Limes 8/2023. Rivista italiana di geopolitica. Africa contro Occidente 8836151981, 9788836151981

«Africa contro Occidente» è l'ottavo numero di Limes del 2023. Il volume si concentra sulla regione saheliana, teat

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Italian Pages 283 Year 2023

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Limes 8/2023. Rivista italiana di geopolitica. Africa contro Occidente
 8836151981, 9788836151981

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CONSIGLIO SCIENTIFICO Rosario AITALA - Geminello ALVI - Marco ANSALDO - Alessandro ARESU - Giorgio ARFARAS Angelo BOLAFFI - Aldo BONOMI - Edoardo BORIA - Mauro BUSSANI - Mario CALIGIURI - Vincenzo CAMPORINI - Luciano CANFORA - Antonella CARUSO - Claudio CERRETI - Gabriele CIAMPI - Furio COLOMBO - Giuseppe CUCCHI - Marta DASSÙ - Ilvo DIAMANTI - Germano DOTTORI - Dario FABBRI Luigi Vittorio FERRARIS - Marco FILONI - Federico FUBINI - Ernesto GALLI della LOGGIA - Laris GAISER - Carlo JEAN - Enrico LETTA - Ricardo Franco LEVI - Mario G. LOSANO - Didier LUCAS Francesco MARGIOTTA BROGLIO - Fabrizio MARONTA - Maurizio MARTELLINI - Fabio MINI Luca MUSCARÀ - Massimo NICOLAZZI - Vincenzo PAGLIA - Maria Paola PAGNINI - Angelo PANEBIANCO - Margherita PAOLINI - Giandomenico PICCO - Lapo PISTELLI - Romano PRODI Federico RAMPINI - Bernardino REGAZZONI - Andrea RICCARDI - Adriano ROCCUCCI - Sergio ROMANO - Gian Enrico RUSCONI - Giuseppe SACCO - Franco SALVATORI - Stefano SILVESTRI Francesco SISCI - Marcello SPAGNULO - Mattia TOALDO - Roberto TOSCANO - Giulio TREMONTI Marco VIGEVANI - Maurizio VIROLI - Antonio ZANARDI LANDI - Luigi ZANDA

CONSIGLIO REDAZIONALE Flavio ALIVERNINI - Luciano ANTONETTI - Marco ANTONSICH - Federigo ARGENTIERI - Andrée BACHOUD Guido BARENDSON - Pierluigi BATTISTA - Andrea BIANCHI - Stefano BIANCHINI - Nicolò CARNIMEO Roberto CARPANO - Giorgio CUSCITO - Andrea DAMASCELLI - Federico D’AGOSTINO - Emanuela C. DEL RE Alberto DE SANCTIS - Alfonso DESIDERIO - Lorenzo DI MURO - Federico EICHBERG - Ezio FERRANTE Włodek GOLDKORN - Franz GUSTINCICH - Virgilio ILARI - Arjan KONOMI - Niccolò LOCATELLI - Marco MAGNANI Francesco MAIELLO - Luca MAINOLDI - Roberto MENOTTI - Paolo MORAWSKI - Roberto NOCELLA - Lorenzo NOTO Giovanni ORFEI - Federico PETRONI - David POLANSKY - Alessandro POLITI - Sandra PUCCINI - Benedetta RIZZO Angelantonio ROSATO - Enzo TRAVERSO - Fabio TURATO - Charles URJEWICZ - Pietro VERONESE Livio ZACCAGNINI .

REDAZIONE, CLUB, COORDINATORE RUSSIE Mauro DE BONIS

DIRETTORE RESPONSABILE Lucio CARACCIOLO

HEARTLAND, RESPONSABILE RELAZIONI INTERNAZIONALI Fabrizio MARONTA

COORDINATORE LIMESONLINE Niccolò LOCATELLI

EURASIA E INIZIATIVE SPECIALI Orietta MOSCATELLI

CARTOGRAFIA E COPERTINA Laura CANALI

COORDINATORE TURCHIA E MONDO TURCO Daniele SANTORO

CORRISPONDENTI Keith BOTSFORD (corrispondente speciale) Afghanistan: Henri STERN - Albania: Ilir KULLA - Algeria: Abdennour BENANTAR - Argentina: Fernando DEVOTO - Australia e Paci!co: David CAMROUX - Austria: Alfred MISSONG, Anton PELINKA, Anton STAUDINGER - Belgio: Olivier ALSTEENS, Jan de VOLDER - Brasile: Giancarlo SUMMA - Bulgaria: Antony TODOROV - Camerun: Georges R. TADONKI - Canada: Rodolphe de KONINCK - Cechia: Jan KR˘EN - Cina: Francesco SISCI - Congo-Brazzaville: Martine Renée GALLOY - Corea: CHOI YEON-GOO - Estonia: Jan KAPLINSKIJ - Francia: Maurice AYMARD, Michel CULLIN, Bernard FALGA, Thierry GARCIN - Guy HERMET, Marc LAZAR, Philippe LEVILLAIN, Denis MARAVAL, Edgar MORIN, Yves MÉNY, Pierre MILZA - Gabon: Guy ROSSATANGA-RIGNAULT - Georgia: Ghia ZHORZHOLIANI - Germania: Detlef BRANDES, Iring FETSCHER, Rudolf HILF, Josef JOFFE, Claus LEGGEWIE, Ludwig WATZAL, Johannes WILLMS - Giappone: Kuzuhiro JATABE Gran Bretagna: Keith BOTSFORD - Grecia: Françoise ARVANITIS - Iran: Bijan ZARMANDILI - Israele: Arnold PLANSKI - Lituania: Alfredas BLUMBLAUSKAS - Panamá: José ARDILA - Polonia: Wojciech GIEŁZ·Y7SKI Portogallo: José FREIRE NOGUEIRA - Romania: Emilia COSMA, Cristian IVANES - Ruanda: José KAGABO Russia: Igor PELLICCIARI, Aleksej SALMIN, Andrej ZUBOV - Senegal: Momar COUMBA DIOP - Serbia e Montenegro: Tijana M. DJERKOVI®, Miodrag LEKI® - Siria e Libano: Lorenzo TROMBETTA - Slovacchia: Lubomir LIPTAK - Spagna: Manuel ESPADAS BURGOS, Victor MORALES LECANO - Stati Uniti: Joseph FITCHETT, Igor LUKES, Gianni RIOTTA, Ewa THOMPSON - Svizzera: Fausto CASTIGLIONE - Togo: Comi M. TOULABOR - Turchia: Yasemin TAùKIN - Città del Vaticano: Piero SCHIAVAZZI - Venezuela: Edgardo RICCIUTI Ucraina: Leonid FINBERG, Mirosłav POPOVI® - Ungheria: Gyula L. ORTUTAY

Rivista mensile n. 8/2023 (agosto) ISSN 2465-1494 Direttore responsabile

Lucio Caracciolo

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I manoscritti inviati non saranno resi e la redazione non assume responsabilità per la loro perdita. Limes rimane a disposizione dei titolari dei copyright che non fosse riuscito a raggiungere. Registrazione al Tribunale di Roma n. 178 del 27/4/1993 Stampa e legatura Puntoweb s.r.l., stabilimento di Ariccia (Roma), settembre 2023

LA GUERRA CAMBIA IL MARE

LE GIORNATE DEL MARE IV EDIZIONE NAPOLI PALAZZO REALE, PIAZZA DEL PLEBISCITO 1 16/17 SETTEMBRE 2023

PROGRAMMA

SABATO 16 SETTEMBRE Ore 10.00 Inaugurazione mostra cartografica “Linee d’acqua” di Laura Canali

Ore 18.00 Il mare bagna Napoli. L’importanza di essere Tirreno. Con Vincenzo De Luca, Andrea Annunziata, Gaetano Manfredi e Paolo Peluffo. Modera Lucio Caracciolo

Ore 10.45 Relazione introduttiva di Lucio Caracciolo su “La guerra cambia il mare”

DOMENICA 17 SETTEMBRE

Ore 11.30 Le lezioni della guerra per il mare. Con l’Ammiraglio Aurelio De Carolis, l’Ammiraglio Thomas E. Ishee (tbc), alto rappresentante francese (tbc). Modera Federico Petroni

Ore 10.00 Una strategia per il Medioceano. Conversazione tra Lucio Caracciolo e l’Ammiraglio Enrico Credendino, Capo di Stato Maggiore della Marina Militare

Ore 15.00 A che ci serve il mare. Con il Generale Claudio Graziano, Mario Mattioli, Riccardo Rigillo, Massimo Deandreis. Modera Fabrizio Maronta

Ore 10.45 Migrazioni: l’importanza dello Stretto di Sicilia. Con l'Ammiraglio Sergio Liardo, Kader Abderrahim, Roberto Tottoli e Maurizio De Giovanni. Modera Germano Dottori

Ore 16.30 La partita per i fondali: risorse sottomarine, infrastrutture energetiche, cavi in fibra ottica, dimensione militare. Con Fabrizio Mattana, l’Ammiraglio Vito Lacerenza, Giuseppe Cossiga, Fabio Panunzi Capuano. Modera Giorgio Cuscito

Ore 12.00 A che serve la Nato. Con Daniele Santoro, Olivier Kempf, Michael Miklaucic e Orietta Moscatelli. Modera Lucio Caracciolo

Un grato saluto ai nostri lettori

IN COLLABORAZIONE CON

SOMMARIO n. 8/2023 EDITORIALE 7

La linea della palma LE AFRICHE IN RIVOLTA

PARTE I 35

Rahmane IDRISSA - Il golpe contro la Francia non salverà il Niger

51

Lamine SAVANÉ - Quel che noi francesi non abbiamo voluto capire

57

Leslie VARENNE - La Françafrique è morta a Niamey

67

Jean-Baptiste NOÉ - Africa sì, Africa no: Parigi si dilania

(in appendice: Nahel e dintorni: geogra!a dei moti francesi) 79

Mario GIRO - Perché Macron non riesce a farla !nita

con la Françafrique 87

Marc-Antoine PÉROUSE DE MONTCLOS - Eserciti come milizie

milizie come eserciti 97

Mauro ARMANINO - ‘Qui comanda la sabbia’

103

Luca RAINERI - Sotto la pelle del golpe (in appendice: Giacomo MARIOTTO - Perché il Niger fa gola)

113

Carlo Alberto CONTARINI - L’Ecowas secondo la Nigeria

121

Benoît BARRAL - Il putsch in Gabon e il tramonto della Françafrique

125

Luciano POLLICHIENI - Le Afriche giocano per sé (in appendice: Alessandro COLASANTI - All’Onu gli africani

non sono occidentali né russi) 133

Giulio ALBANESE - Quo vadis Africa?

143

Giorgio ANGELI - I tesori insanguinati di Cabo Delgado

153

Wolfgang PUSZTAI - In Libia di male in peggio

159

Ester SIGILLÒ - La Tunisia di Saïed guarda ai Brics OCCIDENTI SBANDANO, RUSSIA GODE, TURCHIA PROFITTA

PARTE II 167

Fabrizio MARONTA - Smettiamo di giocare ai piccoli francesi

175

Tibor NAGY - ‘L’Africa è strategica per gli Stati Uniti,

ma non la capiamo’

Trovi questo e tutte le migliori riviste su www.overpost.biz

181

Giorgio CUSCITO - Il caos saheliano danneggia la Cina

189

Orietta MOSCATELLI - Il senso di Putin per l’Africa (in appendice:

Ritorno sui banchi a Mosca nel nome di Lumumba) 199

Daniele SANTORO - Il mare di Ankara bagna Niamey

211

Emanuela C. DEL RE - ‘Non abbiamo capito che l’Africa è cambiata’

PARTE III

ALGERIA, NOSTRO VINCOLO ESTERNO

219

Kader A. ABDERRAHIM - L’esercito, unico arbitro di un paese diviso

225

Tarik MIRA - Nelle viscere del sistema algerino

233

Marcella MAZIO - Region di Stato: le radici territoriali

del potere in Algeria 239

Mouloud HAMAI - Non solo gas. L’intesa strategica

tra Roma e Algeri 247

Aghilès AÏT-LARBI - L’Algeria minaccia sé stessa

253

Adlene MOHAMMEDI - Mosca e Algeri, amicizia con limiti

AUTORI 259 LA STORIA IN CARTE 261

Certificato PEFC La nostra carta proviene da foreste gestite in modo sostenibile e da materiali riciclati www.pefc.it

a cura di Edoardo BORIA

AFRICA CONTRO OCCIDENTE

La linea della palma N

1. OI EUROPEI GUARDIAMO L’AFRICA DALL’ALTO IN BASSO. Se la guardiamo. Non solo perché il canone cartogra!co disegna l’Africa sotto l’Europa. È che ci pretendiamo superiori agli africani in ogni senso. Verità che non merita spiegazione. Postulato che può al meglio volgere in esotismo – hic sunt leones – al peggio in sfruttamento bestiale di popoli e risorse, quasi gli africani fossero cose a disposizione. Complesso di superiorità strutturato attorno all’essenzialismo più sfrenato: noi siamo nella storia, voi non ci siete mai entrati; noi benestanti evoluti voi poveri arretrati; noi nazioni voi tribù. Insomma: noi bianchi voi neri. Razzismo istintivo, talmente immediato e spontaneo che stentiamo a percepirlo tale. Inasprito dal politicamente corretto che vorrebbe mascherarlo mentre perpetua il sentimento da velare. Niente da fare: «il Nero non è un uomo, il Nero è un uomo nero»  1. Così Frantz Fanon, genio martinicano, settant’anni fa si lacerava sulla nevrosi della persona di colore davanti allo sguardo bianco del colono che lo rendeva prigioniero. Sicché aspirava alla «latti!cazione». Avrebbe voluto sbiancarsi, coprire pelle nera con maschera bianca. Fanon aspirava a liberare l’uomo nero da sé stesso. Essere riconosciuto dall’uomo bianco e così riconoscerlo. Dialettica della condizione umana: il razzismo cancella la persona, che il colono riduce al valore d’uso che può estrarne. Oggi i coloni non ci sono più, o almeno non si ostentano tali. Eppure la mentalità coloniale resiste, come la discriminazione per razza. Anche fra africani 1. Cfr. F. FANON, Pelle nera, maschere bianche, Pisa 2015, Ets, passim.

7

LA LINEA DELLA PALMA

bianchi e africani neri. Nel Maghreb arabo i primi usano de!nirsi ahrar (uomini liberi) mentre applicano ai neri il peggiorativo abid (schiavi). E spesso li trattano di conseguenza, non ricambiati, nella piena coscienza dei governi europei che remunerano i «pelle chiara» perché impediscano con ogni mezzo ai subsahariani di imbarcarsi verso l’Italia. Ghedda! e Ben Ali ne avevano fatto un triste commercio, alcuni loro epigoni una mattanza trasferita dalle coste mediterranee alla linea della palma. Vera frontiera tra Africa ed Europa. Su questo sfondo, i rapporti fra africani e occidentali, specie fra neri e bianchi d’Africa o d’Europa, stanno peggiorando al galoppo. Proviamo a capire perché incrociando i punti di vista. Sguardo geopolitico, in sé dialettico. Paritario. Consideriamo le relazioni di potenza fra europei e africani. Tra !ne Ottocento e metà Novecento la colonizzazione batteva il ritmo di rapporti di forza coerenti alla narrazione razziale, allora senso comune certi!cato dalla «scienza». Poi la cosiddetta decolonizzazione, più annuncio che svolta. Paradosso: i due movimenti – penetrazione degli imperi europei in Africa e successiva parziale evacuazione – poggiavano entrambi su retoriche progressiste. La stessa colonna sonora per !ni apparentemente opposti. Variazioni armoniche su continuità di dominio bianco. Cromatismi d’un monocolore europeo. Con alto accompagnamento ideologico. La Francia dei Lumi aveva eretto la colonizzazione a missione civilizzatrice (carta a colori 1). Esportazione in Africa della Rivoluzione francese. Naturalmente in nome dell’Europa. La parola a Victor Hugo, monarchico convertito alla sinistra umanitaria, araldo degli Stati Uniti d’Europa, che nel 1876 esorta gli europei: «Unitevi, andate al Sud! Nel XIX secolo il Bianco ha fatto del Nero un uomo; nel XX secolo l’Europa farà dell’Africa un mondo» 2. Verso la meta proposta nel 1814 dal conte di Saint-Simon, musa del protosocialismo francese, che oggi suona anticipazione veterocontinentale dell’universalismo americano stile neocon: «Popolare il globo della razza europea, superiore a tutte le altre razze umane»  3. Missione compiuta in Africa dalla Terza Repubblica laica e massonica, con Jules Ferry a spiegare che «le razze superiori hanno il diritto e il dovere di civilizzare le razze inferiori» 4. Protratta in maschera sotto la Quinta dal generale de Gaulle e successori, per cui «decolonizzare», adattamento al clima del secondo dopoguerra, altro non è che proseguire la stessa missione con altri mezzi. Per la

8

2. Cit. in C.-R. AGERON, «L’idée d’Eurafrique et le débat colonial franco-allemand de l’entredeux-guerres», Revue d’histoire moderne et contemporaine, tomo 22, n. 3, luglio-settembre 1975, p. 446, nota 1. 3. Ibidem. 4. J. FERRY, discorso del 28 luglio 1885 alla Camera dei deputati.

AFRICA CONTRO OCCIDENTE

maggior gloria e grandezza di Francia. Priva di ideologia civilizzatrice, la colonizzazione nuda – trasferimento di plusvalore dai lavoratori africani al paese che li incarica di estrarre risorse pagate con briciole – perde legittimità e fascino. Il grandioso irradiamento della cultura francese s’in!acchisce e si rovescia contro i suoi promotori. I rossori del tramonto intristiscono la «luce bianca dell’Europa» cantata dal più celebre esponente delle élite politico-letterarie francoafricane, Léopold Sédar Senghor, teorico della negritudine, presidente del Senegal indipendente, già deputato al parlamento di Parigi e primo africano ammesso all’Académie française (carta 1). Quanto ai pragmatici inglesi, refrattari ai barocchismi ideologici, si accollavano volentieri il fardello dell’uomo bianco, salvo scaricarlo al volo sui nativi appena la partita doppia segnasse rosso. Classica «fuga all’inglese», rovesciata Oltremanica quale «French leave», sottotesto «Remember Fashoda» 5. In formula: ai colorati la «decolonizzazione» francese lasciava in dote certezze universali e basi militari; quella inglese, senza virgolette o quasi (Commonwealth), abitudini particolari e qualche insabbiata Fortezza Bastiani. Unica convergenza, il catalogo di mai suturate ferite geopolitiche concesse in eredità ai presunti emancipati. Oggi il basso preme verso l’alto, che teme di sprofondare in basso. Il mondo è in via di de-occidentalizzazione. E nell’Europa già colonizzante circolano leggende che ci dipingono prossimi a venir colonizzati dal Sud. Sarà la «grande sostituzione» dei bianchi con i neri, invasione dei migranti africani e asiatici con accompagnamento di islam terrorista. Ossessione !glia del rovesciamento delle prospettive dopo la seconda guerra mondiale. Prima i colonialisti europei erano mossi dall’eccedenza demogra!ca. L’assalto all’Africa «vuota» mirava anche a scaricare nel Continente Nero la manodopera di troppo. Così moderando il rischio di con"itti fra proletari europei che avrebbero sconvolto la pace sociale. Ne sappiamo (dovremmo sapere?) qualcosa noi italiani, i «neri» d’un tempo. Allo scadere dell’Ottocento la massima comunità di lavoratori immigrati in Francia era costituita dai nostri ritals – non vezzeggiativo argot per «italiani» – accusati di concorrenza sleale dagli omologhi locali perché accettavano salari ridotti. Perciò vittime di violenze culminate nel massacro di Aigues-Mortes (1893). Oggi gli africani sono il doppio degli europei, alla metà del secolo saranno più del triplo, alla !ne circa il settuplo (tabella). Quanto basta a scatenare treni di paura dif!cilmente governabili, considerando l’età mediana degli africani rispetto agli europei: 18,6 anni contro 41,7 (44,4 nella 5. Località sudanese (oggi Kodok) dove si scontrarono nel 1898 le direttrici imperiali francese – Est/Ovest, dall’Atlantico al Mar Rosso – e britannica – Sud-Nord, dal Capo al Cairo. Con ritirata "nale dei francesi.

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LA LINEA DELLA PALMA

1 - L’IMPERO CHE NON VUOL MORIRE Tunisia

Marocco Is. Canarie (SPAGNA) Sahara Occ.

Algeria

Mauritania Capo Verde Senegal Gambia Guinea B. Sierra Leone

1

Mali

Libia

Sudan

Niger

C

U

Ciad

U

U

Egitto

Eritrea Gibuti Somalia Etiopia

U

Guinea

U U

Costa d’Avorio Burkina Faso * Guinea Eq.

U

Benin Togo Ghana

Liberia

Nigeria C n eru Rep. Centraf. Sud Sudan

Cam

2 C C * C C São Tomé

e Príncipe Gabon Rep. del Congo

Kenya Rep. Dem. del Congo

Uganda Ruanda Burundi

Tanzania

bic

Angola

Zambia am Zimbabwe M oz Namibia Botswana Madagascar i

Sede della Bceao Banca centrale degli Stati dell’Africa occidentale 2 Yaoundé Sede della Beac Banca degli Stati dell’Africa centrale U Stati che aderiscono all’Unione economica e monetaria dell’Africa occidentale (Uemoa) C Stati che aderiscono alla Comunità economica e monetaria dell’Africa centrale (Cemac) Ex possedimenti coloniali francesi Paesi francofoni Rete degli istituti scolastici francesi

Malaw

1 Dakar

o

Comore

eSwatini Sudafrica

Seychelles Glorioso (Francia) Mayotte (Francia) Mauritius Riunione (Francia)

Lesotho

Linea della palma

Fonti: Agence pour l’enseignement français à l’étranger; Organisation internationale de la francophonie

10

sola Ue, 46,8 in Italia). Giovani disposti a tutto pur di schivare un destino di miseria e oppressione (carte 2 e 3, carta a colori 2). Demogra!a e biologia alimentano il nostro declino e l’assertività degli africani, avanguardia del «Sud Globale» che sentiamo alle nostre porte. Ossimoro che la dice lunga sulla paura dell’Occidente di scadere a periferia di un inesistente Fronte unito del Mezzogiorno mondiale. E sul nostro equilibrio psichico: non sono passati vent’anni da quando ci raccontavamo invidiabile provincia dell’impero americano, monopolista della potenza nel pianeta a stelle e strisce. Il pericolo per noi più serio è di prendere sul serio questa apocalittica da strapazzo. Se invece di «civilizzare» i neri per poi scoprirli spauracchio mortale ne assimilassimo qualche peculiarissima pratica di convivenza ne

AFRICA CONTRO OCCIDENTE

PROIEZIONI DEMOGRAFICHE PER CONTINENTE AL 2100

Africa America Latina e Caraibi Nord America Asia Europa Oceania Mondo

2025 1.512.429 672.442 382.112 4.800.868 741.376 46.375 8.155.601

2050 2.465.755 748.715 421.001 5.290.145 704.172 57.653 9.687.440

(in migliaia)

2075 3.346.896 728.889 439.591 5.147.796 636.989 64.920 10.365.079

2100 3.917.077 649.177 447.907 4.684.822 587.362 68.657 10.355.002

Fonte: Wold Population Prospects. The 2022 Revision

guadagneremmo quanto meno in buonumore. Per esempio, le «cuginanze scherzose» – cousinages de plaisanterie o joking relationships nell’antropologia dei colonizzatori. Usanze che invitano a prendersi in giro tra famiglie allargate o gruppi etnici, specie in Africa occidentale. Teologia della presa per il sedere, ben resa a quelle latitudini: «Dio ride solo quando due cugini scherzano» 6. Trasmesse da tempi immemori, evolute negli antichi imperi di Ghana o Mali, queste prassi tanto irriverenti quanto benevole comportano simpatico scambio di insulti e ri!uto di prenderli sul serio. Così effondendo un af"ato di comunanza, frutto del reciproco riconoscimento di differenza che rende complici. Al mercato di Bamako capita di cogliere questo dialogo fra un Doumbia bambara e un Sidibé peul: – «Ehi, schiavo peul, come va?». – «E tu, bambara senza vergogna? Non saluti il tuo padrone?» 7. Diagnosi dell’antropologo Étienne Smith: «Ognuno è schiavo dell’altro, ciò che concilia sentimento di superiorità e reciprocità» 8. Niente di più semplice né di più lontano nel contatto fra europei e africani, fra bianchi e neri ossessionati dalla tassonomia dell’epidermide (carta a colori 3). Possiamo ancora trascurare l’Africa, segregata down under nelle nostre carte mentali, neanche fosse l’Australia scoperta dai primi esploratori? Sì. Infatti la snobbiamo da sempre. Solo che oggi quest’attardato negazionismo lo pratichiamo a nostro rischio e pericolo. 2. Nell’Africa «decolonizzata» si contano uf!cialmente 54 Stati. Salvo rarissime eccezioni (Etiopia, Ghana) privi di radici proprie. Figli legittimi di capricci geopolitici e necessità amministrative degli imperi europei. Dal 1950 vi si sono tentati quasi cinquecento colpi di Stato, la metà riusci6. et 7. 8.

Cfr. É. SMITH, «Les cousinages de plaisanterie en Afrique de l’Ouest, entre particularismes universalismes», Raisons politiques, n. 13, febbraio 2004, p. 157. Ivi, p. 165. Ibidem.

11

Tunisia

Fonte: United Nations, World Population Prospects 2022

4

eSwatini Lesotho

(Francia)

Mayotte Malawi

Mozambico

Zimbabwe Botswana

6 Sudafrica

Namibia

5 Tanzania

Ruanda Burundi Seychelles

Riunione (Francia)

Mauritius

Glorioso (Francia)

Gibuti Somalia

Comore

2 Etiopia

Eritrea

8 7 Uganda Kenya

Sud Sudan

9 Sudan

3 Egitto

Zambia

Rep. Dem. del Congo

Angola

Guinea Eq. São Tomé e Príncipe Gabon o Is. Capoverde ng Co

Popolazione attuale (in migliaia) più di 44.178 213.401 1 Nigeria 120.283 2 Etiopia 109.262 3 Egitto 4 Rep. Dem. Congo 95.894 63.588 5 Tanzania 59.392 6 Sudafrica 53.006 7 Kenya 45.854 8 Uganda 45.657 9 Sudan 44.178 10 Algeria

Ciad

Libia

un er Rep. Centraf. m Ca

Niger

1 Nigeria

10 Algeria

Mali Senegal ia B. Faso mb B. Guinea a G ea n i Costa L. Gu d’Avorio ra r e a i Si er Lib

Mauritania

Sahara Occ.

Marocco

Età media mondiale: 30 Età media africana: 18,6

r gasc a

Benin Togo Ghana Mada

12

2 - LA POPOLAZIONE AFRICANA NEL 2022 da 17.180 a 10.748 17.180 23 - Ciad 24 - Somalia 17.066 25 - Senegal 16.877 26 - Zimbabwe 15.994 27 - Guinea 13.532 28 - Ruanda 13.462 29 - Benin 12.997 30 - Burundi 12.551 31 - Tunisia 12.263 32 - Sud Sudan 10.748

Popolazione attuale (in migliaia) Meno di 8.645 2.281 8.645 45 - Lesotho 33 - Togo 34 - Sierra Leone 8.421 46 - Guinea-Bissau 2.061 6.735 47 - Guinea Eq. 1.634 35 - Libia 5.836 48 - Mauritius 1.299 36 - Congo 1.192 37 - Rep. Centraf. 5.457 49 - eSwatini 1.106 5.193 50 - Gibuti 38 - Liberia 966 39 - Mauritania 4.615 51 - Riunione 3.620 52 - Comore 822 40 - Eritrea 2.640 53 - Capoverde 588 41 - Gambia 566 2.588 54 - Sahara occ. 42 - Botswana 316 2.530 55 - Mayotte 43 - Namibia 2.341 56 - São Tomé e Príncipe 223 44 - Gabon 106 57 - Seychelles

Popolazione attuale (in migliaia) da 19.473 a 37.077 37.077 11 - Marocco 12 - Angola 34.504 32.833 13 - Ghana 14 - Mozambico 32.077 15 - Madagascar 28.916 16 - Costa d’Avorio 27.478 17 - Camerun 27.199 25.253 18 - Niger 19 - Burkina Faso 22.101 21.905 20 - Mali 19.890 21 - Malawi 19.473 22 - Zambia

LA LINEA DELLA PALMA

n

Fonte: United Nations, World Population Prospects 2022

Popolazione stimata (in migliaia) più di 72.328 377.460 1 Nigeria 2 Rep. Dem. Congo 217.494 214.812 3 Etiopia 160.340 4 Egitto 129.932 5 Tanzania 87.622 6 Uganda 85.212 7 Kenya 84.494 8 Sudan 73.530 9 Sudafrica 72.328 10 Angola Botswana

eSwatini Lesotho

(Francia)

Mayotte Malawi

Mozambico

Zimbabwe

5 Tanzania

Ruanda Burundi Seychelles

Riunione (Francia)

Mauritius

Glorioso (Francia)

Gibuti Somalia

Comore

3 Etiopia

Eritrea

6 7 Uganda Kenya

Sud Sudan

8 Sudan

4 Egitto

Zambia

9 Sudafrica

Namibia

10 Angola

2 Rep. Dem. del Congo

Rep. Centraf.

Ciad

Libia

C Guinea Eq. São Tomé e Príncipe Gabon o Is. Capoverde ng Co

e am

ru

Tunisia

Niger

1 Nigeria

Algeria

Mali Senegal ia B. Faso mb B. Guinea a G ea n i Costa L. Gu d’Avorio ra r e ia Si er Lib

Mauritania

Sahara Occ.

Marocco

gasc a r

Benin Togo Ghana Mada

3 - LA POPOLAZIONE AFRICANA NEL 2050 da 26.439 a 10.379 26 - Zimbabwe 26.439 25.264 27 - Benin 24.209 28 - Burundi 23.712 29 - Guinea 23.030 30 - Ruanda 31 - Sud Sudan 17.641 15.479 32 - Togo 14.316 33 - Tunisia 34 - Sierra Leone 13.595 35 - Rep. Centraf. 11.533 10.379 36 - Congo

Popolazione stimata (in migliaia) Meno di 8.915 37 - Mauritania 8.915 48 - eSwatini 1.655 1.503 8.891 49 - Gibuti 38 - Liberia 8.540 50 - Comore 39 - Libia 1.246 1.226 5.964 51 - Mauritius 40 - Eritrea 4.674 52 - Riunione 41 - Gambia 1.127 3.780 53 - Sahara Occ. 42 - Namibia 851 3.757 54 - Capoverde 43 - Gabon 727 3.679 55 - Mayotte 44 - Botswana 664 45 - Guinea-Bissau 3.445 56 - São Tomé e Príncipe 367 2.898 57 - Seychelles 46 - Lesotho 117 47 - Guinea Eq. 2.791

Popolazione stimata (in migliaia) da 67.043 a 32.563 11 - Niger 67.043 12 - Mozambico 63.044 13 - Algeria 60.001 14 - Ghana 52.232 15 - Madagascar 51.593 16 - Costa d’Avorio 51.358 17 - Camerun 51.280 47.440 18 - Mali 19 - Marocco 45.045 20 - Burkina Faso 40.542 21 - Zambia 37.460 37.159 22 - Malawi 23 - Somalia 36.463 24 - Ciad 36.452 25 - Senegal 32.563

AFRICA CONTRO OCCIDENTE

13

LA LINEA DELLA PALMA

ti. Approssimazioni per difetto  9. L’epidemia golpista dell’ultimo triennio – non considerando il Sudan già inglese dove il putsch è da sempre articolo unico della costituzione materiale e le brevi pause «democratiche» acquazzoni estivi – ha abolito otto regimi fra Ciad, Guinea, Mali e Burkina Faso (colpi doppi), Niger e Gabon. Tutti nell’Africa ex francese. Il primo coperto e pilotato da Parigi, gli altri contro. Con prevalenza di dittature militari «transitorie». Gli ultimi due, specie il nigerino, hanno suscitato un’eco internazionale senza precedenti. Eventi che un tempo sarebbero stati registrati nelle pagine interne o nei servizi di coda dei media «globali» – a eccezione dei francofoni (empire oblige) – stanno concentrando un fascio di luce non troppo ef!mera su entità di cui la maggioranza degli occidentali ignorava l’esistenza. In Francia, poi, è emergenza nazionale. «Viviamo in un mondo di pazzi», ha sovranamente stabilito Macron davanti ai suoi ambasciatori 10. Che cosa è cambiato? Il contesto, anzitutto. Insomma il mondo (non Macron). La crisi strutturale dell’impero americano eccita i protagonismi dei massimi avversari, Cina e Russia, le inquietudini degli ambigui occidentali di periferia quali noi italiani e altri europei appariamo alla torre di controllo di Washington, le aspirazioni di potenze medie e piccole, rivalutate dall’autunno della massima. Ovunque un’aria di animazione sospesa, in attesa di chissà quale catastrofe, cui forse seguirà catarsi. Il vuoto di potere reale o percepito – ma la percezione induce conseguenze più reali della realtà – sommuove la tettonica strategica. Sulla scena del teatro geopolitico spuntano o riemergono nuovi/antichi soggetti che si raccontano storie di umiliazioni da redimere, offese da sanare, riscatti promessi. Anche con la guerra. L’Africa è canone del nostro tempo non ordinario: concentrazione massima di guerre, migrazioni forzose, colpi di Stato. Tragedie !no all’altro ieri autocontenute nel Continente Nero, oggi !ltrate oltre le coste del Mediterraneo accendono l’attenzione di potenze imperiali o aspiranti tali. Le piazze africane che sostengono i golpisti non sono riempite a pagamento da spie russe o cinesi, come assicurano francesi agenti dell’ombra. Epigoni dei rispettabili funzionari che un tempo assoldavano festose truppe cammellate con bandierine tricolori in occasione delle visite dei presidenti-imperatori ai referenti locali, suffraganei dell’Eliseo nel pré carré. Non così semplice. I primi sondaggi post-golpe nigerino rivelano che la giunta gode di un plebiscitario consenso interno (79%), più che maggioritario nell’estero vicino (gra"ci 1 e 2). Persino nella Nigeria che Parigi ha subito cercato di arruola-

14

9. Cfr. projects.voanews.com/african.coups 10. «Conférence des ambassadrices et des ambassadeurs: le discours d’ouverture du Président de la République», 28/8/2023.

AFRICA CONTRO OCCIDENTE

Gra!co 1 " I NIGERINI NON DISDEGNANO I GOLPISTI 79%

Sostiene le azioni della giunta militare

78%

Crede che i militari dovrebbero restare al potere “per un periodo prolungato” o “!n quando non si celebreranno le elezioni”

57%

È contrario a interventi da parte di organizzazioni regionali o internazionali

COLORO CHE INVECE SOSTENGONO UN INTERVENTO ESTERNO, VORREBBERO CHE FOSSE EFFETTUATO DA:

53%

Russia (forse nella convinzione che sosterrebbe i golpisti)

13%

America

11%

Unione Africana (Ua)

6%

Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas)

Fonte: Sondaggio Premise commissionato dall’Economist

re per reinsediare a Niamey il deposto presidente Mohamed Bazoum dietro copertura della spaccatissima Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale, fantasma geopolitico. Blitz scoraggiato da Stati Uniti, Italia e Germania, che schierano propri contingenti – agguerrito il primo, simbolici gli altri – nel crocevia nigerino, valorizzato da risorse minerarie (petrolio, oro, uranio) e vie migratorie dirette in Europa (carta a colori 4). Dopo secoli di emarginazione, gli africani scoprono il gusto del protagonismo. L’Africa non è più ritaglio passivo di imperi altrui. Alcune Afriche – dalla Nigeria al Sudafrica, dal Marocco all’Algeria, dal Ruanda all’Etiopia – si vogliono abilitate a partecipare alla redistribuzione delle carte locali in corso fra Stati Uniti in affannoso ritardo, Cina, Russia, ma anche Turchia, India, Giappone e simil-potenze europee. A caccia di enormi ricchezze naturali o di manodopera a costo stracciato, su cui Pechino punta per trasferire entro metà secolo almeno un terzo della sua produzione nelle terre africane infeudate in trent’anni di penetrazione economica a sfondo strategico. O dove la Russia insinua propri mercenari pronto uso. E sfrutta insieme ideologie contraddittorie: riscoperta del terzomondismo di matrice sovietica e fascino del pensiero tradizionalista, più reazionario che conservatore, specialità dell’ultimo Putin. Quello del Dio-Patria-Famiglia,

15

LA LINEA DELLA PALMA

Gra!co 2 " SIMPATIE GOLPISTE NELLA REGIONE (% di quanti ritengono giusti!cato il colpo di Stato in Niger)

50

60

70

80

90

Mali

Ghana

Nigeria

Costa d’Avorio

Fonte: Sondaggio Premise commissionato dall’Economist

baluardo contro le derive permissiviste, transgender e iperindividualiste, indigeste al comunitarismo africano. Comunismo e bigottismo: lancia a due punte che incontra simpatie in diverse culture africane. Quanto all’America, spiazzatissima, non sa che fare (carta a colori 5). Comincia con grave ritardo a cogliere l’importanza di non lasciare ai nemici un continente così giovane, insieme ricchissimo e poverissimo. Dove teme di subire il contraccolpo dell’eccitazione antifrancese. Timore condiviso da italiani, tedeschi e altri veterocontinentali, !nora disposti a tollerare, !nanco coprire con vistose foglie di !co – sedicenti aiuti allo sviluppo più modeste guarnigioni dal bassissimo pro!lo – il militarismo dell’Eliseo vedovo d’impero. Irritati dalla coazione a ripetersi di Macron, ma incapaci di emanciparsi dal pensiero unico securitario di matrice francese. Ultimo urrà della Françafrique di matrice golliana, con i suoi réseaux di origine framassonica, nati per controllare l’impero da cui ci si era smarcati nella forma, non nell’anima tantomeno negli affari 11. Incarnati dal leggendario Jacques Foccart, per decenni misterioso plenipotenziario dell’Eliseo nelle sue Afriche. Quel nastro trasportatore che garantiva in"uenza e risorse alla metropoli si è autodistrutto quando ha cominciato a funzionare nei due sensi. Alla !ne erano più i referenti africani a ricattare i presidenti francesi che viceversa, tanto da imporre questo o quel ministro

16

11. Cfr. C. WAUTHIER, «L’étrange in"uence des francs-maçons en Afrique francophone», Le Monde diplomatique, settembre 1997.

Kong

Kumasi

P. Savorgnan de Brazza (1875-1885)

J.-B. Marchand (1897-1898)

É. Gentil (1895-1900)

Fès

Tuareg

Algeri (1830)

Ġat

Ġadāmis

Bengasi

D. Livingstone (1866-1873)

V. L. Cameron (1873-1875)

J. Speke (1858)

Lagos

Boma

Douala

Old Calabar

Ilorin (1897)

Brazzaville

Possel Yakoma

Il Cairo

1898 Fachoda

Tabora

Gondokoro

Khartūm

J. Speke e J. Grant (1860-1863)

H. M. Stanley (1871-1890)

Esploratori britannici J. Bruce (1768-1773)

Tripoli

Zanzibar

Gondar

Brava

Scontri franco-britannici

Scontri franco-tedeschi

Direttrici tedesche

Direttrici britanniche

Berbera

Bornu-Rabah

Sokoto

Tuareg

Alcuni imperi africani prima della colonizzazione Impero di Al-Ḥāǧǧ ʽUmar

Occupazione dal 1915 al 1930

Occupazione dal 1911 al 1914

Occupazione dal 1907 al 1910

Avanzata francese Direttrici di penetrazione #no al 1914

Località occupate dagli spagnoli

Territori controllati dalla Gran Bretagna nel 1880

Territori controllati dalla Francia nel 1880

1 - LA FRANCIA NELLA CORSA ALL’AFRICA

Agadez 1898 Timbuctu Gao Kabara Bornu-Rabah Sokoto Djenné (1899/1900) Zinder Ouagadougou 1898 Kano (1903) Fort-Lamy (N’Djarnéna) Bussa Impero di Sokoto

d-B. Gran Laou d n a Gr

Missione Foureau-Lamy (1898-1900)

L. G. Binger (1887-1889)

Esploratori francesi R. Caillié (1827-1828)

Bouaké

(1891) Nioro Bakel Kayes Bamako

rovia Mon

Freetown

Conakry

Bissau

Bathurst

Saint-Louis

Port-Étienne (Nouadhibou)

Sidi Ifni Tarfaya (El Aaiún) Laâyoune Boujdour (Bojador) Dakhla (Villa Cisneros) Lagwira

1905/1911 Scontro franco-tedesco

Tanger

a Accr Coast Cape

an 7 dj .01 1) i 1 2 Ab .32 s. 20 6 en c(

ia

Costa d’Avorio

os

Fonte: Calendario Atlante De Agostini 2023

ge

ria

Namibia

eSwatini Lesotho

Somalia

39 40

43

49

37

59

o bic

53

15.810.387 (stima 2021)

Riunione (Francia)

40

70

44 65

Mauritius

Glorioso (Francia)

Johannesburg

Madagascar

Mayotte (Francia)

Comore

53

29

39

39

60

Dar es Salaam 5.526.638 (stima 2021)

Nairobi 4.397.073 (cens. 2019)

Kenya

Tanzania

Città del Capo 7.113.776 (stima 2021)

Sudafrica

Botswana

59

Gibuti

65

Addis Abeba 3.860.000 (2022)

Etiopia

Eritrea

zam Zimbabwe Mo

Zambia

13.171.256 (2018)

Kinshasa

Sud Sudan

Sudan

Egitto

9.606.916 (stima 2022)

Il Cairo

Alessandria 5.469.480 (stima 2022)

Uganda Rep. Dem. del Congo Ruanda Burundi

Rep. Centraf.

Ciad

0)

2 20

Angola

o

ng Co

Guinea Eq. Gabon

un er m Ca

Ni

.

14

s

a tim

Libia

1( no5.31 a K 65

Niger

Tunisia

Luanda 2.571.861 (2019)

g 971 ) La 012. 2020 . 13 stima (

B. Faso

Mali

Algeria

Densità della popolazione Le megacittà (numero di abitanti per km2) più di 200 Da 22 a 9 milioni da 100 a 200 da 50 a 100 da 8,9 a 5 milioni da 25 a 50 da 10 a 25 da 4,9 a 4 milioni da 1 a 10 da 3,9 a 3 milioni da 0 a 1

b Li

er

Guinea

L. rra Sie

Gambia Guinea B.

Senegal

Dakar Mauritania 4.042.225 (stima 2022)

Sahara Occ.

Casablanca 7.408.213 (stima 2020) Marocco

2 - DENSITÀ DI POPOLAZIONE IN AFRICA

Benin Togo Ghana wi Mala

47 54 87

18

67

46

43

65

22

78

40

64

57

42

40 33

19

34

43

27

21

32

25 12

34

28

28

77 39

54

40

sopra il 60

tra il 40 e il 60

tra il 20 e il 40

Meno del 20

Paesi per percentuale di popolazione urbana

31 16

16

19

22

La popolazione urbana in Africa Fonte: Banca Mondiale (2014). Dati in percentuale

A

LI

E

EN

S

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B

COSTA D’AVORIO

NK

RA

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NE MEND E

GUINEA

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NIGER

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TUNISIA B A C H A A M

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MALINK E

SENEGAL

TU FU KULO R LA WO N LOF I

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BA

GUINEA BISSAU

GAMBIA

Guineani

Bantoidi orientali

Bantoidi centrali

Bantoidi occidentali

Mandingo

Songhai

Centro ed est sudanesi

Hausa

Kanuri

TRIBÙ O GRUPPI ETNICI Camito-semitici

M

LI

DE

Sah ara O

A

3 - POPOLI SAHARIANI E SAHELIANI

G

SI

I L

G

B I A R A

B

KIS

A

BU

TOGO

M

SUD SUDAN

SUDAN

Fonte: Geopolitical Futures, Le Monde

COSTA D ’AVORIO

GHANA

TOGO

BENIN

Arlit

A

R

ZINDER

Ra!neria Soraz (Costruita con investimenti della Cina ancora da ripagare)

Tabélot Tchibarakaten (sito principale) Djado (chiuso nel 2014) Liptako

Lago Ciad

CAMERUN

DIFFA

Miniere importanti di uranio (Arlit, Akouta, Imouraren) Giacimenti di petrolio e gas Presenza Isis Minima Media Estesa Pieno controllo del territorio

Regioni nigerine

tra 1.000 e 500 m

tra 1.500 e 1.000 m

R i l i e vi tra 3.500 e 1.500 m

C I A D

T I B E S T I

L I B I A

Blocco di Agadem (Permesso di sfruttamento concesso alla Cnodc cinese)

Madama

F E Z Z A N

A G A D E Z

N I G E R

Zinder

N I G E R I A

MARADI

Agadez

Siti auriferi del Niger

Air Base 101 NIAMEY DOSSO

Ouallam

TILLABÉRI

G

r ’Ajje li n

H

G

Air Base 201

TAHOUA

T

si as

A

A

ré a

OUAGADOUGOU

BU R K I N A FA S O

Gao

A L G E R I A

ou

BAMAKO

M A L I

Personale militare presente in Niger 1.000-1.500 Francia 1.100 Usa 60 Germania 350 Italia 50-100 Unione Europea

Basi militari straniere permanenti

4 - IL NIGER CONTESO

ne

MAURITANIA

Té Ka





★ ★

Sierra Leone

Guinea B.

Fed. Russa 18 miliardi $

Usa 65 miliardi $

Cina 254 miliardi $

Risorse militari russe trasferite ai paesi africani Misurazione in tiv (Fonte: Sipri) Algeria 4.100 Egitto 2.800 Angola 500 Nigeria 160 Sudan 125 Etiopia 70 27 Ruanda Mali 23 Sud Sudan 22 Zambia 14 Burkina Faso 14 Camerun 11 Guinea Equatoriale 7 Mozambico 7



Unione Europea 300 miliardi $

SCAMBI COMMERCIALI CON L’AFRICA (2022)

37,6

16,3

14,6

9,2

Russia

Usa

Francia

Cina

(percentuale di vendita)

(Fonte: Sipri)

Sudan

Egitto

Luanda

Botswana

Kenya

za m

Maputo

Mo

Uganda Ruanda

Porto Sudan (possibile infrastruttura militare russa) Dahlak (isole eritree) Eritrea

Etiopia

Tanzania

Zimbabwe

Zambia

Sudafrica

Namibia

Angola

Rep. Dem. del Congo

Rep. Sud Sudan n ru me Centrafricana

Fezzan

Tobruk Cirenaica

Libia

Tripolitania

Ca

Rep. del Congo Pointe-Noire

São Tomé e Príncipe

Guinea Eq.

Nigeria

Principali paesi esportatori di armi nei paesi africani (2017)

Guinea

Algeria

B. Faso

Mali

Marocco

Mers-el-Kébir

o bi c

5 - LA RUSSIA IN AFRICA

ar

g a sc Ma da

Ghana

Ex infrastrutture della Marina sovietica

Investimenti minerari

Diamanti

Ricerca e cooperazione nucleare

Annullamento russo del debito contratto con l’Urss Rapporti energetici

Import russo di uranio

Vendita armi russe

Presenza Wagner e altre milizie

Voto di condanna all’invasione russa nella risoluzione Onu di marzo 2022 Astenuti Contrari

Oro

Sale

Awli

. se c

Con!ni attuali

XIV

Timbuctu

Zamfara

Direttrici storiche del commercio maliano

Benin

Ifè

YOROUBA

Tenkodogo

Salaga

MOSSI Kano

XV Is e

IGBOUKWU

GOBIR

Agadez

Ghat

Ghadames

Takedda

c. I se -XV XIV

SONGHAÏ

Gao

Tadmekka

Collo CALIFFATO HAFSIDE (1249-1505)

ABELUADIDI (1236-1394)

Taoudenni

Djenne

Kumbi Saleh

Kangaba Niani

REGNO DEL MALI (XIV sec.)

XIVXVI s

Oualata

Taghaza

Aoudaghost

Ouadane

. sec III

ec.

Sijilmāsa Marrakech

c.

Fès

se XI V

MERINIDI (1248-1465)

XIX

Ceuta

TUNJUR

Dongola Zaghawa

Attacco di tribù nomadi zaghawa e bedja contro il Regno cristiano di Aloa

Migrazioni di tribù arabe makil verso il Maghreb

Migrazioni di cristiani verso il paese del Tunjur

Insediamenti e regni bantu

Il Cairo

Lalibella

Tegoulet

Massaua

Bedja

Suakin

La Mecca

Gedda

Yabalacha ETIOPIA DI AMDA SEYON (1314-1344)

Sale Assuan Oro

ALOA

SULTANATO DEI MAMELUCCHI

Alessandria

al-Facher

Augila

Impero del Mali al suo apogeo

Abéché BOULALA

OUADDAÏ

TEBU

sec. XIV

KANEM

Murzuq

Tripoli

© Limes

Bilma

Tunisi

6 - REGNI E POPOLI NEL SAHARA-SAHEL MEDIEVALE

c.

7 - L’IMPERO LATINO OCEANO ATLANTICO

FRANCIA M

Romania

spio Ca ar

ITALIA

Mar Nero

Vaticano

Portogallo

SPAGNA Tun.

Marocco

Mar Mediterraneo

Canarie Algeria

Libia r Ma

Sahara spagnolo

sso

Ro

Mauritania

Mali

Niger Ciad

Senegal B. Faso

Somalia

Togo

. Centraf. Rep

Camerun

. Co

Gabon

R

OCEANO ATLANTICO TERRITORIO DELL’IMPERO LATINO FRANCIA ITALIA SPAGNA Città del Vaticano (fonte della latinità) Colonie Francesi Italiane Spagnole TRIDENTE Marocco spagnolo Ifni FRANCIA Striscia di Cape Juby

Possibili periferie dell’Impero Latino Altri paesi “latini” Colonie portoghesi

SPAGNA

OCEANO INDIANO

ep

Guinea Eq. São Tomé e Príncipe

ngo

Golfo di Guinea

Etiopia

Comore Angola

Mayotte

Mozambico

Mad aga scar

Costa d’Avorio

Benin

Guinea

GuineaBissau

Eritrea

Riunione

ITALIA

Mediterraneo occidentale centro di gravità del Tridente

8 - LA PRIMA EUROPA DI BRUXELLES

Fonte: Servizio stampa e informazione della Comunità europea, aprile 1962.

AFRICA CONTRO OCCIDENTE

in esagonali dicasteri chiave. Mito e mentalità della Françafrique sopravvivono a sé stessi, per il compiacimento degli scienziati che assicurano esserci vita dopo la morte 12. Forse certi"cabile dopo il putsch militare del 30 agosto scorso in Gabon, già cuore logistico della ragnatela francoafricana, dopo 56 anni di regno della famiglia Bongo, installata nel 1967 a Libreville quale facciata della loggia Europafrique. Sempre che il golpe non si riduca a congiura di palazzo – storie tra cugini non spiritosi. L’Africa entra in un nuovo ciclo storico. O nella storia tout court. Se vogliamo credere alla sentenza pronunciata dal presidente Sarkozy nel discorso del 27 luglio 2007 a Dakar: «Il dramma dell’Africa è che l’uomo africano non è abbastanza entrato nella storia» 13. Tradotto: per il biglietto d’ingresso rivolgersi al botteghino dell’Eliseo. I paradigmi coloniali e post-coloniali sono esauriti per sempre. L’assimilazionismo di marca francese, che intendeva contemperare l’inconiugabile coppia universalismo/colonialismo, è sterile nell’Esagono percorso dal separatismo di comunità incomunicanti, "guriamoci nelle Afriche equatoriali e occidentali. Oggi proporsi di trarre dall’africano un convinto erede delle galliche virtù parrebbe umorismo nero. L’illusione di poter trattare gli africani da bambinoni bisognosi di patronati europei, ri#essa nella certezza di aver a che fare con tribalismi assortiti da incentivare per confermarsi superiori, scade di fronte ai nazionalismi locali in cerca di vero Stato. Qui si gioca la scommessa del futuro, lungo un percorso costellato di putsch, violenze, guerre di varia intensità. L’impatto del neoliberismo sul continente africano ha contribuito a scavare diseguaglianze disumane fra masse affamate e minime élite ultramiliardarie, famiglie di predoni più relativi pretoriani e allacci esterni. Con selvaggia privatizzazione di istituzioni e servizi, dove la corruzione è norma. Meglio, la norma è corruzione. Pseudo-Stati gravati dal debito ingrossato via speculazione "nanziaria, pari a quasi 1.200 miliardi di dollari. Ogni bimbo africano nasce indebitato per un milione di dollari. Lo svantaggio speci"co degli occidentali, non solo dei francesi, è il ri"uto di capire le realtà africane in movimento. Continuiamo a ripetere slogan scaduti. Pensiamo di dialogare mentre parliamo con noi stessi. Noi diciamo una cosa, loro ne capiscono un’altra. E viceversa. Quattro concetti diversamente intesi illustrano gli autismi reciproci: democrazia; guerra al terrorismo; accesso alla storia; diritto alla propria lingua quindi al nome proprio. Per ordine. Primo. Che senso ha proporre il modello democratico, ovvero l’alternanza al potere nel quadro di un libero Stato di diritto, dove lo Stato non 12. Cfr. T. BORREL, A. BOUKARI-YABARA, B. COLLOMBAT, T. DELTOMBE, L’empire qui ne veut pas mourir. Une histoire de la Françafrique, Paris 2021, Seuil, p. 508. 13. Cfr. il testo integrale in «Le discours de Dakar de Nicolas Sarkozy», www.lemonde.fr

17

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c’è? O pensiamo di sperimentare in Africa la democrazia senza Stato, uovo senza gallina? Davvero crediamo che la democrazia si riduca a passaggi elettorali più o meno apparecchiati (tipo Niger), se non totalmente fraudolenti (stile Gabon)? Vista dal terreno africano, dove lo Stato è proprietà contestata di questo o quel clan, questa democrazia non è il sol dell’avvenire. Semmai sinonimo di clientelismo su base di in!uenze, inef"cienza, aggressione morale via valori occidentali sentiti violazione dei propri mores. Se l’Occidente vuole esportare la democrazia nelle Afriche armi in pugno, perché non in Cina, Russia o Emirati Arabi Uniti? Risposta elementare, per noi, offensiva per loro: perché quelle africane non sono potenze, le altre sì. Gli smagati europei, nipoti del disincanto, sanno per esperienza che i doppi standard sono il sale della politica, da calibrare secondo necessità e contesto. Contro i quali eventualmente protestare per salvarsi l’anima. Gli altri, non solo africani, meno interessati alle "loso"e della storia e abbastanza scettici sui nostri valori universali selettivamente applicati, sentono «democrazia» e capiscono al meglio «paternalismo», al peggio «neocolonialismo». Cinesi, russi o arabi del Golfo almeno evitano di fargli la morale. Quanto ai capi militari che si offrono restauratori pro tempore dell’orgoglio ferito dai neocolonialisti, pro"ttano delle ipocrisie occidentali e degli opportunismi asiatici, giocando gli uni contro gli altri prima di "nire giocati. Per cogliere l’abisso che separa l’ideale liberaldemocratico, già appannato in casa nostra, dalla sua pseudoapplicazione in gran parte delle Afriche, conviene chiedersi come sia possibile che nel Continente Nero il rapporto fra colpi di Stato e Stati riconosciuti sia di dieci a uno. Risposta in tre constatazioni: molti Stati che si pretendono tali con tanto di patente Onu non lo sono affatto; di conseguenza, non sono democrazie ma strutture contese fra poteri privati e sponsor esterni, giacché si danno Stati senza democrazia (imbarazzo della scelta) ma non democrazie senza Stato; gli eserciti «nazionali» sono spesso battaglioni privati e/o etno-tribali, alcuni assai ricercati per operazioni oltrecon"ne (ruandesi in Mozambico docent). Capaci di efferatezze paragonabili a quelle dei terroristi che pretendono combattere. Viceversa alcune milizie non statali sono più potenti degli eserciti formali, ciò che incentiva le incursioni occidentali di soccorso alle «autorità legittime» per dirimere mischie sahariane, saheliane o subsahariane. Secondo equivoco, connesso al precedente: «guerra al terrorismo». Dopo averne sperimentato il fallimento in Afghanistan e in Iraq, l’Occidente ci riprova in Africa. A parti atlantiche rovesciate: nelle avventure asiatiche gli europei erano a rimorchio degli americani, oggi la Casa Bianca frena le velleità francesi più o meno eurovestite tese a ripeterle nelle Afriche di loro asserita pertinenza. Fermo l’errore di fondo per cui si scambia un modo di far la guerra usato da gruppi e Stati i più vari – specie quelli che procla-

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mano le crociate antiterrorismo – per un presunto nemico. Anzi, il Nemico che legittima tutto. Errore blu, tanto banale da indurre il dubbio sia voluto. Per noi occidentali è controproducente agitare la minaccia jihadista a giusti!cazione di interminabili missioni militari, specie francesi con accompagnamento di italiani, tedeschi e altri europei, americani a parte. Anzitutto perché in genere fallimentari rispetto a quelle dei russi, provvisorie vedettes dell’orgoglio indigeno giacché non gravati dal passato coloniale, o dei turchi, rapidi ed ef!caci. Poi perché un contingente che si attenda per anni in territorio altrui quasi fosse proprio è percepito occupante, salvo si dedichi alla !lantropia (italiani maestri). Squali!chiamo così i governi locali che ci invocano, certi!candosi inef!cienti, mentre alcuni gruppi terroristici possono apparire meno corrotti e più abili nella gestione dei servizi, dalle tasse alla «giustizia» – pubblicità per l’antidemocrazia. Antioccidente. In!ne, la motivazione religiosa conta meno di quanto si voglia far credere. Le reclute jihadiste s’arruolano per proteggere le proprie comunità dalle violenze di altre milizie terroristiche o dello Stato, per il prestigio connesso alle armi e per far soldi. Il Corano viene dopo, se viene. Le favole sull’idra jihadista uni!cata e diramata nel mondo valgono per giusti!care il salario delle menti strategiche che se le raccontano per !ni geopolitici o per allenare truppe af"itte da mal di caserma. Terzo, la storia negata. Gli africani considerano che la liberazione nazionale passi per il recupero della propria storia oscurata dai conquistatori europei. La missione civilizzatrice escludeva che un nero avesse storia propria dunque generosamente gli elargiva la sua, in versione depurata. Metodo diffuso nell’impero francese con modalità tabellari. Ancora si incontrano anziani africani abilitati alle terapie assimilative del progressismo gallicano che rievocano le imprese di Vercingetorige e snocciolano la sequenza dei re merovingi. Mentre i loro educatori potevano esimersi dal sapere dell’impero Songhai, persino delle dinastie sceriffali in Marocco (carta a colori 6). Approccio simile a quello dei coloni italiani, ad esempio in Libia. Agli alunni musulmani veniva somministrata ad nauseam storia romana in pillole, dove i cartaginesi erano citati solo in quanto vinti. Il ragazzino indigeno mandava a memoria le nostre province, persino nozioni di geogra!a nordeuropea. Sapeva misurare la distanza fra Roma e Milano ma non fra Tripoli e Bengasi. Miracoli dell’assimilazione all’italiana, con gran !nale fascistizzante. Dopo le indipendenze, l’ex colonizzatore punta a in"uenzare gli ex (s)oggetti adattando la sua narrazione al cambio di clima. Nella sempre attuale diagnosi di Kwame Nkrumah, panafricanista per eccellenza, fondatore del Ghana indipendente, già britannica Costa d’Oro: «L’imperialismo sta semplicemente cambiando tattica. (…) Sta “dando” l’indipendenza ai suoi

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ex sudditi, seguita dall’“aiuto” al loro sviluppo. Sotto tale copertura coltiva innumerevoli stratagemmi per cogliere gli stessi obiettivi raggiunti dal colonialismo nudo. La somma di questi moderni tentativi di perpetuare il colonialismo continuando a parlare di “libertà” si chiama neocolonialismo» 14. Quarto, lingua e nome. Regola nelle colonie era promuovere la lingua della metropoli nelle scuole indigene. Parlare a scuola la lingua dei coloni e a casa la propria, indegna del nome, è esperienza straniante. Nel caso francese, a impero perduto l’accento è caduto sulla lingua di Molière come ultimo baluardo contro gli anglosassoni. L’Organizzazione della Francofonia, oggi vegetante, è strumento geoculturale deputato a tal scopo. L’idea è che grazie allo sprint demogra!co nelle ex Afriche francesi l’idioma nazionale supererà nella seconda metà del secolo l’inglese quale lingua franca dominante, almeno in termini di parlanti. Obiettivo che tende a sfumare, stante che nei paesi uf!cialmente francofoni spesso si parla altro (carta 4). Lingua porta nome. Virare la denominazione coloniale del proprio paese in lingua propria, o in un compromesso semantico fra gli idiomi domestici, è cifra degli indipendentismi d’ispirazione panafricanista e/o comunisteggiante. Specie se di debole identità, come quello del Burkina Faso, già Alto Volta, colonizzato dal 1896, spartito fra Costa d’Avorio, Mali e Niger dal 1932 al 1947. Segnato dall’alterità fra la capitale Ouagadougou e le campagne. E dall’agitata convivenza fra la prevalente etnia mossi, ex imperiale, e le altre. Patria del capitano Thomas Sankara, che nel breve corso del suo regime (1983-87) si conquista fama perenne di eroe-martire antimperialista, vittima di un golpe sponsorizzato da Parigi. Icona diffusissima in tutte le Afriche. Che Guevara panafricano, o Patrice Lumumba mondiale. Sankara ribattezzò la sua terra Burkina Faso, «paese degli uomini integri». Strategia semantica dal senso doppio: anticoloniale, dunque antifrancese, ma anche integrativo. Burkina è infatti lemma mossi e sta per «uomini integri», mentre Faso in dioula, idioma di ceppo mandingo, può valere anche per «casa» o «repubblica». Patria del burkinabé. Il suf!sso «bé» viene dal fulfuldé, lingua peul. Trascorso il tempo degli esotismi e annessi imperialismi, come mitigare i danni della mutua incomprensione? Nelle poche scuole nostrane in cui ancora campeggiano i planisferi, un piccolo passo educativo sarebbe appenderli alla rovescia: Africa sopra, Europa sotto. Rappresentazione meno distante dalla realtà, almeno dalla demogra!a che ne muove il cuore. Poi potremmo recuperare negli esili programmi di storia qualche spazio per il passato delle Afriche, con cui saremo in sempre più stretta comunicazione, si spera non solo via Lampedusa. Scopriremmo allora un altro vincolo ester-

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14. K. NKRUMAH, Neo-colonialism: The Last Stage of Imperialism, London 1965, Panaf, p. 239.

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no – ormai anche interno – dalle radici profonde quanto neglette. Quello che ci lega all’Africa. In nome dell’Europa. 3. Il più protetto fra i segreti dell’europeismo si chiama Eurafrica. Mistero glorioso per eccellenza, postula l’Africa naturale appendice dell’Europa. Progetto molto europeo e poco o punto africano. Certo è che «l’Unione Europea non sarebbe mai nata se non fosse stata concepita come un progetto per europeizzare il colonialismo» 15. La tesi è documentata dai politologi svedesi Peo Hansen e Stefan Jonsson nel rivoluzionario saggio Eurafrica: alle origini coloniali dell’Unione Europea. Scavo attorno alle radici imperiali dell’idea e della prassi europeista, che ne illumina l’esoterismo fondativo: prosecuzione del colonialismo con altri mezzi. Tema negletto dalle cattedre di studi europei, ridotte del più sterile accademismo, brillantemente dedite a schivare qualsiasi contraddittorio sul proprio oggetto d’indagine. Onore quindi a Hansen e Jonsson. Soprattutto perché la loro archeologia suona felice smentita dello scetticismo espresso su questa rivista attorno all’utilità della scienza politica: anche i politologi possono produrre geopolitica, purché si emancipino dai lacci della propria disciplina. Senza abiurarla, per carità. Nel caso, un tocco di nordica indisciplina basta a incrinare i nostri stereotipi. Che cos’è Eurafrica? Il termine si diffonde fra le due guerre mondiali, ha la sua età d’oro fra 1945 e 1960 (parallela concezione e fondazione della Nato e delle Comunità europee, avvio delle indipendenze africane), torna nell’ombra !no a pochi anni fa. Oggi lotta per la sopravvivenza. La paternità del lemma è incerta, certa l’adattabilità a mille usi. Quel che conta è la polisemia che lo nutre. Di qui le variazioni sul tema azzardate da teorici e politici d’ogni tendenza nel corso del suo primo secolo di vita. La costante è però chiara: salvare l’Europa, centro e gloria del mondo moderno, dalla !ne della sua egemonia planetaria consumata nell’inglorioso trentennio dello harakiri in due atti (1914-1945). Perciò vestire all’europea gli imperi delle nazioni continentali che con la britannica si spartirono l’Africa, insieme ad Asia, Oceania e America Latina. Anzitutto l’impero africano della Francia, poi del Belgio, !no a qualche estrema velleità nostrana. Eurafrica infrange i due tabù su cui verte il racconto europeista: razza e impero. Presunto primato dello homo europaeus, ovvero inferiorità dell’africanus e non solo – razzismo gentile, a essere gentili. Nevrosi na15. Cfr. P. HANSEN, S. JONSSON, Eurafrique. Aux origines coloniales de l’Union européenne, Paris 2022, La Découverte. Edizione rivista della prima versione: Eurafrica. The Untold History of European Integration and Colonialism, London 2014, Bloomsbury Publishing.

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Ontario

Stati Uniti Louisiana

1 New York Rappresentanza permanente dell'Oif presso le Nazioni Unite (Rpny) 2 Bruxelles Rappresentanza permanente dell'Oif presso l’Unione Europea (Rpue) 3 Ginevra Rappresentanza permanente dell'Oif presso le Nazioni Unite a Ginevra e a Vienna (Rpg) 4 Addis Abeba Rappresentanza permanente dell'Oif presso l’Unione Africana (Rpua)

Tunisia Guinea-Bissau Messico Guinea Haiti Burkina Faso Costa d’Avorio Rep. Dominicana Costa Rica Camerun Dominica Rep. Centrafricana Sainte Lucie Corea del Sud

Québec Istituto di francofonia per lo sviluppo sostenibile (Ifdd)

Canada

Stati e governi membri o associati dell’Oif Stati osservatori Stati associati L’Oif riunisce 54 Stati e governi membri, 27 osservatori e 7 associati

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Argentina

Uruguay

Guyana (Fr.)

3

Malta

Maurizio Madagascar Mozambico

Kosovo Albania M.D.N. Grecia

Lussemburgo Belgio

Slovenia Croazia Bosnia-E. Serbia Mont.

Seychelles Comore

4 Gibuti

Egitto Qatar E.A.U.

Libano

Georgia Armenia

Rep. Dem. Ruanda Congo Burundi

Mali Niger Ciad

Ghana Thogo Benin Guinea Eq. São Tomé e P. Gabon Congo

Mauritania Capo Verde Senegal

Marocco Sahara Occ.

Francia Andorra

Estonia Lettonia Lituania Polonia Rep. Ceca PARIGI Austria sede dell’Organizzazione Svizzera internazionale della francofonia (Oif) 2 Irlanda

4 - IL MONDO DELLA FRANCOFONIA

Vietnam Laos Thailandia Cambogia

Romania Bulgaria

Cipro

Vanuatu Nuova Caledonia

Ucraina Moldova

Slovacchia Ungheria

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scosta quindi esposta dal politicamente corretto. Bimillenaria vocazione imperiale delle potenze europee, oggi rimossa per coltivata amnesia dai palazzi di Bruxelles – che pure santi!cano Carlomagno padre della «patria» – mossi dall’incoercibile impulso all’espansione. «Allargamento» in pudico eurogergo. Quanto al complesso di superiorità risuona nel carillon «Europa potenza civile», luminosa eccezione nel mondo incivile. Autopromozione post-storica dell’inde!nibile unicum chiamato Ue. Circa la radice imperiale, un aneddoto rivelatore: nel 2007 a José Manuel Barroso, ex maoista portoghese eretto capo della Commissione europea, scappò di comparare l’Ue a un impero sui generis (memorie lusitane?). Ne seguì offesa levata di scudi europeisti, che costrinse il povero Barroso a smentirsi 16. Su tali premesse ideologiche s’innesta Eurafrica. Concetto caro all’eminente europeista ante litteram Richard Nikolaus Coudenhove-Kalergi, conte d’ascendenza nippo-boema (doppiamente imperiale, giapponese e asburgica), consacrato Profeta d’Europa. Nel 1923 esce a Vienna il suo Pan-Europa, presto privato del trattino 17. La tesi è di affascinante semplicità 18. Viviamo l’epoca dei Grandi Spazi. Le nazioni europee da sole non possono reggere la competizione delle superpotenze americana, britannica, russa e nippocinese (crasi rivelatrice della nascita tokyota). Paneuropa diventerà il quinto super-Stato oppure ogni nazione veterocontinentale !nirà sopraffatta da imperi altrui. Paneuropa sarà Eurafrica (carta 5). Al continente canonico esteso dal Portogallo alla Polonia – sulla Turchia residua campeggia un punto interrogativo – incastonato fra Baltico e Mediterraneo (5 milioni di chilometri quadrati per 300 milioni di abitanti) il conte allega con aristocratica larghezza tutta l’Africa – qui il punto interrogativo spetta all’Etiopia, colta in peccato d’indipendenza. La Paneuropa evolve in Eurafrica grazie alla somma delle colonie veterocontinentali, francesi su tutte. Per complessivi 26 milioni di chilometri quadrati e 431 milioni di individui, in netta maggioranza europei. Coudenhove anticipa così l’equazione dell’europeismo post-bellico, nella versione promossa da Parigi in virtù della supremazia geopolitica sugli altri fondatori della Comunità Economica Europea: Paneuropa=Eurafrica=Franciafrica (Françafrique) con appendici belghe, italiane, spagnole e lusitane. Base su cui il generale de Gaulle poggerà l’obiettivo Eurofrancia, basso continuo all’Eliseo e dintorni: «L’Europa (leggi 16. Cfr. H. MAHONY, «Barroso says EU is an “empire”», Eu Observer, 11/7/2007. Sulla «amnesia imperiale» vedi F. EJDUS, «Dissonance and Imperial Amnesia of the European Union», Uluslararası øliúkiler/International Relations, 2022, vol. 19 n. 73. 17. R.N. COUDENHOVE-KALERGI, Pan-Europa, Wien 1923, Pan-Europa Verlag. La ristampa anastatica con prefazione di Otto von Habsburg è del 1982. 18. Su Paneuropa e dintorni cfr. L. CARACCIOLO, La pace è !nita. Così ricomincia la storia in Europa, Milano 2022, Feltrinelli, pp. 31-40.

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Eurafrica, n.d.r.) è per la Francia il mezzo per ridiventare quel che ha cessato di essere dopo Waterloo, la prima al mondo» 19. L’idea del Profeta d’Europa resta cabala d’iniziati sia nell’interguerra (1919-38), fase d’incubazione, sia dopo, a suicidio continentale consumato. Conferma che l’elitismo è malattia infantile e senile dell’utopia paneuropea. Clima nel quale germinano le recenti derive complottiste per cui Coudenhove-Kalergi mirava alla sostituzione etnica dei ceppi europei con neri africani. Falso assoluto: semmai il contrario, visto l’eccesso di popolazione europea rispetto all’africana. Però eco del doppio trauma prodotto alla !ne della Grande Guerra dall’intreccio fra tramonto degli imperi europei e pregiudizio razziale, fonte tuttora attiva del paneuropeismo. Tutto nasce con lo «scandalo nero». Così i tedeschi del tempo bollano l’occupazione della Renania, fra 1918 e 1930, da parte di almeno 20 mila soldati coloniali francesi, in maggioranza africani. Fucilieri neri assegnati da Parigi a vigilare sui bianchi germani si installano nel bacino industriale del Reich, che a Versailles perde onore e terre, tutte le colonie incluse. La stampa tedesca li battezza «mostri indicibili», «uomini-scimmia del Continente Nero», «animali umani», «iene nere». Minacce sessuali per donne e bambini autoctoni  20. Nascono piccoli meticci, esposti al ludibrio popolare quali «bastardi renani». Protestano le associazioni femministe internazionali e i politici tedeschi, a partire dai socialdemocratici appena installati al potere. Il cancelliere Hermann Müller denuncia: «Negri senegalesi campeggiano nell’Università di Francoforte e fanno la guardia alla casa natale di Goethe» 21. L’altrettanto socialdemocratico presidente della Repubblica, Friedrich Ebert, tuona: «Dispiegare soldati di colore, della cultura più inferiore che si possa immaginare, per sorvegliare una popolazione di così elevato livello spirituale ed economico come quella della Renania è violazione intollerabile della legge della civiltà europea»  22. Quanto al giovane Hitler, condannerà nel Mein Kampf «la contaminazione provocata per l’af"usso di sangue negro sul Reno, dovuta (…) al freddo calcolo dell’Ebreo, che vi vede il mezzo per avviare il meticciato del continente europeo nel suo centro» 23. Ciò non impedirà al Führer, nella fase di riavvicinamento fra le potenze coloniali europee culminata nel Patto a Quattro siglato a Roma il 15 luglio

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19. Cit. in A. PEYREFITTE, C’était de Gaulle, Paris 1994, Fayard, pp. 158 s. 20. Cfr. C. GOMIS, «Les troupes coloniales françaises et l’occupation de la Rhénanie (19181930)», Cahiers sens public, 2009/2, n. 10, p. 69. 21. C. KOLLER, «Von Wilder aller Rassen niedergemetzelt». Die Diskussion um die Verwendung von Kolonialtruppen in Europa zwischen Rassismus, Kolonial- und Militärpolitik, 1914-1930», Stuttgart 2001, Franz Steiner Verlag, p. 213. 22. Ivi, p. 324. 23. A. HITLER, Mein Kampf, München 1943, Franz-Ehler-Verlag, p. 357. Ottocentocinquantesima ristampa.

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5 - PANEUROPA

Fonte: R.N. Coudenhove-Kalergi, Pan-Europa. Der Jugend Europas gewidmet, Wien 1923, Pan-Europa Verlag.

1933 da Italia, Francia, Gran Bretagna e Germania, di tratteggiare «la nuova ripartizione dei possedimenti coloniali africani, che permetterà all’Europa e all’Africa di congiungersi in una comunità di interessi come America del Nord e America del Sud»  24. Europeismo in salsa nazista anticipato a Coudenhove-Kalergi dal futuro ministro dell’Economia Hjalmar Schacht il 30 gennaio 1933: «Vedrete! Hitler farà la Paneuropa!» 25. A modo suo, ci proverà. In quegli anni matura l’idea francese di riconciliarsi con il Terzo Reich abilitandolo al disegno coloniale paneuropeo. Per «fare l’Europa» occorre associare la Germania alla messa in valore dell’Africa. Eurafrica è contratto di comproprietà coloniale del Continente Nero, sulla traccia predicata da Coudenhove-Kalergi. Stabiliscono Hansen e Jonsson: «La presenza di soldati africani sul suolo europeo e la prospettiva di uno sfruttamento comune delle risorse africane appaiono come le due facce complementari del nascente progetto paneuropeo: la prima, per lo sgomento che ha suscitato, riserra la solidarietà razziale europea; la seconda, per gli appetiti che stimola, invita a un miglior coordinamento delle nazioni continentali» 26. Se ne riparlerà dopo il 1945. 24. C.-R. AGERON, op. cit., p. 474. 25. Ivi, p. 473. 26. P. HANSEN, S. JONSSON, op. cit., pp. 68-69.

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4. L’Eurafrica della guerra fredda cambia colore a seconda della sponda occidentale da cui la si scruta. Per gli americani, priorità è tenerne lontani i sovietici. Gli s!atati imperialismi euro-britannici vanno scoraggiati perché eccitano sogni panafricani o indipendentismi locali in cui s’innestano propaganda marxista e agenti di Mosca. Washington teme che Londra e Parigi spingano il Terzo Mondo verso la galassia dei non allineati, anticamera dell’impero sovietico. L’Eurafrica sarebbe trappola micidiale perché costringerebbe l’America a estendere il suo ombrello atomico alle colonie francesi, britanniche, belghe e portoghesi. Follia. Il presidente Truman vorrebbe escludere dalla Nato l’Algeria, parte integrante della Repubblica francese, ma cede di fronte all’ultimatum di Parigi, che giura di restare fuori dall’Alleanza se i suoi dipartimenti algerini ne fossero esclusi. In aggiunta, la Francia pretende e ottiene di includere subito l’Italia nella Nato in quanto ponte naturale verso il suo Nord Africa. Quanto all’esotica pretesa del Belgio di ammettere il suo Congo nella famiglia atlantica, suscita buonumore. Per gli architetti delle Comunità, il Continente Nero non è solo riserva di materie prime indispensabili per rimettere in pista le nazioni europee, «spazio vitale» (Lebensraum) nero a disposizione dei bianchi. L’Africa ha funzione geopolitica in quanto gigantesca base arretrata della Terza Forza, miraggio caro a in"uenti dirigenti europei d’intonazione cattolicosociale e non solo, soprattutto ai francesi e allo stesso Adenauer. Blocco euroccidentale con tutte le appendici coloniali, capace di guardare l’alleato americano negli occhi anziché battere i tacchi ai suoi ordini. E di trattare da pari con l’Urss. I protagonisti dei negoziati che porteranno ai trattati di Roma (25 marzo 1957), da Adenauer a Schuman, da Spaak a Monnet, un po’ meno De Gasperi, sono paneuropeisti convinti, abbeverati al verbo di Coudenhove-Kalergi. Perciò eurafricanisti. Ciascuno con i suoi retropensieri, le sue ambizioni di potenza. La posteriore censura europeista investe nientemeno che Schuman. Il quale nella celebre Dichiarazione del 9 maggio 1950, ispirata da Monnet, stabilisce: «L’Europa potrà, con mezzi accresciuti, perseguire la realizzazione di uno dei suoi compiti essenziali: lo sviluppo del continente africano». Passaggio ritoccato od omesso in alcune edizioni uf!ciali del documento, tanto che lo storico Étienne Deschamps denuncia «il silenzio assordante» dei colleghi su «Schuman, dimenticato apostolo dell’Eurafrica» 27.

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27. Cfr. É. DESCHAMPS, «Robert Schuman, un apôtre oublié de l’Eurafrique?», in S. SCHIRMANN (a cura di), Quelles architectures pour quelle Europe. Des projets d’une Europe unie à l’Union européenne (1945-1992), Bruxelles 2011, Peter Lang, p. 75. Sulle censure istituzionalaccademiche alla postilla eurafricanista di Schuman, cfr. P. HANSEN – S. JONSSON, op. cit., p. 180, nota 1.

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Il «motore» franco-tedesco è asimmetrico, con la Francia a tenere le redini del carro trascinato dal cavallo tedesco, giusta la metafora golliana. Statuisce un diplomatico britannico: Eurafrica è «la continuazione del colonialismo francese !nanziata da capitali tedeschi» 28. Di più: il blocco eurafricano evocato da Parigi e Bonn offrirebbe la profondità strategica che manca all’Europa, campo di battaglia centrale in caso di guerra atomica fra Usa e Urss. Nel 1953, il generale Joseph-Jean de Goislard de Monsabert formula tale dottrina su Foreign Affairs, s!dando il dogma americano e sovietico per cui gli europei sarebbero vittime sacri!cali del primo scambio atomico: «La vera frontiera d’Europa è l’antico limes romano che bordeggia il Sahara. Da Casablanca a Berlino, da Kiel a Gabès, tutto è interconnesso. L’intera area costituisce un singolo, indivisibile teatro di battaglia» 29. Sulla stessa linea il collega tedesco Adolf Heusinger, che insiste sull’importanza di trattare l’Africa del Nord quale !anco Sud della Nato 30. Ecco l’Eurafrica strategica, a trazione franco-tedesca. Obiettivo: non ridursi a periferia anglo-americana. Per questo serve un arsenale atomico condiviso tra Parigi, Bonn e Roma, in chiave anche eurafricana. Da progettare all’insaputa di Washington. Qui entra in gioco Euratom, l’organismo comunitario omologato con i trattati di Roma deputato a sviluppare l’energia atomica. Per Adenauer, la via più rapida verso la Bomba europea. Poco prima del battesimo dell’euroagenzia nucleare, il cancelliere concorda con il premier francese Guy Mollet un protocollo segreto per lo sviluppo dell’arsenale nucleare comune, !rmato il 17 gennaio 1957 nella base missilistica di Colomb-Béchar, in pieno Sahara algerino, dai rispettivi ministri della Difesa. Il 28 novembre a Roma l’Italia aggiunge la sua !rma su analogo accordo top secret (il nostro ministro della Difesa Paolo Emilio Taviani provvederà a scivolare l’informazione agli americani, avvertendo che il primo stock di atomiche italo-franco-germaniche sarà pronto nel 1963). Il progetto avrà brevissima vita, dopo che il 17 giugno 1958 de Gaulle, risalito al potere, lo vorrà bollare infrazione al principio per cui la (sua) Bomba non si condivide con nessuno. Tuttavia il triangolo dell’euronucleo militare resiste per qualche tempo sul versante convenzionale. Lo disegnano i dubbi comuni sull’ombrello atomico americano e l’altrettanto condivisa intenzione di integrare l’Africa coloniale quale estremo rifugio a disposizione 28. Ivi, p. 248. 29. J.-J. DE GOISLARD DE MONSABERT, «North Africa in Atlantic Strategy», Foreign Affairs, April 1953, vol. 31 n. 3. Monsabert era a capo della Terza divisione di fanteria algerina nella campagna d’Italia. Il 3 luglio 1944, preparando l’assalto ai tedeschi asserragliati in Siena, pronunciò la famosa frase: «Bombardate dove volete, ma se lo fate al di sotto del XVIII secolo vi faccio fucilare!». Una lapide a Porta San Marco ne eternizza grata la memoria. 30. Cfr. P. HANSEN, S. JONSSON, pp. 274-279, e P. M. PITMAN, «“A general named Eisenhower”. Atlantic crisis and the origins of the European Economic Community», in M. TRACHTENBERG (a cura di), Between Empire and Alliance: America and Europe during the Cold War, Lanham 2003, Rowman & Little"eld.

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dell’Europa atlantica. Sulla medesima linea l’altro grande paneuropeista/eurafricanista, il belga Paul-Henri Spaak, schierato a corpo morto con Parigi quando le diatribe coloniali incrociano i negoziati europei  31. Frizione che produce scintille. Tanto che !no all’ultimo la questione africana rischia di far saltare la Comunità Economica Europea in gestazione, negoziata da Italia, Francia, Germania, Olanda, Belgio e Lussemburgo. I Sei trattano la nascita del mercato comune sullo sfondo della guerra d’Algeria, scoppiata nel 1954, e della fallita operazione militare franco-britannica a Suez (1956), estreme unzioni del colonialismo bianco in terra d’Africa. La Francia gioca il tutto per tutto. Obiettivo, integrare il suo impero coloniale nella Cee. Con ciò costringendo gli altri soci, Germania in testa, ad accollarsi il co!nanziamento dei suoi depressi territori d’Oltremare. E soprattutto, legittimare via Europa il proprio diritto all’impero d’Africa. Il mercato comune sarà eurafricano, non solo europeo. Parigi informa per via riservata i cinque partner di voler raggiungere la «piena integrazione» del suo impero nella Cee «al termine di un periodo transitorio di sette-dodici anni»  32. Le resistenze – economiche, non geopolitiche – dei soci costringeranno la Francia a rinunciare provvisoriamente alla costosa (per gli altri) integrazione, poi limitata all’Algeria in quanto spazio metropolitano, e ad accettare la sola associazione delle colonie africane. Principio sul quale la concordia è totale. Al banchetto si candida il Belgio, che pretende associare il suo Congo, il Ruanda e l’Urundi. Quanto all’Italia, sponsor della Somalia, amministrata !no al 1961, suggerisce d’invitare anche la Libia. Adenauer sposa il progetto francese di mercato comune eurafricano, attratto anche dai giacimenti di petrolio appena scoperti nel Sahara algerino. Nelle settimane che precedono la !rma di Roma la partita a sei si scalda su chi e quanto debba contribuire al fondo d’investimento per l’Africa, oltre che sulla libera circolazione di persone e merci nello spazio eurafricano. Tasto sensibile per l’Italia. Il ministro degli Esteri Martino denuncia l’invasione del caffè coloniale francese, di gusto insopportabile per i palati nostrani, ciò che rischierebbe di scatenare in Italia un’ondata di eurofobia 33. Adenauer cede in!ne al pressing francese, stanco di battagliare sui dettagli !nanziari e commerciali: «Non ci annoiate più con le vostre banane, il vostro caffè, il vostro cacao» 34. Il dettagliato compromesso raggiunto a !ne febbraio dà !nalmente luce verde

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31. Ivi, pp. 274-279. Sulla Bomba «europea» e sul ruolo italiano in tale progetto, cfr. M. MORETTI, «A Never Ending Story: The Italian Contribution to FIG», in E. BINI, I. LONDERO (a cura di), Nuclear Italy. An International History of Italian Nuclear Policies during the Cold War, Trieste 2017, Edizioni Università di Trieste, pp. 105-118. 32. Cfr. P. HANSEN, S. JONSSON, op. cit, p. 292. 33. Ivi, p. 295. 34. Cit. in A. FUSACCHIA, «La Comunità economica europea e l’associazione dei territori d’oltremare (1955-1957)», Contemporanea, vol. 8, n. 2, aprile 2005, p. 283.

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alla Cee. La Germania dimidiata e senza colonie accetta di contribuire all’Eurafrica in salsa francese pagando la quota massima della bolletta europea, intesa da Parigi eurocolletta per il mantenimento del suo impero. Guy Mollet, capo del governo francese, può trionfalmente proclamare il 25 febbraio 1957 a Washington, quale angelo d’Annunciazione: «L’unità dell’Europa ormai è un fatto. (…) Oggi è nata un’unione ancora più larga: L’EURAFRICA (maiuscolo nel testo originale, n.d.r.)» 35. Straniamento dal notevole effetto ottico. Nella mappa uf!ciale degli Stati comunitari e dei territori associati i Sei sono relegati nell’angolino in alto a sinistra, le colonie africane e oceaniche dominano lo spazio centrale. Quasi fosse l’Europa ad associarsi all’Africa (carta a colori 8). Irrisione cartogra!ca del paradosso che macchia Eurafrica dalla nascita: l’aggiornamento neocoloniale dell’impero francese mascherato da europeo sfocia tre anni dopo nel suo opposto, la decolonizzazione. O presunta tale, visto che il post-coloniale ancora stinge nel neocoloniale. Sono passati quasi settant’anni, ma i termini del più o meno europeizzato dilemma francese inscritto nel mito d’Eurafrica restano quelli: come conciliare i ri"essi imperial-razziali sedimentati nelle mappe mentali dei dirigenti e delle opinioni pubbliche europee con la volontà di indipendenza e di riconoscimento paritario degli africani? 5. La scon!tta della Francia in Africa è una nuova Suez. La crisi del 1956 accelerò la decolonizzazione e insieme alla rivoluzione algerina provocò due anni dopo la !ne della Quarta Repubblica, quindi il ritorno al potere del generale de Gaulle. Oggi il doppio scacco con Niger e Gabon suona la campana per Francia potenza eurafricana. Condizione del suo rango di potenza mondiale, limitata altrimenti a sparsi territori d’Oltremare (carta 6). Se Macron-Zeus non scenderà dal suo Olimpo per gestire il declino della Francia in Africa, la crisi terminale della Françafrique, incrociata alle turbolenze domestiche e al tramonto della coppia franco-tedesca che l’autoincoronava co-regina d’Europa, potrebbe sfociare nel crollo della Quinta Repubblica. Senza un de Gaulle di ricambio. Tutto per voler continuare a essere quel che non si è più. Compulsione moderata dall’umorismo di Macron, che nel 2017 volle il giovane enarca Franck Paris come suo Monsieur Afrique, più noto in Africa come Monsieur Paris. Da settembre è a Taipei. Doloroso mutare mentalità in piena crisi. Il Quai d’Orsay può raccomandare ai suoi diplomatici «rispetto, ascolto, umiltà», ma la vagamente razzistica equazione francese=arrogante è tanto diffusa che il cambio d’abito sarebbe preso per travestimento. Tale percezione non deriva dal carattere di questo o quel messo di Parigi, nemmeno del suo «giupiteriano» presidente. Esprime 35. P. HANSEN, S. JONSSON, op. cit, p. 308.

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l’anima del missionario universale che la Francia condivide solo con gli Stati Uniti. Vasto e vago programma, che presume di incarnarti Redentore. E di crederci o convincerti di crederci. La superpotenza in missione dialoga sempre e solo con sé stessa, !nché non va a sbattere. A differenza del gesuita che per salvare anime esotiche vi s’incultura o almeno pretende di farlo, l’impero in espansione offre a chi si candida sua provincia la propria verità. Prendere o lasciare. Le verità dei provinciali non interessano. Ora che l’America dubita del suo credo e si chiede se convenga colmare il divario fra ambizione planetaria e risorse disponibili oppure dare un taglio a quest’impero senza limes – ma come e dove? – dif!cile credere che la gemella minore possa cavarsela. Con in più lo svantaggio che in !n dei conti gli americani sono più interessati a un mondo di regole (s’intende le proprie) che a dominarlo, mentre i francesi, inventori del rayonnement, se lo sono visti virare sotto gli occhi in soft power dagli sfrontati imitatori d’Oltreatlantico. Due modi di esprimere lo stesso concetto. Ma una cosa è proporlo in francese, marchio d’origine controllata d’una media potenza mondiale in ritirata da ex colonie prese armi in pugno, altra nell’inglese dell’impero anticoloniale che da tre generazioni, usando soprattutto il lato dolce della potenza, ha assuefatto il resto del mondo – gli avversari più di certi alleati – a trattarlo da Numero Uno. Washington sconta che prima o poi la Francia sgombrerà la sua Africa. Constata l’analista Michael Shurkin: «In Sahel i francesi sono radioattivi. Stanno per essere cacciati. Bisogna riempire il vuoto, se possibile, per evitare che lo riempiano i russi». Quanto ai cinesi: «La partita è già persa. Sono dappertutto e sono potenti» 36. Gli americani hanno idee confuse sul continente che !no a ieri stava per loro oltre il sistema solare. Ora temono !nisca sotto Mosca, percepita Antifrancia da molti africani. Non buona in sé, ma in quanto opposta a Parigi, sede del demonio. Nelle centrali strategiche a stelle e strisce non sanno se né come impedirlo. Spiega a Limes Tibor Nagy, già assistente segretario di Stato per l’Africa: «Abbiamo dormito. (…) Abbiamo permesso alla Russia di dipingerci come forza maligna, egoista, colonialista. Le abbiamo permesso di riempire un vuoto anche a livello militare. Se io fossi un governo africano e cercassi assistenza bellica, gli Stati Uniti sarebbero la mia ultima scelta. Se chiedo una !onda agli americani, mi arriva in sei mesi. Se la chiedo ai russi, mi arriva in una settimana, con tanto di addestratori» 37. Lo smarrimento francese e l’atonia americana dovrebbero convincerci che l’allarme suona anche per noi. Europei in genere, italiani in particolare.

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36. Cfr. M. SHURKIN, «Les États-Unis ne veulent pas chasser la France d’Afrique», intervista a cura di T. BERTHEMET, Le Figaro, 4/9/2023. 37. Cfr. T. NAGY, «L’Africa è strategica per gli Stati Uniti, ma non la capiamo», conversazione a cura di F. PETRONI e M. MIKLAUCIC, alle pp. 175-180 di questo volume.

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6 ! TERRITORI D’OLTREMARE FRANCESI Wallis e Futuna Polinesia Francese

A AUSTRALI

Nuova Caledonia

POLO NORD A S I A Saint-Pierre e Miquelon Clipperton Saint-Barthélemy Saint-Martin Martinica

Guadalupa

IC E R A M

7

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A F R I C A 5 .0 0 0 k m

0k

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Juan de Nova Banc du Geyser Isole Gloriose Mayotte Tromelin Riunione

Isola Europa Bassas da India Isola Nuova Amsterdam Isola Saint-Paul Isole Crozet Kerguelen

E TID ANTAR Fonte: Bruno Tertrais et Delphine Papin - Atlante delle Frontiere Torino 2018 Add Editore

Roma ha una tradizione di scontro con Parigi nell’Africa che ci interessa, dalla mediterranea alla desertica, !nanco alla saheliana. Ce ne siamo fatte di tutti i colori in Tunisia, Algeria, Libia e non solo. Da brave sorellastre «latine». Nello schema eurafricano francese, anticipato nel 1945 dal progetto di Impero Latino germinato dalla fantasia provocatoria di Alexandre Kojève (carta a colori 7) – parrebbe versione aggiornata e corretta della Paneuropa di Coudenhove-Kalergi – noi siamo liaison euromediterranea fra Esagono e suo impero d’Africa. Da tenere sotto controllo, tra collaborazione asimmetrica e repressione di nostre callide escursioni paraimperiali. L’Italia ha abdicato a qualsiasi strategia (non solo) africana dopo la doppia !ne di guerra fredda e Prima Repubblica, facce esterna e interna della nostra sterilizzazione geopolitica. Oggi l’impronta italiana è spesso residuale in quel poco di Continente Nero in cui manteniamo qualche chip. Eppure c’è in Africa domanda d’Italia anche in quanto non-Francia. Destinata a incro-

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ciare la rivalutazione della nostra dimensione afromediterranea accelerata dalla guerra russo-ucraina, specialmente per quanto riguarda le forniture energetiche. L’Algeria è paradigma. Per noi il gigante che aiutammo a liberarsi dall’Esagono, salvo dimenticarcene a differenza dei grati algerini e dei francesi avvelenati, diventa vitale causa collasso della cabala gasiera italo-russa. Mentre gli algerini ci riscoprono nel contesto della tattica multivettoriale con cui bilanciano, fra l’altro, l’intrusività della Francia, bollata «Grande Satana» dal presidente Abdelmadjid Tebboune 38. L’Italia non ha alcun interesse all’umiliazione della Francia. Siamo semplicemente troppo legati da prossimità, dossier incrociati e memorie comuni per immaginare che la disgrazia dell’uno non sia, entro variabile misura, anche la propria. L’incontrollabile francofobia delle nostre élite è poco intelligente e molto autolesionista. Specie in questo frangente, quando abbiamo bisogno del supporto francese contro il ritorno all’austerità germanica nell’Eurozona, grave per Parigi, disastrosa per Roma. Invece di massacrarci sulla questione migratoria, su cui coltiviamo interessi opposti – da gestire perché non tralignino in guerrigliette di frontiera attorno a Ventimiglia – possiamo ad esempio renderci utili sul fronte militare. Parigi deve ridurre drasticamente le basi africane, se non vuole esserne cacciata. Servirà un piano di disimpegno graduale ma non troppo, già oggetto di negoziati informali con la giunta nigerina. L’Italia potrebbe contribuire a «europeizzare» (si fa per dire) lo schieramento francese in alcuni paesi africani insieme a tedeschi, spagnoli e altri soci Nato/Ue. Però sul serio, non come !nora accade, per cui ciascuno si trincera nella sua monade per non far quasi nulla (noi) o troppo (i francesi, che nemmeno ci avvertono del golpe nigerino di cui sapevano quasi tutto prima salvo poi cercare di arruolarci nel loro fantastico controgolpe). Purché nel contesto di un approccio collaborativo con i governi africani – quelli effettivi, «legittimi» o meno – sui principali dossier economici, a cominciare dalla remissione del debito. Attento a umori e necessità delle comunità locali, esistenzialmente interessate alla sicurezza dei propri territori. Chissà che un giorno i caporioni del neo-antimperialismo africano non ci scoprano più af!dabili dei russi. Se invece la Francia punterà i piedi, o vorrà cavarsela con qualche evacuazione simbolica, dal Sahel sarà espulsa. Scon!tta sul campo. Ingloriosa catabasi dagli effetti strategici forse paragonabili alla ritirata di Russia. Con Putin trionfante nel Continente Nero come Alessandro I a Parigi. Solo che questo «zar», meno mistico di quello vero, non ama la Francia. E ciò che prende non lo molla. Specie se glielo regaliamo.

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38. Lo ricordano 94 parlamentari francesi in una lettera aperta al presidente Macron, cfr. «Après la Françafrique, sommes-nous condamnés à l’effacement de la France en Afrique?», Le Figaro, 7/8/2023.

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Parte I le AFRICHE in RIVOLTA

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IL GOLPE CONTRO LA FRANCIA NON SALVERÀ IL NIGER di Rahmane IDRISSA II putsch a Niamey è solo l’ultima conseguenza della destabilizzazione del Sahel iniziata con la liquidazione di Gheddafi voluta da Parigi. La (finta) democrazia del Pnds e la miopia di americani ed europei. Mosca non è una minaccia.

D

1. OPO I GOLPE DEL 1974, DEL 1996, DEL 1999 e del 2010, il 26 luglio 2023 è andato in scena il quinto colpo di Stato nella storia del Niger. Sebbene a guidarlo sia stata una giunta in uniforme, è improbabile che esso condurrà il paese verso un regime militare. Per un motivo molto semplice: i nigerini non l’accetterebbero, dal momento che hanno ereditato dalla colonizzazione francese l’idea secondo la quale il regime deve essere repubblicano. Ma il punto è un altro, così come altre sono le domande che dinnanzi a un tale evento bisognerebbe porsi. Il problema non è se il Niger sarà guidato o meno da una giunta militare. Piuttosto, è fondamentale comprendere la natura di questi colpi di Stato e capire perché avvengono con una tale frequenza. Solo così sarà possibile illuminare le radici e le prospettive del golpe attualmente in corso. Mostrando af!nità e differenze con i putsch del passato si potrà comprendere perché quello del luglio scorso ha suscitato tanto clamore. Qualcosa può già essere stabilita. I colpi di Stato precedenti sono stati unanimemente considerati affari interni al Niger. L’Unione Africana (Ua) e la Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas/Cedeao) li hanno condannati ma non hanno mai imposto sanzioni particolarmente dannose o durevoli. Gli Usa erano soliti sospendere gli aiuti allo sviluppo, ma la tolleranza della Francia e dei paesi europei compensava tale (temporanea) perdita. Questo schema, inaugurato nel 1996, si è ripetuto pressoché inalterato !no al 2010. Tuttavia il contesto internazionale del 2023 è molto diverso da quello dei golpe precedenti. Rispetto al 2010, viviamo in un altro mondo. Il Sahel, di cui prima si occupavano solo le organizzazioni umanitarie, è diventato una regione eminentemente strategica per l’Occidente, a causa di due crisi innescate dalle azioni degli occidentali, in particolare da Francia, Regno Unito e Stati Uniti: la crisi migratoria che sta colpendo l’Europa e la crisi di sicurezza che af"igge il Sahel e che nei primi

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anni Duemila si temeva potesse colpire anche il Vecchio Continente, come dimostrato dagli attacchi terroristici avvenuti in vari paesi europei e dall’espansione dello Stato Islamico in Iraq e in Siria. Questi due processi sono stati innescati dallo stesso evento: l’intervento della Nato – in realtà dei tre Stati citati – in Libia, che ha portato alla distruzione del regime del colonnello Ghedda!. In seguito a queste due crisi, che hanno destabilizzato il Sahel, gli Stati occidentali hanno tentato di applicare delle strategie di «aiuto». Tradotto: hanno imposto ai paesi della regione delle «soluzioni», senza rendersi conto che, nel Sahel, gli interventi e le interferenze degli occidentali sono visti per lo più in termini negativi. Gli africani vivono gli «aiuti» occidentali come un’imposizione. E ritengono che l’Occidente non comprenda i loro problemi. Gli occidentali oppongono che alla !n !ne gli africani ricevono pur sempre degli aiuti, anche sostanziosi. La verità è che questo dibattito, che implicherebbe una rimodulazione dei rapporti afro-occidentali, rimane teorico. Alla !ne, lo strapotere !nanziario dell’Occidente obbliga gli africani ad accettare gli «aiuti». Qualcuno, Niger in testa, li accetta per calcolo politico. Qualcun altro perché non può dire di no. La conseguenza dell’atteggiamento occidentale è stata lo sviluppo di un forte nazionalismo nel Sahel. Fenomeno che non va sottovalutato, anche soprattutto per quanto riguarda il Niger. Il nazionalismo nigerino può manifestarsi in diversi modi. Già in epoca coloniale, questo sentimento si esprimeva nella xenofobia contro i cosiddetti ao!ens, quei cittadini delle altre colonie dell’Africa occidentale francese (Aof) che a causa della scarsa istruzione dei nigerini occupavano posizioni di rilievo nell’amministrazione della colonia. Si può affermare senza timore di smentita che oggi esiste una nazione nigerina, con delle particolarità ben de!nite che la rendono diversa dalle altre comunità nazionali della regione. Il nazionalismo nigerino non è basato sul nulla: la popolazione è consapevole dell’esistenza di una «comunità immaginaria» di appartenenza, legata da vincoli sociali, culturali e politici. A livello regionale, l’intenso (ma poco ef!cace) attivismo occidentale ha provocato il contraccolpo nazionalistico e ha facilitato l’ascesa al potere delle giunte militari in Mali e in Burkina Faso. Queste, assumendo posizioni apertamente anti-occidentali, non hanno avuto dif!coltà ad avvicinarsi a Mosca, addirittura accogliendo sul proprio territorio, almeno nel caso maliano, i mercenari del Gruppo Wagner. La rilevanza geopolitica del Sahel è cresciuta ulteriormente perché è diventato anche una posta in gioco nella guerra tra Occidente e Russia. Sicché il putsch del 26 luglio non è questione meramente nigerina: si innesta ineluttabilmente in una congiuntura internazionale particolarmente tesa. I golpisti hanno deciso di gettare ulteriore benzina sul fuoco allineandosi alle posizioni di Bamako e Ouagadougou e rompendo rumorosamente gli accordi di sicurezza che legavano il Niger alla Francia. Eppure i putschisti non si aspettavano tanto clamore internazionale. Soprattutto, non si aspettavano sanzioni così dure da parte dell’Ecowas, che sotto la

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spinta del neoeletto presidente nigeriano Bola Tinubu pare intenzionato ad arginare l’epidemia di colpi di Stato che si sta espandendo nel Sahel. Allo stesso tempo, non si aspettavano che Parigi, a differenza delle altre occasioni, si mostrasse intransigente, pretendendo il ritorno allo status quo ante. Il putsch del 26 luglio si è rivelato un vero e proprio «putsch internazionale». Tuttavia, per comprenderlo !no in fondo, è necessario tenere presente che quella del putsch è una pratica particolarmente diffusa nell’arena politica nigerina. E storicamente in Niger non tutti i putsch sono venuti per nuocere. Quello del 26 luglio però potrebbe svelarsi tale. 2. In Niger un colpo di Stato non è una sorpresa ma una probabilità statistica. Il presidente Mahamadou Issoufou sostiene di averne sventati diversi durante i suoi due mandati, tra 2011 e 2021. Alla vigilia stessa del suo insediamento, nella notte fra il 30 e il 31 marzo 2021, Bazoum era sfuggito a un tentativo di putsch. Recentemente un altro tentativo è stato sventato mentre era in viaggio in Turchia. Bazoum avrebbe potuto insomma sopravvivere a questo golpe, ma ce ne sarebbe stato sicuramente un altro. È chiaro che il Niger ha un problema con il suo esercito, strutturalmente golpista. Ma questo putsch potrebbe davvero essere il «colpo di Stato di troppo». Nonostante il Niger abbia una certa familiarità con i golpe, non tutti i colpi di Stato sono uguali. Quello del 1974, ad esempio, si con!gurò come la risposta dell’esercito all’incapacità del regime monopartitico del Ppn-Rda (Nigerien Progressive Party – African Democratic Rally) di garantire lo sviluppo economico del paese. Era un putsch «di punizione», con cui veniva sanzionata l’inadeguatezza non solo del governo, ma del sistema stesso. I colpi di Stato del 1996, del 1999 e del 2010 sono stati invece diretta conseguenza dello stallo politico. Nel 1996 il golpe derivò dall’incapacità della classe dirigente di trovare un compromesso sul governo; nel 1999 e nel 2010 i militari entrarono in azione per ripristinare il corretto funzionamento democratico, minato da azioni autoritarie come la brutalizzazione del processo elettorale (1999) o della costituzione (2010). In questi tre casi, in particolare negli ultimi due, si trattò dunque di paradossali operazioni di «polizia democratica». Di fronte a capi di Stato che avevano il controllo dell’apparato statale e che quindi non potevano essere messi sotto accusa, l’esercito si rivelò l’ultima ratio populi. Per un osservatore esterno, il colpo di Stato del 26 luglio 2023 non rientra a pieno titolo né nella categoria dei putsch «punitivi» né in quella dei putsch «pro democrazia». Per un nigerino, invece, può rientrare in entrambe. I putschisti possono sostenere, come fecero nel 1974, che il regime del Pnds (Partito nigerino per la democrazia e il socialismo) ha fallito non solo sulla questione dello sviluppo nazionale, ma anche e soprattutto su quella della sicurezza. Certo, guardando le statistiche si potrebbe dire che il Niger sia più sicuro dei suoi vicini. Tuttavia i nigerini non valutano il successo delle politiche securitarie

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attraverso i dati statistici forniti dagli esperti. Si af!dano alla propria percezione. E quello che percepiscono è che, mese dopo mese, si susseguono violenze, morti e disgrazie. L’impressione non è quella di un «leggero e progressivo miglioramento» – come dicono gli esperti – ma di un fallimento. Inoltre, il problema securitario sarebbe stato meno evidente se la crisi si fosse limitata alla regione del Lago Ciad (Boko Haram). Per quanto ingiusto possa essere, una crisi lontana dalla capitale avrebbe causato molte meno preoccupazioni. Peraltro il governo di Niamey non può nemmeno essere indicato come unico colpevole della persistente crisi securitaria: essa dipende in gran parte da ciò che fanno i regimi in carica a Bamako e Ouagadougou, poiché il Mali e il Burkina Faso sono diventati gli epicentri del problema. Purtroppo entrambi i paesi sono in mano a regimi ideologici, incapaci di operare sulla base del realismo e della razionalità. Tuttavia questo non scagiona completamente Niamey. Non ci sono dubbi che le giunte di Bamako e Ouagadougou si siano costruite un mondo immaginario, in cui ogni problema viene affrontato con invettive anti-occidentali e dunque non viene risolto. Ma il regime del Pnds non ha usato meno fantasia. Dipingere il Niger come una democrazia funzionante, capace di prendere decisioni rapide basate su un effettivo consenso popolare, signi!ca infatti vivere in un universo parallelo: la «democrazia» nigerina, se esiste, di certo non funziona. Se le cose stanno così, allora questo tentativo di putsch può rientrare anche nella seconda categoria, ovvero quella un po’ paradossale dei golpe a favore della democrazia. La democrazia nigerina ha un enorme «problema Pnds». Nei primi anni Duemila, la mia analisi del sistema politico nigerino prevedeva che potesse essere stabilizzato attraverso una logica di blocchi. I partiti erano guidati da leader politici che esercitavano ciascuno la propria in"uenza su un importante feudo: Tahoua per il Pnds, Zinder per la Cds (Convenzione democratico-sociale), Tillabéri per il Mnsd (Movimento nazionale per la società dello sviluppo), Diffa e Agadez per tutti. Nessuno di questi partiti era in grado di vincere le elezioni da solo, ma se avesse formato un blocco con un altro aveva una possibilità. Inoltre, all’epoca il Niger disponeva di istituzioni credibili per la gestione delle elezioni: la Ceni (Commission électorale nationale indépendante) e la Corte costituzionale. La società civile era dinamica e organizzata. La stampa era protetta dalla persecuzione giudiziaria e poco corrotta, con un giornale – Le Républicain – che era un autorevole punto di riferimento. Qualsiasi osservatore, intorno al 2005, avrebbe detto che la democrazia nigerina era in procinto di stabilizzarsi. Il passo successivo sarebbe stato quello di moralizzare la vita pubblica, affrontando la spinosa questione della corruzione. Le ambizioni personali hanno giocato un ruolo importante nel bloccare questo processo. Nel 2006 il presidente Mamadou Tandja ha iniziato a mettere in atto un piano che gli consentisse di rimanere al potere oltre il limite costituzionale di due mandati. Il piano di Tandja, paradossalmente, rivelava la forza della democrazia nigerina dell’epoca. Per raggiungere i suoi obiettivi egli ha dovuto innanzitutto indebolire il suo stesso partito, il Mnsd, creando una corrente – detta «tandjista» – che, alleandosi con l’opposizione principale (Pnds), è riuscita a mettere in mino-

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LE POSIZIONI DEI PAESI ECOWAS

Paesi dove sono avvenuti i putsch NIGER

2023

MALI 2020 e 2021 GUINEA 2021 BURKINA F. genn. e sett. 2022 Mali, Burkina Faso e Guinea sono stati sospesi e sanzionati dall’Ecowas per non aver condannato il putsch nigerino

MA R O CCO

TUNISIA

A LG E R I A LIBIA

S a h a ra Occidentale

I 16 Paesi Ecowas (Cedeao) CAPO VERDE

MAURITANIA

MALI NIGER

CIAD

SENEGAL GAMBIA

Lago Ciad

GUINEA-B. SIERRA L.

KINA F. BUR COSTA D’AVORIO GHANA

BENIN TOGO

La Costa d’Avorio riallaccia i rapporti con la nuova giunta del Burkina Faso

GUINEA

NIGERIA

LIBERIA

Atteggiamento nei confronti del Niger dopo il golpe Intransigenti Pro sanzioni senza isolare le giunte Pragmatici Sostenitori del golpe in Niger Indi!erenti

R E P. C E N T R A F. C AM E R U N G U I N E A E Q. GABON

R E P. R E P. D E M . DEL CO N G O D E L CO N G O

ranza il primo ministro Hama Amadou, sostenuto da un’altra corrente del Mnsd, gli «hamisti». Dividendo il Mnsd, però, Tandja non aveva più i numeri per rivedere la costituzione. Il Pnds si è ovviamente ri!utato di assecondarlo e la Corte costituzionale ha respinto i suoi vari tentativi di aggirare il parlamento o di indire un referendum. Alla !ne, Tandja non ha avuto altra scelta che abolire la Corte costituzionale per decreto, con un atto di violenza istituzionale che equivale a un colpo di Stato. In breve, per distruggere la democrazia nigerina negli anni Duemila è stato necessario un colpo di Stato, certo meno visibile di un golpe militare, ma altrettanto brutale. I nigerini non sono consapevoli di ciò che hanno perso nel 2009. Sebbene ci sia stata una forte mobilitazione della popolazione contro il progetto di Tandja, il sostegno popolare che ha ricevuto è stato maggiore. Per l’ex presidente è stato più facile conquistare i cittadini che la classe politica. Tandja era un populista che ave-

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va promesso meraviglie alla gente; era anche un autoritario, dal momento che aveva assicurato di mettere alle strette la classe politica, vista come fonte di ogni corruzione. Ovviamente non ha mantenuto nessuna di queste promesse, ma il suo carisma paternalistico ha fatto breccia nel popolo nigerino, che lo aveva soprannominato «Baba Tandja» (papà Tandja). Tandja fu anche il primo a istigare il sentimento antifrancese in Niger, o almeno il primo a dargli forma politica. Nella sua strategia populista, il presidente aveva infatti bisogno di un nemico. E l’ex colonizzatore si prestava perfettamente a questo ruolo. Tandja sviluppava un astuto doppio gioco: parlava amichevolmente ai francesi, incoraggiandoli a investire nel settore dell’uranio, mentre al popolo nigerino consigliava in lingua hausa di non !darsi dei bianchi dagli occhi rotondi ma solo di quelli dagli occhi «obliqui» (i cinesi). Dopo quest’esperienza, il Niger non ha più ritrovato lo slancio democratico dei primi anni Duemila. Nel gennaio 2010 Tandja è stato rovesciato da un colpo di Stato pro democrazia e il Pnds, alleato con gli hamisti che erano riusciti a creare un partito politico, Moden Fa Loumana, ha vinto le elezioni del 2011. Per molti in Niger il risultato di queste elezioni è stato illegittimo. Fedeli alla causa di Tandja, i nigerini si sono convinti che il putsch del gennaio 2010 fosse stato solo un mezzo per trasferire il potere al Pnds e che dietro all’intera vicenda ci fossero i francesi. Questa era e rimane l’opinione maggioritaria. Si tratta, ovviamente, di un’assurdità: non ci sarebbe stato nessun golpe contro Tandja se lui stesso non avesse eseguito un colpo di Stato costituzionale. Ma rivela alcuni elementi importanti per comprendere gli psicodrammi politici del Niger. Infatti, sebbene le elezioni del 2010-2011 non siano state regolari come quelle precedenti, un blocco Pnds-Loumana, allargato anche ad altri partiti, non poteva perdere contro un Mnsd diviso. Sostenere che la vittoria del Pnds fosse dovuta esclusivamente ai brogli era semplicemente folle. Eppure la fede di buona parte dei nigerini in questa teoria del complotto è ancora oggi incrollabile. Ciò testimonia quanto forte sia nei loro cuori il rigetto della democrazia degli anni Duemila. La popolazione era (ed è) fondamentalmente d’accordo con Tandja sulla necessità di sbarazzarsi dei politici corrotti. Questa vicenda mostra chiaramente come i nigerini aspirino a un regime autoritario, ai loro occhi più ef!cace nel promuovere lo sviluppo nazionale e la lotta alla corruzione. Il presidente Issoufou ha riscosso grande successo quando, all’inizio del suo regime decennale, ha istituito un’autorità anticorruzione e introdotto un numero verde per la denuncia di questo tipo di reati. Se queste iniziative avessero avuto successo i nigerini avrebbero dimenticato la loro frustrazione. Purtroppo, con il passare degli anni, è diventato chiaro che la lotta alla corruzione riguardava soprattutto i corrotti dei partiti avversari.

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3. Dal 2010 in poi ho vissuto soprattutto fuori dal Niger, e il Niger è uno di quei paesi che si capiscono solo se ci si vive. Tuttavia, le cose che ho visto e sentito durante le mie frequenti visite mi hanno dato l’impressione, corroborata da

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alcuni fatti, che la fonte principale dei problemi risiedesse nell’ambizione del Pnds di agire da partito di dominio, non di compromesso. Il Pnds non si è fatto problemi a utilizzare tutti gli strumenti a sua disposizione per realizzare quello che i nigerini chiamano lo «schiacciamento» (degli altri partiti politici). L’arma più usata a tal !ne è stata il «nomadismo politico», ovvero la possibilità per i membri del parlamento di cambiare gruppo parlamentare. Il nomadismo politico distorce i calcoli, destabilizza i partiti e favorisce il più forte, che può utilizzarlo per sviluppare i propri piani di dominio sfruttando più facilmente le reti clientelari. Il Pnds ha seguito questa strada per mettere in piedi un sistema che gli ha conferito lo status di partito unico de facto. Anche perché l’unico partito che rappresentava una vera opposizione, Loumana, ha subìto persecuzioni tali da essere oramai insigni!cante. Il Mnsd, guidato da un capo senza ambizioni e particolarmente disposto al compromesso, è emerso come unico avversario accettabile. Il Pnds lo ha addirittura decorato con il titolo di «leader dell’opposizione», creando così una democrazia di facciata. Utilizzando gli strumenti, le armi e la retorica del sistema democratico il Pnds ha raggiunto la sua posizione di dominio. In teoria non c’è stata nessuna azione illegale, ma il risultato è stato senza dubbio antidemocratico. Tale pratica può produrre conseguenze pericolose: in primo luogo, se si impedisce di fare politica nei luoghi deputati, c’è il rischio che essa venga fatta dove non si dovrebbe, cioè nell’amministrazione e nelle Forze armate. Inoltre, il sistema dello «schiacciamento» impedisce l’emergere di un’alternativa politica. E porta nel tempo allo scollamento tra popolazione e istituzioni. Ad esempio, sebbene il passaggio del testimone da Issoufou a Bazoum sia stato descritto dalla stampa internazionale come un cambiamento, non è stato vissuto come tale in Niger, soprattutto perché Bazoum ha continuato a ripetere che stava semplicemente «sviluppando» le politiche di Issoufou. L’inattaccabilità del Pnds ha inoltre rafforzato il sentimento antifrancese nel paese, giacché la popolazione considera Parigi la longa manus nascosta dietro al golpe che, esautorando l’amato Tandja, ha portato il Pnds al governo. I leader del Pnds non hanno poi avuto l’abilità di usare un doppio registro, volto insieme a rassicurare Parigi e a sfruttare il vecchio prurito antifrancese della popolazione nigerina. Il Pnds anzi ha stretto ulteriormente i legami con la Francia nella lotta contro la violenza jihadista. Tale mossa aveva una sua razionalità, visto che il Niger, privo delle risorse necessarie, aveva bisogno di un partner potente disposto a sostenerlo. Il punto, però, è che tale atteggiamento non ha fatto altro che rafforzare la narrazione secondo cui il Pnds fosse stato portato al potere dai francesi. I partiti politici di opposizione non hanno cercato di sfruttare, almeno non sistematicamente, la diffusa ostilità nei confronti di Parigi. In particolare, il partito Loumana, senza dubbio su indicazione del suo leader, si è generalmente astenuto dal farlo. Ma il sentimento antifrancese della base del partito non poteva essere controllato. Su questa scia ha preso piede un’organizzazione della società civile, il

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Movimento 62 (M62): creato nel 2022, il suo nome fa riferimento ai 62 anni di indipendenza del paese e alla lotta contro il neocolonialismo. Questo gruppo, intriso di utopismo «progressista» (unità africana, rottura totale con l’Occidente), ha tendenze messianiche, apocalittiche e !lorusse: il M62 si augura infatti lo scoppio di una guerra mondiale che veda la distruzione dell’Occidente per mano della «Grande Russia». È per tutte queste ragioni che inizialmente Bazoum ha tentato di mostrarsi come !gura di rinnovamento, segnando una distanza con l’establishment del Pnds. Il nuovo presidente ha cercato di creare un rapporto autentico con la popolazione e si è più volte recato nelle zone colpite dalla violenza jihadista per parlare direttamente con le vittime. In generale è sembrato aperto, grazie anche a una buona squadra di comunicatori. Molti nigerini avevano deciso, in cuor loro, che Bazoum era potenzialmente un buon leader. La sua unica macchia stava nell’essere stato portato al potere dal Pnds. Insomma, il Pnds era impopolare, Bazoum meno. Oltre che della sua popolarità, Bazoum doveva preoccuparsi anche della crisi di sicurezza del Sahel. Per affrontarla era necessario avere una strategia ed essere in grado di attuarla. Il governo Bazoum aveva un piano, o quantomeno una «teoria del cambiamento». Tuttavia era incapace di fare riforme. Del resto, questo è il prezzo da pagare per mantenere in piedi il dominio del partito: per accumulare le relazioni necessarie al suo sistema di potere, il Pnds ha dovuto istituire una rete clientelare talmente strati!cata da rendere impraticabile qualsiasi riforma strutturale. Ad esempio, un alto funzionario del regime mi ha spiegato come fosse impossibile riformare le dogane perché erano in gioco troppi interessi. Eppure in una guerra che si combatte soprattutto alle frontiere le dogane dovrebbero essere uno strumento ef!ciente e !dato. Cioè non corrotto. Bisogna però riconoscere che nella crisi del Covid-19 il Pnds è stato particolarmente autorevole. Ha collaborato con le opposizioni, ha avuto il coraggio di chiudere le moschee e ha seguito le indicazioni della comunità scienti!ca nonostante la popolazione non fosse pienamente d’accordo con le restrizioni. La lotta al virus è stata interpretata dal Pnds come una guerra. Il governo ha seguito una strategia e ha cercato la collaborazione popolare e l’unità nazionale. Al contrario, la guerra contro il jihadismo non è stata mai percepita come guerra. Non evoca lo stesso senso di urgenza e non genera quell’unità d’intenti che sarebbe necessaria. In questo il Pnds ha commesso degli errori, scegliendosi gli alleati sbagliati e non comprendendo i reali sentimenti della popolazione. Ha pagato questo fallimento con il putsch del 26 luglio.

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4. Il colpo di Stato del 26 luglio sembra dunque rientrare sia nella categoria dei «putsch sanzione» (1974) sia in quella dei «putsch pro democrazia» (1999 e 2010). In realtà, mi sembra che possa rientrare anche in una nuova categoria, quella dei «putsch opportunisti». I golpisti hanno abilmente sfruttato l’epidemia di colpi di Stato che si è diffusa in tutto il Sahel. Da questo punto di vista, il putsch non è stato tanto una reazione

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a una crisi interna quanto la risposta a una situazione internazionale favorevole. Non bisogna sottovalutare l’opportunismo dei militari che, parafrasando Clausewitz, considerano il putsch una prosecuzione della politica con altri mezzi. A questo proposito, credo sia illuminante riportare un aneddoto. Lo scorso febbraio mi è capitato di incontrare un alto uf!ciale nigerino. Quel che mi ha detto mi ha davvero stupito. A giudicare dalle sue parole, sembrava che l’esercito non stesse facendo altro che progettare colpi di Stato. Non l’ha detto così, l’ha espresso in modo ancora più impressionante, come se fosse il punto di partenza delle nostre discussioni – che vertevano in realtà su come i militari potessero gestire meglio le minacce alla sicurezza. Non mi ero reso conto che le cose fossero arrivate a quel punto. Facendo qualche domanda, ho capito che tutti quei progetti erano legati all’idea che il potere civile non fosse in grado di garantire sicurezza. C’erano alcuni preoccupanti accenni a questioni ideologiche, ma la questione centrale era l’ef!cacia. Eppure, in Niger i militari di norma effettuano colpi di Stato solo di fronte a una crisi evidente che giusti!chi il putsch agli occhi della popolazione: carestia, stallo politico totale, colpo di Stato costituzionale eccetera. La situazione era certamente dif!cile, ma le trame di cui l’uf!ciale mi parlava sembravano essersi messe in moto indipendentemente dagli eventi concreti che stavano accadendo. La situazione economica non era certo delle migliori, ma non paragonabile a quella del 1974. Il Pnds era sicuramente un problema per la democrazia nigerina, ma quantomeno non ha brutalizzato la costituzione come ha fatto Tandja nel 2009. Insomma, dietro alle parole del mio interlocutore c’era qualcosa che non comprendevo e che mi incuriosiva. Perché, nonostante la situazione in Niger non fosse poi così critica, un alto uf!ciale parlava apertamente di colpo di Stato? Ho concluso che si trattava di un effetto contagio. I soldati del Niger avevano osservato che i colpi di Stato in Guinea, Mali (due!) e Burkina Faso (due!) non avevano suscitato una vera opposizione. Anzi, erano stati acclamati dalla popolazione. L’Ecowas non era riuscita a imporre sanzioni durature e dolorose. L’Occidente a guida americana, da quando la giunta maliana ha introdotto l’Orso russo nel recinto dell’Africa occidentale, teme che qualsiasi reazione forte spinga altri paesi africani tra le braccia di Mosca. Insomma, la congiuntura internazionale pareva aprire ai putschisti una !nestra d’opportunità più unica che rara. Era proprio per queste ragioni che Bazoum aveva insistito più di altri capi di Stato dell’Ecowas nel condannare i putsch e nell’applicare sanzioni ef!caci e dolorose ai paesi sotto il governo delle giunte. Bazoum aveva resistito !no all’ultimo alla revoca delle sanzioni contro il Mali non perché, come l’opinione pubblica maliana ingenuamente supponeva, «odia il Mali», ma perché la giunta del paese vicino stava fornendo idee pericolose ai militari nigerini. Purtroppo per lui, la Costa d’Avorio e il Senegal, che non si sentivano minacciati politicamente ma stavano subendo le conseguenze economiche dell’embargo, si sono ri!utati di ascoltarlo. La Nigeria era dalla sua parte, ma aveva poca in"uenza a causa dell’atteggiamento passivo del presidente Buhari.

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Gorée

Niani

HODH

Dia

Elmina

Kumasi

ASANTI

Begho

Jenne

Gao

Timbuktu

Arawan

Taoudeni

Oyo YORUBA Benin

A ïr

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Kano

Katsina

Agadez

Takedda

Sokoto

Tadmekka Kukya

Adra r d egl i Ifoghas

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Yola

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Abéché

WADDAI

Centri del commercio con l’Europa

Oro

al-Fashir

ENNEDI

al-Atrun Unianga

Produzione di sale

Oasi

Sahara

Selima

Faras

Kharga

Asyut

Il Cairo

Damasco

Sennar

Soba

Berber

La Mecca

Gondar

Aksum

Debaroa

Suakin

Aydhab Halaib

Medina

Gerusalemme

Aswan

KORDOFAN

al-Obeid

Dongola

Farafra Dakha

Siwa

J ab al al - ‘ U w ayn āt

Kufra

Augila

Wara

Masseniya BAGUIRMI

Gasga

Tib est

Zawila

Jufra

Ngazargamu

Kuka

Njimi

Bilma

KAWAR

Murzuq

Ghadamès

Tripoli

Tunisi Qayrawan

Ghat

Wargla

Biskra

al-Manī‘a

MZAB

Tamentit TUAT Reggan

GURARA

Sijilmassa

A

Fes

Tiaret

t e a n l t

Ceuta

Taghaza

Kumbi Saleh (Ghana)

Walata

Tichit

Wadan

Shinqit

Awdaghost

Guédé Saint-Louis

Awlil

Arguin

Azugi

Ijil

Nul

DRA’A

Marrakech

Salé

UN DESERTO TRAFFICATO

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5. Ho avuto contezza di tutto ciò solo alla !ne della mia conversazione con l’uf!ciale nigerino. E ne ho tratto due conclusioni: la prima era che il regime di Bazoum aveva le ore contate; la seconda che, se fosse caduto, i nigerini avrebbero seguito la stessa traiettoria dei maliani e dei burkinabé. Un possibile effetto di questa avventura sarebbe stato proprio la rottura con l’Occidente. Le conseguenze di un ritiro totale degli aiuti occidentali alla sicurezza sono impossibili da valutare con precisione. L’impressione locale è che sarebbero quasi inesistenti. È questa impressione che spiega perché l’opinione pubblica nigerina abbia accolto senza battere ciglio, e anzi con entusiasmo, lo sgombero dei francesi e degli occidentali dal Mali e dal Burkina Faso. Allo stesso modo, non bisogna sorprendersi della violenza con cui la folla ha invaso le strade di Niamey, inveendo contro l’Ecowas, l’Ua, la Francia e gli Stati Uniti. Questa rabbia non solo è perfettamente comprensibile, ma ha anche le sue giusti!cazioni, dal momento che – agli occhi dei nigerini – le elezioni del 2021 sono state le più fraudolente che si siano mai viste. E personalmente non credo abbiano tutti i torti. Non ci sono dati certi, non sono stati condotti studi. È più che altro una percezione della popolazione. Percezione che, però, viene totalmente ignorata dagli occidentali, i quali – sommersi dalla retorica del «Niger amico dell’Occidente» – non si sono minimamente resi conto di quanto stava succedendo nel paese. A questo proposito, vale la pena menzionare due importanti incontri che ho avuto in questi mesi. Il primo è stato con l’ambasciatore degli Stati Uniti a Niamey, che mi ha chiesto delle elezioni. Gli ho detto che secondo me erano state fraudolente, ma che alla !ne la gente si era rassegnata e cominciava ad apprezzare Bazoum. Non mi ha creduto. Tuttavia, non avendo argomenti da sottopormi, mi ha raccontato la sua esperienza personale, in particolare le sue visite ai seggi elettorali. Mi è sinceramente dispiaciuto per lui, perché ho avuto la netta impressione che fosse stato ingannato. Dopo un po’, però, sono riuscito a convincerlo. Gli ho fatto notare che normalmente, in un paese davvero democratico, un partito che governa male per dieci anni di seguito tende a non vincere le elezioni. Gli ho poi spiegato che in Niger tutti i candidati, sia della maggioranza sia dell’opposizione, mettono in campo tecniche di frode, ma chi è al potere ha molte più risorse degli altri. Quando ha sentito queste parole, il suo volto si è illuminato. Aveva capito. L’altro incontro è stato con un alto funzionario dell’Ue con cui sono stato invitato a scambiare opinioni all’Aia. Non posso fare il suo nome né indicare la sua posizione. Ho cercato di spiegargli che la democrazia nigerina era in pessime condizioni e che, se l’Ue voleva conquistare il cuore della popolazione, doveva sviluppare una strategia per aiutare l’opposizione. Sono riuscito solo a metterlo sulla difensiva. Si è trasformato in un veemente sostenitore di Issoufou e Bazoum. Era chiaramente sincero, ma molto meno disposto ad ascoltarmi rispetto all’ambasciatore americano: forse sospettava che fossi un oppositore del presidente. Cito questi incontri proprio per sottolineare lo scollamento che esiste tra i rappresentanti dei paesi occidentali e il sentire comune in Niger, scollamento di cui

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sono stato personalmente testimone e che non ha permesso all’Occidente di prevedere il putsch.

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6. Il golpe a Niamey è stato «il putsch di troppo». Con questa espressione intendo dire che quello del 26 luglio è stato il golpe che, agli occhi dei paesi del Sahel, ha cambiato la realtà delle cose. Prima dei fatti di Niamey i colpi di Stato avvenuti a Bamako e Ouagadougou potevano essere considerati come dei putsch accidentali e non particolarmente fortunati. Buona parte del Mali è al momento in mano a gruppi non statali (jihadisti e irredentisti tuareg) e la popolazione sta manifestando massicciamente contro il regime. In Burkina Faso, il primo putschista (Paul-Henri Sandaogo Damiba) aveva cercato di scendere a patti con l’Ecowas. Ma è stato rapidamente smascherato come sostenitore del vecchio regime, cosa che ha indignato la popolazione. Il secondo putsch, necessario per liberarsi di Damiba, era dunque atteso. Quei colpi di Stato erano considerati questioni accessorie, come se si trattasse di anomalie prive di ripercussioni nel resto della regione. In Niger, però, le autorità avevano (giustamente) fatto un’analisi diversa e avevano percepito il pericolo. Purtroppo, gli altri capi di Stato dell’Ecowas non erano convinti che i putsch avrebbero avuto conseguenze reali. Il togolese Gnassingbé, ad esempio, ha fatto di tutto per normalizzarli. Addirittura, ha aiutato la giunta di Bamako a elaborare una strategia per vani!care gli sforzi dei falchi dell’Ecowas. Per quanto riguarda il Burkina Faso, il presidente ivoriano Ouattara ha cercato di normalizzare il golpe ristabilendo gradualmente i legami con la giunta, elaborando un’«agenda pragmatica» poco credibile vista l’atmosfera intensamente ideologica che si era creata intorno al capitano Traoré a Ouagadougou. Ecco, dopo il golpe del 26 luglio atteggiamenti simili non saranno più tollerati. Il putsch di Niamey ha infatti rivelato che gli sforzi per normalizzare le giunte saheliane comportano il rischio di normalizzare la pratica del colpo di Stato tout court, e non solo le giunte che sono andate al potere. L’ultimo golpe nigerino segnala chiaramente ai paesi dell’Ecowas che il Sahel ha un enorme problema con i colpi di Stato: ignorare o normalizzare i putsch non è più possibile, perché questi tendono a espandersi a macchia d’olio, considerando anche che l’Africa occidentale, storicamente, è la regione con il maggior numero di colpi di Stato al mondo. Certo, nessuno osa immaginare un colpo di Stato a Dakar, ma si pensava anche che il Titanic non potesse affondare. Inoltre, se il virus del golpe circola più facilmente nella parte francofona della regione, spinto in parte dalla narrazione secondo cui i putsch servirebbero a liberare il popolo dalla tutela neocoloniale di Parigi, c’è da temere che questa epidemia possa in!ltrarsi anche nella parte anglofona della regione. Il problema è che il putsch del 26 luglio ha coinciso con una fase particolarmente convulsa in Africa occidentale. I nigerini possono affermare che si tratta di affari loro e che gli altri non debbono immischiarsi, ma i loro affari sono anche affari di tutti gli altri. Il fatto è che l’Africa occidentale è davvero una regione, a

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differenza, per esempio, dell’Africa centrale o dell’Africa orientale. Gli interessi regionali sono strettamente intrecciati e le persone si spostano molto, il che spiega anche perché il jihadismo è una minaccia per tutti. Tutto ciò rende ancora più dif!cile trovare una via d’uscita dalla crisi. A questo riguardo, l’atteggiamento di Francia e Stati Uniti, che insistono per il completo reintegro di Bazoum, costituisce un ulteriore elemento di dif!coltà. Gli occidentali devono capire che tale soluzione è politicamente inconcepibile, soprattutto se dovesse ripristinare anche la presa del Pnds. La realtà è davvero cambiata. Certo con la forza, ma la forza non può riportarla indietro. La soluzione ideale sarebbe il ritorno alla tradizione nigerina, nella quale il putsch è parte della reinvenzione e del rinnovamento del processo politico. Il Pnds non sarebbe escluso da tale processo. Anzi, sarebbe preso in considerazione a pieno titolo. Dubito che la giunta di Niamey possa ri!utare un accordo che preveda la revoca delle sanzioni in cambio dell’attivazione di un processo politico di questo tipo. Tuttavia bisogna fare i conti con l’ossessione dell’Occidente per Mosca. Nonostante la russo!lia degli ideologi nazionalisti, gli occidentali devono capire che la Russia non è un fattore importante nell’equazione del Niger. Le visite dell’attuale ministro della Difesa Salifou Modi a Bamako non devono dare questa impressione, perché erano volte a creare le condizioni per un accordo di sicurezza collettiva con il Mali (e successivamente con il Burkina Faso). Non c’era (e non c’è) alcuna intenzione di portare il Gruppo Wagner in Niger. La prova di quanto dico sta nel fatto che Modi stava già lavorando a questo progetto all’epoca di Bazoum. Le sue visite a Bamako non signi!cano necessariamente che egli sia stato un piani!catore del putsch. È troppo presto per stabilire esattamente come sia avvenuto il golpe, ma il fatto è che ha creato opportunità che prima non esistevano. Idealmente, dovremmo cercare di sfruttarle in modo razionale, innanzitutto abbassando la tensione. Non solo a Niamey e ad Abuja, ma anche a Parigi e a Washington. È tipico dell’Occidente trattare i problemi degli altri come se fossero i propri. Tuttavia, esattamente per queste ragioni, gli occidentali devono capire che i precedenti tentativi di colpo di Stato erano solo la punta dell’iceberg. Se l’Occidente considera il Niger un suo problema, allora deve innanzitutto rendersi conto che le cause profonde del golpe del 26 luglio risiedono nell’aggravarsi della questione securitaria. Tema su cui gli occidentali non sono esenti da colpe e responsabilità. Non a caso, lo stesso uf!ciale militare nigerino di cui ho parlato in precedenza mi ha riferito che il pomo della discordia tra il Pnds e l’esercito era proprio la politica di sicurezza, strettamente legata al rapporto con l’Occidente. Sotto Issoufou il Niger si è infatti opposto, nel 2011, all’intervento della Nato in Libia, prevedendo che la destituzione di Ghedda! avrebbe distrutto il paese e scatenato una crisi migratoria e securitaria nella regione. A giochi fatti, però, Issoufou ha dovuto chiedere l’aiuto dell’Occidente proprio per contenere le conseguenze delle operazioni Nato.

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Issoufou e il suo partito non potevano fare diversamente. Il Pnds, infatti, era appena salito al potere, e aveva programmato massicci investimenti per la sanità, l’istruzione e la pubblica amministrazione. Per portare a termine questo programma era necessario ridurre al minimo le spese per la sicurezza, ma af!nché fosse possibile qualcun altro avrebbe dovuto contribuire a sostenerne i costi. Ciò ha portato a uno scollamento tra militari e Pnds, segnalato dai diversi colpi di Stato che Issoufou e Bazoum hanno dovuto sventare. Il più grave errore del Pnds è stato scommettere che l’Occidente avrebbe sradicato la presenza jihadista. Se questa scommessa fosse stata vinta, oggi il partito sarebbe ancora al potere. L’Occidente, però, non solo non è riuscito a farlo, ma è diventato un ostacolo alla sicurezza dopo che i putsch in Mali e in Burkina Faso hanno portato al potere giunte che hanno scelto di non af!darsi agli Stati Uniti o alla Francia. Prima di questi sviluppi, Ciad, Mauritania, Niger, Mali e Burkina Faso stavano dando impulso al G5 Sahel: un apparato di sicurezza collettiva che avrebbe abbracciato l’intera regione. Il Mali e il Burkina Faso, guidati dalle giunte, sono usciti da questo programma nel 2022 e hanno fatto sapere a Niamey che !nché avesse collaborato con i francesi nessun coordinamento in ambito securitario sarebbe stato possibile. La posizione di Mali e Burkina Faso ha messo alle strette il Pnds che, non potendo recidere i rapporti con la Francia e con l’Occidente, non ha potuto affrontare quei problemi securitari che richiedono uno stretto coordinamento con i suoi vicini. La conseguenza è stata un’ulteriore perdita di credibilità del Pnds agli occhi della popolazione, che i militari sono riusciti a sfruttare abilmente. Non è stato dif!cile far passare il messaggio secondo cui la collaborazione con le giunte di Bamako e Ouagadougou sarebbe stata più ef!cace di quella con Parigi, peraltro responsabile – insieme a Usa e Regno Unito – della già compromessa situazione regionale. Per il Pnds era scacco matto. In una prima fase, Bazoum ha cercato di affrontare tali problemi. All’inizio di quest’anno il ministro della Difesa Salifou Modi è stato inviato a Bamako per negoziare misure di sicurezza collettiva. È possibile che Bazoum possa aver notato qualcosa di strano, dato che il ministro è stato rimosso ad aprile. Ma nemmeno quest’ultima disperata manovra è riuscita a salvare il presidente in carica. Troppo tardi. Il golpe del 26 luglio ha scardinato il dominio del Pnds. Di per sé, non una cattiva notizia. Come non è una cattiva notizia il fatto che i putschisti abbiano contestato la politica di sicurezza del precedente regime, il quale – senza dubbio – aveva commesso l’errore di af!darsi eccessivamente all’Occidente, che con la destituzione di Ghedda! aveva innescato la crisi securitaria che ancora oggi tormenta il Sahel e il Niger. In questo senso, il colpo di Stato potrebbe essere seguito, come in passato, dal riavvio del processo democratico e dal ripensamento della politica di sicurezza. Ma questa volta la strada pare davvero accidentata. Intanto, non sembra che alla giunta di Niamey interessi particolarmente la democrazia. Guidati dalle stesse ideologie al

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potere in Mali e in Burkina Faso, i putschisti sono al momento impegnati a consolidare il loro dominio, mantenendo l’intransigenza. Certo, la democrazia potrebbe essere ripristinata attraverso le pressioni dell’Ecowas, ma la Nigeria – cardine dell’organizzazione – ha assunto un atteggiamento severo nei confronti dei golpisti, minacciando l’intervento militare e preparando sanzioni particolarmente dure per i nigerini, come l’interruzione della fornitura elettrica. Insomma, il golpe del 26 luglio è oramai considerato il «putsch di troppo»: la tolleranza sarà prossima allo zero. La conseguenza è l’aumento della tensione. I golpisti nigerini hanno reagito con sdegno alle sanzioni dell’Ecowas e alle dichiarazioni nigeriane, ritirando gli ambasciatori. Qualora la tensione dovesse protrarsi, il risultato potrebbe essere il taglio dei !nanziamenti europei per la sicurezza e lo sviluppo (se non, addirittura, degli aiuti umanitari). A soffrire sarà dunque la popolazione del Niger, la quale – già provata da decenni di sottosviluppo e di lotta al jihadismo – vivrà quest’ennesima disgrazia come un’altra calamità tra le tante. Ammesso e non concesso che la maionese domestica non impazzisca de!nitivamente. 7. In Niger tutti guardano a sud, cercando di scrutare le reazioni dell’Ecowas e della Nigeria. In Occidente, tutti guardano a est, preoccupati dalla Russia e dal possibile intervento del Gruppo Wagner. Ma il putsch crea anche enormi problemi interni al Niger. Per quanto riguarda la sicurezza, il regime di Bazoum aveva una strategia. Essa consisteva nel tessere relazioni con i miliziani del Nord del Mali, sia jihadisti sia irredentisti. L’obiettivo era stringere rapporti con i miliziani maggiormente inclini al compromesso (in particolare i tuareg) per isolare gli intransigenti e rendere così più sicura la frontiera. Non facile, anche perché la giunta di Bamako non voleva essere coinvolta, sebbene la maggior parte dei negoziati riguardasse forze basate sul territorio maliano. Non so quanto questo approccio avrebbe potuto essere ef!cace nel lungo periodo, ma stava senza dubbio ottenendo risultati che adesso sono inevitabilmente messi in discussione. Inoltre, per portare a termine con successo l’operazione il regime aveva fatto af!damento sulle comunità del Nord del Niger, i cui interessi erano quindi presi in considerazione più che in passato. Ciò ha causato il risentimento delle comunità del Sud-Ovest nigerino, forse tollerabile in nome di un obiettivo di più ampia portata. Dopo il 26 luglio, la situazione rischia di !nire fuori controllo. Interrompere le operazioni nel Nord del Mali, infatti, potrebbe innescare un effetto domino in grado di generare ulteriore instabilità anche nel Nord del Niger. La giunta di Niamey, che sembra volersi allineare a Bamako, non sembra in grado di gestire tale scenario, soprattutto se allo stesso tempo dovrà affrontare le sanzioni e i dif!cili negoziati con l’Ecowas. Inoltre, qualora le operazioni nel Nord del Mali dovessero fermarsi, la giunta dovrebbe non solo garantire la sicurezza delle aree settentrionali del Niger, ma anche concentrare i suoi sforzi economici nelle regioni del Sud, ignorate da Bazoum per favorire le comunità del Nord, fondamentali per la riuscita di quell’o-

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perazione militare che rischia di bloccarsi. La coperta è corta: in gioco non c’è solo la collocazione internazionale del Niger, ma la sua stessa tenuta interna. In conclusione, rimango profondamente convinto del fatto che solo una democrazia funzionante possa gestire tutte queste s!de, perché è l’unico sistema in grado di garantire la trasparenza e la coesione necessarie per affrontare le minacce che permeano il Sahel. Se il Niger ha intenzione di seguire gli esempi del Mali e del Burkina Faso, allora – anche data la debolezza dell’Ecowas – l’attuale crisi può trasformarsi in minaccia esistenziale. Spero veramente di essere soltanto un uccello del malaugurio. (traduzione di Giuseppe De Ruvo)

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QUEL CHE NOI FRANCESI NON ABBIAMO VOLUTO CAPIRE Dal Mali al Niger, l’ingerenza di Parigi non è più tollerata. Pesano i trascorsi coloniali e i loro odiosi strascichi. Ma anche gli errori recenti, militari e politici. Tra recriminazioni, fake news e teorie del complotto, l’immagine della Francia è ai minimi. Macron non ci sente. di

Lamine SAVANÉ

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1. A DESTITUZIONE DEL PRESIDENTE NIGERINO Mohamed Bazoum da parte del generale Abdourahamane Tchiani è il quinto colpo di Stato nel Sahel. Senza entrare nel merito delle loro cause endogene, questi putsch sono accomunati – a eccezione di quello in Guinea – dall’appello alla !ne della presenza militare francese. L’anticolonialismo è una risorsa politica che i regimi africani in dif!coltà mobilitano, vedi Laurent Gbagbo in Costa d’Avorio e Robert Mugabe in Zimbabwe. Ma una forte avversione alla politica francese dilaga oggi nell’intera Africa occidentale e non va ignorato. Non si tratta di un generico «sentimento antifrancese» per il semplice motivo che è l’Esagono, nello speci!co la sua politica estera in Africa, a essere criticato. I cittadini francesi presi talvolta di mira dalla folla nel Sahel sono perlopiù giornalisti o gendarmi d’ambasciata nell’esercizio delle loro funzioni. Non si tratta, quindi, di attacchi sistemici contro la popolazione francese. Il proliferare di atteggiamenti ostili alla Francia va letto alla luce del suo passato imperialista. Secondo Olivier de Sardan, l’ex madrepatria ha lasciato incompiuto il lavoro di memoria necessario a superare l’esperienza coloniale e post-coloniale. Inoltre, l’insofferenza delle popolazioni saheliane è portata all’estremo dalla creazione e diffusione ad hoc di notizie false contro la Francia. La contestazione della politica francese è infatti fattore di mobilitazione interna. In tal senso, l’archetipo è il «coup nel coup» del 24 maggio 2021 in Mali, descritto dai sostenitori della svolta come «retti!ca della transizione». Il golpe ha determinato una rottura totale con gli ex alleati occidentali, Francia in testa. Sono seguiti i due colpi di Stato in Burkina Faso (gennaio e settembre 2022) e il più recente in Niger. L’astio delle popolazioni saheliane è testimoniato dalle violente manifestazioni antifrancesi: il tricolore viene bruciato per le strade del Burkina Faso, del Mali e (da ultimo) del Niger. Le ragioni storiche di questa ostilità riposano su fatti concreti e

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veri!cabili, che affondano le radici nella Françafrique, complessa rete di relazioni postcoloniali – per non dire neocoloniali. Cause più recenti sono rinvenibili nella strumentalizzazione dei rapporti con la Francia da parte dei regimi al potere, spintasi !no al complottismo.

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2. La prima causa del deterioramento dell’immagine della Francia risale al periodo coloniale. Anzitutto, alla violenza della conquista: chi resisteva alla penetrazione francese in Africa veniva ucciso o deportato. È così che sono stati distrutti i regni toucouleurs di Ségou e Kénédougou nel Sikasso dai coloni francesi dell’ex Sudan occidentale (oggi Mali). El-Hadj Samory Touré, imperatore del regno di Wassoulou – che si estendeva tra Costa d’Avorio, Mali e Guinea – fu arrestato e deportato in Gabon, dove morì. Il potere coloniale ha espresso la sua natura intrinsecamente arbitraria istituendo il regime dell’indigénat, il lavoro forzato e l’espropriazione delle terre. In seguito le colonie d’Africa hanno ampiamente partecipato alle due guerre mondiali, durante le quali gli africani sono stati utilizzati come carne da cannone. D’altro canto, il contributo dei «tiratori senegalesi» (tirailleurs) sarà decisivo nella stagione delle indipendenze. Gli anni successivi alla decolonizzazione hanno visto l’inizio del periodo di collaborazione noto come Françafrique, il cui architetto è stato Jacques Foccart, segretario generale dell’Eliseo per gli Affari africani e malgasci (1960-73) durante le presidenze di de Gaulle e Pompidou. Sotto l’egida del generale, l’obiettivo era garantire che la Francia continuasse a bene!ciare di materie prime a prezzi bassissimi per il funzionamento delle sue imprese. Questo !ne giusti!cava ogni mezzo. Attraverso le «reti Foccart», lo Stato francese fu coinvolto nell’organizzazione dei golpe che misero !ne ai regimi dei padri dell’indipendenza, come Modibo Keïta in Mali e Sylvanus Olympio in Togo. I leader indipendentisti furono rimpiazzati (rispettivamente) da Moussa Traoré e Gnassingbé Eyadéma, sottuf!ciali dell’Esercito coloniale francese. Nell’Africa francofona è il periodo delle dittature militari e dei partiti unici, alleati strategici per la Francia nel contesto della guerra fredda. La combinazione di affarismo e corruzione su cui si imperniano queste dittature, così come gli interventi militari a salvaguardia dei regimi autoritari – ad esempio, quelli di Léon M’ba in Gabon e di Idriss Déby in Ciad – sono stati deleteri per l’immagine della Francia in Africa. Sebbene le nuove generazioni non abbiano vissuto direttamente l’autoritarismo e i suoi drammatici risvolti, il risentimento verso la Françafrique è molto forte. Anche perché nell’immaginario collettivo saheliano quell’epoca coincide con il saccheggio delle risorse naturali africane. Per molti l’insistenza della Francia a restare oggi in Niger si spiega con il desiderio di mantenere il controllo sull’uranio, essenziale per Orano (prima Areva), una delle più grandi multinazionali francesi. Ironia della sorte: le stesse giunte militari a cui la Francia ha consegnato il potere una decina di anni fa oggi pretendono la !ne della presenza militare francese. Inoltre, il trattamento riservato agli ex combattenti della seconda guerra mondiale e delle guerre coloniali in Indocina e in Algeria ha profondamente indignato

AFRICA CONTRO OCCIDENTE

le popolazioni africane. Le loro pensioni, già irrisorie se paragonate a quelle dei «francesi metropolitani», sono state bloccate dallo Stato francese. Il massacro di Thiaroye in Senegal è un episodio ancora fresco nella memoria collettiva: in un campo militare alla periferia di Dakar, il 1° dicembre 1944 le truppe coloniali e alcuni gendarmi francesi sparano sui tirailleurs senegalesi. Questa fanteria, composta per la maggior parte da ex prigionieri di guerra rimpatriati alla !ne del secondo con"itto mondiale, manifestava per ottenere il pagamento di quanto promesso. Le fonti francesi parlano di decine di morti, gli archivi senegalesi ne riportano centinaia. Di fatto, la ricompensa per gli africani pronti a dare la vita per liberare la Francia dal giogo nazista è stata la morte per mano francese. 3. Anche gli interventi militari nel Continente Nero hanno infangato il nome di Parigi. All’origine della crisi maliana vi è il coinvolgimento della Nato in Libia, da dove molti combattenti tuareg sono tornati pesantemente armati. L’impegno militare della Francia e dei suoi alleati atlantici è stato percepito come un’ingerenza neocolonialista. Inoltre, la distruzione dello Stato libico ha spianato la strada a gruppi terroristici quali al-Qå‘øda e Stato Islamico. L’omicidio di Muammar Ghedda! a opera dei ribelli sostenuti da Francia e Nato ha persuaso l’opinione pubblica africana che la Francia si opponeva a qualsiasi sviluppo dell’Africa. Senza fare gli avvocati del diavolo bisogna notare che Muammar Ghedda!, pur avendo concentrato le ricchezze libiche nelle mani della sua famiglia, godeva di ottima reputazione quanto a difesa dell’«orgoglio africano». Il suo omicidio è stato interpretato come volontà occidentale di porre !ne al progetto che più gli stava a cuore: l’Unione Africana. Tra i fondatori dell’organizzazione, Ghedda! ambiva a ottenerne la guida. Allo stesso modo, il franco Cfa (Colonie francesi d’Africa), la cui sigla presenta ancora le stimmate della colonizzazione, ha alimentato il risentimento verso la politica francese. Ciò che i giovani saheliani denunciano è il «complesso di superiorità» delle élite politiche francesi verso le controparti africane, ormai inaccettabile. Questa verticalità nelle relazioni franco-africane si è manifestata spesso: la svalutazione arbitraria del franco Cfa da parte del governo Balladur, senza alcuna consultazione con i partner africani; il discorso a Dakar in cui Nicolas Sarkozy affermava che «l’uomo africano non è entrato abbastanza nella storia»; la battuta con cui Emmanuel Macron dice al presidente burkinabé Roch Marc Kaboré, !gura importante nel panorama africano, di andare a riparare l’aria condizionata. Tutti episodi che hanno in!ammato l’opinione pubblica in Africa. In questo quadro, l’annuncio di Macron della sostituzione del franco Cfa con l’Eco – in realtà un’iniziativa dei capi di Stato africani – è stato interpretato come l’ennesimo tentativo di Parigi di mantenere un saldo controllo economico su questi paesi. A peggiorare la situazione è sopraggiunta la convocazione dei presidenti della regione al cospetto di Macron, che ha loro intimato di dichiarare se volevano che la Francia restasse o meno nel Sahel. Errori di comunicazione politica con pessimi risvolti nel continente africano.

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QUEL CHE NOI FRANCESI NON ABBIAMO VOLUTO CAPIRE

Il seme della discordia tra Mali e Francia è stato piantato nella crisi del Sahel con il ri!uto francese alla penetrazione dell’esercito maliano a Kidal. Dopo l’avvio dell’Operazione Serval nel 2013 e la liberazione di Gao e Timbuktu a opera congiunta delle truppe francesi e maliane, Parigi ha bloccato le truppe amiche ad Anne!s. La giusti!cazione addotta all’epoca era il timore che l’esercito maliano, umiliato qualche mese prima, si vendicasse contro i tuareg nella città di Kidal, roccaforte delle ribellioni berbere dal 1963. Sebbene l’Operazione Serval fosse stata inizialmente ben accolta, soprattutto per aver fermato la probabile avanzata dei jihadisti verso sud, l’ostruzionismo francese è stato vissuto come sostegno implicito alle rivendicazioni indipendentiste dei tuareg. L’incidente ha segnato l’inizio delle divergenze con i maliani. Da quel momento l’intervento militare francese, nella nuova forma dell’Operazione Barkhane, è diventato problematico agli occhi dell’opinione pubblica saheliana.

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4. La storia qui ripercorsa spiega in parte la dif!denza dell’opinione pubblica verso la presenza francese nel Sahel. Oggi questi sospetti sono suffragati da teorie del complotto che contribuiscono a svilire l’immagine della Francia nella regione. Sfortunatamente per l’Eliseo, queste teorie si basano su fatti dif!cilmente contestabili. Tuttavia, il peggioramento della posizione francese nel Sahel negli ultimi anni deve molto alle fake news. Un esempio di gran risonanza: immagini di soldati francesi con motociclette da distribuire all’esercito maliano sono state contraffatte in modo che tali mezzi sembrassero destinati ai jihadisti. Al di là del grottesco fotomontaggio, conviene interrogarsi sul motivo per cui queste dicerie hanno forte eco presso la popolazione saheliana. La valutazione impietosa del fallimento dell’Operazione Barkhane ampli!ca l’impatto delle fake news. Agli occhi dell’opinione pubblica del Mali e di tutto il Sahel, risulta ancora impossibile comprendere come, nonostante i suoi potenti mezzi, l’esercito francese non sia stato in grado di arginare i terroristi. Dal 2013 al 2022, la minaccia terrorista si è estesa da nord a sud e le regioni di Ségou e Mopti sono divenute roccaforti del Fronte di liberazione del Massina (Flm, o Katibat Macina). L’espansione jihadista non può attribuirsi esclusivamente a Parigi, avendo lo Stato maliano altrettante colpe; ma ciò non impedisce a questa narrazione di alimentare bufale, secondo cui la lotta al terrorismo era per l’Esagono solo un pretesto per impossessarsi delle risorse naturali del Mali. Dunque, ci sarebbe stato un accordo implicito tra l’esercito francese e i jihadisti per destabilizzare la regione e giusti!care così l’intervento militare. Si è parlato persino di armi consegnate per via aerea ai terroristi. Questa convinzione è largamente diffusa non solo tra le popolazioni dell’Africa occidentale, ma anche da gran parte degli eserciti saheliani. I soldati del Mali hanno addotto come prova il fatto che i francesi non abbiano mai voluto accamparsi per la notte accanto a loro. Nonostante i pattugliamenti congiunti, il campo francese si trovava a chilometri di distanza da quello maliano. Il dubbio di una «relazione pericolosa» con i jihadisti si è instillato perché mentre l’accampamento

AFRICA CONTRO OCCIDENTE

maliano ha subìto numerosi attacchi, quello francese è stato risparmiato dai terroristi. Inoltre i rinforzi hanno tardato ad arrivare, !nendo per convincere gran parte dei soldati che la Francia facesse il doppio gioco. Non esiste alcuna prova tangibile a sostegno di queste affermazioni, ma resta il fatto che sono fortemente radicate nell’inconscio collettivo del Sahel. Oggi le fake news si diffondono a velocità esponenziali attraverso Internet e i social network. La massiccia diffusione dei telefoni cellulari in Africa permette anche agli analfabeti di partecipare al dibattito politico, attraverso la messagistica vocale di WhatsApp. L’applicazione svolge un ruolo pivotale nella circolazione delle informazioni: contenuti video, foto e audio contribuiscono alla validazione di queste bufale. Non bisogna però sottovalutare il ruolo svolto dai nuovi «imprenditori della politica» nella diffusione delle falsità. Figure politiche di spicco che non si fanno scrupoli a strumentalizzare false informazioni nella guerra mediatica contro la Francia. L’icona della mobilitazione antifrancese Adama Diarra, noto in Mali come Ben le cerveau, rientra nella categoria. Il movimento sociale di cui è leader, Yérèwolo debout sur les remparts, è l’ala attivista del governo di transizione. Come mi ha raccontato lui stesso, Diarra e il suo gruppo avallano la disinformazione in Mali: «Chi è che non fa propaganda per legittimare e consolidare il suo potere? Propaganda o meno, abbiamo il dovere di risvegliare la coscienza dei maliani sulle macchinazioni propagandistiche della Francia e dei suoi sottoprefetti ai nostri con!ni (allusione al presidente ivoriano e al presidente senegalese, n.d.a.). I giovani hanno deciso di prendere in mano il loro destino panafricano e patriottico e noi ce ne facciamo carico attraverso la comunicazione con il popolo». L’avversione alla politica francese ha cause molteplici. Lo status di ex potenza coloniale pesa enormemente e negativamente sull’immagine della Francia. Ma l’Esagono paga soprattutto il prezzo delle sue incoerenze in politica estera. Il paternalismo francese è capace di appoggiare il colpo di Stato di Deby !glio contro Deby padre in Ciad e di condannare i putsch in Mali e in Burkina Faso. L’atteggiamento di altezzosa benevolenza della Francia verso le ex colonie resta l’elemento più problematico. Parigi trarrebbe grande bene!cio da una maggiore discrezione nel Sahel. Più è visibile, più accende il sentimento di ostilità nei suoi confronti. (traduzione di Marcella Mazio)

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AFRICA CONTRO OCCIDENTE

LA FRANÇAFRIQUE È MORTA A NIAMEY

di

Leslie VARENNE

Il golpe del 26 luglio, di cui i francesi sono i principali responsabili, spazza via la retorica occidentale sulla ‘democrazia’ in Niger. La popolazione acclama i putschisti perché stanca della corruzione e della mancanza di alternative al Pnds dell’ex presidente Bazoum.

S

ECONDO GLI OCCIDENTALI, PRIMA DEL

golpe di luglio il Niger era una sorta di Eldorado. Francia, Stati Uniti, Italia, Germania e Unione Europea non facevano altro che decantare le magni!che e progressive sorti del paese, fulgido esempio di democrazia e buon governo. Il colpo di Stato del 26 luglio 2023, appoggiato da gran parte della popolazione, ha !nalmente spazzato via questa narrazione. La responsabilità del golpe è soprattutto della Francia. L’ex colonizzatore, infatti, ha continuato nella sua politica arrogante, le cui conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. La strategia africana di Emmanuel Macron, dunque, può e deve essere messa in discussione. Tuttavia, gli altri partner di Niamey – in particolare l’Ue, che prevede di lanciare un’operazione civile-militare nel Golfo di Guinea a partire dal prossimo autunno – non possono nascondersi dietro il fallimento di Parigi. È tutto l’Occidente a doversi interrogare sui propri errori. Il colpo di Stato del 26 luglio, infatti, è la logica conseguenza della crisi innescata dalle fraudolente elezioni del febbraio 2021, attraverso le quali Mahamadou Issoufou ha trasferito il potere a Mohamed Bazoum. Già alla vigilia dell’insediamento del nuovo presidente si era veri!cato un primo tentativo di golpe, motivato dalla volontà di fermare una transizione che agli occhi dei nigerini era tutto tranne che democratica. I responsabili furono però prontamente arrestati e condannati. Alcuni vennero lasciati morire in carcere. Sebbene le proteste si siano col tempo placate, i risultati delle elezioni non sono mai stati accettati dalla popolazione, obbligata a sopportare in silenzio. È per questo che il putsch di luglio ha riscosso tanto successo. I nigerini non aspettavano altro che un’occasione per liberarsi del sistema clientelare creato dal Pnds (Partito nigerino per la democrazia e il socialismo), al potere dal 2011.

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LA FRANÇAFRIQUE È MORTA A NIAMEY

Agli occhi della popolazione, il colpo di Stato rappresentava dunque una possibilità di cambiamento. È per questo che il Consiglio nazionale per la salvaguardia della patria (Cnsp) gode di tanto sostegno popolare. I putschisti sono riusciti a scardinare un sistema predatorio e corrotto che i nigerini mal sopportavano.

Quel che l’Occidente non ha voluto vedere

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In Niger vi è una forte presenza militare occidentale. Nel 2013 è arrivato un contingente di truppe americane, le quali hanno impiantato nel paese diverse basi. In particolare, ad Agadez vi è una delle più grandi basi di droni del continente. Le Forze armate francesi, invece, sono entrate nel paese l’anno successivo, a seguito dell’Operazione Barkhane. I soldati tedeschi sono arrivati nel 2017, gli italiani nel 2018. La cooperazione militare con l’Unione Europea è più recente, dal momento che ha avuto inizio uf!cialmente solo nel febbraio 2023. Tuttavia, sebbene i partner occidentali siano presenti da anni sul territorio nigerino, nessuno di questi si è mai posto il problema della regolarità delle elezioni del 2021. Anzi, le hanno elogiate. Emmanuel Macron ha sottolineato come il Niger fosse un «esempio di democrazia». Similmente, Josep Borrell, alto rappresentante dell’Ue per la Politica estera, ha dichiarato: «Il popolo nigerino (…) ha portato a termine un processo democratico storico che costituisce un passo decisivo nel consolidamento della democrazia». Queste affermazioni hanno esasperato la popolazione, oramai consapevole che la candidatura di Hama Amadou, il principale oppositore, non aveva alcuna speranza. La società civile era frustrata: le dichiarazioni dei leader europei sancivano l’impossibilità di un Niger senza Pnds. Come si poteva ribaltare un regime che godeva di un sostegno internazionale così forte? Non sto sostenendo che gli occidentali abbiano causato il colpo di Stato. Tuttavia ritengo che essi abbiano creato le condizioni per la sua legittimazione popolare. Del resto, se le elezioni non offrono alcuna reale speranza di cambiamento, a cosa può af!darsi la popolazione? Inoltre, riempiendosi la bocca con la retorica del «Niger esempio di democrazia», gli occidentali si sono privati degli strumenti critici necessari per prevedere il golpe. Per loro il Niger era semplicemente il migliore dei mondi possibili. Tale narrazione era talmente potente che, nonostante le strette relazioni con le Forze armate nigerine, nessun paese occidentale è riuscito a prevedere un colpo di Stato portato avanti proprio dai militari! Emmanuel Macron si è scagliato apertamente contro i suoi servizi di sicurezza per non aver dato alcun allarme. Si tratta semplicemente di un diversivo per evitare di assumersi le proprie responsabilità: gli avvertimenti c’erano stati, ma il presidente ha scelto di non ascoltarli. Francesi e americani hanno dato la colpa ai loro servizi d’intelligence. Addirittura, un alto funzionario del dipartimento di Stato ha dichiarato: «Il primo giorno del golpe, tutti i nostri contatti ci hanno detto che nessuno lo stava sostenendo». Previsione inevitabile, dal momento che pochi giorni prima del putsch le stesse

AFRICA CONTRO OCCIDENTE

CFA, MONETA PRIGIONE

1

2

FRANCIA

4

3

Oceano Atlantico

6

1360 Nasce il franco aureo per ordine di Giovanni II, detto il Buono 1365 e 1422 Ordinanze di Carlo V e di Carlo VII: entrambe ampliano i conî strutturando la base monetaria del Regno di Francia 1716 Creazione della Banque générale privée e introduzione della cartamoneta. Nasce il franco moderno 1726 Ricostruzione del franco aureo dopo il collasso delle azioni della Compagnia delle Indie 1789-1795 Reintroduzione della cartamoneta, riforma del sistema di emissione 1918 - 1924 Svalutazione dell’80% dopo la Grande Guerra 1940 - 1945 Franco sostituito dai Reichskreditkassen del Terzo Reich Nella Francia di Vichy nasce il franco di Vichy 1945 Reintroduzione del franco francese dopo la liberazione Viene creato il franco delle colonie francesi d’Africa (Cfa) Mar Nero

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Mar Caspio Mar Mediterraneo

MALI

NIGER CIAD

SENEGAL GUINEABISSAU

GUINEA

BURKINA FASO COSTA D’AVORIO

GIBUTI

REP. CENTRAFRICANA CAMERUN BENIN GUINEA REPUBBLICA EQUATORIALE CONGO DEMOCRATICA GABON DEL CONGO

TOGO Oceano Atlantico

IL FRANCO FUORI DALL’EUROPA Franco Cfa Bceao Franco Cfa Beac Franco delle Comore (legato all’euro), franco ruandese, franco del Burundi, franco congolese (Rep. Dem. del Congo), franco di Gibuti (legato al dollaro), franco guineano (Guinea)

Franco Cfp

COMORE

WALLIS e FUTUNA POLINESIA FRANCESE NUOVA CALEDONIA

Oceano Indiano

RUANDA BURUNDI

Oceano Pacifico

Area originale di impiego/in!uenza del franco francese

Paesi che adotta(va)no un franco nato a immagine di quello francese 1 Belgio 2 Lussemburgo 3 Liechtenstein

4 Svizzera 5 Principato di Monaco 6 Andorra

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LA FRANÇAFRIQUE È MORTA A NIAMEY

fonti affermavano che «il Niger è guidato da un governo democratico, certamente imperfetto, ma più stabile di altri nella regione».

Un sistema predatorio

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Gli occidentali hanno dunque ignorato il problema democratico che af!iggeva il Niger. Ma non è "nita qui. I partner di Niamey hanno anche deliberatamente soprasseduto ad alcune pratiche che hanno reso il paese estremamente corrotto. L’ex presidente Issoufou, infatti, non è stato solo acclamato come un «grande democratico» (sic!), ma anche come un buon amministratore. Nel 2022 ha addirittura ricevuto il premio Mo Ibrahim, un prestigioso riconoscimento assegnato a chi si è contraddistinto per il buon governo. Tuttavia, l’opinione pubblica nigerina era perfettamente a conoscenza delle nefandezze di Issoufou. L’ex presidente si era reso protagonista dello scandalo Uraniumgate ed era stato accusato di appropriazione indebita: secondo l’accusa, sarebbe entrato illegalmente in possesso di 116 milioni di euro derivanti dai contratti del ministero della Difesa. Issoufou, insomma, aveva dato vita a un sistema predatorio e la popolazione lo sapeva benissimo. Vederlo ricevere premi internazionali non ha fatto altro che aumentare la rabbia e la frustrazione dei nigerini. Nei giorni immediatamente successivi al putsch di luglio le voci di un possibile coinvolgimento di Issoufou si facevano sempre più intense. Il nuovo uomo forte del Niger, Abdourahamane Tchiani, ex capo della Guardia presidenziale, era infatti un suo fedelissimo. Oggi possiamo affermare con ragionevole certezza che l’ex presidente era coinvolto nel golpe. Ma quale era il suo obiettivo? Perché Issoufou si è imbarcato in un’impresa che ha "nito per ritorcersi contro di lui, dal momento che il suo ex protetto l’ha scaricato? La risposta è semplice: per il petrolio. L’obiettivo di Issoufou, infatti, era tornare al potere in concomitanza con l’inaugurazione dell’oleodotto che avrebbe collegato Niger e Benin. Secondo l’economista Olivier Vallée, l’ex presidente intendeva sfruttare a suo vantaggio «i proventi del petrolio che presto avrebbero cambiato il volto economico e territoriale del Niger». Nulla di nuovo. Da quando è salito al potere, il Pnds ha infatti costruito un sistema predatorio che combina corruzione e nepotismo. Il problema è che mentre una piccola élite si arricchisce con le ricchezze minerarie e petrolifere lo sviluppo del paese ristagna. Certo, per quanto riguarda l’indice di sviluppo umano il Niger è salito di due posizioni, passando dall’ultimo al terzultimo posto. Ma non è stato merito del governo. Piuttosto, tale «miglioramento» è dovuto al fatto che gli indicatori di tutti gli ultimi dieci paesi della classi"ca sono crollati. Il Niger non è cresciuto. Qualcuno è semplicemente crollato più del Niger. Chi era interessato a intestarsi i «successi» economici del paese ha enfatizzato oltremisura questo risultato. Secondo i dati della Banca mondiale, tuttavia, solo il 18,6% della popolazione nigerina ha accesso all’elettricità. E nelle aree rurali non si arriva nemmeno al 10%. Rispetto al 2011, anno in cui il Pnds ha preso il potere, queste cifre sono aumentate solo del 4%. Di certo non si può parlare di «successo economico».

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Eppure, i partner occidentali del Niger hanno stanziato diversi miliardi di euro in aiuti allo sviluppo. Ad esempio, per il triennio 2021-24 l’Ue ha stanziato 503 milioni di euro. Dove sono i risultati? Come sono stati spesi questi soldi? Il 28 agosto 2023, in occasione della conferenza degli ambasciatori, Macron ha dichiarato: «Il problema del popolo nigerino è oggi rappresentato dai putschisti che lo mettono in pericolo. Il golpe, infatti, obbliga il Niger ad abbandonare la lotta contro il terrorismo. Inoltre, i nigerini non potranno più contare su una buona politica economica e perderanno tutti i !nanziamenti internazionali che gli avrebbero permesso di uscire dalla povertà». Ora, alla luce dei dati citati in precedenza, di cosa parla Macron quando si riferisce a una «buona politica economica»? Esattamente, chi sarebbe uscito dalla povertà? In sintesi: gli occidentali non hanno condannato le elezioni truccate, non hanno denunciato il malgoverno e, in!ne, hanno chiuso entrambi gli occhi davanti al problema della corruzione. Alla luce di questi fatti, si comprende perché la popolazione abbia assunto un tono anti-occidentale e, soprattutto, antifrancese. I nigerini hanno capito che, dietro alla narrazione basata sui «valori», l’Occidente non fa altro che nascondere interessi molto più concreti. Del resto, in altri paesi meno «amici» comportamenti come quelli del Pnds sono stati violentemente criticati.

L’illusione della sicurezza In teoria, francesi, tedeschi e americani sono intervenuti in Niger per aiutare il governo nella lotta al terrorismo. Anche gli italiani stanno svolgendo una missione militare, la quale ha come obiettivo principale il controllo delle frontiere per favorire una gestione più ef!cace dei "ussi migratori. Il Niger, però, rimane un paese in guerra su due fronti: contro Boko Haram nel Sud-Est e contro lo Stato Islamico nella cosiddetta area delle tre frontiere, al con!ne con il Mali e il Burkina Faso. Sebbene le Forze armate nigerine mantengano un controllo sul territorio decisamente superiore rispetto agli eserciti di Bamako e Ouagadougou, resta il fatto che nonostante dieci anni di presenza americana e francese l’insicurezza permane ed è percepita dalla popolazione. Come tutti i popoli del Sahel, anche i nigerini si chiedono perché Parigi e Washington non riescano a scon!ggere i terroristi nonostante la netta superiorità militare e tecnologica. Gli alleati occidentali sono oramai considerati inutili, dal momento che guerre, massacri e orrori si susseguono da anni senza soluzione di continuità. Secondo i nigerini, gli occidentali non hanno a cuore questi problemi e rimangono nel paese solo per curare i loro interessi strategici ed economici. Inoltre, vedere la rapidità e l’ef!cienza con cui l’Occidente ha aiutato l’Ucraina non ha fatto altro che rafforzare la disillusione del popolo nigerino, oramai rassegnato a essere ignorato. Dopo il colpo di Stato di luglio molti analisti hanno sottolineato come, in realtà, la sicurezza stesse migliorando. Questa apparente tranquillità era dovuta principalmente ai negoziati avviati da Mohamed Bazoum con lo Stato Islamico. Il presidente aveva capito che, per garantire la pace, era necessario trattare con i jihadisti.

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LA FRANÇAFRIQUE È MORTA A NIAMEY

Tuttavia, af!nché fosse possibile una trattativa, l’esercito di Niamey e gli alleati occidentali hanno dovuto interrompere le operazioni contro lo Stato Islamico. La conseguenza è stata il rafforzamento della presenza jihadista sul territorio nigerino, utilizzato dai terroristi come testa di ponte per attaccare il Mali. Inoltre, l’approccio «diplomatico» di Bazoum non è stato particolarmente apprezzato dalle sue Forze armate. I militari, infatti, sono rimasti molto turbati dal rilascio di alcuni comandanti dello Stato Islamico. In conclusione, l’approccio di Bazoum – per quanto possa essere stato ef!cace nel breve periodo – non è stato realmente apprezzato da nessuno. Sicuramente non dalla popolazione, che vedendo i jihadisti guadagnare posizioni nel paese si è ulteriormente convinta dell’inutilità degli aiuti occidentali.

Gli alleati alla prova del golpe

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È in questo contesto di risentimento politico, economico e securitario che si è svolto il colpo di Stato di luglio, che ha gettato nel panico i partner occidentali e africani del Niger. Lo spettro del golpe militare si aggira per il Sahel e inquieta i governi della regione. Dal 2020 l’Africa occidentale ha conosciuto ben sei colpi di Stato: due in Mali (2020 e 2021), due in Burkina Faso (2021 e 2022), uno in Guinea (2021) e da ultimo quello in Niger (2023). La pratica del putsch pare diffondersi come un’epidemia e ciò preoccupa non poco i governi dei paesi dell’Ecowas (Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale). I partner occidentali del Niger, invece, sono terrorizzati dal possibile arrivo dei russi nel paese, sulla scia di quanto avvenuto in Mali. Tuttavia, il vero scon!tto è Emmanuel Macron, nuovamente umiliato dopo i colpi di Stato in Mali e in Burkina Faso. Il golpe a Niamey ha poi messo in dif!coltà anche gli Stati Uniti, particolarmente interessati alle sorti del paese. Washington aveva investito centinaia di milioni di dollari nelle basi nigerine, grazie alle quali tiene sotto schiaffo buona parte della regione, Libia compresa. Sotto questo aspetto è interessante notare come a distanza di un mese gli americani non abbiano ancora pronunciato la parola «putsch». Una tale quali!cazione giuridica li costringerebbe infatti a interrompere ogni attività politica e militare nel paese. Cosa che Washington non ha alcuna intenzione di fare. In ambito Ecowas, le reazioni sono state commisurate alle preoccupazioni. Il neoeletto presidente nigeriano Bola Tinubu ha assunto un atteggiamento intransigente, condiviso con gli altri capi di Stato della regione. All’inizio di agosto, tutti erano concordi nel richiedere il reintegro del presidente democraticamente eletto Bazoum. L’Ecowas ha preso misure drastiche, imponendo sanzioni durissime. Bola Tinubu ha addirittura minacciato l’intervento militare. Tuttavia, oggi la situazione è radicalmente cambiata. Le minacce hanno avuto effetti controproducenti, come era del resto prevedibile. Decine di migliaia di nigerini scendono ogni giorno in piazza, sventolando le loro bandiere e mostrando il loro sostegno al Cnsp. La concreta possibilità di una

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LE INDIPENDENZE AFRICANE Mar Nero Oceano Atlantico

Tunisia 1956 Mar Mediterraneo

Marocco 1956 Algeria 1962

Sahara Occ.

Libia 1951 Mauritania 1960 Senegal 1960

Mali 1960

Egitto ind. formale: 1922 sostanziale: 1952

Niger 1960

Eritrea 1993 Sudan 1956

Ciad 1960 Nigeria 1960 Camerun São Tomé e Príncipe 1975 1960 Guinea Eq. 1968 Gabon 1960 Congo Br. 1960

Etiopia Rep. Sud Sudan Centrafricana 2011 1960 Uganda 1962 Kenya 1963 Rep. Dem. del Congo 1960 Tanzania 1961

Angola 1975 Oceano Atlantico

Somalia 1960 Ruanda 1962 Burundi 1962 Malawi 1964

Zambia 1964

Zimbabwe Namibia 1980 Botswana 1990 1966 Gambia 1965 Guinea Bissau 1974 Guinea 1958 Sierra Leone 1961 Liberia Costa d’Avorio 1960 Burkina Faso 1960 Ghana 1957 Togo 1960 Benin 1960 Capo Verde 1975 Comore 1975 Seychelles 1976 Mauritius 1968

Gibuti 1977

Mozambico 1975

Madagascar 1958

eSwatini 1968 Sudafrica

Lesotho 1968 Oceano Indiano Tra il 1949 e il 1959 Tra il 1960 e il 1961 Tra il 1962 e il 1970 Dopo il 1970 Stati sovrani prima del 1949 1968 Data dell’indipendenza Territorio conteso

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LA FRANÇAFRIQUE È MORTA A NIAMEY

guerra ha inoltre smorzato l’ardore di alcuni paesi. L’Ecowas, infatti, si è divisa. Sebbene Capo Verde sia stato l’unico paese dell’organizzazione ad annunciare pubblicamente la sua contrarietà a qualsiasi forma di con!itto, bisogna sottolineare che solo Nigeria, Costa d’Avorio e Benin – insieme a Senegal e Ghana, benché in misura minore – paiono intenzionati ad andare "no in fondo. E la stessa Abuja ha dovuto ammorbidire la sua posizione a causa delle proteste dei senatori, dei militari e dei capi tradizionali del Nord del paese. Anche l’Unione Europea si è spaccata. Roma e Berlino si sono allontanate dalla postura intransigente di Macron, sostenendo la necessità di una soluzione diplomatica. In"ne, Parigi e Washington hanno posizioni diametralmente opposte. Parigi continua a pretendere il reintegro di Bazoum, minacciando l’intervento militare e ri"utando qualsiasi dialogo con la giunta. Gli americani, invece, non hanno alcuna intenzione di rinunciare alle infrastrutture che hanno impiantato nel paese. Per questa ragione, il 6 agosto gli Stati Uniti hanno inviato a Niamey Victoria Nuland, vicesegretario di Stato ad interim. A differenza dei francesi, gli Usa si sono seduti al tavolo con i putschisti. Sebbene non abbia incontrato direttamente Abdourahamane Tchiani, la diplomatica americana ha parlato lungamente con Moussa Salaou Barmou, l’attuale capo di Stato maggiore nigerino. Due sono stati gli argomenti messi sul tavolo da Victoria Nuland: il mantenimento delle basi americane e la garanzia di non ricorrere ai mercenari del Gruppo Wagner. Barmou, formatosi al Defense College e considerato l’«uomo di Washington» nella giunta, avrebbe accolto le richieste degli Usa. Per Macron, i negoziati tra putschisti e americani sono stati l’ennesima umiliazione. Due giorni prima la giunta aveva uf"cialmente rotto gli accordi di cooperazione militare con Parigi, chiedendo che ritirasse le truppe entro un mese. Il ministero degli Esteri francese ha respinto questa richiesta, sostenendo che le autorità insediate a seguito di un colpo di Stato non sono legittime.

Parigi ostacolata, isolata e umiliata

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Forte delle divisioni in seno all’Ecowas e all’Ue, dell’accordo con gli Stati Uniti e del sostegno popolare, la giunta di Niamey ha de"nito il suo programma politico, nominando un primo ministro civile che ha formato un governo. In"ne, il 25 agosto i militari hanno ordinato l’espulsione dell’ambasciatore francese Sylvain Itté, che sarebbe dovuta avvenire entro due giorni, poi di tutte le truppe francesi. Parigi, ovviamente, si è opposta. Si tratta di una situazione senza precedenti per la Francia, che si ritrova con un corpo diplomatico asserragliato nella sua ambasciata e 1.500 soldati con"nati nella loro base. Il 2 settembre, a un giorno dalla data dell’ultimatum "ssato per la loro partenza, i nigerini hanno s"lato in massa davanti al campo delle forze francesi incitandole a lasciare il paese. La situazione è evidentemente insostenibile, ma Macron continua a chiedere il reintegro di Bazoum e a mostrarsi intransigente. Alla conferenza degli ambascia-

AFRICA CONTRO OCCIDENTE

tori, infatti, ha dichiarato: «La nostra politica è quella giusta». Ha poi criticato la «debolezza» dei partner occidentali, ponendogli una domanda retorica: «Come possiamo implementare una partnership con un governo se poi, quando si trova in questa situazione, non vogliamo sostenerlo?» Macron non comprende che questo atteggiamento paternalistico è esattamente quello che i popoli africani non sono più disposti a tollerare. Comunque !nirà a Niamey, Parigi ne uscirà scon!tta e umiliata. Altri paesi, come il Ciad e il Senegal, seguiranno l’esempio del Niger. I venti di rivolta sof!eranno da un capo all’altro del continente, sancendo la !ne dell’in"uenza francese in Africa. Parigi deve prepararsi a uno tsunami geopolitico, paragonabile alle scon!tte di Azincourt (1415), Trafalgar (1805) e Fashoda (1898). Il fallimento di Parigi è testimoniato anche dal fatto che gli altri Stati dell’Ue non si sono fatti problemi a isolare la Francia. Nessun paese europeo intende pagare il prezzo delle politiche di Macron. Gli Stati Uniti, invece, si sono comportati come ai tempi della crisi di Suez, ma questa volta la Francia è completamente isolata. Washington intende assumere direttamente il controllo della regione, dal momento che Parigi si è dimostrata incapace di contenere l’avanzata di Cina e Russia in Africa. Traumatizzati dal voto degli Stati africani alle Nazioni Unite dopo lo scoppio della guerra d’Ucraina, gli americani sperano infatti di riconquistare il cuore degli africani. Si illudono. L’Africa si sta liberando. Nel lungo periodo, tutti dovranno ritirarsi. Non si può fare nulla per fermare questo processo. È un’ondata. È la marcia della storia. (traduzione di Giuseppe De Ruvo)

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AFRICA CONTRO OCCIDENTE

AFRICA SÌ, AFRICA NO PARIGI SI DILANIA

di

Jean-Baptiste NOÉ

La Francia è in crisi con sé stessa perché non riesce più a riconoscere pubblicamente ciò che fa. Pretende di civilizzare senza imporsi sugli altri. In Niger, per paura di apparire neocolonialista, Macron non ha voluto proteggere Bazoum, come suggerivano i servizi.

I

1. L GOLPE IN NIGER SEGNA UN’ULTERIORE diminuzione dell’in!uenza francese in Africa, ma è stato ricevuto in modo diverso tra i vari poteri dell’Esagono. Al di là della questione nigerina, in ballo ci sono la potenza della Francia e la natura di questa potenza. La questione in gioco: è importante per Parigi essere presente in Africa o il suo potere nel mondo può esprimersi in altro modo? Per la maggioranza della popolazione, la perdita d’in!uenza in Africa non è un tema. L’utilità del continente non è immediatamente evidente per la gran parte dei cittadini. L’Africa è vista attraverso l’immigrazione e i problemi che essa comporta. Oppure attraverso le sue s"de: la crescita demogra"ca, le guerre, gli spostamenti delle popolazioni. Non è percepita come una leva positiva della potenza francese. Riemergono i dibattiti degli anni Cinquanta-Sessanta sulla colonizzazione: mantenerla per preservare la potenza della Francia o non mantenerla perché la potenza può essere esercitata altrimenti? Il generale de Gaulle aveva optato per la seconda, concedendo l’indipendenza alle colonie, lasciando l’Algeria e considerando che fosse meglio investire nell’arma nucleare e nella modernizzazione economica piuttosto che nelle sabbie del Sahara e nei "umi dell’Africa australe. È un’opinione ancora molto diffusa: per molti francesi, l’Africa costa caro (aiuti allo sviluppo, operazioni militari) e porta poco. Effettivamente il continente non incide molto sulla potenza economica francese. Le imprese nazionali scambiano più con l’Italia che con tutti i paesi africani, Maghreb incluso. I commerci rappresentano soltanto il 2% dell’interscambio, contro il 6% del Regno Unito. Nel 2021, l’export totale era di 23,5 miliardi di euro, contro i 37,2 miliardi verso il Belgio. Soltanto il Marocco vanta una considerevole profondità industriale francese: diverse aziende vi hanno stanziato stabilimenti produttivi nel settore automobilistico, nell’aviazione e nel tessile, in particolare a Tan-

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AFRICA SÌ, AFRICA NO: PARIGI SI DILANIA

geri. Le cose non stanno affatto così nel Sahel o nell’Africa nera. In questo senso, la fuoriuscita del gruppo di Vincent Bolloré è stata molto più rilevante del ritiro di qualche soldato dal Mali. Dopo aver fondato il proprio impero industriale sulla gestione dei porti africani, la vendita degli attivi nel dicembre 2022 al gruppo Msc, per un totale di 5 miliardi di euro, ha sancito l’addio di Bolloré all’Africa. Il colosso ha preferito investire nei media e nella logistica. La !ne di questa quarantennale avventura industriale è sintomatica della scarsa attrattività dell’Africa agli occhi degli imprenditori francesi, al di là di qualche settore molto speci!co.

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2. Solo un gruppo assai ristretto di poteri francesi ha ancora interesse per l’Africa: gli umanitari, i militari e i politici. Fedele alla missione civilizzatrice che sente di dover giocare nel mondo e che ha dato impulso alla colonizzazione nell’Ottocento, la Francia centra una grande parte della sua politica estera sugli aiuti. L’Agenzia francese per lo sviluppo (Afd), le cui radici risalgono al 1941, è il principale organismo pubblico di orientamento e di gestione degli aiuti. Nel 2022, l’Afd ne ha dispensati per 22 miliardi di euro. La metà è stata destinata all’Africa. Circa l’80% delle sovvenzioni e dei prestiti direttamente accordati dallo Stato riguarda questo continente. L’agenzia opera sotto la tutela dell’Eliseo e del ministero degli Esteri. Benché disponga di fondi propri, una buona parte del bilancio deriva dall’erario. In Africa, l’Afd opera in prima persona oppure !nanzia delle organizzazioni non governative e delle associazioni che svolgono progetti nel quadro de!nito dal Quai d’Orsay. Ciò signi!ca che questi soggetti terzi vivono di fondi pubblici e orientano le loro attività in funzione delle direttive governative. Sono dunque attori privati che agiscono a corollario dell’azione pubblica. Sorta di mercenari dell’umanitario. Il bilancio dell’Afd cresce costantemente dal 2017. Il presidente Emmanuel Macron si è dato l’obiettivo di consacrarle lo 0,7% del reddito nazionale lordo entro il 2025, contro lo 0,37% del 2017 e lo 0,55% del 2021. In Francia è sempre più vivace il dibattito sull’utilità reale di questi aiuti: i paesi africani ne bene!ciano davvero? E a che cosa servono alla Francia? Non è una novità. Nel 1964, il deputato socialista della Corrèze, Jean Montalat, stimava che fosse meglio investire in aiuti allo sviluppo nel suo arretrato dipartimento piuttosto che in Africa. Aveva pure coniato una formula destinata a durare: «La Corrèze piuttosto che lo Zambezi». Di fronte alle attuali faglie geogra!che ed economiche nell’Esagono, l’argomento di Montalat è tornato alla ribalta. Ci si chiede se un paese indebitato come la Francia si possa ancora permettere di fare regali agli Stati africani e di condonare i loro debiti. La questione diventa: la Francia ha ancora i mezzi !nanziari per sostenere la Françafrique? Tanto più che l’Afd opera ora secondo il principio dell’aiuto senza vincolo di destinazione, cioè i paesi riceventi non sono obbligati a utilizzare le somme in contratti con imprese francesi, al contrario di molti Stati che condizionano gli aiuti a rapporti economici con le proprie aziende. Diversi contribuenti francesi hanno l’impressione che le loro tasse servano a !nanziare gli appalti delle sempre più numerose imprese cinesi nel Continente Nero.

AFRICA CONTRO OCCIDENTE

BOLLORÉ, L’IMPERO CHE NON C’È PIÙ Porto Said

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Per le Forze armate, l’Africa è stata una manna dal cielo. Dopo la !ne delle operazioni in Afghanistan, il continente ha fornito dieci anni di operazioni ininterrotte, missioni appassionanti e variegate, uso reale e massiccio di materiali, giusti!cazione per la crescita dei bilanci. Le Operazioni Serval (gennaio 2013-luglio 2014) e Barkhane (agosto 2014-novembre 2022) hanno permesso all’Esercito di fare il suo mestiere, schierando continuativamente almeno 3 mila soldati, con un picco di 5.100 nel gennaio 2020. Non essendo schierate in Ucraina (a parte qualche piccola unità d’élite), il rischio è che le Forze armate diventino un esercito da caserma. Addestrarsi alla guerra senza farla mai non è né stimolante sul piano professionale né attraente per le nuove reclute. All’Accademia militare di Saint-Cyr, deputata alla formazione dei nuovi uf!ciali, in molti si interrogano sul futuro e alcuni hanno già previsto di lasciare l’uniforme per entrare nel settore privato. Un esercito è utile solo se serve; gli occorrono delle operazioni.

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AFRICA SÌ, AFRICA NO: PARIGI SI DILANIA

Anche i politici sono tra gli scon!tti dell’espulsione dall’Africa. I legami privilegiati intrattenuti nel quadro della Françafrique con capi di Stato, ministri, alti funzionari davano l’illusione di importanza e di potenza. È molto gradevole partecipare a vertici internazionali in alberghi lussuosi e in palazzi occidentalizzati. È anche gradevole conoscersi, aiutarsi, avere l’impressione di incidere sul corso degli eventi mondiali. La classe politica francese ha in"uenza in Africa, ma non in altri paesi che contano. In Asia, al massimo, ci sono gli imprenditori, con i loro investimenti, le loro imprese e i loro dipendenti espatriati. In Africa, i funzionari del Quai d’Orsay e delle grandi amministrazioni pubbliche hanno ancora leve da manovrare. Imprenditori e funzionari: due culture e due mondi diversi che si ignorano, non sanno lavorare assieme e, spesso, si disprezzano.

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3. La Francia in Africa è ingolfata dall’ossessione di non sembrare una potenza coloniale. È uno dei suoi paradossi più strani. È convinta di possedere ancora una missione civilizzatrice, un dovere morale di diffondere nel mondo i valori della Repubblica, di propagare e difendere la democrazia. È una delle ragioni per cui mantiene un bilancio importante per le sue Forze armate. Così facendo, continua a comportarsi come fosse una potenza coloniale. Le sue logiche mentali non sono cambiate più di tanto dal 1880. Crede ancora di poter integrare gli immigrati; di più, di poterli trasformare in francesi. Tanto che le !gure politiche di qualunque orientamento detestano – lo dicono apertamente – il modello anglosassone per l’immigrazione, presentato come cattivo e pernicioso perché, a detta loro, permette il mantenimento delle comunità di origine, senza favorire l’«integrazione». Questa idea dell’integrazione equivale a transustanziare la natura delle persone che si trasferiscono in Francia. È anche al cuore del pensiero e dell’operato politico francese in Africa. Più di ogni altro paese in Europa, la République si è costruita al contempo in opposizione al cattolicesimo e con l’ambizione di sostituirvisi. Tanto che con il Belgio è stata la nazione che ha spedito più missionari nel Continente Nero. Perché animata dalla saldissima convinzione di dover diffondere un nuovo Vangelo, quello della democrazia e dei diritti dell’uomo. Sotto questo aspetto, i discorsi dei repubblicani nel 1880, inizio del periodo coloniale, sono gli stessi dei repubblicani d’oggi. Il presidente François Mitterrand aveva riattivato l’idea della missione civilizzatrice con il discorso della Baule nel 1990. In esso, la Francia annunciava l’intenzione di non sostenere più i regimi autoritari africani e di operare secondo il criterio della democrazia, favorendo la celebrazione di elezioni presidenziali nel suo pré carré. La conseguenza è stata provocare la scon!tta di molti dei suoi alleati, destabilizzando i paesi francofoni. Su questa difesa della democrazia poggia il credo uf!ciale della politica francese in Africa, come se organizzare elezioni e concedere di scegliere liberamente i propri dirigenti potesse bastare a risolvere i problemi degli africani. Ma il suffragio universale ha consacrato l’aritmetica etnicista, prologo dei violentissimi drammi degli anni Novanta-Duemila.

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BILANCIO DI UNA SETTIMANA VIOLENTA IN FRANCIA !27 GIUGNO"3 LUGLIO# Notte di martedì 27 giugno

Mercoledì 28 giugno

Giovedì 29 giugno

Venerdì 30 giugno

Sabato 1° luglio

Domenica 2 luglio

Lunedì 3 luglio

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26

Fonte: Ministero dell’Interno francese, Le Figaro

Lo strano paradosso è che, pur aggiornando la propria missione universale al XXI secolo, la Francia trova ripugnante l’idea di essere percepita come potenza coloniale e non osa riconoscere pubblicamente la propria volontà civilizzatrice. Così si nasconde dietro a concetti come gli aiuti allo sviluppo, la democrazia, la lotta contro il riscaldamento globale per non dire che vuole conservare il diritto di intervenire e di imporre le proprie idee. Cioè si ri!uta di riconoscere ciò che fa. Si mette dunque in una condizione di scrupolo e di colpevolezza che le impedisce di agire correttamente.

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L’episodio in Niger ne è crudele rivelazione. Di fronte al golpe di !ne luglio, il governo è sembrato sorpreso. È dunque possibile supporre che i servizi d’informazione francesi, benché ben piazzati in Africa, non abbiano visto arrivare il colpo di Stato. Signi!cherebbe che sono incompetenti, ma non è così. Bernard Émié, attuale capo della Direzione generale della sicurezza esterna (Dgse), ha informato il presidente di una possibile eversione a Niamey nel gennaio 2023. Due giorni prima del golpe, la Dgse ha proposto a Macron di collocare soldati francesi nel palazzo presidenziale per proteggere il capo di Stato Bazoum. L’opzione è stata respinta perché in odore di neocolonialismo. È d’altronde un’accusa ricorrente che le è rivolta dalla Russia. E anche i partner europei dimostrano una certa avversione sul tema: il ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani, per esempio, ha dichiarato che il Vecchio Continente «non può permettersi un confronto armato, non dobbiamo essere visti come dei nuovi colonizzatori». La Francia cerca dunque di intervenire, ma non troppo. Ciò che compromette il suo operato e nuoce alla sua ef!cacia. Sarebbe nel suo interesse fare una scelta netta: ritirarsi del tutto dall’Africa oppure assumersi una responsabilità e impegnarsi !no in fondo. Ecco il dilemma crudele per Parigi: intervenire in Africa anche se alla popolazione non importa, senza una grande passione per il mantenimento della propria potenza e stando attenta a non dare l’impressione di voler perpetuare il colonialismo. Un equilibrismo dif!cilmente tenibile.

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4. La questione della presenza francese in Africa non è unanime nemmeno all’interno delle burocrazie. Se n’è avuto un saggio il 1° agosto 2023 con un tweet di Gérard Araud, già ambasciatore a Washington e autore di recenti opere molto ben accolte: «Concezioni della potenza arcaiche per il XXI secolo, un’incosciente nostalgia per l’impero coloniale, un romanticismo nutrito di fantasmi, ignoranza delle realtà sul terreno, un briciolo di condiscendenza verso gli africani e comprenderete molto dei commentatori. Nel corso dei miei quarant’anni di carriera diplomatica, mai la nostra presenza in Africa mi è parsa come un fattore della nostra in"uenza. È una visione d’in"uenza di un’altra epoca». In risposta a un commento che gli spiegava come la Francia fosse potente proprio perché è in Africa, Araud ha riaffermato: «No, la Francia non è una potenza grazie alla sua presenza in Africa. Non più di quanto il Regno Unito non lo sia a causa della sua assenza dall’Africa. È un’idea del XIX secolo. La potenza oggi è nello Spazio, nel ciberspazio, nei mari eccetera». Non essendoci più soverchianti interessi economici o politici, la presenza francese in Africa veniva giusti!cata attraverso gli interessi di sicurezza: conducendo una «guerra al terrorismo» contro il jihadismo nel Sahel, la Francia avrebbe evitato attentati sul proprio territorio. Questo discorso uf!ciale, in voga soprattutto al ministero della Difesa, soffre di diverse lacune. La prima è che non si fa la guerra al terrorismo, perché è un mezzo utilizzato da persone e gruppi, non una entità. Uno strumento, non un’ideologia. Non si fa la guerra alle armi ma a coloro che le usano. La seconda è che gli attentati in Francia non sono stati opera di individui prove-

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nienti dal Sahel ma, per la maggior parte, di persone nate nell’Esagono e in possesso della cittadinanza francese. La lotta contro il terrorismo è affare della polizia e della sicurezza interna, non dei militari. La terza lacuna riguarda la paci!cazione e proprio non tiene: il Sahel è più instabile oggi rispetto a dieci anni fa, quando è cominciato l’intervento. Il ministro della Difesa Sébastien Lecornu ha difeso l’Operazione Barkhane de!nendola un successo. Riprendendo così l’idea che l’intervento nel Sahel sarebbe stata una vittoria militare ma un fallimento politico. Dire una cosa del genere signi!ca dimenticare la natura stessa di un’operazione bellica. Il militare è al servizio del politico: non esiste successo militare se gli obiettivi politici non sono raggiunti. Se è un fallimento politico, è anche un fallimento militare. L’Operazione Serval era stata un successo incontestabile perché aveva raggiunto tutti gli obiettivi. Il problema di Barkhane è che gli obiettivi politici – e di conseguenza quelli militari – erano vaghi. È evidente che gli argomenti avanzati dalle autorità francesi non reggono alla prova del nove. Ciò ha !nito per delegittimare le giusti!cazioni degli interventi militari. Qui sta la chiave, per Parigi, del golpe in Niger: quest’ultimo ha dimostrato che i motivi addotti per spiegare la necessità della presenza in Africa erano falsi. Ha inoltre mostrato che la Francia non è desiderata e che, nonostante le somme importanti versate ogni anno attraverso l’Afd negli aiuti allo sviluppo, i popoli africani non ci vogliono. (traduzione di Federico Petroni)

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AFRICA SÌ, AFRICA NO: PARIGI SI DILANIA

Nahel e dintorni: geogra!a dei moti francesi a cura di Jean-Baptiste NOÉ

Carta 1. Nanterre, una metropoli globale epicentro dei moti

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Il 27 giugno il giovane franco-algerino Nahel Merzouk viene ucciso da un poliziotto presso piazza Nelson Mandela, a Nanterre (carta 1). La morte di Nahel, in circostanze ancora da chiarire, suscita moti di protesta a Parigi e in diverse città francesi che durano una decina di giorni, riverberandosi anche in Svizzera e in Belgio. Contrariamente ai cliché sociologici, le proteste violente non sono partite da aree povere e dimenticate. Epicentro dei disordini e luogo maggiormente colpito dalle violenze fra giovani immigrati e polizia, Nanterre non è affatto una città disagiata. Situata a soli sette chilometri da Parigi, Nanterre è il capoluogo degli Hauts-de-Seine (92), il dipartimento più ricco di Francia insieme a Parigi. Sul suo territorio si trova il quartiere !nanziario più grande d’Europa, La Défense. La cité Pablo Picasso, da dove sono partiti i disordini, è stata costruita dall’architetto Émile Aillaud tra il 1973 e il 1981. Oggi è classi!cata come «notevole architettura contemporanea». Si tratta di un complesso residenziale di torri, immerse in un’area verde adiacente al parco André Malraux: una riserva ornitologica di 25 ettari. In linea d’aria, le torri Aillaud distano solo 500 metri da La Défense. Oltre agli uf!ci e ai centri commerciali, La Défense ospita lo stadio Arena (40 mila posti), diversi cinema e sale da concerto. A questo si aggiungono 3 stazioni Rer, 3 stazioni ferroviarie e 2 stazioni della metropolitana, che collegano il quartiere con Parigi e la parte occidentale dell’Île-de-France. La città di Nanterre e le zone degli scontri non sono aree disagiate o svantaggiate, ma perfettamente integrate nel cuore della globalizzazione economica. Le autorità locali hanno realizzato di recente importanti investimenti urbani. Ad esempio, la creazione dell’eco-distretto di Bergères, che soddisfa standard ambientali all’avanguardia (costo: 153 milioni di euro). Per la riquali!cazione della cité Pablo Picasso sono stati investiti 230 milioni di euro, pari a 70 mila euro per appartamento. Inoltre, di fronte al complesso residenziale sono stati costruiti un teatro e un polo culturale (50 milioni di euro). Le due grandi e famose moschee, così come il consolato algerino, testimoniano la presenza di servizi religiosi e amministrativi a disposizione della popolazione. È proprio all’interno della grande moschea Ibn Bådøs che si sono tenuti i funerali di Nahel. Oltre ai luoghi di preghiera, la moschea comprende una scuola privata – primarie, medie e superiori – e un centro culturale.

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AFRICA CONTRO OCCIDENTE

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AFRICA SÌ, AFRICA NO: PARIGI SI DILANIA

REGNO UNITO 2 - LA DIFFUSIONE DEI MOTI

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Brest

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Rennes

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Strasburgo Montargis

PAESI DELLA LOIRA

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Oceano Atlantico

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Bordeaux

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Pau

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Roissy

Ajaccio

St-Denis Argenteuil

Mar Mediterraneo 1

Nanterre Boulogne

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Bobigny Le Raincy Montreuil Nogent-sur-Marne

Parigi

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L’Haÿ-les-Roses Viry-Châtillon Évry

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1 SEINE-SAINT-DENIS 2 VAL-DE-MARNE 3 HAUTS-DE-SEINE

Moti di protesta Moti in luoghi con una storia di contestazioni e molti immigrati Territori abitati da un’alta percentuale di immigrati Luoghi dove le proteste non erano previste

AFRICA CONTRO OCCIDENTE

Carta 2. Diffusione dei moti in Francia Osservando questa carta si distinguono diversi elementi signi!cativi. Le città colpite dai moti catturano l’attenzione, ma altrettanto interesse destano i centri urbani e le regioni che ne sono stati risparmiati. La maggior parte dei disordini ha avuto luogo nella regione di Parigi, in particolare nel dipartimento degli Hauts-de-Seine. Nel resto della Francia, le città insorte sono centri dove la violenza urbana è frequente e la popolazione straniera rilevante: Lille, Strasburgo e Mulhouse. Anche la regione di Lione è stata colpita duramente. Nulla di sorprendente: è a Lione che si è veri!cata la prima grande rivolta delle periferie nel 1981. In altre grandi città di provincia coinvolte, i moti si sono concentrati in quartieri abitati soprattutto da immigrati. A Brest, Clermont-Ferrand, Nantes, Nizza, Rouen e Tours gli sporadici episodi di violenza sono solitamente localizzati in zone ben de!nite, note a politici e poliziotti. Fin qui, dunque, un classico senza sorprese. La novità di queste rivolte è stata il loro diffondersi in città !no a oggi conosciute come tranquille e borghesi: Annecy, Laval, Bordeaux, Montargis. L’esplosione delle violenze in questi centri di provincia è in parte dovuta alle politiche urbanistiche degli ultimi quindici anni. Infatti, la demolizione dei grandi complessi residenziali nelle metropoli ha comportato il ricollocamento dei loro abitanti in queste città. Parallelamente, in Francia si sono espansi il traf!co e il consumo di droga, !no a coinvolgere anche le province di piccole e medie dimensioni. Altrettanto sorprendente è stata l’assenza di disordini in città e regioni dove la comunità immigrata è invece massiccia: la Linguadoca, Rennes e Marsiglia. L’unico scontro a Marsiglia è stato breve e molto localizzato nel centro della città. Dove il livello delle violenze è stato minimo, il traf!co di droga è così ben radicato da garantire ai traf!canti un forte controllo sulla popolazione, in particolare a Marsiglia e nel dipartimento di Seine-Saint-Denis. Di conseguenza, le mancate rivolte non sono necessariamente una buona notizia. In!ne, la Corsica è stata completamente risparmiata. L’isola è dominata dai nazionalisti e dalle famiglie locali, che mantengono l’ordine e vigilano sui potenziali agitatori. (traduzione di Marcella Mazio)

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AFRICA CONTRO OCCIDENTE

PERCHÉ MACRON NON RIESCE A FARLA FINITA CON LA FRANÇAFRIQUE

di

Mario GIRO

Origini e scopi del modello neocoloniale che sta compromettendo l’immagine della Francia, non solo in Africa. L’ossessione securitaria e i disastri provocati dalla privatizzazione degli Stati. Russia e Cina, spaventapasseri di comodo per l’Occidente.

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1. EL NOVEMBRE 2017 EMMANUEL MACRON, da poco eletto all’Eliseo, si reca in Burkina Faso, suo primo viaggio in Africa. La scelta è coraggiosa: nessun presidente francese aveva osato visitare Ouagadougou dopo François Mitterrand nel 1986. A quell’epoca al potere c’erano Thomas Sankara e il suo Consiglio nazionale della rivoluzione. Il nome del paese era stato cambiato (dal coloniale Alto Volta) e il regime instaurato era vicino al blocco dell’Est. Un anno dopo l’esperienza si era conclusa in maniera cruenta con l’avvento di Blaise Compaoré, ex braccio destro di Sankara, che aveva portato il Burkina Faso verso l’Occidente, mantenendo tuttavia una forte dose di indipendentismo basato sullo «sviluppo autocentrato», come si usava dire all’epoca. Nessuno pensò che quel golpe non fosse appoggiato da Parigi. Con la sua visita Macron intende girare de!nitivamente la pagina della vecchia Françafrique che pesa sulle relazioni della Francia con il continente. L’idea è di «cambiare il software» della politica francese, smilitarizzandola e rendendola più vicina alle aspirazioni delle società civili. Secondo il presidente francese il rapporto con l’Africa deve diventare una «storia d’amore». Sei anni dopo assistiamo a uno scenario completamente diverso. Macron non è il primo a tentare di cambiare la Franciafrica: a parte Jacques Chirac, tutti gli inquilini dell’Eliseo dopo il generale de Gaulle hanno in un modo o nell’altro annunciato la !ne della trama (semisegreta) delle relazioni tra Parigi e le capitali dell’Africa francofona. Lo stesso Nicolas Sarkozy, pur gollista, aveva iniziato il suo mandato cercando di disfarsi di quell’eredità pesante e invecchiata. È noto cosa si rimprovera alla Francia: colpi di Stato pilotati, sostegno a regimi tirannici e a élite corrotte, scambio di favori, supporto a una gerontocrazia africana autoritaria. L’intreccio va nei due sensi: anche le campagne elettorali francesi ricevono !nanziamenti (non dichiarati) dall’Africa. Tutto questo è chiamato «neocolo-

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nialismo alla francese». E tuttavia ha goduto per decenni dell’appoggio americano: in buona sostanza Parigi aveva il compito di badare alle sue ex colonie af!nché nessuna cadesse nelle mani del blocco !losovietico o cinese. Così è stato. Forse questa è la ragione principale per cui nessun capo di Stato francese è riuscito a tagliare de!nitivamente legami che non erano solo di sfruttamento economico e !nanziario e nei quali le élite africane avevano trovato il loro tornaconto. Nel tempo la rete degli interessi era diventata dif!cile da sbrogliare senza causare ricadute negative (economiche ma anche sociali) sulla Francia metropolitana. Di conseguenza, la !ne della Françafrique è stata annunciata più volte ma senza effetto. Macron era diverso: per un leader legato alla grande !nanza e all’universo della tecnocrazia globalizzata come lui, era naturale immaginare una relazione con l’Africa basata sul commercio. Aveva difatti messo nel mirino l’Africa anglofona, più ricca e !nanziariamente più evoluta di quella francese. Ma occorreva affrontare anche l’Africa francofona e il nuovo presidente accettava la s!da scegliendo il rischio di esprimersi nell’ostico Burkina Faso. Malgrado il capo di Stato burkinabé, Roch Marc Christian Kaboré, fosse un alleato e un moderato, all’Eliseo sapevano bene che ci sarebbero state delle reazioni forti, soprattutto durante l’incontro con gli studenti universitari che Macron aveva fortemente voluto contro il parere delle amministrazioni francese e burkinabé. Quell’evento è ricordato per la battuta lanciata da Macron a Kaboré a causa della mancanza di aria condizionata nell’an!teatro universitario, che fece soffrire tutti. Il messaggio agli africani, ripreso dai media europei, è: siate responsabili di voi stessi. In realtà le cose più interessanti sono il clima che si respira nel campus e le domande degli studenti. I muri delle facoltà sono cosparsi di slogan antifrancesi e !losankaristi mentre i giovani che non riescono a entrare scandiscono all’esterno slogan rivoluzionari. All’inizio il leader francese gioca sulla sua età (ha 39 anni) e cerca di entrare in empatia con il giovane pubblico citando proprio Sankara. Vorrebbe volare alto e parlare di crisi ecologica, crescita, urbanizzazione eccetera, ma viene riportato coi piedi per terra dalle domande: perché ci sono ancora militari francesi in Africa? Qual è il loro compito segreto? Perché avete cacciato Ghedda!, un amico dell’Africa? Quando !nirà il franco Cfa? E così via. Sotto lo sguardo pietri!cato di Kaboré, tutti i rancori e le frustrazioni emergono in quelle oltre due ore di incontro in cui Macron da par suo non si risparmia. Il risentimento non è svanito ancora oggi, anzi è semmai aumentato dopo i golpe militari in Mali, Guinea, Burkina Faso e ora Niger. Questa volta però è tutto diverso: se negli anni Sessanta-Ottanta i putsch africani erano preparati – così si pensa – a Parigi, ora sono antifrancesi. La storia si ritorce contro la Francia: si possono vedere giovani manifestanti bruciare le bandiere francesi e alzare quelle russe, nella speranza che nuovi amici vengano a salvare paesi sull’orlo della distruzione. Sapere che ciò non accadrà non ci esime dal cercare di comprendere perché oggi si scateni tanto astio antifrancese, a lungo covato soprattutto nell’Africa saheliana e occidentale. Eppure non tutto è andato sempre in questa direzione. Durante la cerimonia di investitura del presidente maliano Ibrahim Boubacar Keïta a Bamako nel 2013

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– alla quale chi scrive era presente come rappresentante del governo italiano – il presidente francese François Hollande aveva ricevuto enormi ovazioni dalla folla dei maliani perché la Francia aveva da poco salvato il paese dall’attacco jihadista (operazione Serval) che dal Nord minacciava il Centro-Sud e la capitale, la parte ricca e popolosa del Mali. Già pochi mesi dopo tale entusiasmo era calato: la delusione fu dovuta alla permanenza ingombrante dei militari francesi nel paese (operazione Barkhane) e alle innumerevoli voci sul perché di tale presenza. Più Parigi spiegava che quella missione serviva a sostenere i militari del Mali e meno la gente ci credeva. Giravano voci complottiste, addirittura si credeva a recondite intenzioni della Francia di sostenere la ribellione tuareg. In realtà le operazioni militari francesi avvenivano secondo modalità e abitudini ereditate dal periodo coloniale: mettere una comunità contro l’altra, manipolare le etnie e così via. E poi collaborare il meno possibile con i militari maliani, invero dif!cili da gestire. Ovviamente c’era chi, sui social media come nei corridoi dei palazzi africani e non solo, dava !ato alle ipotesi peggiori. Così si era giunti alla caduta di Keïta con il golpe militare del 2021, alla cacciata dei francesi (e altri europei) e all’arrivo di Wagner, già istallata nelle vicine Libia e Repubblica Centrafricana. Poi è toccato alla Guinea, al Burkina e in!ne il 26 luglio scorso al Niger. Cosa non ha funzionato? È utile chiederselo perché la rottura sentimentale tra Francia e Africa coinvolge anche il resto d’Europa e tutto l’Occidente, soprattutto ora con la guerra in Ucraina. 2. Il «Sud Globale», in cui l’Africa subsahariana è pienamente inserita, guarda con sospetto l’Occidente tutto concentrato a combattere una guerra che gli africani non apprezzano. Anzi ne soffrono le conseguenze, come la penuria di grano o la crescita esponenziale dei prezzi degli alimenti e dell’energia. Fin dall’inizio del suo primo mandato Macron ha cercato di sciogliere il groviglio franco-africano, riuscendo a fare alcune cose importanti: ricucire con il Ruanda; tentare un percorso simile con l’Algeria; creare un programma di restituzione degli oggetti di arte africana portati via durante la colonizzazione; lanciare una nuova formula di summit franco-africani (come quello di Montpellier del 2022), af!dandoli a intellettuali del continente non teneri con la Francia (come Achille Mbembe) e coinvolgendo diaspore e società civili africane; avviare la fuoriuscita di Parigi dal franco Cfa. Nessun altro leader francese aveva fatto altrettanto. Tutto questo tuttavia non è servito a evitare la frattura tra Francia e Africa, tuttora in corso, anche se ha dato qualche segnale positivo che potrà aprire in futuro nuove prospettive. Soprattutto la ripartenza della relazione con Kigali è importante, perché Parigi in Ruanda è stata a lungo sospettata di aver favorito il genocidio del 1994 (Operazione Turquoise) – forse l’accusa più pesante su tutta l’eredità della Françafrique – che coinvolge François Mitterrand. In de!nitiva, la Francia viene accusata di aver svolto !n dall’indipendenza la funzione di gendarme dell’Occidente senza pensare allo sviluppo delle sue ex colonie e senza costruire una comunità franco-africana o eurafricana. Su quest’ultimo punto si è fatta molta retorica che ora si ritorce contro Parigi. È troppo tardi per spiegare al pubblico africano che le alternative (Cina, Russia,

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Turchia eccetera) non porteranno a svolte decisive. La delusione è profonda e il rancore sedimentato. Ciò non signi!ca che l’atteggiamento verso gli altri paesi europei sia tanto diverso: è come se la Francia pagasse tutti gli errori fatti da de Gaulle a oggi, inclusi quelli di una Comunità (Unione) Europea distratta che aveva delegato a Parigi ogni responsabilità. L’errore europeo è stato di non aver preteso la trasformazione della Françafrique in una relazione eurafricana più equilibrata e paritaria. Le conseguenze della !ne brusca della Franciafrica le subiremo tutti perché essa apre spazi a soggetti diversi e talvolta ostili, come oggi lo è Mosca.

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3. L’ultimo golpe in Niger ha provocato l’ennesimo grave shock alla stabilità africana, in particolare nella fragile regione saheliana. La Guardia presidenziale addestrata dagli occidentali il 26 luglio mattina ha preso in ostaggio il presidente Mohamed Bazoum e la sua famiglia. L’esercito ha poi imposto una transizione senza spargimento di sangue, come si usa fare ora. Bazoum era stato eletto democraticamente nell’aprile 2021, dopo il doppio mandato – ugualmente democratico – di Mahamadou Issoufou. Entrambi appartengono al Pnds, partito di tendenza socialdemocratica. Questo nuovo putsch dimostra quanto l’Africa occidentale sia in preda a un terremoto politico con scossoni tettonici che non sembrano arrestarsi. Ciò favorisce un jihadismo attivo da più di dieci anni, che aggredisce tutta l’area mettendo a rischio interi paesi. Poi ci sono le giunte militari in Guinea, Mali, Burkina e ora anche in Niger, che pre!gurano una specie di «Africa alternativa». Resta fragile la situazione in Ciad dopo la morte del presidente Idriss Déby (ucciso in uno scontro coi ribelli). Tutto ciò mette pressione alla parte più ricca della regione, quella costiera, che include da Costa d’Avorio, Benin, Togo e Ghana. Malgrado l’impegno profuso non sembra che i governi democratici africani riescano a fermare l’emorragia. Nessuno può dirsi immune dal rischio di instabilità. Le cause sono più profonde di ciò che si pensa e vanno ben al di là degli stati d’animo tra africani e francesi. L’esempio del Niger dimostra che la causa non sono soltanto i tentativi di forzare le costituzioni per ottenere un altro mandato (come in Guinea o in Burkina) o l’attacco jihadista, che comunque non è così forte da determinare da solo cambi di regime. Anche il vento dei sentimenti antifrancesi o il tentativo russo di sostituzione non paiono così potenti da causare tali sconquassi. La malattia è più profonda e riguarda la tenuta stessa dello Stato africano e la natura del consenso. Le democrazie africane degli anni Novanta e Duemila non reggono perché non hanno risposto all’esigenza di una maggior distribuzione della ricchezza né hanno costruito il welfare tanto atteso (educazione e sanità sono allo sbando totale). Di conseguenza la società africana si è sfarinata e il consenso – che pure c’era – è svanito. La globalizzazione violenta, con il suo spirito di competitività e di materialismo, ha !nito per distruggere le già fragili reti tradizionali e familiari, senza che nulla ne abbia preso il posto. Soprattutto tra i giovani si è diffusa un’enorme delusione che li spinge a migrare (ecco il vero push factor), semplicemente perché non credono più nel futuro

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EX COLONIE FRANCESI IN AFRICA E MEDIO ORIENTE FRANCIA

TUNISIA 1956

SIRIA

MAROCCO

LIBANO

1956 ALGERIA 1962

1946

1943

MAURITANIA

1960

NIGER 1960

MALI

CIAD 1960

1960

SENEGAL

1960

B. FASO

GIBUTI 1977

1960 GUINEA CENTRAFRICA

196ERU N 0

M

1960

GABON

DE

1960

EP.

1960

BENIN 1960 TOGO 1960

COSTA D’AVORIO

CA

196L CONGO 0

1958

R

COMORE

1975 MAYOTTE

1975

Ex colonie francesi e data dell’indipendenza

MADAGASCAR

1960

In!uenza linguistica francese In!uenza linguistico-culturale francese In!uenza militare francese In!uenza economica francese Arabizzazione profonda

dei propri paesi. Il jihadismo o il reclutamento in milizie violente non è che un effetto di una più profonda crisi interiore della società africana. La risposta securitaria che gli europei tendono a dare (o peggio ancora il sostegno a regimi autoritari) provoca l’inasprirsi della crisi e non la sua soluzione. È su tale delicato crinale che ci troviamo oggi: come ridare !ducia alle popolazioni africane aiutandole a costruire un nuovo patriottismo continentale e democratico?

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Mosca o i jihadisti si inseriscono nel vuoto politico lasciato da altri. Sono un pericolo ma non la causa di ciò che avviene. Non ci si deve fare impressionare dalle manifestazioni con le bandiere russe nelle strade di Niamey o altrove: è facile in quei paesi trovare un po’ di giovani pronti a protestare. Ancor più semplice indirizzarli nell’attacco al consolato francese davanti al quale hanno subìto molte umiliazioni nelle lunghe !le in attesa di un visto. Non si tratta nemmeno di mancanza di lavoro per i giovani, corruzione delle élite o violenza (delle istituzioni o dei miliziani come in Sudan). Tutte queste ragioni possono spiegare l’intensità del movimento tellurico in atto e il suo prolungarsi nel tempo. Ma non la sua origine che si può sintetizzare nella !ne dei sogni dell’indipendenza, sia quelli dei padri (orgoglio, identità, unità) sia quelli dei !gli (prosperità, benessere, libertà). L’Africa ha Stati deboli e privi di consenso popolare che nessuno si prende la briga di difendere. Quando poi si tratta di democrazie come in Niger, lo Stato appare ancor più fragile e una qualunque oscillazione militare può farlo cadere. Ciò che è accaduto a luglio a Niamey è signi!cativo: un «colpo opportunista, fatto per saccheggiare il paese», ha detto il presidente Mohamed Bazoum, ostaggio dei putschisti. Il giorno stesso del golpe una parte della popolazione ha tentato una manifestazione di sostegno alla democrazia, subito dispersa a colpi di arma da fuoco. Il giorno dopo il nuovo uomo forte appare in tv: è Abdourahamane Tchiani, capo della Guardia presidenziale nominato dal predecessore di Bazoum, Mahamadou Issoufou. Girano voci di un coinvolgimento di quest’ultimo nel colpo di Stato ma non ci sono prove. Anzi: Issoufou tenta una conciliazione per salvare ciò che resta delle istituzioni. Non vuole aumentare il caos, ma il suo tentativo non riesce. Lo shock per l’Unione Europea è forte: nel Sahel il Niger era il paese più vicino e aveva !rmato numerosi accordi per il contenimento delle migrazioni. Il gran pro"uvio di bandiere russe per strada rappresenta un messaggio della giunta: se non ci lasciate stare andremo verso Mosca. Ormai la Russia in Africa è diventata una sorta di spaventapasseri che serve a sconcertare gli europei e ad aggrapparsi al potere. Gli africani sanno che gli occidentali oggi vedono i russi dietro a tutto e sfruttano tale !ssazione.

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4. Lo Stato africano ha subìto una forte alterazione dall’inizio del nuovo millennio. Da clientelare è divenuto uno Stato privatizzato in cui nessuno crede più. All’inizio delle indipendenze (anni Sessanta e Settanta) lo Stato africano si è formato sul modello europeo: welfare nascente (soprattutto in educazione e sanità); commercio protetto (in prevalenza con le ex metropoli coloniali); preminenza dell’impiego pubblico. Nelle ex colonie inglesi c’è un po’ più di sensibilità per il settore privato, senza però discostarsi da tale sistema. Tutto cambia con gli anni Ottanta e l’inizio dell’ultraliberismo: lo Stato africano è investito da un’ondata di diktat del Fondo monetario internazionale che lo sabotano dall’interno. I piani di aggiustamento strutturale obbligano ad abbandonare il welfare e a privatizzare tutto il privatizzabile. Negli anni Novanta le multinazionali

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occidentali si appropriano di ciò che ha un valore: porti, miniere, colture intensive eccetera. Si tratta del medesimo processo avviato nella Russia post-sovietica, che rende oggi comprensibile agli africani la propaganda «anticoloniale» russa. Così lo Stato africano non riesce più a redistribuire nemmeno in maniera clientelare e si immiserisce del tutto. È in quest’epoca che iniziano i primi processi di disgregazione istituzionale (Liberia e Sierra Leone, Congo/Zaire, Corno d’Africa eccetera), prodromici di ciò che avverrà più tardi su scala più vasta. Ma la resistenza democratica è ancora possibile, come dimostrano la pace in Mozambico, mediata dalla Comunità di Sant’Egidio tra il 1990 e il 1992 e, due anni dopo, la !ne dell’apartheid sudafricano. La democrazia è ancora popolare. Con il nuovo millennio arrivano i cinesi: regalano e prestano, certo a loro vantaggio, ma dimostrano che l’Africa non è il «bottom billion» (l’ultimo miliardo, dal titolo del libro di Paul Collier) senza valore. Anzi, è un mercato dove si possono fare buoni affari e alla !ne di questo secolo sarà il primo continente per popolazione. La reazione occidentale è un dietrofront: si torna a investire per far concorrenza alla nuova potenza che mira a diventare la «fabbrica del mondo» e ha bisogno di tutto (energia e materie prime) ma anche di vendere sul mercato africano. C’è posto per nuovi soggetti: arrivano turchi, indiani, brasiliani, coreani, arabi del Golfo e così via. È il momento magico dell’«Africa rising», in cui tutto sembra possibile. Ma la generale quanto interessata nuova passione per l’Africa non cura i mali sociali: poco o nulla viene fatto per il settore pubblico e non si investe in sanità e educazione, ormai in rovina. Anche la cooperazione allo sviluppo dei paesi ricchi si adegua alla nuova mentalità competitiva: da una parte evita i governi africani ritenendoli irrimediabilmente corrotti; dall’altra inizia a considerare normale far pagare i servizi sociosanitari. Niente è più gratuito: la cultura privatistica entra anche nell’aiuto pubblico allo sviluppo. Non è sorprendente che ciò favorisca una mentalità affaristica e la corruzione che si dice di voler combattere. Nelle città africane si scatena un modello concorrenziale all’eccesso: se le scuole e le università pubbliche deperiscono a vista d’occhio, quelle private spuntano come funghi; se gli ospedali pubblici sono annientati, sorgono ovunque cliniche e farmacie private. Il settore pubblico continua a sprofondare mentre quello privato si installa dovunque, rivolgendosi al nuovo ceto medio, frutto della privatizzazione dell’economia. Il nuovo mantra è: tutto si paga e nulla è per tutti. È vero che girano più soldi, che ci sono numerosi nuovi ricchi e una inattesa prosperità, ma non si tiene conto che senza una risposta erga omnes il tessuto sociale si spezza silenziosamente. La globalizzazione in Africa ha creato molta ricchezza ma non è riuscita a redistribuirla. Ora le diseguaglianze sono più evidenti. Aumentano rancore sociale e/o tentativi illegali di arricchirsi. Prosperano reti criminali e contrabbando. Qui nasce la mentalità che spinge alle migrazioni: un vero e proprio settore economico in cui il giovane scommette su sé stesso. Se non possiedi nient’altro, emigrare diviene un investimento a lungo termine, con tanto di calcolo del rischio. La pulsione a competere e arricchirsi spinge la popolazione africana a cercare so-

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luzioni competitive e/o violente. Il mercato iperliberista è un ambito violento, in cui ci si batte senza esclusione di colpi. Così si giunge alla !ne di un processo in cui la !ducia nelle istituzioni, anche in quelle democratiche, è crollata. Non si crede più nel destino collettivo: resta solo la débrouillardise individuale (sbrigarsela da sé). In tale contesto trova spazio anche una forma di antipolitica sovranista all’africana, come ascoltiamo nei discorsi populisti usati dai militari golpisti. In circa vent’anni lo Stato africano ha perso ogni autorevolezza: da predatore autoritario è diventato esso stesso preda dei più spregiudicati. Finiti i sogni collettivi delle indipendenze (panafricanismo, socialismo africano, unità africana eccetera), muoiono anche quelli della democrazia africana degli anni Novanta (le conferenze nazionali). Lo Stato è divenuto un affare privato in mano a pochi. I giovani africani hanno perso speranza nel futuro dei propri paesi e diventano manodopera per avventure violente. Per comprendere il perché della spirale dei colpi di Stato in Africa saheliana occorre partire da questo. La parte saheliana, più fragile e povera, cede per prima. Ai giovani, maggioranza assoluta della popolazione, senza speranza e svuotati dalla mentalità rapace e individualistica della globalizzazione non resta che il ripiego di prendersela con la Francia, percepita come una matrigna che non ha saputo evitare tutto questo disordine. Un caos di senso prima ancora che economico e sociale. Ma la Francia reale, malgrado tutti gli sforzi delle istituzioni parigine, è lontana: i francesi guardano altrove e sono disinteressati a ciò che avviene nel continente. Come per tutti gli europei, la loro unica preoccupazione è quella migratoria. Nuovi pericoli geopolitici molto più gravi si stanno ammassando e sono più vicini di quanto si creda. Ecco perché l’Unione Europea deve trovare – con generosità – il modo di difendere quest’Africa così cambiata ma pur sempre così vicina.

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ESERCITI COME MILIZIE MILIZIE COME ESERCITI Nel Sahel gli Stati non controllano le proprie Forze armate, che contribuiscono ad alimentare il caos nella regione. Il caso dei corpi pretoriani e delle truppe ausiliarie. La privatizzazione degli apparati militari favorisce i jihadisti. di

Marc-Antoine PÉROUSE DE MONTCLOS

L

A DISFUNZIONALITÀ DEGLI ESERCITI

africani non può essere spiegata senza tenere in considerazione il fatto che, sebbene ambiscano al monopolio della forza legittima, molti Stati non sono ancora riusciti a raggiungere la piena sovranità. Gli apparati coercitivi delle potenze africane svolgono essenzialmente funzioni di polizia per mantenere l’ordine e reprimere l’opposizione politica. Nella regione, le Forze armate si sono talvolta impegnate in operazioni di controinsurrezione, ma non hanno alcuna esperienza di guerra interstatale. In Niger e in Mali, ad esempio, dopo l’indipendenza sono state utilizzate principalmente per attuare colpi di Stato e per sedare le ripetute ribellioni dei separatisti tuareg. L’esercito nigeriano rappresenta una sorta di eccezione, in quanto ha combattuto contro una forza militare composta (in parte) da professionisti durante la guerra di secessione del Biafra, tra il 1967 e il 1970. Tuttavia, anche le Forze armate nigeriane condividono le carenze di altri eserciti della regione. All’epoca, le sue tre divisioni erano comandate da veri e propri signori della guerra, che non rispondevano agli ordini dello Stato maggiore e lasciavano che i loro uomini saccheggiassero le località sottratte al nemico 1. Non volendo coordinare i loro sforzi, i signori della guerra si contendevano la manodopera e l’accesso ai porti per mettere prima dei loro rivali le mani sui carichi. Incaricati di acquistare l’equipaggiamento militare dall’estero, i signori della guerra sono stati presto sospettati di voler prolungare il con"itto esclusivamente per continuare a dirottare il denaro proveniente dai contratti di fornitura di armi. Accusa che oggi viene mossa ai nigeriani nell’ambito della lotta contro Boko Haram. 1. J.J. STREMLAU, The International Politics of the Nigerian Civil War, 1967-1970, New Jersey 1977, Princeton University Press, p. 44.

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Gli altri eserciti della regione hanno avuto gravi problemi di indisciplina, predazione, corruzione e nepotismo. I problemi iniziano dal reclutamento. In Burkina Faso, ad esempio, la catena di comando non ha più i mezzi per condurre controlli di moralità sui candidati alla carriera militare.  2Allo stesso modo, le promozioni e gli incarichi migliori sono spesso assegnati in virtù di raccomandazioni. La meritocrazia, in questi contesti, non esiste. La corruzione sta corrodendo gli apparati militari dell’intera regione, con effetti deleteri sulla disciplina e sul morale delle truppe, che sono mal pagate e mal equipaggiate perché il bilancio della Difesa è sempre più misero. Gli eserciti dei paesi saheliani sono inoltre coinvolti in traf"ci di ogni sorta: petrolio, droga, alcol, tabacco, bestiame eccetera. Possono facilmente rivendere equipaggiamenti sottratti al nemico o rubati dalle proprie scorte, dal momento che gli inventari degli arsenali sono raramente aggiornati. Diversi uf"ciali nigeriani, ad esempio, sono stati sospettati di essere coinvolti in questo tipo di traf"co, a partire dai consiglieri per la Sicurezza nazionale Owoye Andrew Azazi e Sambo Dasuki. Il primo avrebbe consegnato armi ai ribelli del delta del Niger nel 2007; il secondo avrebbe sottratto centinaia di milioni di dollari da contratti mai onorati tra il 2012 e il 2015 3 . Pur volendo mantenere il monopolio della violenza legittima, gli apparati militari hanno spesso preferito chiudere un occhio, abbandonando le misure draconiane che venivano applicate per prevenire il furto di armi da fuoco 4. Le autorità non si fanno illusioni sulla professionalità delle loro truppe: ne dif"dano. Eletti o meno, i capi di Stato dei paesi saheliani sanno che possono essere rovesciati in qualsiasi momento da ammutinati o golpisti. Questi pregiudizi sono così diffusi da in#uenzare anche alcuni ribelli. Nel 1967 il leader dell’ef"mera Repubblica del Biafra, il colonnello Odumegwu Ojukwu, si "dava talmente poco del suo esercito – reclutato in fretta e furia tra le "le di miliziani senza alcuna formazione militare – da creare una guardia pretoriana, la Brigata S, che era molto meglio equipaggiata dell’esercito stesso 5 . Tale approccio è particolarmente diffuso nella regione. In Nigeria, per fare un altro esempio, i militari al potere si affrettarono a creare un’organizzazione apposita, la National Security Organization (Nso), per monitorare le attività dell’esercito dopo il fallito tentativo di colpo di Stato del 1976. Dopo una breve parentesi civile

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2. A.S. OULON, Comprendre les attaques armées au Burkina Faso: pro!ls et itinéraires de terroristes, Ouagadougou 2020, Émile Sia, pp. 27, 31. 3. «Nigeria: The challenge of military reform», International Crisis Group, 2016; «Secret Army Report Implicates NSA Azazi, Ibori, Alamieyeseigha, Henry and Sunny Okah in Sale of Military Weapons to Niger Delta Militants», Sahara Reporters, 2010. 4. Nel Congo Belga, all’inizio del XX secolo, le autorità coloniali pretendevano ad esempio che i soldati nativi fornissero loro una mano mozzata per giusti"care l’uso di qualsiasi munizione. Tali procedure ricordano le pratiche dei negrieri arabi, che chiedevano ai carovanieri di riportare le orecchie delle loro vittime per assicurarsi di non aver venduto gli uomini o le donne scomparsi perché morti di fatica durante il viaggio. 5. P. JOWETT, Modern African Wars (5): The Nigerian-Biafran War 1967-1970, Oxford 2016, Osprey, p. 13.

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tra il 1979 e il 1983, la giunta guidata da Muhammadu Buhari e Tunde Idiagbon estese i poteri della Nso ma non riuscì a impedire un altro golpe guidato dal generale Ibrahim Babangida nel 1985. Per proteggersi dalle innumerevoli trame dei suoi colleghi in uniforme, nel 1989 Babangida istituì a sua volta una guardia nazionale che rispondeva solo ai suoi ordini. Questa forza molto controversa fu in!ne sciolta nel 1993. I presidenti Paul Biya del Camerun e Blaise Compaoré del Burkina Faso decisero di circondarsi di unità d’élite che, meglio equipaggiate dell’esercito regolare, obbedivano direttamente a loro senza passare dagli Stati maggiori. Queste erano, rispettivamente, il Battaglione di intervento rapido (Bir) creato da Biya nel 1999 e il Reggimento per la sicurezza presidenziale (Rsp) inaugurato da Compaoré nel 1995. Occasionalmente, anche i paesi occidentali hanno contribuito a diffondere questi fenomeni, attraverso l’addestramento di forze speciali che venivano deliberatamente tenute separate dagli eserciti regolari per sfuggire ai problemi di corruzione, indisciplina e nepotismo. È il caso degli Stati Uniti con la Brigata Danab in Somalia (2014) o del battaglione 143 della settima divisione dell’Esercito nigeriano, che ha però avuto vita breve (2013-14). I capi di Stato della regione hanno spesso cercato di proteggersi aggirando la gerarchia militare. In Ciad, il presidente maresciallo Idriss Déby, morto nel 2021, era solito cambiare i suoi capi di Stato maggiore ogni anno per evitare che avessero il tempo di costruire reti clientelari in grado di rovesciarlo. Il generale Sani Abacha, al potere in Nigeria dal 1993 al 1998, si è invece circondato di uomini fedeli promuovendo i sottuf!ciali a scapito dei generali di carriera. Altri hanno preferito utilizzare servizi di sicurezza privati. Oggi in Mali i mercenari russi del Gruppo Wagner fanno da guardia pretoriana al capo della giunta di Bamako, Assimi Goïta. In Burkina Faso, dopo la caduta del regime di Blaise Compaoré nel 2014, anch’egli golpista recidivo, il ministro dell’Interno del presidente eletto Roch Marc Christian Kaboré ha cercato invece di proteggere il governo da un possibile colpo di Stato militare sfruttando le milizie di autodifesa della tribù dei mossi, i koglweogo («guardiani della savana»). La giunta di Ibrahim Traoré, salita al potere alla !ne del 2022, sostiene ora di voler far rivivere la tradizione di non allineamento risalente al periodo rivoluzionario del capitano Thomas Sankara (1983-1987). Tradotto: non vuole né mercenari russi né truppe francesi. Pare, infatti, che si af!di a «miliziani» da usare come scudi umani. In caso di attacco alla caserma presidenziale di Ouagadougou, gli assalitori sarebbero infatti costretti a uccidere civili, macchiando così la loro reputazione !n dall’inizio.

Forte tendenza alle fazioni In questi contesti non c’è motivo di sorprendersi della debolezza delle catene di comando militari. La creazione di molteplici unità d’élite non è di buon auspicio per gli sforzi di coordinamento dei vari attori nella lotta contro il terrorismo. Il trattamento preferenziale che tali unità ricevono è destinato a suscitare gelosie e ten-

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ESERCITI COME MILIZIE, MILIZIE COME ESERCITI

sioni all’interno delle forze di difesa. In!ne, l’uso di ausiliari civili mina ulteriormente la credibilità dell’autorità militare. Lo spirito di fazione è il tratto distintivo degli eserciti che dovrebbero combattere i gruppi jihadisti nel Sahel. Le rivalità di potere che contrappongono i militari nelle capitali sono in realtà più preoccupanti e destabilizzanti del radicamento dei ribelli nelle campagne. Anche perché, data la differenza di equipaggiamento, esse tendono a produrre classici fenomeni di guerra asimmetrica. Basti pensare alle battaglie combattute tra «berretti rossi» e «berretti verdi» dell’esercito maliano nelle strade di Bamako all’inizio del 2013, mentre le truppe francesi dell’Operazione Barkhane si spingevano a nord per dare la caccia ai terroristi. I combattimenti che stanno devastando Khartûm sono particolarmente emblematici a tal proposito. In quel contesto si contrappongono le forze regolari del generale ‘Abd al-Fattåõ al-Burhån alle truppe paramilitari delle Forze di supporto rapido (Rsf) agli ordini del generale Muõammad Õamdån Daqlû (detto Õamødatø). Questo corpo armato è stato creato nel 2013 dalla giunta islamista del generale ‘Umar al-Bašør per sedare le ribellioni in Dårfûr. Inizialmente posto sotto il controllo dei servizi segreti del regime, poi direttamente sotto quello della presidenza, ha attratto miliziani dalle !le dei Ãanãåwød, «i cavalieri del diavolo», noti per i loro abusi nel Sudan occidentale. All’epoca, questi entrarono rapidamente in competizione con le circa 20 mila guardie di frontiera di Mûså Hilål, un capo tribù che reclutava principalmente dalla popolazione di lingua araba del Dårfûr  6 . Nel 2017, Õamødatø è riuscito a far arrestare il rivale e a impossessarsi delle sue miniere d’oro. Dopo alcuni successi contro i gruppi ribelli in Dårfûr tra 2015 e 2016, ha anche ampliato la sua base di reclutamento e di azione dispiegando uomini a Khartûm, in Yemen, nel Sud del Kordofan e al con!ne libico, dove ha cercato di arginare il $usso di emigrazione illegale nell’ambito di programmi !nanziati dall’Unione Europea. Allo stesso tempo, le Rsf si sono gradualmente affrancate dall’esercito. Formalizzate con una legge del 2017, hanno presto ricevuto un budget equivalente a quello dei servizi segreti della dittatura, che dovevano essere sciolti al momento della rivoluzione del 2019. Le Rsf sono diventate più burocratiche e professionali grazie alla formazione ricevuta da uf!ciali dell’esercito. La loro ascesa al potere è stata confermata dall’ingresso di Õamødatø nel governo dopo la caduta di ‘Umar al-Bašør nel 2019. Ciò ha preoccupato l’esercito, che ha cercato di rafforzare altre unità per controbilanciare la loro in$uenza. Questo vale in particolare per la Central Reserve Police (Crp) che, istituita nel 1974, è passata sotto il controllo dell’esercito prima dello scoppio del con$itto con le Rsf a Khartûm nel 2023 7.

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6. C. DESHAYES, Les logiques du chaos: révolution, guerre et transition politique au Soudan, Paris 2023, Irsem. 7. Inizialmente sotto il controllo del ministero dell’Interno, questa unità, nota in arabo come Abu Tira dal nome dell’uccello nero sul suo distintivo, è stata utilizzata ampiamente in Dårfûr, dove ha reclutato Ãanãåwød tra i pastori di mucche Baqq©ra, contro i pastori di cammelli delle Guardie di con!ne, i Rizayqåt Abbåla. Nel 2020, uno dei suoi leader, ‘Alø Muõammad ‘Alø ‘Abd al-Raõmån, noto come Kûšayb, è stato arrestato nella Repubblica Centrafricana e trasferito all’Aia per essere processato davanti alla Corte penale internazionale per i crimini di guerra commessi nel 2003-4.

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Il regno dell’impunità Tuttavia, la faziosità non è l’unica s!da che gli eserciti degli Stati saheliani devono affrontare. Anche le massicce violazioni dei diritti umani hanno alimentato i con"itti, spingendo i civili tra le braccia dei gruppi ribelli per sfuggire alle esecuzioni extragiudiziali, agli arresti arbitrari e alle torture in carcere. Dal delta interno del Niger al bacino del Lago Ciad, passando per il Dårfûr, le operazioni di controinsurrezione hanno dato luogo a numerosi abusi di cui i civili sono stati le prime vittime. Il problema ha origini lontane. Quando il Niger divenne indipendente, il presidente Hamani Diori decise di chiudere un occhio sugli abusi commessi dai suoi militari, purché i loro eccessi non minacciassero direttamente il suo potere 8. Da allora, tuttavia, la guerra cosiddetta globale al terrorismo ha incoraggiato la repressione più brutale, giusti!cando gli abusi con la presunta eccezionalità del nemico. Come in Occidente, gli imperativi di sicurezza hanno preso il sopravvento e messo a tacere le proteste contro i danni collaterali e gli eccessi delle risposte militari alle minacce jihadiste e separatiste 9 . Lo scollamento con le esigenze delle popolazioni rurali che vivono nelle zone di con"itto è stato ancora più evidente. Nel Mali centrale, ad esempio, alcuni studi hanno dimostrato che più della metà degli intervistati riteneva che i gruppi jihadisti non fossero il loro problema principale 10. Nonostante le operazioni dell’esercito e delle sue milizie ausiliarie, queste persone hanno deplorato l’assenza di forze di sicurezza, esprimendo così la richiesta di uno Stato basato su un contratto sociale più rispettoso delle popolazioni rurali. Nel frattempo, gli eserciti dei paesi saheliani hanno perso in gran parte la battaglia per i cuori e le menti degli abitanti, in particolare nelle regioni in cui i jihadisti hanno messo radici. Anzi, essi hanno contribuito sia attivamente sia passivamente a prolungare le ostilità. In primo luogo, non proteggendo i civili nelle zone di con"itto hanno incoraggiato la popolazione a concludere accordi con gli insorti e a rifornire i ribelli per sfuggire alle loro rappresaglie ed essere autorizzati a continuare a coltivare i campi e ad allevare le mandrie. Inoltre, le forze governative hanno incoraggiato attivamente i giovani a prendere le armi per difendersi o per vendicarsi di massacri spesso perpetrati sulla base della stigmatizzazione della comunità. In!ne, le atrocità e i saccheggi compiuti dai soldati hanno dimostrato come il crimine pagasse. I soldati in uniforme e i loro ausiliari della milizia hanno potuto dedicarsi a ogni sorta di attività illegale senza essere sanzionati, che si trattasse di racket nei confronti dei contadini, furto di bestiame, uccisione di civili o rovesciamento di presidenti eletti o non eletti. L’impunità che pervade il Sahel è impressionante. 8. A. MAHAMANE, La naissance de l’armée nationale au Niger, 1961-1974, in K. IDRISSA, (a cura di), Armée et politique au Niger, Dakar 2008, Codesria, pp. 75-77. 9. M. DELORI, Ce que vaut une vie. Théorie de la violence libérale, Paris 2021, Editions Amsterdam. 10. V. BAUDAIS, Ecoutez-nous! Enquêtes sur les perceptions des populations au centre du Mali, Stoccolma 2023, Sipri, p. 146.

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ESERCITI COME MILIZIE, MILIZIE COME ESERCITI

Anche alla !ne della guerra fredda i procedimenti contro gli ex dittatori militari hanno avuto raramente successo nelle cosiddette transizioni democratiche, che avrebbero dovuto porre !ne ai regimi a partito unico e alle presidenze a vita. In Mali, ad esempio, nel 1993 i giudici hanno emesso quattro condanne a morte contro i maggiori responsabili della sanguinosa repressione delle manifestazioni che hanno portato alla caduta della giunta di Moussa Traoré nel 1991. Ma le sentenze non sono mai state eseguite. Dopo diversi anni di carcere, Moussa Traoré ha evitato la pena di morte ed è stato graziato. Prima per i suoi crimini di sangue nel 1997, poi per l’appropriazione indebita di fondi pubblici nel 2002. Ospitato in una grande villa a Bamako donata dal governo maliano, nel 2020 gli è stato in!ne tributato un funerale di Stato. Analogamente in Nigeria: alla !ne della dittatura del generale Sani Abacha la commissione istituita nel 1999 sotto l’egida del giudice Chukwudifu Oputa avrebbe dovuto ascoltare decine di migliaia di testimonianze sulle violazioni dei diritti umani commesse durante diversi decenni di governo militare. Ma le udienze non hanno portato a nessuna condanna e un buon numero di alti uf!ciali si è semplicemente astenuto dal rispondere alle convocazioni. A differenza della Commissione per la verità e la riconciliazione in Sudafrica, l’organismo nigeriano non aveva il mandato di avviare processi o concedere amnistie. Da allora, l’elezione nel 2015 dell’ex dittatore militare Muhammadu Buhari ha confermato l’impunità dell’esercito e degli uf!ciali responsabili degli abusi commessi in nome della lotta contro Boko Haram. Nel 2022 la gerarchia ha poi assolto e promosso il capitano Tijjani Balarabe, che nel 2019 ha ucciso tre poliziotti e due civili per liberare un traf!cante d’armi appena arrestato 11 . Tra 2010 e 2020 il ritorno dei militari al potere nel Sahel ha anche rafforzato l’impunità degli eserciti nazionali. Il Mali ne è un esempio. L’autore del colpo di Stato del 2012, il capitano Amadou Haya Sanogo, si è autoproclamato generale mentre si dedicava ad accelerare il ritiro delle truppe dispiegate nel Nord, lasciando così via libera ai jihadisti per conquistare Timbuctu e Gao. Dopo l’intervento militare della Francia e l’elezione del presidente Ibrahim Boubacar Keïta nel 2013, Sanogo ha scontato un periodo in prigione. Ma il suo processo non ha mai avuto esito. Nel 2020 è stato !nalmente rilasciato, con il pretesto che la proroga della sua detenzione aveva superato il termine legale. In seguito a un accordo tra lo Stato e le famiglie delle sue vittime, anche le accuse contro di lui sono cadute. Nel 2019, una legge di accordo nazionale lo ha amnistiato e ha ripristinato i suoi diritti civili, consentendogli di presentarsi alle elezioni se necessario. Dal colpo di Stato di Assimi Goïta nel 2021, Sanogo è diventato di fatto l’uf!ciale più alto in grado dell’esercito maliano. Insomma, una storia incoraggiante per tutti quei soldati tentati dal commettere esecuzioni extragiudiziali, far cadere un governo eletto e saccheggiare le casse dello Stato. In un simile contesto, non sorprende che i tentativi di riformare e professionalizzare gli apparati di sicurezza nella regione siano falliti. Eletti o meno, i capi di

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11. A. ADEPEGBA, S. ODENIYI, «Wadume: Military panel clears 10 soldiers, Balarabe promoted», Punch, 25/8/2022.

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CITTÀ E INFRASTRUTTURE SUL LAGO CIAD N’guigmi

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NIGER

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NIGERIA

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Fotokol Marte

Capitale nazionale o di Stato federale Capoluogo di Regione Funzioni amministrative sovralocali Altre città

Numero di abitanti >1 milione Da 50 a 150 mila Da 20 a 50 mila Da 5 a 20 mila

Con"ni internazionali Strada asfaltata principale Strada asfaltata in costruzione Strada asfaltata in progetto Altre strade a circolazione permanente Piste con praticabilità saltuaria

Stato dei paesi saheliani trovano estremamente dif!cile punire gli uf!ciali deviati senza rischiare l’ammutinamento o addirittura la messa in stato d’accusa. L’esempio più recente è il rovesciamento del presidente Mohammed Bazoum a Niamey nel luglio 2023. Bazoum aveva appena cambiato il suo Stato maggiore e si stava preparando a riformare l’apparato di sicurezza del Niger. In assenza di riforme, gli eserciti della regione continuano a estorcere denaro ai civili e a commettere massacri impunemente, lasciando che i loro miliziani svolgano il lavoro sporco.

Eserciti come milizie Si perpetua così una sorta di divisione del lavoro che vede le forze governative bombardare indiscriminatamente le popolazioni, mentre a terra le missioni di

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ESERCITI COME MILIZIE, MILIZIE COME ESERCITI

ricognizione e i combattimenti ravvicinati sono af!dati agli ausiliari locali. Nulla di nuovo. In Sudan, ad esempio, i governi che si sono succeduti a Khartûm hanno spesso utilizzato le milizie per combattere i separatisti del Sud o i ribelli del Dårfûr, con i muraõõilûn dal 1985 e poi, dal 1989, con le Forze di difesa popolare (Fdp), !no al loro scioglimento e integrazione in un reparto di riserva de l’esercito (2020). Questa forma di esternalizzazione delle operazioni di controinsurrezione compensava le carenze di un esercito la cui élite, reclutata tra le popolazioni urbane della valle del Nilo, era generalmente addestrata per combattere guerre convenzionali. Al contrario, i miliziani provenienti dalle zone di con"itto erano più esperti nell’arte della razzia. I muraõõilûn erano principalmente beduini rizayqåt di lingua araba, mentre le Fdp provenivano in genere da tribù del Sudan occidentale, con l’aggiunta di alcuni militanti islamisti originari delle città. In un periodo di guerra globale al terrorismo, anche il Mali e il Burkina Faso sono tornati alle vecchie pratiche di mobilitazione delle milizie. Nelle zone rurali mal conosciute dai soldati i rispettivi regimi hanno cercato in particolare di attingere ai gruppi di autodifesa comunitaria che già esistevano per compensare le carenze della polizia e proteggere la popolazione dagli attacchi dei ladri di bestiame 12. Ne è conseguita una sorta di militarizzazione delle milizie, mentre gli eserciti nazionali diventavano sempre più simili a queste ultime. Il Burkina Faso, che all’epoca del capitano Thomas Sankara aveva già istituito dei comitati per la difesa della rivoluzione, è certamente il paese che si è spinto più avanti in questo senso. Con una legge approvata all’inizio del 2020, il governo ha istituzionalizzato la creazione dei Volontari per la difesa della patria (Vdp), un gruppo di uomini uf!cialmente autorizzati a portare armi da fuoco che conta !no a 90 mila unità. La tradizione del «popolo in armi», tuttavia, non è scontata nei paesi in cui i sistemi militari sono storicamente basati sugli eserciti professionali e non sulla coscrizione. Le autorità si giusti!cano sostenendo che le milizie sono poco costose, conoscono meglio il territorio e sono quindi in grado di garantire la sicurezza nelle zone di con"itto. Ma queste argomentazioni non reggono all’analisi delle realtà locali. Anzitutto, da un punto di vista economico bisogna tenere conto dei danni causati dalla distribuzione di armi ai civili e dall’esplosione del banditismo che ne può derivare, per non parlare dei costi aggiuntivi necessari per smobilitare gli ausiliari in caso di ritorno alla pace. In secondo luogo, la conoscenza del terreno deve essere valutata in base alle circostanze. I Vdp, ad esempio, sono principalmente agricoltori mossi del Burkina centrale che nel tentativo di espandere le proprie aree coltivate si sono lanciati alla conquista delle terre dei pastori fulani, nel Nord.

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12. A. AHRAM, Proxy Warriors: The Rise and Fall of State-sponsored Militias, Redwood City 2011, Stanford University Press, p. 9.

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Inoltre, la lealtà degli ausiliari civili nella lotta al terrorismo non è garantita. I miliziani sono spesso spinti da motivazioni predatorie e agiscono sotto il controllo di comandanti che assomigliano a capi banda e che riescono a farsi obbedire solo controllando l’accesso alle armi e la rivendita dei bottini di guerra. Gli ausiliari possono avere una propria agenda politica, anche se ciò signi!ca passare da un campo all’altro a seconda dei loro interessi del momento. Nel Paese Dogon, nel Mali centrale, a partire dal 2016 la milizia Dan Na Ambassagou («cacciatori che con!dano in Dio») di Youssouf Toloba ha inizialmente combattuto per conto di Bamako e ha aperto un uf!cio nella capitale per cercare di ottenere il sostegno uf!ciale del presidente Ibrahim Boubacar Keïta. Una volta rieletto nel 2018, questi non ha però mantenuto le sue promesse. I politici del movimento si sono quindi divisi e hanno fondato un proprio gruppo, chiamato Dana Atem («difensori della tradizione»). I miliziani faticano a respingere gli assalti dei gruppi jihadisti e a tenerli a bada per un lungo periodo. Nonostante qualche episodio di resistenza eroica, spesso sono costretti a fuggire quando vengono attaccati perché non hanno la potenza di fuoco dei militari. In Burkina Faso, i Vdp non hanno impedito ai jihadisti di avanzare verso sud, obbligando la popolazione a fuggire nella capitale. In alcuni casi la presenza degli ausiliari ha persino messo in pericolo la vita dei civili, poiché i jihadisti hanno preso di mira i villaggi in cui erano schierati. Fenomeni di tal genere sono stati osservati in Nigeria. Nella regione di Borno, dove impazza Boko Haram, Kwaya Kusar è stata l’unica autorità locale risparmiata dalle violenze, proprio perché gli uomini della Civilian Joint Task Force (Cjtf) non vi avevano messo radici. Nel 2013 la formazione di questa milizia parastatale ha però portato i jihadisti a compiere i primi massacri contro i civili sospettati di collaborare con le autorità 13. Altro effetto perverso: la mobilitazione degli ausiliari è avvenuta generalmente su base comunitaria, facilitando la discriminazione, la stigmatizzazione e il regolamento di conti etnici 14. Oggi dalla Nigeria al Mali, passando per il Burkina Faso e la Guinea, i social parlano di genocidio contro i fulani. Le giunte al potere a Bamako e Ouagadougou di solito negano ogni responsabilità per i massacri di civili. I loro sostenitori assicurano che tra loro ci sono uf!ciali fulani e che gli stessi soldati del Burkina Faso hanno compiuto terribili rappresaglie contro un villaggio mossi a Karma all’inizio del 2023. Resta il fatto che le azioni delle milizie 13. M.-A., PÉROUSE DE MONTCLOS, «A sectarian Jihad in Nigeria: the case of Boko Haram», Small Wars & Insurgencies, n. 5/2016, pp. 878-895; ID., «Résilience et “miracle” en temps de crise dans le Borno: Le cas de la collectivité locale de Kwaya Kusar», in E. CHAUVIN, O. LANGLOIS, C. SEIGNOBOS, C. BAROIN (a cura di), Con!its et violences dans le bassin du lac Tchad. Actes du XVIIe colloque Méga-Tchad, Marseille 2020, Ird, pp. 281-95. 14. Da questo punto di vista, le milizie parastatali impegnate nella lotta al terrorismo sono ben distinte dai gruppi di autodifesa che si formano per altri scopi, ad esempio per monitorare i siti di estrazione dell’oro artigianale ed evitare che i jihadisti si impadroniscano dei giacimenti d’oro o reclutino combattenti tra i minatori.

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legittimano le insurrezioni dei jihadisti, che possono così presentarsi come protettori della umma, la comunità dei musulmani. Il futuro della guerra al terrore nel Sahel si prospetta desolante. Volenti o nolenti, i capi di Stato della regione dif!cilmente sono in grado di riformare e controllare truppe a loro volta incapaci di limitare le atrocità dei propri miliziani. Ciò rende le Forze armate molto poco popolari nelle zone di con"itto. Sicché i tentativi degli Stati di esercitare il monopolio della violenza legittima sono spesso illusori. (traduzione di Giuseppe De Ruvo)

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‘Qui comanda la sabbia’ Conversazione con Mauro ARMANINO, missionario a Niamey a cura di Lucio CARACCIOLO

LIMES Mauro Armanino, chi è lei? ARMANINO «Sono una mescolanza

di terra e di cielo: sabbia che cerca la vita». Nato a Chiavari nel 1952, !glio di partigiano. Operaio e sindacalista della Federazione lavoratori metalmeccanici negli anni Settanta. Ordinato prete presso la Società missioni africane. LIMES Come e perché vive in Niger? ARMANINO Col tempo sono stato sedotto dalle frontiere, grazie anche al volontariato sostitutivo del servizio militare in Costa d’Avorio nel 1976, prima frontiera lontano dal «natio borgo selvaggio» nell’entroterra di Sestri Levante. Poi, negli anni, le frontiere hanno cominciato ad attraversarmi: l’Argentina, la Liberia della guerra (in)civile, il centro storico di Genova con le porte a sbarre del carcere di Marassi. Da dodici anni sono in Niger perché invitato dal vescovo di Niamey ad accompagnare quella frontiera mobile che sono i migranti. Ho accettato l’invito anche perché sollecitato dai confratelli dell’istituto missionario di cui faccio parte. E soprattutto per i migranti stessi. Il fatto che questo paese fosse classi!cato come uno dei più poveri al mondo mi ha convinto del tutto. Sono infatti persuaso che dai poveri scaturisca la verità della politica, dell’economia, della storia e di Dio. Dal 2011, un anno dopo il penultimo colpo di Stato, vivo a Niamey e opero nell’ambito delle migrazioni, interagisco con la società civile della capitale e coordino la formazione delle comunità cristiane del posto. Soprattutto cerco di «abitare» questa frontiera di sabbia! LIMES Di che cosa (soprav)vivono i nigerini? ARMANINO Di quotidiana precarietà. Specie nelle campagne, che raccolgono la maggior parte dei 26 milioni di abitanti del paese. Naturalmente ci sono vari Niger. C’è chi vive all’occidentale con case faraoniche, auto imponenti, viaggi all’estero e studi per i !gli nelle migliori università. In città è l’economia informale che preva-

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le e la metafora della sabbia, onnipresente, rappresenta bene la fragilità e la resilienza del popolo. Si vive di un presente occasionale e si crede che c’è un Dio a cui nulla sfugge e, se per caso qualcosa di storto accade, è parte della sua volontà e comunque chissà, forse poteva andare anche peggio. L’agricoltura di sussistenza, accanto all’informale, è ciò che permette alla gente di sopravvivere nel quotidiano evolversi della povertà. Essa si erge come regina nelle statistiche delle Nazioni Unite sullo sviluppo umano. Il Niger è classi!cato ultimo della lista o comunque poco distante. LIMES Quali problemi affronta un nigerino nella vita quotidiana? ARMANINO In generale, come ben sottolinea un noto umorista nigerino sulle onde di Radio Francia Internazionale, i nigerini sono un popolo di «cercatori»! «Cercarsi», nel francese locale, signi!ca industriarsi per sbarcare il lunario. Tutti «si cercano», ossia vedono come il destino, spesso clemente con i «cercatori», possa aiutarli nella quotidiana lotta per la sopravvivenza. Certo ci sono i funzionari statali, privilegiati quando il salario arriva in tempo, diverse migliaia di tassisti e i contadini nell’economia di base. Le carestie non mancano, né mancano i giovani. Questi sono la straordinaria ricchezza del paese, il più giovane al mondo secondo le statistiche. Il cibo, la casa, la salute, la scuola per i !gli sono un’avventura. Soprattutto manca il lavoro, questo grande scomparso dalle politiche nazionali. LIMES Il Niger è una nazione? Esiste uno spirito patriottico diffuso? ARMANINO Le frontiere tra i numerosi paesi che attorniano il Niger sono state tracciate all’epoca delle colonizzazione e dunque varie popolazioni sono insediate in diversi Stati. Ad esempio i tuareg, gli haussa, gli zerma o i fulani/peul. Dif!cile parlare di nazione in senso classico vista la varietà etnica, linguistica e culturale. L’indipendenza del paese è recente (1960) e il tentativo di creare una nazione che uni!chi tanta pluralità di popoli è un processo lungo e talvolta tortuoso. Naturalmente quando si identi!ca un nemico comune si rafforza l’identità della nazione, ma lo spirito patriottico varia secondo le classi di età e le situazioni. Ci sono avvenimenti che possono unire o ulteriormente dividere e l’azione di certi gruppi armati terroristici gioca molto sulle divisioni etniche o sui risentimenti storico-sociali. Anche lo spirito anticoloniale sembra diffuso e tocca soprattutto le élite delle città e i giovani. LIMES Le differenze fra comunità, etnie e gruppi linguistici sono profonde? ARMANINO Come dappertutto la diversità può essere una potenziale ricchezza oppure può essere percepita come una s!da radicale alla pace stabilita dall’egemone. Nel Niger, come in altri paesi della zona, esiste per esempio la presa in giro rituale tra etnie che nel passato hanno conosciuto con"itti. Si tratta di una semplice ed ef!cace strategia per diluire le tensioni e facilitare il dialogo. Il fenomeno citato è studiato dagli antropologi e usato anche dai politici per riconciliare popolazioni e famiglie. «Les cousinages de plaisanterie», così de!nite in francese, fanno parte del patrimonio mondiale immateriale dell’umanità secondo l’Unesco. Il fatto che non ci sia un’etnia dominante può facilitare il mescolamento (brassage) tra gruppi, ad esempio tramite i matrimoni e le migrazioni interne.

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LIMES Chi ARMANINO

comanda davvero in Niger? La sabbia. Pervasiva, invasiva, insistente, resiliente, accomodante, eterna. L’economia, la politica, la gestione del potere sono «di sabbia», come pure molte amicizie e decisioni. Col tempo ci si accorge che tutto si regge su questa fragile solidità che sconcerta e in fondo rivela molto della nostra condizione umana. La sabbia, con la sua dif!coltà a costruirci sopra, non fa che mettere a nudo la nostra spesso nascosta fragilità. Da questo punto di vista la sabbia è uno straordinario luogo di verità. Accanto alla sabbia ci sono i grandi commercianti, i religiosi, i politici e i partiti che sovente esistono solo e soprattutto durante le elezioni presidenziali o parlamentari. Il presidente della Repubblica è il capo dell’esercito e dell’esecutivo, sullo stile francese. Ma pure lui deve fare i conti col suo partito, con coloro che hanno !nanziato la campagna presidenziale e gli attori esterni. Comanda chi ha i soldi per farlo, mentre il popolo è sistematicamente espropriato della sua teorica sovranità. LIMES Come si comportano i francesi, militari o civili, in Niger? ARMANINO La Francia, ex potenza coloniale che ha cercato di perpetuarsi negli antichi possedimenti, attraversa una crisi d’identità e di credibilità. Nel passato in ogni ministero nigerino c’era una diffusa presenza francese. Sia consiglieri sia decisori. Attualmente ciò è diventato più problematico e meno accettato, almeno uf!cialmente, dalle élite locali. La cooperazione francese continua e così la presenza dei militari, malvisti dalla popolazione anche perché manca un dibattito sereno e costruttivo sulle basi militari straniere nel paese. Attualmente l’atteggiamento dei francesi, militari e non, sembra dettato dalla prudenza e da un certo sentimento di insicurezza, visto quanto accaduto nel vicino Mali e in Burkina Faso. In quei paesi le truppe francesi sono in crisi e la stessa cooperazione ha subìto una battuta d’arresto. LIMES L’odio antifrancese è così diffuso come pare? E si ri"ette sugli occidentali tutti? ARMANINO Dif!cile parlare di odio nei confronti dei francesi come tali. Ciò che desta sconcerto e talvolta rabbia sono piuttosto le politiche e gli atteggiamenti dei francesi, considerati arroganti dalla popolazione. Sono i simboli del potere coloniale a essere invisi, non tanto i cittadini francesi. Certo, quando l’ambiente si surriscalda e certe manipolazioni vengono azionate, specie nelle fasce giovanili, allora sono un po’ tutti gli occidentali a !nire nel mirino. Dif!cile fare differenze tra i «bianchi», considerati spesso come complici diretti o indiretti dello sfruttamento reale o percepito dalla gente. C’è naturalmente chi manipola i legittimi sentimenti patriottici o le frustrazioni della fascia giovanile urbana. Risentimento mi sembra un termine più calzante. LIMES Forse è un alibi per sfuggire alle proprie responsabilità, scaricandole sui francesi? ARMANINO Capita fra certi intellettuali, che però, stando all’amico nigerino Abdourahmane Idrissa che scrive su questo volume di Limes, nel Niger costituiscono una classe. Ricordo di avere scritto, qualche mese dopo il mio arrivo a Niamey, un ar-

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ticolo nel quale domandavo dove fossero !niti gli intellettuali nel Niger. Non mi era sbagliato di molto. Mancano le persone che aiutano a leggere la realtà con onestà, competenza e soprattutto autonomia dal potere costituito. C’è chi si è lasciato comprare dai politici di turno oppure ha scelto di trovare casa ideologica e soprattutto !nanziaria per sistemarsi. Si avverte l’assenza di una visione di società e di Africa slegata da meri interessi personali, di prestigio o pecuniari. Pigrizia intellettuale, facilitata dalla «politica alimentare» di questi anni. Una seria malattia che incide profondamente sull’innovazione dell’assetto politico. Quanto alla scarsa propensione a prendersi le proprie responsabilità, dipende anche dalla notevole carenza educativa che da sempre marca negativamente il paese. LIMES La simpatia per la Russia è effettiva? Se sì, su che cosa si fonda? Tracce di Wagner? ARMANINO Finora la Russia era una perfetta sconosciuta, a parte qualche studente o militare d’altri tempi. Evidentemente le notizie corrono e così le ripicche, soprattutto nei confronti degli inquilini precedenti, Francia e Stati Uniti (in minore misura). Eppure un certo numero di militari golpisti ha frequentato scuole di formazione proprio negli Stati Uniti! Mi viene da sorridere quando vedo le bandierine della Russia, mescolate ad altre dei paesi limitro! amici. Una novità dovuta agli avvenimenti del dopo-golpe e alle minacce di intervento armato della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Cedeao nell’acronimo francese o Ecowas in quello inglese). Ciò ha spinto venditori, partecipanti ai cortei di appoggio ai militari e persino tassisti a esibire la bandiera della Russia che nessuno conosceva prima. LIMES Che cosa è cambiato, se è cambiato, nella vita quotidiana a Niamey dopo il 26 luglio? ARMANINO I ritmi di ricerca del pane quotidiano sono gli stessi ma ulteriormente esacerbati da interruzioni della luce più frequenti e prolungate di prima. L’aumento dei prezzi dei generi alimentari, la chiusura delle frontiere e il diffuso sentimento di incertezza, a volte misto a timore, per l’eventuale intervento armato dall’esterno, contribuiscono a complicare la vita dei nigerini. È cambiato anche il contesto, che da un certo punto di vista ha liberato un discorso pubblico rimasto per un certo tempo come sequestrato dal potere che la «comunità internazionale» chiama «legittimo». Un’opportunità che, stranamente, ha riaperto porte e !nestre di un dibattito più democratico in parte della società. A lungo andare, però, se non si troveranno sbocchi negoziali alla crisi, la gente si stancherà e si potrebbero pro!lare rischi di violenza su innocenti. LIMES Quanto è forte il sostegno alla giunta? ARMANINO Specie fra i giovani sembra forte. La caduta di Bazoum ha innescato una speranza di cambiamento che il torpore politico diffuso in questi anni aveva sedato. Anche in ambito sindacale, in parte della società civile e fra gli universitari ci si è schierati dalla parte dei militari golpisti. Per convinzione o convenienza è dif!cile dire, ma è certo che oggi il paese è marcato da divisioni politiche interessanti. Anche in questo ambito bisognerà leggere il fenomeno sulla media e lunga durata.

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L’entusiasmo di alcune fasce popolari potrebbe col tempo scemare e dare spazio a inedite avventure, segnate dall’incertezza. LIMES Chi si oppone più fortemente ai golpisti? ARMANINO Si deve notare la scontata condanna del golpe a opera della «comunità internazionale», della citata Cedeao (meglio, parte di essa), e naturalmente del partito maggioritario che ha guidato il paese negli ultimi dodici anni. Si oppone chi aveva interessi da difendere garantiti dal regime o coloro per i quali le cose andavano bene così com’erano. Per una parte del popolo, prevale un senso di attesa che si potrebbe tradurre in un «vediamo come va a !nire». Non dimentichiamo che si tratta del quinto golpe in 63 anni d’indipendenza del paese, dunque uno ogni decennio circa. Sembra che i militari siano parte integrante del gioco politico nigerino! LIMES Che ci stanno a fare i nostri soldati lì? Ci parla ogni tanto? Come si sentono? ARMANINO Avevo scritto una lettera aperta di dissenso ai parlamentari italiani, pubblicata dal quotidiano Avvenire, al momento di decidere sulle missioni militari italiane in Niger. Scrivevo testualmente che l’Italia, per rispetto della sua costituzione, dovrebbe favorire un metodo di cooperazione compatibile con la scelta del ripudio della guerra. Certo i militari italiani sono qui per formare militari nigerini. E per farsi accettare e benvolere offrono regali a orfanatro! e scuole… Confermo una volta di più la mia opposizione a ogni tipo di presenza militare qui: non è ciò di cui il popolo abbisogna! La cooperazione italiana col Niger si è articolata in settori interessanti come l’agricoltura e il decentramento amministrativo. Col tempo e con l’accresciuta importanza geopolitica del Niger si è arrivati alla creazione dell’ambasciata italiana, la prima nel Sahel. È cresciuta la collaborazione in ambito militare e il controllo della mobilità dei migranti in direzione del Nord Africa. Il contingente italiano sul posto, inferiore alle 300 unità, ha una base militare presso l’aeroporto della città. I nostri soldati sono spesso ospiti dell’Hotel Bravia di Niamey. Sono poco visibili e danno meno nell’occhio dei militari francesi. Devo riconoscere che il contatto con loro non è per me una priorità.

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SOTTO LA PELLE DEL GOLPE

di

Luca RAINERI

L’atipico putsch di luglio non origina da Agadez, epicentro della consuetudine golpista nigerina. Il petrolio e il malcontento nelle Forze armate contano più dell’uranio e dell’irredentismo tuareg. Il ruolo dell’ex presidente Issoufou. L’alleanza tra Tchiani e Modi.

I

1. N POCO PIÙ DI SESSANT’ANNI DI indipendenza il Niger ha conosciuto sette «républiques», intervallate da quattro golpe militari, alcuni golpe bianchi – forzatura costituzionale senza sparare un colpo – e diversi golpe falliti. Il colpo di Stato militare che il 26 luglio ha destituito il presidente Mohamed Bazoum pone presumibilmente !ne alla settima repubblica e avvia un periodo di transizione dagli esiti incerti. Sarebbe tuttavia fuorviante limitarsi a leggere quest’ultimo sussulto istituzionale come ennesima, prevedibile manifestazione di una coazione a ripetere. Storicamente l’instabilità del Niger ha avuto il suo epicentro nella regione di Agadez, dove sono collocati i giacimenti di uranio a lungo gelosamente controllati da Parigi e dove covano le spinte irredentiste dei tuareg. La miscela esplosiva di tali fattori contribuisce in larga parte a spiegare i sovvertimenti politici che hanno scosso il Niger negli anni Novanta e primi Duemila. Al contrario, gli indizi che emergono dalle dinamiche in corso sembrano condurre lontano da Agadez. Nella complessità dei fattori concorrenti, il peso speci!co dell’uranio parrebbe essere in questo caso inferiore a quello del petrolio e il potere destabilizzante di aspiranti ribelli inferiore a quello della fronda nell’esercito stesso. La regione di Agadez potrebbe quindi passare dal banco degli imputati (frettolosamente) designati a quello delle vittime del recente golpe in Niger. 2. Nell’ultimo decennio, l’equazione securitaria del Niger è profondamente mutata. Con la caduta del regime di Ghedda! i tuareg hanno perso uno sponsor regionale di peso, ma sono altresì divenuti gli interlocutori irrinunciabili delle cancellerie europee preoccupate di arginare i "ussi migratori che attraversano il deserto del Sahara verso il Mediterraneo. L’avvento della settima repubblica nigerina, con la costituzione del 2010 e l’ascesa al potere del Pnds (Partito nigerino per la democrazia e il socialismo) nel 2011, ha contestualmente placato le rivendicazioni

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dei tuareg, mandando in sof!tta la prospettiva della lotta armata. Un tuareg, Birgi Ra!ni, ha ricoperto la carica di primo ministro durante il duplice mandato del presidente Mahamadou Issoufou. Molti ex ribelli hanno trovato collocazione nei neonati enti locali e regionali, altri sono stati cooptati in organi consultivi parastatali. E dal 2021 l’avvicendamento alla presidenza di Bazoum, che pure è di ascendenza araba e non tuareg, è stato salutato con generale favore dalla popolazione di Agadez in quanto rappresentante dei peaux clairs, le etnie considerate «bianche» minoritarie nel paese. Parallelamente, la centralità dell’uranio nell’economia politica del paese è evaporata. Dopo il picco del 2007, il commercio mondiale di questo metallo si è drasticamente ridimensionato a seguito del disastro di Fukushima del 2011, senza più riprendersi. Nel 2013 l’attentato messo a segno da al-Qå‘ida nel Maghreb islamico alle miniere di uranio francesi nella regione di Agadez ha costretto il colosso Areva (oggi Orano) a un dispendioso incremento delle misure di sicurezza. L’accesso ai mercati internazionali è inoltre sempre più ostacolato dall’assenza di adeguate infrastrutture di trasporto che servano i remoti siti di estrazione nelle profondità sahariane. I donatori internazionali si sono dimostrati riluttanti a !nanziare l’ammodernamento della rete viaria della regione di Agadez per timore che avrebbe favorito il rischio di nuovi attentati e agevolato i "ussi migratori verso il Mediterraneo. La concomitanza di costi crescenti di gestione e margini decrescenti di pro!tto ha messo in discussione la convenienza del ricorso all’uranio nigerino. Numerose miniere sono oggi sottoutilizzate e dal 2018 centinaia di dipendenti della !liale nigerina di Orano sono in cassa integrazione. In cambio, la Francia ha incrementato le forniture uranifere da produttori meno onerosi quali Kazakistan, Canada e Australia, con!nando a un ruolo subalterno quelle di Agadez.

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3. La perdita di rilevanza strategica dell’uranio nigerino è parzialmente compensata dalle prospettive promettenti dell’economia petrolifera. I giacimenti nell’area di Agadem – sita nella regione orientale di Diffa, da non confondersi quindi con la settentrionale Agadez – scontano alti costi di estrazione e trasporto che hanno a lungo scoraggiato lo sfruttamento. Nel 2008 però il drastico aumento del costo del barile e l’accresciuta competizione internazionale attirano in Niger la China National Petroleum Corporation (Cnpc), che avvia una modesta estrazione di 20 mila barili al giorno e la realizzazione della prima raf!neria del paese. Formalmente, i proventi delle attività di raf!nazione e vendita sono in parte retrocessi alla Società nigerina dei prodotti petroliferi (Sonidep), ente parastatale controllato da Niamey. Eppure numerose inchieste suggeriscono che durante il decennio di Issoufou le prerogative istituzionali della Sonidep siano state strumentalizzate per alimentare le reti clientelari del presidente, tramite l’allocazione di contratti gon!ati ai fedeli di partito e la generazione sistematica di fondi neri. Soprattutto, la concessione sottobanco di permessi di commercializzazione ed esportazione esentasse – cioè il racket del contrabbando – ha contribuito a cementare i legami fra Issoufou e in"uenti imprenditori nigerini e non, ma ha anche crivellato di debiti la Sonidep

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e lo Stato, sottraendo all’erario un ammontare stimato in 50-70 milioni di dollari l’anno, quasi il 5% del (magro) pil nigerino. Nel frattempo, la compagnia petrolifera algerina Sonatrach ha rivelato la scoperta di nuovi importanti giacimenti nel Nord del paese, mentre la Cnpc ha annunciato l’intenzione di costruire un oleodotto di quasi 2 mila km per agevolare il de!usso del petrolio nigerino verso i porti del Benin e i mercati internazionali. L’opera consentirebbe di valorizzare giacimenti petroliferi oggi sottoutilizzati, decuplicare la produzione nigerina a 200 mila barili al giorno e fare del petrolio il principale traino all’economia del paese. Mantenere la presa su un settore petrolifero in galoppante espansione – e sulle relative prebende – è stata una priorità per Issoufou "no alla "ne del suo mandato e oltre. L’ultima riunione del Consiglio dei ministri dell’ex presidente ha assegnato permessi di estrazione a condizioni di favore a un imprenditore burkinabé sospettato di essere un mero prestanome dello stesso Issoufou. Con l’avvicendamento di Bazoum alla presidenza della repubblica Issoufou riesce in"ne a imporre suo "glio, Sani Issoufou detto «Abba», al ministero del Petrolio e dell’Energia. Bazoum ha quindi avviato un cauto risanamento del settore petrolifero nigerino, pur cercando di evitare lo scontro aperto con il suo in!uente predecessore e mentore. Ha rimpiazzato la dirigenza della Sonidep, ordinato un audit della società – i cui risultati sono stati misteriosamente trafugati e mai pubblicati – e trasferito crescenti competenze a PetroNiger, una società a partecipazione pubblica creata ex novo e pertanto più controllabile. Recenti indiscrezioni suggeriscono che Sani «Abba» Issoufou avrebbe esplicitamente avversato e poi cercato di sabotare queste mosse del presidente, proponendo alla guida di PetroNiger dei fedeli di Issoufou. Le tensioni fra Bazoum e il suo ministro del Petrolio erano andate crescendo nel corso del mese di luglio e l’organigramma di PetroNiger avrebbe dovuto essere sottoposto al voto del Consiglio dei ministri il 27 luglio. Ma il 26 luglio il capo della Guardia presidenziale Abdourahamane Tchiani, notoriamente vicino a Issoufou, ha sequestrato Bazoum e avviato il colpo di Stato. 4. Il legame fra la disputa sulla gestione opaca del petrolio nigerino e il colpo di mano di Tchiani rimane una congettura seducente, persino plausibile. Ma non dimostrabile. S"dano un’interpretazione rigidamente schematica anche la sconfessione del golpe da parte di Issoufou padre – seppure tardiva – e la successiva detenzione di Issoufou "glio da parte dei golpisti – seppure piuttosto blanda. Una ricostruzione lineare delle contingenze è forse inattingibile, ma importa comunque meno che identi"care i vettori di fondo della crisi nigerina. In questa prospettiva è lecito ipotizzare che se la contesa riforma del settore petrolifero ha precipitato la situazione in Niger, tale dinamica si sia intrecciata con i soggiacenti attriti che covavano da mesi negli apparati militari. Nell’ultimo decennio, in effetti, il settore della sicurezza nigerino è stato costretto a far fronte alle pressioni contrapposte e correlate dei gruppi jihadisti alle frontiere e dei partner internazionali (occidentali) che esigevano riforme strutturali.

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SOTTO LA PELLE DEL GOLPE

Consapevole che il malcontento dell’esercito ha rappresentato la pietra tombale di molti suoi predecessori, Bazoum si è mosso con cautela per cercare di traghettare il paese attraverso acque tempestose con un margine di manovra limitato. In questo contesto, il riposizionamento in Niger del contingente militare francese espulso da Mali e Burkina Faso si è rivelato un regalo avvelenato. Bazoum non poteva ri!utarlo – sia per i rapporti esistenti fra Niamey e Parigi sia per l’oggettiva imprescindibilità delle forze francesi nella lotta ai gruppi jihadisti – ma ha dovuto dare fondo a tutte le sue capacità retoriche e risorse politiche per far ingoiare la pillola ai suoi, in un accorato discorso al parlamento dell’aprile 2022. D’altronde, in privato i vertici militari non nascondevano un crescente disagio nei confronti di una relazione asimmetrica che rischiava di scon!nare nella subalternità. Ma anche la scelta del tutto indipendente di Bazoum – e anzi piuttosto indigesta a Parigi – di intraprendere un dif!cile negoziato con i leader locali dello Stato Islamico era fonte di dissapori con gli uf!ciali nigerini più inclini al jusqu’au-boutisme militare. Soprattutto, gli apparati di sicurezza erano preoccupati della politica di Bazoum volta a mitigare – invero, molto cautamente – gli squilibri etnici in seno alle Forze armate. Una maggiore rappresentanza dei soggetti tradizionalmente marginalizzati avrebbe potuto scoraggiare la propensione di questi ultimi a defezionare in favore delle insurrezioni jihadiste, ma la manovra è stata percepita dai gruppi etnici e sociali storicamente dominanti nella !bra dell’esercito come una minaccia alla propria egemonia. A fronte delle crescenti divergenze con le gerarchie militari, nei mesi precedenti il golpe Bazoum sembrava aver abbandonato la consueta prudenza – prossima all’immobilismo – e si era deciso a dare il benservito gli uomini ritenuti meno af!dabili, sostituendo gli uf!ciali a capo della gendarmeria e dello Stato maggiore dell’esercito e mandando in pensione numerosi generali. Si vocifera peraltro che a luglio si preparasse a sostituire il capo della Guardia presidenziale Abdourahamane Tchiani. Il golpe del 26 luglio ha invece proiettato il generale Tchiani al vertice del Consiglio nazionale per la salvaguardia della patria (Cnsp). Ma numerosi osservatori sostengono che ciò non sarebbe stato possibile senza il concorso del generale Salifou Modi, l’ex capo di Stato maggiore licenziato da Bazoum pochi mesi prima. Il giorno del golpe Modi – che sembra aver già preso parte a tre colpi di Stato in passato – è accorso al palazzo presidenziale per parlamentare con Tchiani, con cui ha deciso in!ne di allearsi. Il suo personale prestigio viene ritenuto decisivo nel determinare l’esito del putsch, spostando l’ago della bilancia a favore degli insorti. Due settimane più tardi, Modi viene nominato ministro della Difesa del governo di transizione del Cnsp.

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5. Nel contesto di allerta generale successivo al golpe, Tchiani e Modi hanno dichiarato di voler avviare la formazione di milizie cittadine di autodifesa, seguendo il modello – invero disastroso – del Mali e del Burkina Faso. È probabile che contestualmente si interromperebbe il reclutamento attivo delle etnie minoritarie in

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seno alle Forze armate. Disegno che, se realizzato, rischierebbe di ravvivare le tensioni etniche mai sopite in Niger. A farne le spese sarebbe in primo luogo la regione di Agadez, che rischia di subire i contraccolpi di una sommaria identi!cazione con il regime di Bazoum in nome dell’ampio sostegno politico tributatogli nelle elezioni del 2021 e di una supposta solidarietà etnica dei peaux clairs. L’eventuale polarizzazione fra Agadez e le nuove autorità di Niamey rischierebbe peraltro di saldarsi ad altri fronti caldi nella regione, alimentando instabilità su ampia scala. Nel vicino Mali, il ritiro della missione di pace Onu imposto dalla locale giunta militare rischia di far de!nitivamente saltare il già precario processo di pace fra il governo di Bamako e i ribelli tuareg. In agosto, le prime partenze dei caschi blu non hanno mancato di provocare schermaglie fra esercito maliano e gruppi armati (ex?) ribelli. Una convergenza dei fronti insurrezionali tuareg in Mali e in Niger si è già veri!cata in passato, per quanto in maniera ef!mera. E se nell’ultimo decennio l’uscita di scena di Ghedda! ha privato le ambizioni dei tuareg di un potente catalizzatore, non è da escludere che dal polverone del (dis)ordine internazionale odierno possa emergere un nuovo sponsor.

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Perché il Niger fa gola a cura di Giacomo MARIOTTO

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Il Niger è cerniera strategica tra la fascia saheliana e il deserto profondo, piattaforma privilegiata dei traf!ci di armi, droga ed esseri umani, canale quasi inaggirabile per i migranti che dallo spazio subsahariano premono alla volta delle coste mediterranee. Le principali rotte migratorie che attraversano il paese verso il Nord Africa sono due. Entrambe con fulcro ad Agadez, nel cuore del territorio dei tuareg, rampa di lancio per raggiungere Libia e Algeria. Coloro che puntano ai litorali algerini costeggiano il margine orientale del massiccio dell’Aïr, passando per Arlit e Assamakka. Gli altri attraversano Dirkou e Séguedine per scon!nare nel Fezzan libico. Nell’ultimo decennio, l’allargamento del caos nello spazio libico ha spinto l’Unione Europa a rivolgersi al Niger per la gestione dei "ussi migratori. È per questo che nel 2015 Niamey ha approvato una severa legge anticontrabbando, proibendo il trasporto dei migranti sull’intero territorio nazionale. Ne è risultata l’apertura di una moltitudine di direttrici informali nel deserto, volte a schivare i controlli nei principali centri urbani lungo il tragitto. Ancora nel 2021 l’Agenzia europea della Guardia di frontiera e costiera stabiliva: «Abbiamo l’impressione che la frontiera dell’Europa inizi dalla città di Agadez». La rete dei traf!ci interni non si limita ai migranti. Il Niger è da tempo un importante snodo di transito per sostanze psicotrope (su tutte il tramadolo), per la resina di cannabis marocchina e per la cocaina commerciata dall’Africa occidentale e destinata all’Europa o al Golfo attraverso la Libia. La polizia nigerina realizza di frequente ingenti sequestri di stupefacenti. Nel marzo 2021, in un magazzino della capitale sono state con!scate 17 tonnellate di hashish, per un valore stimato di 37 milioni di dollari. È un processo che talvolta coinvolge anche le cariche politiche. Nel gennaio 2022 il sindaco di Fachi, un comune isolato di poche migliaia di abitanti, è stato arrestato nel deserto con più di 200 kg di cocaina nel proprio veicolo. È anche diffusa la circolazione di armi di provenienza libica, le quali contribuiscono ad accentuare il ruolo delle milizie autonome, quindi il disordine interno. Spesso i "ussi entrano in Niger attraverso il Passo di Salvador e seguono le tradizionali rotte commerciali saheliane, evitando i sistemi di sorveglianza predisposti da Niamey. La maggior parte delle armi raggiunge Agadez, da cui partono piccoli convogli diretti verso Mali (via Tassara o Tchintabaraden) e Nigeria (via Tahoua, Maradi o Zinder). Il valore del Niger è acuito dalla considerevole ricchezza delle sue risorse minerarie. A partire dalle riserve aurifere. Nel 2014 la scoperta di un bacino a Djado, remota valle nell’estremo Nord della regione di Agadez, ha scatenato una corsa

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TRAFFICI E RISORSE IN NIGER L I B I A

F E Z Z A N

A L G E R I A A

T

s as

ili

H

A

G

n'Aj

G

A

R

jer

Madama

Té n e r é

A G A D E Z 1.800 m Assamakka Arlit A Ï R 1.874 m M A L I Gao

Tassara

TILLABÉRI NIAMEY DOSSO

Fachi Giacimento di Agadem (Permesso di sfruttamento concesso alla Cnodc cinese)

Agadez

N I G E R

Tchintabaraden

T I B E S T I

C I A D

TAHOUA Tahoua

ZINDER MARADI Maradi

DIFFA

Zinder

Lago Ciad

BURKINA FASO

N’DJAMENA N I G E R I A

TOGO

BENIN

Siti auriferi del Niger

CAMERUN Tra!co di armi dalla Libia e oltre

Regioni nigerine Tabélot Tchibarakaten (principale) Djado (chiuso nel 2014) Liptako

Principali miniere di uranio (Arlit, Akouta, Imouraren) Giacimenti di petrolio e gas

Rilievi tra 3.500 e 1.500 m tra 1.500 e 1.000 m tra 1.000 e 500 m

all’oro e una drastica crescita del brigantaggio. Dopo poco più di tre anni la propagazione degli episodi di violenza ha costretto Niamey a chiudere il sito. Il principale giacimento in attività è quello di Tchibarakaten, collocato al con!ne con l’Algeria, nel Sahara profondo, a quasi tre giorni di viaggio dall’insediamento più vicino. Col tempo, in questo improbabile af!oramento roccioso si sono stabilite decine di migliaia di persone, tra cui !gurano ex ribelli tuareg, cercatori di fortuna e migranti alla ricerca di denaro per !nanziare la traversata del deserto. Oggi l’oro rappresenta di gran lunga il principale bene d’esportazione del Niger (2,7 miliardi di dollari, equivalenti al 71,4% del totale). C’è quindi l’uranio, metallo impiegato come combustibile nei reattori nucleari, collocato perlopiù nel bacino di Tim Mersoï, uno dei maggiori depositi al mondo. Per incontrare gli immensi giacimenti a cielo aperto che rendono il Niger uno spazio di valore inestimabile occorre spingersi a nord del paese, oltre il massiccio

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SOTTO LA PELLE DEL GOLPE

CROCEVIA AGADEZ Rotte tradizionali della migrazione Rotte informali aperte dopo il 2015 Ramo della rotta per le coste algerine Ramo della rotta per le coste libiche Sedi dell’Oim Principali campi o zone d’accoglienza per i rifugiati o gli sfollati interni

L I B I A

A L G E R I A Madama

A G A D E Z Séguédine

Assamakka

Achegour

Arlit

Dirkou

Fachi M A L I

Agadez

N I G E R Agadem DIFFA

TAHOUA ZINDER Tabareybarey Mangaïzé Tillabéri

Abala TILL ABÉRI

Tahoua

NIAMEY DOSSO

Tanout

N’guigmi

MARADI Maradi

Zinder

Dosso

Di!a

Lago Ciad C I A D

BURKINA FASO N I G E R I A

BENIN Fonte: autori di Limes e International Crisis Group

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dell’Aïr, in prossimità della città di Arlit. I principali depositi sono Arlit, Akouta e Imouraren e si estendono lungo una faglia che procede in direzione longitudinale, dividendo in due sezioni geologiche la regione amministrativa di Agadez. Qui a partire dagli anni Settanta l’azienda francese Areva (denominata Orano nel 2018) ha avviato le proprie operazioni di lavorazione ed estrazione. Un’attività che col tempo ha contaminato l’aria, l’acqua e il terreno di tutta la zona. Oggi questo quadrante brullo, tribolato dalla presenza capillare di banditi e traf!canti di droga, è classi!cato con il colore «rosso» dalla diplomazia di Parigi e costituisce uno dei fulcri del sentimento antifrancese ormai diffuso in tutto l’arco della fascia subsahariana. Orano detiene un controllo pressoché monopolistico sui depositi della regione. Tutte le miniere in concessione sono collocate nel raggio di poche decine di chilometri da Arlit, nei siti di Aïr, Akokan e Imouraren. I circa 1.300 soldati che Parigi ha concentrato in Niger hanno anche l’incarico di garantire la protezione delle località dove si effettua l’estrazione di uranio. Per alimentare i 56 reattori delle 18 centrali nucleari francesi, l’operatore Électricité de France (Edf) necessita ogni anno di circa 8 mila tonnellate di uranio

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Passo di L I B I A Salvador

TRAFFICI DI STUPEFACENTI IN NIGER A L G E R I A

Madama

Verso l’Europa A

M A L I

G

A

D

E

Z

Assamakka

Kidal

Fachi

2

N I G E R

Agadem

Agadez

TAHOUA

Gao

DIFFA

Aderbissinat TILL ABÉRI

NIAMEY

1

C I A D

ZINDER MARADI

Lago Ciad

Zinder

Di!a

DOSSO

BURKINA FASO

N I G E R I A BENIN

Rotta dell’hashish e della cocaina Rotta del tramadolo Con!ni regionali Scontri collegati al tra"co di stupefacenti

1 Con!sca di 17 tonnellate di hashish, per un valore stimato di 37 mln di $, in un magazzino di Niamey - marzo 2021 2 Arresto, in una zona desertica, del sindaco di Fachi trovato in possesso di oltre 200 kg di cocaina nel proprio veicolo - gennaio 2022

naturale. Parigi deve reperire tutte le forniture all’estero. E nell’ultimo decennio il 20% delle quasi 90 mila tonnellate importate nel paese è provenuto proprio dal Niger. Anche per questo motivo l’establishment politico francese ha reagito con preoccupazione al colpo di Stato del generale Abdourahamane Tchiani, specialmente dopo l’annuncio del congelamento delle esportazioni di uranio. È tuttavia improbabile che tale decisione possa causare severe ripercussioni sul settore energetico della Francia, la cui industria mantiene alte le riserve allo scopo di salvaguardarsi da potenziali interruzioni nella catena degli approvvigionamenti. Ma un’interruzione duratura non sarebbe priva di conseguenze. Soprattutto perché a bene!ciarne potrebbero essere Russia e Cina, che per distrazione altrui vedrebbero accrescere la propria presa sulla regione. Il Niger, fatta eccezione per un accordo di cooperazione militare siglato nell’agosto 2017, ha pochi legami di

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sicurezza con Mosca. Tuttavia, negli ultimi cinque anni la Russia si è imposta come principale venditore di armi nell’Africa subsahariana, con una quota di mercato del 26%. Ci sono pochi dubbi che approfondire l’in!uenza russa a Niamey rientri nella grande strategia del Cremlino per la fascia saheliana. Quanto alla Cina, negli ultimi vent’anni ha puntato con decisione sul Niger, "no a diventare il suo secondo maggiore investitore estero dopo la Francia. Nel settembre 2019, PetroChina ha stipulato un accordo con il governo di Niamey per la costruzione di un oleodotto di 2 mila chilometri tra il giacimento nigerino di Agadem (di cui controlla la produzione) e il centro portuale di Cotonou, in Benin. Inoltre, probabilmente non è un caso che negli ultimi mesi i dirigenti cinesi abbiano iniziato a valutare la ripresa dell’estrazione di uranio ad Azelik, una miniera abbandonata nel 2015 a causa delle sfavorevoli condizioni di mercato. Non si può prevedere con certezza quale posizione assumerà la nuova giunta militare a Niamey. Indubbiamente, molto dipenderà da come si intersecheranno gli interessi delle potenze esterne. La Francia osserva inerme lo sgretolarsi di quel poco che restava del suo impero. Gli Stati Uniti intendono contenere l’espansione di Russia e Cina in uno degli ultimi baluardi "lo-occidentali della regione. Altri attori – su tutti Turchia, Egitto ed Emirati Arabi Uniti – scalpitano ai margini. Una sola cosa è certa. Il Niger, eccezionale snodo logistico e bacino di preziose risorse, fa gola un po’ a tutti.

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L’ECOWAS SECONDO LA NIGERIA

di

Carlo Alberto CONTARINI

Abuja manovra l’organizzazione economica per proiettare nuove ambizioni regionali, ma è preda delle sue spaccature interne e dell’ascendente francese. La chiusura della frontiera con il Niger dopo il golpe destabilizza lo storico legame tra i due paesi.

L

1. A PRESA DI NIAMEY DA PARTE DEL GENERALE Abdourahamane Tchiani si inserisce nel solco di un processo di erosione del potere dell’establishment !lofrancese nella regione saheliana. I colpi di Stato militari in Mali, Burkina Faso e Guinea dal 2020 a oggi hanno progressivamente confermato il diffuso malcontento nei confronti delle ingerenze di Parigi e più in generale occidentali. Nell’ultimo decennio, la credibilità dell’Ecowas (Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale, organizzazione imperniata sulla Nigeria) come attore regionale si è andata deteriorando per via della sua incapacità di far fronte alle molteplici crisi interne agli Stati membri e ai fenomeni jihadisti nella fascia saheliana. Accusata di farsi pedina degli interessi francesi in Africa occidentale, l’Ecowas è ora impegnata ad arginare consistenti fratture interne, culminate nell’alleanza di sapore anticoloniale fra Ouagadougou, Bamako e Conakry. Il recente golpe a Niamey ha esasperato tali premesse. L’episodio ha ricevuto grande copertura mediatica internazionale, ma soprattutto è quotidianamente monitorato da quella corrente dell’Ecowas che, trainata dal colosso nigeriano, minaccia un’azione militare per ripristinare l’ordine costituzionale nel caso in cui la via diplomatica dovesse fallire. Una simile soluzione dovrebbe fare i conti con la forte frammentazione che nel frattempo si è prodotta in seno all’organizzazione economica: se inizialmente tutti gli Stati avevano condannato il cambio di regime, ora Mali, Burkina Faso e Guinea sostengono la giunta golpista e minacciano ritorsioni in caso di un intervento esterno in Niger. Intanto la maggior parte dei paesi dell’Ecowas, su iniziativa del presidente nigeriano Bola Tinubu, ha iniziato a imporre sanzioni commerciali e !nanziarie contro Niamey, tra cui l’interruzione delle forniture di elettricità decretata dalla Nigeria.

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LAGOS

2.150.243 Numero di sfollati in Nigeria

Fonte: Unhcr

ONDO

DELTA

EDO

84.979

BENUE 204.103

AKWA IBOM

CROSS RIVER

EBONYI IMO ABIA

ANAMBRA

ENUGU

KOGI

ABUJA 20.059 NASSARAWA

BAYELSA RIVERS

EKITI

e Nige

PLATEAU

66.062

BAUCHI

J IG AWA 50.676

KANO

NIGER (171.974)

N I G E R I A

KADUNA 89.629

KATSINA ZAMFARA 121.434 112.316

NIGER

Fi um KWARA OSUN

KEBBI

45.402

r

Flussi di rifugiati nigeriani 171.974 Numero di rifugiati nei paesi con!nanti

Unità militare ciadiana attaccata TOGO GHANA

Assalto alla base militare di Malam Fatori

Roccaforte (Lago Ciad)

OGUN

Ğamā‘at ahl al-sunna li-l-da‘wa wa-l-Ğihād (Jas) Agenda più locale (1.500 - 2.000 miliziani)

Iswap BENIN Presenza permanente nella foresta di Alagarno

Incursioni Iswap

Provincia dell'Africa occidentale dello Stato Islamico (Iswap) A!liato allo Stato Islamico collegato alla fascia saheliana

BOKO HARAM m (scissione in due fazioni) e

ger Ni

SOKOTO

LE TERRE DI BOKO HARAM

CAMERUN (115.695)

209.252

ADAMAWA

B OR NO

121.434 Numero sfollati in proporzione ABUJA (659) LAGOS (2.710)

TARABA 88.594

39.532

GOMBE

143.759

YOBE

Malam Fatori

Edo (Lingua parlata da circa 5 milioni di persone)

Yoruba (Cristianesimo, islam e religione yoruba circa 40 milioni di persone)

Kanuri (Islamici con culti tradizionali circa 5 milioni di persone)

Hausa e fulani (Islamici sunniti circa 55 milioni di persone)

Maggiori gruppi linguistici nigeriani

1.603.044

Lago Ciad Ngoubova

CIAD (16.294)

L’ECOWAS SECONDO LA NIGERIA

AFRICA CONTRO OCCIDENTE

2. Nata nel 1975 con il trattato di Lagos, l’Ecowas ha come principali obiettivi la promozione dell’autosuf!cienza economica e l’integrazione dei 15 paesi membri, da perseguire anche tramite l’istituzione di un mercato unico e di una moneta comune entro il 2025. Trainata in origine da ambizioni principalmente economiche, l’organizzazione con sede ad Abuja ha acquisito nel corso degli anni una dimensione sempre più politica. La salvaguardia della democrazia e dell’ordine costituzionale sono infatti tra i moventi addotti a giusti!cazione dell’intervento militare nella guerra civile liberiana, in Mali nel 2012 e in Gambia nel 2017. Nei recenti colpi di Stato in Mali, Burkina Faso e Guinea l’Ecowas ha invece dimostrato di saper dosare le proprie forze, limitandosi all’imposizione di sanzioni e alla sospensione dei tre paesi dalla comunità. Le dif!coltà incontrate nella gestione degli ultimi tre casi hanno tuttavia sollevato non pochi dubbi sul suo ruolo di garante democratico della regione, nonché sulle sue capacità di governare i complicati equilibri geostrategici dell’Africa occidentale. Il putsch a Niamey dello scorso 26 luglio ha segnato un radicale cambio di passo nell’approccio regionale dell’Ecowas. A guidare il nuovo indirizzo è il neoeletto presidente nigeriano Bola Tinubu, che nel vertice di Abuja del 10 agosto e nell’incontro ad Accra con le autorità militari del 17 e 18 agosto ha dato prova di volersi smarcare dalla linea della precedente presidenza. Tinubu intende servirsi dell’Ecowas come vettore per ripristinare l’in"uenza della Nigeria, che esprimendo il 50% della popolazione e il 60% del pil dell’insieme degli Stati membri è sempre stata la potenza dominante dell’organizzazione, anche da un punto di vista militare. Abuja ha ricoperto in passato un ruolo centrale sulla scena internazionale, che tuttavia si è ridimensionato a partire dagli anni Duemila. Oggi Tinubu mira a ristabilire tale egemonia ergendosi a garante dell’ordine regionale e brandendo il pugno di ferro contro il governo golpista di Niamey, !no a pro!lare la possibilità di un intervento militare. 3. Per comprendere le implicazioni geopolitiche ed economiche di un potenziale con"itto armato tra Niger e Nigeria occorre soffermarsi sulle relazioni storiche che legano i due paesi. Per Abuja, la frontiera settentrionale nigerina rappresenta storicamente una soglia strategica, economica e culturale di importanza cruciale, non solo perché costituisce il più esteso con!ne della Nigeria. Molti nigeriani vivono infatti a ridosso di tale frontiera e condividono con il Niger l’appartenenza etno-linguistica hausa e la religione islamica. Questa zona, da cui proviene anche l’ex presidente nigerino Mahamadou Issoufou, si è affermata come importante centro di commercio e scambio di beni di consumo, soprattutto di bestiame. La sua natura porosa fa sì che venga quotidianamente attraversata da "ussi transfrontalieri di merci e persone. La linea che separa la Repubblica del Niger e la Repubblica Federale della Nigeria è stata tracciata arti!cialmente dalle potenze coloniali europee durante la Conferenza di Berlino del 1884-5. Prima della creazione di tale con!ne, gli hausa degli attuali Niger e Nigeria del Nord costituivano una stessa nazione, condividendo

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L’ECOWAS SECONDO LA NIGERIA

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lo stesso territorio, lignaggio e religione. Storicamente, infatti, il Kasar Hausa (Terra degli Hausa), che si estendeva dai margini del Sahara agli altipiani di Jos nella Nigeria settentrionale, rappresenta una delle principali istituzioni politiche precoloniali in termini di popolazione e di estensione territoriale. Nonostante la successiva divisone territoriale, la lingua hausa è rimasta uno strumento in grado di modellare le relazioni diplomatiche tra i due paesi. L’«hausanizzazione» dei rapporti bilaterali ha peraltro contribuito a sostenere al potere le élite politiche della Nigeria del Nord. Le attuali sanzioni economiche ai danni del governo di Niamey e la minaccia di un intervento militare in territorio nigerino rischiano di minare la storica relazione tra i due paesi e di turbare gli equilibri geopolitici ed economici dell’intera regione. Secondo l’Arewa Economic Forum, infatti, i commercianti della Nigeria del Nord hanno denunciato la perdita di 13 miliardi di naira di entrate settimanali (più di 15 miliardi di euro) in seguito alla chiusura della frontiera settentrionale con il Niger. La misura adottata dal governo di Abuja ha avuto un impatto economico sostanziale sul sostentamento della popolazione nigeriana nel Nord, aggravando le condizioni di un territorio già attanagliato da una forte crisi economica e politica legata al con!itto con il gruppo jihadista Boko Haram. La precarietà della situazione al con"ne ha inoltre suscitato la preoccupazione dei leader religiosi e politici della Nigeria settentrionale, che si sono attivati per raggiungere una risoluzione diplomatica e scongiurare l’intervento armato. Assieme a 58 senatori degli Stati federati della Nigeria del Nord, gli appelli di Sanusi Lamido Sanusi, ex emiro di Kano, e dello sceicco Bala Lau – personalità che godono di una notevole in!uenza nella regione – hanno avuto come primario obiettivo quello di ammonire il governo di Abuja contro le gravi implicazioni del ricorso all’opzione militare. Che nei fatti porterebbe a un’ulteriore destabilizzazione di queste regioni, peraltro estremamente povere: la circolazione di armi e la diffusione dell’estremismo violento provocherebbero un deterioramento delle condizioni di sicurezza nella Nigeria settentrionale, già af!itta da fenomeni insurrezionali di matrice jihadista, con!itti tra contadini e pastori, rapimenti di massa. Oltre alla preoccupazione della classe politica e dei rappresentanti religiosi, anche la cosiddetta società civile avverte una profonda apprensione per la possibilità di una escalation militare nel Nord. Lo dimostrano le centinaia di persone scese per le strade di Kano, principale centro urbano della Nigeria settentrionale, che sventolando bandiere nigeriane e nigerine hanno scandito slogan antifrancesi e accusato Parigi di incitare la Nigeria a entrare in guerra contro il Niger. Anche prima di questa crisi, la Nigeria attraversava un grave periodo di instabilità politico-economica. Il neopresidente Bola Tinubu ha voluto smarcarsi dalla precedente leadership di Muhammadu Buhari, accusato di passività e indolenza, anche sul fronte domestico. La prima misura politica varata da Tinubu è stata ritirare i sussidi per la benzina, con la promessa di reinvestire i miliardi di naira derivanti da questi tagli in riforme volte a rilanciare l’economia nazionale. La manovra ha tuttavia causato un’impennata dei prezzi: il costo della benzina è raddoppiato, mentre quello di elettricità, generi alimentari e altri beni di prima necessità è sen-

AFRICA CONTRO OCCIDENTE

NIGER E NIGERIA INTERCONNESSI Con!ni del Niger e della Nigeria

L I B I A

A L G E R I A

Con!ne chiuso dopo il golpe in Niger Area abitata dal gruppo etnico hausa

A G A D E Z

Ex Repubblica del Biafra (Stato secessionista a prevalenza igbo esistito dal 30/5/1967 al 15/1/1970

Agadez

C I A D

N I G E R

M A L I

DIFFA TA H O U A

TILLABÉRI

NIAMEY

ZINDER

Lago Ciad

MARADI DOSSO

BURKINA FAS O

Kano BENIN

GHANA

N I G E R I A

F.

Nige r

ABUJA

TOGO

s go VO La -NO O RT u PO tono Co

Benin City

Golfo di Guinea

Port Harcourt

REPUBBLICA CENTRAFRICANA CAMERUN

Direttrici dell’export nigerino attraverso i porti di Benin e Nigeria (attualmente interrotte)

sibilmente aumentato. A ciò si aggiunge un tasso di cambio con il dollaro non stabilizzato, la mancanza strutturale di riserve nazionali di valuta estera (fondamentali per pagare i beni d’importazione e il debito), un preoccupante aumento del tasso di disoccupazione e uno stato di sicurezza nazionale sempre più precario a causa del banditismo nel Centro e nel Nord, del jihadismo nel Nord-Est e delle rivendicazioni indipendentiste biafrane nel Sud-Est. La delicata situazione biafrana rischia inoltre di complicarsi ulteriormente, soprattutto dopo le dichiarazioni di Simon Ekpa, primo ministro del governo della Repubblica del Biafra in esilio, cha ha annunciato pubblicamente che il Biafra si schiererà a sostegno delle giunte golpiste se l’esercito nigeriano interverrà in Niger.

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L’ECOWAS SECONDO LA NIGERIA

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4. L’attivismo di Abuja, che si erge a protettrice dell’ordine costituzionale nella Repubblica del Niger per mezzo dell’Ecowas, è dunque nutrito dall’ambizione a ristabilire un’egemonia regionale e ad acquisire un ruolo di prim’ordine sul piano internazionale. Vi sono però anche attori esterni che traggono vantaggio da una simile postura, in primis la Francia. Il rischio di veder sfumare i propri interessi economici e strategici in territorio nigerino e di perdere la storica in!uenza nella regione, soprattutto dopo il ritiro da Mali e Burkina Faso, hanno portato Parigi a premere per stabilizzare al più presto la situazione in Niger, se necessario anche con l’uso della forza. L’Eliseo sa che in questa chiave l’Ecowas, a guida nigeriana, potrebbe svolgere un ruolo determinante. E la posizione di Abuja sulla crisi in Niger è condizionata anche dal peso delle relazioni bilaterali franco-nigeriane, rafforzatesi negli ultimi due decenni. Dopo un’interruzione dei rapporti diplomatici causata dai sospetti sul ruolo di Parigi nella guerra civile nigeriano-biafrana del 1967-1970, i due paesi hanno ristabilito buoni rapporti anche grazie all’incremento delle attività di importanti aziende francesi (TotalEnergies, Peugeot, Elf, e AirFrance) in territorio nigeriano. Negli ultimi anni, la Nigeria è diventata il primo partner commerciale della Francia nell’Africa subsahariana e il quarto in Africa dopo Marocco, Tunisia e Algeria. Gas e petrolio, e in generale i prodotti delle industrie estrattive, rappresentano il fulcro delle relazioni economiche tra Abuja e Parigi, destinazione del 97% delle esportazioni oltremare nigeriane. A ciò si aggiunge la forte presenza francese nei settori bancario, infrastrutturale e logistico. Oltre agli aiuti, che vedono la Francia impegnata come secondo creditore bilaterale (dopo la Cina) attraverso l’Agenzia francese per lo sviluppo, investitore per oltre 2 miliardi nell’ultimi dieci anni. Le esportazioni dall’Esagono alla Nigeria, che valevano 587 miliardi di euro nel 2019, riforniscono settori centrali dell’economia nigeriana come il manifatturiero e l’agroindustriale. Nonostante l’evidente disparità nelle proporzioni dell’interscambio, l’intesa economica fra i due paesi è cementata anche da iniziative come il France-Nigeria Business Council, inaugurato nel giugno del 2021 da Macron e riunitosi a Parigi lo scorso 10 maggio. Le relazioni tra Parigi e Abuja si articolano anche in materia di sicurezza e difesa, principalmente nei termini di un forte sostegno francese all’Esercito e alla polizia nigeriana, nonché alla Marina più potente dell’Africa occidentale. La Francia sostiene poi la Multinational Joint Task Force nella lotta contro Boko Haram attraverso la condivisione di intelligence e l’appoggio politico-militare offerto alla Commissione del bacino del Lago Ciad. Gli interessi che spingono la Nigeria a proporsi come principale attore continentale nella risoluzione alla crisi nigerina non sono quindi riconducibili unicamente alle sue ambizioni di egemonia regionale. Nei calcoli nigeriani sulla crisi in Niger pesa anche il valore di un’intesa politico-economica così signi"cativa con la Francia e il timore di vederla incrinata in caso di divergenze macroscopiche sulla gestione dell’emergenza nel paese con"nante.

AFRICA CONTRO OCCIDENTE

5. In ultima analisi, l’evoluzione della situazione politica in Niger e la possibilità di un intervento militare contro la giunta golpista di Niamey rischiano di aggravare le già instabili condizioni politiche ed economiche dell’intera regione, lasciando spazio all’avanzata jihadista. La chiusura delle frontiere e le sanzioni economiche non stanno danneggiando solo l’economia nigerina. I loro effetti si riverberano, con ingenti perdite settimanali di miliardi di euro, nella con!nante Nigeria e nel Benin, i cui porti rappresentano il fulcro delle relazioni economiche con il Niger, sprovvisto di uno sbocco sul mare. Sebbene l’obiettivo dichiarato dei golpisti non sia con!scare il potere come !ne in sé, ma piuttosto aprire un periodo di dialogo nazionale che possa gettare le basi per una «nuova vita costituzionale», l’Ecowas non sembra interessato al dialogo. I piani di transizione presentati dal generale Tchiani sono in chiaro con"itto con le richieste dell’organizzazione, che ha ribadito più volte come la priorità sia quella di «ripristinare il presidente Bazoum nelle sue funzioni», dichiarandosi pronta a intervenire anche militarmente. L’Africa occidentale si trova in una fase storica che deciderà del futuro dell’intera regione. I golpisti nigerini – sostenuti da Mali, Guinea e Burkina Faso, che hanno chiuso gli spazi aerei per impedire ad attori regionali o esterni di tentare un intervento dall’alto – e l’Ecowas, sospettata di fare gli interessi francesi, sono le due facce di una regione coinvolta in un radicale mutamento geopolitico.

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AFRICA CONTRO OCCIDENTE

IL PUTSCH IN GABON E IL TRAMONTO DELLA FRANÇAFRIQUE

di

Benoît BARRAL

Libreville era un pilastro dell’influenza francese in Africa. Il golpe non è contro l’Occidente né istigato dai russi, bensì un segno della fine di quel sistema di potere. Con la sua influenza in calo sin dal 2009, Parigi accetta a denti stretti la caduta di un regime sclerotizzato.

A

1. NCORA PRIMA DEL GOLPE IN GABON, nella conferenza annuale degli ambasciatori francesi Emmanuel Macron aveva diagnosticato un’«epidemia di putsch» nel Sahel. Un linguaggio franco che non sempre contraddistingue i circoli diplomatici. Dal 2020 si sono veri!cati sette colpi di Stato in Africa: tutti in paesi francofoni, con l’eccezione del Sudan. In tutta onestà, non sorprende vedere Ali Bongo deposto dall’esercito 1. Possiamo solo trovare ironico che sia stato destituito dai suoi stessi pretoriani, cioè dalla Guardia presidenziale incaricata di proteggerlo, alla testa della quale il capo di Stato aveva posto suo cugino Brice Oligui Nguema, nome da appuntarsi. Anche in Niger è stata la Guardia presidenziale a estromettere il presidente Bazoum, benché la legittimità democratica di quest’ultimo avesse assai poco a che spartire con quella di Ali, la cui unica quali!ca è essere «!glio di». Osserviamo che giocare la carta della sicurezza come garanzia di stabilità è un’illusione: quando le Forze armate constatano che un regime si tiene soltanto con la paura che ispira, sono tentate di partecipare alla spartizione della torta. Può al contrario sorprendere che nelle ore immediatamente successive al colpo di Stato la Francia si sia accontentata, per bocca del suo primo ministro, di «seguire la situazione con la massima attenzione». È stato necessario che la Cina – modello di democrazia – invocasse un «immediato ritorno al normale ordine delle cose» perché Parigi si decidesse a «condannare» il golpe. Ma non «fermamente», come di consueto, semmai a !or di labbra. Entra effettivamente nel calcolo dei golpisti la possibilità di giocare la Cina o la Russia contro l’ex potenza coloniale. I sinodollari sostituiscono facilmente gli aiuti dell’Agenzia francese per lo sviluppo e i russi di Wagner offrono alternative alla cooperazione militare. Il Cremlino, che 1. F. BLANC, «Le Gabon: une stabilité réelle mais fragile», Con!its, 8/7/2021.

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IL PUTSCH IN GABON E IL TRAMONTO DELLA FRANÇAFRIQUE

si è detto «preoccupato» tanto da «osservare da vicino» lo sviluppo della situazione a Libreville, non ha bisogno di istigare e nemmeno di sostenere il colpo di Stato; può contentarsi di raccoglierne i bene!ci geopolitici a posteriori, in maniera opportunistica. La cosiddetta comunità internazionale nel suo insieme sapeva perfettamente che il regime gabonese era all’ultima giostra, che Ali era affaticato e che le elezioni erano truccate. Non avrebbe tardato ad approvare, forse pure a facilitare, la sua caduta.

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2. L’ipotesi numero uno è dunque che l’iniziativa del putsch sia venuta semplicemente dal capo della Guardia presidenziale, potenzialmente incitato dalla concorrenza in seno al clan Bongo. Sarà interessante osservare se Omar Denis Junior Bongo, in con"itto con Ali e Noureddin Bongo, otterrà un incarico importante al governo nel prossimo futuro. Se il colpo di Stato ha funzionato dopo alcuni tentativi falliti, come ad esempio quello del 7 gennaio 2019 da parte di alcuni uf!ciali rapidamente bloccati dalle forze di sicurezza, lo si deve a diversi fattori. Anzitutto la tempistica. Il golpe si è veri!cato subito dopo le elezioni presidenziali il cui risultato si apprestava a essere criticato, come di consueto, dall’opposizione e nelle strade. Bisogna sapere che dal voto del 2009, che secondo gli oppositori sarebbe stato vinto da André Mba Obame, Ali Bongo è un capo di Stato contestato. Nel 2016, per permettergli di sopravanzare Jean Ping, è stato necessario gon!are i risultati nella provincia dell’Alto Ogooué, il suo feudo. Nel 2023 la consultazione elettorale è stata organizzata senza la presenza di alcun osservatore internazionale accreditato e senza concedere alcun visto a giornalisti stranieri. I servizi di France 24, R! e Tv5 Monde, molto seguiti dalla popolazione locali, sono stati sospesi. Così, i putschisti – pardon, il «Comitato di transizione e di restaurazione delle istituzioni» – si sono potuti presentare come guardiani della democrazia, annunciando che «la costituzione è stata violata, le stesse modalità elettorali non sono state eque. L’esercito ha deciso di voltare pagina, di prendersi le proprie responsabilità». La Guardia presidenziale, apparente mente dell’operazione di detronizzazione, si è inoltre curata di mostrare l’unità delle Forze armate. Già il 26 agosto, quattro giorni prima del golpe, il politico di spicco Ondo Ossa avvertiva Bongo che aveva perso la fedeltà sia dell’esercito sia della Guardia. I putschisti si sono premurati di associarsi, nella prima dichiarazione televisiva, a rappresentanti delle truppe regolari e della polizia. In seguito, i golpisti hanno presentato le loro azioni come un’operazione contro la corruzione, ciò che permette loro di giocare sull’esasperazione popolare di fronte al nepotismo dei potenti e di arrestare i guardiani vicini ad Ali per motivi di «deviazione massiccia delle !nanze pubbliche». Il tutto benché lo stesso generale Brice Oligui Nguema sia stato pizzicato per aver comprato tre proprietà in Maryland nel 2015 e nel 2018 con un milione di dollari in contanti. Nessuno si straccia le vesti per salvare un regime la cui corruzione è largamente nota alla popolazione e documentata da decenni – i famosi «biens mal acquis»,

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cavallo di battaglia dell’avvocato francese William Bourdon e di Transparency International 2. Al contrario, molti gruppi di persone si sono riversati in strada nelle città per applaudire i militari, inneggiando alla «liberazione» al grido di «fuori i Bongo». Così le nuove autorità non hanno avuto timori a ripristinare Internet, sapendo di avere il favore della vox populi e delle casse di risonanza sui social network. Altra prova di intelligenza tattica dei militari gabonesi è il fatto di non essersi messi contro i paesi occidentali, scegliendo di non emulare il nazionalismo sbruffone dei golpisti nel Sahel. Al contrario, si sono subito curati di divulgare la seguente dichiarazione: «Noi riaffermiamo il nostro attaccamento al rispetto degli impegni del Gabon nei confronti della comunità internazionale» (leggi: «i fondi della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale saranno sempre benvenuti»). Non hanno nemmeno fatto perno sulla retorica antifrancese. Non solo perché ciò avrebbe avuto poca presa sull’opinione pubblica locale, non (ancora?) manipolata dalla propaganda russa. Ma soprattutto perché la Realpolitik li obbliga a tener conto sia del peso economico della Francia (il colosso minerario e metallurgico Eramet non si rimpiazza facilmente) sia della presenza in Gabon di diverse centinaia di soldati della République. 3. Parigi non è comunque al riparo dalle accuse di aver lasciato mano libera ai golpisti. Anzitutto, i detrattori ritengono che i suoi servizi d’informazione esterna siano stati messi a conoscenza di un progetto di colpo di Stato. Inoltre Ali Bongo, non difeso dai parigini in occasione dell’elezione truccata del 2016, non aveva solo messo i bastoni tra le ruote a diverse imprese francesi ma aveva operato un avvicinamento ad altri partner internazionali. Fra cui il Marocco, dove è stato formato il generale Nguema, presso l’Accademia militare reale di Meknès. In ogni caso, la tempistica del golpe in Gabon è pessima per l’esecutivo francese, che giusti"cava il braccio di ferro con le nuove autorità nigerine con la volontà di non legittimare altri colpi di Stato in Africa ed evitare un contagio. L’impossibilità di mettersi d’accordo su questo punto con gli Stati Uniti, che hanno rinunciato al ripristino di Bazoum a Niamey, dà ragione ai putschisti che sanno di poter giocare sulla concorrenza tra le grandi potenze, indebolendo ulteriormente la posizione della Francia in Africa. Il Gabon è stato il cuore della Françafrique, assieme a Gibuti, Costa d’Avorio e Senegal. Dalla sua indipendenza, è stato sempre considerato come pilastro dell’in#uenza francese in Africa, in particolare durante la lunga presidenza di Omar Bongo (1967-2009). È uno dei paesi del continente in cui la presa dell’ex potenza coloniale è più forte, grazie a diverse imprese come la già citata Eramet, Total, Veolia; a decine di migliaia di espatriati; e soprattutto a una base permanente che ospita circa quattrocento militari in maniera continuativa. La Francia ha sostenuto in diverse occasioni il clan dei Bongo permettendogli di mantenere 2. «Gabon: la justice française reconnaît l’État comme victime dans le dossier des “biens mal acquis”», Tv5 Monde, 15/3/2023.

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IL PUTSCH IN GABON E IL TRAMONTO DELLA FRANÇAFRIQUE

il potere, per esempio durante i moti di Libreville e di Port-Gentil del 1990 o durante le elezioni del 1993. Le relazioni si sono fatte meno strette con l’ascesa al potere di Ali Bongo nel 2009, nel quadro della volontà gabonese di diversi!care i partenariati. Durante la festa dell’indipendenza del 2010, il nuovo presidente ha affermato che la Francia non era più il socio esclusivo del Gabon. Il potere ha favorito investimenti provenienti da India, Singapore e Cina. Molti gruppi francesi hanno incontrato dif!coltà e hanno dovuto lasciare il paese, come per esempio Bouygues Energie, Services, Veritas e Sodex. Il 16 febbraio 2018 la Società dell’acqua e dell’energia del Gabon, !liale di Veolia, è stata nazionalizzata dal governo di Libreville. Le inchieste lanciate dalla giustizia francese hanno contribuito a raffreddare i rapporti. Un ulteriore colpo lo ha dato la volontà di Emmanuel Macron di dare un volto nuovo alla politica africana del suo paese. Il regime gabonese non ha apprezzato il silenzio dell’ex potenza coloniale nella dif!cile rielezione del 2016: entrambi i candidati si sono accusati a vicenda di essere marionette di Parigi, di cui la popolazione ha una percezione assai negativa. A Libreville circolano molti pettegolezzi, spesso strumentalizzati, sull’operato della Francia e dei francesi. 4. Il golpe in Gabon serve a rilanciare un invito: sostenere le legittime opposizioni in tutti gli Stati africani, af!nché l’alternativa a poteri sclerotizzati non debba essere per forza l’esercito. La storia lo ha dimostrato in Ciad, presentato come ultimo bastione contro il terrorismo nel Sahel, ma che si tiene soltanto con la forza delle armi, insostenibile nel lungo termine. Lo ha dimostrato nella Repubblica Democratica del Congo, il più grande Stato dell’Africa subsahariana e il maggiore paese francofono al mondo, che a dicembre affronterà elezioni nelle quali l’intera «comunità internazionale» dovrà assicurare il rispetto delle norme democratiche, af!nché il potere civile che ne uscirà sia pienamente legittimo e dunque operativo. Sono previste altre votazioni in Liberia quest’anno, mentre in Senegal e in Costa d’Avorio nel 2024. È ora di !nirla con la tradizione dell’uomo forte dal sapore golliano. E di puntare razionalmente e strategicamente su movimenti delle società civili africane organizzati e maturi.* (traduzione di Federico Petroni)

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* Una versione di questo articolo è apparsa sulla rivista Con!its.

AFRICA CONTRO OCCIDENTE

LE AFRICHE GIOCANO PER SÉ

di

Luciano POLLICHIENI

Soggettivismo: così il dibattito africano designa l’attitudine all’autonomia strategica dalle grandi potenze, vecchie e nuove. Il ruolo dei paesi leader, dal Senegal al Kenya. L’Occidente annaspa, irretito dai suoi schemi. Turchia e paesi del Golfo plaudono. C’è la sensazione, soprattutto tra i giovani, che sia arrivato il momento di far valere le loro condizioni. C’è la sensazione che sia il nostro momento. Lesley Lokko (2023)

N

1. EL NOVEMBRE 2022, ALLA VIGILIA DELLA COP-27 di Sharm el-Sheikh, il Washington Post pubblicava un editoriale !rmato dall’allora presidente della Nigeria, Muhammadu Buhari, sul tema del cambiamento climatico in Africa 1. Sotto un titolo di per sé emblematico – «Come non parlare all’Africa di cambiamento climatico» – la prosa era ancor più netta: «Molti dei miei omologhi sono frustrati dall’ipocrisia dell’Occidente e dalla sua incapacità di assumersi responsabilità. I governi [occidentali] hanno ripetutamente disatteso la promessa di creare un fondo da cento miliardi di dollari per le politiche di mitigazione e adattamento al cambiamento climatico nei paesi in via di sviluppo – per il disastro causato dalle loro industrie. Secondo le Nazioni Unite, l’Africa è il continente maggiormente colpito dal cambiamento climatico pur essendo il minor contributore a questo fenomeno. L’agenda della Cop-27 sottolinea l’importanza delle compensazioni per le perdite e i danni, (…) ma questa richiesta ha incontrato il silenzio dell’Occidente». Nel luglio 2023 il governo del Botswana ha rinegoziato con il colosso sudafricano De Beers gli accordi per l’estrazione dei diamanti 2. La !rma è giunta a sole 24 ore dalla scadenza degli accordi precedenti – siglati 54 anni prima – che il presidente Mokgweetsi Masisi minacciava di non rinnovare. A fronte di una nuova licenza per 25 anni, l’azienda sudafricana s’impegna a cedere il 30% dei diamanti estratti nella miniera di Debswana (da cui De Beers ricava due terzi dei suoi dia1. M. BUHARI, «Muhammadu Buhari: How not to talk with Africa about climate change», The Washington Post, 9/11/2022. 2. M. MGUNI, T. BIESHEUVEL, «De Beers Loses More Diamonds to Botswana in Last Minute Deal», Bloomberg, 1/7/2023.

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LE AFRICHE GIOCANO PER SÉ

manti ogni anno) alla compagnia di Stato botswana, Okavango Diamond Company. Tuttavia, le autorità del Botswana stanno lavorando a un nuovo accordo che garantirà loro il diritto di trattenere il 50% dei diamanti estratti dal sottosuolo del paese nei prossimi vent’anni. Il segretario permanente del presidente, Emma Peloetlets, ha dichiarato: «Ci prenderemo [quote maggiori] gradualmente. Se lo facessimo subito, senza un piano appropriato per la vendita dei diamanti, il prezzo di mercato crollerebbe. Ma ci siamo detti che non faremo trascorrere altri dieci anni senza raggiungere il 50%» 3. A maggio 2023 il presidente della Repubblica Democratica del Congo (RdC), Félix Tshisekedi, ha compiuto una visita di Stato in Cina 4. A prima vista, nulla di nuovo: le relazioni tra Kinshasa e Pechino sono solide, la Repubblica Popolare è da un decennio il principale investitore nelle miniere e nelle infrastrutture della RdC. Ma le "nalità di Tshisekedi fanno della visita un potenziale spartiacque. Il "ne ultimo, infatti, era rinegoziare il cosiddetto accordo del secolo 5, "rmato dal predecessore Joseph Kabila. L’intesa garantisce a Pechino un ruolo egemonico nello sfruttamento delle risorse minerarie congolesi, in cambio di nove miliardi di dollari d’investimenti cinesi nelle infrastrutture locali. Kinshasa non nasconde la propria insoddisfazione: investimenti parziali, violazione di diverse clausole, malversazioni "nanziare. La visita di Tshisekedi non ha (ancora) portato a una rinegoziazione, soprattutto rispetto alle aspettative congolesi di ottenere la maggioranza delle quote di sfruttamento, ma a luglio il colosso minerario Cmoc ha accettato di sborsare due miliardi di dollari per regolare la disputa sullo sfruttamento della miniera di Tenke Fungurume 6, tra i maggiori giacimenti di cobalto e rame del pianeta. Secondo l’impresa nazionale congolese, Gécamines, i cinesi avevano mentito sul quantitativo di minerali presenti nel sito e dunque omesso di pagare 7,5 miliardi di dollari in royalties. Cosa lega questi tre eventi? L’emergere di un’agenda e di interessi nazionali degli Stati africani. La presenza, in altri termini, di un soggettivismo africano. Mentre la guerra in Ucraina mette "ne alla pace in Europa, mentre Stati Uniti e Cina ingaggiano uno scontro multiforme nel Paci"co, le nazioni africane sono impegnate in uno sforzo – occasionalmente collettivo – per rivedere i rapporti di forza con il resto del mondo in maniera per esse più vantaggiosa. Fulcro di questo processo è lo sfruttamento delle contraddizioni e delle crisi sistemiche negli equilibri geopolitici mondiali, culminate (per ora) nella guerra ucraina. Scopo dell’attuale soggettivismo africano è trasformare gli attori del continente da oggetto passivo dei rapporti geopolitici con le medie e grandi potenze a soggetto attivo sullo scacchiere mondiale, con obiettivi e piani propri. Questa dinamica è destinata a in#uenzare scontri e agende delle potenze extracontinentali nel prossimo futuro. In parte, lo sta già facendo.

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3. Ibidem. 4. «DRC’s Tshisekedi set for China visit, minerals trade deal in the of"ng», The East African, 22/5/2023. 5. «RDC-Chine: comment Kinshasa veut reprendre en main ses ressources», Le Point Afrique, 30/5/2023. 6. M. BURTON, «China’s CMOC Strikes $2 Billion Deal to End Congo Mining Dispute», Bloomberg, 18/7/2023.

AFRICA CONTRO OCCIDENTE

2. Come sottolineato in un recente pamphlet 7, l’Occidente non si è reso conto della nascita e della crescita del soggettivismo africano. Questa miopia si deve principalmente a una concezione del continente che affonda le radici nel pensiero coloniale (ancora vivo) e in tutto il bagaglio di pseudo-conoscenze da esso prodotte. Ancora oggi tecnici, politici e cittadini occidentali percepiscano un continente di 54 Stati come un magma indistinto caratterizzato da fenomeni puramente negativi, problematici 8. Questo (pre)concetto si articola in una narrazione che guarda all’Africa come un solo, enorme paese e persiste malgrado le controprove offerte dal continente, nonché i tentativi di smitizzazione quali (ultimo in ordine di tempo) il libro del cronista americano di origini nigeriane Dipo Faloyin, dal titolo Africa is not a country 9. Per le cancellerie occidentali l’Africa è il cuore di Caoslandia: un continente violento, povero e nel complesso arretrato. Tale visione stereotipata resiste alla prova dei fatti anche quando questi la smentiscono seccamente. La natura stessa dei con"itti nel continente è sensibilmente variata ed è portatrice di una carica soggettivista. La violenza politica – armata e non – che colpisce il Sahel o le megalopoli africane non va ascritta solo a dinamiche tribali e arcaiche, ma anche alla volontà di riequilibrare i rapporti di potere dentro gli Stati. Scontri tra centro e periferia, richieste di riconoscimento. Anche i con"itti tra Stati sono aumentati e hanno preso forme diverse, come dimostrano le tensioni tra i membri dell’Ecowas (Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale) in seguito al golpe in Niger o la guerra per procura nelle province orientali della Repubblica Democratica del Congo 10. Soggetti più maturi, capaci di distillare agende nazionali, tendono a scontrarsi con metodi più so#sticati. L’aumento della soggettività africana si riscontra anche nella gestione dei con"itti all’interno del continente, in termini sia di impegno diplomatico sia di dispiegamento delle forze di peacekeeping 11, oggi percepite come più legittime e desiderabili anche dalle ex potenze coloniali. La violenza armata non è insomma sparita dall’Africa, ma ha cambiato forma e #ni in virtù della spinta soggettivista. Anche i cosiddetti indici di sviluppo umano, da sempre addotti a riprova dell’arretratezza africana, smentiscono lo stereotipo di un continente omogeneamente arcaico e povero. I principali indicatori dell’Undp (il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo) certi#cano un progressivo miglioramento delle condizioni di vita in Africa, che si traduce nell’aumento di popolazione e di ricchezza – al netto degli ampi divari economici, peraltro non un’esclusiva africana  12. Questo miglioramento è peraltro coinciso con la #ne della guerra fredda e dei con"itti per procura combattuti dai due blocchi nel continente. Le élite africane cresciute du7. S. LE GOURIELLC, Pourquoi l’Afrique est entrée dans l’histoire (sans nous)?, Lille 2022, Hikari Éditions. 8. Ibidem. 9. D. FALOYIN, Africa is not a country, London 2022, Penguin Books. 10. L. POLLICHIENI, «I nuovi scontri nella Repubblica Democratica del Congo sono una questione africana», limesonline, 18/8/2022. 11. J. FISHER, N. WILÉN, African Peacekeeping, Cambridge 2022, Cambridge University Press. 12. E. PAICE, Youthquake. Why African demography should matter to the world, London 2021, Head of Zeus.

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rante la guerra fredda hanno imparato a caro prezzo il valore dell’egoismo e la necessità di concepire i rapporti di forza in maniera utilitaristica. I segni di questa attitudine sono evidenti con riferimento ad alcune grandi tematiche. Nel caso del clima, si ha così la crescita in Africa del mercato delle quote di emissione di CO2, con il Kenya tra i soggetti più attivi 13. In quest’ambito si inserisce l’idea della RdC di avviare esplorazioni petrolifere nella foresta pluviale, ipotesi scartata (per il momento) solo in seguito a trattative serrate con i partner occidentali 14. Altra dimostrazione evidente del soggettivismo africano è la postura rispetto alla guerra ucraina. Al momento di votare all’Onu le risoluzioni di condanna all’invasione russa, è emersa la natura egoistica dell’approccio africano al con"itto, con astensioni e assenze sapientemente calcolate in base al tornaconto nazionale. L’approccio «non allineato» è stato mantenuto anche al vertice Usa-Africa di Washington dell’autunno 2022 e a quello successivo Russia-Africa di San Pietroburgo, dove si sono visti i primi segni di dissenso delle leadership africane rispetto alla postura di Mosca. A riprova del distacco relativo con cui gli Stati africani vivono la guerra, nel corso dell’ultima assemblea generale dell’Unione Africana il con"itto è stato nominato una volta sola, dal premier etiope Abiy Ahmed, per giusti#care un peggioramento dei fondamentali macroeconomici del proprio paese. 3. Il soggettivismo africano non si manifesta in maniera univoca. Del resto, se lo facesse smentirebbe la propria natura. Questo momento vede Stati africani trainanti e altri trainati, nell’ambito di un processo dinamico. I soggettivisti sono entità tendenzialmente più strutturate, capaci di opporre resistenza e adottare iniziative nei rapporti con le potenze extracontinentali in virtù di una stabilità politica maggiore, di territori meglio de#niti e di un’identità più solida. Su questi elementi gli Stati soggettivisti sanno costruire una politica di bilanciamento dei rapporti con le grandi potenze, attenti a produrre strappi solo quando la relazione con determinati attori diventa inconciliabile con le aspettative. Così il Senegal, caso riuscito di decolonizzazione dalla Francia, capace di far fruttare il proprio soft power nel rapporto con le grandi e medie potenze. Dakar può essere annoverata tra le madri del soggettivismo, grazie anche al lavoro di autori come Felwine Sarr, che ha gettato le basi dell’approccio soggettivistico per la geopolitica africana 15. Gli effetti del soggettivismo senegalese sono stati particolarmente evidenti durante l’amministrazione di Macky Sall, che ha sfruttato le presidenze di turno dell’Ecowas (2015-2016) e dell’Unione Africana (2022-2023) per strutturare a livello regionale prima e continentale poi il soggettivismo africano. Specie durante la guida dell’Unione Africana, coincisa con l’invasione russa dell’Ucraina, Sall ha saputo mantenere il consenso al «non allineamento»: da un lato ha stretto accordi con la Russia per la vendita di grano (grazie a cui il Senegal ha

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13. D. MIRIRI, «Saudi companies buy 2.2 million tonnes of carbon credits in Kenya auction». Reuters, 14/7/2023. 14. E. WONG «Blinken Presses Congo Leaders to Slow Oil-and-Gas Push in Rainforests», The New York Times, 10/8/2022. 15. F. SARR, Afrotopia, Paris 2016, Éditions Philippe Rey.

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mantenuto l’in!azione più bassa della regione) e ha favorito l’apertura di un nuovo uf"cio della società cinese di armamenti Norinco a Dakar16; dall’altro ha tenuto una linea ferma rispetto alla deriva golpista nell’area, con grande gioia degli alleati occidentali, Parigi in testa 17. Il Senegal punta a giocare un ruolo di rilievo grazie alla professionalizzazione dell’Esercito e al ruolo della sua industria energetica, anche nell’ambito del megaprogetto di gasdotto Nigeria-Marocco. Iniziative ambiziose ma non irrealizzabili, come attesta il Fondo monetario internazionale, che per Dakar prevede nel 2024 un pil in crescita del 10%. Il bilanciamento contraddistingue anche il Kenya, tra i principali debitori della Cina ma partner privilegiato di Washington in Africa occidentale. Su questo so"sticato equilibrio Nairobi tesse la propria rete di interessi regionali e il disegno per l’espansione della Comunità dell’Africa orientale (Eac) che punta a trasformare in organizzazione a suo uso e consumo. Kenyatta è stato il principale sponsor dell’ingresso nell’organizzazione della RdC, le cui risorse minerarie potranno circolare liberamente nell’Eac. Il successore William Ruto ha rafforzato i rapporti con la Tanzania nell’ambito della partita degli oleodotti in Africa orientale, onde diversi"care l’approvvigionamento energetico. La leadership keniota punta a rendere Dar es Salaam la batteria dell’industria hi-tech nazionale, su cui i colossi della Silicon Valley hanno già investito quasi due miliardi di dollari in cinque anni. A riprova degli effetti negativi che la postura soggettivista può produrre, sotto la guida di Abiy Ahmed l’Etiopia non ha esitato a s"dare l’ordine regionale con la guerra nel Tigrè, per rafforzare il proprio ruolo e cambiare l’assetto interno, ponendo "ne al federalismo etnico in favore di un accentramento del potere 18. La scommessa ha ribaltato i punti fermi della politica estera etiope: la guerra ha messo in luce la fragilità del rapporto con Washington spostando Addis Abeba verso l’orbita cinese e (in minor misura) russa, come certi"ca anche il suo ingresso nei Brics. Il soggettivismo dell’Etiopia ne ha altresì rafforzato i legami con l’Eritrea – altro punto di divergenza con gli Stati Uniti – e potrebbe permetterle di guadagnare uno sbocco al mare, superando il trauma storico-identitario causato dall’indipendenza di Asmara. A tal "ne, oltre a stringere accordi con i paesi rivieraschi del Corno d’Africa come Gibuti e la regione autonoma del Somaliland 19, Abiy Ahmed ha ricordato che l’uso della forza resta un’opzione 20. A fronte di questi esempi, i paesi africani più passivi sono la rappresentazione evidente della logica della sopravvivenza dello Stato in Africa teorizzata da Clapham 21. È il caso della Repubblica Centrafricana, dove il governo di Faustin-Archange Toua16. J. NYABIAGE, «Chinese weapons supplier Norinco expands in!uence in West Africa, challenging Russia and France», South China Morning Post, 21/8/2023. 17. «Macky Sall: “Nous ne pouvons pas accepter les coups d’État”», R!, 8/12/21. 18. Cfr. M. PLAUT, S. VAUGHAN, Understaning Ethiopia’s Tigray War, London 2023, Hurst Publishers. 19. «Ethiopia Transport Minister arrives in Somaliland to look at more options for Ethiopia», The Horn Diplomat, 9/8/2023. 20. «Ethiopian PM Abiy Ahmed unveils plans to secure port access by negotiation or by force», The Horn Observer, 23/7/2023. 21. C. CLAPHAM, Africa and the International System. The Politics of State Survival, Lancaster 1996, Cambridge University Press

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déra ha subappaltato la gestione della forza al Gruppo Wagner e alle Forze armate ruandesi. Oppure del Sud Sudan, che fa i conti con un variegato panorama interno di milizie parastatali: dopo aver normalizzato i rapporti con Khartûm, sono af!orate tutte le debolezze di Juba, culminate nella lotta tra il presidente Salva Kiir Mayardit il suo vice Riek Machar. Altro esempio il Ciad, paese di potenziale rilevanza strategica data la posizione geogra!ca 22, feudo della famiglia Déby e storicamente tra gli Stati africani più dipendenti dalle relazioni con Parigi. La geopolitica ciadiana rimane ancorata al principio di vendere l’uso del proprio esercito in cambio di protezione esterna per il regime al potere. Logica diventata, se possibile, ancora più stringente dopo il trauma della caduta di Ghedda!: il propagarsi delle crisi lungo tutti i con!ni – l’instabilità saheliana a ovest, centrafricana a sud, libica a nord e ora sudanese a est – ha reso N’Djamena ancora più dipendente dal supporto esterno. 4. Avere un piano non vuol dire necessariamente realizzarlo. Il soggettivismo africano, come tutte le strategie, presuppone chiarezza d’intenti e capacità d’esecuzione per conseguire i risultati che si propone: sviluppo economico, stabilità, maggior peso geopolitico dell’Africa. Ad esso va comunque riconosciuto di aver messo in luce alcune verità. In primo luogo, ha ulteriormente smascherato l’approccio paternalistico che ancora anima le relazioni tra Europa e Africa. I battibecchi tra Tshisekedi e Macron di fronte alle telecamere o le dichiarazioni di Josep Borrell sull’Africa come «giungla» che può nuocere all’Europa dimostrano come molte griglie interpretative di stampo coloniale siano ancora presenti nel Vecchio Continente. In questa fase, il soggettivismo africano sembra pertanto allargare il Mediterraneo. In secondo luogo, ha offerto nuove prove della crisi che af#igge le grandi potenze. La postura del «non allineamento» illustra infatti l’affanno e l’approssimazione dei megaprogetti con cui Cina e Stati Uniti vorrebbero cooptare gli Stati del continente. Si tratti della Bri (nuove vie della seta) cinese o della Strategia per l’Africa di Washington, il soggettivismo africano s!da le due superpotenze a mostrare #essibilità per adattare le loro iniziative alle peculiarità del continente. Dal momento che l’Africa non è un paese, ciò che funziona in Senegal potrebbe non funzionare in Guinea Bissau, ciò che va bene alla Tanzania potrebbe non attagliarsi all’Uganda. In!ne, ridimensionando le aspettative delle grandi potenze e mettendone in luce le contraddizioni strategiche, il soggettivismo africano apre il continente all’in#uenza delle medie potenze. Paesi di stazza e ambizioni più ridotte, dotati spesso di conoscenze tecniche e liquidità che gli Stati africani cercano: sono questi gli alleati oggi preferiti dalle classi dirigenti africane. È anche in quest’ottica che va letta la capacità di penetrazione di attori come Turchia o Emirati Arabi Uniti. L’ascesa del soggettivismo africano consacra dunque il futuro prossimo dell’Africa a paradiso geopolitico delle medie potenze, che sentitamente ringraziano.

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22. M. DEBOS, «La France au Tchad, l’opération militaire permanente», in T. BORREL ne veut pas mourir. Une Historie de la Françafrique, Paris 2021, Seuil.

ET AL.,

L’Empire qui

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ALL’ONU GLI AFRICANI NON SONO OCCIDENTALI NÉ RUSSI a cura di Alessandro COLASANTI Il 7 aprile 2022 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approva la sospensione della Federazione Russa dal Consiglio per i diritti umani (Unhcr) con 93 YRWLIDYRUHYROLFRQWUDULDVWHQXWLHDVVHQWL/ōHYHQWRªVLJQLƓFDWLYRQRQ tanto perché eccezionale – l’unico precedente storico di tale provvedimento risale al 2011 e riguarda la Libia – quanto per la composizione del voto, che evidenzia la pluralità di vedute degli Stati africani nei confronti di Mosca. Il sostegno alla risoluzione ES-11/3 dal continente è scarno, con soli 10 voti a favore, mentre sono 9 i contrari, 24 gli astenuti e 11 gli assenti. Una differenza VLJQLƓFDWLYDULVSHWWRDOOōDVVHWWR GHJOL RFFLGHQWDOLH GHLORUR DOOHDWL FKH KDQQR votato in modo compatto contro i russi. 0DQRQªXQFDVRLVRODWR&RPHPRVWUDQROHLQIRJUDƓFKHGL'HYHORSPHQW5HLmagined e i dati delle sedute plenarie dell’undicesima sessione speciale di emergenza dell’Assemblea, il voto africano è eterogeneo in tutte le risoluzioni emergenziali nel contesto della Guerra Grande. Mai statico e sempre incline al non allineamento. È un aspetto che emerge dalla prima convocazione del 2 marzo 2022: pochi giorni dopo l’inizio dell’invasione russa, 28 Stati africani votano a favore della risoluzione ES-11/1, «Aggressione contro l’Ucraina». Solo l’Eritrea è contraria; mentre sono 17 gli astenuti e in 8 non si presentano. La terza e la quarta votazione sulla guerra in Ucraina offrono un quadro diverso da quello del 7 aprile. Il 12 ottobre 2022 viene adottata la risoluzione ES-11/4 su «Integrità territoriale dell’Ucraina e difesa dei princìpi della Carta delle Na]LRQL8QLWH}FKHFRQGDQQDOōDQQHVVLRQHGHO'RQEDVGL.KHUVRQHGL=DSRULĻĻMD La questione della violazione dell’integrità territoriale era stata sollevata già in IHEEUDLR GDOOōDPEDVFLDWRUH GHO .HQ\D 0DUWLQ .LPDQL FKH FRJOLH QHOOōLQYDVLRne dell’Ucraina un’eco del colonialismo europeo in Africa. L’assenso degli Stati africani è maggiore rispetto a entrambe le votazioni precedenti. Nessun voto contrario, 30 i favorevoli, ma sono 19 le astensioni e 5 le assenze. Anche la quarta risoluzione, la ES-11/7 su «I princìpi della Carta delle Nazioni Unite per una totale, giusta e duratura pace in Ucraina» registra 30 voti a favore e 2 contrari. Ciò nonostante restano in molti a non volersi schierare né da una parte né dall’altra. Sono 15 le astensioni e 7 le assenze. Cosa spiega il caso africano alle Nazioni Unite? Riguardo alla sospensione della Russia dall’Unhcr, tra i voti contrari troviamo alcuni Stati che intrattengono rapporti con Mosca in campo energetico, economico e/o militare, come Algeria, Repubblica del Congo, Etiopia, Repubblica Centrafricana ed Eritrea, paese OHJDWRDOOD5XVVLDƓQGDLWHPSLGHOOō8UVV/RVWHVVRVSXQWRDQDOLWLFRVLSRWUHEEH applicare anche a coloro che si sono astenuti. È il caso dell’Egitto, paese con cui Mosca collabora nella ricerca nucleare nonché cliente dell’industria bellica russa, e di alcuni paesi del Sahel, subregione dove è forte la presenza del Gruppo Wagner.

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7XWWDYLDOōDQDOLVLFRVWLEHQHƓFLHODFRQWH]]DVWRULFDVRQRQHFHVVDULPDLQVXIƓcienti per cogliere a pieno le posizioni di ogni Stato. L’Egitto per esempio vota a favore in tre occasioni su quattro. Per citare attori diversi da quelli menzionati, il Gabon condanna l’aggressione contro l’Ucraina e l’annessione dei territori occupati, però si esprime contro l’esclusione della Russia dall’Unhrc e si astiene VXOODULVROX]LRQHSHUODmSDFHWRWDOHJLXVWDHGXUDWXUD}/RVWHVVR.HQ\DVFHJOLH GLDVWHQHUVLVXOODULVROX]LRQH(6&RQLOVXRSDUDOOHOLVPR.LPDQLFLULFRUGD che la memoria del colonialismo incide nell’oscillazione dei paesi africani tra Occidente – maggiore sponsor delle risoluzioni – e Federazione Russa (nonché tra Stati Uniti e Cina). ,QƓQHPROWLJRYHUQLDIULFDQLDQFKHVHYLFLQLDJOL8VDHDLVXRLDOOHDWLQRQYHdono la guerra come una minaccia globale, né per i loro interessi nazionalib. In caso di divergenza di interessi, anche l’astensione può rivelarsi utile. L’africanista Ronak Gopaldas si spinge oltre: l’astensione è una presa di posizione che implica la propria capacità d’azione indipendente, libera dal paternalismo occidentaleb. Sebbene le decisioni delle sessioni speciali di emergenza siano simboliche in TXDQWRQRQYLQFRODQWLODIRWRJUDƓDRIIHUWDGDOOō$VVHPEOHD*HQHUDOHRIIUHGXH VSXQWL3ULPRVXJJHULVFHFKHOōHQIDVLVXOOōLQŴXHQ]DUXVVDLQ$IULFDªHVDJHUDWD Il favore di cui gode il Cremlino non è incondizionato. Il peso geopolitico russo GLSHQGHGDOODVXDFDSDFLW¢GLLQŴXHQ]DUHOH«OLWHSROLWLFKHORFDOLHLQDOFXQLFDVL GLFRRSWDUOHLQUDSSRUWLFOLHQWHODUL3X´WUDUQHEHQHƓFLIDFHQGROHYDDQFKHVX una propaganda che offre ai governi africani la percezione di essere considerati. Ma il suo soft power (poco soft) è limitato. Secondo, per molti Stati africani astenersi è scelta razionale, coerente ai princìpi del Movimento dei paesi non allineati. Ed è un segnale sia all’Occidente sia alla Russia: non siamo disposti a fare da pedine nel vostro scontro e a subirne in silenzio le conseguenze.

1. J. +ƨƥƝƞƫ, L. /ƞƚƭơƞƫƛƲ, A. 7ƫƨƢƚƧƨƯƬƤƢ, W. &ƚƢm7KH:HVW7ULHGWR,VRODWH5XVVLD,W'Ldn’t Work», The New York Times, 23/2/2023. 2. R. *ƨƩƚƥƝƚƬ, «Will the Invasion of Ukraine Change Russia-Africa Relations?», Carnegie Endowment for International Peace, 26/4/2023.

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AFRICA CONTRO OCCIDENTE

QUO VADIS AFRICA?

di

Giulio ALBANESE

L’afropessimismo di maniera non riscatterà il continente. Serve invece un approccio concreto al nodo del debito africano, prodotto di anni di politiche economiche neocoloniali. La scommessa della crescita demografica e la proposta della Santa Sede.

S

1. EBBENE L’AFRICA RIENTRI ORMAI A PIENO titolo nel cosiddetto mondo globalizzato, in alcuni ambienti diplomatici, politici, economici e accademici internazionali si riscontra un persistente «afropessimismo» di maniera che, per usare il gergo di un grande africanista del Novecento, il professore Giampaolo Calchi Novati, descrive il continente come una sorta di «nebulosa indifferenziata in perenne emergenza». In linea di principio tutti vorrebbero aiutare l’Africa, specialmente la macroregione subsahariana. Nei fatti poi, molto spesso, ciò non avviene. Il recente colpo di Stato militare in Niger ha portato la questione alla ribalta, soprattutto con le accuse mosse dalla giunta golpista alle ingerenze straniere, in particolare francesi, nelle vicende locali. Il tema è di grande attualità e riguarda non solo l’Africa, ma anche vasti settori di quello che viene denominato Sud Globale. Già nel 1985 Catherine Coquery-Vidrovitch, storica e africanista francese di fama internazionale, nel suo saggio Afrique noire rilevava: «Dal punto di vista economico, sociale, politico e ideologico, i sistemi, i meccanismi e le prospettive che guidano gli Stati africani sembrano contraddittori, poiché al loro interno coesistono e interagiscono elementi ereditati da un passato talvolta lontano, spesso ormai incongrui, ed elementi che appartengono a un futuro più desiderato che progettato». A oltre trent’anni dalla pubblicazione di quest’opera, è il caso di dire che le dif"coltà attuali dell’Africa costituiscono una dilatazione spazio-temporale di quanto scrisse Coquery-Vidrovitch. Questa studiosa aveva peraltro pre"gurato il rischio della «periferizzazione» del continente da parte di quel fenomeno macroeconomico conosciuto come globalizzazione dei mercati. Da questo punto di vista, le strategie messe in atto oggi da potentati stranieri d’ogni genere all’insegna del neocolonialismo tendono a minare i tentativi africani di riscatto, contribuendo a protrarre nel tempo la debolezza sistemica dell’Africa. Se questo continente continua a essere esposto alle

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QUO VADIS AFRICA?

rivalità internazionali (particolarmente in questa stagione segnata dalla crisi del multilateralismo) è perché esso viene percepito dai mercati come terra di conquista. Si tratta di una vulnerabilità che accresce costantemente l’insofferenza delle masse africane. L’azione predatoria, come ha ricordato papa Francesco in occasione della sua recente visita a Kinshasa, ha fatto sì che il continente fosse razziato delle sue immense ricchezze. «Giù le mani dalla Repubblica Democratica del Congo, giù le mani dall’Africa!», ha esclamato il ponte!ce. «Basta soffocare l’Africa: non è una miniera da sfruttare o un suolo da saccheggiare». Questo «colonialismo economico» – nelle parole del papa – che viene spesso perpetrato con la complicità dei locali è un fenomeno di lunga durata. Una simile merci!cazione della condizione umana rappresenta, nella cornice della globalizzazione, un peggioramento rispetto al passato. Il colonialismo tradizionale di per sé non era reductio ad unum, ma piuttosto governo delle differenze, spesso con modalità coercitive e violente. Il neocolonialismo ha annullato ogni genere di varietà, producendo unicamente alterità. Un fenomeno che non solo ha determinato una sempre maggiore parcellizzazione dell’Africa in aree d’interesse, ma ha anche acuito le divisioni interne fomentando l’etnicismo. Meglio sarebbe, come suggerisce Sophie Chautard nel suo saggio La géopolitique, parlare di aree culturali, che corrispondono a spazi a geometria variabile dotati di un tessuto comune e di valori condivisi, in cui i simboli sono di volta in volta la lingua, la religione, gli stili di vita, un certo progetto nazionale o comunitario, e in cui i con!ni non dividono ma sono zone di sovrapposizione. Sono ben noti i drammi provocati dagli scontri etnici che in questi anni hanno insanguinato vasti settori dell’Africa subsahariana. A questo si è aggiunto il fallimento delle ideologie terzomondiste e la loro sostituzione con il falso mito dell’identità, il quale ha favorito divisioni che sono state convalidate dalle burocrazie locali e sfruttate dalle forze esterne per i propri !ni.

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2. Da queste rapidissime considerazioni emerge come in Africa, soprattutto nella macroregione subsahariana, le problematiche del nation building – cioè il processo di costruzione di un’identità nazionale tramite il potere dello Stato – si sommino pesantemente a quelle dello State building, inteso come edi!cazione di un sistema statuale che possa rendere effettiva l’azione di governo. In questo contesto, la crescita demogra!ca africana rappresenta una variabile con cui i paesi industrializzati fanno fatica a misurarsi. In effetti, nel giro di meno di trent’anni tutti gli elementi che oggi caratterizzano il continente africano avranno subìto un’alterazione dif!cilmente pronosticabile con gli strumenti di analisi attualmente a nostra disposizione. In altre parole, le previsioni a breve e medio termine che suscitano pessimismo e allarmismo (rispetto, ad esempio, al tema della mobilità umana) non possono essere fondatamente estese al lungo periodo. Sta di fatto che la popolazione africana sta aumentando in maniera esponenziale. I dati elaborati dal dipartimento per gli Affari economici e sociali delle Nazioni Unite sono a dir poco eloquenti. Nel 1950 la popolazione africana era di 221 milioni di persone. Oggi arriva a un miliardo e 400 milioni, il che vuol dire che nel

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DEBITO PUBBLICO IN AFRICA I valori sono riferiti alla percentuale del debito sul prodotto interno lordo (pil) del singolo paese

PAESE Eritrea Capo Verde Mozambico Zimbabwe Ghana Repubblica del Congo Sierra Leone Mauritius Guinea-Bissau Senegal Gambia Sudafrica Malawi Burundi Togo Namibia Ruanda Kenya Angola Costa d'Avorio Seychelles Gabon Lesotho

% 146,32 120,18 102,8 102,33 98,72 96,46 92,16 78,08 76,5 73,09 72,96 72,31 72,24 69,53 68,5 68,49 67,08 66,65 63,27 63,27 62,5 60,28 58,55

PAESE

%

Burkina Faso 57,96 Liberia 57,08 São Tomé e Principe 54,77 Mali 54,11 Madagascar 53,1 Benin 52,78 Niger 52,52 Uganda 50,22 Repubblica Centrafricana 49,08 Sud Sudan 48,44 Ciad 43,68 Camerun 42,77 Tanzania 40,13 eSwatini 39,29 Nigeria 38,77 Etiopia 37,56 Comore 32,47 Guinea 30,04 Guinea Equatoriale 26,42 Botswana 20,6 Repubblica Democratica del Congo 11,03 Zambia nessun dato

Fonte: Fondo monetario internazionale (2023)

giro di soli 73 anni è aumentata di oltre il 630%. Ma la crescita non !nisce qui. Infatti, sempre secondo le previsioni dell’Onu, la popolazione africana conterà due miliardi e mezzo di persone nel 2050: un quarto della popolazione mondiale. D’altra parte, se si considera che oggi l’età media in Africa è di vent’anni non c’è molto da stupirsi di fronte a queste proiezioni. Nel frattempo, sempre nel 2050, l’Europa rappresenterà il 5% dell’intera popolazione planetaria. Questo signi!ca che in meno di trent’anni la demogra!a africana giocherà un ruolo di estremo rilievo. Una simile crescita assumerà proporzioni tali da costringere le popolazioni urbane a modi!care il loro modo di vivere o di sopravvivere? O forse creerà condizioni più favorevoli, attraverso ad esempio una sana cooperazione tra Nord e Sud del mondo? Anche perché la vecchia Europa, se vorrà continuare a essere competitiva sul versante dell’economia reale, avrà necessariamente bisogno di risorse umane africane. Di fronte a questo scenario assai complesso viene spontaneo domandarsi come aiutare realmente l’Africa. Tenendo sempre presente la disomogeneità, talvolta estremamente marcata, delle condizioni sociali, politiche ed economiche che carat-

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QUO VADIS AFRICA?

TUNISIA

LE RELIGIONI IN AFRICA MAROCCO ALGERIA

SAHARA OCC.

LIBIA

EGITTO

MAURITANIA MALI SENEGAL

NIGER CIAD

SUDAN

GUINEA SOMALIA

NIGERIA ETIOPIA

SUD SUDAN REP. CENTRAFRICANA GUINEA-BISSAU UGANDA

GAMBIA GABON

KENYA

REP. DEM. DEL CONGO

RUANDA BURUNDI

CAPO VERDE TANZANIA

SEYCHELLES COMORE

ANGOLA ZAMBIA MOZAMBICO NAMIBIA ZIMBABWE BOTSWANA ESWATINI

MADAGASCAR LESOTHO SUDAFRICA

Paesi a religione dominante (dal 65% al 100%) Islam Cristianesimo Paesi a religione maggioritaria Islam Cristianesimo Animismo

Paesi dove l’animismo è la seconda religione (in percentuale)

Paesi con forte presenza di animisti

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Sierra Leone

Togo

Eritrea

Liberia

Benin

Gibuti

Costa d’Avorio

Camerun

Congo Br.

Burkina Faso

Guinea Eq.

Malawi

Ghana

São Tomé e Príncipe

ZAMBIA ZIMBABWE CONGO BR. BENIN GUINEA-BISSAU

27 41,6 32,8 30,2 39,5

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terizzano i paesi africani, unitamente alle crescenti diseguaglianze all’interno dei singoli Stati, l’agognato riscatto democratico dipenderà dalla capacità delle classi dirigenti locali di occuparsi degli interessi comuni delle rispettive popolazioni. La conditio sine qua non dovrà essere necessariamente rappresentata dalla spinta endogena a creare un’effettiva sinergia tra i paesi membri dell’Unione Africana (Ua). L’edi!cazione di un impianto continentale deputato alla progressiva creazione di un mercato comune rappresenta una via tutta africana per introdurre strumenti di sviluppo economico che hanno un potenziale enorme. Il recente trattato sull’Area di libero scambio continentale africana (African Continental Free Trade Area), che ha come obiettivo il potenziamento dell’industrializzazione e del commercio intra-africano attraverso la rimozione delle barriere tariffarie e non tariffarie su beni e servizi, fa ben sperare. Come scrisse in piena guerra fredda uno dei principali maître à penser del panafricanismo, il ghanese Kwame N’Krumah, nel libro Africa Must Unite (pubblicato nel 1963): «Attualmente, molti Stati africani indipendenti si stanno muovendo in una direzione che ci espone ai pericoli dell’imperialismo e del neocolonialismo. Ci occorre, perciò, una base politica comune per l’integrazione delle nostre politiche di programmazione economica, di difesa delle relazioni estere e diplomatiche. Questa base di azione politica non richiede la violazione dell’essenza della sovranità dei singoli Stati africani. Questi Stati continueranno a esercitare un’autorità indipendente, a eccezione di settori de!niti e riservati all’azione comune, nell’interesse della sicurezza e dell’ordinato sviluppo dell’intero continente». 3. Parole che conservano una certa attualità: l’integrazione rappresenta ormai un’urgenza non più procrastinabile se s’intende davvero voltare pagina, affrontando in modo perspicace, ad esempio, la questione del debito pubblico. Nell’agenda politica africana l’indebitamento rappresenta, infatti, una vexata quaestio la cui soluzione esige unità d’intenti. Si tratta del vero nodo da sciogliere se s’intende contrastare la con"ittualità e soprattutto garantire lo sviluppo in un contesto dove gli effetti del surriscaldamento globale stanno causando pene indicibili alle popolazioni autoctone. È una vecchia storia che si ripete ciclicamente nel tempo, seguendo la perversa logica del debito che chiama altro debito. Se l’Africa vuole affrontare questa s!da una volta per tutte deve agire con un cuor solo e un’anima sola, evitando di commettere gli errori del passato. Alcuni dei nostri lettori ricorderanno che questo continente attraversò una devastante crisi debitoria – denunciata a squarciagola dal mondo missionario d’allora – dagli anni Ottanta !no a quando, due decenni or sono, grazie al progetto Highly Indebted Poor Countries promosso dal Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, una trentina di paesi a basso reddito della fascia subsahariana ottennero una riduzione del debito per un totale di circa cento miliardi di dollari. A questo programma ne seguì un altro, la cosiddetta Multilateral Debt Relief Initiative. Simili iniziative suscitarono grande euforia perché consentirono a molti paesi africani di riprendere !ato accedendo a prestiti insperati. Ben presto però tra i go-

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QUO VADIS AFRICA?

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verni del continente si diffuse la tendenza a sostituire il debito multilaterale a basso costo e lungo termine con un debito verso creditori privati (assicurazioni, banche, fondi di investimento, fondi di private equity), molto più oneroso e a breve termine. Come risultato, il debito di cui sopra è stato letteralmente !nanziarizzato e di conseguenza il pagamento degli interessi è stato inscindibilmente legato alle attività speculative sui mercati internazionali. Questo ha comportato costi di servizio del debito e rischi di ri!nanziamento più elevati, portando la cifra assoluta del debito a 1.140 miliardi di dollari. Si tratta di un valore assoluto certamente inferiore a quello delle economie avanzate. È però una cifra debitoria elevata se rapportata al valore complessivo del pil africano, pari a circa 3 trilioni di dollari. Per avere un raffronto, basti pensare che quello dell’Unione europea è di 16,5 trilioni. Vista anche la fragilità in cui versano molte economie nazionali nel contesto odierno, il problema del debito africano dovrebbe essere oggetto di preoccupazione internazionale. L’impennata dei tassi d’interesse a livello globale rende infatti sempre più dif!cile la ricerca di fonti di !nanziamento alternative per molti paesi africani che stanno testando i limiti della capacità dei propri mercati nazionali per ovviare alla mancanza di fondi internazionali. Qui le responsabilità ricadono tanto sulle classi dirigenti locali quanto sulle stesse istituzioni !nanziarie internazionali. Le quali pretendono che le concessioni per lo sfruttamento delle materie prime, unitamente alle privatizzazioni (la cui applicazione ha generato in alcuni casi penose distorsioni come il land grabbing, cioè l’accaparramento dei terreni da parte delle aziende straniere) vengano attuate «senza se e senza ma», per arginare il debito. Si tratta di un affare colossale, visto che generalmente le monete locali sono fortemente deprezzate. La questione di fondo è che in questo scenario a dettare le regole del gioco è la !nanza speculativa, che considera inaf!dabile uno Stato pesantemente indebitato e di conseguenza lo emargina di fatto dai mercati !nanziari, costringendolo a pagare più caro il denaro, almeno il quadruplo di quanto lo pagano i paesi economicamente avanzati. Questo si traduce per i paesi africani nell’assenza di un welfare degno di questo nome. Ma anche nella mancanza di infrastrutture (strade, scuole, ospedali), necessarie sia alla lotta contro la povertà sia alla creazione di condizioni adatte ad avviare lo sviluppo. Il quale, a sua volta, garantirebbe la restituzione del prestito ricevuto. Se è vero che la crisi è mondiale – lo scorso giugno si calcolava che il debito globale, pubblico e privato, fosse pari a 300 mila miliardi di dollari, cioè al 350% del pil mondiale; nel 1999 era di 200 mila miliardi – è innegabile che siano i gli Stati africani quelli maggiormente sotto pressione. Come ha rilevato l’economista Paolo Raimondi: «Essi sono direttamente in"uenzati dalle politiche monetarie della Federal Reserve. Alti tassi d’interesse, un dollaro forte, la fuga di capitali, la svalutazione delle monete locali e l’in"azione stanno rendendo molto dif!cile la gestione del loro debito. L’Economist ha identi!cato ben 53 paesi vulnerabili, molti dei quali africani, che sono crollati sotto il peso del debito o sono a rischio di farlo. Non è un caso se la Banca mondiale sostiene che il 60% dei paesi poveri è diventato debitore ad alto rischio». A questo

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CRESCITA ECONOMICA IN AFRICA Proiezioni dei cambiamenti del pil 2022-2026 in %

2022

2023

2024-26

0

1

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3

4

5

6

7

8

9

0

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Egitto Algeria Sudan Marocco Costa d’Avorio Ghana Senegal Nigeria Uganda Tanzania Kenya Etiopia Rep. Dem. del Congo Camerun Angola Rep. del Congo Botswana Mozambico Zambia Sudafrica

Fonte: The Economist Intelligence Unit (2022)

proposito è bene rammentare che in linea di principio i debiti non sarebbero un problema se servissero a sostenere gli investimenti per lo sviluppo industriale e tecnologico. Il problema viene palesemente alla ribalta quando sono prevalentemente speculativi e sganciati dall’economia reale; in questi casi crescono in maniera sproporzionata, penalizzando i ceti meno abbienti. È quindi quanto mai necessaria una messa a punto di strumenti utili a contenere le varie forme di

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speculazione. Da questo punto di vista siamo ancora in alto mare: i grandi attori internazionali si limitano a ridurre il valore attuale netto del debito o tramite l’estensione della data di maturazione delle obbligazioni, sospendendo momentaneamente il pagamento d’interessi, o attraverso il cosiddetto haircut, che consiste nel taglio del valore nominale del debito.

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4. Questi provvedimenti servono, alla prova dei fatti, a dilazionare il problema senza affrontarlo in modo sistemico. Un utile spunto di ri!essione è costituto dall’Oeconomicae et pecuniariae quaestiones, il documento della Santa Sede sul discernimento etico circa alcuni aspetti dell’attuale sistema economico-"nanziario pubblicato il 17 maggio 2018 dall’allora Congregazione per la dottrina della fede e dal dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale. Nel testo si legge tra l’altro che «si sente la necessità di intraprendere una ri!essione etica circa taluni aspetti dell’intermediazione "nanziaria, il cui funzionamento, quando è stato slegato da adeguati fondamenti antropologici e morali, non solo ha prodotto palesi abusi e ingiustizie, ma si è anche rivelato capace di creare crisi sistemiche e di portata mondiale». Il documento non si limita a delle mere esortazioni morali, ma affronta importanti questioni come la funzione sociale del credito contrapposta ai comportamenti usurari; esso inoltre analizza la pericolosità di certi strumenti economico-"nanziari che possono creare rischi sistemici, «intossicando» i mercati. Con particolare riferimento ai derivati, veri e propri «ordigni a orologeria», soprattutto se sono negoziati sui mercati non regolamentati, i cosiddetti over the counter (Otc), più esposti all’azzardo e alle frodi. Nel documento della Santa Sede viene anche messa in evidenza la pericolosità dei credit default swaps (Cds), quei derivati che consentono di scommettere sul rischio di fallimento di una terza parte. «Il mercato dei Cds, alla vigilia della crisi "nanziaria del 2007 – si ricorda – era così imponente da rappresentare all’incirca l’equivalente dell’intero pil mondiale». Le proposte formulate nel documento della Santa Sede sono molto concrete e vanno dalla certi"cazione da parte dell’autorità pubblica di tutti i prodotti che provengono dall’innovazione "nanziaria alla regolamentazione del sistema "nanziario; dal coordinamento sovranazionale fra le diverse architetture dei sistemi "nanziari locali per arginare la deregolazione all’introduzione di una clausola generale che dichiari illegittimi, con conseguente responsabilizzazione patrimoniale di tutti i soggetti a cui questi sono imputabili, quegli atti il cui "ne sia l’aggiramento delle norme vigenti; dalle speci"che misure contro il «sistema bancario ombra» al contrasto alla "nanza offshore che offre grandi possibilità di evasione e di elusione "scale. Lungi da ogni retorica, questa è l’unica strada da perseguire se s’intende davvero sostenere l’economia mondiale e in particolare quella africana. A questo proposito, in più circostanze, grazie al coordinamento del professor Raffaele Coppola, un gruppo quali"cato di giuristi ed esperti di economia italiani dell’Unità di ricerca Giorgio La Pira del Cnr, del Centro di studi giuridici latinoamericani dell’Università di Roma Tor Vergata e del Centro di ricerca Renato Baccari

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INVESTIMENTI CINESI IN AFRICA

(in miliardi di dollari)

Impegni di credito (banche, entità governative o aziende)

Investimenti diretti esteri 30 25 20 15 10 5 0 2000 01

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Fonte: China Africa Research Initiative; The Economist Intelligence Unit (2022)

del dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Bari ha auspicato che l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite giunga a formulare quanto prima una richiesta di parere alla Corte internazionale di giustizia dell’Aia sui principi e sulle regole applicabili al debito internazionale, nonché al debito pubblico e privato. L’obiettivo è che si proceda quanto prima alla rimozione delle cause delle perduranti violazioni dei princìpi generali del diritto e dei diritti dell’uomo e dei popoli, determinando così un obbligo inderogabile, come peraltro già si evince dalla Carta di Sant’Agata de’ Goti (una dichiarazione su usura e debito internazionale che risale al 29 settembre 1997) e da numerose risoluzioni dell’Assemblea Generale dell’Onu. Nella consapevolezza che i tempi in cui si affermerà il primato del diritto dei popoli sui mercati internazionali sono ancora lontani, è necessario de!nire quanto prima delle strategie che possano portare sollievo a tanta umanità dolente che sopravvive nei bassifondi della storia contemporanea. 5. Certamente è molto interessante la proposta formulata nel 2021 dalla rete Link 2007, denominata Release G20, che associa alcune tra le più importanti organizzazioni della società civile dedite alla cooperazione internazionale per lo sviluppo e all’azione umanitaria. Con l’aiuto di esperti di !nanza per lo sviluppo, è stato redatto un documento che illustra la fattibilità di un’iniziativa, già proposta due anni fa ai paesi del G20, divenuta oggi ancora più indispensabile, soprattutto per gli Stati africani. In particolare, si auspica la conversione del debito in valuta locale, un’operazione che potrebbe consentire la realizzazione di progetti di resilienza e di sviluppo umano e sostenibile in settori chiave e su precisi obiettivi

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QUO VADIS AFRICA?

dell’Agenda 2030, anche di fronte a un eventuale rallentamento dell’aiuto pubblico allo sviluppo dei paesi Ocse-Dac. Tale indirizzo, peraltro, potrebbe in parte sopperire alla contrazione delle rimesse dall’estero, favorendo le comunità e le fasce più bisognose della popolazione, in aree sia urbane sia rurali. D’altro canto una promozione degli investimenti, soprattutto viste le alte potenzialità demogra!che dell’Africa, potrebbe dare quello che in gergo tecnico viene de!nito «boost», cioè un impulso alla crescita planetaria. L’Europa in particolare, alle prese con la questione della mobilità umana proveniente dalla sponda africana, potrebbe ricavarne un vantaggio politico e operativo proponendo un’azione sinergica di riduzione condizionata del debito dei paesi poveri, in favore della combinazione di investimenti sostenibili e strategici. La posta in gioco è alta e l’iniziativa Release G20 risponde pienamente alla necessità espressa ripetutamente dai paesi africani alle prese con un’emergenza debitoria senza precedenti. Considerando che l’Italia il prossimo anno avrà la presidenza del G7 potrebbe essere il momento giusto per passare dalle parole ai fatti. Una cosa è certa: il possibile riscatto africano è ancora tutto in salita, ma occorre vincere la tentazione del disfattismo, non foss’altro perché, come scriveva Plinio il Vecchio: «Ex Africa semper aliquid novi»: dall’Africa c’è sempre qualcosa di nuovo. Sono decenni che le Cassandre annunciano l’implosione del continente. Eppure l’Africa è sempre lì, dando prova di un’incredibile resilienza, dimostrata non solo dalla reazione all’epidemia ma anche dalla costante crescita demogra!ca e dalla rivendicazione di libertà civili da parte delle giovani generazioni. Si tratta di una trasformazione i cui esiti dipenderanno anche dalla capacità dei grandi attori internazionali di comprendere che l’Africa, per essere davvero un’opportunità economica, deve esserlo per tutti. Africani inclusi.

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AFRICA CONTRO OCCIDENTE

I TESORI INSANGUINATI DI CABO DELGADO

di Giorgio ANGELI

Gas, grafite e rubini sono le poste in palio nell’insurrezione che dal 2017 flagella la provincia più remota del Mozambico. E che tocca gli interessi di mezzo mondo. La competizione Ruanda-Sudafrica. I dubbi sul Qatar. Le carte dell’Italia.

C

1. ABO DELGADO, OVVERO CAPO SOTTILE. Navigando la costa orientale dell’Africa, i portoghesi, con scarsa fantasia, battezzano così un promontorio e in seguito, con evidente pigrizia, anche quello che c’è attorno. Questo pezzo di terra bagnato dal mare diventa una delle suddivisioni amministrative del Mozambico governato da Lisbona. Nel 1975, si trasforma in una delle undici province del Mozambico indipendente. Il toponimo svogliato non comunica certo identità, ma è talmente neutro da non dover essere cambiato. Eppure, proprio da qui era partita la guerra di liberazione dal colonialismo nel 1964, con i makonde, una delle etnie dell’area, tra gli attori principali del con!itto. L’anonimo appellativo pare diventare però destino e la provincia scorre placida fuori dalla storia, apparentemente priva di risorse e troppo lontana dalla capitale Maputo (unico vero centro di potere) per giocare un ruolo nella guerra civile del 1976-92. Per molto tempo, l’attenzione che riceve dall’esterno è di tipo umanitario e ideologico. Nell’unica vera cittadina, Pemba, a partire dagli anni Ottanta arrivano cooperanti italiani, soprattutto dall’Emilia. È presente anche la Chiesa cattolica, in una provincia a maggioranza islamica, eredità della penetrazione arabo-swahili prima della colonizzazione portoghese. Più tardi si aggiungono i pentecostali americani e le associazioni internazionali musulmane. Dopo la "ne dell’apartheid nel 1994, molti sudafricani bianchi scelgono Pemba come buen retiro. Nel frattempo, crescita demogra"ca e urbanizzazione fanno quadruplicare la popolazione della città in vent’anni. Si espandono anche gli altri centri abitati della provincia: Mocimboa da Praia, Montepuez, Mueda. È una crescita poco armoniosa, fatta di persone alla ricerca di nuove opportunità, che quasi mai arrivano. Gli investimenti nelle infrastrutture non vanno di pari passo all’impennata della popolazione. Assieme alla perdita delle reti sociali tradizionali e a un’età mediana straordinariamente bassa, il tutto genera disagio sociale.

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I TESORI INSANGUINATI DI CABO DELGADO

Attorno ai centri abitati, un territorio senza rilievi importanti, con !tte foreste e savana. Due sole vere strade asfaltate, una nord-sud e una est-ovest, a tagliare la provincia in quattro, su un’area pari all’isola d’Irlanda. Una frontiera con la Tanzania lunga 250 chilometri, sul !ume Rovuma, con un solo ponte carrabile ma assai porosa, perfetta per il traf!co clandestino di merci e persone. Una costa lunga circa 400 chilometri, impossibile da controllare con i mezzi militari a disposizione, costellata da un arcipelago di 27 isole, le Quirimbas, praticamente disabitato e base ideale per affari più o meno leciti. Maputo dista 2.400 chilometri, tre giorni di viaggio in auto, cinque in autobus. Ma la distanza psicologica è ancora maggiore: i nativi sentono sempre più il divario culturale e di opportunità con i tanti emigrati provenienti dalla capitale. Più spigliati e istruiti, i maputensi accedono facilmente ai pochi posti di lavoro di responsabilità, i meglio retribuiti. Dal 2017 un’insurrezione insanguina Cabo Delgado: sono morte almeno 4.500 persone e i profughi interni sono circa un milione. Tutti i fattori elencati in precedenza sono stati un ottimo combustibile. Ma non bastano a spiegare perché sia scoppiato l’incendio. Sarebbe come dire che la sola presenza di legna da ardere possa accendere un fuoco. 2. Aggiungiamo un elemento, le risorse. Dal 2009 al 2013 vengono scoperti tre giacimenti cruciali. La miniera di rubini di Montepuez, la più grande al mondo. Poi il 7% delle riserve mondiali di gra!te, sempre più importante per l’industria delle batterie a ioni di litio usate nelle auto elettriche – quelle scoperte a Cabo Delgado rappresentano tra il 20 e il 40% delle riserve mondiali di gra!te di alta qualità. In!ne il gas naturale nel bacino del !ume Rovuma: 85 mila miliardi di piedi cubi, una quantità enorme, pari al 2,5% della disponibilità globale. La scoperta dei rubini avviene per caso, grazie a un agricoltore locale. Migliaia di garimpeiros, minatori artigianali provenienti principalmente dalla vicina Tanzania, iniziano subito a operare illegalmente, supportati da mercanti stranieri, soprattutto thailandesi. L’indotto genera una non trascurabile ricaduta economica per la cittadina di Montepuez. Finché nel 2011 la britannica Gem!elds, insieme a un importante sponsor locale, acquisisce l’intera area (340 chilometri quadrati), espelle i minatori e inizia a proteggerla. Cioè a usare la violenza, se serve: bruciare le abitazioni abusive, picchiare i testardi, anche uccidere, dice qualcuno 1. La lotta dura quattro anni, dal 2012 al 2016. Nel 2019, Gem!elds accetta di risarcire 273 casi di pestaggi, omicidi e incendi. Al netto di ciò, l’azienda vince: ha il controllo incontrastato del territorio e conta di triplicare la produzione entro il 2025. A Maputo fa comodo: esercita potere su un’area altrimenti dif!cilissima da gestire e garantisce entrate !scali continue, altrimenti inattingibili. A perderci sono i commercianti informali locali, che vedono ridursi il movimento di persone e merci. E soprattutto i garimpeiros, disoccupati e lontani da casa: molti di loro, specie i tanzaniani, in seguito si uniscono all’insurrezione islamista 2.

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1. E. VALOI, «The Blood Rubies of Montepuez», Foreign Policy, 3/5/2016. 2. S. HABIBE, S. FORQUILHA, J. PEREIRA, «Radicalização Islâmica no Norte de Moçambique. O Caso de Mocímboa da Praia», Cadernos Iese, n. 17/2019.

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INFLUENZE SU PEMBA REP. CENTRAFRICANA

ETIOPIA

SUD SUDAN

CAMERUN SOMALIA UGANDA KENYA

O NG

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G. E. DE

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. RE P

Kigali

REPUBBLICA RUANDA DEMOCRATICA BURUNDI DEL CONGO

TA N Z A N I A Dar es Salaam SEYCHELLES

BOTSWANA

Oceano Atlantico

C AR MA

Maputo-Pemba 2.400 km via terra (3-4 giorni di viaggio) Maputo ESWATINI LESOTHO

SUDAFRICA

O

MAYOTTE (FR) DA G AS

MO ZA M BI C

ZIMBABWE NAMIBIA

I

ZAMBIA

Pemba

MAL AW

ANGOLA

Distanze in linea d’aria da Pemba (in chilometri) Maputo: 1.700 Kigali: 1.700 Dar es Salaam: 700 Mayotte: 500

I giacimenti di gra!te si trovano lungo la stessa direttrice est-ovest dei rubini, nei distretti di Balama, Montepuez e Ancuabe, mentre i progetti del gas sorgono lungo la direttrice nord-sud. Il materiale qui è estratto quasi esclusivamente dagli australiani, seconda potenza mineraria al mondo dopo la Cina. Controllano la miniera di Balama, che detiene l’80% della produzione locale, e altri progetti di estrazione che, se andassero avanti, farebbero del Mozambico il secondo produttore al mondo della gra!te (la seconda miniera ora operativa è di proprietà tedesca). Chi compra la gra!te mozambicana? Oggi i cinesi, forse anche per controllare l’offerta. Domani gli americani e magari gli europei. Tesla ha stretto un accordo nel 2021 per acquisire l’attuale produzione 3 e sono in corso trattative tra l’australiana Syrah Resources, Ford e Sk. Le forniture arrivano negli Stati Uniti nell’impian3. S. MANOPE, «Mozambique Graphite for Tesla’s EV Car Batteries», Africa Oil&Gas Report, 31/1/2022.

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I TESORI INSANGUINATI DI CABO DELGADO

to di Vidalia, Louisiana, operativo dal 2018 per produrre anodi per batterie. L’amministrazione Biden, nel piano d’investimento da 3 miliardi di dollari per le batterie per auto elettriche, ha destinato cento milioni nel 2022 per espandere proprio questo centro industriale 4. La gra"te mozambicana serve agli americani per contrastare il controllo della Cina sulla lavorazione di questo materiale. De"nirla il più grande produttore è riduttivo: la Repubblica Popolare estrae il 60% della gra"te mondiale e ne processa il 98%. Non rimanere strozzati nella catena logistica dell’auto elettrica è un obiettivo tattico degli Stati Uniti. Lo stesso segretario di Stato Antony Blinken ha citato direttamente l’importanza della miniera di Balama nella nuova corsa alle risorse strategiche 5. La violenza, a Cabo Delgado, prende nota. L’insurrezione ha spostato il raggio d’azione da nord-sud (area del gas) a est-ovest (gra"te e rubini). Nel giugno 2022, un attacco con alcuni morti riguarda una miniera in costruzione in una zona dove non si era veri"cato alcun incidente negli anni precedenti. Cina e Stati Uniti avranno anche cose più importanti a cui pensare. Ma la competizione tattica passa anche dall’accesso a risorse chiave come la gra"te di Cabo Delgado. Ultima risorsa, più mediatica: il gas naturale. Tra il 2010 e il 2013, l’Eni e l’americana Anadarko annunciano separatamente la scoperta di rilevantissimi giacimenti offshore al con"ne con la Tanzania. Tanto importanti da accendere entusiasmi anche per via di una posizione geogra"ca decisamente favorevole: il gas mozambicano può accedere attraverso le rotte dell’Oceano Indiano all’enorme mercato asiatico, che rappresenta il 70% dell’import mondiale di gas naturale liquefatto (gnl). Per l’Italia di quegli anni questi giacimenti, benché interessanti dal punto di vista commerciale, non sono questione di sicurezza nazionale, con le tensioni russe ancora lontane e visti i limiti dati dalla distanza e dall’infrastruttura nostrana del gnl. Sono invece strategici per i compratori asiatici. Giapponesi, cinesi, indiani, sudcoreani e thailandesi si assicurano forniture fondamentali. Sembra il matrimonio perfetto. Un ottimo affare anche per lo Stato mozambicano, che conta di risollevare il bilancio statale e pagare i debiti. Ma alla festa partecipa un convitato di pietra. I grandi fornitori dell’Indo-Paci"co sono Australia, Qatar e, in misura minore, Stati Uniti. Per il primo e il terzo paese, il gnl è un buon business. Per il secondo, invece, questa risorsa è il mezzo grazie a cui un paese in precedenza irrilevante ha peso nel mondo arabo e non solo. È il combustibile che lo connette al mondo tramite Qatar Airways e che paga le antenne di Al Jazeera. Per il Qatar, il gnl non è un buon affare, è la pietra angolare di tutto quel che è diventato e vuole diventare. Proprio negli anni in cui il grosso del gas mozambicano sarebbe dovuto entrare nel mercato asiatico, 2024-27, il Qatar ha in programma di far crescere la sua

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4. P. KER, «Joe Biden backs Australian graphite miner Syrah», Financial Review, 19/4/2022. 5. «Secretary Antony J. Blinken at the Ministerial Meeting of the Minerals Security Partnership», dipartimento di Stato degli Stati Uniti, 22/9/2022.

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già enorme produzione di un ulteriore 60%, da 77 a 126 milioni di tonnellate l’anno, e dunque di negoziare contratti a lungo termine con i compratori asiatici. Si sussurra da anni sul presunto !nanziamento e utilizzo del terrorismo islamista da parte di Doha ed è ormai provata la sua disinvoltura nell’usare agenti stranieri per i propri obiettivi, come ha dimostrato il Qatargate a Bruxelles. Ma queste non sono certo prove di un coinvolgimento del Qatar nell’insurrezione di Cabo Delgado. 3. L’insurrezione di Cabo Delgado è la sola diretta responsabile della mancata produzione di gnl. A oggi in Mozambico, dei tre progetti di cui era previsto l’avvio tra il 2022 e il 2027, solo uno è operativo: Coral South Flng, operato da Eni. Vale poco più del 10% della produzione prevista dal bacino di Rovuma: 3,4 milioni di tonnellate annui contro i 31,4 previsti. L’insurrezione ha luogo e data di nascita precisi: Mocimboa da Praia, 5 ottobre 2017. Prima di quel giorno, anche per i locali, non esisteva il minimo sentore di ciò che avrebbe poi generato un sanguinoso con"itto. Quella notte, un gruppo di circa trenta persone armate di machete e armi da fuoco attacca il comando di polizia della cittadina e poi altre istituzioni. La forza pubblica è colta di sorpresa, muoiono 17 persone, per due giorni i rivoltosi controllano alcune parti dell’abitato e poi si ritirano nella boscaglia. Si fanno chiamare Anâår al-Sunna, sostenitori della fede, in arabo. Ma la popolazione li rinomina al-Šabåb, i giovani, assonanza col gruppo somalo con cui però non sembrano esserci legami. Poi li ribattezza Machababos, corruzione di al-Šabåb. All’inizio, il resto del paese presta poca attenzione. Forse perché gli attacchi bersagliano le infrastrutture governative e in un primo momento risparmiano la popolazione. Oppure perché gli insorti non comunicano chiaramente le proprie ragioni. Parlano solo ai locali del risentimento verso lo Stato centrale e della necessità di boicottare scuole e istituzioni pubbliche. Il messaggio religioso, benché auspicante un ritorno alla šarø‘a, è sfumato e non preponderante. Tra i primi leader, gli studi successivi indicano principalmente persone originarie della stessa Mocimboa da Praia, con connessioni religiose e d’affari con la vicina Tanzania, oltre che tanzaniani stessi. Alcuni di questi ultimi hanno legami nei circoli del sala!smo internazionale nelle monarchie del Golfo e altri sono ex minatori di rubini cacciati dalla non distante Montepuez 6. I militanti sono giovani musulmani della costa e della vicina provincia di Nampula, cui vengono pagati stipendi e promessi impieghi e borse di studio 7. Altri vengono dalla regione dei Grandi Laghi e hanno maggiori capacità di combattimento. Testimonianze di prigionieri riferiscono anche di guerriglieri arabi o dell’Asia meridionale 8. Secondo le 6. S. HABIBE, S. FORQUILHA, J. PEREIRA, op. cit. 7. J. HANLON, «Notes on the evolution of the Cabo Delgado war», Mozambique News Reports & Clippings, n. 469, 27/2/2020; J. HANLON, «Islamists recruited by !lling the development gap with jobs and loans – but some beheaded for defaulting», Mozambique News, 10/12/2018. 8. J. FEIJÒ, «Caracterização e organização social dos Machababos a partir dos discursos de mulheres raptadas», Observador Rural, n. 109, aprile 2021.

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I TESORI INSANGUINATI DI CABO DELGADO

stime, i miliziani passano da 200-800 nel 2018 a 3-5 mila nel 2021 9. Non è chiaro da dove vengano i fondi per una macchina così imponente: si parla di donazioni internazionali e di traf"ci illeciti di rubini, legname e droga, il tutto facilitato dalla scarsa bancarizzazione 10. La guerriglia si estende, coinvolge la vicina Palma e la zona d’interesse gasiera a ridosso dei giacimenti. Aumenta la capacità offensiva. Dal 2019 inizia a prendere di mira la popolazione locale, bruciando case e uccidendo persone. I più giovani sono rapiti e arruolati a forza. La conformazione del territorio favorisce gli insorti, ben protetti dalle foreste. Le forze regolari non riescono a contenerli. Dal giugno 2019, lo Stato Islamico rivendica alcuni attacchi dell’insurrezione, che avrebbe giurato fedeltà al proprio califfo. Dif"cile credere che l’af"liazione sia più di un franchise, come lo è pensare che il radicalismo islamista sia più di una bandiera dietro cui nascondere ragioni più profonde. Ma di certo dal 2019 al 2021 si assiste a un’escalation esponenziale nella capacità offensiva e negli obiettivi (gra!co). Dagli attacchi limitati a villaggi e convogli, si passa a colpire le cittadine. Intanto, il Gruppo Wagner fa una fugace apparizione tra settembre e novembre 2019. Solo due mesi, nessun successo signi"cativo e perdite rilevanti: ritiro immediato e inglorioso. La decisione di intervenire deriva probabilmente anche da interessi legati all’estrazione mineraria, come accade in Repubblica Centrafricana. Ma a ciò si aggiunge la volontà della Russia, forte della relazione storica con il Mozambico, di estendere la propria in#uenza nell’area con poco sforzo. Valutata la dif"coltà del terreno e soppesati i ritorni attesi, evidentemente l’investimento viene giudicato poco remunerativo. Non si può escludere che Cabo Delgado e il Mozambico in generale tornino sul radar di Mosca. Con l’esercito locale rimasto da solo, gli insorti conquistano Mocimboa da Praia nell’agosto 2020, che resta ai ribelli per un anno intero. Ora la rivolta ha una capitale e controlla territorio, da cui può minacciare le zone circostanti. Per esempio Palma, a soli 60 chilometri, dove da "ne 2019 ha preso il via la costruzione dell’impianto di liquefazione del gas sotto la direzione della francese TotalEnergies. Vista la minaccia della guerriglia, l’azienda interrompe il progetto a "ne 2020. L’insurrezione raggiunge lo zenit il 24 marzo 2021: i Machababos attaccano Palma, capitale del gas mozambicano, teoricamente centro della difesa dell’esercito regolare. L’operazione causa un centinaio di morti, tra cui alcuni stranieri indirettamente legati ai progetti gasieri. Poche ore prima, Total aveva annunciato la ripresa delle attività di costruzione; l’attacco riblocca tutto. A oggi, il cantiere non è ancora ripreso, nonostante l’impennata della domanda mondiale di gas. L’altro progetto previsto nell’area, operato da ExxonMobil, viene rimandato a data da destinarsi a causa delle violenze. Un attacco di trecento persone, durato tre giorni, in uno sper-

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9. C. ALDEN, S. CHICHAVA, «Cabo Delgado: “Al Shabaab/ISIS” and the Crisis in Southern Africa», Policy Center for the New South, Policy Brief, maggio 2021. 10. L. LOUW-VAUDRAN, «The many roots of Mozambique’s deadly insurgency», Institute of Security Studies, Iss Today, 8/9/2022; A. LUCEY, J. PATEL, «Paying the price: "nancing the Mozambican insurgency», Institute for Justice and Reconciliation, Policy Brief, n. 37, ottobre 2021.

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CABO DELGADO PERNO D’INSTABILITÀ Z

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Militanti insurrezionalisti N A M P U L A

Aree di movimento e di attacco degli insorti - in fasi diverse, !no al settembre 2022

Riserve di gra!te

Probabile area delle basi rimanenti dell’insurrezione - agosto 2023

MOZ

AM

Aree di movimento e di attacco degli insorti - luglio/agosto 2023 Territorio controllato dall’insurrezione islamica (11 mila km") - marzo 2021

Miniera di rubini

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Strada dei minerali Direttrice Est-Ovest Pemba - Marrupa Strada del gas Direttrice Nord-Sud Palma - Mueda - Namapa

duto villaggio di pescatori nel profondo nord del Mozambico ha avuto l’effetto, voluto o collaterale che sia, di bloccare l’immissione sul mercato dell’equivalente del 7% della produzione mondiale annuale di gnl. 4. La situazione è fuori controllo. I Machababos controllano il 15% della provincia e minacciano tutti i principali centri abitati, inclusa la capitale. L’esercito regolare è privo di organizzazione, morale e soprattutto mezzi. Così, nel giugno 2021, Maputo deve accettare l’intervento militare del Ruanda. La Francia caldeggia, dopo la distensione tra Parigi e il governo ruandese innescata dal riconoscimento francese di una responsabilità indiretta nel genocidio del 1994. Ma l’operazione del Ruanda è scevra da qualsiasi ingerenza, è pura proiezione di potenza di un paese

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con chiare aspirazioni di leadership regionale, legittimate da una crescita economica, tecnologica e propriamente geopolitica che, al di là di ogni giudizio morale sui metodi, ha del miracoloso. L’intervento ruandese cambia l’inerzia del con!itto. In soli due mesi, Mocimboa da Praia viene riconquistata, l’area di Palma e degli investimenti del gas è riportata in sicurezza e le principali basi dell’insurrezione vengono smantellate. I Machababos si disperdono in piccoli gruppi, con capacità offensive limitate a sparuti attacchi in villaggi remoti, senza controllo signi"cativo degli assi stradali. Oltre al Ruanda, Maputo accetta anche l’intervento di alcuni paesi della Comunità di sviluppo dell’Africa meridionale (Sadc nell’acronimo in inglese, n.d.r.), con il Sudafrica capo"la, motivato dalla volontà di evitare un contagio dell’instabilità. Fa eccezione la Tanzania, marginale nella missione e sin dall’inizio del con!itto poco impegnata nel controllo dei con"ni. Su tale attitudine, si esprime con preoccupazione pure il direttore dello Stato maggiore dell’Unione Europea, il viceammiraglio francese Hervé Bléjean 11. Due le possibili motivazioni della Tanzania: sfogare fuori dai propri con"ni instabilità altrimenti interne; attirare investimenti su progetti di sfruttamento del gas e della gra"te percepiti in qualche modo alternativi a quelli mozambicani. Le regioni di Lindi e Mtwara, contigue a Cabo Delgado, vantano riserve rilevanti. Ma se così fosse, Dodoma starebbe giocando col fuoco, cioè col rischio di portarsi l’insurrezione in casa. Le ragioni del contributo del Sudafrica vanno viste nella volontà di controbilanciare il Ruanda, percepito come rivale nel ruolo di riferimento regionale. La potenza del Sudafrica è in chiaro declino, a cui contribuiscono le dif"coltà economiche e sociali di una riconciliazione ancora incompiuta. Le traiettorie dei due paesi si riproducono a Cabo Delgado. I ruandesi ottengono notevoli successi nella propria area di competenza, che comprende il distretto del gas sull’asse Mocimboa-Palma, quasi completamente paci"cata. La Sadc capitanata dal Sudafrica fatica nei distretti centrali e occidentali, a ridosso delle aree della gra"te, costretta a rincorrere i ribelli frammentati in piccoli gruppi. A causa dell’inerzia, nel giugno 2022 il perimetro d’azione dei Machababos si allunga momentaneamente da nord verso sud per circa 400 chilometri, "no a scon"nare nella contigua provincia di Nampula, per poi ritirarsi nuovamente. L’attuale bastione è geogra"camente molto limitato, ma l’area di movimento comprende anche la principale strada nord-sud di Cabo Delgado. In uno degli scontri in questa zona, nell’agosto 2023 resta ucciso il presunto capo degli insorti, il mozambicano Bonomade Machude Omar. 5. Proprio a causa di un attacco a Nampula, nel settembre 2022 per la prima volta perde la vita un’italiana, la missionaria comboniana Maria Coppi. Il tragico evento permette di aprire una "nestra sul ruolo dell’Italia e sui rapporti del nostro paese con il Mozambico, soprattutto nel Nord. Roma dispone di risorse di repu-

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11. D. MORRISON, «Tanzania weathers diplomatic criticism over Cabo Delgado», Zitamar News, 25/2/2022.

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tazione importanti, frutto di relazioni quarantennali, praticamente sconosciute in patria !no a qualche tempo fa e che non sempre riusciamo a mettere a sistema. I nostri vettori sono tre. Il primo è la Chiesa cattolica, presente soprattutto nelle aree più remote per sincero spirito solidale e sulla quale poggiano i nostri canali con Maputo, assieme alla diplomazia. L’emblema di questo sistema sono ancora gli accordi di Roma che nel 1992 posero !ne alla sanguinosa guerra civile, frutto della mediazione della Comunità di Sant’Egidio con il contributo del governo italiano. Il secondo vettore è la cooperazione, soprattutto indipendente, che non ha eguali in Mozambico e nello speci!co a Cabo Delgado. Qui le sue origini affondano negli anni Settanta, con attività provenienti dall’Emilia e in particolare da Reggio, che ha avuto il merito di aiutare Pemba e in generale tutto il Mozambico durante il con"itto scoppiato dopo l’indipendenza. Il terzo è il settore privato, dominato dagli anni Ottanta !no alla !ne del decennio scorso dalla Cmc di Ravenna. L’azienda è stata a lungo la principale impresa privata operante in Mozambico, con la costruzione di infrastrutture praticamente ovunque in questo paese sproporzionatamente lungo. Cmc è diventato addirittura il nome di un quartiere di Maputo. La presenza di Eni è più recente, assieme alle compagnie italiane dell’indotto degli idrocarburi, intorno ai primi anni Dieci. Non è un caso che Eni sia stata l’unica major in grado di portare a termine un progetto gasiero. Se l’Italia ha un’estesa conoscenza del territorio e risorse da capitalizzare, frutto anche di una curiosa af!nità emotiva con i mozambicani, la Francia fatica a far valere la propria in"uenza. Parigi sarebbe molto interessata a pesare di più, anche a Cabo Delgado, venialmente per accedere ai giacimenti di idrocarburi ma anche per la vicinanza del suo territorio di Mayotte. A differenza nostra, la penetrazione transalpina è molto più recente, concentrata nel settore delle risorse energetiche e nel suo indotto, soprattutto gas ma anche fotovoltaico e idroelettrico. Eppure i francesi non conoscono il Mozambico, a eccezione della capitale, e faticano a capirne la cultura, i codici, la lingua. Vorrebbero replicare, non riuscendoci, modelli post-coloniali validi un tempo nella Françafrique, peraltro oggi in crisi. 6. Tracciare una possibile traiettoria dell’insurrezione, delle in"uenze e degli interessi che l’alimentano non è compito facile. Proponiamo tre scenari, senza pretese di esaustività. Primo, le operazioni di Ruanda, Sudafrica e Mozambico trovano !nalmente una sinergia e riprendono il controllo totale del territorio, anche grazie alla collaborazione della popolazione locale. I successi militari e politici scoraggiano altri attori ad aizzare le !amme. I progetti minerari ed energetici riprendono a pieno ritmo, generando impiego per i locali ed entrate !scali per Maputo, così riducendo il rischio di future instabilità. Scenario auspicabile, ma molto poco probabile. Perché si realizzi, dovrebbero veri!carsi contemporaneamente le seguenti condizioni: gli interessi dei tanti paesi coinvolti sulle risorse devono coincidere o quantomeno diventare complementari, magari con accordi su gas e gra!te o per tracciare e strozzare i !nanziamenti inter-

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nazionali degli insorti; i progetti di estrazione devono coinvolgere la popolazione, togliendo manodopera a basso costo all’insurrezione; la politica mozambicana deve sfuggire alla logica dei grandi interessi privati interni per reinvestire le risorse generate dall’estrazione direttamente a Cabo Delgado in infrastrutture e nello sviluppo di un’economia differenziata. Secondo scenario, l’intervento militare va in stallo e si opta per un disimpegno. L’esercito regolare si arrocca a Pemba. Gli insorti hanno mano libera nel resto della provincia, si espandono nelle province di Niassa e Nampula, ricche di metalli e pietre preziose. I progetti gasieri sono de!nitivamente abbandonati e con essi anche gli appoggi internazionali all’insurrezione. La quale per !nanziarsi ricorre ai rubini, l’unica risorsa estraibile senza tecnologie avanzate, concentrandosi nell’area di Montepuez con uno sbocco sul mare. Così, si blocca anche l’estrazione della gra!te. Il Nord del Mozambico diventa una sorta di Somalia, grazie a una costa particolarmente adatta ai traf!ci illeciti e già nelle rotte internazionali della droga (eroina). L’insurrezione diventa un affare meramente umanitario, la cui gestione viene delegata alle organizzazioni internazionali, prolungando per anni o decenni il con"itto. Anche questo scenario è poco probabile. Per realizzarsi si dovrebbe invertire l’attuale tendenza, cioè si dovrebbe ridurre molto la domanda di gnl e di gra!te, per una distensione della competizione globale tra le potenze, per la scoperta di altri giacimenti altrove oppure per innovazioni tecnologiche che rendano quelle risorse meno importanti. Per ora di queste tre condizioni non si vede nemmeno l’ombra. Terzo scenario, l’insurrezione resta al (basso) livello attuale e in aree remote. I progetti estrattivi riprendono, protetti dalle forze militari regolari – probabilmente ruandesi, che rafforzano la propria in"uenza nell’area. E magari anche da compagnie di sicurezza private, ciò che fa lievitare i costi e quindi i prezzi sul mercato. Le major fanno ingoiare almeno parte degli aumenti al governo mozambicano, con una riduzione delle royalties. Gli investimenti infrastrutturali dunque restano minimi. Il mancato sviluppo rialimenta gli arruolamenti nell’insurrezione e quindi la minaccia ai giacimenti. Ma non abbastanza da farli chiudere, vista la presenza di truppe regolari e mercenarie. Questo equilibrio in continua tensione potrebbe essere sostenuto da un ritorno russo a Cabo Delgado, di cui ci sono segnali 12. Tale scenario è una combinazione dei precedenti. Non richiede un coordinamento tra gli attori coinvolti, pur raggiungendo un punto d’equilibrio tra l’accesso alle risorse e il maggior costo di gas e gra!te. Non richiede investimenti signi!cativi e le rendite di gas e gra!te, pur ridotte, continuerebbero a !nanziare gli investimenti nella sola capitale Maputo, oltre i grandi interessi privati. Prevede un tipo di coesistenza, a volta addirittura di collaborazione, tra violenza organizzata e progetti estrattivi già sperimentato con successo in Nigeria, Repubblica Democratica del Congo e, in misura minore, Angola. Quale che sia il futuro, emerge l’impotenza, di fronte a forze avverse, del Mozambico come nazione. Un palcoscenico, più che un soggetto geopolitico.

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12. «Mozambique: Russian Soldiers in Nampula hint at the return of Wagner», Africa Monitor Intelligence, 17/8/2023.

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IN LIBIA DI MALE IN PEGGIO

di

Wolfgang PUSZTAI

Il paese resta spaccato in due: il governo di Tripoli è ostaggio delle milizie, quello di Bengasi del generale Õaftar. Intanto la corruzione dilaga, i trafficanti prosperano e le crisi saheliane producono instabilità. La scommessa di Eni e Bp. Le elezioni sono un sogno.

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1. CALZATA DALL’UCRAINA E DA ALTRE CRISI, la Libia non fa più notizia. Il primo ministro ‘Abd al-Õamød Muõammad Dubayba viaggia tra Europa e Medio Oriente e riceve delegazioni straniere di alto livello. Tutto sembra andare bene, ma le apparenze ingannano. Dopo la rivolta sostenuta dalla Nato nel 2011, la Libia non ha mai trovato una propria stabilità. Pesano i con!itti tribali secolari, l’eredità di Muammar Ghedda", il fallimento del progetto di disarmo, smobilitazione e reintegrazione dei guerriglieri, l’in!uenza degli islamisti radicali in costante aumento. Al tempo i libici si opposero a una missione di costruzione dello Stato guidata dalle Nazioni Unite e l’Occidente – dopo le esperienze in Afghanistan e in Iraq – non era disposto a intervenire in un paese musulmano. Così il caos in Libia ha facilitato la proliferazione delle armi e ha contribuito alla destabilizzazione di Mali, Niger e Ciad. Nel 2014 scoppiò la guerra civile. A seguito degli omicidi di matrice islamica avvenuti in primavera a Bengasi, il generale Œaløfa Õaftar lanciò l’Operazione Dignità per riconquistare la città. Intanto, con l’Operazione Alba libica e dopo uno scontro durato da luglio a settembre, gli islamisti prendevano il controllo di Tripoli e ri"utavano di accettare i risultati delle elezioni parlamentari. I negoziati di pace mediati dall’Onu a Skhirat, in Marocco, portarono alla "rma di un accordo nel dicembre 2015. La Camera dei rappresentanti, con sede a Tobruk, fu confermata come parlamento della Libia, furono istituiti l’Alto consiglio di Stato con sede a Tripoli (in qualità di organo consultivo) e un Governo di accordo nazionale guidato da Fåyiz al-Sarråã. Ma stante l’esclusione di diversi attori politici, l’accordo fu respinto. Il governo non fu mai legittimato dal parlamento, che sostenuto dall’Est del paese ri"utò di sottomettersi a un esecutivo controllato de facto da milizie e bande tripolitane. La guerra civile culminò nell’aprile 2019 con l’offensiva di Õaftar, deciso a prendere Tripoli con la forza. Il generale libico fu fermato dal formidabile

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IN LIBIA DI MALE IN PEGGIO

intervento militare turco del 2020. Con il cessate-il-fuoco deciso a Ginevra nell’ottobre dello stesso anno la guerra !niva. Nell’autunno 2020 la rappresentante speciale ad interim delle Nazioni Unite per la Libia, Stephanie Williams, istituì il Forum per il dialogo politico libico: 75 delegati stilarono una tabella di marcia per le elezioni presidenziali e parlamentari, previste per il 24 dicembre 2021. Uscito indenne da accuse di corruzione e compravendita di voti, Dubayba – ex capo della Libyan Investment and Development Company, il fondo sovrano istituito da Ghedda! nel 2007 – fu scelto per guidare il governo di unità nazionale. Poche settimane dopo il parlamento libico confermò il nuovo esecutivo. Fin da subito, Dubayba appro!ttò del suo ruolo per arricchire il proprio clan e usò denaro pubblico per la campagna elettorale, tanto che molti iniziarono a de!nire il regime libico una cleptocrazia. Nonostante ciò, nel settembre 2021 il paese nordafricano era, per la prima volta dal 2014, prossimo alle elezioni. Circa 2,8 milioni di libici si erano registrati per esercitare il diritto di voto. Seppur in modo controverso, il parlamento aveva emesso leggi elettorali che !ssavano le presidenziali al 24 dicembre e le parlamentari per il mese successivo. La lista !nale dei candidati alle presidenziali, però, non fu mai pubblicata e le elezioni furono rinviate a data da destinarsi, soprattutto perché le Corti d’appello presero decisioni contrastanti – e tutte errate – sul diritto dei candidati a presentarsi. Dubayba, ad esempio, fu ritenuto eleggibile sebbene non si potesse candidare né al Forum per il dialogo politico libico dell’Onu né alle elezioni. In base alla tabella di marcia approvata dalle Nazioni Unite e dal parlamento libico, il mandato del Governo di accordo nazionale sarebbe dovuto terminare il 24 dicembre 2021. A febbraio 2022 il parlamento nominò l’ex ministro dell’Interno, Fatõø Båšåôå, primo ministro del governo di stabilità nazionale, ma Dubayba ri!utò di cedere il potere e nell’agosto 2022 Båšåôå cercò invano di prendere il controllo di Tripoli. Importanti milizie che sostenevano Båšåôå, come la brigata rivoluzionaria guidata da Hayñam al-Tåãûrø e la brigata al-Nawåâø, furono allontanate dalla città. A maggio 2023 Båšåôå è stato in!ne licenziato e sostituito con il ministro delle Finanze Usåma Õammåd. Per mesi parlamento e Consiglio di Stato hanno negoziato una legge elettorale, senza raggiungere alcun compromesso. La !ne del progetto è arrivata nel febbraio 2023 con la creazione – incentivata dal rappresentante speciale dell’Onu per la Libia, Abdoulaye Bathily – di un direttivo per la Libia presso il Consiglio di Sicurezza, che tuttavia non ha mai avuto seguito. Il Comitato 6+6, costituito da componenti del parlamento e del Consiglio di Stato, ha contribuito a produrre una legge elettorale che però è stata respinta.

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2. La Libia era e resta spaccata in due: da un lato il Governo di unità nazionale guidato da Dubayba con sede a Tripoli, dall’altro il Governo di stabilità nazionale sostenuto dal parlamento e guidato da Õammåd, con sede a Bengasi. Il cessate-il-fuoco sancito nel 2020 rimane comunque in vigore. Gli attori militari principali sono ancora l’Esercito nazionale libico (Lna) guidato da Õaftar, le milizie di

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Misurata e l’esercito di Tripoli, che però controlla poche truppe in larga parte tripolitane, uf!cialmente parte dell’Esercito libico ma non integrate nella struttura di comando. A Tripoli ci sono decine di milizie, più e meno grandi. Le più potenti sono la Rad‘, le Forze speciali di deterrenza comandate dal sala!ta madkhalita ‘Abd al-Ra’ûf Kåra e la Brigata 444 guidata da Maõmûd Õamza, istituita nel 2020 come succursale della Rad‘. In passato Rad‘ e Brigata 444 sono state alleate: la prima era responsabile di Tripoli e dell’aeroporto di Mitiga, la seconda della campagna circostante. Un’altra milizia importante a Tripoli è la Forza di sicurezza centrale Abû Saløm di ‘Abd al-Ôanø al-Kiklø, noto come Ôunaywa, che comanda anche l’Agenzia di supporto alla stabilizzazione, organizzazione ombrello per gruppi armati interconnessi. Soprattutto nella fase iniziale, la Brigata 444 ha ricevuto un massiccio supporto dalla Turchia in termini di armi, addestramento e droni. La presenza militare turca in Libia si basa su un memorandum !rmato nel novembre 2019, quando Tripoli era sotto assedio di Õaftar. Ankara mantiene cinque basi d’addestramento a Tripoli, Misurata e Œums, gestisce la base aerea di al-Wa¿iya (vicino al con!ne con la Tunisia) e utilizza Œums come ancoraggio per le fregate che operano nel Mediterraneo centrale e nel Golfo di Sidra. Inoltre, controlla un ampio gruppo di mercenari siriani, probabilmente più di 2.500, come forza ausiliaria. L’impegno turco in Libia è mosso da interessi economici, dal sostegno all’islam politico e da considerazioni strategiche sull’Africa subsahariana, ma la Libia svolge un ruolo importante anche nella politica estera della Russia. Il Gruppo Wagner è perfettamente integrato in quest’area: costituisce la spina dorsale dell’Aeronautica libica poiché fornisce piloti per i bombardieri Su-24 e i caccia MiG-29, truppe di terra, forze di reazione rapida e personale per la manutenzione dei mezzi. Le basi aeree di Hûn e Waddån (distretto di Ãufra) e di al-Œådim (in Cirenaica) vengono utilizzate sia come basi logistiche sia per rifornire di carburante gli aerei in viaggio da e verso la regione subsahariana. La Russia fa affari anche con il governo di Dubayba, soprattutto nel settore energetico (petrolio e gas) e nell’edilizia; di recente ha aperto un’ambasciata nella capitale libica. I russi vogliono che qualsiasi candidato possa correre alle elezioni, incluso Sayf al-Islåm Muammar Ghedda! (!glio del ra’øs), perché pensano di poter sopravvivere piuttosto bene in Libia anche in caso di cambio al vertice. La maggioranza delle milizie in Libia è coinvolta, in un modo o nell’altro, in attività criminali. Il contrabbando di carburante, il commercio di droghe e di armi verso paesi con!nanti e gruppi terroristici, il traf!co di esseri umani attraverso il Sahara e verso l’Europa sono un business enorme. Le principali rotte del contrabbando di carburante partono dalla raf!neria di Zåwiya e raggiungono Malta, Tunisia, Niger e Ciad. Sono frequenti gli scontri tra contrabbandieri e forze di sicurezza, specie nella pianura costiera della Tripolitania. Quest’attività illecita comporta un’enorme perdita !nanziaria per lo Stato libico e per le economie dei paesi vicini. L’estorsione e il rapimento a !ni di riscatto restano un grave problema nelle grandi città. Perciò un’altra fonte di guadagno per le milizie locali è il controllo degli edi-

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!ci pubblici – Banca centrale, ministeri, ospedali e ambasciate – dal momento che molte società di sicurezza straniere sono state costrette a lasciare il paese.

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3. La Libia dipende interamente dai proventi generati dall’industria degli idrocarburi. Secondo la Banca centrale, le entrate governative nei primi sette mesi del 2023 ammontano a 62,8 miliardi di dinari, 61,6 dei quali vengono dall’industria petrolifera e solo 361 milioni dalle tasse. Gli attori stranieri, il governo di Tripoli e la National Oil Corporation (Noc) invitano spesso a mantenere il settore degli idrocarburi fuori dalla politica, invece da est e da sud sono frequenti gli interventi nell’industria energetica. Buona parte del petrolio e del gas libici si trova infatti nel Fezzan e in Cirenaica, mentre una porzione più piccola in Tripolitania e al largo della costa. La Noc, con sede a Tripoli, gestisce tutto il gas e il petrolio del paese. Se i clienti stranieri vogliono acquistare greggio, devono pagare sui conti della Noc e presso la Banca estera libica (Libyan Foreign Bank), poi i soldi vengono trasferiti alla Banca centrale. La Noc, insomma, non ha accesso ai pagamenti. La Banca centrale libica invece sì e utilizza i soldi per le esigenze del governo guidato da Dubayba. Questi ignora il controllo della Camera dei rappresentanti e spende questi fondi come ritiene necessario, facendo dell’erario il principale strumento di potere e di !nanziamento per le milizie di Tripoli e di Misurata. Chi abita nelle aree meridionali e orientali del paese sa che !ne fa la maggior parte dei pro!tti del settore petrolifero. Perciò, se alcune zone non ricevono la parte loro assegnata la circolazione di petrolio può essere bloccata. Il rappresentante speciale degli Stati Uniti, Richard Norland, aveva proposto un meccanismo di maggior trasparenza nell’uso delle entrate petrolifere, ma senza successo. La Libia ha disperato bisogno di investimenti esteri. Tutti ne sono consapevoli, ma le aziende straniere sono restie: la sicurezza scarseggia, la corruzione è diffusa, si percepisce l’assenza di uno Stato di diritto e non esiste alcuna etica del denaro. Tuttavia, all’inizio di agosto Eni e Bp hanno formalizzato la revoca dello stato di forza maggiore per le aree di esplorazione C (offshore), A e B (onshore) con la Noc. I lavori in queste aree, sospesi dal 2014, riprenderanno presto. Eni e Bp detengono ciascuna una quota del 42,5%. Anche l’algerina Sonatrach sta riprendendo i lavori su due blocchi nel bacino di Ôadåmis. Sarà interessante vedere se altre aziende seguiranno l’esempio. Se la corruzione era già grave sotto Ghedda!, ora è fuori controllo. La Libia occupa il 171º posto su 180 nell’Indice di percezione della corruzione di Transparency International; nel 2010 era al 154º. Il procuratore generale Âiddøq al-Âûr sta perseguendo i corrotti a livello medio-basso, ma i pesci grossi restano impuniti e la situazione economica fuori controllo. I generi alimentari di base e il carburante sono sovvenzionati dallo Stato per mantenerne bassi i prezzi, ma il costo della vita è aumentato. La rete elettrica necessita di manutenzione, l’approvvigionamento di gas per le centrali elettriche è spesso irregolare, i blackout sono frequenti durante l’estate, specie nel Sud. Se con Ghedda! l’assistenza medica vantava standard ele-

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vati per uno Stato africano, oggi c’è carenza di farmaci e attrezzature mediche e il personale sanitario quali!cato è inesistente, soprattutto nell’Est e nel Sud. Mentre si inaugura un parco a Misurata voluto da Dubayba e costato sui 42 milioni di dinari, i servizi sanitari nel Fezzan versano in uno stato di completo abbandono e alimentano l’insoddisfazione. Secondo le Nazioni Unite, su 7 milioni di abitanti oltre 800 mila persone necessitano di aiuto umanitario. A luglio 2023 Œålid al-Mišrø, presidente del Consiglio di Stato, ha proposto insieme alla Camera una nuova tabella di marcia per le elezioni: prima verranno concordate le leggi elettorali, poi sarà istituito un nuovo governo provvisorio per organizzare le consultazioni, da indire entro 240 giorni dall’adozione delle leggi. Un governo composto da esponenti delle principali parti politiche appare un requisito indispensabile, ma perché questa volta dovrebbe dimostrarsi vincente? A decidere sono ancora le milizie di Tripoli e di Misurata insieme al governatore della Banca centrale, Âiddøq al-Kabør: tutti sostengono Dubayba. Nessun governo insediato dalla Camera e dal Consiglio di Stato, seppur internazionalmente sostenuto, può esercitare i suoi poteri contro il volere delle milizie e della Banca centrale, che controlla i cordoni della borsa. L’unico attore esterno che potrebbe in#uenzare la situazione è la Turchia, ma non basta che i legislatori siano d’accordo sulla formazione di un esecutivo. Lo ha dimostrato il fallimento del comitato 6+6 sulle leggi elettorali in Marocco: se il premier Dubayba e il generale Õaftar non raggiungono un accordo, qualsiasi tentativo risulterà inutile. Come pervenire, dunque, a un compromesso tra le parti? Chi può candidarsi? Militari in servizio come Õaftar ne hanno facoltà? Cosa fare con il non eleggibile Dubayba e con criminali di guerra come Sayf al-Islåm, oggetto di un mandato di cattura? I cittadini con doppia cittadinanza dovrebbero scegliere? È obbligatorio un secondo turno alle presidenziali? Presidenziali e parlamentari avranno luogo nello stesso giorno? 4. Nell’ultimo anno, nell’area di Tripoli la milizia Rad‘ ha spesso trovato nella Force 444 un concorrente. Entrambe le forze hanno iniziato a operare nella stessa zona, generando con#itti e scontri occasionali. Ad agosto almeno 55 persone sono state uccise e 146 sono state ferite: le violenze sono avvenute dopo che il comandante della Brigata 444, Maõmûd Õamza, è stato arrestato dalla Rad‘ all’aeroporto di Mitiga mentre si dirigeva a una cerimonia. Dopo alcuni giorni di sanguinose proteste, Õamza è stato rilasciato. L’arresto ha dimostrato come, ancora una volta, Dubayba – che si trovava accanto a Õamza quando è stato arrestato – non abbia il controllo della situazione. Dopo il rilascio, il premier ha elogiato sia la Rad‘ sia la Brigata 444 e ne ha esortato i comandanti a trovare un accordo, così mostrando di voler mantenere buoni rapporti con entrambi. Nel frattempo il primo ministro del governo di Bengasi, Usåma Õammåd, cerca di tessere buoni rapporti con Õaftar, di consolidare la sua in#uenza nell’area da questi controllata e di convincere gli attori stranieri a trattare con il suo governo. Seppur con scarso successo, Õammåd ha chiamato i rettori delle università locali

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IN LIBIA DI MALE IN PEGGIO

chiedendo loro di interrompere la collaborazione con il ministero dell’Istruzione, ha istituito un fondo di decine di milioni di dinari per il Fezzan e ha avviato un programma di ricostruzione per Murzuch, da gestire tramite un apposito comitato e la Brigata ¡åriq ibn Ziyåd dell’Lna. A inizio agosto ha poi introdotto permessi di viaggio per i diplomatici stranieri e ha messo in guardia dal compiere visite senza preventiva autorizzazione. Intanto, sempre più migranti partono dai porti della Libia orientale, dove il governo di Tripoli non esercita alcuna in!uenza. I principali punti d’ingresso e uscita dei migranti non sono controllati dal Governo di unità nazionale. Se l’Italia e gli altri paesi europei vogliono affrontare la questione, dovranno parlare sempre di più con Õaftar, la cui visita a Roma dello scorso maggio è indicativa. Non ci sono alternative realistiche nel breve termine. La guerra civile in Sudan, il golpe in Niger e la lotta in Ciad tra governo e ribelli, che operano in parte dal Sud della Libia, pongono nuove s"de. L’Lna ha schierato truppe al con"ne per sostenere un eventuale aumento dei rifugiati dal Sudan – che "nora non c’è stato – e per contrastare la vendita di armi e petrolio alle forze che s"dano il governo sudanese. La sorveglianza del con"ne con il Niger è stata intensi"cata. Dopo gli attacchi aerei del governo ciadiano contro le basi del Fronte per il cambiamento e la concordia nel Sud della Libia e un successivo attacco terrestre contro le loro roccaforti nel Nord a "ne agosto, l’Lna ha inviato rinforzi anche nel Sud del Fezzan. Attualmente conduce operazioni nell’area montuosa del Tibesti contro i ribelli ciadiani e mira a espellerli dalla Libia, forse in coordinamento con l’esercito del Ciad. È irrealistico prevedere un miglioramento della situazione e lo svolgimento di elezioni in Libia nel breve termine. La guerra civile in Sudan, le crisi in Niger e in Ciad potrebbero danneggiare la fragile stabilità del Sud libico e dell’intero Sahara meridionale, innescando nuove ondate migratorie verso l’Europa e un aumento del terrorismo. Saranno i cittadini libici medi a pagarne il prezzo, come già avviene. L’unico modo per uscire dal caos è un compromesso tra le tre regioni storiche della Libia, una specie di federalismo alla libica. (traduzione di Guglielmo Gallone)

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LA TUNISIA DI SAÏED GUARDA AI BRICS

di

Ester SIGILLÒ

Traditi dal malgoverno ‘rivoluzionario’ e afflitti dal malessere socioeconomico, i tunisini abbracciano – e subiscono – il nuovo uomo forte. I richiami alla sovranità contro i diktat dell’Fmi. Tunisi resta nell’orbita algerina, mentre ammicca a Russia e Cina.

D

1. ICIASSETTE DICEMBRE 2010, SIDI BOUZID, Tunisia rurale: il giovane venditore ambulante Mohamed Bouazizi si dà fuoco davanti alla prefettura in segno di protesta contro miseria, corruzione e vessazioni della polizia. Questo gesto radicale darà inizio a un processo di ribellione contro regimi autoritari pluridecennali che scuoterà tutto il Nord Africa e parte del Medio Oriente. Gli slogan che accompagnano la rivoluzione tunisina !no al crollo del regime di Zine El-Abidine Ben Ali, il 14 gennaio 2011 – «Il popolo vuole la caduta del regime»; «Lavoro, libertà, dignità nazionale» – mostrano l’intreccio tra autoritarismo e diseguaglianze socioeconomiche. Al di là dell’immagine di una rivoluzione ispirata ai valori della democrazia liberale dipinta dai media, le rivolte del gennaio 2011 hanno infatti posto sotto i ri"ettori i gruppi sociali esclusi dal patto di sicurezza economica del regime. Mentre una parte dell’élite sociale e politica interpretava il cambiamento nel senso di una riforma istituzionale, per le classi popolari il processo di transizione democratica e le rivendicazioni di libertà si traducevano in richiesta di «pane e lavoro». Con la caduta di Ben Ali il paese ha avviato una transizione istituzionale culminata nell’adozione di standard democratici minimi, in particolare lo svolgimento di elezioni regolari sotto il vaglio di un organismo indipendente. Dopo l’elezione dell’Assemblea costituente nel 2011, con la vittoria del partito islamista Ennahda (37% dei voti), la Tunisia ha votato altre tre volte per le legislative (2014, 2019, 2022-23), due per le presidenziali (2014 e 2019), una per le municipali (2018). Ciò ha spinto molti a de!nirla un caso esemplare di democratizzazione nel mondo arabo. Nel 2014, dopo aspri con"itti e fratture radicali, è stata inoltre approvata all’unanimità una nuova costituzione, frutto di un dialogo nazionale unico nella regione. In continuità con l’èra di Ben Ali, la politica tunisina negli anni della transizione si è concentrata sulla retorica di un paese stabile, impegnato nella lotta al terro-

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LA TUNISIA DI SAÏED GUARDA AI BRICS

rismo. La svolta securitaria dopo due assassinî politici nel 2013 e gli attacchi terroristici del 2015 ha tuttavia distolto l’attenzione dall’incapacità dei governi post-2011 di aggredire i mali profondi del paese. L’aggravarsi della crisi economica e i mancati progressi nella protezione delle fasce più povere della popolazione hanno fatto sì che i partiti al potere fossero accusati di inaf!dabilità e corruzione, mentre il con"itto politico-istituzionale veniva assorbito dalla questione identitaria che opponeva un progetto di società «islamista», fondata sul diritto religioso, al vecchio compromesso modernista risalente all’epoca del presidente Bourguiba. Nonostante il pluralismo sulla carta, la maggior parte dei partiti è stata indistinguibile su questioni cruciali come il lavoro e le disuguaglianze socioregionali. Le principali formazioni – Nidaa Tounes di ispirazione bourghibista, Ennahda di matrice islamista – non hanno trovato soluzioni alla dilagante crisi socioeconomica. Di conseguenza, la popolazione tunisina si è sentita sempre più estranea al sistema partitico e più in generale alla politica, mostrando nel corso degli anni un crescente distacco dal processo elettorale. Dal 2016 nuove rivolte sono esplose nelle aree più marginalizzate del paese. Le richieste della popolazione hanno continuato a concentrarsi sulle questioni socioeconomiche, denunciando il modello di sviluppo iniquo, mai rimesso in discussione negli anni di sperimentazione democratica – una sorta di «questione meridionale» che riguarda soprattutto le regioni interne e del Sud tunisino. Il partito che più ha deluso è quello verso il quale erano state riposte le speranze di molti tunisini esclusi dai bene!ci economici e politici del vecchio regime: Ennahda, la cui base elettorale è calata drasticamente nel corso degli anni. Il forte sentimento popolare di tradimento della rivoluzione ha preso piede quando è diventato evidente che il processo di transizione democratica non avrebbe soddisfatto le aspettative di cambiamento, deludendo così le aspettative della popolazione. La «con!sca» della rivoluzione è passata anche attraverso politiche di recupero del vecchio regime, come il progetto di amnistia dei crimini economici commessi prima della rivoluzione (la cosiddetta Loi de réconciliation). Inoltre, si è assistito a una politica del compromesso tra le élite di Nidaa Tounes ed Ennahda, che dopo le elezioni formavano governi unitari malgrado la dura lotta in campagna elettorale.

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2. In questo contesto si sono tenute le elezioni legislative e presidenziali del 2019, che hanno sancito il fallimento dei partiti dominanti e legittimato l’emergere di correnti politiche populiste e sovraniste. Kaïs Saïed, giurista e !gura pubblica conosciuta dal 2012, è stato eletto alla presidenza senza l’appoggio di un partito, con il solo programma di restituire il potere al popolo rafforzando processi istituzionali «dal basso» e reinserire il paese nel solco della rivoluzione combattendo la corruzione degli imprenditori collusi col vecchio regime e con la nuova partitocrazia. Il 25 luglio 2021, undici anni dopo la caduta di Ben Ali, il potere a Tunisi è nuovamente tornato nelle mani di un’unica persona: il presidente Kaïs Saïed, che sull’onda di manifestazioni popolari contro governo e parlamento compie un atto

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di forza. Invocando l’articolo 80 della costituzione, Saïed dichiara lo stato d’emergenza e avvia una sorta di operazione «mani pulite»: partiti e magistrati civili sono messi sotto accusa. In particolare Ennahda, al governo dal 2012. Tutte le attività del parlamento sono congelate, il 30 marzo 2022 l’assemblea è sciolta. Nei mesi successivi Saïed adotta varie misure volte a consolidare l’autorità nelle proprie mani, limitando il sistema partitico – giudicato corrotto e responsabile della situazione economica – e imprigionando molti esponenti dell’opposizione, da ultimo (aprile 2023) il leader di Ennahda Rachid Ghannouchi. Allo stato d’emergenza fanno da sfondo lo stallo istituzionale – particolarmente visibile nelle dinamiche parlamentari – e le risposte inef!caci al Covid-19. Saïed lo giusti!ca con l’idea di voler rimettere il paese nel solco della rivoluzione del 2011, tradita dal partitismo e dalla magistratura corrotta. Annuncia un processo di riforma costituzionale, de!nito «rivoluzionario» perché lontano dalle partitocrazie. La redazione della nuova costituzione doveva avvenire attraverso un dialogo nazionale avviato dal capo dello Stato nel giugno 2022, ma – a differenza del 2014 – la consultazione si è rivelata un processo affrettato, tecnocratico e poco partecipativo. La bozza è stata redatta in poche settimane da una commissione di esperti nominati personalmente da Saïed, estromettendo numerosi partiti; diverse forze politiche e della società civile avevano esortato a boicottare il referendum costituzionale, de!nendo il testo «a misura del presidente». In mancanza di quorum, il referendum ha sancito l’approvazione del nuovo testo costituzionale con il 94,6% di voti favorevoli, nonostante l’af"uenza si sia attestata intorno al 30,5% – minimo storico nel paese. Dal 18 agosto 2022 la Tunisia ha quindi una nuova costituzione che sostituisce quella in vigore dal 2014, aprendo – nelle parole di Saïed – una fase politico-istituzionale «inedita». Ad alcuni sembra inopportuno parlare di ritorno alla dittatura presidenziale, ma è evidente come la costituzione varata da Saïed abbia modi!cato l’assetto politico-istituzionale rafforzando il potere presidenziale in modo consistente. La nuova Carta ha infatti abbandonato il sistema misto stabilito dalla costituzione del 2014, trasformando la Tunisia in una repubblica presidenziale senza meccanismi credibili di controllo. Da più parti è stato sottolineato che il nuovo ordinamento sarebbe un passo indietro in tema di tutela dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Oltre a indebolire l’indipendenza dei poteri giudiziario e legislativo, il testo – notano Amnesty International e Human Rights Watch – attribuisce al presidente il diritto di dichiarare lo stato d’emergenza senza limiti né controlli; introduce i processi in Corte marziale anche per casi civili; preclude il diritto di sciopero ai giudici; eleva i princìpi dell’islam a fonte della legge. Inoltre, non è chiara la riforma delle istituzioni locali che, contrariamente ai proclami di democrazia dal basso, potrebbe rafforzare l’esercizio verticistico del potere. 3. La svolta sovranista ha abbracciato anche una retorica di protezionismo economico e sviluppo endogeno, enfatizzando il rafforzamento dell’industria locale al !ne di promuovere l’occupazione e garantire che le risorse del paese siano

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utilizzate per il bene del popolo tunisino, non a favore delle potenze straniere. Pur non avendo mai espresso una politica estera coerente, alcune dichiarazioni pubbliche di Saïed hanno fatto luce sulle sue priorità. Un tema della campagna elettorale portato avanti durante la presidenza è l’attenzione ai partner tradizionali della Tunisia: mondo arabo, Nord Africa e paesi del Mediterraneo. Tuttavia, in un’intervista del 2019 Saïed sottolineava di non volersi alleare ad alcun paese, rispondendo solo alla «volontà del popolo [tunisino]. (…) Non piegheremo la testa davanti a nessuno, tranne che a Dio» 1. Se da un lato Saïed ha dunque rilanciato la storica politica di non allineamento della Tunisia, dall’altro l’enfasi sugli interessi nazionali ha mutato le relazioni diplomatiche con quanti hanno interessi strategici nel paese, in primis con la Francia. Dal colpo di Stato del 2021 le relazioni con Parigi sono state in"uenzate da diversi fattori, tra cui la volontà di Saïed di rafforzare l’indipendenza decisionale tunisina e di ridurre l’in"uenza straniera. Le politiche di protezionismo economico hanno messo per la prima volta in discussione la posizione delle imprese francesi in territorio tunisino. Il processo costituente voluto da Saïed si è sviluppato in un contesto socioeconomico e #nanziario fortemente compromesso dalla crisi sanitaria e dall’in"azione prodotta dalla guerra ucraina. A preoccupare sono soprattutto l’aumento del costo della vita e l’alto tasso di disoccupazione, oltre a un debito pubblico che ha raggiunto il 100% del pil. In questo scenario, a luglio 2022 hanno preso il via i negoziati uf#ciali tra il governo tunisino e il Fondo monetario internazionale (Fmi) per un prestito di quattro miliardi di euro volto a scongiurare il collasso del paese. La campagna contro il diktat dell’Fmi portata avanti da Saïed dalla #ne del 2022 si inserisce certamente nel quadro della svolta sovranista, ma l’accordo prevedeva misure di austerità e politiche di liberalizzazione tra cui il congelamento dei salari pubblici, il blocco delle assunzioni e la privatizzazione di società statali. Ancora prospettive negative per le classi sociali più deboli, che nell’ultimo anno hanno aumentato vertiginosamente le fughe disperate in mare. Malgrado l’impegno dell’Italia per garantire una rinegoziazione del prestito – rinvigorito dalla visita di Giorgia Meloni a Tunisi – e «salvare la Tunisia dal baratro», non è illogico ritenere inaccettabili le condizioni del Fondo, che in passato hanno contribuito a impoverire ulteriormente i settori più vulnerabili della popolazione. Se però le alternative proposte dal presidente tunisino non sono ancora chiare, compresi eventuali avvicinamenti ad altri potenziali creditori come Cina e Russia, le intenzioni dell’Italia paiono concentrarsi esclusivamente sull’arginamento del pericolo migratorio anziché sulla necessità di sanare le ferite socioeconomiche del paese. La questione migratoria è al contempo oggetto di attenzione delle potenze europee e centro della propaganda tunisina. Al termine di un incontro (giugno 2023) a Tunisi con i ministri dell’Interno francese e tedesco nell’ambito degli sforzi europei per prevenire gli attraversamenti del Mediterraneo, Saïed ha dichiarato che la Tuni-

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1. «Intervista integrale a Kaïs Saïed», acharaa.com, 12/6/2019 (in arabo).

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sia «non è la guardia di frontiera dell’Europa e non accetta di diventare un paese rifugio» 2. Dichiarazione che rivela il timore che la Tunisia diventi bacino di «sostituzione etnica» a vantaggio dei migranti subsahariani 3. Nel discorso pronunciato alla riunione del Consiglio di sicurezza nazionale del 21 febbraio 2023, Saïed ha individuato nei migranti subsahariani una minaccia all’identità arabo-islamica del paese, peggiorando la già precaria situazione di molti rifugiati. Riferendosi all’arrivo di «orde di immigrati clandestini», ha sostenuto che questa immigrazione fa parte di un’«impresa criminale» volta a modi"care la composizione demogra"ca della Tunisia per offuscarne il carattere arabo-musulmano 4. Queste parole sono state accolte come appello all’odio dalla popolazione tunisina, scatenando un’esplosione di violenza razzista contro la popolazione subsahariana: gruppi sono scesi in strada e hanno attaccato migranti, studenti e richiedenti asilo di colore, mentre gli agenti di polizia ne arrestavano ed espellevano molti. La città di Sfax, hub del paese per le partenze in barca verso le coste europee, è stata teatro di forti tensioni tra residenti e migranti subsahariani. I disordini sono rapidamente degenerati in violenze e deportazioni dei migranti nel deserto, verso la frontiera libica. 4. Il profondo mutamento politico in Tunisia si inserisce nel contesto dello sconvolgimento geopolitico del Sahel, che pare rimettere in discussione il paradigma del dominio occidentale, specie francese. La Tunisia, considerata dall’epoca del presidente Zine El-Abidine Ben Ali (1987-2011) «le bon élève» delle politiche di partenariato dell’Unione Europea, appare oggi in linea con altre realtà regionali – tra cui la vicina Algeria, legata a doppio "lo con Mosca – nella s"da al vecchio dominio occidentale, valutando l’adesione all’alleanza capitanata da Cina e Russia dopo il recente ingresso dell’Egitto 5. Da tempo Tunisi non esclude infatti di rivolgersi ai Brics per sottrarsi alla morsa dei prestiti occidentali 6. Il recente golpe in Niger contro Mohamed Bazoum è un chiaro esempio di disconnessione brutale dal dominio occidentale. La crisi è scoppiata poco prima del 3 agosto, giorno della festa nazionale in cui si celebravano i 63 anni dell’indipendenza (nominale) dalla Francia. La folla, sventolando bandiere russe e intonando cori a favore di Vladimir Putin, gridava «abbasso la Francia» mentre ne prendeva di mira l’ambasciata. La crisi nigerina si inscrive dunque nelle convulse dinamiche della cosiddetta Françafrique, lo spazio neocoloniale dell’Africa subsahariana basato su legami economici, politici, di sicurezza e culturali incentrati sulla lingua e sui valori francesi. 2. «Kais Saied: “La Tunisie ne peut être le garde-frontière de l’Europe”», Africa News, 20/6/2023. 3. «Tunisia’s Saied says migration aimed at changing demography», Al Jazeera, 22/2/2023. 4. «Tunisia: Saied’s words “have done a lot of harm” – OIF», Africa News, 14/3/2023. 5. «L’alleanza Brics si allarga: entrano Argentina, Egitto, Etiopia, Iran, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti», Il Sole-24 Ore, 24/8/2023. 6. Il 24 agosto 2023 l’Observatoire tunisien de l’économie (Ote) ha pubblicato una nota intitolata «Il Nordafrica e i Brics: se è “una carta da giocare” per uscire dall’Fmi». Cfr. H. Marzouk, «Ote: la Tunisie gagnerait à faire partie du groupe Brics», Économiste Maghrébin, 24/8/2023.

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Nonostante il ritiro dal Mali e la !ne dell’Operazione Barkhane, la Francia conserva del resto una guarnigione di 1.500 soldati in Niger, insieme a una base aerea per caccia e droni da combattimento. Tutto ciò ricorda con forza che, malgrado la lunga e sanguinosa decolonizzazione, Parigi ha mantenuto un semi-impero in Africa, soprattutto nella regione saheliana, dove l’estrazione dell’uranio rappresenta il maggior interesse da proteggere. Il 4 maggio 2023 la multinazionale francese Orano (ex Areva) ha siglato un «partenariato globale» con il Niger per estendere lo sfruttamento dei giacimenti di uranio sino al 2040 7. Lo sfruttamento riguarda la miniera a cielo aperto controllata da Somaïr, compagnia nigerina che concentra le attività nella città di Arlit, regione di Agadez, 1.200 km a nord della capitale Niamey 8. Cinque giorni dopo il Senato francese approvava una legge per accelerare le procedure di costruzione di nuovi impianti nucleari 9. Si può quindi ritenere plausibile un ritiro completo della Francia dall’area? No. Eppure l’attrattività di nuovi modelli, come quello russo o cinese, è una realtà nel Sahel. Gli ultimi avvenimenti in Niger sembrano andare nella direzione di un rigetto totale delle relazioni con l’ex potenza coloniale. Il 5 agosto 2023 i golpisti hanno annullato tutti gli accordi militari con la Francia, chiedendo aiuto ai mercenari del Gruppo Wagner. Inoltre sono state oscurate le emittenti France24 e Radio France. Questi sviluppi hanno sancito il #op dei tentativi di negoziato delle Nazioni Unite e dell’Ecowas (Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale), che si è detta pronta a intervenire militarmente. Contro l’intervento militare pesa la voce critica dell’Algeria, che condivide circa mille chilometri di con!ne con il Niger e rappresenta un al!ere della narrazione «antifrancese» nell’Unione Africana. Il 23 agosto, a quasi un mese dal colpo di Stato contro Bazoum, alcuni media algerini hanno denunciato l’imminenza di un intervento militare francese, smentito dall’Eliseo. In un quadro di profonda instabilità socioeconomica interna, la Tunisia non si è esposta sulla situazione in Niger. Resta però saldamente nell’orbita di Algeri, sostenendola in alcune battaglie politiche – come la legittimazione del Fronte Polisario 10 – e ricevendone prestiti generosi, che le hanno !nora permesso di restare a galla 11.

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7. «Niger: Uranium mine set to operate until 2040», Africa News, 4/5/2023. 8. «Orano signe un Accord Global de Partenariat avec l’Etat du Niger», Orano - Comunicato stampa, 4/5/2023. 9. «Projet de loi relatif à l’accélération des procédures liées à la construction de nouvelles installations nucléaires à proximité de sites nucléaires existants et au fonctionnement des installations existantes», Senato della Repubblica Francese, Sessione ordinaria 2022-2023, 9/5/2023. 10. «Morocco recalls Tunisia ambassador over Western Sahara», Reuters, 27/8/2022. 11. «Tunisie: un rapprochement avec Alger au parfum de dépendance?», Tv5 Monde, 18/1/2023.

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Parte II OCCIDENTI SBANDANO RUSSIA GODE TURCHIA PROFITTA

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di

Fabrizio MARONTA

Il golpe in Niger, ultimo (?) effetto dell’operazione anti-Gheddafi, mette in crisi il nostro approccio al Sahel. Le contraddizioni del tentativo di estrarre risorse e frenare le migrazioni dall’Africa. Che ne sarà del Piano Mattei? Basta combattere le guerre di Parigi.

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1. « FFETTO DOMINO» SUONA VAGAMENTE desueto in geopolitica. Nella guerra fredda la locuzione indicava il timore statunitense che l’instaurazione di regimi (!lo)comunisti in uno o più paesi, soprattutto asiatici e africani, facilitasse analoghi esiti altrove. Complici – o malgrado – le strategie americane di contenimento e rollback, questo fantasma non si materializzò mai. Ironicamente, tra il 1989 e il 1991 l’effetto domino ebbe anzi sbocco opposto: la rapida caduta di tutte le tessere del Patto di Varsavia e, da ultimo, dell’impero sovietico. Tramontata la minaccia rossa il concetto è stato con sollievo accantonato, a favore della promettente idea di democratizzazione associata alle fulgide prospettive di una storia prossima alla !ne. Nel Sahel, regione africana eletta da americani ed europei a nuovo fulcro strategico tra i molti della policentrica geopolitica odierna, l’effetto domino consuma la sua vendetta postuma. O forse, semplicemente, si palesa a sguardi sin qui assorbiti da onerose distrazioni. Mentre Washington si dissanguava nelle forever wars mediorientali, con il seguito di alleati europei (italiani inclusi) chiamati a raccoglierne i cocci sotto bandiera Nato, l’ondata delle «primavere arabe» (2010-12) partita dalla Tunisia provvedeva a destabilizzare il Levante e l’affaccio mediterraneo del continente africano. È forse troppo deterministico e dietrologico leggere nella solenne promessa occidentale di sostegno ai popoli afghano e iracheno contro le rispettive tirannie il motore primo dello Zeitgeist che ha indotto i giovani tunisini, egiziani, libici, siriani e yemeniti a innescare le scintille delle loro guerre civili, poi avocate da altri attori e piegate a meno alte cause. Certo è che la cattura ed esecuzione di Muammar Ghedda! (ottobre 2011) con il determinante concorso di Parigi, Londra e (suo malgrado) Roma, previa «leadership da dietro» americana, ha avviato una dinamica destrutturante – "usso di armi e miliziani, frazionamento istituzional-territoriale, con"ittualità endemica – che da

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allora investe la regione saheliana. Una dinamica che vede cadere, come tessere, tutti i paesi – Mali, Burkina Faso, ultimo il Niger – su cui Francia e Italia (più di altri) avevano puntato in chiave di stabilizzazione delle con!nanti aree maghrebina e subsahariana. Il Niger, sotto questo aspetto, appare la chiave di volta capace di far crollare l’intero, traballante edi!cio, portandosi dietro i nostri interessi strategici. Interessi che, ieri come oggi, sono sintetizzabili nel binomio risorse-migranti. 2. Sono questi, infatti, i due poli del futuribile Piano Mattei annunciato dal presidente del Consiglio Giorgia Meloni sulla scia del predecessore Mario Draghi, che lo abbozzò in piena emergenza energetica poco dopo l’invasione russa dell’Ucraina. Meloni e Draghi, come tutti prima di loro, fanno i conti con le ineludibili caratteristiche geogra!che e geologiche dell’Italia. Paese proiettato sulla frontiera liquida, alias Mediterraneo, che separa la variegata Caoslandia dall’altrettanto eterogenea, ma ben più stabile e ricca Ordolandia; penisola povera di materie prime, che è costretta a importare per darsi un’economia industriale degna del nome. Ai tradizionali idrocarburi oggi si aggiungono gli altri minerali e metalli più o meno rari necessari all’elettri!cazione e alla decarbonizzazione, dunque all’enorme partita industriale e tecnologica che sottende la cosiddetta transizione energetica. Nel Piano Mattei, migranti e risorse sono inversamente correlati. Nello scenario ideale, il piano mira a limitare l’af"usso dei primi massimizzando il reperimento delle seconde attraverso la sponda Sud del Mediterraneo. A tal !ne l’area denominata Sahel (dall’arabo såõil, «bordo del deserto»), che individua in primo luogo Gambia, Senegal, Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Ciad, lambendo altresì Nigeria, Camerun, Sudan ed Eritrea, è cruciale. Bisecando il continente dall’Atlantico al Mar Rosso, quest’ampia fascia semiarida di oltre 3 milioni di kmq è il passaggio obbligato da/per l’immensa Africa subsahariana, che ospita il grosso della popolazione (1,5 miliardi di anime nel 2050 da proiezioni Onu, su un totale di circa 2 miliardi) e delle risorse africane. Ma la sua instabilità si riverbera anche sul Nord Africa, in primis sul Maghreb, il cui equilibrio è già compromesso dall’endemico caos libico e dall’incertezza sociale, economica e politica che attanaglia Tunisia e Algeria. Senza contare che lo stesso Sahel, specie la fascia settentrionale, alberga cospicue risorse naturali: gas e petrolio, ma anche oro, bauxite e uranio. Quest’ultimo è tanto più strategico alla luce della rinnovata importanza attribuita al nucleare nel processo di decarbonizzazione, nonché del ruolo di primo piano svolto da Rosatom (Russia) quale fornitore mondiale di combustibile nucleare (anche) agli Stati Uniti, ansiosi di ridurre l’incresciosa dipendenza 1. Quanto ai "ussi migratori dall’Africa, il Niger è tra i paesi che più attestano come il Mar Mediterraneo resti l’ultimo tassello di una dinamica molto più ampia e articolata. L’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) classi!ca il Niger paese di «partenza, transito e destinazione»: dei circa 400 mila nigerini che vi-

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1. M. BEARAK, «The U.S. Is Paying Billions to Russia’s Nuclear Agency. Here’s Why», The New York Times, 14/6/2023.

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vono all’estero, 170 mila circa sono in Libia dove formano la comunità straniera più numerosa. Dal Niger passa anche la quasi totalità dei !ussi provenienti da Ciad, Nigeria, Benin, Burkina Faso e Mali, nonché quote consistenti di quelli che originano in Mauritania, Senegal, Guinea, Costa d’Avorio e Ghana e che, attraverso il Sahara – barriera non meno letale del Mediterraneo, di norma affrontata dalla porta di Agadez – puntano a nord, soprattutto verso Libia e Tunisia. Lo stesso Niger ospita circa 300 mila richiedenti asilo, quasi tutti dalla Nigeria 2. Non a caso, nel dicembre 2022 a Roma il presidente nigerino Mohamed Bazoum era ospite di un convegno della fondazione Med-Or alla presenza, tra gli altri, dei ministri Guido Crosetto (Difesa) e Matteo Piantedosi (Interno). Mentre lo scorso luglio, poco prima del golpe che lo ha deposto, era alla Farnesina insieme al suo omologo mauritano, unici capi di Stato saheliani presenti. Contestualmente il ministero degli Esteri lanciava nuove «iniziative di contrasto al traf#co di esseri umani in Libia e Niger», destinando 8,5 milioni di euro a Tripoli e 7,5 milioni a Niamey 3. 3. Queste e altre azioni rappresentano il culmine di uno sforzo economico, militare e diplomatico intrapreso all’indomani della rimozione violenta di Ghedda# e andato crescendo nel tempo; sforzo cui la guerra ucraina ha dato ulteriore, forte impeto. In particolare, il pro#lo militare ha assunto via via un ruolo prevalente sia in termini assoluti sia relativamente al complesso dell’esposizione italiana nell’area. Preso atto che l’instabilità saheliana si proietta a nord e a sud della regione e che il con!itto libico l’alimenta, negli ultimi anni Roma ha puntato sull’assistenza militare ai governi locali nel contrasto ai gruppi armati, al jihadismo e alle (di norma connesse) attività di contrabbando e traf#co transfrontaliero di droga, armi e migranti. Oggi le forze italiane integrano svariate missioni su suolo africano: quattro bilaterali (Miasit in Libia, la forza di stabilizzazione Mfo tra Egitto e Israele, Miadit 18 in Somalia, Misin in Niger) e quattro in ambito Ue (Eucap Somalia, Eutm Somalia, l’Operazione Atalanta sempre in Somalia, Eucap Sahel, Eump Niger). A queste #no a poco tempo fa si aggiungeva Minusma, la missione Onu di stabilizzazione in Mali, il cui ritiro è stato accelerato dai crescenti problemi di sicurezza nel paese. Al di là dei singoli contesti e delle speci#che esigenze operative, il !l rouge degli interventi è stato #n dall’inizio l’addestramento delle forze regolari a #ni contro-insurrezionali e di controllo del territorio, in chiave di consolidamento dei governi locali e di aumento della – di norma assai scarsa – capacità d’esercizio della sovranità entro i con#ni statali. Più che deludente, il risultato appare paradossale: prima di quello nigerino, il Sahel ha visto altri quattro colpi di Stato recenti, due in Mali (agosto 2020, maggio 2021) e due in Burkina Faso (gennaio e settembre 2022) 4. Tutti i casi – al pari dell’ultimo, in Niger – hanno visto protagonisti gli eserciti locali armati e addestrati con il forte concorso occidentale. 2. G. MERLI, «Nel Sahel l’Italia e la Ue usano il Niger per fermare e rimpatriare i migranti», il manifesto, 5/8/2023. 3. Ibidem. 4. «Before Niger, several recent coups in the Sahel», Africa News, 27/7/2023.

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Insieme alla scommessa securitaria, andava crescendo l’impegno economico italiano nel Sahel e nel resto del continente. Ne è emblema il moltiplicarsi negli ultimi dieci anni delle rappresentanze Ice (Agenzia per la promozione e l’internazionalizzazione delle imprese italiane all’estero) in Africa, dall’unica del 2013 in Sudafrica alle otto del 2023 (con aggiunta di Ghana, Etiopia, Senegal, Nigeria, Angola, Mozambico e Kenya), tutte in area subsahariana. Alle presenze storiche – i grandi gruppi energetici, su tutti Eni, e i consorzi edili – si sono aggiunte piccole e medie aziende dell’agroalimentare, della farmaceutica, del tessile, della componentistica e dei macchinari 5. Tuttavia, il grosso dell’interscambio Italia-Africa – che ha toccato i 68 miliardi di euro nel 2022 – continua a farlo l’approvvigionamento energetico. A impennarsi l’anno scorso è stato infatti il nostro import dal continente, quasi raddoppiato a 47 miliardi di euro. La cifra ha remunerato in gran parte gas sostitutivo di quello russo estratto in Algeria, Libia, Egitto, Angola, Mozambico, Gabon, Ghana e Congo. Dominato dall’energia resta anche il "usso italiano di investimenti in Africa, negli ultimi anni diretti soprattutto allo sviluppo dell’offshore egiziano da parte di Eni 6. Questi dati mostrano come, anche e soprattutto sulla scia della guerra ucraina, la dimensione economica della presenza italiana in Africa, Sahel incluso, rimanga incentrata sulla sicurezza energetica, raison d’être del Piano Mattei e altra faccia dell’approccio militare – dunque, securitario – che ha caratterizzato l’azione di Roma nella regione. Per Meloni come per Draghi, l’idea di fondo sembra quella di volgere in opportunità l’enorme rischio posto dal venir meno del business energetico as usual con Mosca. Non senza contraddizioni. La scomparsa del gas russo promette infatti, nel migliore degli scenari (per noi), di ricon#gurare i "ussi energetici europei dall’asse Est-Ovest a quello Sud-Nord, rendendoci hub continentale dell’energia africana in sostituzione dell’analogo ruolo svolto sin qui primariamente dalla Germania e, in misura minore, da Paesi Bassi e Austria. Ma quale energia? Nell’immediato il gas, in prospettiva – Draghi dixit 7, Meloni reitera 8 – anche «le enormi potenzialità delle rinnovabili» africane, su tutte il fotovoltaico. Da qui la riproposizione del cavo sottomarino Elmed tra Tunisia e Sicilia: progetto vecchio di vent’anni originariamente pensato per diversi#care i consumi tunisini dipendenti dalla vicina Algeria e creare un surplus elettrico da importare in Italia, ma rimasto lettera morta anche per le pastoie burocratiche di Tunisi. S#de tecniche a parte (legate soprattutto alla dispersione di un simile elettrodotto), nell’odierna frenesia da decarbonizzazione-rilocalizzazioni questa ratio si scontra con la dichiarata volontà di sviluppare le rinnovabili in Sicilia e in Calabria, il cui auspicato surplus generativo rischia così di entrare in concorrenza con quello tunisino, causando più problemi che soluzioni. L’ideale sarebbe che l’import elettrico dalla

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5. M. ZAURRINI, «Commercio, investimenti e presenza economica italiana in Africa: come sta cambiando?», Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale), 12/7/2023. 6. Ibidem. 7. «Questa è l’Europa - Discussione con Mario Draghi, presidente del Consiglio dei ministri italiano», Parlamento europeo (Strasburgo), Resoconto integrale, 3/5/2022. 8. «Meloni: “Promuovere un Piano Mattei per l’Africa”», RaiNews, 25/10/2022.

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Tunisia, sommandosi al surplus siculo-calabro, alimentasse l’industria del Mezzogiorno e la decarbonizzazione del Centro-Nord 9. Con andreottiana malizia, a sud di Eboli si teme che il secondo obiettivo "nisca per obliterare il primo, trasformando il Meridione in una sottostazione elettrica del Nord e perpetuando gli annosi squilibri territoriali. 4. Incongruenze a parte, il caos in Niger rischia ora di vani"care anni di presenza italiana nel Sahel, a sua volta inserita in uno schema euro-americano – meglio: franco-statunitense – che ha caparbiamente perseguito l’opposto di quanto si sta veri"cando. Fino a ieri Parigi, Roma e Washington versavano nel complesso circa 2 miliardi di dollari l’anno 10 nelle casse di Niamey, tra aiuti militari e allo sviluppo. Fragile democrazia in un panorama di dittature, il Niger è assurto ad avamposto occidentale nel Sahel, tanto che nell’aprile 2021 l’allora ministro della Difesa Lorenzo Guerini annunciò l’avvio dei lavori, nell’ambito della missione Misin, per la costruzione di una base militare interamente italiana nel paese 11, la prima in Africa occidentale. Ora il manufatto, pressoché ultimato, rischia di assurgere a emblema di un colossale fallimento. Il Sahel rasenta l’ennesima guerra, ma su scala più vasta, se l’Ecowas (Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale) facesse seguito alle minacce del suo attuale presidente, il nigeriano Bola Tinubu, di ripristinare l’ordine costituzionale in Niger mediante un intervento militare. Tanto più se questo trovasse il sostegno occidentale, in particolar modo di una Francia nuovamente spiazzata dagli eventi e angosciata dalla deriva della Françafrique. Anche in assenza di un con#itto aperto, il cronicizzarsi di un’alta instabilità complica ulteriormente la vita ai governi dei paesi – dall’Algeria alla Tunisia, passando per l’Egitto "no al simulacro di Stato libico – su cui Roma punta come partner essenziali dello sforzo di sostituzione permanente del gas russo con energia made in Africa. Tale sforzo presuppone la passabile stabilità della regione e delle sue relazioni con l’Italia, più in generale con la sponda Nord del Mediterraneo, specie con riferimento allo spietato traf"co di migranti che – Libia docet – trae enorme vantaggio dal caos e dalla labilità istituzionale, viatico di corruzione ed estese complicità. Urge una correzione di rotta, tardiva ma auspicabilmente non vana, che per non sfociare in naufragio deve tener conto degli errori sin qui commessi. Ci permettiamo di evidenziarne due, legati ma discernibili per tempi, luoghi ed entità. Il primo errore, il più grande, lo abbiamo commesso in Libia. Dopo aver in gran parte subìto la rimozione di Ghedda" per mano di un duo franco-britannico mosso da pavloviano ri#esso neocoloniale e sostenuto da un’America riottosa, cui ci sia9. F. SASSI, «È possibile un modello virtuoso di cooperazione energetica tra Italia e Africa?», Ispi, 12/7/2023. 10. «Niger loses aid as Western countries condemn coup», Nbc News, 29/7/2023. 11. A. MAZZEO, «Prima base interamente italiana nell’Africa occidentale. Mai discussa in Parlamento», Pagine Esteri, 29/12/2021.

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mo aggregati in extremis per non restare esclusi da eventi destinati a investirci, ne abbiamo ignorato gli esiti. Subire gli sbagli altrui non autorizza a metterci del proprio. Invece abbiamo deciso che la brutale guerra civile precipitata dal collasso della Ãamåhiriyya – con il nostro, ancorché non entusiastico, concorso – non ci riguardava, lasciando ad altri riempire quel vuoto. La storia è nota: la Turchia si installava a Tripoli, difendendo con le sue armi il governo libico internazionalmente riconosciuto; la Russia, via Gruppo Wagner, metteva radici nell’Est e palesava così il recidivo velleitarismo di Parigi, intenta a sostenere con scarsi mezzi il cirenaico sbagliato (al secolo, generale Œaløfa Õaftar). Frattanto, gli incustoditi arsenali libici vomitavano !umi di armi, che imbracciate dai mercenari saheliani al soldo del fu tiranno alimentavano le guerre saheliane, a partire dal Mali. Qui subentra il secondo errore, che si somma al primo e ne ampli!ca gli effetti. Consciamente o meno, abbiamo compartecipato di un gigantesco abbaglio che ha scambiato la causa prima – il caos libico e i suoi riverberi – per l’effetto – l’instabilità in Mali, poi in Burkina Faso e ora in Niger. Avendo spinto la prima, colossale tessera del domino ci siamo affannati a puntellare le altre, che però hanno !nito per schiantarsi. Nel farlo, abbiamo pensato di poter coniugare l’interesse nazionale – controllo dei "ussi migratori, specie dalla «crisi dei migranti» del 2015; approvvigionamento energetico, specie dallo scoppio della guerra ucraina – con l’appeasement di una Francia determinata a restare «potenza africana» imponendo la propria volontà e i propri, disastrosi errori. Un prezzo, questo, che Roma ha forse giudicato necessario per condurre in porto il trattato del Quirinale (novembre 2021), funzionale allo sforzo di controbilanciamento dell’austerità contabile tedesca. Ciò ha comportato assecondare le scelte – sbagli compresi – francesi nel Sahel: come in Mali, dove i nostri soldati si sono trovati a fronteggiare il caos dopo la fallimentare prova e il conseguente ritiro di Parigi. Così facendo, abbiamo in parte compromesso l’immagine di attore «disinteressato» che ci deriva dall’assenza di un protratto legato coloniale, associandoci a posture percepite dagli attori locali come improntate a un anacronistico, sfrontato neocolonialismo. Fattore che ha avuto il suo peso nel risentimento all’origine dei golpe, compreso quello nigerino 12. Ma soprattutto, abbiamo contribuito ad armare le mani che ora destabilizzano ulteriormente la regione, disperdendo il nostro strumento militare con un uso che rischia di rivelarsi astrategico, al limite controproducente. 5. Che fare? Premesso che il latte è versato, possiamo – dobbiamo – provare a salvare il salvabile. Primo: evitare accuratamente qualsiasi sostegno, economico e/o militare, a eventuali interventi dell’Ecowas o di altre entità africane in Niger. Anche se questo, com’è probabile, implica attriti con la Francia. Il punto non è rifuggire la guerra in quanto tale, bensì evitare di invischiarci in guerre che rischiano di arrecare ulteriore danno ai nostri interessi. Nell’immediato, alimentando l’instabilità di una regione

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12. F. SASSI, «Niger coup is major threat for Italy’s energy “Mattei Plan”», EurActiv, 5/8/2023.

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da cui dipende in non piccola parte l’esito dei dossier migratorio ed energetico, per noi cruciali. In prospettiva, lasciando strascichi che a quel punto ci vedrebbero parte in causa, dunque attore non più in grado di spendere alcun tipo di neutralità. Secondo: rinegoziare i nostri termini di cooperazione con Parigi nel Sahel. Combattere battaglie perse è ricetta di sicura infelicità. Se è vero per gli Stati Uniti, il cui amaro redde rationem in Afghanistan è sfociato in una fuga indecorosa e nel trionfale ritorno dei taliban, lo è tanto più per noi italiani e per i cugini transalpini, le cui velleità scontano un crescente de!cit di potenza. Le nostre limitate risorse vanno indirizzate alla cooperazione civile e all’aiuto allo sviluppo, mettendo in chiaro che sono condizionate ai risultati ma mettendo in conto i limiti di questa forma di condizionamento. Ciò non esclude l’ambito securitario, soprattutto per quanto attiene il controllo dei con!ni e dei relativi traf!ci, ma senza perniciose ipocrisie e soprattutto senza inseguire altri su terreni troppo ostici. In chiaro: non ha molto senso armare e addestrare aspiranti golpisti in Sahel dopo aver lasciato al suo destino il governo tripolino, pur legittimo, dando mano libera ai ben più disinvolti russi e turchi. E suona beffardo promettere alla stremata Tunisia – di cui pure celebriamo a intermittenza il coraggio democratico – poco meno di 700 milioni di euro, di cui un centinaio subito e gli altri chissà, quando dal 2016 l’esecrato Recep Tayyip Erdoãan ne ha incassati circa sei miliardi 13 per fare della Turchia il nostro campo profughi. Considerare l’Africa maghrebino-saheliana un caso clinico al pari di Afghanistan e Iraq non vuol dire solo fare l’ennesimo torto a «paesi in via di sviluppo» (si noti il delicato eufemismo a fronte del sostanziale disinteresse). Vuol dire anche spararci sui piedi, perché con la sola repressione dif!cilmente si sopprime una spinta migratoria che nasce dal mix di sottosviluppo e sovrademogra!a. A questi paesi chiediamo risorse e controllo migratorio, dunque accondiscendenza e, in certa misura, repressione. In cambio è ora di offrire un rapporto che, sebbene oggettivamente ineguale, miri a ricomporre per quanto possibile lo iato di sviluppo tra «noi» e «loro». Af!nché loro non vedano in noi l’ennesima incarnazione dell’Occidente predatorio e orientalista, da compiacere (s)vendendo il futuro delle popolazioni locali o da combattere con l’interessato e non gratuito aiuto dei terzomondisti di turno, vecchi (Russia) e nuovi (Cina). Ultimo, ma non ultimo: se c’è un luogo, nell’area saheliano-maghrebina, in cui l’uso dello strumento militare in chiave di stabilizzazione e ausilio all’autorità legittima (non per questo necessariamente presentabile) resta per noi valido e sensato, quello è la Libia. Non si tratta di «fare la guerra» ad Ankara e tantomeno a Mosca per scalzarle dalle posizioni lasciate colpevolmente scoperte un decennio fa, quanto di competere con esse – specie con la Turchia – per l’in#uenza in Tripolitania e in parte nel Fezzan, sfruttandone ogni défaillance e incapacità di corrispondere alle esigenze, anche di sicurezza, del governo. Immediatamente dopo, in lista, vengono Tunisia e Algeria: regimi affatto diversi, ma accomunati dall’assoluta sa13. «Quanto ha pagato la Ue per bloccare i profughi in Turchia», Key4Biz, 13/3/2023.

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lienza per i nostri immediati interessi strategici. Tutto questo non farebbe torto alla condivisibile visione «allargata» del Mediterraneo quale regione geopoliticamente più ampia dell’omonimo mare. E sarebbe forse più in linea con lo spirito di Enrico Mattei, il cui abile e celebrato metodo coniugava l’audacia con un acuto senso del limite. Aiuterebbe altresì a ricalibrare le nostre forze e a proporre (opporre) una concezione diversa dell’area maghrebino-saheliana rispetto a quella francese. Una concezione meno ideologica, più dialettica e realistica, con cui articolare una differente strategia mediterranea da «vendere» anche a un’America e a una Ue che, al riguardo, brancolano pericolosamente nel buio.

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‘L’Africa è strategica per gli Stati Uniti, ma non la capiamo’ Conversazione con Tibor NAGY, già assistente segretario di Stato degli Stati Uniti per gli Affari africani (2018-21) e ambasciatore in Guinea (1996-99) e in Etiopia (1999-2002), a cura di Federico PETRONI e Michael MIKLAUCIC

Quali sono gli interessi strategici degli Stati Uniti in Africa? I nostri interessi strategici in Africa hanno subìto un’incredibile evoluzione dalla decolonizzazione a oggi. Inizialmente, il continente contava per la competizione geopolitica con l’Unione Sovietica. Ma ora è diventato importante di per sé, non in relazione a qualcun altro, a causa di almeno tre forze in gioco. Una è il cosiddetto tsunami giovane. La popolazione raddoppierà nei prossimi cinque o sei decenni: capire che cosa succederà con centinaia di milioni di africani in più è molto importante per noi. Un’altra sono le risorse: l’Africa è l’Arabia Saudita del XXI secolo per le materie prime necessarie all’economia dell’elettricità: terre rare, gra!te, litio eccetera. La Cina controlla la maggior parte di queste risorse attraverso giacimenti, impianti di raf!nazione oppure contratti con paesi fornitori come la Repubblica Democratica del Congo. Se vogliamo essere un attore industriale di rango, dobbiamo stabilire relazioni in questo settore con i paesi africani. In!ne, il livello diplomatico: l’Africa ha più rappresentanze di qualunque altro continente nelle istituzioni multilaterali e gli Stati africani tendono a votare all’unisono. Conta nella partita per le regole del sistema internazionale. LIMES Quali soni i paesi più importanti per gli Stati Uniti? NAGY Gibuti è uno degli appezzamenti di terra di maggior valore al mondo per via della sua posizione lungo le rotte marittime. Conterebbe molto meno se fosse nel mezzo del Sahel. Per il resto, le priorità cambiano letteralmente di anno in anno, a volte di mese in mese. Ovviamente ogni regione ha il suo Stato àncora: Sudafrica, Nigeria, Etiopia, Kenya, Repubblica Democratica del Congo. Ma poi anche un piccolo paese può essere strategicamente importante all’improvviso a causa di crisi o di mosse altrui. LIMES NAGY

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La strategia americana mira a evitare che una potenza assuma il controllo dell’Eurasia. Russia e Cina però hanno esteso il campo di gioco all’Africa. Che impatto ha sulla strategia americana? NAGY È un fattore importante. Anche se dobbiamo differenziare tra Russia e Cina. Mosca è un’opportunista di breve periodo, che cerca di aumentare la propria in!uenza in Africa attraverso i legami d’epoca sovietica e di danneggiare gli interessi americani o di paesi europei come la Francia. Pechino invece è la minaccia di lungo periodo per il dominio globale degli Stati Uniti e per il sistema post-seconda guerra mondiale che abbiamo creato. Per ora la sua unica base all’estero è a Gibuti, ma la sua Marina cerca avamposti anche sull’Atlantico per essere in grado di minacciare il nostro raggio globale. L’Africa occidentale presenta ottime opportunità per i cinesi perché, a differenza di noi americani, riconoscono il valore dei piccoli paesi. Quell’area è piena di Stati che possono essere in!uenzati senza grande sforzo: Guinea Equatoriale, Guinea Bissau, São Tomé e Principe, posti in cui gli Stati Uniti hanno una presenza minima ma di cui la Cina coglie il valore strategico. Visto che noi li ignoriamo, come abbiamo ignorato molti Stati insulari del Paci"co, dobbiamo rincorrerli. È un interesse strategico, ma non direi che è una priorità assoluta. LIMES Perché avete lasciato che russi e cinesi penetrassero liberamente in Africa? NAGY Abbiamo dormito. Durante la guerra fredda, gli Stati Uniti erano molto ben equipaggiati per combattere l’in!uenza sovietica in Africa. Avevamo una strategia, ottime attività di diplomazia pubblica, risorse adeguate ad affrontare quella che chiamavamo la grande bugia del comunismo. Poi abbiamo prosciugato le ambasciate "no al minimo in termini di personale e di budget. Abbiamo permesso alla Russia di dipingerci come forza maligna, egoista, colonialista. Le abbiamo permesso di riempire un vuoto anche a livello militare. Se io fossi un governo africano e cercassi assistenza bellica, gli Stati Uniti sarebbero la mia ultima scelta. Se chiedo una "onda agli americani, mi arriva in sei mesi. Se la chiedo ai russi, mi arriva in una settimana, con tanto di addestratori. Magari gli equipaggiamenti fanno schifo, ma non ci mettono una vita. Il Gruppo Wagner è una storia di successo. Si è inserito in teatri in cui c’erano tante altre forze in gioco, dalle Nazioni Unite ai francesi, a volte gli americani. Ma quando uno Stato vuole fare qualcosa, va da Wagner perché non la tira per le lunghe. I cinesi invece sono ef"caci sul lato economico. Quando ero assistente al segretario di Stato, dicevo ai leader africani che non li biasimavo certo perché facevano affari con Pechino. Per anni gli unici a bussare alla loro porta sono stati i cinesi. Poi improvvisamente ci siamo svegliati e abbiamo realizzato che la Repubblica Popolare aveva costruito tutte le infrastrutture e fornito tutte le strumentazioni per le telecomunicazioni. Al dipartimento di Stato, il mio compito era dissuadere i governi africani dal comprare Huawei. Logicamente, mi rispondevano: bene, allora cosa ci vendete? Non avevamo alternative concrete. Inoltre, quando i cinesi fanno affari si presentano con tutti gli aspetti "nanziari già pronti. Oggi, forse, i governi africani stanno realizzando che le vere bene"ciarie delle nuove vie della seta sono state le imprese cinesi, per vendere il loro surplus produttivo. E forse anche che quello che hanno LIMES

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comprato non è poi di gran qualità. Ma anche qui conta che hanno avuto quel che cercavano. Non possiamo competere così: è come avere non una ma due mani legate dietro la schiena. LIMES Cosa dovreste fare per presentarvi meglio in Africa? NAGY Dovremmo competere meglio nell’ambito della diplomazia pubblica. Saremmo in grado di farlo, se solo avessimo la volontà. Dovremmo avere una campagna strategica centralizzata, riaumentare il personale delle ambasciate, rispondere alle bugie russe e alle selvagge esagerazioni dei cinesi sull’America. Si potrebbe fare abbastanza velocemente. Sul lato economico. Io ho fatto parte della precedente amministrazione e consideravamo scambi commerciali e investimenti come una priorità apicale. Avevamo messo in piedi un’organizzazione chiamata Prosperous Africa che l’amministrazione Biden ha saggiamente tenuto in piedi. Se espansa come immaginavamo, potrebbe essere un catalizzatore delle attività economiche nel continente. Ma qui si torna al primo punto: gli accordi devono essere sostenuti sul terreno dalle ambasciate. Finché le delegazioni cinesi sono cinque volte più numerose, sul versante degli investimenti non c’è gara. LIMES L’Africa sta sostituendo il Medio Oriente come teatro principale del jihadismo? NAGY Sì, ma non sono sicuro di che cosa possiamo fare. La nostra assistenza alla sicurezza non è coordinata in una più ampia strategia contro l’estremismo violento. Sul lato militare, aiutiamo i paesi a liberarsi dai cattivi, ma se subito dopo non ci mettiamo un sistema che fornisce servizi e opportunità economiche lasciamo solo un vuoto che viene riempito da gente ancor più cattiva. Un esempio lampante è la Somalia. Quando ero ambasciatore in Etiopia, c’era al-Ittiõåd al-Islåmø, che andava debellato. Poi vennero le Corti islamiche, ancora più cattive. Debellate queste, venne al-Šabåb, di male in peggio. Non si può scon"ggere l’estremismo soltanto con mezzi militari. Deve essere uno sforzo coordinato. Anche col governo locale: se è corrotto, inef"cace e antidemocratico, la nostra assistenza sarà un fallimento. LIMES Cosa cambierebbe dell’assistenza militare ai paesi africani? NAGY Il modo in cui misuriamo i dati. Quando ero assistente al segretario di Stato volevo sapere se le operazioni antiterrorismo nel Sahel stessero avendo successo. Il mio staff mi rispondeva di sì perché nel 2019 avevamo addestrato 3 mila persone in Mali e nel 2020 5 mila. Quando invece chiedevo quanti chilometri quadrati in meno occupassero i nemici, cascavano le mascelle. Dobbiamo avere basi più concrete per valutare la nostra assistenza militare. Non m’interessa quanti uf"ciali forniamo negli Stati Uniti, anche perché alcuni dei responsabili dei golpe li abbiamo addestrati noi. LIMES Ci sono prove che in Africa gli aiuti allo sviluppo abbiano generato meno violenza o migliori istituzioni? NAGY No, nessuna. Sono un oppositore dell’assistenza allo sviluppo sin dal mio primo viaggio in Africa. Un ministro di un paese africano una volta chiamò un brindisi: agli ultimi cinquant’anni di cooperazione e ai prossimi cinquanta. Quando i governi iniziano a mettere sistematicamente nei loro bilanci annuali una certa percentuale di entrate derivante dagli aiuti stranieri, c’è un problema. Vorrei che

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ogni agenzia statunitense si desse criteri più precisi e fosse pronta a staccare la spina, se necessario. I cinesi non fanno assistenza allo sviluppo, eppure vengono applauditi perché generano sviluppo. LIMES Perché il golpe in Niger è così importante per gli Stati Uniti? NAGY Per vari motivi. In Niger c’era stato un trasferimento di potere relativamente pulito da un governo civile a un altro attraverso un’elezione. Inoltre, le Forze armate nigerine hanno ricevuto un considerevole addestramento da parte nostra, operano in maniera relativamente professionale e stanno conseguendo qualche successo nei confronti degli estremisti. In!ne, stava avvenendo una riconciliazione tra il Nord e il Sud del paese. Lo stesso presidente deposto Bazoum appartiene a una delle etnie settentrionali svantaggiate. Insomma, dal nostro punto di vista questa vicenda signi!ca che se puoi fare un colpo di Stato in Niger puoi farlo praticamente ovunque. LIMES Considera il golpe un golpe, a differenza del governo del suo paese che non lo de!nisce come tale? NAGY Sì, è un colpo di Stato. E ritengo che gli Stati Uniti dovrebbero cambiare il divieto di trattare con regimi golpisti. Dobbiamo essere un po’ più so!sticati e guardare alle situazioni speci!che senza farci imprigionare da de!nizioni e tabelle. Prendiamo il Gabon: c’era una famiglia al potere da 56 anni, sicuramente la popolazione non aveva la possibilità di esprimersi. Se i militari si stufano e rovesciano il regime, devi trattare il caso in modo diverso da uno in cui c’è un minimo di democrazia. In Niger il colpo di Stato ha interrotto un processo relativamente democratico e corretto, anche se ovviamente non parliamo della Svezia. Ma se ogni volta, senza considerare la speci!cità del caso, interrompiamo i rapporti e diciamo che i soldati devono tornare in caserma, !niamo per spingere chiunque nelle mani dei russi. Non dobbiamo però nemmeno tornare alla guerra fredda, quando noi avevamo i nostri dittatori e i sovietici avevano i loro. Quello ci ha esposto a una dannosa ipocrisia. LIMES Mali, Burkina Faso, Niger: sta nascendo un fronte anti-occidentale nel Sahel? NAGY Il sentimento anti-occidentale c’è sempre stato a causa del colonialismo e della guerra fredda. È presente nell’umore popolare e attende ogni opportunità per essere risvegliato, con le intelligenti campagne propagandistiche di russi e cinesi. LIMES Qual è la conseguenza più pericolosa del golpe in Niger? NAGY Temo che i gruppi estremisti continuino a diffondersi e minaccino i paesi dell’Africa occidentali affacciati sul Golfo di Guinea. La Costa d’Avorio ha avuto qualche successo perché ha riconosciuto che le regioni del Nord avevano avuto meno privilegi, ha portato servizi in quell’area e l’attività terroristica è diminuita. Ma se gli estremisti si rafforzano nel Sahel, la pressione sui paesi costieri aumenterà. Immaginate se Ghana, Costa d’Avorio o addirittura Nigeria !nissero nel caos: sarebbe un disastro. LIMES Gli Stati Uniti dovrebbero sostenere un intervento militare in Niger contro la giunta? NAGY Se ci fosse un intervento militare, al massimo dovremmo fornire trasporto aereo alle truppe nigeriane, ma nient’altro. Dovrebbe essere fatto da africani e con africani, senza militari americani sul terreno. E dovrebbe essere deciso quasi all’u-

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nanimità dall’Ecowas – senza ovviamente Mali e Burkina, schierati coi golpisti. Altrimenti i problemi sarebbero enormi. E anche in presenza di queste condizioni sarebbe un disastro. Il modo migliore per superare la crisi è con la pressione economica e diplomatica, con l’isolamento, cercando di convincere i cinesi a non supportare la giunta militare. Per i russi non c’è speranza, cercheranno comunque di in!larsi per depredare il paese dell’uranio. LIMES Invece di supportare un intervento militare, gli Stati Uniti non potrebbero cercare di ottenere un governo più largo a Niamey, con militari, fazioni del Nord e qualche !gura del vecchio establishment? NAGY Quella che lei propone è l’opzione migliore. Di molto preferibile a trasportare forze nigeriane. Ma è estremamente dif!cile da raggiungere perché richiederebbe un’enorme quantità di tempo, risorse e persone dedicate all’obiettivo. Abbiamo un solo alto funzionario diplomatico dedicato all’Africa e corre da Khartûm a Kinshasa, da Addis Abeba ad Abuja. Il meglio che gli Stati Uniti possono fare è supportare l’Ecowas. LIMES Un intervento in Niger rischia di causare una seconda Libia? NAGY Il pericolo esiste, anche se il Niger è diverso dalla Libia. Alla caduta di Ghedda!, tantissimi miliziani dell’Africa subsahariana arruolati e pesantemente armati dal regime si diffusero per il Sahel. L’unica cosa che potevano fare era combattere e ciò contribuì enormemente all’instabilità degli Stati a sud della Libia. In Niger non ci sono. Inoltre, in Libia non c’erano strutture di Stato perché era stata governata da una persona sola per decenni, mentre il Niger ha istituzioni, società civile e una certa storia di alternanza al potere, anche se tumultuosa. In ogni caso, il rischio è che il Niger si spacchi su base etnica. LIMES L’intervento in Libia nel 2011 è stato un errore? NAGY Assolutamente, assolutamente sì. Non fu ragionato a suf!cienza. Abbiamo rotto il vaso senza chiederci cosa avremmo fatto dei cocci. L’intento era nobile: Ghedda! era pronto a scatenare il caos, ma il caos che ne è risultato è molto maggiore. E tanti paesi ne hanno sofferto le conseguenze. Va bene eliminare il cattivo, ma devi avere piani politici ed economici per il dopoguerra. Non ne avevamo nessuno. LIMES I francesi spingono per un intervento in Niger, voi siete più cauti. Molti a Parigi credono che gli Stati Uniti vogliano liberarsi dell’in"uenza francese nel Sahel: è vero? NAGY È paranoia. All’inizio della mia carriera da diplomatico, spesso mi chiedevo chi si opponesse di più alla nostra presenza in Africa: i sovietici o i francesi? Parigi era sempre sospettosa di tutto quello che gli americani facevano nel loro presunto feudo. Era l’epoca della Françafrique. Ma quei giorni sono !niti. Se anche fosse vero che abbiamo posizioni diverse in Niger, non signi!ca che vogliamo liberarci della presenza francese nel Sahel. Nessuno vorrebbe !nire in quel ginepraio. Chiunque se ne andrebbe immediatamente, se potesse. Ricordo un incontro a Parigi con un militare francese quando ero al governo. Gli dissi: «Spero che restiate nel Sahel per altri dieci anni». Lui alzò gli occhi al cielo: pensava fossi pazzo.

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La presenza della Francia in Africa vi è utile o vi danneggia? Ogni ex potenza coloniale si porta dietro un fardello tremendo. Tutto quello che fa viene visto in quella luce. Continuerà a pesare almeno !no alla !ne del secolo. Anche gli Stati Uniti hanno un fardello, ma diverso: risale alla guerra fredda, a quando eravamo disposti a sostenere qualunque dittatura purché ci aiutasse contro l’Unione Sovietica. Ciò detto, chi può sostituire la Francia? Nessun altro in Europa è in grado di avere una presenza seria e di svolgere operazioni di antiterrorismo. Specialmente nella parte di Africa che Parigi conosce così bene, grazie a rapporti a 360 gradi con quei paesi. Gli Stati Uniti non sostituiranno la Francia. I britannici non lo faranno. L’Unione Europea non può farlo, visto che ci mette sei settimane per decidere dove andare a pranzo. LIMES Cercate una Wagner buona, insomma. NAGY Sì, c’è spazio per compagnie militari private professionali. Sono più ef!caci delle Nazioni Unite e costano molto meno. E ce n’erano in Africa. Quando ero ambasciatore in Guinea, nella vicina Sierra Leone operava una compagnia militare privata chiamata Executive Outcomes che stava facendo progressi incredibili contro il Fronte unito rivoluzionario. Era una forza !lo-occidentale e multietnica, composta in parte da veterani sudafricani. Erano combattenti eccellenti, professionali, con regole precise. Non depredavano il paese delle risorse minerarie e non abusavano della popolazione. Quando la gente li vedeva arrivare nei villaggi, non erano un gruppo di bianchi barbuti. Ma l’Unione Africana fece così tante pressioni sulla dirigenza della Sierra Leone da costringerla a smembrarla. E il Fronte di fatto prese il controllo del paese. Trovo ipocrita che l’Unione Africana oggi non sia altrettanto preoccupata dal Gruppo Wagner. LIMES Come e dove vi aspettate che l’Italia contribuisca in Africa? NAGY Invidio gli italiani perché sul terreno hanno rapporti personali migliori dei nostri. Il vostro aiuto sarebbe estremamente prezioso soprattutto nell’addestramento delle forze di polizia. Parliamoci chiaro: gli africani non hanno bisogno di Forze armate per difendersi da invasioni di altri paesi. Una forza come i Carabinieri sarebbe molto più ef!cace per le minacce che devono affrontare. Inoltre, l’Italia può dare un grande contributo soprattutto nell’addestramento delle forze marittime, per consentire agli Stati del Golfo di Guinea di pattugliare le proprie acque e difendersi da minacce come le "otte di pescherecci cinesi. LIMES Su cosa possono lavorare assieme americani ed europei per arginare la Russia nella sua opera di destabilizzazione dell’Africa? NAGY La differenza la farebbe una strategia comune contro la disinformazione, come durante la guerra fredda. Su questo siamo tutti dalla stessa parte. I popoli africani, specialmente i giovani, aspettano disperatamente un cambiamento. La Russia non promette altro che caos e anarchia. Ma non riusciamo minimamente a spiegarlo. La nostra diplomazia pubblica fa un pessimo lavoro. I nostri discorsi uf!ciali vengono talmente ruminati dalle varie burocrazie che alla !ne non dicono niente. LIMES NAGY

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IL CAOS SAHELIANO DANNEGGIA LA CINA

di

Giorgio CUSCITO

I golpe in Africa turbano i progetti di Pechino per collegare Gibuti alle proprie attività sulla costa Ovest. Xi potrebbe usare le crisi per intensificare la penetrazione cinese nel Continente Nero e promuovere la ‘sua’ globalizzazione. Guai interni permettendo.

I

1. L COLPO DI STATO IN NIGER INTRALCIA I piani della Repubblica Popolare Cinese per consolidare le proprie attività nella porzione nord-occidentale dell’Africa. Cionondimeno, le tensioni regionali generate dalla crisi a Niamey e la complessiva instabilità del Sahel ri!ettono la dif"denza dei paesi africani verso l’Europa. Quindi potrebbero incoraggiare la Cina a raccogliere ulteriore consenso sulla sponda Sud del Mediterraneo in favore dei progetti internazionali promossi per intaccare l’ordine mondiale trainato dagli Stati Uniti. Basti pensare alla piattaforma Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), che dopo il vertice agostano di Johannesburg ha accettato quali nuovi membri Arabia Saudita, Iran, Emirati Arabi Uniti, Etiopia, Egitto e Argentina. Questi paesi hanno interessi strategici molto diversi e in alcuni casi troppo con!iggenti per dar vita a un concreto blocco anti-occidentale. Tuttavia, l’evento ha confermato che il tentativo cinese (e russo) di af"evolire la "ducia nella guida statunitense risulta tutt’altro che indifferente a quanti abitano l’ossimorico Sud Globale. La Repubblica Popolare considera l’Africa un obiettivo geopolitico sin dalla propria fondazione e da almeno trent’anni investe in infrastrutture locali, al "ne di ottenere sostegno diplomatico e prezzi agevolati per l’acquisto di risorse naturali. A cominciare da petrolio, litio, cobalto, rame e prodotti agricoli. Il tutto sulla base della promessa reciproca di non interferire negli affari interni, specialmente quando si tratta di diritti umani. È nell’approccio cinese a questo continente che affonda le radici la Belt and Road Initiative (Bri, nuove vie della seta), dal 2013 catalizzatore e ombrello delle innumerevoli iniziative politiche ed economiche di Pechino. Nell’arco di dieci anni, proprio in Africa le nuove vie della seta hanno palesato anche la loro latente dimensione bellica. Nel 2017 a Gibuti è stata aperta la prima base navale dell’Esercito popolare di liberazione (Epl). Nel continente, la quantità di compagnie di sicurezza private e di armi cinesi è aumentata. Sono stati

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inaugurati nuovi forum aventi per oggetto la collaborazione cibernetica e militare. Decine di politici di alto livello africani hanno partecipato a corsi organizzati da istituti militari cinesi. Il piano di Pechino prevede nel lungo periodo lo sviluppo di un corridoio infrastrutturale tra Gibuti e la costa occidentale, passando per il Sahel. Così da creare i presupposti per l’attivazione di un secondo avamposto dell’Epl in paesi affacciati sull’Atlantico. Tra i papabili vi era la Guinea Equatoriale, che ha aderito alle nuove vie della seta nel 2019. Due anni dopo gli Stati Uniti hanno intimato a Malabo di non accettare la costruzione di una base militare permanente della Repubblica Popolare. Anche la Sierra Leone è considerata una potenziale sede, soprattutto dopo che nel 2021 Freetown ha approvato la costruzione di un porto ittico lungo la spiaggia di Black Johnson. A nulla è servita l’opposizione degli abitanti, timorosi di perdere il lavoro e dei potenziali danni ambientali. L’Epl punta all’Atlantico con tre obiettivi: monitorare più accuratamente le operazioni della Nato tra coste americane ed europee; rispondere alla crescente presenza degli alleati occidentali dell’America nell’Indo-Paci!co; ridimensionare il bisogno di navigare il Mediterraneo. Infatti, sebbene Pechino abbia investito in tutti i paesi africani bagnati dal mare nostrum (inclusa la Libia, dove ora non opera), ai suoi occhi l’intensi!carsi delle attività navali di Stati Uniti, Russia e Turchia rende il bacino meno ospitale di un tempo. La sequenza di golpe avvenuti dal 2020 in Niger, Mali, Burkina Faso, Guinea, Sudan, Ciad e Gabon è tuttavia un’incognita per le attività cinesi a sud del Sahara. Il fatto che Pechino si sia limitata a incoraggiare Niamey e gli altri attori regionali a risolvere politicamente la crisi in corso sottintende che un intervento cinese diretto sia da escludere. Soprattutto di tipo militare, se non tramite le missioni di pace dell’Onu. Per inciso, l’80% dei soldati dell’Epl che indossano i caschi blu opera in Africa. Del resto, il futuro del Sahel preme maggiormente ai paesi europei che vedono nel Niger un teatro in cui frenare l’espansione delle attività jihadiste attorno al Lago Ciad e arginare i "ussi migratori dal cuore dell’Africa verso l’Europa. Cionondimeno, la Repubblica Popolare potrebbe impegnarsi diplomaticamente nelle questioni saheliane per espandere la cooperazione con i governi africani nel campo della sicurezza, dimostrare di poter contribuire più dell’America alla stabilità dell’ordine internazionale e dare quindi sostanza alla «globalizzazione con caratteristiche cinesi». Fermo restando che in questi mesi l’Africa non è la prima preoccupazione del presidente Xi Jinping.

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2. Nel corso del tempo, l’intesa sino-nigerina ha conosciuto alti e bassi. Niamey ha chiuso i rapporti con Taiwan e aperto quelli con la Repubblica Popolare nel 1974. Ha riallacciato il dialogo diplomatico con Taipei nel 1992 per poi abbandonarlo e riconoscere la sovranità di Pechino quattro anni dopo. In pratica, a condizionare la strategia del paese africano è sempre stata la ricerca degli investimenti più convenienti, a prescindere da quale Cina ne fosse la fonte.

AFRICA CONTRO OCCIDENTE

Oggi la Repubblica Popolare è seconda per investimenti in Niger dopo la Francia. Oggi si contano 40 imprese cinesi, per un totale di un migliaio di lavoratori. Nel 2020 il denaro erogato ammontava a 2,68 miliardi di dollari, con progetti prevalentemente condotti da aziende quali PetroChina (controllata da China National Petroleum Corporation, Cnpc) e China National Nuclear Corporation (Cnnc). Lo scorso maggio anche l’azienda Sinopec aveva deciso di investire in Niger, stipulandovi un memorandum d’intesa 1. I rappresentanti di Niamey avevano de"nito l’evento «storico» nel segno della presidenza di Mohamed Bazoum, deposto a luglio. Cnpc controlla il 60% della raf"neria di Soraz (al con"ne con la Nigeria), che produce 20 mila barili di petrolio al giorno. Tuttavia, l’opera made in China più signi"cativa è la costruzione di un oleodotto lungo 2 mila chilometri verso il Benin. L’infrastruttura, completa al 60% e af"data sempre a Cnpc, dovrebbe consentire il trasporto del petrolio dai giacimenti di Agadem alla raf"neria di Zinder (gestita dalla Cina) e poi a Cotonou per essere smerciato via mare. La sua messa in funzione consentirebbe a Niamey di moltiplicare le esportazioni di greggio e accrescere l’economia locale. Data la rilevanza del progetto, da qualche tempo la Repubblica Popolare sta dedicando particolare attenzione ai rapporti con il Benin. Durante il Forum Cina-Africa del 2021, i due governi avevano concluso accordi per il contrasto alle minacce cibernetiche e per la realizzazione di oltre 400 chilometri di "bra ottica tra dieci aree urbane. Lo scorso gennaio, l’allora ministro degli Esteri cinese Qin Gang (sostituito a luglio dal suo predecessore Wang Yi) aveva visitato il paese e annunciato la cancellazione parziale del debito accumulato verso la Repubblica Popolare. Anche l’uranio nigerino fa gola a Pechino, sebbene le riserve locali siano ancora destinate principalmente a Francia e Canada. Cnnc ha iniziato a operare presso il giacimento di Azelik nel 2007, per poi bene"ciare degli investimenti della Export-Import Bank of China. Il progetto è stato congelato nel 2015, formalmente per condizioni di mercato sfavorevoli. Lo scorso giugno, China National Uranium Corporation (Cnuc) stava trattando l’acquisizione di Société des Mines d’Azelik (impresa statale nigerina) per riprendere l’attività estrattiva nel Nord. A luglio l’inviato cinese per l’Africa occidentale Jiang Feng aveva annunciato che a Niamey sarebbe sorto un complesso industriale attivo nei campi agroalimentare, immobiliare e minerario. L’accordo era stato raggiunto dopo un incontro con Bazoum. A inizio agosto, il Benin ha affermato che il golpe aveva determinato ritardi nello sviluppo dell’oleodotto di Agadem, ma non l’arresto dei lavori 2. Poche settimane dopo, China Gezhouaba ha sospeso la costruzione della diga idroelettrica di Kandadji. Mossa probabilmente dettata dall’interruzione degli aiuti di Usa e Ue al Niger e dalle altre sanzioni applicate dai paesi dell’Africa occidentale. Segno che il golpe mina il futuro dei progetti cinesi in loco. 1. A. HAYLEY, «China’s oil and uranium business in Niger», Reuters, 31/7/2023. 2. «Benin says Niger oil pipeline not impacted by regional sanctions over coup», Aljazeera, 3/8/2023.

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SENEGAL

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NIGER

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Mar Mediterraneo ISR. GIORD.

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GIBUTI INA F. 6 1 2 URK SOMALIA GUINEA-BISSAU GUINEA ETIOPIA COSTA SIERRA LEONE SUDAN REP. Lagos NIGERIA D’AVORIO CENTRAFRICANA DEL SUD 3 LIBERIA CAMERUN TOGO 4 BENIN 7 DA Oceano AN GUINEA EQ. G U KENYA Atlantico REPUBBLICA GABON RUANDA DEMOCRATICA BURUNDI CONGO 1 Costruzione del parlamento nella capitale della DEL CONGO Guinea-Bissau. TANZANIA 2 Proprietà di quote di maggioranza 8 Luanda COMORE in società petrolifere 3 Finanziamenti per la costruzione del porto ANGOLA in acque profonde di Lekki (Lagos) ZAMBIA O 4 Sovvenzioni a formazioni di militanti BIC dei nativi del delta del Niger ZIMBABWE MALAWI NAMIBIA 5 Investimenti per la costruzione dell’oleodotto di Port Sudan BOTSWANA 6 Contributo per lo sviluppo di pozzi petroliferi nella regione dell’Alto Nilo ESWATINI E T 7 Prestito al Kenya di 3,2 miliardi di dollari per R LESOTHO la costruzione di un importante collegamento ferroviario F O SUDAFRICA 8 Realizzazione di Nova Cidade de Kilamba, a 30 km da Luanda

GAMBIA

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MAURITANIA

MALI

GHANA

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SIRIA

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Nel 2021 la Cina ha importato dall’Africa beni per 105,9 miliardi di dollari (il 43,7% in più rispetto all’anno precedente)

CINA

Paesi con i maggiori investimenti cinesi Paesi a rischio trappola del debito Paesi visitati dal ministro degli Esteri cinese Wang Yi Presenza militare cinese Paesi con maggiore presenza di immigrati cinesi

Oceano Indiano

PAKISTAN PAKIIST STAAN

AAFGHANISTAN

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L’AFRICA GIALLA

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AFRICA CONTRO OCCIDENTE

3. Dif!cilmente ciò che accadrà a Niamey condizionerà il rapporto tra Cina e Nigeria. Le risorse energetiche e demogra!che (oltre 200 milioni di abitanti), l’accesso all’Atlantico e il debito da quattro miliardi di dollari accumulato verso la Repubblica Popolare rendono Abuja il polo di riferimento della strategia di Pechino in questa parte dell’Africa. A inizio luglio, navi dell’Esercito popolare di liberazione sono attraccate a Lagos per una visita di cinque giorni. Il gruppo era composto dall’incrociatore Nanning, dalla fregata Sanya e dalla rifornitrice Weishanhu. L’operazione è esempio cristallino degli sforzi cinesi per pattugliare l’Atlantico. A Lagos lo scorso anno è entrato in funzione il nuovo porto di Lekki. A gestire l’infrastruttura (che vale 1,5 miliardi di dollari) è un consorzio composto da China Harbour Engineering, una società singaporiana e una locale. L’infrastruttura acquisirebbe una crescente importanza se allacciata alle linee ferroviarie verso le altre città di Nigeria, Ciad, Mali e Senegal. Pechino vede in Lagos anche lo snodo di diffusione locale delle proprie tecnologie. Huawei punta a trasformare la città in una smart city facendo leva sulle attività di sorveglianza digitali già avviate in sinergia con il governo nigeriano, incluso l’accordo per allestire una rete di controllo elettronico lungo i con!ni terrestri del paese e forse, in futuro, lungo quelli marittimi. Ciò collimerebbe con il piano della Cina per espandere le attività militari nel Golfo di Guinea, motivandolo con il bisogno di tutelare l’estrazione petrolifera offshore da parte delle proprie compagnie, garantire la stabilità regionale e proteggere i connazionali, talvolta bersagli della pirateria. In queste acque opera buona parte dei 500 pescherecci della Repubblica Popolare che gettano le reti al largo dell’Africa per appro!ttare delle copiose risorse ittiche e pattugliare informalmente l’area per conto di Pechino. La collaborazione con la Nigeria rileva pure sul piano scienti!co. A giugno esperti nigeriani ed etiopi si sono recati nel Xinjiang per un summit sulla lotta alla deserti!cazione, problema che accomuna Repubblica Popolare e Africa e mina lo sviluppo degli interessi cinesi a cavallo del Sahara. Per Pechino è anche l’occasione per intensi!care le operazioni satellitari nel continente e quindi la raccolta di informazioni. Inoltre, secondo lo Stockholm International Peace Research Institute (Sipri) nel 2021 le armi cinesi hanno rappresentato il 37,5% di quelle importate dalla Nigeria. A trainare le vendite è la China North Industries Group Corporation (Norinco), impresa di punta della Repubblica Popolare nel settore. Allargando lo sguardo al resto dell’Africa, tra il 2018 e il 2022 la Cina è stata il terzo fornitore di dispositivi bellici dopo Russia e Stati Uniti. Merito dei prezzi più bassi e probabilmente delle sanzioni americane alle aziende militari russe. Tra il 2017 e il 2020 nell’Africa subsahariana le esportazioni cinesi sono state il triplo di quelle statunitensi 3. Ad agosto Norinco ha aperto una sede a Dakar, in Senegal, che si aggiunge a quelle in Nigeria, Angola e Sudafrica. In futuro potrebbero essere aperti uf!ci anche in Mali e Costa d’Avorio. 3. J. NYABIAGE, «China arms sales cement its economic and security ties in Africa: study», South China Morning Post, 14/3/2023.

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Le forniture non comprendono solo armamenti leggeri, ma anche mezzi più avanzati come caccia e droni che richiedono addestramento, dunque un aumento della presenza militare cinese nei paesi partner. Vale l’esempio del Camerun, ricco di oro, petrolio, gas naturale e con!nante con la Nigeria. Yaoundé ha sviluppato un accordo di formazione con l’Università nazionale della Difesa cinese, ha condotto con l’Epl esercitazioni navali antipirateria nel Golfo di Guinea e sta acquistando dalla Repubblica Popolare dispositivi bellici sempre più so!sticati. I media cinesi hanno letto l’espansione di Norinco in Senegal come prova della capacità nazionale nel ridimensionare l’in"uenza francese e russa nel mercato africano delle armi 4. La Repubblica Popolare non pare apprezzare la presenza della Russia e del Gruppo Wagner nel continente. Fino a poco tempo fa sembrava addirittura non escludere che fossero stati gli uomini già al servizio del defunto Evgenij Prigožin, non la Coalizione dei patrioti per il cambiamento, a uccidere nove lavoratori cinesi presso una miniera d’oro nella Repubblica Centroafricana. Dopo questa vicenda, lo scorso luglio la Wagner si è guadagnata una menzione sui quotidiani cinesi per aver tratto in salvo altri operai da un imminente attacco, sempre nello stesso paese. Come se la squadra di mercenari volesse smentire le critiche subite in precedenza, dimostrare che il golpe non ha intaccato le sue operazioni in Africa e assicurarsi la !ducia delle aziende cinesi 5. Dif!cilmente l’opera di persuasione andrà a buon !ne. Di norma le imprese della Repubblica Popolare si af!dano a compagnie di sicurezza cinesi, la cui presenza in Africa sta aumentando. Tuttavia, hanno equipaggiamenti e capacità inferiori rispetto alla Wagner, offrono soprattutto attività di consulenza ad aziende private (meno ai governi) e a volte non usano le armi. Non solo per evitare incidenti, ma anche per non alimentare la già palpabile sinofobia delle popolazioni locali. Il tentato golpe di Prigožin rende ancor più dif!cile che Pechino lasci società di sicurezza cinesi agire a briglia sciolta 6. 4. La Repubblica Popolare non interromperà completamente le sue operazioni commerciali e !nanziarie a cavallo del Sahel. Inoltre, farà leva sulla s!ducia verso l’Occidente per accrescere la collaborazione politica con gli attori regionali. Il tutto probabilmente sotto l’ombrello delle nuove vie della seta e delle tre nuove Iniziative globali sulla sicurezza, sullo sviluppo e sullo scambio tra civiltà. Progetti a cui alcuni governi del continente hanno già segnalato di voler aderire in occasione dell’ultimo incontro dei Brics e durante il terzo Forum sino-africano sulla pace e la sicurezza di !ne agosto.

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4. S. YAN, «Zhongguo wuqi zhuangbei gongying qiye zai xifei yewu kuoda,“tiaozhanle fa e zhudao diwei”» («Fornitori di armi e equipaggiamento cinesi espandono le attività in Africa occidentale, “s!dando il dominio di Francia e Russia”»), Guancha, 21/8/2023. 5. M. CHAN, «Wagner mercenaries rescued Chinese gold miners in Central African Republic in July, paramilitary group says», South China Morning Post, 13/7/2023. 6. Per approfondire, G. CUSCITO, «Le lezioni di Prigožin alla Cina», Limes, «Russia o non Russia», n. 6/2023, pp. 145-153.

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Pechino potrebbe tuttavia ridimensionare o bloccare i progetti economici infruttuosi e più rischiosi. Inclusi quelli in Niger, se lì non tornasse un briciolo di stabilità. Le turbolenze africane non consentono alla Repubblica Popolare di sviluppare un vero corridoio transcontinentale in tempi brevi e ciò rende meno impellente la creazione di una base militare sull’Atlantico. Questa sarebbe un’utile vedetta a ovest, ma resterebbe isolata, lontana dalle coste cinesi e da Gibuti. Non si esclude però il proseguimento delle visite dell’Epl nei porti bagnati dall’oceano. Soprattutto, Pechino è alle prese con serie questioni interne. In particolare il rallentamento dell’economia, il possibile scoppio della bolla immobiliare (si vedano i guai di Country Garden ed Evergrande), il declino demogra!co, il disagio giovanile e la morsa americana in campo militar-tecnologico, stretta con il crescente concorso degli alleati in Europa e nell’Indo-Paci!co. Si tratta di una pericolosa combinazione di ostacoli che potrebbe rallentare e, nel peggiore dei casi, sabotare i progetti globali di Xi. Al momento, dunque, per Pechino non conta molto chi governi a Niamey. Purché controlli saldamente il Niger e non ostacoli ulteriormente le attività della Cina in Africa.

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AFRICA CONTRO OCCIDENTE

IL SENSO DI PUTIN PER L’AFRICA

di

Orietta MOSCATELLI

Pochi aiuti civili, molte armi e assistenza militare, remissione di antichi debiti. Questa la formula dell’ascendente russo, sulla scia dell’anti-imperialismo sovietico. Il confronto con Cina, Usa e Ue. Finita una Wagner, se ne fa un’altra (perché serve).

S

1. « ERVE PIÙ L’AFRICA ALLA RUSSIA O LA RUSSIA all’Africa?». La domanda ispira analisti di ogni latitudine, almeno da quando Mosca miete regimi, concessioni minerarie, ma anche cuori e menti sul continente africano. Vladimir Putin l’ha posta a un gruppo di specialisti e diplomatici riuniti in vista della Conferenza parlamentare russo-africana del marzo 2023 e del secondo summit Russia-Africa. Il presidente ha ascoltato gli argomenti degli esperti con aria sempre più annoiata: «Bene, quando avrete una chiara risposta, forse dovremo cambiare approccio», ha interrotto a un certo punto lasciando i più a pensare come avrebbero potuto o dovuto rispondere. Dopo una serie di rinvii il vertice si è tenuto lo scorso luglio a San Pietroburgo e non a Addis Abeba, come inizialmente previsto. Ha confermato che tra Russia e Africa c’è una mutua convenienza che spazia dalla cooperazione economica e dal coordinamento in sede Onu alle forniture militari e al sostegno a regimi poco presentabili in cambio di contratti per lo sfruttamento di materie prime. Il denominatore comune sa di antico, ma assume nuove forme: per un’ampia parte dell’Africa che non ha mai smesso di accumulare risentimento verso le ex potenze coloniali, Mosca è una sponda naturale, se non un faro. La Russia in totale rottura con l’ordine americano è l’anti-Occidente, concetto incerto eppure magico nel cosiddetto Sud Globale. Le invettive del Cremlino catalizzano l’attenzione di un gruppo di paesi disomogeneo ma unito nel sospetto per qualsiasi cosa faccia il club dei ricchi timorosi di perdere potere, ora in particolare la Francia. Dalle sponde meridionali del Mediterraneo al Capo di Buona Speranza questa dinamica si traduce in una crescente penetrazione russa, che potrebbe rivelarsi fatua o meno: in prospettiva, sembra dipendere più dalla Cina che dal confuso fronte occidentale. L’improvvisa morte di Evgenij Prigožin rende inoltre urgente una riorganizzazione del Gruppo Wagner, importante tassello del mosaico africa-

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no. Il riassetto è iniziato già dopo l’ammutinamento di !ne giugno, ma il businessman è stato tolto di scena a lavori in corso, smentendo la diffusa convinzione che nessuno l’avrebbe toccato proprio perché essenziale sul fronte africano. Neppure un decennio fa l’Africa era l’ultima delle preoccupazioni per la Federazione Russa. Letteralmente: nel Concetto di politica estera del 2016 era collocata in fondo, 50a voce su 50 nella lista delle «priorità regionali» che esordiva con lo spazio ex sovietico e procedeva con Ue, Usa, Asia-Paci!co e il resto del pianeta prima di auspicare, in poche righe, l’espansione «dell’interazione multidimensionale con gli Stati africani». Nell’aggiornamento pubblicato nel marzo 2023 l’Africa è salita in classi!ca e si aggiudica un capitolo in più punti 1, sunto diplomatico del ritrovato interesse e di un attivismo dotato di grande mobilità negli obiettivi. Ne sa qualcosa il Sudan, dove Mosca dal 2017 ha difeso il poco difendibile ‘Umar al-Bašør per poi cambiare squadra quando è diventato chiaro che sarebbe stato spodestato, malgrado l’appoggio della Wagner. Da allora e anche nel recente con$itto tra l’esercito sudanese e le Forze di supporto rapido (Rsf) del generale Õamødatø, la Russia corteggia entrambe le parti nella speranza che il vincitore conceda !nalmente la base navale sul Mar Rosso, a Port Sudan, oggetto di negoziati da almeno cinque anni. La campagna russa d’Africa non è univoca. Segue un !lo che ripropone la commistione tra interessi pubblici e privati alla base del sistema di potere russo. Le priorità geopolitiche ed economiche dello Stato sono coltivate in sinergia con gruppi o singoli personaggi che mirano soprattutto a spartirsi la torta. Nel nome della proiezione d’in$uenza vengono supportati, e sopportati, gli affari di singoli faccendieri. Il più famoso e potente resta Evgenij Prigožin, compianto da un coro di combattenti e da diversi interlocutori africani. Ce ne sono tuttavia almeno altri cinque di simile vocazione, seppur di dimensioni e appetiti per ora più limitati. Un fattore cruciale è il collegamento ideale al passato sovietico, quando Mosca era il principale sponsor della decolonizzazione tramite aiuti economici e militari ai movimenti d’indipendenza o a governi in dif!coltà. Tra lo slancio internazionalista proletario e le aspirazioni di libertà che davano voce al continente africano, il grande fratello sovietico per decenni ha moltiplicato le alleanze con investimenti relativamente bassi. Almeno secondo la Cia, che in un rapporto del 1986 osservava come «i 4,6 miliardi di dollari in aiuti economici stanziati dai sovietici dal 1959 non competono quantitativamente con i programmi occidentali che hanno fornito – in genere su base di concessioni – oltre 100 miliardi di dollari in cibo, servizi tecnici e assistenza a progetti. Mosca non è neppure riuscita ad aiutare l’Etiopia, suo principale cliente, nella crisi alimentare in corso. Tuttavia, malgrado la portata limitata degli aiuti, questi programmi hanno risultati notevoli in termini di proiezione d’in$uenza, a costi eccezionalmente bassi visto che per il 90% si tratta di crediti» 2. Nella lista degli investimenti ad alto rendimento le prime voci erano: consiglieri, dottori e insegnanti inviati in 25 paesi; 9 mila tecnici sti-

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1. «The Concept of the Foreign Policy of the Russian Federation», ministero degli Esteri della Federazione Russa, 31/3/2023. 2. «Soviet economic aid to sub-Saharian Africa: Politics in command», cia.gov, 7/8/2011.

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pendiati in tutto il continente; 45 mila studenti ospitati nelle università sovietiche (appendice). Questa mano tesa animava la guerra fredda sul continente africano. Nel 1955 il leader egiziano Nasser spalancò le porte del Medio Oriente ai sovietici con un enorme accordo per la fornitura di armi, l’anno dopo chiedendo aiuto per la crisi di Suez contro il blitz franco-britannico. In Algeria il Fronte di liberazione nazionale (Fln) era !nanziato da Mosca. L’Urss sosteneva il Congresso nazionale africano (Anc) di Nelson Mandela durante l’apartheid. Armi e addestramento di funzionari, militari e intelligence erano le chiavi della penetrazione sovietica, che dal 1975 si avvalse di una signi!cativa collaborazione militare con i cubani. Algeria, Egitto, Libia, Etiopia, Angola, Mozambico, nonché altri Stati di minore rilievo economico e geopolitico: l’assistenza ha creato nel tempo una dipendenza dalle tecnologie sovietiche e un’empatia con «l’amico russo» facilmente riesumabile. 2. Oggi il Cremlino corteggia diversi governi africani cancellando i debiti contratti allora – e precisando che sarebbero in ogni caso inesigibili quando qualcuno storce il naso in patria. «In epoca sovietica c’era questa diffusa opinione: perché sprecare soldi per l’Africa, abbiamo già tanti problemi. Oggi sono grato a chi allora ha condotto questa politica e ha creato una riserva di forza per la nostra cooperazione», ha detto Vladimir Putin incontrando la stampa a conclusione del vertice di luglio. Messaggio indirizzato anche a quei russi, non pochi, che criticano gli sforzi diplomatici ed economici (sempre molto limitati) per paesi lontani, poveri e instabili di cui nessuno ha sentito parlare per trent’anni. L’implosione dell’impero sovietico aveva bruscamente posto !ne a ogni cooperazione con gli Stati africani, ambasciate e centri di cultura vennero chiusi, sul terreno rimasero solo antenne (agenti) dei servizi sovietici che non avevano motivo di tornare nella patria spezzettata in 15 repubbliche nel dicembre 1991. Molti hanno ritrovato lavoro all’inizio del nuovo secolo. Putin inizia a guardare all’Africa già dai primi anni al Cremlino e parte da dove l’Urss era stata più forte. Nel marzo 2006 va in Algeria e annuncia l’annullamento di 4,7 miliardi di debiti di epoca sovietica. Due miliardi sono convertiti in un megacontratto per le forniture di armi e da allora Algeri è tra i primi importatori di attrezzature belliche russe, mentre Gazprom !rma intese con la major Sonatrach, collaborazione ampliata l’anno scorso con nuovi progetti. Pochi mesi dopo visita il Sudafrica, accompagnato da un’ampia delegazione di uomini d’affari interessati all’estrazione di diamanti e metalli. Negli anni (2008-12) in cui s’impone una pausa dalla presidenza per rispettare la forma costituzionale, il successore Dmitrij Medvedev si reca in Egitto, Angola, Nigeria e Namibia. Il cammino sovietico è riaperto, anche se all’epoca pochi se ne curano. L’attività si intensi!ca dopo l’annessione della Crimea nel 2014 e diventa sistematica con l’intervento in Siria, dove la macchina bellica russa stupisce per modernità ed ef!cacia, e la permanenza di Baššår al-Asad al potere grazie alla tutela del Cremlino ispira numerosi autocrati. Durante la campagna siriana la Wagner si fa i muscoli, combattendo dove Mosca non vuole scarponi dell’esercito regolare sul terreno. Il corpo paramilitare

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decapitato lo scorso 23 agosto nel 2016 uf!cialmente ancora non esisteva, ma affrontava gli squadroni del sedicente Stato Islamico ed era decisivo nella riconquista di Palmira e di aree petrolifere. I suoi servigi erano ripagati anche con licenze di sfruttamento che Prigožin usava per stringere amicizie nelle Forze armate. La negazione plausibile della presenza dei mercenari facilita le cose: i regimi di mezza Africa si mettono in !la per usufruire del kit russo di sopravvivenza (o morte, dipende dal committente) disconosciuto dal governo moscovita. Dal 2016-17 i muzykanty 3 prestano servizio in Libia, Repubblica Centrafricana, Mali, Sudan e limitatamente in Mozambico. Secondo fonti russe sono presenti in scala minore anche in Burkina Faso, mentre la statunitense Rand Corporation aggiunge la Repubblica Democratica del Congo e il Gabon. Un’attività a macchia che diventa tappeto. Se Prigožin era rimasto vivo dopo l’incredibile marcia su Mosca di giugno, si ragionava, probabilmente lo doveva all’Africa. I legami personali e d’affari con !gure chiave nelle strutture di potere di molti paesi facevano temere ai vertici russi che l’eliminazione del capobanda avrebbe fatto precipitare tutto, o comunque avrebbe proiettato un pericoloso senso d’inaf!dabilità sulle alleanze costruite. Bisognava mettere al riparo un prezioso strumento di espansione regionale: per questo, dopo l’ammutinamento e dopo essere stato de!nito un traditore della patria, nel giro di pochi giorni Prigožin era stato ricevuto dal capo dello Stato (notizia fatta !ltrare dalla stessa presidenza), aveva ottenuto la cancellazione del procedimento per ribellione armata e dal temporaneo esilio in Bielorussia aveva confermato che la sua compagnia sarebbe rimasta in Africa. L’assicurazione africana sulla vita, se c’è stata, si è rivelata breve. Già a luglio il ministero della Difesa russo avrebbe iniziato a reclutare per l’Ucraina uomini della Wagner in missione sopra e sotto l’Equatore, sostituendo gli «africani» con nuovi arruolati, meno legati a Prigožin. Il dicastero promuoverebbe allo stesso tempo l’espansione di altre compagnie private, che a questo punto si guarderanno dall’alzare troppo il tiro. Con la ribellione di giugno, i programmi del Cremlino e del paramilitare in capo sono giunti a fatale divaricazione, ma la Wagner in Africa continuerà a operare. Il gruppo paramilitare, rivendicato come !liale dello Stato russo solo dopo l’abbozzato golpe, è stato un incredibile moltiplicatore d’in$uenza. Ma senza l’appoggio del Cremlino non sarebbe mai arrivato in Africa. La crescita delle sue operazioni rivela al contempo una certa episodicità e quindi vulnerabilità dell’azione russa. Soprattutto nel Sahel, nella «cintura dei golpe» in parte supportati da Mosca e in parte sospettati di essere prodotto moscovita. Dalla Guinea al Sudan, dall’Africa centro-occidentale al Mar Rosso, dal 2019 quest’area è attraversata da un’ondata di colpi di Stato: nove compreso l’ultimo, in Niger. La comparsa di bandiere russe e gli slogan pro Putin in piazza a Niamey dopo lo spodestamento del presidente Mohamed Bazoum hanno scatenato crisi di nervi a Parigi e apprensione nelle altre

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3. «Musicanti», appellativo ironico con cui gli uomini della Wagner si de!niscono, in omaggio al compositore tedesco scelto dal fondatore Dmitrij Utkin (morto anch’egli il 23 agosto nello schianto aereo nei pressi di Tver’) per le simpatie naziste attribuitegli.

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cancellerie europee, oltre che a Washington. «Il favore per i russi ha meno a che fare con i russi di quanto si creda. Non è che Putin diventa ora un novello Che Guevara, è che gli africani proprio odiano l’Occidente, dovreste sentirli a porte chiuse», sostiene un consigliere presente alla riunione della fatidica domanda su quanto conti l’Africa per la Russia e viceversa. Il passato coloniale e il profondo risentimento africano proiettano in una dimensione ideale l’approccio russo basato su mezzi e scopi limitati e su una presenza nel complesso ridotta, imparagonabile all’avanzata strutturale cinese. Certo, fanno notare a Mosca, gli scambi commerciali con i paesi africani sono cresciuti in pochi anni a circa 18 miliardi di dollari (2022). Ma l’Unione Europea è vicina ai 300 miliardi di dollari, la Cina tallona con 254 miliardi e gli Stati Uniti nella loro crescente assenza si attestano comunque a 65 miliardi annui. 3. Lo schema del sostegno militare in cambio di materie prime funziona con gli Stati più poveri e isolati come quelli centrafricani o del Sahel. Nella più ampia partita per nuovi assetti globali, il Cremlino gioisce del danno arrecato agli interessi occidentali, in questa fase massimamente francesi, con il relativo corredo retorico da sfruttare. I vertici della Federazione battono sul tasto del neocolonialismo, mentre i media russi e i troll sguinzagliati sui social attaccano ogni mossa dell’Eliseo che in Africa sembra sbagliare qualsiasi mossa. L’implosione della Françafrique ispira neologismi come Russafrica. Il patriarca ortodosso russo Kirill è chiamato a parlare di valori tradizionali condivisi con gli africani, partendo dalla censura delle unioni omosessuali: tutto fa brodo, purché anti-occidentale. I pesi massimi continentali come Egitto o Algeria, strategici per la proiezione mediterranea e oceanica, richiedono però ben altro sforzo. Anche il Sudan, che ha in mano le chiavi del ritorno russo sul Mar Rosso, può permettersi di traccheggiare e giocare su più campi, mentre i cinesi hanno già una base militare a Gibuti – prossima all’americano Camp Lemonnier – e già si parla di una seconda in Guinea Equatoriale. Le ultime notizie sull’accordo per un avamposto navale russo a Port Sudan rimandano alla formazione di un governo civile per la rati!ca. In Nord Africa, la diplomazia moscovita af!ancata dai colossi dell’energia Rosatom, Gazprom e Rosneft’ deve accettare il tergiversare o i negoziati al ribasso di governi che subiscono le pressioni occidentali e ne appro!ttano per diversi!care interlocutori e contratti. Il maggior successo può rivendicarlo il conglomerato militar-industriale Rostekh: le armi russe vendono sempre bene nel Nord del continente ed è russo il 30% degli armamenti acquistati dai paesi subsahariani tra il 2016 e il 2020. I dati rilevano un aumento del 23% rispetto al precedente quinquennio che fa mangiare polvere a Francia e Usa, mentre la Cina regge il confronto segnando un aumento del 20% nell’export militare 4. I recenti investimenti russi in Africa, comunque, equivalgono solo all’1% degli Ide (investimenti diretti esteri) nel continente e il recente vertice pietroburghese 4. «Trends in international arms transfer, 2020», Sipri Fact Sheet, marzo 2021.

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IL SENSO DI PUTIN PER L’AFRICA

non ha aggiunto risorse degne di nota. Il summit, inizialmente previsto per ottobre 2022, è esemplare dell’ambivalenza nei rapporti russo-africani. Su 49 paesi partecipanti, 17 erano rappresentati da capi di Stato e il resto da delegazioni varie, mentre alla prima edizione nel 2019 a So0i erano 45 i paesi presenti al massimo livello. A quell’incontro Putin aveva dichiarato l’obiettivo di scambi commerciali pari a 40 miliardi di dollari entro un lustro, ma per ora siamo sotto la metà. Cresce invece la cancellazione del debito (23 miliardi di dollari), che in ogni caso nessuno prevedeva di estinguere. Il presidente ad interim del Burkina Faso, capitano Ibrahim Traoré, ha rincuorato l’ospite s!dando i leader africani a «smettere di comportarsi come burattini (…) suona(ndo) la musica degli imperialisti». Alla parata navale sulla Neva che gran parte degli ospiti africani ha disertato, il giovane burkinabé era alle spalle di Putin e accanto al ministro della Difesa Sergej Šojgu. In Occidente questo quadretto è visto come un mezzo fallimento, mentre in Russia cantano vittoria considerando le pressioni che i leader africani hanno dovuto affrontare per sedersi in platea ad ascoltare Putin. Altro importante aspetto è la cooperazione in sede Onu: la Federazione Russa appoggia o blocca risoluzioni di rilievo per gli alleati africani, i quali bocciano o si astengono nelle votazioni più delicate per Mosca. Così per le due risoluzioni Onu di condanna dell’invasione russa dell’Ucraina, approvate nel 2022 e nel 2023 da ampie maggioranze, ma con una raf!ca di paesi africani tra i contrari (sette) e gli astenuti (oltre trenta). L’iniziativa africana per una soluzione politica al con#itto ha visto lo scorso giugno una delegazione guidata dal presidente sudafricano Cyril Ramaphosa a Varsavia (dov’è stata bistrattata), a Kiev (un certo gelo, dato il lecito sospetto di simpatie !lorusse) e poi a Mosca. Qui Putin l’ha ricevuta con tutti gli onori, si è tenuto sul vago e ne ha appro!ttato per l’ennesima s!lza di rimostranze contro il fronte Usa-Nato. Al di là del comune malanimo verso il campo occidentale, tuttavia, l’Ucraina è lontana per un continente che nel 2030 potrebbe ospitare il 90% dei poveri di tutto il mondo 5 e dove le dinamiche regionali contano sempre più. Certo, la guerra minaccia le forniture di grano e in quest’ottica il presidente russo promette approvvigionamenti gratuiti ai più indigenti, insistendo che solo il 3% dei carichi partiti dal Mar Nero in base all’accordo Onu è approdato in paesi a basso o bassissimo reddito. La campagna africana del Cremlino è d’altronde fatta di bicchieri mezzi vuoti (o mezzi pieni) e gli appelli a riattivare l’accordo sul grano, lanciati a San Pietroburgo, allungano la serie. L’Africa incarna così uno dei tanti paradossi generati dal con#itto tra potenze guerreggiato in Ucraina, con vista sul resto del mondo: secondaria negli interessi russi, eppure centrale nel più ampio quadro di un’incipiente transizione geopolitica. Destinazione più che mai incerta.

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5. «Is poverty growing again in sub-Saharan Africa? Trends and measures», Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (Ispi), 31/7/2023.

AFRICA CONTRO OCCIDENTE

Ritorno sui banchi a Mosca nel nome di Lumumba a cura di Orietta MOSCATELLI

La Russia torna in Africa e a Mosca torna l’Università Patrice Lumumba. L’ateneo russo per l’amicizia tra i popoli (Udn) lo scorso febbraio è stato di nuovo intitolato al ministro del Congo assassinato su ordine del Belgio nel 1960 e subito elevato dall’Urss (cui il leader congolese aveva chiesto aiuto) a simbolo di lotta all’imperialismo occidentale. L’università, che durante la guerra fredda formava studenti provenienti da paesi asiatici, latinoamericani e africani, nei suoi oltre sessant’anni di vita ha seguito e subìto gli alti e i bassi della politica estera russa. Figlio della con!uenza tra internazionalismo e guerra fredda, la sua storia non ha pari. Il suo futuro è invece appeso alle sorti geopolitiche della Russia che s’immagina diversamente globale e, in aperta insurrezione contro l’egemonia americana, si propone faro dei paesi meno sviluppati e più insofferenti verso un passato coloniale che fatica a passare. L’Udn fu fondata in ossequio all’imperativo comunista di dare istruzione ai meno abbienti e alla convinzione che sarebbe stato pro"cuo, oltre che nobile, formare nuove classi dirigenti per il cosiddetto Terzo Mondo. Per questa parte del pianeta, sensibile ai princìpi egalitari professati dai soviet, Mosca preferiva già allora l’espressione razvivajuš0ie strany, paesi in via di sviluppo. L’idea era che i diplomati Lumumba avrebbero contribuito a traghettare gli Stati di provenienza, in molti casi freschi d’indipendenza, nel Secondo Mondo, ovvero nel blocco socialista. Altra formula all’epoca non gradita, ma rispuntata negli scenari geopolitici dell’eurasista Aleksandr Dugin. La teoria che ispirava il progetto risultò di complessa applicazione. Già il concetto di élite da formare cozzava con l’ideale di un mondo senza divisioni di classe. I rapporti con i paesi africani che inviavano studenti erano poi troppo differenziati per una formula diplomatica unitaria, mentre l’insegnamento si rivelò punteggiato di ombre e distinguo, con l’attivo contributo americano. Washington arrivò a paragonare la Lumumba a Qoms, la città sacra iraniana dove si erano formati i leader della rivoluzione khomeinista. D’altra parte, capitava che le matricole avessero aspirazioni poco ortodosse anche in termini sovietici e questo non aiutava. Come nel caso di Carlos lo sciacallo, anche se il futuro terrorista venezuelano veniva espulso dopo appena un anno di studi, nel 1970. La Lumumba non aveva infatti il mandato di forgiare rivoluzionari e comunisti da esportare, obiettivo perseguito negli anni Trenta dall’Unione Sovietica e da altri paesi socialisti tramite le scuole del Komintern o l’Università degli operai di Cina. L’Urss emersa superpotenza dalla seconda guerra mondiale era "era del proprio sistema d’istruzione e riteneva che formando specialisti stranieri avrebbe pro-

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IL SENSO DI PUTIN PER L’AFRICA

dotto automaticamente tecnici, dirigenti e politici amici. Così in buona parte fu. L’epoca di Nikita Khruš0ëv, al timone dal 1953, era però quella della «coabitazione paci"ca» eretta a principio di azione esterna e anche «l’aiuto disinteressato» della madrepatria socialista ai paesi in via di sviluppo fu somministrato con cautela, cercando di evitare nuovi motivi di scontro con gli Usa. Questo non impedirà che si arrivi nel 1962 alla crisi cubana, ma in generale per la Lumumba signi"ca evitare di trasformarsi in un polo di contestazione. Ne deriva una progressiva normalizzazione che "nisce per penalizzarla. Nell’Urss di Brežnev era già dif"cile capire perché si dovesse aspirare a conseguire una laurea presso l’ateneo di via Miklukho Maklaj, a sud-ovest di Mosca. Con la perestrojka furono poi spalancate le porte a chiunque potesse permettersi di pagare, crebbero le iscrizioni dall’ex Urss e dalla stessa Russia. L’amicizia tra i popoli assumeva sfumature non previste dai fondatori, "gli dell’unione indissolubile di repubbliche libere celebrata dall’inno sovietico. Durante la guerra fredda la Lumumba non era l’unica meta per gli studenti africani, che in genere preferivano atenei «normali» dove si mischiavano con i ragazzi sovietici e non si sentivano presi nella trappola di un progetto con inevitabili risvolti di propaganda. Alcuni studi sull’argomento indicherebbero che, a parte gli alumni famosi (relativamente pochi), quanti vi studiarono abbiano avuto meno fortuna nelle loro carriere rispetto ai connazionali formatisi in altre università sovietiche. Sono stati tuttavia per decenni ingegneri, medici, insegnanti e funzionari pubblici, spesso dopo un passaggio formativo in altri paesi, magari occidentali. Servitori dello Stato, anonimi ingranaggi delle macchine governative da "ne anni Sessanta: il reale investimento che Putin vuole rinnovare. Allargando lo sguardo all’insieme degli atenei sovietici, dal 1956 al 1991 circa 60 mila studenti provenienti da nazioni arabe e 56 mila dall’Africa approdarono in Urss, con la Russia a fare la parte del leone. Al momento della dissoluzione sovietica i laureati dai paesi arabi erano 47.312, quelli da paesi africani 43.500. Nel 1962 gli studenti africani in Urss erano tre volte meno di quelli inviati in Francia, Regno Unito o Stati Uniti; nel 1979 arriva il sorpasso sul Regno Unito e dal 1988 al 1991 vengono superati anche gli Usa1. Oggi nelle amministrazioni di molti paesi africani lavorano persone che a "ne anni Ottanta frequentavano atenei (ancora per poco) sovietici o che nei primi Novanta ottennero un diploma «su basi commerciali», fantasiosa declinazione moscovita della transizione verso il libero mercato che permetteva ad esempio di pagare la retta universitaria tramite l’acquisto di attrezzature. Senza grandi nostalgie, chi ha frequentato la Lumumba o altre università sovietiche spesso ammette un senso di gratitudine per l’occasione ricevuta (a spese di Mosca) e una generica comprensione per le «istanze internazionali» russe. Questo non signi"ca sottoscrivere, ma per Mosca è già tanto.

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1. «The Lumumba University in Moscow: Higher education for a Soviet–Third World alliance, 196091», Journal of Global History, vol. 14, n. 2, pp. 281-300, luglio 2019.

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In base ai dati del rettorato della Lumumba, il ritorno di !amma per l’Africa alimenta una costante crescita degli studenti dal continente, che però costituiscono circa il 4% degli iscritti stranieri a fronte di un 25-30% in passato. Oggi come allora, inoltre, quasi nessuno resta nella Federazione Russa dopo la laurea. Se Mosca investe sugli studenti dai razvivajuš0ie strany, africani in particolare, è in primo luogo per proiettare l’immagine di paese a essi veramente interessato. L’arruolamento comunque procede, malgrado i canali uf!ciali con la Russia siano limitati e le strutture diplomatiche ancora assenti in diversi paesi del continente africano. Si può procedere di persona e via Internet, in genere comunque richieste e selezioni passano per gruppi come le associazioni delle diaspore o tramite accordi con le università, in parte sospesi dopo l’invasione dell’Ucraina. Al secondo summit Russia-Africa (luglio 2023) Vladimir Putin ha sfoggiato numeri signi!cativi, sommando le presenze in tutta la Federazione e forse alzando un po’ l’asticella con l’aggiunta di esperienze minori. «Oggi negli istituti russi studiano quasi 35 mila studenti dall’Africa e questo numero cresce di anno in anno. La quota stanziata a bilancio per gli studenti africani in tre anni è cresciuta di due volte e mezzo». Il presidente ha proposto di aprire !liali di università russe in Africa e di studiare la possibilità di scuole dove si insegni in russo. «Sono sicuro che la realizzazione di tali progetti, lo studio della lingua russa e l’introduzione degli alti standard d’istruzione del nostro paese saranno il miglior fondamento per una collaborazione mutualmente bene!ca e paritaria». La Cina in questo senso è attivissima. Come per molti aspetti dei rapporti Russia-Africa, invece, alla teoria non è semplice far seguire la pratica e la guerra in Ucraina complica le cose. Intanto a San Pietroburgo è stato !rmato l’accordo per un consorzio di università tecniche Nedra Afriki – letteralmente «sottosuolo», ma anche viscere, cuore dell’Africa. Esso prevede, e non stupisce, «la formazione congiunta di specialisti per il settore minerario e delle materie prime».

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AFRICA CONTRO OCCIDENTE

IL MARE DI ANKARA BAGNA NIAMEY

di

Daniele SANTORO

Per la Turchia il Niger è retroterra della Tripolitania, perno della sua strategia marittima. L’approccio turco alle Afriche non è solo armi e risorse, ma anche pedagogia e cultura. Il possibile triangolo afromediterraneo con Francia e Italia. Le affinità tattiche con Mosca.

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1. ER LA TURCHIA IL NIGER È UNA QUESTIONE marittima. Ankara scruta le dinamiche in corso nel paese saheliano quasi esclusivamente attraverso il prisma libico. A conferma di come le Libie siano oggi – e saranno nel futuro prevedibile – il fulcro della geopolitica afro-mediterranea di Erdoãan, a sua volta nucleo imprescindibile della grande strategia af!nata negli ultimi decenni dagli apparati anatolici. Non perché !ne ultimo della proiezione imperiale dei nipoti di Mustafa Kemal, ma in quanto strumento indispensabile per sostanziare geopoliticamente le ambizioni manifeste nella dottrina della Patria Blu. Patto nazionale acquatico volto innanzitutto a stimolare la progressiva evoluzione della nazione turca in potenza marittima. Dunque in attore propriamente globale in grado di competere per la supremazia planetaria con le talassocrazie. Vere o presunte. Proposito che impone alla Turchia di spostare sui mari la competizione con i rivali, di rendere le acque prede ambite quanto le terre, !ne ultimo del sacri!cio collettivo, meta !nale dell’anelito imperiale riattizzato dalla !ne dell’èra bipolare e dall’avanzante declino della superpotenza americana. In tal senso, l’operazione in Tripolitania del 2020 ha segnato uno spartiacque epocale. Nella loro bimillenaria storia imperiale i turchi hanno sempre guardato il mare dalla terra. Quando ci sono riusciti. Generati dalle profondità asiatiche, non sono mai stati titolari di un impero propriamente marittimo. Con la parziale eccezione degli ottomani. Innanzitutto per assenza di volontà, per mancanza di attrazione verso l’elemento liquido. Il selgiuchide Kavurt, fratello minore di sultan Alparslan, riuscì ad esempio a fondare un peculiare Stato marittimo centrato sullo Stretto di Hormuz, dunque dotato di uno strategico sbocco oceanico. Ma il fondatore della dinastia dei selgiuchidi di Kerman – così come i suoi discendenti – non si lanciò sui "utti oceanici alla volta delle Indie e delle Afriche. Bramava la solida aridità dell’altopiano iranico. Per istinto, scelse la terra volgendo le spalle al mare.

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Apertura tratta mediana Istanbul-Xi’an del corridoio Londra-Pechino

INIZIATIVE GEOPOLITICHE TURCHE

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Paesi ai quali sono stati venduti droni da combattimento Bayraktar Tb2, Akıncı o Anka-S Potenziali acquirenti di droni da combattimento turchi

Mar Nero

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LETTONIA

IL MARE DI ANKARA BAGNA NIAMEY

AFRICA CONTRO OCCIDENTE

Furono solo gli ottomani, in quanto eredi di Roma, a porsi il tema della potenza marittima in termini propriamente strategici. Per quanto l’ef!mera supremazia instaurata dalla Porta sulla sezione orientale del mare nostrum ebbe natura in larga parte accidentale, conseguenza quasi meccanica della conquista di Costantinopoli. Dunque dell’introiezione dello spirito imperiale romano, del quale i discendenti di Osman si consideravano custodi ed eredi designati. Con la parziale eccezione dell’apogeo dell’epoca classica – coincidente con il lungo regno di Solimano il Magni!co, che si spinse a inviare imbarcazioni turche nelle acque dell’Oceano Indiano – gli ottomani non riuscirono tuttavia a sviluppare un approccio geopolitico propriamente marittimo, o meglio talassocratico. Ancora all’epoca di Bayezid II, tra la !ne del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento, la grande strategia marittima ottomana era centrata sul sostegno materiale ai mamelucchi d’Egitto in chiave antiportoghese 1. Il suo successore Selim non intendeva conquistare il Mediterraneo – come in effetti fece – e neppure Damasco e Il Cairo. La guerra contro i cugini mamelucchi del 1516-17 rispondeva alla necessità tattica di prevenire interferenze logistiche nella progettata campagna !nale contro il safavide øsmail, già sbaragliato due anni prima nell’epica battaglia di Çaldıran – la cui eco, come testimonia Orhan Pamuk in Il mio nome è rosso, si è riverberata per decenni nella coscienza collettiva turco-persiana. Selim cercava Tabriz e il Turan. Trovò il Mediterraneo per caso 2. L’attuale penetrazione turca nelle acque mediterranee non è invece casuale. È al contrario frutto di un preciso disegno strategico, abbozzato adottando una prospettiva propriamente marittima. Come rivela la natura dell’operazione libica. Il successo della conquista terrestre è stato dovuto unicamente alla supremazia instaurata dalla Marina turca nelle acque che uniscono le coste anatolica e tripolitana. Il cuore della guerra libica è stato il mare. Obiettivo, non strumento, dal momento che la proiezione nelle Libie è innanzitutto funzionale a consolidare il controllo di Ankara sull’arco d’interdizione mediterraneo delineato dall’accordo sulle frontiere marittime stipulato con il governo di Tripoli nel novembre 2019. Condizione posta da Erdoãan all’allora primo ministro del Governo di accordo nazionale (Gna) Fåyiz al-Sarråã per concedergli la sua interessata protezione. Probabilmente per la prima volta nella loro storia i turchi guardano la terra dal mare, collocando nell’elemento liquido il loro punto d’osservazione strategico. Calando nelle acque il perno della propria rotazione geopolitica. Accenno di rivoluzione antropologica e culturale che in questa fase rende le Libie la priorità tattica assoluta della Turchia. Ed è per questa ragione che non vanno dimenticati gli obiettivi fondamentali perseguiti da Ankara nell’ex vilayet ottomano di Trablusgarp. Il proposito di Erdoãan non è instaurare un protettorato sull’ex Quarta Sponda ma avvalersi di quest’ultima per far riverberare sul mare nostrum la potenza marittima repubblicana, prospettiva consolidata ad esempio dal progetto di base 1. Cfr. B. CIANCI, Le navi della Mezzaluna. La Marina dell’Impero ottomano (1299-1923), Bologna 2015, Odoya, pp. 69-70. 2. Cfr. ad esempio Y. ÖZTUNA, Yavuz Sultân Selîm (Yavuz Sultan Selim), østanbul 2006, Ötüken, pp. 79-81.

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IL MARE DI ANKARA BAGNA NIAMEY

navale a Œums 3. Il "ne ultimo è il mare, non la terra. In termini concreti, la Turchia si propone di consolidare a Tripoli un governo amico capace di estendere la propria sovranità sull’intero spazio libico. In particolare sulla costa cirenaica, limes giuridico del Mediterraneo turco insieme all’Anatolia sud-occidentale. In principio, senza pretendere di esercitare in#uenza esclusiva su di esso né tantomeno di annettere più o meno (in)formalmente le Libie riuni"cate. Prospettiva che i turchi saranno tuttavia costretti a rincorrere per mancanza di interlocutori ragionevoli e autocentrati nell’area mediterranea – il pur apprezzabile equilibrismo dell’Italia tra Ankara e Parigi non basta a rendere tale il nostro paese. È alla luce di tali priorità – che si traducono geopoliticamente nella volontà di preservare e sostanziare l’accordo sulle frontiere marittime del 2019, componente essenziale del progetto della Patria Blu – che vanno interpretate le recenti mosse africane della Turchia. Quantomeno i tempi e modi con cui sono state giocate. La riconciliazione a condizioni tutt’altro che favorevoli con l’Egitto di al-Søsø, la conservativa indifferenza esibita da Erdoãan di fronte all’estromissione da Tunisi dei «suoi» Fratelli musulmani da parte di francesi e arabi del Golfo, il cauto attendismo con il quale il presidente turco osserva le dinamiche innescate a Niamey dal golpe di "ne luglio. 2. Ankara ha condannato molto blandamente l’iniziativa golpista della giunta militare nigerina, sottolineando la natura democratica del governo di Mohamed Bazoum e auspicando la restaurazione dell’ordine costituzionale, ma mettendo in chiaro che in ogni caso «resterà al "anco del Niger in questo periodo critico» 4. Tale approccio ri#ette il dilemma tattico di Erdoãan, determinato a impedire la destabilizzazione dell’Africa centro-occidentale e al contempo interessato ad appro"ttare della decomposizione della Françafrique e dell’indifferenza americana per consolidare la proiezione della Turchia nella regione, giocando di sponda con Russia e Cina. Dalla prospettiva anatolica, l’importanza strategica del Niger risiede innanzitutto nel lungo con"ne terrestre con le Libie. Non è un caso che Ankara abbia stipulato il corposo accordo di cooperazione militare con Niamey subito dopo aver ottenuto la decisiva vittoria militare in Tripolitania contro la coalizione franco-russo-egiziana, nel luglio 2020. Sulla base di quest’intesa, la Turchia ha fornito all’esercito nigerino gli aerei da combattimento leggeri Hurkus, veicoli corazzati per il trasporto delle truppe, sistemi di sorveglianza elettronica e ovviamente i celebri droni da combattimento Bayraktar Tb2. Oltre ai consiglieri militari incaricati di addestrare (e indottrinare) gli uf"ciali delle Forze armate del paese africano. Modello già testato con successo in molteplici e variegati contesti – dall’Azerbaigian alle Libie, dalle Somalie all’Albania – che permette alla Turchia di avvaler-

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3. «Dbeibeh’s government denies handing Khoms port to Turkey to use as military base», Libya Update, 17/8/2023. 4. F. TAùTEKIN, «Why Turkey’s Erdogan sings the same tune with Russia’s Putin in Africa», Al Monitor, 14/8/2023.

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si della vendita di armamenti per colonizzare ed eterodirigere gli eserciti dei paesi destinatari degli stessi. Anche perché la cooperazione militare fa da sfondo a iniziative civili che alimentano la proiezione culturale turca, favorendo l’introiezione del modello e della visione del mondo anatolici da parte delle masse africane. Ankara si è certamente assicurata lo sfruttamento di una parte consistente del settore minerario nigerino e lucrosi appalti come quello per la costruzione dell’aeroporto internazionale di Niamey. Ma si è anche premurata di dotare di scuole funzionanti i più sperduti villaggi del Niger, di equipaggiare i locali ospedali, di ristrutturare moschee, di promuovere nelle madrase un’educazione religiosa ispirata all’islam turco, di patrocinare programmi per lo sviluppo dell’occupazione femminile, persino di dotare la tv di Stato delle strumentazioni necessarie alle trasmissioni in diretta 5. Tale complesso di iniziative militari e civili rende la Turchia il paese più in"uente in Niger – al netto dell’effervescente ed evanescente scenogra#a allestita dalla Russia dopo il golpe di #ne luglio – e il Niger il tassello più pregiato del domino africano della Turchia. Nel breve periodo quest’ultima intende avvalersi della propria proiezione nel paese saheliano soprattutto per presidiare il con#ne meridionale delle Libie, allo scopo di impedire che le caotiche dinamiche che attanagliano l’Africa occidentale si riverberino nello strategico spazio libico. Compromettendo la grande strategia afro-mediterranea di Ankara, pilastro del «secolo della Turchia». È alla luce di questa priorità che Erdoãan interpreta il colpo di mano della giunta militare guidata da Abdourahamane Tchiani, in linea di principio contrario agli interessi turchi. Il golpe rischia infatti di creare terreno fertile alla recrudescenza del terrorismo jihadista, come dimostra l’attentato che ha mietuto una dozzina di vittime tra i soldati nigerini al con#ne con il Mali a metà agosto 6. Senza contare il pericolo che le tensioni interne possano sfociare in una guerra civile a intensità variabile e che le mosse azzardate dei golpisti inducano l’Ecowas a guida nigeriana all’intervento militare 7. Dinamiche che in#ammerebbero l’Africa occidentale risucchiando nel caos le Libie, privando la Libia turca della profondità difensiva e pregiudicando l’azione stabilizzatrice di Ankara sulla sponda Sud del mare turcicum. Proprio mentre la riconciliazione con gli Emirati Arabi Uniti avrebbe potuto indurre Abu Dhabi a rimuovere il veto alla costruzione di una base militare turca in Niger, come previsto dall’accordo di cooperazione militare tra Ankara e Niamey. È per questo che Erdoãan – come in Mali nel 2020, quando spedì l’allora ministro degli Esteri Mevlüt Çavuúoãlu a Bamako per legittimare il golpe di agosto – ha preferito prendere atto del fatto compiuto e mettere il cappello sulla giunta militare. Mossa solo apparentemente controintuitiva che permette alla Turchia di con5. Queste sono alcune delle iniziative condotte nel paese dall’Agenzia turca per la cooperazione e lo sviluppo (Tika), tika.gov.tr 6. «More than a dozen Niger soldiers killed in attack near Mali border», Al Jazeera, 16/8/2023. 7. M.A. ADOMBILA, «West African bloc says ‘D-Day’ set for possible Niger intervention», Reuters, 19/8/2023.

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Origine del corridoio afro-oceanico della Turchia Sbocchi oceanici dell’Anatolia Snodi imprescindibili del corridoio afro-oceanico della Turchia Paesi di rilevanza strategica per il corridoio afro-oceanico della Turchia Arco d’interdizione mediterraneo della Turchia - Zee turca Arco d’interdizione mediterraneo della Turchia - Zee libica

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IL MARE DI ANKARA BAGNA NIAMEY

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tinuare a dare le carte nella partita saheliana e di smussare le tensioni lungo la linea di faglia che ormai separa nettamente paesi anti-occidentali e !lo-occidentali. Laddove la priorità di Ankara non è l’orientamento più o meno democratico dei regimi africani ma la stabilità del Sahel, da cui dipende quella della frontiera libico-nigerina e dunque la sicurezza delle Libie. Nella consapevolezza che nessun governo al potere a Niamey avrebbe interesse a liquidare la profonda cooperazione tra Turchia e Niger, pietra angolare della grande strategia afro-mediterranea di Ankara. Il paese saheliano è infatti il vero connettore tra i due termini dell’equazione strategica, l’Africa e il Mediterraneo, nonché «snodo oceanico» dell’Anatolia. In una prospettiva di lungo periodo, l’Africa serve infatti alla Turchia principalmente come piattaforma logistica che può permettere ai turchi di raggiungere gli oceani aggirando Suez e Gibilterra. Mediante l’accordo sulle frontiere marittime con Tripoli e l’intervento militare del 2020 in Tripolitania Ankara ha conquistato una pur precaria continuità territoriale tra l’Anatolia e il Nord Africa, garantendosi al contempo avamposti logistici sulla costa indo-paci!ca del Continente Nero come il porto e l’aeroporto di Mogadiscio. Mentre le sempre più solide relazioni con il Senegal lasciano intendere che i turchi abbiano individuato Dakar come terminale atlantico del corridoio africano. Contestualmente, la Turchia ha disseminato Sahel e Corno d’Africa di infrastrutture funzionali ai propri obiettivi strategici. Strade, autostrade, ferrovie, ponti, aeroporti. Come appunto quello di Niamey, capitale di fatto del vicereame africano della Turchia. Delineando lo scheletro di un asse multimodale il cui sviluppo orienta l’approccio di Ankara al grande gioco continentale. 3. Dalla prospettiva della Turchia l’Africa è un microcosmo del mondo postamericano. Con gli europei in ritirata, gli Stati Uniti indifferenti anche perché impotenti, Russia, Cina, India e petromonarchie arabe all’arrembaggio. Come dimostrano la colonizzazione della Somalia e l’impresa libica, nel Continente Nero Ankara dispone di margini di manovra molto più ampi rispetto a quelli di cui gode in Eurasia, circostanza che rende la piattaforma africana una sorta di palestra imperiale nella quale gli eredi degli ottomani possono testare limiti ed ef!cacia del modello sviluppato per (ri)conquistare il primato globale. Ciò non signi!ca che la proiezione turca in Africa abbia necessariamente un orientamento anti-occidentale o anti-americano. Al contrario. La narrazione che esalta la penetrazione continentale di Russia, Cina e Turchia a scapito dell’Occidente trascura la competizione latente tra i rivali dell’America, mascherata da intese tattiche volte principalmente a dissimulare le rispettive debolezze. Come in altri quadranti, i turchi giocano di sponda con russi e cinesi per guadagnare spazio e in"uenza ma si premurano di armonizzare le proprie mosse tattiche con gli interessi della superpotenza. La stessa competizione con la Francia origina più dall’ossessione antiturca di Parigi che dalla reale volontà di Ankara di scardinare la Françafrique e l’in"uenza francese in Nord Africa. Queste ultime stanno collassando per ragioni indipendenti dall’iniziativa africana di Erdoãan, che si limita a riempire il vuoto creato

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EUNAVFORMED IRINI Grecia e Italia si alternano ogni sei mesi al comando in mare della missione Ue incaricata di applicare l’embargo sulle armi alla Libia, che sconta però l’ostilità turca e una componente navale sottodimensionata

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Rifornimenti di armi, miliziani dalla Siria e di logistica dalla Turchia

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L’ACCORDO MARITTIMO TRA TURCHIA E LIBIA G RE CIA

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Brigate di Misurata

Milizie locali (tebu e tuareg)

Gnu - Governo di unità nazionale (al-Dbeibeh) Appoggiato da: Turchia, Italia, Usa, Regno Unito, Algeria, Qatar

Lna - Esercito nazionale libico e alleati (Haftar) . Appoggiato da: E.A.U., Egitto, Russia e Francia

Area turca

Area libica

Accordo marittimo Turchia-Tripoli

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IS R A E L E

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dalla ritirata dell’ex potenza egemone prima che lo facciano Russia e Cina. Dinamica apparentemente favorevole agli interessi euroatlantici che tuttavia provoca profonde inquietudini strategiche all’Eliseo, stante la percepita minaccia separatista alimentata dalla Turchia all’interno dell’Esagono mediante le rami!cazioni dei propri apparati nelle moschee e nelle comunità maghrebine d’Oltralpe. Pericolo la cui entità viene evidentemente dilatata dalla crescente in"uenza di Ankara nelle Afriche che Parigi continua a ritenere di propria pertinenza. Tanto che i francesi guardano paradossalmente con meno disagio alla penetrazione continentale di russi e cinesi. In realtà, la percezione della minaccia turca non è nulla più di un ri"esso pavloviano. Russia e Cina sono due grandi potenze che dispongono di risorse nettamente superiori a quelle della Francia, mentre agli occhi di quest’ultima la Turchia è un attore di seconda classe che riesce a ottenere successi strepitosi con disponibilità materiali limitate. Compensando tale svantaggio con un uso propriamente strategico del fattore umano. Esattamente ciò che ai francesi non riesce (più). Nei successi di Ankara Parigi vede dunque ri"esso il proprio strutturale declino. Di qui l’irrazionale frustrazione che induce Macron a intravedere in Erdoãan addirittura una minaccia alla sicurezza nazionale transalpina. Manifestazione di autolesionismo geopolitico che non trova riscontro nelle concrete dinamiche della competizione africana, nella quale viceversa nulla impedirebbe a turchi e francesi di giocare di sponda per irrobustire la propria proiezione di lungo periodo. Come dimostra l’accondiscendente reazione di Erdoãan al golpe antiturco promosso in Tunisia dall’Eliseo con l’interessata partecipazione di sauditi ed emiratini, atteggiamento che rivela la disponibilità della Turchia a tenere in considerazione gli interessi francesi e a dare vita a una relazione transazionale mutuamente vantaggiosa con il rivale. Nello speci!co caso tunisino, pur avendone le capacità Ankara non ha destabilizzato il fragile paese nordafricano, sviluppando al contrario pro!cue relazioni con il presidente golpista Kaïs Saïed, castigatore dei Fratelli di Erdoãan. A riprova di come un’intesa tattica franco-turca potrebbe contribuire in modo determinante alla stabilizzazione di Nord Africa e Sahel, arginando la penetrazione di Russia e Cina. Con la naturale benedizione degli americani, a cui – insieme – turchi e francesi potrebbero strappare concessioni in altri ambiti e teatri. Prospettiva alla quale l’Italia potrebbe offrire un contributo tutt’altro che modesto, sfruttando le profonde relazioni con Ankara e Parigi per proporsi come vertice informale di un triangolo strategico afromediterraneo, attenuando l’ideologica ostilità francese nei confronti della Turchia, fungendo da camera di compensazione dei dissidi tra le due potenze. Allo scopo di (ri)guadagnare una relativa centralità nella partita libica. Concorrendo così a destrutturare l’intesa di convenienza turco-russa, quantomeno in Africa. 4. La multidimensionale convergenza tattica tra Turchia e Russia è ormai un genere letterario, reso popolare dall’entità e dalla relativa longevità degli accordi

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informali mediante i quali Ankara e Mosca si sono di fatto spartite i Caucasi, le Sirie e le Libie. Proponendosi di adattare alle Afriche profonde il modello sperimentato a partire dall’incidente del novembre 2015, quando gli F-16 turchi abbatterono un Su24 russo al con!ne turco-siriano. La narrazione centrata sul proposito dei due (presuntamente) ex rivali di cooperare strategicamente per scardinare l’egemonia occidentale e sull’altrettanto presunta volontà della Turchia di aderire al blocco sino-russo trascura tuttavia la reale (contro)natura geopolitica dell’intesa tra i due ex imperi. A unire idealmente Ankara e Mosca è l’af"ato revisionista che ne permea ambizioni e suggestioni, l’insopprimibile e connaturato desiderio di restaurare i rispettivi spazi imperiali, dunque l’anelito a presiedere alla fondazione di un sistema globale imperniato sulle sfere d’in"uenza e non sull’egemonia americana. In principio dunque è l’America, il senso di assedio che attanaglia le due potenze eurasiatiche e la contestuale percezione del declino della superpotenza, che alimenta la convinzione di poter allentare le maglie del contenimento statunitense unendo le forze. Le convergenze tra Turchia e Russia non hanno nulla di strategico, rispondono a un !siologico istinto di sopravvivenza, che per turchi e russi è sinonimo di restaurazione del proprio status imperiale. Con il recente paradosso che la guerra d’Ucraina ha ribaltato i rapporti di forza, proiettando Ankara nel ruolo di senior partner. Di questo passo, sarebbe eventualmente Putin a entrare nel mondo a guida turca, non Erdoãan a aderire al blocco sino-russo. In termini operativi, le poco cordiali intese tra Turchia e Russia non implicano alcun proposito comune di lungo periodo, sono al contrario manifestazione di una radicata e irriducibile rivalità, della vitale necessità di evitare un !siologico con"itto che indebolirebbe entrambe e consoliderebbe l’egemonia americana. Sotto il pro!lo strategico, dunque, Ankara non è né !lo-occidentale né !lorussa. È esclusivamente !loturca. E nello speci!co contesto africano l’autonomia strategica anatolica – di cui la convergenza tattica con la Russia è solo una declinazione – assume tonalità tutt’altro che anti-americane. Turchi e russi si sono ad esempio spartiti le Libie, ma Erdoãan ha legittimato agli occhi degli Stati Uniti l’intervento militare in Tripolitania con la (ragionevole) necessità di impedire che le milizie del Gruppo Wagner raggiungessero Tripoli, dunque che Mosca mettesse sotto scacco il !anco Sud della Nato. Analogamente, il presidente turco non disdegna gli investimenti cinesi, anche (e soprattutto) nei settori strategici, "irta con Xi Jinping lungo le nuove vie della seta, al contempo però si propone agli Stati Uniti quale baluardo per arginare la penetrazione della Repubblica Popolare in Africa 8. A riprova di come la Turchia intenda coltivare il proprio progetto imperiale senza uscire prematuramente dal ventre americano, anzi premurandosi di tenere in considerazione – per quanto strumentalmente – gli interessi della superpotenza. Anche perché Ankara proietta i propri disegni imperiali nel lunghissimo periodo, come dimostra la posta in gioco massima dell’Iniziativa africana di Erdoãan. Nella prima intervista rilasciata dopo il golpe in Niger, il presidente dell’Asso-

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8. Cfr. il documento pubblicato nell’ottobre 2020 dal Consiglio per gli affari Turchia-Usa (Taik), «Re-thinking Turkey-US Economic Relations in the Covid-19 Context».

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ciazione degli amici dell’Africa – organizzazione fondata a Istanbul nel 2015 con il compito di promuovere le relazioni tra Turchia e paesi africani nel settore dell’istruzione – ha ricordato che Ankara provvede all’istruzione di circa sessantamila africani, i quali «stanno imparando a guardare il mondo, vengono allevati con una coscienza ben de!nita. Sanno perfettamente che la Turchia è al loro !anco senza se e senza ma. Tutti gli africani che istruiamo in Africa sono nostri amici, perché vengono educati in modo differente. Percepiscono sé stessi diversamente rispetto ai loro pari che studiano o hanno studiato in Francia e in Canada. E saranno loro a plasmare il futuro del continente. Questi giovani cresceranno e renderanno luminoso l’avvenire dell’Africa. È una dinamica irreversibile» 9. La componente pedagogica è l’aspetto che più distingue la grande strategia africana della Turchia, rendendola peculiare e per certi versi inimitabile. Ankara non concepisce l’Africa esclusivamente come forziere di risorse naturali o come campo da gioco sul quale testare schemi di cooperazione competitiva con i rivali dell’America. Ambisce a intestarsi la guida del continente formandone le classi dirigenti del futuro, forgiando e legando preventivamente a sé gli apparati che nei prossimi decenni tesseranno le trame africane. Approccio intergenerazionale che ri#ette cristallinamente la visione irriducibilmente imperiale che orienta l’iperattivismo di Ankara nel Continente Nero.

9. «Kıtanın umudu Türkiye! “Cin úLúeden çıktı”» («Il futuro del continente è la Turchia! “Il genio è uscito dalla bottiglia”»), Timeturk, 10/8/2023.

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‘Non abbiamo capito che l’Africa è cambiata’ Conversazione con Emanuela C. DEL RE, rappresentante speciale dell’Unione Europea per il Sahel, a cura di Lucio CARACCIOLO e Giuseppe DE RUVO

LIMES Perché il Niger è così importante? DEL RE Negli ultimi anni, la centralità del Niger è diventata sempre più evidente per

vari motivi. Innanzitutto perché era un paese democratico con un presidente, Mohamed Bazoum, legittimamente eletto nel 2021. Vi sono poi ragioni strategiche, che riguardano la lotta al terrorismo e il contrasto ai traf!ci illeciti, incluso quello di migranti irregolari verso la Libia e l’Europa. Inoltre, è fondamentale per noi accompagnare lo sviluppo di un paese che si trova in una posizione geogra!ca così strategica per le dinamiche euro-mediterranee-africane. Nel 2018, quando ero viceministra agli Esteri dell’Italia, decisi di reintegrare il Niger nella lista dei paesi prioritari per le azioni della cooperazione allo sviluppo italiana, proprio per premiare lo spirito collaborativo del paese e la sua capacità di sviluppare progetti reciprocamente pro!cui per l’Italia e l’Europa, in un quadro di partenariato su base egualitaria. L’obiettivo era promuovere lo sviluppo del paese e, al contempo, provare a risolvere alcuni problemi strutturali – come quelli della migrazione irregolare e del terrorismo – che af"iggono sia l’Europa sia il Sahel. LIMES In che senso si può parlare di democrazia in Niger? DEL RE Io preferisco parlare di «democrazia contestualizzata», anche perché il concetto stesso di democrazia deve essere declinato localmente, perché esso è sempre situato in una particolare congiuntura. Di certo, però, in un quadro come quello del Sahel, l’esperienza nigerina era senza dubbio positiva. La democrazia parlamentare nigerina, poi, era un fattore in grado di favorire la crescita e lo sviluppo del paese anche grazie ai partner internazionali tra cui l’Unione Europea, primo partner del Niger in tutti i settori. Conosco bene il paese e il presidente Bazoum il quale, per quanto la situazione fosse complessa, aveva già messo in atto riforme molto importanti, nel contesto di un progetto di «rinascimento», come il presidente amava dire. Due le riforme fondamentali: quella dell’istruzione e quella del com-

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parto sicurezza. Per quanto riguarda quest’ultima, Bazoum stava avviando una importante riforma dell’esercito. Il governo nigerino collaborava strettamente con i contingenti stranieri presenti sul territorio in funzione antiterrorismo nel quadro di accordi bilaterali. Basti pensare che l’Ue aveva appena inaugurato una nuova missione di addestramento di militari (Eumpm) in Niger, che avrebbe af!ancato la già attiva missione di addestramento della polizia (Eucap), molto apprezzata. Il tutto era avvenuto nella più stretta collaborazione con le autorità di Niamey. Proprio per questa sua apertura e disponibilità, il Niger ha attirato l’attenzione di tutto il mondo. Ci sono state molte visite di alto livello. Io stessa ho molto frequentato il paese negli ultimi anni in costante dialogo con le autorità, con il presidente Bazoum e i suoi ministri, con la società civile nigerina e le organizzazioni internazionali presenti nel paese. Ho accompagnato l’Alto rappresentante Borrell in visita nel paese a inizio luglio, poche settimane prima del colpo di Stato. In quell’occasione fu inaugurata una centrale elettrica con 56 mila pannelli solari !nanziata dall’Ue e dall’Afd, l’Agenzia francese per lo sviluppo, che darà energia a gran parte della capitale, in un paese che soffre per la grave mancanza di elettricità. Gli eventi di !ne luglio sono stati un forte shock per gli europei e per gli africani. LIMES Perché i colpi di Stato in Mali, Burkina Faso e Niger hanno riscosso tanto favore popolare? DEL RE Bisogna fare delle distinzioni. I casi del Mali e del Burkina Faso sono molto diversi da quello del Niger. Non a caso l’Ecowas, la Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale, organizzazione regionale di riferimento anche per l’Unione Europea, ha reagito in maniera differente. Al summit di Abuja di agosto a cui ho partecipato a nome dell’Unione Europea, l’Ecowas ha dichiarato di essere pronta a usare la forza militare come extrema ratio per ristabilire l’ordine costituzionale in Niger. Si tratta, ovviamente, di una opzione cui auspichiamo non si debba arrivare. Tale soluzione non era stata ipotizzata nei casi del Mali e del Burkina Faso, con i quali l’Ecowas ha fatto accordi per guidare la transizione. In Niger però è avvenuto l’ennesimo colpo di Stato, e oggi l’Africa si interroga su come interrompere la preoccupante serie di atti di forza per sovvertire l’ordine costituito che mina profondamente lo sviluppo del continente. Per quanto riguarda il sostegno popolare, si tratta di un tema molto controverso. In Africa non è infrequente il fenomeno di manifestanti pagati per scendere in piazza, per questo è dif!cile valutare il consenso. In Niger, oltre a decine di migliaia di persone raccolte in uno stadio dalla giunta militare, si sono viste sventolare bandiere russe. Questo ha certamente un impatto sull’opinione pubblica, ma non dimostra il sostegno di un popolo. Di certo, la giunta può godere del sostegno di una parte importante dell’élite che non riteneva i suoi interessi adeguatamente tutelati dal governo del presidente Bazoum. In molti hanno scelto di salire sul carro del più forte al momento del colpo di Stato, con l’inaccettabile detenzione del presidente. L’Unione Europea continua a sostenere la necessità di ristabilire l’ordine costituzionale. Attivisti e società civile spingono per il ritorno alla democrazia ma sono disorientati rispetto a come ciò possa avvenire in questa fase complessa: Bazoum verrà

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effettivamente reintegrato o, invece, verrà avanzata una proposta alternativa? La situazione è in divenire. Canali di comunicazione sono attivi tra l’Ecowas e la giunta attualmente al potere, nel quadro di un articolato processo negoziale. LIMES In Niger ci sono molti contingenti stranieri: francese, americano, tedesco, italiano. Come si ri!ette in particolare l’atteggiamento della Francia, che rinfocola il sentimento antifrancese diffuso nella regione, sull’immagine dell’Unione Europea? DEL RE Innanzitutto desidero sottolineare che la presenza militare degli Stati europei in Niger è il risultato di accordi assolutamente trasparenti stipulati tra le autorità locali e i partner stranieri, quindi legittimata pienamente in funzione antiterrorismo per aiutare il paese a risolvere i suoi gravi problemi di sicurezza. E questo vale anche per il contingente italiano che, dopo il colpo di Stato, ha sospeso almeno momentaneamente le attività di addestramento dei militari nigerini, come gli altri contingenti stranieri. La popolazione nigerina deve conoscere questa verità sulla presenza militare straniera, che si inserisce in uno schema di collaborazione, di partenariato, di cooperazione alla pari. L’obiettivo è quello di accompagnare i nigerini "no a quando questi lo riterranno necessario e saranno in grado di provvedere essi stessi alla propria sicurezza e al proprio benessere, prendendo pienamente in mano il loro destino. Il principio ispiratore dei nostri interventi a sostegno, decisi insieme ai paesi africani partner, è quello che gli inglesi chiamano «ownership» e i francesi «appropriation». «Soluzioni africane a problemi africani», come si dice. Noi, loro partner, li accompagniamo in questo processo come stiamo già facendo, ma senza imporre soluzioni o sostituirci a loro. Ci troviamo di fronte alle campagne di disinformazione orchestrate per lo più dalla Russia, che complicano il quadro. La Russia ha condannato il colpo di Stato a Niamey, ma in Mali è presente il Gruppo Wagner (vedremo ora cosa ne resterà in Africa dopo la scomparsa del suo fondatore). Le campagne di disinformazione sono un vero e proprio strumento di warfare e senza dubbio contribuiscono a modi"care la percezione locale del ruolo dell’Occidente, facendo passare la narrazione secondo cui i paesi occidentali vorrebbero addirittura occupare il territorio del paese. Una parte della classe media è affascinata da queste trappole ideologiche, che nell’attuale congiuntura internazionale sono estremamente pericolose. L’Unione Europea ha messo in campo strumenti importanti per individuare e contrastare la disinformazione. Per quanto riguarda la Francia, ci tengo a sottolineare che l’Unione Europea parla con una sola voce. La Francia fa parte dell’Unione Europea e le decisioni europee vengono prese insieme. Qualche giorno dopo il colpo di Stato, ad esempio, a Bruxelles c’è stato un incontro del Comitato politico e di sicurezza (Cops) dell’Ue che ha condannato il golpe e ha espresso il pieno sostegno dell’Ue agli sforzi dell’Ecowas volti a ristabilire l’ordine costituzionale sotto l’autorità del presidente eletto. Quando si è parlato del Niger, c’è stato totale consenso sulla necessità di continuare a restare fortemente impegnati nel Sahel, un’area per noi prioritaria e strategica, e i paesi membri hanno ribadito la necessità di insistere per una soluzione diplomatica per il Niger.

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Sinceramente, ritengo inaccettabile che in Niger vi sia un sentimento anti-occidentale e antifrancese tanto violento da portare addirittura a un attacco all’ambasciata francese. Tutti i paesi del Sahel hanno strettissimi rapporti con la Francia, che resta impegnata nella regione e un punto di riferimento nell’area e in Africa. Ricordiamo, per esempio, che le classi dirigenti saheliane e africane hanno scambi costanti con la Francia. Questo vale anche per i rapporti economici e per gli scambi con gli studenti. La frattura attuale con l’Occidente si è creata fondamentalmente per due motivi. Anzitutto, la rivendicazione di sovranità africana – che però noi europei abbiamo sempre riaffermato e questo deve essere molto chiaro, come ripeto spesso ai leader africani – e la spinta panafricanista che oggi viene spesso distorta rispetto al suo principio ispiratore originario, trasformandosi in narrazione anti-occidentale !ne a sé stessa. Il sentimento antifrancese e anti-occidentale potrebbe essere alimentato da un senso di impotenza. Ripeto da anni che i leader africani devono sedere ai nostri tavoli decisionali. Abbiamo innegabilmente delle responsabilità in questo senso. Non abbiamo capito, ad esempio, che l’Africa è cambiata. L’Africa di oggi non è l’Africa di trent’anni fa. Le nuove generazioni africane sono molto avvertite, preparate e consapevoli, ma purtroppo continuano a restare escluse dal dibattito globale perché non hanno strumenti adeguati, che invece bisogna garantire loro. Scalpitano. Nelle aree urbane è soprattutto la nascente classe media a chiedere un’accelerazione della storia. Dovendoci occupare delle emergenze legate al terrorismo, alle migrazioni irregolari e alla crisi economica, abbiamo trascurato questa dimensione, che però è fondamentale. Dobbiamo radicalmente cambiare il nostro modo di entrare in relazione con l’Africa. Dobbiamo sviluppare un linguaggio euro-africano o africano-europeo, come io stessa vado ripetendo da anni. Pochi giorni fa il presidente Macron ha denunciato fermamente davanti agli ambasciatori francesi la narrazione utilizzata dai golpisti di Niamey e ha messo in guardia contro una «epidemia di colpi di Stato», in assenza di un’azione risoluta e di un cambiamento nell’approccio da parte nostra. Ciò è avvenuto alla vigilia del tentativo di golpe in Gabon, il 30 agosto. LIMES Perché l’Ue sta organizzando una missione civile-militare in autunno nella regione del Golfo di Guinea? DEL RE L’Unione Europea ha deciso di avviare una missione nel Golfo di Guinea dando seguito alle conclusione del Consiglio Ue del 29 giugno 2023. Si tratta di una missione nell’ambito della politica di sicurezza e di difesa comune (Psdc) con l’obiettivo strategico di fornire ai paesi dell’Africa occidentale del Golfo di Guinea – Costa d’Avorio, Ghana, Togo e Benin – che più rischiano di vedere le loro regioni di con!ne con il Sahel oggetto di attacchi da parte di terroristi provenienti da nord, assistenza nell’addestramento delle forze di sicurezza e di difesa locali per contenere le pressioni esercitate dai gruppi terroristici armati e rispondere adeguatamente. La missione mira ad aiutare a preparare le operazioni antiterrorismo, fornire supporto tecnico e attuare misure di rafforzamento della !ducia nel settore della sicurezza. Sarà lanciata dopo l’approvazione formale da parte dei ministri degli Esteri

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dell’Ue in una riunione che si terrà a ottobre in Lussemburgo. Benin e Ghana hanno già invitato uf!cialmente l’Ue a schierare una missione nei loro territori. LIMES Perché il putsch in Niger ha avuto un tale clamore internazionale? DEL RE Dipende dal prisma attraverso cui si guarda agli eventi. Ciò che accadeva nel Sahel in passato ha avuto una eco relativa, a seconda degli interessi dei paesi nell’area, come la Francia in Mali con l’Operazione Barkhane e l’Ue con le sue missioni e i suoi progetti di sviluppo. Il colpo di Stato in Niger ha avuto tanto clamore internazionale perché è avvenuto in un paese da tutti considerato come esempio di stabilità e democrazia, su cui si erano concentrati tanti progetti in corso e investimenti per il progresso, che alimentava la !ducia che si potesse avere un Sahel stabile e prospero e quindi motivava all’impegno i partner stranieri. Gli stessi africani sono rimasti spiazzati dall’ennesimo golpe. La reazione è stata molto forte: l’Ecowas crede che sia arrivato il momento di mettere !ne a questa sequenza di colpi di Stato, tanto che ha messo sul tavolo anche l’opzione militare. LIMES Eppure ci sono diverse posizioni. Gli americani, che non parlano di golpe, sono contrari a un intervento militare, i francesi certamente no. DEL RE Gli americani hanno una norma nel loro ordinamento che impedisce di mantenere propri soldati in paesi nei quali sono in atto colpi di Stato. Restano cauti e aspettano seguendo l’evoluzione della situazione a Niamey, anche se hanno svolto azioni diplomatiche importanti come la visita in Niger di Victoria Nuland, sottosegretario di Stato per gli affari politici e vicesegretario di Stato, poco dopo il golpe. Poi la visita a Niamey del sottosegretario di Stato per gli Affari africani Molly Phee. Tutti i paesi membri dell’Unione Europea, inclusa la Francia, si sono espressamente dichiarati a favore di una soluzione diplomatica per mettere !ne al colpo di Stato in Niger. Tutti ci siamo detti pronti a sostenere lo sforzo diplomatico dell’Ecowas e degli altri partner. Anche l’Ecowas è d’accordo sulla priorità da attribuire alla soluzione diplomatica e si sta adoperando in tal senso, continuando tuttavia a considerare l’intervento militare come plausibile ultima ratio. Insieme alle sanzioni economiche e !nanziarie già in vigore, l’eventuale uso della forza mira anche a mantenere la pressione sulla giunta af!nché negozi. Questa è la posizione espressa dalla Francia. Certo, il concetto di «intervento militare» è di dif!cile de!nizione. Al momento, l’Ecowas parla di attivazione della stand-by force, ovvero di un esercito che sarebbe costituito da battaglioni provenienti dai diversi paesi dell’organizzazione da attivare in caso di intervento armato. La Costa d’Avorio ha già dato la sua disponibilità, così come la Nigeria. Tuttavia, ripeto, è l’ultima ratio e l’Unione Europea favorisce una soluzione paci!ca e diplomatica della questione. LIMES È un bluff? DEL RE L’Ecowas è serissima al riguardo. Noi, come Ue, sosteniamo l’Ecowas nello sforzo di trovare una soluzione diplomatica. LIMES Cosa intende per soluzione diplomatica? La legittimazione della giunta? DEL RE Al momento da più parti si immaginano diverse opzioni. Una possibilità è il reintegro di Bazoum, come l’Ue e l’Ecowas continuano a chiedere; un altro scena-

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rio potrebbe essere una transizione democratica sul modello di Mali, Burkina Faso e Ciad, via accordi precisi con l’Ecowas su durata e modalità della transizione per ristabilire l’ordine costituzionale. Nella storia del Niger tutto questo è già avvenuto. Ci sono state transizioni con elezioni a breve distanza dal colpo di Stato. Sono molte le variabili. Riteniamo fondamentale, comunque, che il presidente Bazoum venga liberato il prima possibile.

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Parte III ALGERIA nostro VINCOLO ESTERNO

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L’ESERCITO, UNICO ARBITRO DI UN PAESE DIVISO di Kader A. ABDERRAHIM Lo Stato algerino appare molto più fragile rispetto al passato. Il prestigio simbolico delle Forze armate è eroso, l’economia sull’orlo del collasso. Il potere effettivo appartiene ai militari, mentre il governo si limita ad amministrare. Le diverse idee di nazione.

I

1. PAESI DEL TERZO MONDO CHE HANNO conquistato l’indipendenza attraverso la violenza sono caratterizzati da sistemi politici strutturati attorno all’esercito. Anche l’Algeria ha messo al centro del processo di costruzione dello Stato le proprie Forze armate, che nella costituzione nazionale sono poste sotto l’autorità del presidente della Repubblica. Eppure, la realtà è più complessa. In Algeria la presidenza è emanazione di fatto dell’esercito. Anzi, si potrebbe azzardare che essa dipende dal ministero della Difesa, a sua volta gestito da militari in abiti civili, che occupano le cariche di segretario generale o di capo di gabinetto. La presidenza è l’istituzione attraverso cui l’esercito controlla lo Stato e stabilisce la rotta del governo. La sovranità delle Forze armate deriva dalla concezione della nazione e dall’idea di Stato dominanti nelle élite algerine. Concezione derivante dal passato, ancora legittimante, ma sempre meno realistica. Infatti, la preminenza politica dell’esercito mascherata dietro le istituzioni repubblicane sta causando profonde crisi nella gestione del potere. Soprattutto, sta alimentando la competizione tra la gerarchia militare, che detiene il potere reale, e il presidente della Repubblica, che esprime il potere formale. Questo aspetto della struttura politica algerina è stato spesso trascurato dai ricercatori e dall’opinione pubblica. Ma la crisi che ha scosso l’Algeria tra il 1992 e il 1999 ha chiarito una volta per tutte che le Forze armate rappresentano il principale attore politico nel paese. Tuttavia, per comprendere a fondo il ruolo dell’esercito è necessario ricordare il legame tra militari e nazione e comprendere come questa relazione abbia plasmato la natura del sistema politico. 2. Grazie alla vittoria dell’Esercito di liberazione nazionale (Eln), il 3 luglio 1962 l’Algeria diveniva un paese indipendente, poneva !ne alla dolorosa parentesi

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della colonizzazione e avviava il processo di costruzione dello Stato partendo dal nulla. Si trattava di uscire dalla condizione coloniale, promuovere un’economia avanzata ovunque, non solo nelle città e in funzione degli europei che vi abitavano, costruire uno Stato o, per riprendere l’espressione dello storico francese Benjamin Stora, «inventare» un’Algeria che, dal punto di vista sia geogra!co sia culturale, sembrava aver preso piede solo nella mente dei suoi cittadini. In questa situazione, i militari si consideravano depositari del nazionalismo e si attribuivano il titolo esclusivo di patrioti algerini: chi scalerà i ranghi gerarchici si avvicinerà all’idealtipo del nazionalista e godrà di maggiore legittimità politica giacché è pronto a sacri!care la propria vita per il paese, ha consapevolmente scelto la caserma a scapito della famiglia, rappresenta la forza che ha liberato il paese dal dominio straniero ed è preparato a combattere. Ecco perché il militare è convinto di essere il baluardo della nazione, l’unico detentore della legittimità da cui dovrebbe derivare ogni autorità politico-amministrativa. Ma questa non è altro che una rappresentazione ideologica volta a giusti!care una posizione di superiorità. Ponendosi come unici detentori della legittimità, le Forze armate impediscono l’integrazione dei membri della comunità politica nel sistema, soffocano la società e si oppongono all’emergere del concetto di cittadinanza. L’interesse politico dell’esercito è di opporsi alla nascita di uno spazio pubblico. Ed è per questo che i comandanti militari algerini fanno riferimento all’eredità del movimento di liberazione e non all’ideologia repubblicana dello Stato, in cui l’esercito è formalmente un’istituzione al pari delle altre. Ecco quindi emergere la divisione dei poteri in Algeria. Il primo potere è quello sovrano, espresso dai militari: politico, legittimo, non risponde a nessuno; l’altro, amministrativo, con compiti esecutivi, è legittimato dall’esercito e all’esercito stesso risponde. Il potere sovrano incarna la nazione, difende il paese dalle minacce esterne e dal disordine interno. Il potere amministrativo gestisce lo Stato e le risorse economiche: si occupa di accrescerle e distribuirle in modo equo. Il potere che conta di più è il potere della nazione che, a differenza del potere dello Stato, ha un fondamento politico e non amministrativo.

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3. L’Algeria non è uno Stato nazionale. Anzi, la storia dell’Algeria indipendente si fonda su due entità distinte: la nazione e lo Stato. Il secondo è subordinato alla prima. Se in ogni paese la nazione è intesa come un simbolo, in Algeria questo carattere mitologico è ancora più evidente perché riunisce i cittadini non così come sono, ma come dovrebbero essere, ossia secondo l’interpretazione data da diverse correnti ideologiche. In effetti, nel paese nordafricano ci sono molteplici idee di nazione avverse l’una all’altra e capaci di dividere la popolazione. Avviene oggi, avveniva in passato, quando si confrontavano la teoria populista esposta da Aõmad Bin Maâalø al-Õaãã, quella islamista avanzata da ‘Abd al-Õamød Ibn Bådøs e quella più aperta promossa da Farõåt ‘Abbås. L’indipendenza non ha riconciliato i tre padri fondatori dell’Algeria moderna, anzi li ha divisi, alimentando dif!denza e ostilità tra i loro successori. Infatti, ciascuna corrente politica ha la propria idea di na-

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zione che cerca di imporre con la forza. In casi come quello algerino, il multipartitismo non ha prodotto democrazia, bensì intolleranza e violenza. Se in altri paesi l’idea di nazione unisce, in Algeria divide. Perciò l’esercito ha il monopolio del potere, indispensabile per garantire un minimo di pace civile. Le Forze armate incarnano l’idea di nazione e impediscono a chiunque di s!darla. Si politicizzano, rivelandosi così una minaccia strutturale per la stabilità del paese: il controllo dello Stato da parte dell’esercito intende ignorare o rimuovere le divergenze ideologiche esistenti nella società. Altrove, lo Stato incarna la politica. In Algeria lo Stato è solo uno strumento amministrativo. Per evitare che cada nelle mani di una corrente ideologica, l’esercito lo depoliticizza e gli assegna obiettivi tecnici, come la gestione delle risorse economiche e l’amministrazione pubblica. Lo Stato non esprime potere politico né rappresenta esigenze della società, ma è lo strumento che l’esercito af!da alle élite civili per mantenere entro certi limiti la pace sociale. Il rapporto tra la nazione sovrana – incarnata dall’esercito e non dalla società – e lo Stato amministrativo compone il campo politico algerino. Ciascuna istituzione !nisce per operare in una gerarchia imposta dallo Stato, a sua volta subordinato alla nazione. E proprio il mito della nazione – il cui modello in miniatura sarebbe custodito in una cassaforte al ministero della Difesa – schiaccia lo Stato, ormai alle prese solo con la gestione quotidiana di risorse inevitabilmente limitate e accusato di corruzione e incompetenza. Troppo spesso chi ottiene un incarico pubblico non tiene in considerazione l’interesse generale ma sfrutta le opportunità che lo Stato offre per arricchirsi. Così favorisce il clientelismo. Tale situazione svilisce l’immagine che l’opinione pubblica ha dello Stato. Eppure, per ragioni che derivano dalla storia e dal sistema politico locale, l’immagine della nazione rimane intatta. Insomma, gli algerini amano la loro nazione e disprezzano il loro Stato. Gli scontri sociali hanno origine dall’idea di nazione promossa da chi intende riformare lo Stato. Tutti i movimenti, in particolare gli islamisti, intendono conquistare il paese. Sicché si scontrano con l’esercito, che proibisce di rivendicare l’appartenenza alla nazione senza fare riferimento all’esercito stesso. Le Forze armate non sarebbero contrarie alla gestione dello Stato da parte degli islamisti, a condizione che siano loro stesse a incaricarli, dato che sono depositarie del nazionalismo. 4. Lo Stato algerino non è dunque de!nibile attraverso le teorie della scienza politica. Esso non bilancia i tre poteri (legislativo, giudiziario, esecutivo) né promuove l’esercizio giuridico della cittadinanza, perché la partecipazione alla comunità politica non è istituzionalizzata. Af!nché ci sia una cittadinanza attiva è necessaria la partecipazione, dunque una convergenza di nazione e corpo elettorale nell’autorità statale, a sua volta deputata a esercitare una sorta di monopolio nel quadro della separazione dei poteri: questo è lo schema teorico, più o meno realizzato in democrazia. In Algeria l’appartenenza alla nazione è mediata dall’identi!cazione con l’esercito. Le Forze armate s’inseriscono tra la comunità e la nazione, diventano veicolo

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L’ESERCITO, UNICO ARBITRO DI UN PAESE DIVISO

di un immaginario politico in cui sono nazionali e popolari – l’Esercito nazionale popolare (Enp) – perché incarnano la nazione e detengono le prerogative della sovranità popolare. È in virtù di questo duplice titolo che l’esercito rappresenta il potere reale e conferisce allo Stato l’autorità nelle funzioni giudiziarie e legislative. Lo Stato è incapace di garantire la pace sociale proprio a causa della natura del sistema politico, che impone limiti e alimenta con!ittualità. Lo Stato in Algeria non è un arbitro, è un protagonista del con!itto sociale. Un individuo o un gruppo che assume un certo ruolo pubblico sfrutterà la propria posizione principalmente per indebolire i propri avversari e scalare le vette delle gerarchie statali. Tuttavia, in Algeria non emerge mai un solo gruppo. E proprio le Forze armate controllano i diversi enti politici e fanno in modo che, nell’esercizio delle funzioni uf"ciali, le divergenze non emergano. Il ruolo delle Forze armate è così determinato dall’estrema con!ittualità del corpo politico.

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5. Nonostante i tentativi di resistenza da parte di numerosi generali e l’inversione di tendenza registrata nel dicembre 1991 con le elezioni vinte dagli islamisti del Fronte islamico di salvezza (Fis), nel 1989 è stato avviato il ritiro dell’esercito dalla vita politica per favorire una certa autonomia del corpo elettorale. I militari rinunciano a designare i governi, i cui fallimenti in ambito economico e sociale si ripercuotono sull’esercito stesso, rinunciano a occuparsi di ministeri come quello dei Trasporti o del Turismo e si limitano a tracciare una linea rossa da non superare per quanto riguarda la designazione del ministro della Difesa, le promozioni e il bilancio dell’esercito. Il ritiro graduale delle Forze armate dallo Stato ha come obiettivo quello di dissociarsi dai fallimenti di governo così da evitare di assumersi ulteriori responsabilità. Le elezioni presidenziali del 15 aprile 1999 si inseriscono in questa dinamica. Il Dipartimento per le informazioni e la sicurezza, ossia il servizio segreto militare, ha preparato in anticipo le elezioni, escludendo qualsiasi candidato che potesse vincere e sfruttare la sua vittoria contro le Forze armate, poi ha presentato i tre candidati (Abdelaziz Boute!ika, nazionalista; Ahmed Taleb Ibrahimi, conservatore; Mouloud Hamrouche, riformatore) e in"ne ha chiesto a Hocine Aït-Ahmed (presidente dei socialisti) di partecipare alle elezioni. Il regime algerino sta ora dirigendosi verso una semi-democrazia. Sta attraversando una fase di transizione verso la democrazia favorita principalmente da due fattori: la repressione, con le sue conseguenze, e il deterioramento delle condizioni economiche e sociali del paese. La repressione ha indebolito le gerarchie militari, che ora devono tener conto delle opposizioni interne all’esercito. Inoltre, a causa di decisioni spesso illecite, il ruolo delle Forze armate in Algeria ha alimentato campagne di denuncia delle violazioni dei diritti umani da parte di organizzazioni internazionali. Tali attività ledono la credibilità degli uf"ciali militari che, a loro volta, cercano di addomesticare queste organizzazioni. I sette anni di con!itti civili iniziati nel 1992 e de"niti «il decennio nero» hanno poi danneggiato un’economia già in crisi a causa della cronica sottoproduzione e dello spreco di ricchezze.

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Molte aziende statali hanno dovuto chiudere e, anche a fronte di una netta crescita demogra!ca, la disoccupazione è aumentata, le classi medie sono diventate più povere, le condizioni di vita dei più svantaggiati sono peggiorate e la situazione sociale è sempre più dif!cile da controllare. Così, lo Stato è diventato più fragile rispetto al passato, il prestigio simbolico dell’esercito è stato eroso, l’economia è sull’orlo del collasso e la nazione è più divisa che mai. 6. Oggi la situazione è bloccata, le forze in gioco sono divise e tanto gli oligarchi quanto i militari si accontentano di questo status quo. La fragilità del sistema istituzionale algerino risiede interamente nella natura intrinseca del regime, che ha sempre evitato di stipulare un contratto sociale basato sui diritti e sull’alternanza politica. Solo con la vittoria delle Forze armate contro il fondamentalismo islamico, nemico interno per eccellenza, e con la rielezione di Abdelaziz Boute"ika nel 2004 il riposizionamento dell’esercito sulle sue missioni fondamentali (difesa del territorio e della sovranità) è diventato effettivo. Questo processo, risultato anche dello scontro tra Boute"ika e l’alta gerarchia militare, ha portato all’avvento di generali e uf!ciali che non avevano combattuto nella guerra di liberazione. Nonostante ciò, la centralità dell’apparato militare persiste. Non solo a causa di compromessi politici tra le parti, ma anche per garantire la sicurezza interna e gestire le crisi lungo i con!ni meridionali. Le conseguenze del collasso della Jamahiriya libica (la guerra in Mali, la presa di ostaggi nel complesso di In Aménas nel gennaio 2013) rafforzano il ruolo delle Forze armate nel panorama politico algerino. Specialmente nella de!nizione della politica estera del paese, come nel caso della questione del Sahara occidentale e dell’integrazione dell’Algeria nel dispositivo di sicurezza saheliano-maghrebino. Diviene dunque ancor più dif!cile proporre alternative a medio termine nelle relazioni fra civili e militari e nelle divergenti agende nazionali, diventate ora solidali e in"uenzate dal contesto regionale, dalla diffusione delle minacce e dalla volatilità delle relazioni internazionali in via di ride!nizione. (traduzione di Guglielmo Gallone)

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NELLE VISCERE DEL SISTEMA ALGERINO

di

Tarik MIRA

Il ruolo dell’esercito nella costruzione dello Stato. Come il regime ha resistito alle spinte islamiste e democratiche. La repressione dello Õiråk, l’uso politico della giustizia e dei media. L’isolamento internazionale e le tensioni con Francia, Israele e Marocco.

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ETTERE IN DISCUSSIONE IL SISTEMA

algerino è semplice, dato il ruolo palese od occulto delle Forze armate. La realtà, tuttavia, è più complessa. Dalla proclamazione dell’indipendenza, i militari sono stati certamente l’elemento decisivo per la costruzione e la salvaguardia dello Stato, oltre che uno strumento indispensabile nella risoluzione delle crisi e nell’esplorazione di nuove opzioni. Sicché l’Algeria, Stato sovrano da più di sessant’anni, appare ancora un paese malato. Ma il suo sistema di potere, nonostante le molteplici crisi, resiste a tutte le s!de. Il sistema algerino è una miscela di diversi elementi politici, economici, sociali e culturali. Le abbondanti risorse naturali, in particolare petrolio e gas, permettono ancora di mantenere lo Stato sociale, il quale è a sua volta necessario per garantire l’ordine pubblico. Anche la storia viene utilizzata per legittimare il regime, in particolare attraverso una narrazione centrata sulla lotta di liberazione. Il sistema multipartitico esiste solo grazie a elezioni fraudolente, pensate per migliorare l’immagine del paese all’estero. È proprio qui che l’in"uenza del sistema è diminuita, perché la debolezza interna sta avendo dannose conseguenze esterne. Nel complesso, il sistema algerino tende a essere in ritardo rispetto agli eventi. Raramente ne è l’iniziatore. Tale sistema è il prodotto di una storia legata alla costruzione dello Stato, di cui l’esercito è garante indipendentemente dal modello di rappresentanza politica – monopartitico o multipartitico. I diversi sviluppi politici e istituzionali non hanno mai messo in discussione la centralità delle Forze armate nel sistema di potere.

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NELLE VISCERE DEL SISTEMA ALGERINO

Gli inizi della dominazione militare

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È stato nel bel mezzo di un’insurrezione armata contro il colonialismo che i militari hanno preso il sopravvento sui civili. Il principio del primato civile, sancito dal Congresso clandestino di Soummam del 20 agosto 1956, fu spazzato via solo diciotto mesi dopo la sua adozione. Colui che l’aveva concepito, Abane Ramdane, fu sottoposto ai tormenti dell’isolamento e assassinato il 27 dicembre 1957 a Tétouan, nel Nord del Marocco. Un esito tragico ma logico, visto che la resistenza armata (maquis) era sotto il controllo del comando militare. Infatti, anche i commissari politici che avrebbero dovuto essere eletti nelle istituzioni civili erano membri del maquis e si fusero immediatamente con i loro fratelli in armi. Di conseguenza, il primato dei civili sui militari perse di senso: la lotta armata spianò la strada all’esercito, assicurandogli la futura gestione degli affari pubblici. Il destino dell’Algeria indipendente fu deciso all’interno di quell’élite. Grazie alle scelte compiute poco prima e durante i negoziati di Évian con la Francia che portarono all’indipendenza, i capi militari dell’epoca, al comando dei battaglioni di frontiera, garantirono alle Forze armate l’egemonia per il futuro prossimo e remoto. L’esercito di stanza ai con!ni tunisini e marocchini avrebbe infatti imposto il capo dello Stato, rovesciando il presidente dell’istituzione legittima, il governo provvisorio della Repubblica algerina. I rapporti di forza erano sbilanciati: 35 mila soldati delle forze di frontiera contro un numero in!nitamente inferiore di forze interne già decimate dalle operazioni militari francesi nell’ambito del piano Challe (1959-61), destinato a stroncare la resistenza algerina. Contrariamente allo schema classico, in cui il partito unico mantiene l’esercito ai suoi ordini passando per il governo civile, in Algeria il legame tra i due organismi era differente. Le Forze armate erano decisamente più propositive rispetto al partito unico nella costruzione dello Stato nazionale sovrano. Inoltre, nei primi anni dopo il golpe del 1965, il Fln (Fronte di liberazione nazionale) non fu altro che una burocrazia con meri compiti esecutori. La costituzione adottata il 28 agosto 1963 dall’Assemblea costituente venne sospesa. Il ruolo assegnato costituzionalmente all’Armée Nationale Populaire (Anp), che si considerava erede dell’Armée de Libération Nationale (Aln), venne mutato. L’articolo 8 di quella costituzione recitava infatti: «L’Esercito nazionale è popolare. Fedele alle tradizioni della lotta di liberazione nazionale, è al servizio del popolo e agli ordini del governo. Assicura la difesa del territorio della Repubblica e partecipa alle attività politiche, economiche e sociali del paese nel quadro del partito» (corsivo mio, n.d.a.). Di fatto l’Esercito popolare aveva già ampliato le sue competenze, soprattutto in campo economico. La sospensione della costituzione favorirà ulteriormente l’inversione della gerarchia. Il partito unico è nato morto, sepolto dall’Esercito popolare, che si è liberato allegramente della costituzione, scegliendosi i propri diritti e doveri. Il sistema algerino è certamente singolare per alcuni aspetti, ma assomiglia alle esperienze paratotalitarie osservate in diverse ex colonie. La società è con-

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Seconda fase Febbraio 2019

Terza fase Febbraio-marzo 2019

Bab El Oued Quartiere di Algeri epicentro della prima modesta manifestazione

Kherrata, Khenchela, Annaba Manifestazioni contro l’ipotesi del quinto mandato di Boute!ika

Quarta fase 26 marzo 2019

Dimissioni dei sindaci Inizio marzo 2019 Costantina, Guenzet, Amizour

Algeri, Costantina, Orano, Blida, Djelfa, Biskra, Sidi Bel Abbès, Ghardaïa, Tamanrasset Epicentri delle manifestazioni contro l’ipotesi del quinto mandato di Boute!ika Città universitarie coinvolte nelle proteste Béjaïa, Tizi Ouzou, Bouira, Sétif, Boumerdès, Batna, Ouargla, Mostaganem, Médéa

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LE CITTÀ ALGERINE IN RIVOLTA (2018-2019)

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Ouargla Il capo delle Forze armate Ahmed Gaïd Salah chiede e ottiene la rimozione del presidente Boute!ika

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Primo focolaio Dicembre 2018

trollata dal «partito dell’esercito», ovvero da una forza di polizia politica che regola gli equilibri interni di potere ed è custode dell’ortodossia del regime. I servizi segreti erano e restano gli occhi e il braccio secolare dell’esercito. I due organismi lavorano insieme per creare un clima di terrore basato sulla repressione, !no alla liquidazione !sica degli avversari. Gli assassinii di Mohamed Khider (1967) e Krim Belkacem (1971) – fondatori del Fln – sono esempli!cativi dell’atmosfera dell’epoca. In quella fase il governo algerino sembrava !glio del suo tempo. Era protetto a livello internazionale dal prestigio della lotta di liberazione nazionale, che il vertice del sistema riusciva a sfruttare a suo vantaggio. Il tempo della nega-

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NELLE VISCERE DEL SISTEMA ALGERINO

zione e dell’oblio stava però per iniziare. Gli eroi di ieri non dovevano mettere in imbarazzo i leader di oggi. È in tale congiuntura, all’inizio di un lungo processo di legittimazione iniziato con l’introduzione delle elezioni municipali (1967), l’adozione della Carta nazionale (1976) e l’elezione di una nuova Assemblea (1977), che si assiste alla lenta ascesa del partito unico come elemento centrale del sistema istituzionale. Tuttavia, l’Esercito popolare era rappresentato nel Comitato centrale e nell’Uf!cio politico del Fln. Il suo leader era presidente della Repubblica e ministro della Difesa. La legittimità del potere si basava sul nazionalismo – trionfante in questa fase di decolonizzazione globale – e sulla capacità dello Stato di garantire sviluppo. I risultati economici e le conquiste sociali nei settori della sanità pubblica e dell’istruzione di massa, sostenuti da una retorica antimperialista, hanno in!ne conferito stabilità al sistema legittimandone le istituzioni. Pur avendo fondato istituzioni stabili, l’esercito aveva al suo attivo già due colpi di Stato: contro il governo provvisorio della Repubblica algerina e contro l’autorità legale sancita dal voto popolare, ovvero il governo del presidente Ben Bella. Confermando quanto la violenza fosse endemica nel sistema politico e istituzionale algerino: l’uomo che incarnava l’esercito era lo stesso che aveva normalizzato la pratica del colpo di Stato. Ma nel 1979, con la morte di Houari Boumédiène, si chiudeva una fase e se ne apriva un’altra. Su cosa si basava il sistema in quel periodo storico? Senza dubbio sulla centralità dell’esercito nel gioco politico e sul controllo dello Stato e della società da parte dei servizi. Il partito unico fu inizialmente emarginato prima di essere pienamente ripristinato a metà degli anni Settanta. Situazione a dir poco inedita, che sottolineava il predominio dei militari sulla politica. Quasi vent’anni dopo l’indipendenza, il potere dell’esercito e l’impunità del regime rendevano il governo algerino immune da qualsiasi critica all’estero o in patria. Lo Stato nazionale algerino era addirittura celebrato come modello per il Terzo Mondo. Tuttavia, cominciavano a intravedersi le prime contraddizioni, esplose dopo la morte di Boumédiène. Alla !ne del 1979, l’avvento di Chadli Bendjedid – primus inter pares – segnò la prima svolta. Egli si affermò all’interno dell’establishment militare perché era l’uf!ciale più alto in grado, perciò delegato dai suoi pari a prendere il potere. Ennesimo segno che in Algeria le elezioni presidenziali si svolgono innanzitutto tra i ranghi dell’esercito. Questo periodo fu caratterizzato dall’unità d’intenti tra le due istituzioni militari: l’esercito e i servizi segreti. Intanto sul fronte economico veniva autorizzata un’apertura controllata.

Metodo rinnovato

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La ventennale stretta alle libertà era legittimata dall’ascesa sociale di un’intera élite burocratica (amministrativa ed economica) e dal miglioramento della situazione sociale degli algerini nel loro complesso. Lo sgretolamento di questa congiuntura

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scatenò aspirazioni di cambiamento e diede vita a una nuova corrente politica: l’islamismo. Emersero dunque due movimenti – l’islam politico e la democrazia – che, per quanto agli antipodi, volevano entrambi la !ne del regime. Il massacro conseguente ai moti dell’ottobre 1988 accelerò gli eventi. La conseguenza immediata fu l’introduzione di un sistema multipartitico attraverso la revisione della costituzione del 1977. Opzione rivoluzionaria che avrebbe dovuto portare pace e libertà. Tuttavia, la netta vittoria della corrente islamico-totalitaria alle elezioni municipali (1990) e a quelle legislative (1991) portò i militari, i servizi e le forze civili a impegnarsi direttamente per impedire l’ascesa al potere degli islamisti. Costoro non avevano mai fatto mistero del loro obiettivo: sottomettere il paese alla legge religiosa, come sancito dalle urne. L’Algeria era sull’orlo del precipizio. La massiccia repressione che ne seguì fu una novità nell’arena pubblica nazionale, come anche l’emergere del terrorismo. Una violenza senza precedenti pervase sia lo Stato sia la società, causando la morte di decine di migliaia di persone, civili compresi. Il modello algerino, che coniugava retorica antimperialista, pratiche sociali vantaggiose e annientamento delle libertà, si disintegrò. Il sistema divenne oggetto di costante denuncia da parte delle associazioni per la difesa e la promozione dei diritti umani. Fu necessario un nuovo processo di legittimazione. Lo Stato si mise a disposizione del regime per salvare il sistema nel suo complesso, come dimostrato dall’ascesa al potere di Boute"ika. Quest’ultimo accelerò la trasformazione della società consolidando l’alleanza tra i diversi partiti creati al suo interno e le formazioni islamiste. Insomma, si passò da un partito unico a una coalizione di partiti unici. Allo stesso tempo, il potere decisionale, precedentemente in mano al ministero della Difesa, tornò alla presidenza. Operazione senza precedenti. Per la prima volta dall’inizio della lotta al terrorismo, i servizi vennero svincolati dal loro storico tutore: l’esercito. Inoltre, l’esigenza di stabilità istituzionale prese il sopravvento sul progetto democratico. Le conquiste ottenute nell’ultimo decennio vennero gradualmente messe in discussione. La nuova fase fu segnata dall’ascesa degli oligarchi, ovvero coloro che in genere vivono sulle spalle del governo per bene!ciare degli appalti pubblici. Il legame tra potere politico e ambienti !nanziari diventò chiaro ed evidente. L’élite oligarchica assunse un atteggiamento sostanzialmente ma!oso. La corruzione entrò in maniera palese nella vita pubblica. Le analogie con il sistema russo sono inquietanti. Quel periodo fu caratterizzato dagli abusi di potere, dall’alto costo della vita e dall’arricchimento illecito. Tutti fattori che diedero energia alla società civile, che a sua volta si radicalizzò sotto lo slogan «yetnahaw gaa» («cacciateli tutti»).

L’irruzione dello Õiråk e la repressione Nel 2019-20 sale alla ribalta una protesta sociale contro il sistema di potere segnato da conservatorismo politico, in"essibilità ideologica, isolamento storico e geopolitico, prevaricazione economica. È il Movimento (Õiråk). Ondata di manifestazioni senza precedenti che chiede un cambiamento democratico radicale. Anche questo

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NELLE VISCERE DEL SISTEMA ALGERINO

è un nuovo sviluppo, in cui si coagulano più di trent’anni di storia. L’inaspettato successo delle rivolte popolari, almeno quanto a partecipazione di massa, mostra la portata dell’opposizione al regime, su cui pesano le cause sopra citate e, in modo meno visibile, la perdita di prestigio internazionale. Fattore assolutamente strategico. Le richieste del Movimento sono ampiamente consensuali, incentrate su due slogan: «per uno Stato civile e non militare» e «per un’Algeria libera e democratica». Ci sono alcuni punti da notare: innanzitutto, il Movimento, almeno nei suoi slogan, non ha matrice islamica; poi, il ruolo dei social nella mobilitazione popolare; in!ne, lo spirito civico che anima i manifestanti. Di fronte a questo fenomeno popolare e paci!co, cosa possono fare le autorità? La crescita e l’estensione delle manifestazioni acuiscono le contraddizioni nella classe dirigente, che ha sempre voluto tenere l’esercito lontano dai ri"ettori. Per affrontare il Movimento, il sistema ricorre a due strumenti tipici della sua natura autoritaria: la strumentalizzazione della giustizia e la repressione di massa. Gli articoli speciali del codice penale (l’87 bis che estende l’accusa di terrorismo e l’87 bis 13 che istituisce una lista di terroristi) precedono e accompagnano la grande repressione. Gli arresti si susseguono su vasta scala. La strumentalizzazione della giustizia a favore del clan più potente del momento e la repressione totale permettono ancora una volta al sistema di sopravvivere a un destino oscuro. Ministri, generali e membri dell’oligarchia politico-!nanziaria sono arrestati. Centinaia di oppositori sono imprigionati ed etichettati come separatisti della Cabilia o terroristi islamici. Oltre a ottenere de facto il monopolio dell’informazione, ormai ridotta alla glori!cazione del regime, il sistema mette la stampa alle strette. Uno degli ultimi esempi è la sentenza emessa a carico del giornalista El Kadi Ihsane, condannato a sette anni di reclusione, due dei quali sospesi. L’arbitrarietà è la chiave di volta del controllo sulla stampa, ricattata dalla supervisione che il regime esercita sulle inserzioni pubblicitarie destinate ai media. Molte testate cedono. L’uso politico della giustizia, intrinsecamente arbitrario, è tipico dei governi autoritari, avversi allo Stato di diritto. Il risultato è una deriva che sta avvicinando l’Algeria a quei sistemi illiberali in cui le forme democratiche (il voto) esistono, ma il resto del sistema è basato sulla continua violazione di ogni regola di correttezza e uguaglianza. Il sistema si ostina a usare metodi autoritari per risolvere problemi politici. Di fronte alle rivolte popolari risponde con concessioni economiche miste a repressione e arbitrio giudiziario. Non con la negoziazione. Un processo di transizione paci!co, insomma, non è un’opzione.

Indebolimento internazionale

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Ogni volta che il potere viene s!dato, questo punta il dito contro i nemici esterni. Anzitutto Francia, Marocco e Israele. In termini regionali e mediterranei, il sostegno della Spagna al Marocco è, per Algeri, una cattiva notizia. L’accordo

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israelo-marocchino costituisce poi una minaccia reale alla sicurezza del paese in caso di guerra tra i due vicini. Oggi assistiamo a una recrudescenza del nazionalismo. L’inizio del dibattito sulla legittimità della nazione algerina – esisteva prima dell’invasione francese? – ha rivelato un’insospettabile fragilità delle autorità e delle élite di fronte a una questione certo delicata ma non irrisolvibile. Nel 2021, il raccoglimento dell’allora ministro degli Esteri Ramtane Lamamra sulla tomba di Giugurta durante la sua visita a Roma è un’esibizione teatrale che impedisce di interrogarsi obiettivamente sulla nostra storia passata e presente. La dura risposta del governo algerino al presidente francese Macron, secondo il quale l’Algeria esiste in virtù di un «af!tto della memoria», è anche un modo per fare pressione su Parigi perché espella gli oppositori. Sembra che questa volta la frattura tra i due paesi sia signi!cativa. La guerra in Ucraina, tuttavia, sta rimescolando le carte. Il sistema, duramente colpito durante il decennio di sangue, sta riprendendo vigore. È candidato a entrare nei Brics, ma aderire a quel gruppo non è scelta neutra. L’indebolimento dell’Algeria sulla scena internazionale, dove un tempo godeva di prestigio e ampio sostegno, è un fattore signi!cativo specie in proiezione futura. In conclusione, che cos’è lo Stato in Algeria? È un Moloch che sa proibire, reprimere, frodare, concedere, corrompere, esiliare e deviare la legittimità senza rinunciare all’essenziale: mantenere il potere e controllarlo !no in fondo. Oltre che sulle Forze armate il sistema può contare su un’altra assicurazione sulla vita: le rendite energetiche, che gli permettono di mantenere la sua autorità. Esercito e idrocarburi sono i due pilastri di un sistema che sta fallendo, come testimoniato dal fatto che sempre più cittadini decidono di fuggire o di autoesiliarsi. Il Moloch algerino è ancora assetato di potere, nonostante la gerontocrazia. La giovane e dinamica società civile avrà la meglio sul regime? La partita è iniziata. (traduzione di Giuseppe De Ruvo)

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REGION DI STATO LE RADICI TERRITORIALI DEL POTERE IN ALGERIA

di

Marcella MAZIO

Il presidente della Repubblica esprime clan e aree geopolitiche differenti, sempre sotto il controllo dell’esercito. Il pendolo parte dall’Ovest, volge all’Est e torna indietro con Tebboune. L’equilibrio tra militari e civili ha le sue regole non scritte, revocabili dai primi.

L’

1. ESERCITO NAZIONALE POPOLARE (ANP nell’acronimo francese), che comprende le Forze armate terrestri, navali e aeree, domina il sistema politico algerino sin dall’indipendenza. Al contempo, l’Algeria indossa un abito civile di tutto rispetto. È dotata di istituzioni democratiche, di una costituzione e di un ordinamento giuridico moderni. Ma il predominio dell’esercito è evidente: l’unico presidente nella storia del paese a non essere stato destituito dai militari è stato il colonnello Boumédiène. Quanto alla resilienza della classe politica, essa è spesso attribuita all’esistenza di potentissimi clan presidenziali, da ultimo l’onnipresente «clan Boute!ika». Effettivamente, ogni presidente algerino ha trascinato con sé nelle stanze del potere numerosi clientes e familiari. Queste élite politiche non sono il frutto di elezioni libere, bensì della cooptazione da parte degli apparati militari. L’imperium risiede quindi irrimediabilmente nell’Anp e il radicamento di apparenti clan civili ri!ette i ben più concreti equilibri e con!itti di potere tra fazioni militari. Il meccanismo di cooptazione è palese nella scelta del presidente della Repubblica. Fino all’èra Boute!ika gli apparati militari votavano nelle caserme, a porte chiuse, un candidato scelto dal collegio dei pretoriani e spesso proveniente dai ranghi dell’esercito stesso. Al suffragio universale, il potenziale presidente si offriva già forte di una maggioranza relativa. La scelta dei militari appare dettata dal compromesso. Un’analisi più puntuale dimostra che essa ricade su personalità in grado di assicurare all’Anp i suoi obiettivi principali: l’ammodernamento degli apparati bellici e l’integrità territoriale. L’Algeria è un regime militare sui generis. L’esercito non è direttamente impegnato nel processo decisionale. Persino nell’èra Boumédiène, quando a governare era un organo pretoriano, i civili hanno partecipato al governo. Tale dualismo nell’esercizio del potere permette ai militari di perseguire i propri interessi e di

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REGION DI STATO: LE RADICI TERRITORIALI DEL POTERE IN ALGERIA

intervenire esclusivamente se il potere civile rischia di uscire dal tracciato. Lo Stato incarna il potere formale e l’esercito il potere reale. Per essere tale, il potere reale deve esercitarsi a livello infrastrutturale sulle comunità territoriali. Di qui, il movente regionale nella scelta dei capi di Stato. Come ricorda il generale Khaled Nezzar: in Algeria «il regionalismo è stato eretto a ragion di Stato» 1. La cooptazione delle élite politico-militari algerine è guidata, in ultima analisi, da esigenze di controllo territoriale. La storia del paese registra un progressivo spostamento della base regionale degli uomini di Stato dall’Ovest, al con"ne con il nemico Marocco, verso l’Est, terra di agitazione politica, rivendicazioni indipendentiste e strenua resistenza all’islam politico. E ritorno. 2. L’intricato dualismo tra autorità politica e forza militare risale alla divisione consolare del potere nella guerra di liberazione nazionale (1954-62) tra governo provvisorio della Repubblica algerina (Gpra) ed Esercito di liberazione nazionale (Aln). Il Gpra viene de"nitivamente sconfessato con la nascita dell’Anp, frutto di una dif"cile fusione tra le armate di frontiera di stanza in Tunisia e Marocco e i maquisards (partigiani) attivi nella guerriglia urbana. L’esercito algerino non è un monolite, ma si articola in tre strutture relativamente autonome: la Sicurezza militare – oggi Dipartimento per le informazioni e la sicurezza (Drs) – sotto la presidenza della Repubblica, i distretti militari e la gendarmeria nazionale. Nel 1963, l’Anp sostiene la presidenza di Ahmed Ben Bella, originario della provincia di Tlemcen, al con"ne con il Marocco. Attorno a Ben Bella sembra strutturarsi un primo potente clan. In realtà, la guida del paese gli è garantita dal capo di Stato maggiore e ministro della Difesa Houari Boumédiène. Nato a oriente – letteralmente dall’altra parte del paese – il colonnello Boumédiène è il leader del clan di Oujda, città marocchina quartier generale dell’Aln. Strategicamente, Boumédiène si circonda di militari e "gure politiche dell’Ovest per consolidare i con"ni della neonata Algeria, così come de"niti dalla «guerra delle sabbie» contro il Marocco. Il predominante clan di Oujda circonda Ben Bella di personalità politiche a lui distanti. Il presidente tenta di liberarsene, ma è destituito con un colpo di Stato nel 1965 proprio da Boumédiène. Solo due anni prima, il colonnello gli aveva consegnato l’imperio. È interessante notare come in Algeria il processo di sostituzione dei capi di Stato, punta dell’iceberg dei rapporti di forza all’interno dell’esercito, si svolga paci"camente. All’epurazione dell’entourage di Ben Bella sopravvive il ministro degli Esteri Abdelaziz Boute#ika. Nato proprio a Oujda e cresciuto sotto l’ala di Boumédiène, pur non essendo un militare di carriera diventerà presidente della Repubblica nel 1999. Nell’èra Boumédiène (1965-1978) governa il Consiglio della rivoluzione. Il regime è, tuttavia, semi-militare poiché il potere è anche in mani civili, come nel caso di Boute#ika. Ulteriore prova della natura bicefala del sistema politico algerino,

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1. Cfr. K. NEZZAR, Algérie: échec à une régression programmée, Paris 2001, Publisud.

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ALGERI E LE ALGERIE

Mar Mediterraneo

S PAG N A

ALGERI Tizi Ouzou

Oceano Atlantico

1

Orano Médéa Oujda E N T A L A T

M A R O C C O Béchar

Annaba

2 Costantina Batna

I A N O H A R S A

TUNISIA Ghardaïa

Ouargla

A L G E R I A Tindouf

LIBIA

In Salah MAURITANIA

Djanet Con!ni statali Con!ni dei wilayat (dipartimenti) 1 Grande Cabilia 2 Piccola Cabilia Nord e Algeri M A L I Grande Sud Area di movimento dei tuareg Aree berbere/berberofone

Tamanrasset

NIGER

dominato dai pretoriani ma ancorato alla sua natura repubblicana. Boumédiène garantisce stabilità al paese, riorganizzando le unità dell’esercito in modo che nessuna possa prendere il sopravvento sull’altra. Nel 1976, af!evolisce ulteriormente la pressione militare assumendo il titolo di presidente della Repubblica e promulgando una nuova costituzione. 3. Alla morte del colonnello, i con"itti interni mai sopiti mettono in crisi gli apparati militari e quindi la tenuta istituzionale del paese. Ad interim sono i civili a mantenerla: nel 1978-79 è Rabah Bitat; nel 1992, alla vigilia della guerra civile, sarà Abdelmalek Benhabyles. La storica lotta tra esercito di frontiera e guerriglieri della liberazione nazionale evolve nella competizione tra i «disertori dell’esercito francese» (Daf) e lo zoccolo duro dell’Aln. Uno scontro già in nuce all’indomani

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REGION DI STATO: LE RADICI TERRITORIALI DEL POTERE IN ALGERIA

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dell’indipendenza e disinnescato da Boumédiène, che riteneva le competenze tecnico-tattiche dei Daf il compimento necessario al mito incarnato dai mujåhidøn. Al IV congresso del Fronte di liberazione nazionale (Fln) accordarsi sul futuro presidente è particolarmente dif!cile. La scelta naturale ricadrebbe su Boute"ika, che però è inviso ai Daf. Non godendo di altrettanta legittimità mitica, gli ex soldati coloniali vi vedono un ostacolo alla loro scalata ai vertici dell’esercito. La scelta ricade sul «più anziano tra i militari di più alto rango»: il colonnello Chadli Bendjedid, primo leader politico a non provenire dai gruppi canonici, occidentali, di potere. Come per Ben Bella, saranno gli stessi militari che lo hanno portato al potere a destituirlo. Gli anni della presidenza di Chadli Bendjedid (1979-92) ride!niscono le priorità territoriali dello Stato algerino, comportando un ricambio dell’élite al potere. Rivolte in Cabilia minacciano la tenuta territoriale del paese e offrono al presidente i pieni poteri, necessari a epurare il regime da tutti i baroni a lui non fedeli e ormai anacronistici. A lungo concentrato all’Ovest, il potere comincia lentamente a spostarsi verso la Cabilia, quindi nell’Est del paese, da dove proviene Chadli stesso. Parallelamente, l’esercito ripiega su stesso. I generali formatisi nelle Forze armate coloniali, in particolare Abdelmalek Guénaïzia, promuovono l’ammodernamento tecnico degli apparati bellici. L’emergere dell’islam politico fa scricchiolare la democrazia di facciata. Le rivolte dell’ottobre 1988 portano all’indizione di elezioni multipartitiche. La vittoria elettorale del Fronte islamico di salvezza (Fis) nel giugno 1991 smentisce l’apparente ritiro dell’Anp dalla politica: l’esercito depone Chadli e dichiara lo stato di emergenza. I militari si organizzano nell’Alto comitato di Stato, anch’esso dotato di un abito civile: è presieduto da Mohamed Boudiaf, insieme ad Ali Haroun e Tidjani Hadam. Di questi storici esponenti dell’Fln i militari dubitano presto: nel 1992, Boudiaf viene assassinato dalla sua stessa guardia del corpo. Durante il decennio nero (1992-02), l’esercito è dominato dalla corrente modernista e laica dei Daf: Khaled Nezzar, ministro della Difesa; Abdelmalek Guénaïzia, capo di Stato maggiore; Mohamed Médiène, capo del Drs; Mohamed Lamari, capo delle Forze terrestri. La presa che l’Anp esercita oggi sulla popolazione è eredità del consenso che i militari si guadagnano negli anni Novanta. La causa dello «sradicamento» dell’islam politico è sposata da buona parte della società civile. I partiti di opposizione, i movimenti cabili e gli islamisti moderati, invece, cercano il dialogo nella cosiddetta piattaforma di Sant’Egidio. Presso la Comunità a Roma, nel 1995, si raggiunge un primo accordo per la riconciliazione nazionale. L’esercito-garante, seppur convinto «eradicatore», propone un presidente moderato. Dopo il ri!uto di Boute"ika, si opta per il generale Liamine Zéroual (1994-1999). Di origini berbere, nato nell’Aurès, Zéroual segna l’emergere di una nuova classe dirigente, reclutata nel Nord-Est. In Cabilia e nelle wilåyat berbere, il Fis ha ottenuto minore consenso: la resistenza agli islamisti è più dura e i loro attacchi più frequenti. La cooptazione di Zéroual e dei chaoui, popolazione berberofona dell’Aurès, permette un maggior controllo sul territorio.

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4. La !ne del con"itto tra militari e islamisti vede la prevista ascesa al potere di Abdelaziz Boute"ika. Uomo della rivoluzione e dell’indipendenza, membro eminente del clan di Oujda, distintosi per le sue eccellenti capacità diplomatiche e primo presidente civile della storia del paese, Boute"ika resta al potere per vent’anni. Con lui l’esercito ambisce a riconquistare uno spazio chiave per l’Algeria: la scena internazionale. Boute"ika riesce a ripristinare la credibilità del paese – e del suo esercito – dopo anni di embargo morale. L’attentato alle Torri Gemelle (2001) ripropone con estrema serietà la necessità di modernizzare l’esercito, af!nché l’Algeria possa cooperare militarmente con Nato e Stati Uniti. Nonostante a Boute"ika sia stato spesso attribuito l’allontanamento dell’esercito dalla politica, i suoi mandati si contraddistinguono per la profonda interdipendenza tra i due poteri. La legittimità storica del presidente favorisce la professionalizzazione degli apparati militari. Il portafoglio della Difesa, sotto il suo diretto controllo, garantisce all’Anp un budget pressoché illimitato. L’esercito smette di governare e torna a essere il deus ex machina della politica. Con l’allontanamento di Nezzar, Zéroual e del fedelissimo Guénaïzia, !nisce il dominio politico dei chaoui. Il potere torna progressivamente nelle mani dei clan dell’Ovest. Con delle eccezioni: la guida dell’Anp è af!data al generale Ahmed Gaïd Salah, originario dell’Aurès e la cui rete locale nella regione di Jijel era stata chiave per smantellare le cellule dell’Esercito islamico di salvezza. Le élite politico-militari cabile sono invece conservate dal potere. D’altronde, è sotto Boute"ika che i movimenti indipendentisti si radicalizzano e avviene la rottura con le popolazioni berbere. I legami regionali di personaggi come Mohamed Touati, consigliere alla presidenza nato a Tizi Ouzou, diventano essenziali per preservare l’integrità territoriale del paese. 5. Durante lo Õiråk, il generale Salah destituisce Boute"ika con i suoi familiari e clientes, tra cui gli oligarchi Redha Kouninef e Ali Haddad. Probabilmente, il clan civile più in"uente nella storia dell’Algeria. Non sorprende che come suo successore l’esercito abbia pensato ad Abdelmadjid Tebboune, vecchia conoscenza del potere. Vicinissimo a Salah, il nuovo presidente è un uomo politico a tutto tondo. Nell’èra Boute"ika, ricopre diversi incarichi governativi. La sua carriera colpisce per il forte impegno territoriale. Inizia come segretario generale delle wilåyåt di Djelfa (a sud di Algeri) e di Adrar (nel Sud-Ovest). Dopo la morte di Boumédiène, Tebboune amministra le wilåyåt di Blida (Centro-Nord) e M’Sila (al con!ne con la Cabilia). Dal 1983, è wølå (prefetto) di Adrar e di Tiaret (Centro-Nord). Quando il Fis vince le elezioni, è prefetto a Tizi Ouzou, wilåya dall’identità berbera particolarmente marcata. Durante il decennio nero esce di scena. È richiamato da Boute"ika come ministro delegato alle collettività locali. Dal 2001 al 2007 è ministro per la Piani!cazione urbana. Sebbene sottoposta anch’essa all’investitura dell’Esercito, la presidenza di Tebboune sembra segnalare un cambiamento nelle scelte di cooptazione. La carriera del presidente, tutta civile, ri"ette l’obiettivo militare cardine dell’integrità territoria-

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REGION DI STATO: LE RADICI TERRITORIALI DEL POTERE IN ALGERIA

le, ma interpretato in chiave squisitamente politica. La sopravvivenza del sistema politico algerino risiede nella triade Stato-potere formale, Esercito-potere reale più tenuta territoriale. Con Tebboune e dopo Boute!ika, assistiamo al primo vero tentativo di delega dell’impegno territoriale da parte dell’Anp. Tentativo tutt’altro che de"nitivo. Se il potere civile si dimostrasse ancora immaturo, la storia dell’Algeria insegna che l’esercito non tarderà a intervenire.

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NON SOLO GAS L’INTESA STRATEGICA TRA ROMA E ALGERI

di

Mouloud HAMAI

La cooperazione in campo energetico è la base per un forte partenariato fra Italia e Algeria. L’importanza della dimensione industriale per approfondire un’intesa che può ridisegnare il Mediterraneo occidentale. Nonostante la Francia.

L’

1. ITALIA HA SEMPRE GODUTO DI UN’IMMAGINE positiva in Algeria, essendo al contempo un paese sviluppato, industrializzato e membro del G7 e un paese dell’Europa meridionale con strette af!nità geogra!che e culturali. Inoltre, le rovine romane di Timgad, Tipasa, Djémila, Cherchell e le piramidi di Frenda, straordinariamente ben conservate, testimoniano una storia comune. L’Algeria è un museo romano a cielo aperto, dal momento che il «periodo romano» è durato quattro secoli e mezzo ed è stato il più lungo della storia del paese. Inoltre, in quanto Stato euromediterraneo, l’Italia ha costantemente cercato di conciliare l’appartenenza al continente europeo con la collocazione mediterranea. I semi di questa relazione sono stati gettati grazie al sostegno offerto all’indipendenza algerina da alcuni partiti politici e personalità italiani, tra cui il capo dell’Eni Enrico Mattei, che ri!utò di partecipare alle esplorazioni nel Sahara algerino !no a che il paese non avesse ottenuto l’indipendenza. Mattei fornì anche assistenza tecnica in materia di idrocarburi alla delegazione algerina che negoziava gli accordi di Évian con la Francia. Alcuni partiti politici italiani formarono un comitato di sostegno alla pace in Algeria e offrirono supporto materiale e !nanziario al Fronte di liberazione nazionale (Fln) e ai rifugiati algerini. Nel 1998, l’Italia è stata anche il primo paese occidentale a rompere l’embargo de facto imposto all’Algeria durante il decennio nero della lotta al terrorismo, grazie a una visita uf!ciale del suo ministro degli Esteri. Quella visita innescò una dinamica tra i paesi occidentali, in particolare europei, che portò al graduale superamento dell’isolamento cui Algeri era stata sottoposta per anni. Con il ritorno alla normalità, Algeria e Italia !rmarono nel gennaio 2003 un trattato di amicizia, cooperazione e buon vicinato volto a stabilire un partenariato privilegiato: un modello di cooperazione tra le sponde Nord e Sud del Mediterraneo. Tale accordo era basato sull’introduzione di un meccanismo simile a quello

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NON SOLO GAS. L’INTESA STRATEGICA TRA ROMA E ALGERI

in vigore tra l’Italia e i suoi principali partner europei. Bisogna sottolineare che Roma non aveva mai stipulato un accordo di tal genere con un paese nordafricano. È stato in parte a causa di a questa operazione, ma soprattutto grazie alle complementarietà economiche tra i due paesi, che l’Italia è diventata uno dei più importanti partner economici dell’Algeria, mantenendo per diversi anni la posizione di primo cliente e terzo fornitore, nonostante il persistente de!cit della sua bilancia commerciale. Tale squilibrio è stato gradualmente temperato anche grazie al trattamento di favore riservato alle imprese italiane per ridurre il de!cit commerciale, che in effetti presentava un palese squilibrio a favore dell’Algeria di 5,5 miliardi di dollari, riconducibile alla natura degli scambi tra i due paesi, che vertono essenzialmente sugli idrocarburi. Dal 1983, infatti, il metano algerino si dirige verso l’Italia attraverso al gasdotto Enrico Mattei, vero e proprio cordone ombelicale che collega i due paesi attraverso la Tunisia. Il 96% del gas che vi viene trasportato è riservato all’Italia. Data la crescente domanda di gas da parte di Roma, la costruzione di un secondo gasdotto italo-algerino attraverso la Sardegna, noto come Galsi, è stata prima presa in considerazione e poi rinviata per la riluttanza di Eni. Il progetto è stato rilanciato nel marzo 2005 ed è diventato oggetto di un accordo intergovernativo !rmato ad Alghero in occasione del primo vertice italo-algerino, il 14 novembre 2007. Tuttavia, gli ulteriori tentennamenti italiani hanno portato al rinvio del Galsi. Nei primi anni Duemila, infatti, l’Italia e l’Unione Europea guardavano con favore soprattutto al progetto del gasdotto trans-anatolico (Tanap) noto come «corridoio sud», che avrebbe dovuto trasportare il gas dell’Azerbaigian a Bulgaria, Grecia e quindi Italia tramite la condotta transadriatica (Tap). Intanto, Bruxelles sviluppava il progetto di un altro gasdotto, noto come Nabucco, che avrebbe dovuto collegare l’Unione Europea a fonti di gas naturale nel Mar Caspio e in Medio Oriente. L’obiettivo era diversi!care e rendere più sicure le fonti di approvvigionamento e le rotte europee al !ne di ridurre la dipendenza da Mosca, considerata inaf!dabile già al momento della prima crisi ucraina e dell’annessione della Crimea, nel 2014.

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2. Tutte queste oscillazioni, consuete e tollerate nelle relazioni commerciali, rientrano ovviamente nella logica secondo cui gli Stati sono mossi, giustamente, dai loro interessi nazionali, che però si evolvono e si modi!cano, se necessario, a seconda della situazione. L’attuale congiuntura è favorevole al rilancio del progetto Galsi, che ha la capacità di trasportare 8 miliardi di metri cubi di gas naturale all’anno. Il rilancio di questo progetto è stato confermato durante la visita in Algeria del presidente del Consiglio italiano Giorgia Meloni, nel gennaio 2023. È innegabile che la guerra in Ucraina abbia cambiato i parametri di analisi e le opportunità di investimento nel settore energetico. I dirigenti italiani ed europei, che hanno bisogno di ulteriore gas algerino, sono ora disposti a investire maggiormente nel settore. Inoltre, questo secondo gasdotto, il cui scopo primario è quello di rifornire l’Italia di gas supplementare, ha anche il vantaggio di poter trasportare alternativamente idrogeno e ammoniaca.

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La volontà espressa dall’Unione Europea di affrancarsi de!nitivamente dalla dipendenza dagli idrocarburi russi a causa della guerra in Ucraina offre all’Algeria un’occasione storica per consolidare le sue relazioni energetiche con l’Italia e con l’intera Europa. Senza che questo possa essere interpretato come mancanza di solidarietà nei confronti di qualcuno. A questo proposito, va ricordato che i rinvii del progetto Galsi sono in gran parte imputabili ai tentennamenti di Roma e di Bruxelles, oltre che alla concorrenza del gigante russo Gazprom, tanto dura e ostinata quanto tradizionale e accettata in ambito commerciale. Inoltre, da più di un decennio è in programma un secondo collegamento con l’Italia per l’installazione di un cavo elettrico sottomarino che consentirà di costruire centrali solari nel deserto e di trasportare l’elettricità in Europa. Esiste poi un progetto per calare un secondo cavo sottomarino al !ne di condurre l’idrogeno verde in Italia e in Europa attraverso un nuovo gasdotto, il SoutH2Corridor, che offre un collegamento di 3.300 km con una capacità di 4 milioni di tonnellate di idrogeno verde all’anno. La prima a bene!ciarne sarebbe l’Italia, seguita da Germania, Austria e senza dubbio da altri paesi nel prossimo futuro. La posta in gioco geopolitica è evidente: il SoutH2Corridor algerino-italiano sta emergendo come potenziale concorrente del progetto europeo sull’idrogeno H2Med – avviato da Francia, Spagna e Portogallo – che dovrebbe collegare Barcellona a Marsiglia per poi giungere in Germania. Questo collegamento mira a sviluppare l’uso dell’idrogeno nel continente europeo. Il suo completamento è previsto nel 2030. 3. La cooperazione energetica è alla base dei rapporti italo-algerini, come ampiamente confermato l’11 aprile 2022 dalla conclusione di un accordo per la consegna dei quantitativi supplementari di gas richiesti dall’Italia. L’intesa è stata raggiunta in tempi record: 45 giorni, durante i quali i massimi dirigenti italiani si sono recati ad Algeri. Tra gli altri, il presidente del Consiglio, il ministro degli Esteri e alti dirigenti di Eni. L’accordo prevede la consegna di ulteriori nove miliardi di metri cubi di gas all’anno a partire dal 2023-24, facendo dell’Algeria il primo fornitore gasiero dell’Italia con il 40% delle importazioni, così sostituendo la Russia in questa posizione. Inoltre, Eni ha !rmato con l’azienda energetica algerina Sonatrach un ulteriore accordo che prevede lo sviluppo di due progetti per la produzione di energia elettrica da fonte solare nel Sud dell’Algeria, attraverso la costruzione di un Solar Lab e di una centrale fotovoltaica da 10 MW. Questo miglioramento dei rapporti energetici si è immediatamente tradotto in un notevole aumento del volume degli scambi commerciali tra i due paesi, stimato, secondo le fonti, tra i 16 e i 20 miliardi di dollari nel 2022. Grazie a tali progetti, Algeria e Italia mirano a un riposizionamento strategico nel Mediterraneo occidentale, considerato un importante spazio energetico per la commercializzazione e l’instradamento di diverse fonti di energia. In futuro, questo hub

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NON SOLO GAS. L’INTESA STRATEGICA TRA ROMA E ALGERI

potrebbe includere il gigantesco progetto del gasdotto trans-sahariano (Tsgp), che mira a collegare i giacimenti di gas naturale nigeriani all’Europa attraverso il Niger e l’Algeria, con una capacità di consegna annua stimata in 30 miliardi di metri cubi. Il consolidamento delle relazioni italo-algerine, celebrato ad Algeri con grande entusiasmo, non ha dissuaso Roma dal continuare a diversi!care le proprie fonti di approvvigionamento e a cercare altri fornitori di energia. In particolare, l’Italia si è mossa in Azerbaigian (con cui è già collegata da un gasdotto) e in Africa, dove nell’aprile 2022 ha !rmato accordi per la fornitura di gas con l’Angola e il Congo, a integrazione di quelli precedentemente siglati con Mozambico ed Egitto. In de!nitiva, l’attuale situazione geopolitica offre all’Algeria un’occasione storica per consolidare il suo rapporto con l’Italia, nel momento in cui anche Roma intende stringere ulteriormente queste relazioni. Ovviamente, al centro vi è la cooperazione in campo energetico. Ma la congiuntura offre all’Italia anche una base sostanziale per instaurare relazioni più strette con un partner strategico af!dabile e già impegnato nel campo della sicurezza, soprattutto per quanto riguarda la lotta al terrorismo e all’immigrazione clandestina. Tuttavia, l’intesa italo-algerina dovrebbe dotarsi anche di una dimensione industriale maggiormente strutturata. Da questo punto di vista, siamo ancora agli inizi: alcuni progetti sono stati abbozzati, seppur sommariamente e limitatamente ai produttori italiani di autoveicoli, in un forum tenutosi a !ne maggio 2023 a Torino, durante il quale sono state presentate le opportunità di investimento e i vantaggi offerti dal mercato algerino. Inoltre, nel giugno 2023 è stata creata una società mista algerino-italiana per la produzione di grano duro nel Sud del paese, su una super!cie coltivabile di 900 ettari. L’Algeria, che importa ancora enormi quantità di cereali ogni anno (circa dieci milioni di tonnellate), mira a migliorare la sua sicurezza alimentare, molto fragile e vulnerabile.

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4. L’Italia sta diventando il primo partner europeo dell’Algeria, con l’energia come principale motore di una relazione che tenderà a essere sempre più differenziata e polimorfa. Ciò è dimostrato, ad esempio, dall’organizzazione di diversi business forum che riuniscono operatori di entrambi i paesi per promuovere partnership in diversi settori, tra cui l’agroalimentare, il farmaceutico, il turismo, l’industria automobilistica, le energie rinnovabili e le start-up. L’avvicinamento geoeconomico tra Algeria e Italia è promettente anche perché è improbabile che sia ostacolato da insormontabili ostacoli storici e geopolitici. A differenza della Francia, le relazioni dell’Italia con l’Algeria non hanno un contenzioso storico legato alla colonizzazione. Allo stesso modo, la questione molto delicata dell’immigrazione clandestina non dà luogo a tensioni con l’Italia paragonabili a quelle che Algeri deve affrontare con Spagna e Francia, principali destinazioni dei "ussi migratori algerini. In!ne, sulla questione del Sahara occidentale, che dal marzo 2022 ha improvvisamente provocato un deterioramento delle relazioni algerino-spagnole, l’Italia

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HUB GASIERO ALGERINO ITALIA

POR T TOG ge arifa ALL ri O Alg Cord eci ob a ra Alm s e rí a Bé ni Sa f

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Paesi che bene!ciano della rete del gas algerino

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SPAGNA

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Gasdotti esistenti e in progetto della rete di gas algerino

P Bo orto tte iet Pio Dra Olb mb ou i a ino ch e Ma zar ad el V Ge all la o

Giacimenti di gas

MAROCCO

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ALGERIA LIBIA

Gasdotti strategici algerini Maghreb-Europe (Esistente - porta gas algerino al Marocco, alla Spagna e al Portogallo)

NIGER

Medgaz (Esistente - gasdotto sottomarino)

Galsi

(Progetto di gasdotto verso l’Italia)

Transmed (Esistente - gasdotto Enrico Mattei)

NIGERIA Greenstream

(Progetto per esportare gas dalla Nigeria in Europa)

Wa rr

Trans-Sahara

i

(Esistente)

Altri gasdotti

ha dato prova di neutralità diplomatica, accontentandosi di riprodurre il linguaggio concordato nelle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite: un esempio di quell’ambiguità costruttiva tanto cara ai diplomatici, indispensabile per evitare dannose rotture. Agli occhi dell’Algeria, l’Italia ha dunque tutte le virtù per essere un partner af!dabile e privilegiato. Allo stesso modo, Roma considera Algeri un fornitore af!dabile, sicuro e senza dubbio un partner in grado di fungere da ponte per sostene-

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NON SOLO GAS. L’INTESA STRATEGICA TRA ROMA E ALGERI

re la sua politica verso il Maghreb e il resto dell’Africa. Alti dirigenti dei due paesi hanno sottolineato la profonda complementarità economica e la possibilità, per l’Algeria, di ispirarsi al modello economico italiano, basato sulle piccole e medie imprese, per avviare !nalmente le profonde riforme strutturali che diventano ogni giorno più essenziali. È quindi legittimo che l’Algeria insista sul coinvolgimento dell’Italia nella modernizzazione e nella diversi!cazione della sua economia. Tuttavia, è deplorevole constatare come, a parte le aziende di idrocarburi, i grandi gruppi industriali italiani siano assenti dal mercato algerino. A questo proposito, non possiamo che stigmatizzare il fallimento del progetto del gruppo Fiat, risalente agli anni Ottanta, di creare uno stabilimento automobilistico nel paese e il suo conseguente trasferimento in Marocco. Un nuovo progetto della stessa natura è previsto per la città algerina di Orano, con i primi modelli che dovrebbero uscire dalle linee di produzione alla !ne del 2023. Tale programma è stato annunciato nell’ottobre 2022, con l’ambizione dichiarata di «convergere il più rapidamente possibile verso il massimo livello di integrazione locale», secondo le dichiarazioni della parte italiana. L’opinione pubblica algerina aspetta e spera che diventi realtà. Spetta all’Algeria andare oltre i tradizionali convenevoli diplomatici, le ef!mere e "uttuanti amicizie interstatali, le dichiarazioni a caldo più o meno attendibili e impegnarsi di più per una vera contropartita economica, che deve concretizzarsi nel coinvolgimento dell’Italia nella creazione di partenariati multidimensionali reciprocamente vantaggiosi. È anche vero che l’Algeria deve attuare vere riforme strutturali dell’economia, da tempo individuate ma costantemente rinviate anche per preservare la pace sociale. Non basta compiere giuste diagnosi e produrre condivisibili dichiarazioni d’intenti: queste riforme sono assolutamente indispensabili per portare il sistema algerino a un livello tale da allinearsi al modello di sviluppo dell’Italia, ottava economia mondiale, e degli altri principali partner economici del paese. Solo così si potrà evitare che l’attuale riavvicinamento tra l’Algeria e l’Italia si risolva in una rituale e banale presa d’atto di un’opportunità tattica offerta da una situazione economica altalenante, i cui risultati non corrispondono affatto alle ambizioni dichiarate. Al contrario, è importante fare tutto il possibile per contribuire alla costruzione di un vero e proprio partenariato strategico algerino-italiano capace di creare legami strutturali in grado di resistere a crisi e pericoli vari, nel rispetto reciproco e nell’equilibrio di interessi tra le due parti. Un vincolo basato sulla sana competizione regionale e internazionale, che smentisca la (falsa) credenza secondo cui l’Algeria non sarebbe altro che una riserva di caccia.

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5. Al di là delle relazioni strettamente bilaterali, l’attuale riavvicinamento italo-algerino potrebbe produrre importanti conseguenze geopolitiche vantaggiose per entrambi i paesi. Infatti, il riposizionamento strategico dell’Italia nel Mediterraneo occidentale come hub energetico le darà probabilmente un chiaro vantaggio rispetto a un altro grande paese mediterraneo, la Spagna, che sta perseguendo un obiettivo simile con

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il gnl americano. Inoltre, il riavvicinamento italo-algerino evoca inevitabilmente il parallelo riavvicinamento marocchino-spagnolo, come se le due ali europee del Mediterraneo occidentale si avvicinassero a un Maghreb malato di rivalità e divisioni. Il riavvicinamento dell’Italia all’Algeria è destinato a suscitare le preoccupazioni della Francia, presunto egemone regionale, membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e potenza nucleare che si ritiene privilegiata nella regione. Parigi è legata ad Algeri da rapporti ambigui. Ancora oggi manifesta una certa riluttanza ad abbandonare un passato coloniale ormai de!nitivamente superato. Allo stesso modo, nel Mediterraneo orientale, l’Italia deve fare i conti con la presenza invasiva di Russia e Turchia in Libia, una delle sue poche ex colonie africane. Inoltre, la prossimità marittima alla Tunisia e alla Libia fa sì che l’Italia debba affrontare i "ussi migratori africani, pur essendo in linea di principio un paese di transito e non di destinazione. Tuttavia, deve trattenere molti migranti in seguito alla semichiusura della frontiera comune da parte delle autorità francesi. Certo la geopolitica dell’Italia non è solo mediterranea ma anche continentale. L’approfondimento dei rapporti con l’Algeria potrebbe aprire prospettive che !nirebbero per conferirle il ruolo di hub euromediterraneo del gas, anche se la concorrenza nella regione è agguerrita e sfaccettata, in particolare per quanto riguarda il Mediterraneo orientale e il Mar Caspio. L’Italia settentrionale rientra poi nella sfera di in"uenza economica della Germania, anch’essa molto interessata a una partnership con l’Algeria per quanto riguarda elettricità e idrogeno. Insomma, per molti aspetti Algeria e Italia appaiono complementari. Due nazioni destinate a consolidare la loro relazione, sebbene ciascuna persegua i propri obiettivi geopolitici. Come l’Algeria è allo stesso tempo maghrebina, araba e africana, così l’Italia è europea, occidentale e atlantica, in quanto membro fondatore della Nato, di cui è portaerei strategica nel Mediterraneo. È innegabile, tuttavia, che l’Italia, come l’Algeria, rimanga profondamente mediterranea. Roma condivide infatti l’obiettivo di Algeri di sviluppare un partenariato fruttuoso nel Mediterraneo occidentale. Tale progetto, promosso a livello multilaterale dal dialogo «5+5», riunisce i cinque paesi dell’Unione del Maghreb e i cinque paesi dell’arco latino allargato dell’Unione Europea. Ispirandosi a Fernand Braudel, il quale sottolineava che «la civiltà è prima di tutto uno spazio geogra!co», l’Algeria e l’Italia devono dare i loro rispettivi contributi, sia bilaterali sia multilaterali, alla costruzione di questo grande obiettivo nel Mediterraneo occidentale. (traduzione di Giuseppe De Ruvo)

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L’ALGERIA MINACCIA SÉ STESSA

di

Aghilès AÏT-LARBI

Stallo politico, giovani in fuga, economia poco competitiva, dipendenza dagli idrocarburi, carenza di leadership: ecco i mali che continuano ad affliggere il principale hub energetico del Mediterraneo. Il vuoto dopo Bouteflika.

L

1. A CADUTA DEL REGIME DI ABDELAZIZ Boute!ika ha ridisegnato parte del sistema politico algerino. Nel 2019 il presidente dell’Algeria, incoraggiato dal suo entourage e dai suoi sostenitori, era pronto a candidarsi per un quinto mandato, ma fu costretto a rinunciarvi a causa della pressione popolare rappresentata dallo Õiråk (movimento). Boute!ika era arrivato al potere nel 1999. Vent’anni dopo era riuscito a proporsi per un quinto mandato a causa dell’incapacità delle fazioni interne al regime di accordarsi su un nuovo candidato. Al tempo, gli equilibri di potere erano congelati e la loro con"gurazione era nota a tutti. Fu attraverso il generale Ahmed Gaïd Salah, allora capo di Stato maggiore, che le Forze armate algerine (Armée nationale populaire, Anp), da tempo alleate del presidente, chiesero l’applicazione dell’articolo 102 della vecchia costituzione e destituirono il capo di Stato. Ironico quanto simbolico che le dimissioni forzate siano state imposte sulla base dell’articolo secondo cui «quando il presidente della Repubblica, a causa di una malattia grave e duratura, si trova nell’impossibilità totale di esercitare le sue funzioni, il Consiglio costituzionale si riunisce e, dopo aver veri"cato con tutti i mezzi appropriati la realtà di tale impedimento, propone all’unanimità al parlamento di dichiarare lo stato di impedimento». In effetti, durante il quarto e ultimo mandato di Boute!ika, diversi partiti dell’opposizione avevano già messo in dubbio che il potere fosse veramente esercitato dal presidente. A seguito di un ictus che aveva costretto Boute!ika su una sedia a rotelle, avevano persino chiesto pubblicamente l’applicazione dell’articolo 102. Il fatto in sé non deve però stupire: il regime algerino è sempre stato caratterizzato da una dimensione militare, ignorata da molti analisti a causa della crescente presenza nell’arena politica di ricchi uomini d’affari, i cosiddetti oligarchi. L’in!uenza militare è emersa plasticamente nel 2019, quando il capo di Stato maggiore

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della Difesa si è affermato come !gura chiave nel processo decisionale attraverso un intenso dialogo sociale caratterizzato da discorsi settimanali e da un calendario elettorale immodi!cabile. In questa cornice, il momento di grande rilegittimazione del regime doveva essere rappresentato dalle elezioni presidenziali del dicembre 2019. Eppure, nonostante un controllo molto stretto del sistema elettorale e nonostante i cinque candidati avessero seguito le orme del governo, le elezioni hanno prodotto scarsi risultati: con un’af"uenza pari appena al 40%, si è trattato delle votazioni più boicottate nella storia dell’Algeria.

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2. È dunque più probabile che la vera svolta politica sia arrivata nel marzo 2020. Il Covid-19 ha offerto una grande opportunità al sistema algerino. Innanzitutto, l’epidemia ha costretto i cittadini che partecipavano alle manifestazioni settimanali del martedì e del venerdì a sospenderle. Fino ad allora, le proteste avevano permesso di costruire un equilibrio politico con il regime e di far emergere una narrazione alternativa a quella uf!ciale. Se un gran numero di attivisti era già stato arrestato nel corso del 2019, il 2020 ha segnato l’inizio della resa dei conti tra regime e oppositori. Da allora, il governo ha costantemente aumentato gli arresti di manifestanti, giornalisti e accademici di ogni orientamento politico. Il culmine di questo processo è stato raggiunto quando il Consiglio superiore della sicurezza (Hcs), organo consultivo in cui sono rappresentati i ministeri e i corpi addetti alla sicurezza nazionale, ha deciso di classi!care come «terroristi» il movimento islamico Rachad e il Movimento per l’autodeterminazione della Cabilia (Mak). Ma le azioni ritorsive non si sono fermate qui: associazioni come il Rassemblement action jeunesse (Raj), la Lega algerina per la difesa dei diritti umani (Laddh) e la Caritas locale sono state sciolte. La repressione della società civile ha sempre caratterizzato il regime algerino. Nel tempo sono solo cambiate le procedure: oggi, soprattutto a seguito degli sconvolgimenti generati dallo Õiråk, vengono create organizzazioni satellite af!ni al regime, si addomestica l’opposizione e, soprattutto, si gestiscono in modo autoritario i mezzi di informazione. Con l’apertura politica registrata alla !ne degli anni Ottanta, l’Algeria si era affermata nel mondo arabo come paese capace di garantire un certo livello di libertà ai media nazionali grazie all’Agenzia nazionale per l’editoria e la pubblicità (Agence nationale d’édition et de publicité, Anep). Sebbene questo organismo sia diventato ben presto un ricettacolo di corruzione e di clientelismo, nel corso degli anni le testate in lingua araba e francese sono state tendenzialmente libere e hanno acquisito una certa in"uenza. Dal 2019 la rotta si è invertita. In Algeria la crisi dell’informazione è evidente. Si pensi al quotidiano in lingua francese El Watan, costretto a mettersi in regola dopo una lunga agonia !nanziaria causata dalle pressioni dei funzionari pubblici sugli inserzionisti privati. Oppure a Liberté, di proprietà del miliardario Issad Rebrab, giornale che è stato chiuso senza prendere in considerazione le proposte di acquisizione da parte della redazione. Tra gli esempi più emblematici delle restri-

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zioni alla stampa ci sono poi i casi di giornalisti come Khaled Drareni e Ihsane El Kadi 1: il primo è stato arrestato nel marzo 2020, condannato e, nel febbraio 2021, graziato dal presidente; El Kadi, giornalista e direttore di Interface Médias, è stato condannato in appello a sette anni di carcere anche se dovrà scontarne solo due. In entrambi i casi, i giornalisti sono stati accusati dal presidente di essere khabardjis, informatori al servizio di potenze straniere. 3. Insomma, analizzare il regime algerino non è facile. Come spiega il politologo Mohammed Hachemaoui 2, «la leadership è allo stesso tempo militare, civile, collegiale e personalizzata: il modo di governare, differente dai modelli teorici in voga, rimane un enigma». La nuova presidenza di Abdelmadjid Tebboune, di cui è arduo individuare la base politica, ne è un perfetto esempio. Se Boute"ika, alludendo all’in"uenza dell’esercito, aveva dichiarato di non voler essere «un presidente a tre quarti», Tebboune non sembra invece voler affrontare le contaminazioni interne al processo decisionale, anzi. Il presidente algerino appare regolarmente col nuovo capo di Stato maggiore, sia durante le esercitazioni militari sia, inaspettatamente, durante i festeggiamenti sportivi – come quello per la vittoria della Coppa araba da parte della nazionale di calcio algerina. Ciò non signi#ca che Tebboune sia incapace di contare su forze politiche a lui fedeli o voglia af#darsi solo ad apparati tradizionalmente legati al regime: in contrapposizione al sistema di Boute"ika, Tebboune aveva anche promosso l’idea di «nuova Algeria», che doveva essere uf#cializzata col referendum costituzionale del 2020. Tuttavia, l’ennesima revisione costituzionale (l’ultima era avvenuta appena quattro anni prima, nel 2016) ha avuto scarso successo, registrando un’af"uenza pari appena al 23%. Una delle prime s#de del nuovo governo è stata poi quella di ricostruire la base clientelare del regime precedente, ridottasi a zero con la #ne dell’èra Boute"ika. Ma, al di là degli slogan uf#ciali, la missione sembra stia fallendo. Il governo non riesce ad avere presa sulla società. Ciò è dovuto alla #gura del presidente Tebboune, che in vari discorsi ha attaccato l’apparato amministrativo locale e si è lamentato per la scarsità degli investimenti, dando così l’immagine di un pilota che non ha il controllo della propria macchina. 4. L’escalation autoritaria messa in mostra dal regime algerino ri"ette un chiaro irrigidimento nei confronti di qualsiasi forma di dissidenza politica. Le conseguenze dell’arretramento nel campo delle libertà civili sono tante e contribuiscono ad alimentare la rabbia generale. Soprattutto nei giovani. Ancor più perché nel paese nordafricano le prospettive economiche sono assai modeste. Nel 2016 il 30% dei giovani algerini ha dichiarato 3 di voler lasciare il paese e la metà degli intervistati ha motivato la propria scelta parlando di «mancanza di opportunità di carriera». I 1. Altri giornalisti, fra cui Mohamed Mouloudj, Rabah Karrèche e Mustapha Bendjema, sono in carcere, ma i loro casi sono meno seguiti. 2. M. HACHEMAOUI, Clientélisme et patronage dans l’Algérie contemporaine, Paris 2013, Karthala. 3. N. HAMMOUDA ET AL., La jeunesse algérienne: vécu, représentations, aspirations, Algeri 2018, Cread.

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dati di questo sondaggio non sono aggiornati, ma il numero di chi intende partire sta crescendo: lo dimostrano gli innumerevoli video di veri e propri «consulenti per l’emigrazione» sui social network, le polemiche sui medici algerini che vanno all’estero e il numero crescente di migranti clandestini (harragas). Di conseguenza, la situazione politica unita al disagio economico non può che alimentare il senso di emarginazione tra i giovani. Questa è una delle prime s!de che il governo algerino deve affrontare: costruire un progetto politico capace di offrire speranza. In caso contrario, chi aspira a emigrare continuerà ad affollare i consolati stranieri e ad alimentare la clandestinità, creando un duplice problema: in Algeria la fuga di cervelli e in Europa la preoccupazione della migrazione irregolare, che di anno in anno sta diventando sempre più rilevante nel dibattito pubblico. Le analisi di molti osservatori sulla stabilità politica dell’Algeria sono spesso lontane dalla realtà. Sebbene le strutture del potere siano soggette a minacce reali, come la diffusione della corruzione o la disgregazione dello Stato, il collasso istituzionale sul modello della vicina Libia sembra impossibile. Le Forze armate algerine, che restano la radice del potere locale, godono di una solidità istituzionale senza eguali e di un sostegno popolare innegabile. Le manifestazioni paci!che dello Õiråk hanno dimostrato che oggi gli algerini ri!utano la violenza come mezzo per esprimere le proprie istanze politiche, anche se i disordini dovuti alla crisi economica e sociale restano numerosi. L’incapacità di offrire una visione, la disintegrazione del contratto sociale e la percezione della mancanza – reale o presunta – di prospettive stanno facendo perdere al paese una parte signi!cativa della sua linfa vitale. 5. Dopo le elezioni, il presidente Tebboune ha fatto della liberalizzazione degli investimenti un suo cavallo di battaglia, insistendo anche troppo sulla retorica della «diversi!cazione economica». In effetti, senza tenere conto degli idrocarburi, le esportazioni sono aumentate da 1,7 miliardi di dollari nel 2019 a 7 miliardi di dollari nel 2022 4. Questo segnale piuttosto incoraggiante non dovrebbe comunque oscurare lo stato di sofferenza generale. La «diversi!cazione economica» era già stata posta al centro della presidenza Boute#ika, con risultati contrastanti e con un settore informale in crescita che, secondo molti analisti, rappresenta oggi almeno il 50% dell’economia nazionale. C’è inoltre una sofferenza strutturale che af#igge il sistema algerino: non essere mai riuscito a costruire una base produttiva endogena e aver accelerato la demolizione del settore agricolo senza però aver avviato una vera e propria industrializzazione. Se la retorica della diversi!cazione economica non convince più di tanto 5, è perché essa tocca uno dei pilastri del regime: la capacità di estrarre e condividere i

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4. «Exportations hors hydrocarbures: bond sans précédent grâce à la diversi!cation de l’économie», Algérie Press Service, 19/6/2023. 5. R. BOUKLIA-HASSANE, «Financement externe et croissance dans les économies en développement: cas de l’Algérie», 2003, tesi di dottorato presso la Université Lumière Lyon 2.

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proventi dell’energia, settore che a sua volta muove tanto le esportazioni quanto le importazioni e il mercato monetario. Ma, per essere elevato, l’accesso alle rendite deve essere limitato a pochi. E a questo servono alcune misure burocratiche 6: garantire alle autorità pubbliche l’accesso ai pro "tti economici in modo tale da offrire privilegi ai clienti del regime. Ma così l’economia algerina rischia di soffocare. Attualmente l’amministrazione sembra paralizzata. Sebbene l’esecutivo abbia tentato in numerose occasioni di sbloccare la situazione, secondo molti osservatori i processi organizzati nell’ambito delle operazioni anticorruzione dopo la caduta di Boute#ika rivelano il timore dei dirigenti della pubblica amministrazione, che non vogliono più prendere decisioni di cui potrebbero essere ritenuti responsabili. Nel frattempo, l’economia algerina resta bloccata da vari rischi macroeconomici. Innanzitutto, l’eccessiva dipendenza dagli idrocarburi rende il paese dipendente dagli sviluppi del mercato energetico globale. Allo stesso tempo, il consumo energetico dell’Algeria sta aumentando vertiginosamente 7 e ciò renderà necessario convertire una quota sempre maggiore della produzione verso la domanda nazionale. Uno dei paradossi dell’economia algerina è che la corruzione avvolge ogni settore, dai fattori di produzione ai consumi intermedi: ciò non solo ha ridotto gli utili degli investimenti, ma anno dopo anno sta rendendo la produttività sempre più negativa. In poche parole 8, più investimenti si fanno, meno essi sono produttivi. Queste dinamiche contribuiscono a paralizzare un’economia già incapace di assorbire la popolazione di laureati che ogni anno lascia l’università e di offrire posti di lavoro all’altezza delle loro quali"che. La disoccupazione giovanile (15-25 anni) s"ora il 30%, alimentando il bacino di chi intende emigrare 9. 6. Con un’economia poco competitiva, la dipendenza strutturale dagli idrocarburi e lo stallo politico, a minare la stabilità del paese potrebbe essere proprio lo stesso governo algerino. La retorica degli «stranieri che minacciano il paese» e la necessità di «consolidare il fronte interno» dimostrano l’incapacità di reinventarsi anche nel linguaggio. Non dovrebbero preoccupare tanto lo status quo e le involuzioni in termini di libertà, che certamente sono indicatori signi"cativi e possono sempre dare adito a un dibattito sul modello politico da adottare. Piuttosto, la contraddizione con cui anche i più fedeli al regime algerino devono fare i conti è chiara: il governo non è in grado di produrre nulla di fruttuoso. I pilastri fondamentali del regime – l’esercito, l’integrazione forzata dell’opposizione, la frammentazione della società civile e la repressione – sono rimasti immutati nell’arena politica algerina degli ultimi decenni. Allo stesso tempo, la qualità del personale politico sta diminuendo. Indipendentemente da cosa si possa pensare di Houari Boumédiène, storico leader e tra i primi presidenti dell’Algeria 6. D. GHANEM, Understanding Competitive Authoritarian Persistence in Algeria, London 2022, Palgrave Macmillan. 7. «Cerefe: la consommation énergétique nationale a augmenté de 59% en dix ans», Algérie Press Service, 6/2/2021. 8. J-L. LEVET, P. TOLILA, Le mal algérien, Paris 2023, Bouquins. 9. Dati della Banca mondiale, percentuale della popolazione attiva.

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indipendente, è indiscutibile che la sua azione politica non sia mai stata guidata da interessi personali. Chi, tra coloro che sono oggi legati al sistema, può affermare di avere una visione e un progetto per il futuro dell’Algeria? Il fatto che il governo ricicli lo stesso personale – si pensi ai ministri Ramtane Lamamra e Ahmed Attaf – dimostra come le uniche competenze richieste siano ancora quelle del passato. Che dire poi dell’incapacità di formulare un progetto politico e di avere una chiara visione del futuro del paese? La diffusione della corruzione e l’emarginazione delle competenze all’interno del partito fanno del cinismo la sola forza motrice dell’azione politica. Senza essere ingenui e senza !nire a parlare di possibile rivoluzione dei garofani, tutti questi segnali dovrebbero rappresentare un campanello d’allarme per la classe dirigente algerina. (traduzione di Marcella Mazio)

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di

Adlene MOHAMMEDI

Storia e attualità di un’intesa solida, ma perimetrata e sbilanciata a favore della Federazione. L’eredità sovietica negli armamenti e tra i capi militari. Il rapporto clientelare svela la fragilità del Pouvoir. L’Algeria tiene il piede in più scarpe: Russia, Cina e Usa.

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1. ARLARE DI UN’ALLEANZA TRA ALGERIA E RUSSIA è un’iperbole. Dalla rivolta popolare (Õiråk) nel 2019 alla guerra in Ucraina, le relazioni tra i due paesi si sono mostrate solide. Ma non bisogna trascurare i loro limiti. Per il governo algerino, la politica estera è anzitutto un mezzo di sopravvivenza e una fonte alternativa di legittimità di fronte alle contestazioni interne. Tale impostazione non prevede l’adesione a un blocco o a un sistema di alleanze, ma si propone di mantenere buone relazioni con tutte le principali potenze. Questa !essibilità contrasta con la rigidità domestica data dal clima di repressione politica. E con un contesto regionale sempre più agitato. I rapporti tra Algeria e Russia sono spesso descritti come un’alleanza inscindibile che risale alla decolonizzazione e alla guerra fredda. A questo proposito, alcune precisazioni sono d’obbligo. Alla "ne degli anni Cinquanta, l’Unione Sovietica non è il maggiore sponsor dell’indipendenza algerina. Al contrario, la posizione di Mosca appare relativamente moderata, favorevole a una soluzione franco-algerina. Nel suo libro Autopsie d’une guerre: l’aurore, Farõåt ‘Abbås racconta di una missione in Spagna nel 1957: «A quel tempo la Spagna, dopo la Jugoslavia e la Svizzera, era per noi il paese più ospitale» 1. Nello stesso anno, il senatore e futuro presidente degli Stati Uniti John F. Kennedy tiene un eminente discorso in cui critica il sostegno americano alla Francia e si esprime a favore dell’indipendenza algerina 2. Una volta indipendente, l’Algeria ha trasformato questa eterogeneità di sostenitori (la Spagna franchista, per un po’; la Jugoslavia titina; la Svizzera neutrale; un futuro presidente democratico americano) in partenariati «a tutto campo» nei quali Mosca "gura come attore, cer1. F. ABBAS, Autopsie d’une guerre: l’aurore, Paris 1980, Garnier Frères, p. 209. 2. F. MAATOUG, «John F. Kennedy, la France et l’Algérie», Guerres mondiales et con!its contemporains, n. 4/2006, pp. 135-153.

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tamente centrale, tra gli altri. Oltre alla clandestinità politica (il culto della segretezza), dopo la separazione dalla Francia il governo algerino ha ereditato dal movimento di liberazione anche la !essibilità diplomatica (la capacità di sedurre attori molto diversi tra loro). Mosca riconosce di fatto il governo provvisorio della Repubblica di Algeria solo nel 1960. L’indipendenza dell’Algeria nel 1962 viene accolta con la stessa freddezza. «Noi non saremo in grado di supportare due Cuba; voi avete già un buon partner: il generale de Gaulle, tenetevelo stretto!» 3, avrebbe detto Nikita Khruš0ëv al primo presidente dell’Algeria indipendente, Ahmed Ben Bella. Un primo riavvicinamento con la Russia, proprio negli anni di Ben Bella, porta all’accordo militare del 1963. Tuttavia, offrirsi completamente ai sovietici è fuori questione per Houari Boumédiène (presidente dal 1965 al 1978), nonostante i rapporti talvolta burrascosi tra Algeri e Washington – vedi la rottura delle relazioni diplomatiche dal 1967 al 1974, in seguito alla guerra dei Sei giorni. Parallelamente all’accordo con la Russia, centinaia di uf$ciali algerini vengono infatti addestrati presso l’Accademia militare francese di Saint-Cyr Coëtquidan. A partire dal 1968 la cooperazione militare con Parigi si rafforza ulteriormente nei settori dell’organizzazione e della fornitura di equipaggiamento bellico4. L’Algeria stava chiaramente attuando una strategia di diversi$cazione in un contesto di «non allineamento». Tuttavia, questa diversi$cazione non oscurava l’innegabile preponderanza sovietica in campo militare. Secondo le autorità militari francesi, nel 1963 Boumédiène – allora ministro della Difesa – otteneva da Mosca 1,1 miliardi di franchi (circa 1,7 miliardi di euro) in crediti per forniture belliche 5. Fonti sempre francesi attestano che il valore degli equipaggiamenti consegnati dall’Unione Sovietica all’Algeria tra l’indipendenza e l’aprile 1967 ammontava a 1,64 miliardi di franchi 6 (circa 2,3 miliardi di euro). Questa dipendenza non è mai stata messa in discussione nei decenni successivi. E la Russia post-sovietica ne ha saputo appro$ttare. Alla $ne degli anni Settanta, il 90% dell’equipaggiamento militare algerino era di origine sovietica 7. Mosca ha inoltre contribuito allo sviluppo del settore minerario e ha aperto ai giovani laureati algerini, come ad altri africani e arabi, i propri centri di formazione e le sue università. Molti dirigenti, ingegneri e uf$ciali della giovane repubblica hanno bene$ciato della formazione sovietica, cui si accompagnavano legami matrimoniali e culturali. Oggi, malgrado le università siano rimaste aperte agli studenti arabi e africani $no alla caduta dell’Urss, le tracce di questa in!uenza – s$data da quella francese e anglosassone – sono impercettibili. I dirigenti formatisi nell’Unione Sovietica non sono sempre i più apprezzati. Nel settore energetico, ad esempio, la presidenza del gigante petrolifero Sonatrach, fondato nel 1963, è regolarmente af$data a ingegneri formatisi negli Stati Uniti.

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3. M. HARBI, L’Algérie et son destin: croyants ou citoyens, Paris 1992, Arcantère, p. 188. 4. I. GRIDAN, G. LE BOULANGER, «Les relations militaires entre l’Algérie et l’URSS, de l’indépendance aux années 1970», Outre-mers, n. 354-355/2007, pp. 37-61. 5. Ibidem. 6. Ibidem. 7. N. GRIMAUD, La politique extérieure de l’Algérie (1962-1978), Paris 1984, Karthala, p. 133.

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Per contro, i dirigenti istruiti nell’Urss sono ancora presenti ai vertici dell’esercito. L’attuale capo di Stato maggiore, Saïd Chengriha, è stato addestrato all’Accademia russa di Vorošilov negli anni Settanta. Anche il suo predecessore, Ahmed Gaïd Salah, uomo forte durante i primi mesi dello Õiråk e arte"ce della cacciata di Abdelaziz Boute#ika – al quale era vicino – è stato addestrato in Unione Sovietica. Lo stesso vale per il generale Ali Ghediri, ex direttore delle Risorse umane del ministero della Difesa ora in carcere per «aver minato il morale dell’esercito in tempo di pace». Ghediri ha voluto «s"dare il sistema», secondo le sue stesse parole, presentando la propria candidatura alla presidenza della Repubblica. Di tutti i centri di potere in Algeria, l’impronta russa sembra perdurare maggiormente nell’esercito, che del potere resta il cuore. Tuttavia, la nuova generazione di generali è meno russo"la delle precedenti, quantomeno in termini culturali. Superate le gravi crisi vissute da entrambi i paesi alla "ne del secolo scorso, le relazioni tra Russia e Algeria si sono rafforzate nei primi anni Duemila. Oltre all’evoluzione del contesto internazionale e alle trasformazioni interne, fra russi e algerini esistono rappresentazioni, istinti e interessi comuni. La guerra in Ucraina offre l’opportunità di rinsaldarli, ma anche di vederne i limiti. 2. Dopo la "ne della guerra fredda, Mosca e Algeri hanno percorso, mantenendo le dovute proporzioni, traiettorie simili. Mentre la Russia post-sovietica trasformava la guerra in Cecenia in una guerra contro l’islam politico e il terrorismo, l’Algeria precipitava nel cosiddetto decennio nero, durante il quale scontri tra esercito e gruppi islamisti si alternavano a massacri. All’inizio degli anni Duemila, entrambe si sono lasciate gradualmente alle spalle le rispettive guerre civili, con due nuovi presidenti: Vladimir Putin e Abdelaziz Boute#ika, a capo di sistemi in cui le oligarchie uf"ciali colludono con i servizi di sicurezza e intelligence. In"ne, nel corso di quel decennio, Russia e Algeria hanno bene"ciato dell’aumento dei prezzi degli idrocarburi, fatto che ha contribuito al consolidamento della loro relazione fornitore-cliente. Oltre alle eredità dei rapporti algerino-sovietici, a partire da questo periodo la politica estera dei due paesi ha cominciato ad assumere lo stesso contenuto semantico e concettuale. Così oggi Algeria e Russia attribuiscono pubblicamente particolare importanza alla sovranità nazionale e al principio di non ingerenza; pongono la medesima enfasi sull’idea di un mondo multipolare e utilizzano la stessa retorica securitaria. Inoltre, entrambi i governi rischiano di subire le conseguenze del jihåd transnazionale: gli «anciens d’Afghanistan», i veterani jihadisti che hanno combattuto contro l’Armata Rossa negli anni Ottanta, arrivano in Cecenia come in Algeria. Negli anni Novanta il governo algerino era mal visto a livello mondiale, tanto che sull’esercito gravava un pesante embargo, mentre la Russia veniva duramente criticata per le operzaioni in Cecenia. L’11 settembre 2001 pare confermare le tesi antiterroristiche dei due governi, che si appropriano allo stesso modo degli attentati. Da quel momento, Russia e Algeria si propongono a Washington come attori chiave, se non per"no soci nella lotta contro il terrorismo.

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Nonostante queste similitudini, agli inizi degli anni Duemila Mosca non riteneva Algeri un partner privilegiato. Nel suo primo mandato (2000-04) Putin guardava principalmente agli Stati Uniti e all’Europa. La sua offensiva diplomatica nel mondo arabo è cominciata soltanto durante il secondo mandato (2004-08). La sua visita ad Algeri nel 2006 acquisisce un signi!cato particolare perché avvenuta a circa trent’anni dall’ultima visita di un leader sovietico 8. In quell’occasione, il presidente russo ha annunciato l’estinzione del debito algerino nei confronti della Federazione Russa, che ammontava a 4,7 miliardi di dollari. Contestualmente, l’Algeria si è impegnata a spendere 7,5 miliardi di dollari in armi russe 9. 3. Oggi, in termini strettamente pecuniari i rapporti tra Russia e Algeria ri#ettono soprattutto le debolezze dell’economia algerina e i limiti del partenariato tra i due paesi. L’analisi dell’insieme degli scambi commerciali tra la Russia e il Maghreb illustra la natura unilaterale delle relazioni economiche con l’Algeria. Dai dati della tabella si possono trarre diverse conclusioni. In primo luogo, Algeri è certamente il principale cliente di Mosca nel Maghreb. Tuttavia, almeno altrettanta attenzione merita la crescita nell’arco di vent’anni dei rapporti commerciali tra Russia e Marocco: nel 2021 hanno superato gli 1,6 miliardi di dollari, mentre all’inizio del secolo erano praticamente inesistenti. In!ne, verso la Federazione Russa l’Algeria non esporta praticamente nulla, mentre ne importa notevoli quantità di merci, non solo armi. Invece, nel 2021 le esportazioni marocchine verso la Russia sono state più di venti volte superiori a quelle algerine e otto volte maggiori rispetto a quelle tunisine. Tunisia e Marocco non esportano solo molti più prodotti agricoli (in particolare frutta) dell’Algeria, ma anche alcuni beni industriali 10. Per la Russia, l’Algeria resta innanzitutto un cliente. Un cliente con un enorme appetito per le attrezzature militari, ma non solo. L’Algeria condivide gli stessi timori dei suoi vicini riguardo alla sicurezza alimentare. Lo sviluppo demogra!co, il cambiamento climatico e l’impatto della guerra d’Ucraina sulle forniture di cereali sono anch’essi fonti di inquietudine. Così come il Marocco, l’Algeria è un grande importatore di grano russo. Secondo l’agenzia di stampa russa Interfax, Algeri avrebbe quasi quadruplicato i suoi acquisti, da 330 mila tonnellate nel 2021 a 1,3 milioni nel 2022. Una simile dipendenza dal grano del Mar Nero è una vulnerabilità geopolitica. I dati dello Stockholm International Peace Research Institute (Sipri) mostrano che nel periodo 2018-22 si è veri!cato un forte calo delle importazioni di armi da parte dell’Algeria (-58% rispetto agli anni 2013-17) 11. Tuttavia, questo dato va letto alla luce dell’annuncio, alla !ne del 2022, di un «megacontratto da 12 miliardi

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8. M. MOKHEFI, «Alger-Moscou: évolution et limites d’une relation privilégiée», Politique étrangère, n. 3/2015, pp. 57-70. 9. T. KONDRATENKO, «Russian arms exports to Africa: Moscow’s long-term strategy», Deutsche Welle, 29/5/2020. 10. A. MOHAMMEDI, «Russie-Algérie: un partenariat #exible et pragmatique», Fondation méditerranéenne d’études stratégiques (Fmes), 2/12/2020. 11. «Trends in international arms transfers, 2022», Sipri Fact Sheet, n. 3/2023.

AFRICA CONTRO OCCIDENTE

di dollari» con Mosca, sulla scia di un forte aumento del bilancio destinato alla difesa da parte del governo algerino (oltre 22 miliardi nel 2023, più del doppio rispetto al 2022) 12. Tra il 2015 e il 2019, l’Algeria è stata il sesto importatore mondiale di armi e il terzo cliente della Russia, dopo India e Cina. Quanto ai trasferimenti di armi, secondo i dati del Sipri nell’arco di vent’anni, dal 2002 al 2022, quasi il 76% delle importazioni algerine è provenuto dalla Russia. Una percentuale certamente minore rispetto al 90% registrato alla "ne degli anni Settanta, ma la diversi"cazione resta limitata. D’altronde, il governo preferisce gli aerei multiruolo russi Beriev persino in ambito civile, dove affronta una delle principali minacce che gravano attualmente sul territorio algerino: gli incendi. Come per il grano, la guerra in Ucraina e le sanzioni contro Mosca possono rappresentare un ostacolo alla regolarità delle forniture di armi russe. In ambito energetico, tre punti meritano particolare attenzione. Il primo va oltre le relazioni russo-algerine e riguarda i rapporti tra Mosca e l’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (Opec). Con l’inizio della guerra in Ucraina, nell’Opec a guida saudita hanno prevalso la convergenza di intenti e la determinazione a resistere alle pressioni americane. Come dimostra la decisione di diminuire la produzione di petrolio nell’ottobre 2022. Il secondo punto riguarda la capacità di Algeri di sostituirsi a Mosca come principale fornitore di gas all’Europa. Il progetto incontra due importanti limiti: la crescente domanda energetica interna dell’Algeria e le sue scarse capacità di produzione. Il terzo deriva da quest’ultimo punto. Per risolvere l’inef"cienza produttiva, l’Algeria ha bisogno di un socio e la scelta sembra ricadere sugli Stati Uniti. Modi"cando la legge in modo da attirare investimenti stranieri 13, il governo algerino punta sulle compagnie statunitensi. In un colloquio con l’ambasciatrice americana nell’aprile 2022, il ministro dell’Energia e delle Miniere ha insistito sulle «opportunità di investimento e di partenariato che offre il settore per l’esplorazione, lo sviluppo e lo sfruttamento degli idrocarburi, auspicando di vedere le imprese americane partecipare alle prossime gare di appalto e bene"ciare dei vantaggi previsti dalla nuova legge» 14. 4. Gli argomenti trattati dimostrano la natura solida, eppure squilibrata e limitata, del partenariato russo-algerino. Quando nel 2019 la rivolta popolare ha s"dato il potere in Algeria, accelerando la destituzione di Abdelaziz Boute#ika, Mosca non si è esposta sul piano internazionale. Certo, i leader algerini hanno potuto contare sulla benevolenza dei loro omologhi russi. Ma questi ultimi si sono limitati al minimo indispensabile. In un primo momento, perché il sostegno a un presidente praticamente moribondo non 12. «En Algérie, très forte hausse du budget de la défense prévue pour 2023», Le Monde, 23/11/2022. 13. «En Algérie, adoption d’un projet de loi controversé sur les hydrocarbures», Le Monde, 14/11/2019. 14. «Le Ministre de l’Energie et des Mines reçoit l’Ambassadeur des États-Unis d’Amérique», comunicato del ministero algerino dell’Energia e delle Miniere, 5/4/2022.

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MOSCA E ALGERI, AMICIZIA CON LIMITI

poteva suscitare traboccanti entusiasmi. In seguito, perché il governo algerino ha potuto contare sul favore di tutte le potenze mondiali ed europee. In un contesto molto diverso da quello delle cosiddette primavere arabe – dove l’autoritarismo e i poteri militari, associati a una visione miope di stabilità, hanno rassicurato molti – Mosca ha preferito la strategia della controrivoluzione e del soffocamento della contestazione, al pari di Washington, Parigi, Pechino e Ankara. In altre parole, a differenza di quello siriano, il governo algerino non ha avuto bisogno del sostegno di nessuno in particolare: poteva contare sull’appoggio di tutte le potenze. Quando ha invaso l’Ucraina, la Russia si è scontrata con la relativa solidarietà dell’Alleanza Atlantica nei confronti di Kiev. Mentre in Africa, America Latina, Asia e nel mondo arabo, Mosca ha potuto constatare che i suoi partner abituali – anche i più vicini a Washington – non le hanno voltato le spalle. Di fronte all’offensiva russa, l’Algeria ha a sua volta mancato di distinguersi. Ad esempio, adottando negli organi Onu lo stesso comportamento del Marocco. Il contesto attuale appare propizio sia ai partenariati !essibili sia ai poteri autoritari, abbastanza numerosi da avere al contempo l’assenso di Mosca e Washington 15. In ultima analisi, il governo algerino sta operando una «compartimentazione» più che una «diversi#cazione» delle relazioni. Il potere non riesce a far sentire del tutto la sua voce in patria, come dimostrano la repressione e i prigionieri politici. A livello regionale, l’eco del potere algerino è dimezzata dalle sue pessime relazioni con il Marocco. Di conseguenza, l’Algeria deve assicurarsi l’appoggio di potenze lontane. Ciò implica un’apertura all’in!uenza russa o cinese, a seconda dei dossier, ma anche americana. Dunque, l’amicizia con la Russia è solo un sintomo tra tanti della vulnerabilità domestica delle autorità algerine. Questo rapporto privilegiato non è un’alleanza vincolante. Secondo le rispettive dottrine in politica estera, né l’Algeria né la Russia aderiscono alla logica dei blocchi. Sebbene alcuni princìpi generali e soprattutto alcuni interessi accomunino le loro politiche estere, ciascuno si adopera per lo sviluppo di altri partenariati indipendenti. Due esempi relativamente recenti: in Libia, il governo algerino non è allineato alla posizione uf#ciosa di Mosca a favore di Œaløfa Õaftar 16. In Ucraina, l’Algeria non ha voltato le spalle alla Russia, ma il deterioramento delle relazioni russo-americane non impedisce ai leader algerini di rassicurare sistematicamente gli Washington 17. (traduzione di Marcella Mazio)

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15. A. MOHAMMEDI, «La Russie en Afrique du Nord et au Moyen-Orient, une percée guidée par les circonstances», Con!uences Méditerranée, n. 123/2022. 16. ID., «Stratégies russes en Libye: le déploiement d’une politique étrangère multifacette», Con!uences Méditerranée, n. 118/2021. 17. Conferenza stampa del presidente algerino Abdelmadjid Tebboune del 24/2/2023, R. HAMADI, «Espagne, États-Unis, Russie, Ukraine: les messages de Tebboune», tsa-algerie.com, 25/2/2023.

KADER A. ABDERRAHIM - Docente all’Università Sciences Po di Parigi. AGHILÈS AÏT-LARBI - Avvocato e imprenditore nel settore dell’istruzione e della formazione in Algeria. Ha fondato lo studio Di Mauri Advisory che offre consulenza a multinazionali e fondi di investimento in Africa settentrionale e occidentale. GIULIO ALBANESE - Padre comboniano. MAURO ARMANINO - Missionario a Niamey. BENOÎT BARRAL - Direttore di Fondemos. EDOARDO Boria - Geografo al dipartimento di Scienze politiche dell’Università La Sapienza di Roma, è titolare degli insegnamenti di Teorie e storia della geopolitica e di Metodologia per l’analisi geopolitica. Consigliere scienti!co di Limes. ALESSANDRO COLASANTI - Dottorando in Relazioni internazionali (geopolitica dei malware) presso Ucl, Bloomsbury and East London Doctoral Training Partnership di base a Birkbeck, Università di Londra. Tirocinante di Limes. CARLO ALBERTO CONTARINI - Dottorando alla Scuola Normale di Pisa, specialista di politica africana. GIORGIO CUSCITO - Consigliere redazionale di Limes. Analista, studioso di geopolitica cinese. Cura per limesonline.com il «Bollettino imperiale» sulla Cina. Coordinatore relazioni esterne e Club Alumni della Scuola di Limes. EMANUELA C. DEL RE - Rappresentante speciale dell’Unione Europea per il Sahel. GIUSEPPE DE RUVO - Dottorando in Filoso!a all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Collaboratore di Limes. MARIO GIRO - Già viceministro degli Esteri della Repubblica Italiana. MOULOUD HAMAI - Ambasciatore d’Algeria in pensione. Dottore di ricerca all’Università Paris 2. RAHMANE IDRISSA - Ricercatore all’Università di Leiden, studia storia e società saheliane. GIACOMO MARIOTTO - Analista geopolitico e collaboratore di Limes. FABRIZIO MARONTA - Redattore, consigliere scienti!co e responsabile relazioni internazionali di Limes. MARCELLA MAZIO - Laureata in Lettere e Relazioni internazionali. Studiosa di Nord Africa e Mediterraneo. Tirocinante di Limes. MICHAEL MIKLAUCIC - Senior Fellow alla National Defense University e direttore di Prism.

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TARIK MIRA - Già deputato del parlamento algerino per il partito Raggruppamento per la cultura e la democrazia (Rdc). ADLENE MOHAMMEDI - Direttore scienti!co del centro di ricerca strategica Aesma. Dottore di ricerca in Geopolitica all’Università Paris 1 Panthéon-Sorbonne, insegna all’Università Paris 3 Sorbonne Nouvelle. ORIETTA MOSCATELLI - Caporedattore politica internazionale dell’agenzia askanews. Si occupa di Russia ed Europa dell’Est. Coordinatrice Eurasia e Iniziative speciali di Limes. Autrice di P. Putin e putinismo in guerra (2022). TIBOR NAGY - Già assistente segretario di Stato degli Stati Uniti per gli Affari africani e ambasciatore Usa in Guinea e in Etiopia. JEAN-BAPTISTE NOÉ - Dottore di ricerca in Storia. Professore all’Università Cattolica di Angers. Caporedattore della rivista Con!its. MARC-ANTOINE PÉROUSE DE MONTCLOS - Ricercatore senior all’Institut de Recherche pour le développement, specialista dei con"itti africani, direttore di Afrique Contemporaine. FEDERICO PETRONI - Consigliere redazionale di Limes e coordinatore didattico della Scuola di Limes. LUCIANO POLLICHIENI - Analista della Fondazione Med-Or, esperto di geopolitica dell’Africa subsahariana. Collaboratore di Limes. WOLFGANG PUSZTAI - Esperto di sicurezza, presidente del comitato consultivo del National Council on U.S.-Libya Relations (Ncuslr). LUCA RAINERI - Ricercatore in Studi di sicurezza alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, esperto di Sahel. DANIELE SANTORO - Coordinatore Turchia e mondo turco di Limes. LAMINE SAVANÉ - Dottore di ricerca all’Università di Montpellier; docente e ricercatore alla Facoltà di Scienze sociali dell’Università di Ségou; assegnista di ricerca alla Pilot Africa Postgraduate Academy di Point Sud, Bamako. ESTER SIGILLÒ - Ricercatrice all’Università di Bologna, già Visiting Fellow all’Institut de recherche sur le Maghreb contemporain di Tunisi. Autrice di Rethinking Civil Society in Transition (2023). LESLIE VARENNE - Cofondatrice e direttrice di Iveris.

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La storia in carte a cura di Edoardo BORIA 1. La scelta della capitale di uno Stato è un atto molto rilevante dal punto di vista sia operativo sia simbolico. Ecco perché negli ultimi decenni alcuni Stati africani hanno spostato la loro capitale. La Nigeria da Lagos ad Abuja, la Tanzania da Dar es Salaam a Dodoma, la Costa d’Avorio da Abidjan a Yamoussoukro. Le vecchie capitali rivestivano una precisa funzione al tempo in cui questi territori non erano ancora indipendenti, quando la loro posizione sul mare rappresentava il punto di contatto più favorevole per i rapporti tra la potenza coloniale e la colonia. La scelta di puntare su questi centri li ha resi primaziali, vale a dire dominanti in ogni aspetto della vita della colonia (demogra!co, politico, economico, culturale). Al prezzo, però, di un loro inurbamento massivo e di uno sviluppo squilibrato del territorio. Una volta raggiunta l’indipendenza è emersa la ferma volontà di superare l’ordine coloniale e quindi di rivedere anche la scelta della capitale su criteri non più funzionali ai rapporti con la potenza coloniale ma ai contatti e al controllo dell’intero territorio nazionale. Da questa necessità è scaturita la decisione di spostarla in una regione più centrale, almeno teoricamente più adatta a soddisfare le nuove esigenze. In altri casi, l’intenzione di marcare il passaggio a un periodo storico nuovo e ben distinto da quello coloniale si è espressa con il cambiamento dei nomi delle capitali. Il Congo ribattezzò Kinshasa la Leopoldville che onorava il sovrano belga, il Mozambico giudicò estinto il suo debito con l’esploratore portoghese Lourenço Marques passando a chiamare Maputo la sua capitale, il Ciad accolse N’Djamena invece di Fort-Lamy, lo Zimbabwe sostituì Salisbury con Harare. Sorte analoga ebbero, per la stessa ragione, molti nomi di Stato. Soprattutto quelli che omaggiavano direttamente il colonizzatore, come per Cecil Rhodes che aveva dato il nome alle due Rhodesie, quella del Nord oggi Zambia e quella del Sud oggi Zimbabwe (nella !gura 1 un’immagine guerresca dell’africano non ancora pienamente superata oggi). Oppure quando si sentì il bisogno di riscoprire radici lontane attraverso il recupero del nome di antichi imperi africani, anche sorvolando sulla dubbia corrispondenza delle relative estensioni. Fu questo il caso del Benin che prima era Dahomey, del Ghana già Costa d’Oro e del Mali già Sudan francese. In altri casi andava semplicemente cancellato l’odiato aggettivo dell’ex possessore. Avvenne per le Somalie britannica e italiana come anche per il Congo francese e per quello belga, con quest’ultimo che conobbe anche l’intermezzo dell’appellativo Zaire. Analogamente, le Guinee francese, portoghese e spagnola scelsero rispettivamente Guinea, Guinea-Bissau e Guinea Equatoriale. Altri casi hanno riguardato l’Alto Volta divenuto Burkina Faso, l’Oubangui-Chari poi Repubblica Centrafricana, la Somalia francese oggi Gibuti, l’Urundi ora Burundi, il Tanganica che unendosi a Zanzibar ha assunto la denominazione di Tanzania, il Niassa ora Malawi, l’Africa del Sud-Ovest divenuta Namibia, il Basutoland poi Lesotho. Fonte: manifesto turistico illustrato da Francis G. Pay, Visit Rhodesia, Cape Town 1930, Hortors Limited.

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2-3. Sudan è termine etimologicamente arabo che sta per «uomini neri». Lo Stato che risponde a questo nome venne istituito il primo gennaio 1956 sulle ceneri del precedente condominio anglo-egiziano. Fino al 1960, però, i Sudan erano due perché anche l’attuale Mali prendeva questo nome (nella !gura 2 compare al centro della carta), con la sola aggiunta dell’aggettivo «francese» a speci!care il dominatore di una vastissima area che si estendeva continuativamente dall’Algeria (iscritta come «colonia francese» già nel titolo della !gura 3) !no al Congo. La ragione di tale coincidenza toponimica si deve al fatto che nella convenzione geogra!ca l’espressione Sudan si riferisce anche a una regione in cui rientrano entrambi gli Stati. Essa occupa l’intera fascia che va dall’Oceano Atlantico al Mar Rosso, tra il margine meridionale del Sahara e la regione equatoriale più a sud. Corrisponde, in pratica, all’appellativo tanto in voga oggi di «Africa subsahariana», in cui il pre!sso «sub» risulta inappropriato, logicamente inesatto. Anzi direi ridicolo, perché al di sotto di un territorio c’è il sottosuolo, non un altro territorio. Come sopra c’è il cielo, e quindi suonerebbe comico chiamare «Africa sovrasahariana» la costa mediterranea di quel continente. Più corretto per indicare un territorio a sud del Sahara sarebbe, piuttosto, il termine «sud-sahariano». Fonte 2: Edouard De Martonne, «Afrique Occidentale Française. Carte d’ensemble Politique et Administrative», in Atlas des cartes administratives et ethnographiques des colonies de l’A.O.F., Paris 1928, Girard. Fonte 3: Victor Levasseur, «Algérie Colonie Française», in Atlas National Illustré des 86 Départements et des Possessions De La France, Paris 1854, Combette. 4. In una carta geogra!ca la maglia dei con!ni di Stato ha sul lettore un impatto visivo forte e veicola l’idea che tale struttura di linee continue, separando giurisdizioni e culture, rappresenti un elemento di ordine del sistema internazionale. Se tale circostanza può avere un fondamento per alcuni parti del mondo, certamente non lo ha per altre. Per l’Africa in particolare. Qui, nella realtà, i con!ni tra Stati non hanno prodotto alcun ordine ma anzi il suo esatto contrario, cioè il disordine, che è la premessa al con"itto. Ciò in quanto il colonialismo li aveva ritagliati a tavolino senza alcuna considerazione per le realtà locali, dividendo comunità tribali uniche e inglobando all’interno di uno stesso Stato comunità rivali. Sui manuali sono de!niti «con!ni susseguenti» quelli stabiliti a posteriori del popolamento, al contrario dei «con!ni antecedenti» che lo hanno preceduto, come in Alaska e nell’Australia interna. Si tratta di con!ni dovuti alla concorrenza tra potenze, dunque. Un caso di scuola è quello dell’appendice territoriale nota come «dito di Caprivi» in ragione della sua insolita forma, che estende sensibilmente la Namibia incuneandola tra l’Angola, lo Zambia e il Botswana !n quasi a raggiungere lo Zimbabwe (visibile nella parte alta della !gura 4). Fonte: «South Africa» (particolare), in The Times Atlas and Gazetteer of the World, London 1922, John Bartholomew & Son, tav. 71.

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