 1, 1). Alla fine del loro servizio, gli apparitores potevano fare carriere municipali : quella di V. si svolse probabilmente a Fano, dove ebbe una responsabilità nella progettazione e nella realizzazione di una basilica giudiziaria. La de 









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scrizione dettagliata della basilica di Fano, che occupa cinque paragrafi del De architectura (5, 1, 6-10), fu considerata per molto tempo un’interpolazione testuale di un’ignota mano successiva oppure un’aggiunta fatta dallo stesso V. per una seconda edizione dell’opera : l’una e l’altra ipotesi si fondavano principalmente sul presunto anacronismo rappresentato dall’aedes Augusti, un tempio che avrebbe presupposto l’esistenza di un culto di Augusto come divinità, verso l’istituzione del quale c’erano molte resistenze, anche da parte del princeps stesso. Ma la basilica di Fano può essere stata eretta subito dopo la deduzione della colonia di Fano, avvenuta poco dopo il 27 a.C., quando cioè Ottaviano aveva già assunto il nome di Augustus. La consacrazione a lui di un tempio (Corso 1997, 653), potrebbe aver avuto il senso di promuovere, sotto la suggestione della politica edilizia diretta da Agrippa, la costituzione di sedi di culto del princeps, già diffusasi fuori d’Italia, nelle province, soprattutto orientali, dopo la vittoria del 31 a.C. ad Azio. 2. Il De architectura. 2.1. Datazione. – L’opera si colloca alla fine della carriera di V. e viene offerta da quest’ultimo ad Augusto come contributo al programma di rinnovamento urbanistico ed edilizio promosso dal principato. Ma la praefatio, al libro i e all’intero trattato, che contiene la dedica ad Augusto, il quale ha già l’appellativo di imperator, assunto nel 23 a.C., sarà stata scritta per ultima, secondo la consuetudine comune nella composizione delle opere in prosa nell’antichità. La redazione del trattato dovette occupare una fase piuttosto lunga tra la fine degli anni Trenta e i primi anni Venti a.C. e dovette svolgersi prevalentemente all’inizio del principato augusteo. Tuttavia la formazione intellettuale dell’autore avvenne nel periodo tardo-repubblicano : all’ultima fase della repubblica rimandano i dibattiti culturali di cui cogliamo l’eco nel De architectura (Romano 1987) e gli autori latini che V. definisce i suoi prediletti (9, praef. 17), da Lucrezio a Cicerone e a Varrone, appartengono alla generazione che precede l’instaurarsi del principato. Il trattato si propone come trattazione completa di tutti i campi della architectura nel senso ampio che ha il termine, comprensivo di quella che è per noi l’ingegneria, sia quella civile sia quella militare, con una distribuzione specifica della materia in 10 Libri. 2.2. Struttura. – i : formazione e cultura  





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dell’architetto ; articolazioni teoriche e principi fondamentali dell’architettura ; urbanistica (fondazione di città, costruzione delle mura, disposizione delle strade in rapporto all’orientamento dei venti, distribuzione degli edifici pubblici entro le mura). ii : storia dell’architettura all’interno dello sviluppo della civiltà umana ; i materiali da costruzione. iii : i templi (rapporti modulari generali, le fondamenta, l’ordine ionico). iv : i templi (origini e sviluppo degli ordini greci ; l’ordine dorico ; l’orientamento e le porte ; il tempio tuscanico e le soluzioni miste). v : gli edifici pubblici (foro, basilica, teatri, bagni e palestre, porti). vi : l’edilizia privata ; le case di campagna ; la casa greca ; sostruzioni e stanze a volta. vii : le rifiniture (rivestimenti, pavimenti, soffitti a volta, intonaci) ; la pittura ; il marmo ; i colori. viii : idraulica (metodi per scoprire le fonti d’acqua, proprietà delle acque : adduzione dell’acqua e rete idrica urbana). ix : astronomia e gnomonica (costruzione di apparecchi di misura del tempo : meridiane e orologi ad acqua). x : storia e principi della meccanica civile (macchine di sollevamento, pompe idrauliche, mulino ad acqua, organo idraulico, odometro) ; la meccanica militare (scorpione, balista, catapulta, macchine d’assedio e da difesa) ; principi di poliorcetica (cfr. Traina 1994). Ciascun libro è preceduto da un proemio di contenuto non tecnico, in cui Vitruvio affronta temi legati alla deontologia professionale (praeff. 3 ; 6 ; 10) o alle difficoltà incontrate da tecnico nello scrivere la sua opera (praeff. 1 ; 5) o al rapporto con le fonti adoperate e con la tradizione culturale (praeff. 7 ; 9), o argomenti di carattere filosofico, aneddoti, riflessioni moralistiche, episodi tratti dalla storia delle invenzioni (praeff. 2 ; 6 ; 8 ; 9). Ma anche all’interno della trattazione più propriamente tecnica troviamo una serie di digressioni di vario contenuto, dall’astronomia (9, 1-6) alla meteorologia (1, 6), dall’idrologia (8, 1 ss.) alla mineralogia (7, 7), fino alla paradossografia (8, 3), che rivelano il possesso di una ‘biblioteca’ varia, anche se prevalentemente costituita da manuali, antologie e altro materiale divulgativo (Romano 1987 ; Romano 1997a), che finiscono per fare del De architectura una sorta di « enciclopedia delle scienze e delle tecniche » (Callebat 1989; cfr. 4, praef. 1). Rispetto all’ampio elenco di opere scritte nel campo dell’architettura elencate nel proemio al l. vii, con il De architectura V. intende (cfr. 4, praef. 1 ; 5, praef.  







































































5) superare lo stadio della monografia legata all’esperienza circoscritta dell’edificazione di un monumento, integrare in un insieme organico e coerente gli elementi che costituiscono l’architettura come campo di sapere. Il carattere di novità che nel suo trattato egli ama sottolineare è dato dall’organicità e dalla completezza della trattazione, dalla disposizione non casuale degli argomenti, raggruppati in unità omogenee libro per libro : alla somma di nozioni slegate e frammentarie, casualmente prodottesi in margine all’esperienza degli architetti, egli contrappone l’ordine logico capace di trasformare in sistema quello che finora era un accumulo disordinato di pratiche. V. riconosce il proprio debito nei confronti delle sue fonti, di cui come abbiamo visto fornisce un elenco nel proemio al libro vii, ma nello stesso tempo tiene a precisare di essere andato oltre : « dalle pubblicazioni di tutti costoro ho raccolto e disposto organicamente in sistema le nozioni che, come notai, potevano essere utili agli argomenti da me trattati » (7, praef. 14). Nello stesso passo spiega da cosa ha avuto origine il suo progetto : « e ciò soprattutto perché mi ero reso conto che in questo campo i Greci hanno pubblicato parecchi libri, i nostri ben pochi » (ibid.) ; si inserisce a questo punto la menzione delle tre sole fonti latine (cfr. supra), seguita dal rimpianto espresso sui grandi architetti del passato, per il fatto che non hanno lasciato opere scritte, le sole in grado di immortalare la loro grandezza (7, praef. 18). L’ambizione dichiarata era dunque quella non solo di colmare una lacuna esistente nella cultura latina, ma di dare voce, quasi vita, alla grande tradizione dell’architettura romana, che rischiava di andare incontro all’oblio proprio perché non affidata alla scrittura. Non si trattava semplicemente di contrapporre una trattatistica latina a quella greca. La scommessa, molto più alta, era quella di definire l’architettura come sapere autonomo e pienamente legittimato entro un sistema che la escludeva, in quanto legata a un’attività manuale e all’esercizio di una professione retribuita, dal sistema delle arti liberali, raccogliendo in ciò la proposta formulata pochi anni prima da →Varrone. Riferimento teorico di questa operazione era la riflessione metodologica ciceroniana, contenuta in particolare nel De oratore, sulla costituzione di un sapere in forma sistematica a partire dai dati di una conoscenza  















vitruvio empirica (de orat. 1, 187 sg.). L’operazione che V. si proponeva di compiere era resa ancor più difficile dalla quasi totale assenza di fonti latine. In breve, mancava a Roma il linguaggio dell’architettura : nel suo trattato compare talvolta una chiara consapevolezza del fatto che la nascita dell’architettura non può non coincidere con la formazione di un nuovo linguaggio, diverso da quello letterario, da quello dell’oratoria, da quello della storiografia (5, praef. 5), un linguaggio che respinge gli artifici della retorica, poiché è determinato dalle necessità stesse dell’architettura (5, praef. 2). Nel tentativo di creare un linguaggio specialistico, V. dà vita ad un lessico ricco di astratti, di tecnicismi, di grecismi, dovuti questi ultimi all’evidente utilizzazione di glossari bilingui (Callebat 1982). Il suo stile, caratterizzato per un verso da una brevità che sembra riprodurre il linguaggio asciutto e rapido delle schede di lavoro, presenta per altro verso una ridondanza carica di elaborazione retorica, dimostrando così la difficoltà, diciamo pure l’inadeguatezza, a creare uno strumento linguistico originale di cui dotare un sapere nuovo (Romano 1997b). Ma anche su altri strumenti formali si fonda il tentativo di dare forma sistematica e autonoma al sapere dell’architettura, primo fra tutti l’uso delle categorie, dei genera, che fa sì che l’esposizione proceda per successive classificazioni, che scomponga la materia e la definisca progressivamente, sussumendo volta per volta alla definizione astratta la concretezza dell’esempio (3, 3, 1 sg.). Questa scomposizione della materia per successive classificazioni e definizioni segue un ordine preciso : è quell’ordo cui l’autore più volte afferma di attenersi (cfr. per esempio 2, 1, 9 ; 2, 7, 1 ; 2, 10, 3 ; 4, 3, 3), quella articolazione logica del discorso che è presupposto della sistematizzazione organica del sapere sull’architettura. In realtà, non sono poche le incoerenze interne al testo. Pur senza voler aderire alla tesi di una redazione ‘a strati’ del trattato (Ferri 1960), in cui sarebbero stati fusi opuscoli autonomi precedentemente scritti, si ha l’impressione che V. abbia cercato di tenere insieme, entro una cornice unitaria, materiali preparatori spesso eterogenei, non sempre riuscendo a legarli in una concatenazione perfettamente coerente ; che la concezione del corpus, in altre parole, anziché avere ispirato il progetto sia emersa gradualmente e sia stata successivamente imposta come princi 











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pio generale (Kessissoglu 1993 ; Gros 1997, 27 ; Maggi 2002). Il sapere sull’architettura che V. ha cercato di riunire in sistema è prevalentemente sapere scritto, sarebbe, dunque, un errore aspettarsi dal De architectura una sorta di commento all’architettura reale, se non addirittura il documento della prassi architettonica contemporanea : quella a cui V. pensa è la sistematizzazione non dell’architettura ma del sapere ad essa relativo, l’architettura a lui presente è quella che ha già avuto accesso alla scrittura e quindi alla codificazione. La prevalente utilizzazione di fonti scritte è spesso all’origine di errori, incongruenze, sproporzioni (Cfr. Gros 1975 ; Romano 1997a, 1195). La considerazione dell’architettura come corpus scritto è alla radice di un interesse prevalentemente tipologico, e fa sì che nell’ordo prevalga il carattere di ‘ordine formale’, di intelaiatura tassonomica e normativa, a scapito di un interesse storico. E ciò malgrado V. si mostri non inconsapevole della distinzione fra versante teorico e versante storico dell’architettura, fra ‘nascita’ dell’architettura, in quanto processo della fondazione teorica, e sua origine storica (2, 1, 8). Malgrado questa dichiarata consapevolezza dell’esistenza di due versanti e della necessità di saldarli insieme, si fa fatica a trovare nel trattato una prospettiva storica. L’interesse dominante resta quello tipologico : la sistematicità del trattato consiste nell’offrire una tassonomia quanto più completa, e la tendenza a considerare l’architettura come corpus formale, indipendentemente dalle sue concrete realizzazioni nella storia, si spinge fino al punto che, dato un sistema codificato di regole, in esso può essere compreso anche ciò che non è storicamente attestato, ma che teoricamente è uno sviluppo possibile a partire da quelle date regole. La prevalente preoccupazione tipologica e normativa ha spesso come conseguenza anche l’omissione di dati reali, di indicazioni utili sul piano pratico. Le omissioni riguardano soprattutto l’architettura contemporanea : è innegabile la sua estraneità ad alcune tendenze caratterizzanti l’architettura della sua età, come la mescolanza degli ordini o l’importanza crescente della dimensione verticale nell’architettura religiosa, la sostanziale estraneità rispetto al programma augusteo e alle spinte conservatrici che lo accompagnavano (Gros 1976). Ed è anche innegabile che il suo atteggiamento più ricorrente è quello di chi guarda  











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indietro (7, praef. 16). Altri silenzi da parte di V. sono stati spesso spiegati come polemici : per esempio, quello sulle lussuose ville sul mare, che rappresentarono una delle mode più diffuse fra gli aristocratici per tutto il i secolo a.C. Viceversa, con una contraddizione non facilmente solubile, egli non manca di prescrivere per i potenti della città un’abitazione molto ampia, che possa contenere folle di clienti (Romano 1994a). Lo scarso interesse di V. per il contemporaneo si ripercuote anche là dove ci aspetteremmo un contributo più significativo della sua diretta esperienza. Nonostante il passato di ingegnere militare, la trattazione sulle artiglierie, sulle macchine d’assedio e sulle tattiche di difesa (→elepoli) nel l. x contiene, come unico riferimento a un evento militare della storia romana, quello all’assedio di Marsiglia da parte di Cesare (10, 16, 11). Certamente, la trattazione risulta aggiornata rispetto all’evoluzione delle armi da getto, e la conoscenza che l’autore ha delle catapultae (lanciadardi) [→catapulta] e delle ballistae [→balista] (lancia-sassi) molto dovrà al fatto che egli, come ricorda all’inizio del trattato, aveva provveduto alla costruzione di questi strumenti per l’esercito cesariano. Ma le coincidenze con il trattato contemporaneo Peri; mhcanhmavtwn di →Ateneo Meccanico lasciano supporre l’utilizzazione di una fonte scritta comune ai due autori. Il libro vitruviano sulle macchine racchiudeva un progetto ambizioso. Si trattava, per quanto sappiamo, della prima trattazione latina sull’argomento, con la quale V. si collegava alla tradizione dei grandi meccanici di età ellenistica, di →Ctesibio e di →Filone di Bisanzio (cfr. Traina 1994). Questi ultimi erano gli iniziatori di un nuovo genere interno alla trattatistica scientifica, di un tipo di trattato che raccoglieva l’intero repertorio delle scoperte della meccanica, dalle più semplici alle più complesse, escludendo tuttavia l’architettura. Tardo rappresentante dell’unità delle funzioni di architetto, di ingegnere e di meccanico, V. tenta di unificare questo genere di trattato con quello di architettura, mirando al progetto di una vera e propria enciclopedia delle tecniche in cui all’architettura sia assegnato un ruolo dominante e sia attribuita quella centralità teorica che è dichiarata e dimostrata nel capitolo sulla formazione culturale dell’architetto (1, 1). Una così alta ambizione si scontra  

innanzitutto con la tendenza classificatoria dell’autore, che produce quasi un ribaltamento della concezione che è alla base dei trattati alessandrini di meccanica, a causa dell’inversione del rapporto fra descrizione e spiegazione teorica : le macchine vitruviane sono semplicemente descritte. Pochissimo si apprende anche sulla loro diffusione e sull’uso che se ne faceva. Ma il progetto vitruviano si scontra soprattutto con una concezione enciclopedica che è largamente condizionata dal modello enciclopedico-guida, quello delle arti liberali. L’indulgenza a tale modello si concretizza nelle numerose digressioni presenti nel trattato. Il progetto di una vasta enciclopedia che vedesse l’architettura al centro dei vari saperi tecnici finiva per rivelarsi incompatibile proprio con quel progetto di un corpus sistematico delle conoscenze architettoniche che egli indicava come quello a lui più caro, oltre che come il più urgente per la cultura latina. Il modello enciclopedico era di fatto opposto al tentativo di definire l’architettura come sapere specializzato autonomo. L’incertezza mostrata da V. nel sottrarsi a tale modello nel creare uno strumento linguistico originale e nello sciogliere le incongruenze generate dall’uso di fonti eterogenee lasciava il De architectura indietro rispetto all’obiettivo di dar vita a una nuova forma di trattato specialistico, al sistema di conoscenze di un’attività intellettuale autonoma. Forse anche per questo l’opera vitruviana non diede origine ad una tradizione : fatta eccezione per la breve epitome di Cezio Faventino, tramandata con il titolo De diversis fabricis architectonicae (edita da V. Rose in appendice all’edizione teubneriana del De architectura, Leipzig 1899 e da Plommer 1973), pochi autori per tutta l’antichità e poi nel Medioevo sembrano averla adoperata, sporadicamente e parzialmente. Sarà l’età moderna, da Leon Battista Alberti in poi, a cogliere in essa quella forma di sistema che l’autore aveva cercato di realizzare.  



Bibliografia. Anderson 1997 ; Callebat 1982 ; Callebat 1989 ; Callebat-Fleury 1986 ; Corso 1997 ; Della Corte 1970 ; Ferri 1960 ; Fleury 1993 ; Gabba 1980a ; Garlan 1974 ; Geertman-de Jong 1989 ; Giglioli 1908 ; Gros 1973 ; Gros 1975 ; Gros 1976 ; Gros 1978 ; Gros 1982 ; Gros 1983 ; Gros 1990 ; Gros 1992 ; Gros 1994 ; Gros 1997 ; Kessissoglu 1993 ; Knell 1985 ; Maggi 2002 ; Münzer 1928 ; Plommer 1973 ; Rawson 1985 ; Romano  









































     









vivisezione 1987 ; Romano 1994a ; Romano 1994b ; Romano 1997a ; Romano 1997b ; Ruffel-Soubiran 1962 ; Settis 1993 ; Thielscher 1961 ; Tomlinson 1989 ; Traina 1988 ; Traina 1994.  



















Elisa Romano

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privo di sensibilità. Comunque, nonostante gli indubbi progressi anche metodologici ottenuti, i procedimenti dello Stagirita (che, del resto, incorse in numerosi e grossolani errori) non possono essere puntualmente definiti sperimentali. [7] Pratiche settorie e vivisettorie sono, poi, documentate dalle fonti (e dimostrate dalla rilevanza delle raggiunte conclusioni anatomiche e fisiopatologiche) a proposito di →Erofilo di Calcedonia ed →Erasistrato, operanti in Alessandria nel secolo iii a.C. Quest’ultimo, fra l’altro, pesò un uccello e i suoi escrementi in modo da dimostrare il fenomeno della traspirazione insensibile (cioè la perdita quotidiana di una discreta quantità di acqua attraverso la cute, senza che se ne abbia contezza) e propose altre osservazioni simili. [8] Ma, soprattutto, →Celso tramandò la notizia che entrambi effettuarono vivisezione di condannati a morte affidati loro dai sovrani d’Egitto, allo scopo di studiare la morfologia e la funzionalità dei visceri. [9] Tale pratica, dalla chiara sfumatura punitiva essendo limitata a individui socialmente indesiderabili, [10] avrebbe trovato giustificazione nella sua utilità scientifica e conoscitiva e nel vantaggio che generazioni future di persone innocenti avrebbero tratto dal sacrificio di pochi criminali ; [11] ma ad essa, come alla dissezione, si opposero gli →empirici e, infine, lo stesso Celso ebbe a giudicarla crudele e inutile, poiché la medicina avrebbe dovuto fondarsi solo sulle cause evidenti e non su quelle occulte e perché, comunque, sostituibile dall’esame dei cadaveri. [12] Critiche severe furono, inoltre, mosse da Tertulliano. [13] All’incirca nello stesso periodo fu scritto il trattato ippocratico De corde, il cui estensore prospettò una dimostrazione volta a consolidare la teoria del passaggio di parte dei liquidi ingeriti dalla trachea ai polmoni, consistente nel somministrare acqua colorata a un maiale e tagliargli la gola nell’atto di bere. [14] Non è chiaro se, allora, sia stata realmente eseguita o solo teoricamente ipotizzata ; fu, invece, senz’altro compiuta, con esito che egli ritiene positivo, da Galeno (De placitis Hippocratis et Platonis 8, 9). Questi, oltre ad aver tentato di dare ordine sistematico alla tecnica anatomica tramite numerose opere in parte perdute, effettuò varie e spettacolari dimostrazioni vivisettorie, non di rado pubbliche, con particolare riguardo per la fisiologia della respirazione e dell’emissione di voce, la pulsazione cardiaca e la funzione degli ureteri nell’afflusso di urina [→liquidi orga 



Vivisezione. 1. Generalità. – È la →dissezione e, più in generale, la sperimentazione scientifica effettuata sul corpo di uomo o di animale in vita [→vita, concezione della]. 2. Cenni storici. – L’utilità delle pratiche vivisettorie, nel mondo antico, fu argomento assai dibattuto e controverso. Erodoto riferì di aver appreso da un sacerdote di Efesto, a Menfi, che il faraone Psammetico I aveva affidato alcuni neonati a un pastore (o, secondo altra versione, a donne cui era stata mozzata la lingua) con l’incarico di allevarli senza mai pronunciare parola, onde far emergere il loro idioma originale e, dunque, stabilire quale popolo fosse il più antico. [1] Ciò in base alla diffusa convinzione che, negli esseri viventi, esistessero forme di sapienza innata ; tesi che ancora →Galeno (De locis affectis 6, 6), secoli dopo, avrebbe ritenuto di suffragare descrivendo il comportamento di un capretto strappato alla madre che, fra tanti potenziali tipi di cibo, si era orientato spontaneamente verso il latte. Affine alla pratica vivisettoria era l’osservazione provocata, per mezzo della quale, ad esempio, l’ippocratico autore del trattato De natura pueri poteva constatare come una leggera bruciatura dell’epidermide, con successiva cicatrizzazione, inibisse l’ulteriore comparsa di formazioni pilifere. [2] La vivisezione in senso stretto, oltre alla dissezione, fu verosimilmente praticata da →Aristotele. I suoi studi riguardarono di solito animali mutilati, come scolopendre prive di zampe ; questo gli permise di rilevare l’esistenza di insetti che sopravvivevano nonostante alcune parti del loro corpo fossero tranciate (e di notare come queste, talvolta, si rigenerassero spontaneamente), mentre la presenza e la funzionalità di determinati organi risultava, al contrario, indispensabile alla vita. [3] Tuttavia è plausibile che egli si sia soffermato per lo più su esemplari che avevano subìto l’effetto di agenti esterni, mentre solo la densità della casistica citata lascia presumere un occasionale intervento umano. [4] Inoltre, avrebbe cercato di dimostrare, tramite vivisezione forse di rettili, le tesi che volevano che il →cervello risultasse umido e freddo[5] e fosse  



























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nici] verso la →vescica. Osservò, inoltre, gli effetti della sezione midollare, a vario livello, e il nesso tra legature di nervi e paralisi di plessi muscolari anche lontani. Ciò avvalendosi di capre e maiali, poiché avvertiva che la sofferenza della scimmia risultava particolarmente orribile mentre altre bestie urlavano troppo forte (∆Anatomikai; ejgceirhvsei" 9, 11). Per mettere a nudo il →cuore, indicò come opportuno l’uso di un esemplare giovane, al fine procedere con il solo scalpello ; posto supino sulla tavola anatomica, un inserviente avrebbe provveduto a stringerlo con quattro legacci, uno per ogni arto, e, quindi, a rimuovere l’eventuale eccesso di pelo sullo sterno (∆Anatomikai; ejgceirhvsei", 7, 12). Galeno suggerì di evitare gli esperimenti che avrebbero procurato forti emorragie, come quelli sullo scroto ; espresse, anzi, disapprovazione per il sezionamento dei genitali [→organi genitali] di un caprone vivo effettuato da Quinto. [15] Evocò, inoltre, le prove farmacologiche su vivente, ricordando come il medico alessandrino Zopiro, che riteneva di aver inventato un antidoto ai veleni [→veleni e contravveleni], avesse suggerito a Mitridate di verificarne l’efficacia somministrandolo, con una sostanza mortale, a un condannato (De antidotis 2) e riferì di prove compiute su persone sane (essenzialmente schiavi), come accadde al giovane sottoposto a respirazione in uno spazio ristretto quale una vescica di bue (De usu respirationis 5, 2). Non esitò neppure a utilizzare se stesso come cavia : ad esempio ingerì la terra di Lemno e, per la migliore valutazione dei possibili rimedi, si procurò scottature con la tapsia. [16]  









Note. [1] Hdt. 2, 2. – [2] Hp. Nat. Puer. 20, 4. – [3] Grmek 1996a, 41. – [4] Lloyd 1993, 307. – [5] Manzoni 2007, 48-56. – [6] Manzoni 2007, 71-73. – [7] Grmek 1996a, 41-44. – [8] Grmek 1996a, 50-52. – [9] Cels. Prooem. 23-24 / 21 M. – [10] Carlino 1994, 157. – [11] Cels. Prooem. 26. – [12] Cels. Prooem. 74 / 29. – [13] Tert. anim. 10, 4. – [14] Hp. Cord. 8. – [15] Garofalo 2002, 54. – [16] Gourevitch 1993, 155. Bibliografia. Carlino 1994 ; Garofalo 2002 ; Gourevitch 1993 ; Grmek 1996a ; Lloyd 1993 ; Manzoni 2007.  









Francesco Cuzari Vomito. Come aspetto della →dietetica, nei testi di medicina del mondo antico al vomito è riservato ampio spazio anche come elemen-

to patologico [1] [→patologia]. Qui si tratterà tuttavia soprattutto del vomito considerato come terapia dietetica. Nel Corpus Hippocraticum sono già indicati effetti e virtù del vomito : umidifica o dissecca, alleggerisce, discioglie o restringe etc. ; si indica anche tutta una casistica di effetti salutari o nocivi e si fa infine riferimento a tecniche e sostanze emetiche. Così si legge che il vomito fa dimagrire in virtù dell’evacuazione del cibo, ma che non secca ; umidifica, piuttosto, grazie al riempimento e alla ‘liquefazione’ dovuta allo sforzo ; tuttavia il giorno successivo a quello in cui si è prodotto, può subentrare calore e, aumentando l’alimentazione gradualmente, il vomito può seccare. [2] Poiché, come si legge in →Ippocrate, si considera il vomito una purificazione del corpo, è opportuno provocarlo, anziché reprimerlo ; è utile, per purificare il corpo, se gli esercizi non siano sufficienti allo scopo, anche provocarlo, [3] sia irritando meccanicamente la gola [4] sia con emetici vari. [5] Come sostanze emetiche sono utilizzati elleboro, [6] ravanello [7] o acqua salata. [8] →Celio Aureliano critica specificamente conseguenze negative di terapie emetiche troppo intense o particolari, come polpe dentarie marce. In relazione alla teoria umorale il vomito è ritenuto misura preventiva importante per evitare l’insorgenza di disposizioni favorevoli a produrre eccedenza di bile nello stomaco. [9] In realtà, in età ellenistico-romana si riconoscono al vomito notevoli proprietà terapeutiche e se ne propone un utilizzo più ampio e insieme più specifico come rimedio per varie affezioni, come gotta, calcoli, satiriasi. Una trattazione ampia è in →Celso. Questi sottolinea : « Il vomito è più utile in inverno che in estate : infatti in quella stagione sottentra più pituita e una maggiore pesantezza di testa. È dannoso per quelli che sono gracili e che hanno lo stomaco debole ; è utile a quelli che sono piuttosto in carne, a tutti i biliosi, nel caso che si siano troppo riempiti o abbiano poco digerito […] Penso che il vomito non debba esserer praticato a scopo di bagordi: penso, sulla base dell’esperienza, che di tanto in tanto sia opportuno farne uso al fine di una buona salute, a condizione, tuttavia, che nessuno che voglia star bene e invecchiare tranquillamente vomiti ogni giorno. Chi vuole vomitare dopo aver mangiato, se riesce a farlo facilmente deve assumere prima soltanto acqua fresca ; se gli riesce con una certa difficoltà,  

























vomito deve aggiungere un po’ di sale o un po’ di miele ». [10] È noto che, sempre in età giulio-claudia, Nerone aveva l’abitudine di assumere emetici per curare la sua voce. [11] È ugualmente nota la pratica, piuttosto esecrata da parecchi autori, di provocare anche più volte di seguito il vomito nei banchetti per svuotare lo stomaco e renderlo atto, per golosità sfrenata, a ripetute assunzioni di ulteriori alimenti, [12] abitudine condannata anche da Celso. →Galeno si sofferma a sua volta su sostanze emetiche, come miele assunto in abbondanza, acqua miela