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Italian Pages 297 Year 2023
RIVISTA ITALIANA DI GEOPOLITICA
Le tribù eccitano la crisi d’identità Se i militari si ribellano agli ordini Di chi è lo Stato ebraico?
ISRAELE CONTRO ISRAELE LIMES È IN EBOOK E IN PDF • WWW.LIMESONLINE.COM
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3/2023 • mensile
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SOMMARIO n. 3/2023 EDITORIALE 7
La sindrome ottomana LA TEMPESTA ISRAELIANA
PARTE I 35
Chaim WEIZMANN - In ballo c’è la proprietà dello Stato
41
Sergio DELLA PERGOLA - Israele al bivio: riforma o rivoluzione?
57
Włodek GOLDKORN - La costituzione nasce in piazza
63
Fabrizio MARONTA - L’esercito di popolo non crede più nel popolo (in appendice: Niron MIZRAHI - C’è chi dice no La renitenza spiegata da un refusenik)
75
Giuseppe DE RUVO - Tante scuole per tante tribù
81
Barak MEDINA - La riforma spiegata ai profani
85
Cesare PAVONCELLO - La vera posta in gioco della riforma giudiziaria
93
Riccardo CALIMANI - ‘L’utopia ebraica per salvare Israele’
97
Arturo MARZANO - Alle origini del sionismo religioso di Binyamin Netanyahu
107
Davide ASSAEL - La maestria tattica di Bibi rischia
di produrre il disastro strategico di Israele 115
Anna Maria COSSIGA - La memoria della Shoah è il pilastro
dell’identità di ebrei e israeliani 123
Shaul MAGID - Gli ebrei d’America: diaspora disorientata
131
Peter BEINART - ‘Altro che le tribù!
Il problema di Israele è la supremazia ebraica’ Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
PARTE II
TOPOGRAFIA DELLE FAGLIE E DEGLI SCONTRI
141
Yochanan ZOREF - 60-90, Israele on the road
147
Ahmed BAKER DIAB e Yitzhak SCHNELL - Non è un paese per arabi
153
Pierbattista PIZZABALLA - ‘In Terrasanta non ci si parla più’
157
ˉ ra, barometro dei tempi Elisha BEN-KIMON - Viaggio a H . uwwa
163
Umberto DE GIOVANNANGELI - L’Intifada dei Leoni di Naˉ blus
171
‘H. anaˉ n ‘AŠRAˉ WIˉ - ‘Non cederemo all’incubo del Grande Israele’
IL MONDO DI ISRAELE
PARTE III 177
Cinzia BIANCO - Il piano di Casa Sa‘uˉd
183
Dov S. ZAKHEIM - ‘Se Netanyahu farà un passo indietro gli Usa torneranno a fidarsi di Israele’ Daniele SANTORO - Ankara e Gerusalemme condannate a piacersi Kobi MICHAEL e Ori WERTMAN - I nemici alla finestra su Israele aleggia l’ombra della guerra Nicola PEDDE - Contro Israele Teheran gioca la carta cinese Lorenzo DI MURO - L’India punta al Mediterraneo attraverso Israele Massimo GIULIANI - Nelle scuole degli Emirati si insegna la Shoah Corrado CˇOK - I paesi del Golfo, Israele e il centro della scena Mauro DE BONIS - Acrobazie russe e israeliane per non spezzare un rapporto irrinunciabile Bruno CIANCI - Israele e Grecia, amici per la pelle Luciano POLLICHIENI - Israele e Sudan si usano nel Mar Rosso
191 205 217 225 235 245 255 261 269 AUTORI 277
LA STORIA IN CARTE 279
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a cura di Edoardo BORIA
ISRAELE CONTRO ISRAELE
La sindrome ottomana C
1. HI È ISRAELE? LO STATO EBRAICO RISCHIA LA VITA per non rispondere a questa domanda. Perché inevitabile ne consegue l’altra: di chi è Israele? Qualsiasi risposta amputa il corpo israeliano di una o più sezioni. Tribù, adottando il linguaggio biblico oggi ricorrente per distinguere i sottogruppi che in Terra promessa si agitano, distinguono, rimescolano. Nello Stato dai confini non identificati, perché se li delimitasse si spaccherebbe. Dilemma. Se mondo ebraico, rabbinato e società israeliana tuttora disputano su chi sia ebreo, come pretendere di definire l’identità dello Stato? Ma se il corpo del paese si frammenta e dilania sui princìpi primi, dunque sulla legittimità delle istituzioni, come schivare la questione regina che ne determina e giustifica l’esistenza? Di sicuro il re è nudo. Le acrobazie con cui Ben-Gurion e successori hanno inventato poi evoluto Israele in potenza regionale e avanguardia tecnologica non ne garantiscono il futuro. Serve un fondamento o il ripudio definitivo di qualsiasi fondamento. La costituzione cui si è finora rinunciato causa eccesso di eterogeneità nella società israeliana. O l’esplicita abdicazione a dotarsene per vivere alla giornata, ciò che fino a un paio di mesi fa pareva ricetta di successo. Costituzione della non-costituzione. A settantacinque anni dall’avventurosa nascita, cinque dopo l’autocertificazione quale Stato nazionale del popolo ebraico via maggioranza d’un voto in parlamento, la creatura sionista è scossa da crisi identitaria. I suoi dirigenti evocano lo spettro della guerra civile. Caduto il tabù dei tabù, tutto è possibile. Il sogno dei nemici d’Israele, che fiduciosi ne attenCopia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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LA SINDROME OTTOMANA
dono l’autodistruzione, parrebbe prossimo a compiersi. Come al contrario persiste la fede di chi intravvede nella crisi la leva per ristabilire su basi meno incerte il rifugio per ebrei eretto dai superstiti della Shoah. Perché non ne considera affatto esaurita la funzione. Anzi, l’antisemitismo serpeggia ovunque, in forme talvolta banali, talaltra inconsapevoli, spesso violente, tanto da ammetterlo nei salotti del politicamente corretto. La certezza che comunque evolva la partita in corso muterà di qualche grado la correlazione delle forze in Medio Oriente, quindi peserà nella sfida planetaria fra Stati Uniti, Cina e Russia che si gioca anche attorno a casa nostra, impone di raffreddarne l’analisi. Per scavarne le radici. Per anticiparne e governarne gli esiti. Causa efficiente di tanto caos è la riforma giudiziaria voluta da un primo ministro impegnato a sfuggire il processo per corruzione e perciò abbarbicato al potere, costi quel che costi. Lo scopo è neutralizzare la Corte suprema, da tempo usa surrogare funzioni tipicamente politiche nel non scritto squilibrio fra poteri. E affermare il primato del governo o meglio del suo capo, signore e gran manipolatore del parlamento. Ironia della cronaca che produce conseguenze storiche. Il colpo di mano di Binyamin «Bibi» Netanyahu strappa il sipario che celava la montante insofferenza fra tribù israeliane. Conferma che Israele non è nazione. Altrimenti non produrrebbe lo scontro identitario che ne contrappone le anime. Nessuno ne è più consapevole di Bibi. Almeno da quando, fine anni Novanta, la sua strada si incrociò con un geniale consulente americano di fede repubblicana, Arthur J. Finkelstein. Di cui ha adottato il motto: «In Israele destra contro sinistra significa ebrei contro israeliani» 1. Rottura del paradigma stabilito dai laici padri della patria, in crisi controllata da quasi mezzo secolo, per cui lo Stato deve prevalere sui religiosi osservanti, previo compromesso che ne irrighi la fedeltà con privilegi ed esenzioni mirate. Da sciocchezze come libera cultura, lavoro o difesa di Israele. Il mare di bandiere nazionali che da febbraio colora di biancoblù le piazze dei manifestanti anti-Bibi conferma il teorema di Finkelstein. Quanto meno, c’è del vero in tanta rozzezza. Certo, in piazza ci sono anche religiosi. Ma il senso della protesta è la difesa del carattere laicosionista dunque liberale dello Stato da chi vorrebbe imprimervi indelebile marchio intollerante: la Torah come costituzione. Caso unico di rivolta di massa dell’establishment, di prevalente tono ashkenazita e progressista, Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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1. Cfr. I.D. COHEN, «From Nixon to Netanyahu: Political Genius Arthur Finkelstein Lived a Double Life», Haaretz, 13/9/2022.
ISRAELE CONTRO ISRAELE
incardinato nel distretto economico-tecnologico di Tel Aviv e Haifa, contro ebrei orientali e sefarditi in odore di «populismo», (non) ebrei ex sovietici e ultraortodossi d’ogni provenienza, con recenti rinforzi americani. Come testimonia rabbi Moshe B. Parnes, decano della comunità Kollel di Hollywood, per cui Ben-Gurion e associati volevano imporre la religione dell’«israelianismo» quale nuovo giudaismo, impresa di cui la Corte suprema sarebbe diventata il «bastione». Ma «il giudaismo è immortale» 2. Il carattere rivoluzionario della protesta è certificato dalla sollevazione nelle Forze armate, in particolare tra i riservisti – fra cui piloti dei caccia da cui dipende la deterrenza contro Iran e altri potenziali aggressori – con ampia solidarietà nei gradi alti. Se la vena autocratica di re Bibi prevalesse sul suo pragmatismo, fino allo scontro frontale, assisteremmo alla fusione del nocciolo della sicurezza israeliana, dall’intelligence all’esercito di popolo. O meglio del popolo abilitato a servire la patria, gran parte dei haredim – timoratissimi «studenti della Torah» – e arabi esclusi. La quasi totale assenza di arabi nelle piazze in rivolta ne conferma la crescente estraneità allo Stato, già esibita nelle violenze del maggio 2021 fra ebrei e palestinesi interni (carta a colori 1). Corposa minoranza, ignorata nel molto emotivo intervento del presidente Yitzhak Herzog a ribellione inoltrata, evocazione dell’«abisso» in cui Israele starebbe per precipitare 3. La sospensione della riforma e l’avvio di faticosi negoziati fra maggioranza e opposizione per inventare un compromesso non significano la fine dell’emergenza. Le faglie interne alla società non spariscono grazie a un lodo pacificatore. Sono inscritte nell’evoluzione demografica, antropologica e sociale di Israele (carta a colori 2). Nel fattore umano. Nella vocazione centrifuga, refrattaria al riconoscimento reciproco fra gli aggruppamenti separati in Eretz Yisrael come in diaspora. Il catalogo delle tribù proposto dall’ex presidente Reuven Rivlin nell’ormai celeberrimo intervento del 7 giugno 2015 alla conferenza di Herzliya fotografava la partizione fra arabi ed ebrei laici, religiosi e ultraortodossi 4. Secessione strisciante, di carattere «strutturale, che non avremo mai il potere di cancellare». In altre parole, la nazione è impossibile perché ve ne sono almeno quattro in gestazione. Netanyahu, che di Rivlin è collega di Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
2. Rabbi M.B. PARNES, «Birth pangs of a nation», Israel National News – Arutz Sheva, 28/3/2022. 3. J. SHOTTER, «Israel’s president proposes judicial compromise to avoid “abyss”», Financial Times, 16/3/2022. 4. Il testo integrale del discorso di Rivlin è pubblicato in Limes, «Israele e il Libro», n. 10/2015, pp. 161-166, con il titolo «Le quattro tribù di Israele».
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LA SINDROME OTTOMANA
partito ma non di visione, ne trae l’urgenza di proclamare tre anni dopo lo Stato nazionale del popolo ebraico. Ma l’impossibile unità nazionale non deriva per forza dal tribalismo. Anche le tribù cambiano. Il punto è che Israele le sta incentivando. Fino a consolidarle quasi-nazioni nella non-nazione. Che cos’altro produce la persistenza di quattro tipi di scuole, uno per tribù (cinque, considerando quello dedicato all’esigua minoranza drusa), espressione secondo Rivlin di «visioni totalmente differenti dello Stato d’Israele e dei suoi valori basilari»? Spesso gli studenti di indirizzi diversi nemmeno si parlano, non solo perché attingono a idiomi distinti (carta a colori 3). Vivono in quartieri o località separate. Monoculturali (carta 1). Due delle quattro tribù, ricordava Rivlin, «non si definiscono sioniste«: «Non guardano la cerimonia della torcia sul monte Herzl il giorno dell’Indipendenza. Non cantano l’inno nazionale con gli occhi lucidi». Senza pedagogia israeliana niente nazione israeliana. Quando poi i governi sovvenzionano le scuole che antepongono se non contrappongono il Libro allo Stato, incentivano la segregazione. Israele genera le tarme che ne corrodono le impalcature. Per questo gli «israelianisti» vorrebbero riunirlo oltre ogni faglia etnica e tribale, con buona pace del radicalismo religioso. Per integrare i «propri» arabi e le altre minoranze senza più ipocrisie. Rovesciamo la prospettiva. E allarghiamo lo sguardo per non cadere nel catastrofismo determinista che oscura l’analisi. Istinto comprensibile per chi vive la crisi dall’interno di una comunità che nella sua quota sionista ha costruito questo Stato per sopravvivere e ne sente erodere il senso. Israele è figlio della paura. Se il suo scopo era eliminarla, ha fallito. Se invece vi convive anzi la usa per gestirla, finora ce l’ha fatta. Nessuna garanzia per il futuro. Ma nemmeno condanna a morte. Lo Stato è mezzo, non fine. Questo Israele sancisce il diritto di ogni ebreo a tornarvi – salvo contorcersi su chi ebreo sia o non sia. Provisorium permanente. In attesa dell’ultimo giudeo. Non essere Stato nazionale, e nemmeno Stato a tutto tondo, può svelarsi segreto del successo. Nella fluidità, accomoda ebrei diversi e resta aperto ai diasporici. Chi è Israele? Di chi è Israele? In questa ipotesi, conservativa, non puoi né devi rispondere, altrimenti sei finito. Nella prima, ossessiva, meglio sforzarti di farlo, se non vuoi finire nell’abisso. Nulla di davvero nuovo sotto il sole. Almeno da quando, più di cent’anni fa, il movimento sionista si affacciò all’orizzonte dell’ebraismo e del mondo. Naturalmente diviso, per carità. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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ISRAELE CONTRO ISRAELE
1 - MOSAICO ISRAELIANO Le élite ashkenazite di origine europea concentrate soprattutto nella zona Nord di Tel Aviv Gli arabi israeliani
LIBANO Alture del Golan
Religiosi e ultraortodossi
GALILEA
Haifa
I "russi" I mizrahim ("orientali"): provenienti dalle immigrazioni dai paesi arabi e islamici (appartenenti in grande maggioranza agli strati sociali più poveri)
SIRIA
Tiberiade Nazaret
Umm al-Fahm (epicentro arabi israeliani) Jenin
Ma r Me di t e rran eo
Netanya
Tūlkarim . Nāblus Kfar Saba
Tel Aviv (epicentro ebrei secolari) Bat Yam Rishon LeTziyon Ramla
Ashdod
Cisgiordania Modi‘in
GIORDANIA
Gerico
Gerusalemme
Bnei Brak (epicentro ebrei ultraortodossi) Kiryat Gat Gaza
Efrat Beitar Betlemme (epicentro ebrei nazional-religiosi) ‘Illit
al-Halīl (Hebron)
ISRAELE Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
NEGEV
EGITTO
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LA SINDROME OTTOMANA
2. «Lo scopo della nostra impresa non dev’essere la Terrasanta ma una terra nostra» 5. Nel motto di Leo Pinsker, ebreo polacco nato a Odessa, sta il nocciolo del territorialismo. Sionismo senza Sion. Negletta variante del sionismo classico, da cui devia per anteporre la salvezza del popolo ebraico al ritorno in Eretz Yisrael. Per i territorialisti il tempo prevale sullo spazio: urge un rifugio per i perseguitati, fosse solo un «Nachtasyl», dormitorio dove passare al sicuro la notte in vista dell’alba di Gerusalemme. Per i loro critici di fede radicalmente sionista, solo la terra degli avi è legittima patria degli ebrei. Obiettivo senza tappe intermedie. Il territorialismo ha invece fretta perché ossessionato dalla catastrofe che incombe sul giudaismo nell’Est europeo. È geopolitica umanitaria che antepone al postulato religioso la vita degli ebrei in diaspora. Non cerca lo Stato ebraico, ma una patria (Heimat) sicura e accogliente. Il sionismo maggioritario si concentra sul traguardo finale e si preoccupa anzitutto dello yishuv, la comunità ebraica in Eretz Yisrael. Per quanto assai influente nei primi decenni del Novecento, il movimento territorialista è trascurato sia dalla storiografia che dalla pedagogia israeliana, salvo recenti eccezioni. L’ottima ragione è che a sostenerne le tesi scopriamo il padre della patria, elevato a profeta dello Stato di Israele: Theodor Herzl. I semi del territorialismo herzliano sono già nel suo primo pamphlet di successo, Lo Stato ebraico (1896), uscito quattordici anni dopo il grido di Pinsker. Dove l’alternativa terra nostra/Terrasanta si riduce ad Argentina o Palestina. Soprattutto, Herzl non contesta l’appartenenza della Palestina all’impero ottomano. Il suo modello non è lo Stato nazionale sovrano. Semmai il distretto imperiale. Entità autonoma in cui possono convivere diversi gruppi etnici e religiosi. A maggioranza ebraica, in armonia con arabi e altri indigeni. Sion resta mèta finale. Mito mobilitante. Negli anni Herzl valuterà per l’autonomia ebraica ipotesi le più varie, da Cipro a Mesopotamia e Mozambico. Preferibilmente, Sinai. Ragiona dal punto di vista di una minoranza in ambito imperiale. Herzl, nato a Budapest e morto a Vienna, come molti altri capi sionisti respira aria di impero plurinazionale. È impregnato di spirito asburgico e di cultura germanica. Come Pinsker, considera il tedesco alto – non lo yiddish, nemmeno l’ebraico appena recuperato – lingua di comunicazione transnazionale, veicolo della cultura illuministica e laica da Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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5. Cfr. R.G. WEISBORD, African Zion: The Attempt to Establish a Jewish Colony in the East Africa Protectorate, 1903-1905, Philadelphia 1968, Jewish Publication Society of America, p. 41.
ISRAELE CONTRO ISRAELE
trapiantare nel campo giudaico. Quanto di più lontano dal nazionalismo ottocentesco perché espressione dell’universalismo ebraico. Insofferente dell’antitesi fra ebreo ed europeo perché fiero del contributo inestimabile offerto dalla cultura ebraica a quella francese, tedesca o inglese. Herzl si spegnerà poco dopo aver pubblicato nel 1902 il romanzo utopico Altneuland (Vecchia terra nuova). Proiezione letteraria del sionismo ideale che trasforma la Palestina in fiorente focolare ebraico, multinazionale, disarmato e progressivo, sotto nominale ombrello ottomano. Il portabandiera del sionismo morirà di crepacuore. Meglio: di territorialismo ferito. La tragedia ha un titolo: «Piano Uganda». Segue svolgimento. Nell’aprile 1903 un orribile pogrom colpisce gli ebrei di Kišinëv, nella Bessarabia russa 6. Emozione enorme nel mondo ebraico e non solo. Su quest’onda, Herzl è ricevuto dal ministro britannico per le Colonie, Joseph Chamberlain: «Nei miei viaggi ho visto una terra per voi. Si chiama Uganda». In realtà si trova nel Protettorato britannico d’Africa orientale, in Kenya. Chamberlain ne è colpito mentre viaggia sul treno dell’Uganda Railway, compagnia di cui è promotore, da Mombasa al Lago Vittoria. Da questo lapsus il nome tuttora attribuito alla generosa offerta: «Piano Uganda». (Ironia vuole che tanto equivoco sia evocato a Gerusalemme nel pub Uganda, locale alternativo che esibisce dietro il bancone un ritratto di Herzl.) Chamberlain magnifica l’«Uganda»: «Assomiglia molto alle colline del Sussex e, in parte, a un parco inglese. Profusione di fiorenti rose inglesi. Vi si può coltivare ogni genere di frutta e verdura inglese» 7. Il ministro pare sensibile alle piaghe del popolo ebraico. Quasi quanto ai suoi affari ferroviari e all’interesse britannico di insediare grati coloni bianchi in uno spazio selvaggio, ambito dai tedeschi che premono da sud. Herzl non si commuove: «La nostra base dev’essere prossima alla Palestina». Ma quando ottiene assicurazioni da David Lloyd George, deputato poi primo ministro britannico, circa la concessione di un territorio autonomo agli ebrei in Africa orientale, decide di giocare la carta «ugandese». Domenica 23 agosto 1903, davanti ai delegati al sesto Congresso sionista radunati allo Stadtcasino di Basilea, Herzl esibisce una lista di frustrazioni. I negoziati con il sultano Abdülhamid II per ottenere terra in Palestina sono falliti, così le pressioni sui britannici perché favoriscaCopia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
6. Oggi Chiúinău, capitale della Moldova. 7. Cfr. A. ROVNER, In the Shadow of Zion. Promised Lands before Israel, New York-London 2014, New York University Press, p. 53.
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LA SINDROME OTTOMANA
no la soluzione Sinai. Poi il colpo di scena. Herzl annuncia di aver ricevuto dal governo di Londra la proposta di installare «un insediamento ebraico autonomo in Africa orientale (…) sotto la sovrana supervisione britannica». Ovazione e triplo urrà per l’Inghilterra. Entusiasmo presto smaltito. Herzl stesso ammette che «non è né potrà mai essere Sion». Il 31 agosto annoterà sul diario di aver lanciato il suo movimento per creare un’entità ebraica «n’importe où» («dovunque»), salvo poi divenire «amico di Sion» 8. Ma il sionismo è tale perché mira a Sion. Non terra qualunque. Luce che illumina la marcia degli ebrei perseguitati nel cammino di salvezza. Non c’è competizione con uno sconosciuto spicchio d’Africa. Il mito nobilita lo spazio. Mobilita gli ebrei erranti. Gerusalemme non è l’Uganda (carta 2 e carta a colori 4). Contro Herzl si scatenano con speciale violenza i russi. Il loro capo, Avraam Menakhem Mendel’ Usyškin, assente a Basilea, bollerà Herzl «territorialista assoluto», incurante della nazione di Israele. Traditore. Ma al Congresso la fazione herzliana resiste. Un delegato ostenta una mappa a colori che mostra come la Valle del Giordano sia prolungamento della Grande Fossa Tettonica (Great Rift Valley), estesa per seimila chilometri dalla Siria settentrionale al Mozambico centrale, via «Uganda». Ergo, «Uganda» è nel Grande Israele. Il brillante scrittore inglese Israel Zangwill volge in poesia il bieco dato geografico: «L’anima è più grande del suolo. E l’anima ebraica può creare la sua Palestina ovunque, senza necessariamente perdere la storica aspirazione per la Terrasanta». In fine si decide a maggioranza – 295 ja contro 178 nein e 99 Stimmenthaltungen (astensioni) – di inviare una missione a ispezionare la «Nuova Palestina», identificata nell’altopiano keniota di Uasin Gishu. Gli ispettori, forse prevenuti o manipolati, ritornano col pollice verso. Il successivo Congresso seppellisce per sempre il «Piano Uganda». Herzl si spegnerà per arresto cardiaco il 3 luglio 1904 all’età di 44 anni. Gli amici sosterranno che a ucciderlo sia stato lo stress «ugandese». In specie l’ostilità di Usyškin. Il quale dopo Basilea aveva urlato a Herzl, già sofferente: «Per te non c’è posto alla testa del movimento sionista». Usyškin sarà uno dei delegati ebraici alla Conferenza di Versailles. Nel 1923 verrà nominato capo del Fondo nazionale ebraico. Zangwill fonderà nel 1905 l’Organizzazione territorialista ebraica, di cui sarà araldo fino allo scioglimento, nel 1925. Curiosamente, lo Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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8. T. HERZL, The Complete Diaries of Theodor Herzl, vol. 6, 31/8/1903, a cura di R. PATAI, New York 1960, Herzl Press and Thomas Yoseloff, pp. 1547-48.
ISRAELE CONTRO ISRAELE
2 - AI TEMPI DI DAVIDE Tifsach
C IPR O
Hamot
ARAMEI
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M a r M e d i t e r r a n e o
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I S R A E L E Giaffa
Rabbat Ammon AMMON Gerusalemme
FILISTEI Gaza
Hebron
D e s e r t o
GIUDA MO‘AB Beer Sheva
‘EDOM
EGITTO
Territorio di Giuda e Israele Etzion-Geber
Regni conquistati Confine dell’Impero di Davide
Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
storico revisionista Ben-Zion Netanyahu, padre di Bibi, vorrà elevarlo a «antenato del sionismo» 9. Affidiamo alle parole di Zangwill (foto) la definizione del territorialismo sionista: «Lasciate che gli ebrei, con il loro genio per la rettitudine, stabiliscano uno Stato ebraico in cui la giustizia sia meglio amministra9. Cfr. la sintesi della relazione di A.M. DUBNOV, «Degeneration Anxieties: On the littleknown connection between Israel Zangwill, Max Nordau and Ben-Zion Netanyahu» al seminario «Zangwill and his Legacies» tenuto alla Queen Mary University di Londra il 14/9/2022.
15
LA SINDROME OTTOMANA
ta che in qualsiasi altro Stato, in cui la moralità stia in alto e il crimine in basso, in cui i problemi sociali siano meglio risolti, in cui i diritti delle donne siano uguali a quelli degli uomini, in cui ricchezza e povertà non siano così terribilmente divise, in cui la vita semplice sia ideale universale; lasciate che accendano questo loro faro sulla collina di Sion o sull’altopiano dell’Africa orientale. E così faranno di più per la missione ebraica di venti secoli di prediche dal pulpito» 10. Israel Zangwill (1864-1926) Lo scontro fra sionismi originari illumina la disputa attuale sull’identità di Israele. Al di là della controversia sul dove, ci ricorda che molti fra i fautori dell’impresa sionista non vogliono in origine uno Stato nazionale sovrano modellato sui risorgimenti europei: secessioni della nazione dall’impero. Persino il revisionista Ze’ev Žabotinskij scrive nel 1926: «La futura Palestina dev’essere fondata, legalmente parlando, quale “Stato bi-nazionale” (…) Ogni terra che ospiti una minoranza etnica, anche la più piccola, deve dopotutto, secondo le nostre più profonde convinzioni, adattare il suo regime giuridico a questo fatto e diventare uno Stato bi- tri- o quadri-nazionale» 11. Costoro considerano anzi l’impero, in specie l’ottomano e poi il britannico, placenta entro cui accomodare e proteggere un’entità autonoma, più o meno statuale, governata dalla maggioranza ebraica in coabitazione con le minoranze, arabi in testa. Chiamiamoli sionisti sub-imperiali. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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10. I. ZANGWILL, «The East Africa Offer», in Speeches, Articles and Letters of Israel Zangwill, a cura di M. SIMON, London 1937, Soncino Press, p. 204; cit. in G. ALROEY, «“Zionism without Zion”? Territorialist Ideology and the Zionist Movement, 1882-1956», Jewish Social Studies, Fall 2011, vol. 18, n. 1, p. 11. 11. Cit. in A. DUBNOV, I. BEN AMI, «Did Zionist Leaders Actually Aspire Toward a Jewish State?», Haaretz, 1/6/2019. Dove si illustrano le tesi della revisione storiografica in questione, tra cui spicca il volume di D. SHUMSKY, Beyond the Nation-State: The Zionist Political Imagination from Pinsker to Ben-Gurion, New Haven-London 2018, Yale University Press.
1 - LA CRISI DI MAGGIO
Alture del Golan
LIBANO
Zona Undof (Onu)
Percentuale di arabi sul totale della popolazione per regione naturale fino a 20 da 21 a 40 da 41 a 60 oltre 60
‘Akko (Acri) S I R I A
Haifa Tiberiade Nazaret Umm al-Fahm
Città teatro dei principali scontri tra arabi d’Israele ed ebrei Principali luoghi bombardati dai razzi provenienti dalla Striscia di Gaza
Tel Aviv Giaffa Bat Yam Lod
6 mn 12 mn 15 mn limite di pesca
Cisgiordania
G I O R D A N I A
Ramla Gerusalemme Riepilogo degli sfratti nella comunità palestinese a Gerusalemme Est Edifici 69 Famiglie 180 Palestinesi 818 di cui minori 372
Gaza Striscia di Gaza Rafah Qassam-3 (12 km) Grad (20 km)
Rahat Beer Sheva
Bayt Hanīnā 41
Ws-1E (45 km)
Gerusalemme Est
Fajr-5 (75 km) I S R A E L E
EGITTO Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
Area vietata alla pesca Raggio dei missili lanciati dalla Striscia di Gaza
Cisgiordania GERUSALEMME EST 97
Šayh Ğarrāh Karm al-Ğā‘ūnī 27 Šayh Ğarrāh 139 Umm Hārūn - Šayh Ğarrāh GERUSALEMME OVEST
Silwān-Hulwa Wādī ISRAELE
Cisgiordania e Gaza Tracciato barriera di separazione Fonte: Ufficio statistico centrale, Israele (2017) - Rapporto Ocha (2021)
81
Città Vecchia
Beit Safafa 88
24 12 309 Ra’s al-’Āmūd Silwān - Batn al-Hawā
Palestinesi a rischio sfratti Barriera di separazione Municipalità Gerusalemme Est Insediamenti israeliani Zone palestinesi
2 - ISRAELE
DISTANZE TRA CITTÀ
L I B A N O Zona Undof (Onu)
Area fittamente urbanizzata ‘
Tel Aviv Gerusalemme 53,47 km (linea d’aria) 64,5 km (strada)
Gerusalemme Gaza Alture del Golan (annesse 92,39 km (linea d’aria) da Israele) 113,42 km (strada) Lago Haifa Ashkelon di Tiberiade 134,72 km (linea d’aria)
Akko (Acri) Haifa
159,54 km (strada)
Nazaret Mar Mediterraneo
S I R I A
Jenin Netanya
Tūlkarim
Cisgiordania
Ramat Gan
Rāmallāh
Giud
ea
Gerico GERUSALEMME
F. Giordano
Tel Aviv
Ashdod
G I O R D A N I A
Nāblus
Hertzliya
ti di
Ashkelon Striscia di Gaza
Mon
Gaza Hān Yūnis
Betlemme
al-Halīl
Mar Morto
Depressione da 0 a 100 m da 100 a 500 da 500 a 700 da 700 a 1.000 Alture del Golan Zona cuscinetto Onu Muro costruito in Cisgiordania e intorno a Gaza
Rafah Beer Sheva
Muro in progetto in Cisgiordania
Dimona I S R A E L E
Linea verde
E G I T T O Lo Stato di Israele è una repubblica parlamentare fondata nel 1948 Superficie: Popolazione: Età media: Capitale: Città principali: Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
20.918 km2 8,65 milioni di abitanti (74,8% ebrei, 20,8% arabi, 4,4% altri) 29 anni Gerusalemme (agglomerato urbano 1,2 milioni) Tel Aviv (agglomerato urbano 3,8 milioni) Haifa (370 mila) Beer Sheva (369 mila)
DISTANZE TRA CITTÀ Eilat
Forze armate: 186 mila, più 445 mila riservisti Leva obbligatoria per uomini e donne Armi nucleari: non dichiarate (stimate fra 80 e 200 testate) Economia: 69,5% servizi, 26,6% industria, 2,3% agricoltura Imprese ad alta tecnologia: ubicate a Tel Aviv, Ramat Gan, Hertzliya, Haifa (20% del pil) Primo partner commerciale: Stati Uniti d’America
Tel Aviv 281,20 km (linea d’aria) 336,42 km (strada)
Gerusalemme Nāblus 29,33 km (linea d’aria) 42,99 km (strada) Gerusalemme Gerico 24,97 km (linea d’aria) 36,33 km (strada)
Eilat ©Limes
Ampiezza massima di Israele: 470 km circa nord-sud e 135 km circa est-ovest
3 - LINGUE D’ISRAELE Ebraico Arabo Yiddish Russo Amarico (in via di estinzione)
LIBANO Kiryat Shmona Alture Rosh Pina del Golan (annesse Tzfat da Israele)
‘Akko (Acri)
Kiryat Ata Lago Tiberiade di Rekhasim Tiberiade Kfar Kana Migdal ha‘Emek
n
e
o
Haifa
SIRIA
M a r
M e d i t e r r a
Afula Beit Shean
Netanya
Cisgiordania Nāblus
GIORDANIA
Bnei Brak Petach Tikva Tel Aviv Bat Yam Lod Rishon LeTzion Ramla
Tifrach
Ashdod GERUSALEMME
Kiryat Gat Gaza
‘Arad Dimona
Beitar ‘Illit
Mar Morto
Beit Shemesh
Ashkelon
Beer Sheva
Mitzpe Ramon
Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
ISRAELE Tifrah ‘Arad
Beer Sheva
Dimona
E G IT TO Eilat
GIO RDANIA
I S R A E L E
4 - LA CITTA VECCHIA
Porta di Erode
Porta di Damasco
Piscina di Betzaeta
QUARTIERE MUSULMANO Chiesa di Sant’Anna Cappella della Flagellazione
Monastero di Notre-Dame
Porta Nuova
o Via D
QUARTIERE CRISTIANO
loro s
Porta dei Leoni
a
Porta d’Oro (chiusa) al-Harām al-Šarīf . Monte del Tempio
QUARTIERE MUSULMANO
Basilica del Santo Sepolcro
Cupola della Roccia Imperial Petra
Porta di Giaffa
Muro occidentale (o del Pianto)
Ingresso per i non musulmani
Moschea al-Aqsā .
Piazza del Muro
CITTADELLA
Porte di Hulda (chiuse)
QUARTIERE ARMENO QUARTIERE EBRAICO Cattedrale di San Giacomo
Porta dell’Immondizia
CITTÀ
DI DAVID Ingresso alla Città di David Quartiere Reale Pozzo di Warren
Porta di Sion Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
Tunnel del Muro occidentale
0
100
200 m
Moschee
Alberghi (Imperial e Petra) venduti agli ebrei dai greco-ortodossi
Altri siti religiosi importanti
Edifici occupati da ebrei ortodossi
Spianata delle Moschee
Importanti aree religiose
Area della Città Vecchia
Sinagoghe
Quartiere ebraico
Tripoli
MALTA
Fonte del pil: Banca Mondiale, dati 2019
Il Grande Medio Oriente nel 1914 Impero ottomano Stato teoricamente vassallo dell’impero ottomano Territori ottomani sotto amministrazione britannica
Possedimenti britannici Territori sotto protezione britannica Territorio sotto il controllo congiunto anglo-egiziano
Sinai
. Medina
Italia e suoi possedimenti Francia e suoi possedimenti Impero russo Zona persiana sotto influenza russa
Addis Abeba
Aden
Somaliland
GIBUTI
ETIOPIA
co
Balucistan occidentale
OMAN
©Limes
SOMALIA
Zufār .
1-
Libano
90 00 -19 -20 75 985 011 9 1 1 2
Yemen
-70 -* 34 62 72 79 94 98 11 19 19 19 19 19 19 20
Siria
1 20
Iraq
Guerre -88 -11 80 90 03 11 19 19 20 20
PAKISTAN
Conflitto arabo-israeliano
* Guerra americana contro al-Qā‘ida -09 8 4 56 67 73 82 06 08 12 14 19 19 19 19 19 20 20 20 20
Sultanato 29.052 dell’Oman
E.A.U.
Mascate
QATAR 96.491 69.900
29.832
Confini attuali degli Stati
Confini dei paesi strategicamente importanti nella guerra in Siraq
AFGHANISTAN Pil pro capite (ppa, in dollari)
BAHREIN 46.891
3.688 (2013) t aw am r d . H. a YEMEN
Riyad
Persi
14.535
IRAN
Teheran
Go lf o
Nagd e al-Ahsā’ .
La Mecca
Asmara
ERITREA
Port Sudan
2.430
48.908
KUWAIT
Mesopotamia
Baghdad
ARABIA SAUDITA
GIORD.
Khartūm
SUDAN
EGITTO
Il Cairo
IRAQ
Mar Caspio
TURKMENISTAN
5 - GUERRE DI SUCCESSIONE OTTOMANA
2.126 11.332 Damasco Amman 10.361
Beirut
SIRIA
z
CIAD Direttrici d’influenza strategica: Arabia Saudita (Yemen + Golfo Persico) Iran (Baghdad, Damasco, Beirut + Golfo Persico) Israele (Sinai + Libano + Giordania) Turchia (Siria + Kurdistan iracheno + Mediterraneo)
al-Kufra
15.327
LIBANO
CIPRO
TURCHIA
Ankara
27.975
Mar Nero
gā
NIGER
Fezzan
ISRAELE
42.193
Dodecaneso
Cirenaica
Mar Mediterraneo
LIBIA
Tripolitania
TUNISIA
Tunisi
Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
Hi
Īrbid
Betlemme
EGITTO
‘Aqaba
Eilat
Petra
Palestina
(Mandato francese)
SIRIA
Limite approssimativo dell’area in cui gli ebrei speravano di fondare la loro entità nazionale
Limite del mandato britannico
Ma‘ān
Territorio mandatario ceduto agli hashemiti (1921)
Territorio ceduto alla Siria francese (1923)
EMIRATO DI TRANSGIORDANIA
Rafah. al-Karak Beer Sheva
Gaza
Amman
al-Qunaytra
Giaffa Gerusalemme Ashkelon
Tel Aviv Rāmallāh
Nablus
Haifa
‘Akko (Acri)
Tiro
Damasco
Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
Sidone
Beirut
IL MANDATO BRITANNICO IN PALESTINA
Carta 6a Carta 6b
N
Zona sotto controllo Onu
Stato ebraico
Stato arabo
EGITTO
Gaza
E
LIBANO
G
Eilat
E
‘Aqaba
V
Beer Sheva
al-Halīl
Betlemme
Gerico
Nāblus
Nazaret
Tiberiade
GALILEA
Gerusalemme
Tel Aviv Giaffa
Hadera
Haifa
PIANO ONU 1947 S I R I A
TRANSGIORDANIA al-Halīl
Betlemme
S I N A I
‘Aqaba
Eilat
N E G E V
Beer Sheva
GIORDANIA (dal 1950)
Amman
Īrbid
SIRIA
Israele
Area sotto il controllo egiziano
Area sotto il controllo giordano
Area smilitarizzata
Gerico
Nāblus
Nazaret
Tiberiade
Gerusalemme
ISRAELE
EGITTO
Gaza
Ashkelon
Tel Aviv Giaffa
Netanya
Haifa
LIBANO
GALILEA
ISRAELE NEL 1949
Carta 6c
Valico di Erez Il valico, riservato ai pedoni, è l'unico punto di transito tra Gaza e Israele. Nel 1991, Israele ha annullato il “permesso generale di uscita” e iniziato a richiedere ai residenti palestinesi permessi individuali per varcare il confine. Oggi i permessi vengono per lo più concessi solo in quelli che IsraeleZ definisce “casi umanitari eccezionali”. ona vie (1,tata a 5 m lla Barriera navale n) pe (400 m) sca ACCESSO PROIBITO
7 - LA STRISCIA DI GAZA
6m Lim igli ite a na di p uti esc che a
Lim Lim 1 ite ite 5 m di 20 di igl pe mi pe ia sca gli sca na (ac a na u (ap tic cor ut rile he di ich 20 di e 19 Os lo 1 ) 99 5)
Danni subiti durante il conflitto israelo-palestinese (2021) 450 Edifici non residenziali 169 Edifici residenziali 24 Centri sanitari 50 Edifici scolastici 3 Impianti di desalinizzazione
Valico di Erez Beyt Lāhyā GAZA NORD Bayt Hānūn
al Šāti’ Gaza
Secondo l'accordo interinale israelo-palestinese (1995) i pescatori di Gaza possono navigare fino a 20 miglia nautiche al largo della costa. Di fatto Israele non ha mai consentito l'accesso fino a quel limite. Negli ultimi anni la zona di pesca è variata, per la maggior parte del tempo, da tre a nove miglia nautiche.
GAZA
Valico di Nahal ‘Oz Valico di Karni
Valico di Salāh al-Dīn Si trova a circa quattro chilometri a ovest del valico di Rafah ed è stato utilizzato per trasportare merci a Gaza dall'Egitto a partire dal febbraio 2018. Sul lato di Gaza, il valico è controllato da funzionari di Hamās.
Dayr al-Balah AREA CENTRALE
Valichi chiusi Il valico di Karni è stato costruito nel 1994 e fungeva da principale passaggio commerciale per il trasferimento di merci da e per la Striscia. Nel giugno 2007, quando Hamās ha preso il controllo di Gaza, Israele ha chiuso il valico, lasciando solo un nastro trasportatore utilizzato per il trasferimento di cereali e mangimi, rimasto operativo fino al marzo 2011.
Hān Yūnis HĀN YŪNIS
Il Sūfa è stato costruito nel 1994 ed è stato utilizzato per il trasporto di materiali da costruzione a Gaza. Israele lo ha chiuso nel 2008. Il Nahal ‘Oz, utilizzato per il trasporto di carburante, è stato chiuso all'inizio del 2010.
RAFAH Muro Fasce di sicurezza: 100 metri 300 metri 1.000 metri 0 1 2
Rafah Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
Valico di Rafah Inaugurato nel 1982, Rafah è l'unico passaggio pedonale tra Gaza e l’Egitto. Salvo crisi, è aperto cinque giorni a settimana.
Aeroporto internazionale (distrutto)
4 km
Valico di Sūfa Valichi di frontiera attivi Area poco urbanizzata e aree industriali
Valico di Kerem Shalom Questo è l'unico valico commerciale di Gaza, anche se alcune merci entrano nella Striscia dall'Egitto attraverso il valico di Salāh al-Dīn. Di norma il traffico è molto limitato. Fonte: Rapporto Ocha 2021 - Le Figaro
Area fortemente urbanizzata Campi profughi Principali strade
8 - CORIANDOLI DI CISGIORDANIA Area palestinese Zona edificata
Hinanit
Jenin
Area A (Pieno controllo palestinese)
‘Arrāba
Area B (Pieno controllo civile delle aree palestinesi civili e controllo congiunto con Israele per la sicurezza)
Qabātiyya .
Tūbās
Tūlkarim .
Rāmallāh
Nomi località palestinesi
Kdumim
Nāblus
Qalqīliyya
Mekhora
Linea verde
Argaman
Ariel Salfīt
Muro in costruzione
Ma‘ale Efraym Petzael
Municipalità di Gerusalemme
Netiv HaGdud Yitav
Beit El Ofra
I S R A E L E
Rāmallāh
Modi‘in ‘Illit
Rimmonim Gerico
Area israeliana Zona edificata
Mizpe Yericho
Area municipalizzata Area C Pieno controllo israeliano per la sicurezza, pianificazione e costruzione Zone chiuse (zone di fuoco) Aree chiuse esistenti e progettate dietro la barriera. L’accesso è limitato ai possessori di permesso Basi militari israeliane Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
Nokdim
Nomi località israeliane Zona di fuoco 918
GERUSALEMME
Gilo Betlemme Beitar ‘Illit
Nokdim
Bayt Fağğār Bayt Awlā Ma‘ale ‘Amos Halhūl al-Halīl Kiryat Arba Banī Na(īm Dūrā Yattā
al-Zāhiriyya
Almog
Sūrīf
Negohot Carmel Ma‘on
Beit Yatir Fonte: Peace Now
Ma‘ale Adumim
Mar Morto
Fiume Giordano
Città Vecchia (Gerusalemme)
G I O R D A N I A
Huwwāra Muro costruito
ISRAELE CONTRO ISRAELE
La decomposizione degli imperi europei avviata nel 1914 con lo scoppio della prima guerra mondiale, seguita dal collasso ottomano, seppellisce l’opzione placenta (carta a colori 5). La rivolta araba del 1936-39 elimina l’illusione della futura pacifica convivenza di ebrei e palestinesi sotto lo stesso tetto. In risposta a quel trauma, sono nel 1937 i britannici a proporre per la prima volta uno Stato ebraico, via partizione della Palestina, piano su cui i sionisti si dividono aspramente. La Shoah non lascerà ai superstiti che la scelta fra diaspora e rifugio nello Stato di Israele. Solo qui si formerà l’ebreo «statalista», nella definizione dello storico Yaacov Yadgar. Ebreo di nuovo tipo. Sionista nazional-statale (carta 3) 12. La tormentata gestazione di Israele, resa attraverso il rifiuto della versione teleologica che vuole lo Stato vigente lineare compimento del sogno sionista proiettando la sua potente ombra sul passato ridotto a legittimazione del presente, aiuta a interpretare la crisi attuale e a ragionare sui suoi possibili esiti. Prima però di tirare le somme, un tuffo nella biografia del fondatore dello Stato serve a cogliere senso e diramazioni del sionismo sub-imperiale fino alla non spontanea transustanziazione nella versione nazional-statale. 3. Salonicco d’inizio Novecento è madre de Israel. Così battezzata in ladino dagli ebrei sefarditi espulsi nel 1492 dai cattolicissimi monarchi di Spagna e accolti a decine di migliaia nel grembo protettivo dell’impero ottomano. Grazie a tanta diaspora, per quasi cinque secoli quel vivace porto commerciale, caleidoscopio di culture, lingue e fedi le più varie, riprende il testimone di una delle più antiche comunità giudaiche, impiantata nel I secolo dopo Cristo. Solo la Shoah potrà spezzarlo. Non c’è al mondo città in cui la diaspora ebraica abbia costituito così a lungo la maggioranza della popolazione. Città magica, dove nell’autunno del 1911 si sfiorano i percorsi giovanili dell’inventore dello Stato di Israele, David Ben-Gurion, ebreo polacco nato suddito dello zar, e del fondatore della Repubblica di Turchia, Mustafa Kemal, poi Atatürk («padre dei turchi»), di probabile origine ebraica. Il 15 ottobre, il futuro creatore della Turchia moderna s’imbarca volontario dalla natia Salonicco alla volta della Libia ottomana invasa dagli italiani, per mai più ritornare nella casetta di legno dipinta di rosa dove viveva con la madre. Il 7 novembre, nello stesso scalo scende l’ebreo ashkenazita David Grün (poi Ben-Gurion), sionista socialista, aspirante cittadino ottomaCopia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
12. Y. YADGAR, Sovereign Jews: Israel, Zionism, and Judaism, New York 2017, State of New York University Press; cfr. A. DUBNOV, I. BEN AMI, op. cit.
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LA SINDROME OTTOMANA
no. Ovvero dell’impero che controlla la Palestina, dove Ben-Gurion sogna di stabilire un autonomo focolare ebraico. Facendo leva sulla prassi dei millet, sistema di autogoverno comunitario con cui la Porta regola la gestione dei principali ceppi confessionali non musulmani ricompresi nell’impero, tra cui l’ebraico. Ben-Gurion è talmente convinto che la fedeltà al sultano di Costantinopoli possa favorire l’utopia sionista da proporsi fervente ottomano: «Questo impero è la nostra patria» 13. E da immaginarsi ministro per gli Affari ebraici in un prossimo governo turco: «La Palestina appartiene alla Turchia». La popolazione ebraica che vi resta insediata sarà «come sempre» fedele all’impero 14. Specie dopo l’avvento al potere nel 1908 dei Giovani Turchi, movimento progressista occidentalizzante sorto non per caso a Salonicco, cui Ben-Gurion guarda con interesse anche perché promuove uguaglianza di diritti fra musulmani, cristiani ed ebrei. Convinzione serbata allo scoppio della prima guerra mondiale, quando finalmente giunto nella Gerusalemme ottomana si accomoda ogni mattina nell’ufficio del rabbino capo vestito da funzionario turco, fez rosso in testa, per registrare gli ebrei volontari pronti a difendere la città sacra. Niente di straordinario: la lealtà al potente del momento è antica inclinazione di quel popolo in diaspora. Istinto di conservazione. Illusione che porterà Ben-Gurion, poco prima di fuggire nel 1915 in Egitto e di lì a New York, a chiedere la cittadinanza ottomana – è ancora formalmente russo, dunque nemico in guerra – e a pagare la relativa tassa. Grazie a quella burocrazia, all’altezza della sua fama, non risulta abbia fatto in tempo a ritirare il passaporto che gli avrebbe assicurato la permanenza in terra d’Israele. Da suddito di impero nemico non gli resta che la via dell’esilio. Lui che non spicca per senso dell’umorismo né per vena autocritica, in età avanzata ammetterà di aver forse sbagliato a spingere gli ebrei di Palestina a esibirsi leali a Costantinopoli pur di non finire deportati. Al fondo, il suo sguardo su quell’ambiente è orientalista. Il suo ottomanismo è strumentale al progetto sionista di un ebreo europeo. Ben-Gurion studia con profitto il turco, però non lo considera vera lingua, giacché «non puoi esprimervi una sola idea moderna». Tantomeno simpatizza per l’ebraismo levantino. L’impatto con i sefarditi di Salonicco, da fiero ashkenazita di lingua madre yiddish, lo traumatizza per il resto della vita. La prospettiva di uno Stato sefardita in Eretz Yisrael lo inorridisce: «Dio non voglia!» 15. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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13. T. SEGEV, A State at Any Cost. The Life of David Ben-Gurion, New York 2019, Picador/ Farrar, Straus and Giroux, p. 118. 14. Ivi, p. 117. 15. Cit. in V. VACCA, «Appunti su alcuni aspetti dell’immigrazione ebraica in Israele», Oriente Moderno, anno XLI, n. 5, p. 310.
ISRAELE CONTRO ISRAELE
3 - PIANO SIONISTA PER LA PALESTINA
Beirut
LIBANO
(1919) Sidone
Damasco
Tiro
Mar Mediterraneo
Metula
Banias
SIRIA
Tzfat ‘Akko (Acri) Haifa
Tiberiade Nazaret Beit Shean Nablus
Tel Aviv Giaffa
Giordano
Dar‘ā
Amman
Gerusalemme Mar M orto
Gerico Betlemme Gaza
Hebron
Rafah. Beer Sheva
GIORDANIA
Ma‘an
EGITTO Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
ARABIA SAUDITA
- ‘Aqaba
Area che il movimento sionista voleva fosse riservata all’insediamento ebraico
Ferrovie
Confini attuali
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LA SINDROME OTTOMANA
Eppure, della lunga immersione a Salonicco e nel mondo ottomano, molto gli resterà al momento di inventare lo Stato di Israele entro quello spazio già sultanale poi affidato al Mandato britannico. Quattro secoli di dominazione ottomana in Terrasanta (1516-1918) non sarebbero comunque potuti trascorrere invano. Resta lo schema dei millet, che con adattamenti e revisioni trascorrerà in Palestina dalla Porta all’impero di Sua Maestà britannica fino allo Stato ebraico, che lo confermerà con ordinanza governativa del 19 maggio 1948. Dalle comunità religiose d’obbedienza ottomana ai sottogruppi più o meno rissosi inquadrati sotto la Stella di Davide, un principio trova diversa declinazione. Qui sta l’arcano, qui la chiave delle ricorrenti convulsioni di Israele. Per meglio intenderle, conviene tuffarci nel cantiere dei fondatori, costretti dopo la Shoah a improvvisare uno Stato per cui non hanno un piano. Israele si rappresenta rivoluzione nella traiettoria del popolo ebraico. Ma come ogni rivoluzione ideale sconta l’irriducibile continuità materiale dello spaziotempo. Organizzare un’idea è già corromperla. Inerzia del contesto. Limite alle innovazioni inscritto nella persistenza delle derivazioni. Lo Stato di Israele nasce in territorio lungamente ottomano poi autoappaltato dai britannici a sé stessi, con marchio finale delle Nazioni Unite. È radicato nello yishuv, società ebraica di Palestina, in territorio che i religiosi considerano proprio per diritto divino, ma nel quale è insediata una netta maggioranza araba – minoranza dopo la catastrofica sconfitta del 1948-49 – più sparsi aggruppamenti drusi, beduini, circassi. Soprattutto, vi si concentrano fedeli dei tre grandi monoteismi: ebrei, cristiani, musulmani. Massimo della complessità in spazio minimo. E contestato. Non sorprende perciò la sopravvivenza in Israele di elementi della legge islamica (šarø‘a) e dell’organizzazione geopolitica e legale ottomana. Dai più antichi alle innovazioni del Tanzimat (1839-76), età delle riforme destinate ad ammodernare in extremis l’impero per adattarlo alla competizione con le potenze europee. E che apriranno la breccia ai Giovani Turchi quindi alla disintegrazione dello Stato multietnico e plurireligioso 16. I millet sono adattati alla promozione di un’improbabile nazionalità ottomana che superi i particolarismi – visti dalla Porta – ovvero i nazionalismi etno-religiosi agitati dalla «primavera dei popoli» in Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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16. Cfr. R.H. EISENMAN, Islamic Law in Palestine and Israel: A History of the Survival of the Tanzimat and Shari’a in the British Mandate and the Jewish State, Leyde 1978, Brill; come pure A. LAYISH, «The Heritage of Ottoman Rule in the Israeli Legal System», in P. BEARMAN, W. HEINRICHS, B.G. WEISS (a cura di), The Law Applied. Contextualizing the Islamic Shari’a, London 2008, I.B. Tauris & Co., pp. 128-149.
ISRAELE CONTRO ISRAELE
Europa. Operazione culminata nell’ammissione dei non musulmani nell’esercito. Come non percepirne l’eco – al netto delle ovvie differenze – nelle dispute fra tribù di Israele, che accompagna dal battesimo a oggi la parabola dello Stato e verte sulla possibilità/necessità di radicare un’identità nazionale in contesto multiculturale? La questione dell’«israelianità» risente dell’«ottomania», come e più di ogni tentativo di ridurre a fattor comune società e istituzioni in ambienti eterogenei senza ricorrere alla forza. Per legittimare il proprio Stato agli occhi di chi ne è parte pur da prospettive inassimilabili. Nel neonato Israele, la preoccupazione di Ben-Gurion è di impedire che gli ortodossi pretendano di imporre la Legge ebraica (halakhah) come legge dello Stato: «Io non accetto la separazione di Stato e religione. Voglio che lo Stato abbia la religione in mano» 17. Decisivo evitare che la Casa di Israele si spacchi in due. Sionisti più o meno laici che vogliono il loro Stato, contro ortodossi più o meno rigorosi che in quel medesimo spazio aspirano solo alla vita religiosa, senza riconoscerne le istituzioni. Nel compromesso che i padri dello Stato stipulano con i rabbini rappresentativi delle maggiori comunità osservanti è stabilito che in Israele il sabato sarà festa ufficiale del riposo, mentre i credenti in altre fedi godranno del medesimo diritto nei loro giorni canonici; che i diversi sistemi scolastici dello yishuv, scuole religiose incluse, persisteranno in piena autonomia nello Stato; e che i matrimoni saranno regolati in modo da non dividere la società. Quest’ultimo aspetto è centrale nella ricezione del sistema legale pluralistico di derivazione ottomana con modificazioni britanniche, aderente al principio dell’autonomia giuridica in tema di status della persona – matrimonio, divorzio, successione. L’Israele delle origini tende a preservare tale pluralismo, per poi allargarlo dalle undici comunità religiose riconosciute nel Mandato (in primo luogo musulmani sunniti ed ebrei, ma anche cristiani latini come di varie denominazioni orientali) a quattordici, con l’ammissione di drusi, evangelici episcopaliani e bahai. Qualcuno obietterà che si tratta di coperture di comodo, non necessariamente apprezzate dagli individui soggetti alle diverse giurisdizioni. E che la coperta multiculturale reprime anziché integrare i sottogruppi Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
17. Cit. in P. STRUM, «The Road Not Taken: Constitutional Non-Decision Making in 19481950 and Its Impact on Civil Liberties in the Israeli Political Culture», in S. ILAN TROEN, N. LUCAS (a cura di), Israel. The First Decade of Independence, New York 1995, State University of New York Press, p. 92.
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LA SINDROME OTTOMANA
per impedire la crescita di un’identità condivisa che minaccerebbe il primato ebraico 18. Perché serve una doppia strategia: preserva e omogeneizza l’impronta ebraica di Israele mentre differenzia, separa, quindi indebolisce le minoranze «aliene». Sicché il sistema dei millet in salsa israeliana segmenta verticalmente le comunità non ebraiche e consolida la dominante 19. Ma se già i millet ottomani erano assai più porosi e territorialmente condizionati di quanto sancissero i decreti imperiali, tanto che la «società-mosaico» appare alla storiografia aggiornata poco più di una caricatura, in Israele i confini non solo virtuali fra gruppi etno-religiosi sono sempre più incerti, contestati e scavalcati da chi se ne sente soffocato 20. Qui interessa esemplificare come la tribalizzazione della società israeliana abbia radici molto profonde, che eccedono le dispute fra ebrei di diversa o opposta visione rispetto allo Stato, fedeli al motto «due ebrei tre opinioni». Le quattro tribù di Rivlin, con l’aggiunta della diaspora, quinta e relativamente maggioritaria, paiono semplificanti nell’odierno Israele multicolore. Ma derivano dalle contraddizioni con cui questo Stato convive dalla nascita. Ne sono costitutive. 4. Lo Stato di Israele nasce, fiorisce e tuttora vive senza costituzione. La Dichiarazione di indipendenza, fatta a Tel Aviv la vigilia di sabato 5 Iyar 5708 (14 maggio 1948), annuncia «la costituzione che sarà data dall’Assemblea costituente eletta non più tardi del 1° ottobre 1948». Aggredito da una coalizione di paesi arabi, Israele non può dedicarvisi (carte a colori 6 a,b,c). Ma non vi si proverà nemmeno dopo aver vinto la guerra e ucciso o cacciato gran parte dei palestinesi, l’anno dopo (carta 4). Né mai più. Eppure nel 1949 viene eletta una Costituente che subito si qualifica corpo legislativo del nuovo Stato, prima Knesset (parlamento). Tra il 1° febbraio e il 13 giugno 1950 seguono nove animatissimi dibattiti costituzionali. Risultati: zero. Questione rinviata sine die. La decisione di non decidere è figlia delle asimmetrie irrisolte, forse irresolubili, che distinguono lo Stato degli ebrei fin dalla culla. Insite Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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18. M. KARAYANNI, «Multiculturalism as Covering: On the Accomodation of Minority Religions in Israel», The American Journal of Comparative Law, Winter 2018, vol. 66, n. 4, pp. 831-875. 19. Cfr. Y. SEZGIN, «Nation Building and Regulation of Pluri-Legal Jurisdictions: The Case of the Israeli Millet System», in A. WHITE (a cura di), The Everyday Life of the State. A State-inSociety Approach, Washington D. C. 2013, University of Washington Press, pp. 91-105. 20. Cfr. J.-P.A. GHOBRIAL, «Towards a New History of Christians and Jews in Ottoman Society, 3-5 July 2017, University of Oxford», Journal of the Ottoman and Turkish Studies Association, vol. 4, n. 2, November 2017, pp. 419-423.
ISRAELE CONTRO ISRAELE
4 - NAKBA - I RIFUGIATI ARABI NEL 1949 Principali aree di evacuazione degli arabi (aprile-dicembre 1948) Città a forte presenza araba (la maggioranza fugge) 4.000 Numero dei rifugiati per destinazione 0,6% Ripartizione per destinazione
LIBANO 100.000 14%
e d i t e r r
a
n
e
o
IRAQ 4.000 0,6%
‘Akko (Acri) Haifa
Zfat
SIRIA 75.000 10%
M a r
M
Tiberiade
Beit Shean
Giaffa Ramla
CISGIORDANIA 280.000 38%
GIORDANIA 70.000 10%
Mar Morto
STRISCIA DI GAZA 180.000 26% Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
Beer Sheva
ISRAELE EGIT TO 7.000 1%
23 Fonti: Unwra; Atlas des Palestiniens (Troisième édition)
LA SINDROME OTTOMANA
nell’eterogeneità delle sue componenti etniche e cultural-religiose. Le prime evidenti: gli arabi residui, in gran maggioranza musulmani, non possono identificarsi con lo Stato ebraico, nel quale tuttavia tendono ancor oggi a restare non solo per carenza di alternative, consci della superiorità di diritti e protezione rispetto al caos degli ingovernati Territori occupati (contesi, nella dizione di Gerusalemme). Le seconde, interne alla famiglia giudaica, vi incidono faglie strutturali, a cominciare dalle diverse definizioni della stessa identità ebraica. E dal dissidio fra laici e religiosi, sionisti e non sionisti. Oltre a post-sionisti e scettici vari. La costituzione è la carta d’identità di una nazione. Se la nazione manca di identità condivisa e pullula di sub-identità conflittuali non può darsi costituzione. Israele si dota fin dalla nascita di doppia legittimazione. Nel sistema internazionale richiama il diritto all’autodeterminazione di un popolo che si vuole nazione ma di fatto non lo è (ancora?). Stato degli ebrei. Internamente si offre rifugio per i perseguitati, a cominciare dai sopravvissuti ai campi di sterminio. Stato per gli ebrei. Al di fuori dello schema ebraico binario restano non solo arabi musulmani, cristiani e altre minoranze etniche o religiose. A loro modo anche gli ultraortodossi che non trovano Medinat Yisrael – denominazione ufficiale dello Stato di Israele – conforme al Libro, per cui spetta a Dio decidere del ritorno dei suoi eletti in Terrasanta. Nell’èra messianica, fine dei tempi. Contraddizioni con cui tutti gli israeliani convivono pericolosamente dal primo giorno. Comporre autobiografie e utopie contrastive è il plebiscito quotidiano degli israeliani. Opera incompiuta. Non il terreno ideale per piantarvi costituzione. Produrne comunque una, a prescindere dal consenso, sarebbe esercizio forzoso. Lacerante. Su questo concordano nel 1950 i padri della patria. La rinuncia alla costituzione sarà surrogata dal corpo delle leggi fondamentali, emesse seriatim, collazionate e verniciate da prolegomeni a ogni futura Carta. Non sempre fra loro coerenti e comunque revocabili a maggioranza semplice dalla Knesset. Oggi che più voci reclamano infine una costituzione, conviene ricordare perché i fondatori non riescono a darsela. Fino a rifiutare l’ostacolo. Questioni di principio e opportunismi contribuiscono a determinare tanta lacuna. Fra le prime ne spiccano tre. In ordine di importanza. A) Lo Stato sionista che si propone di proteggere tutti gli ebrei del mondo non può produrre in Terra d’Israele una costituzione valida anche per quei nove decimi della famiglia allora in diaspora. Tale Carta in contumacia sarebbe priva di legittimità. E una costituzione a pezzi, Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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ISRAELE CONTRO ISRAELE
cantiere aperto stile Sagrada Família, sempre in attesa dell’ultimo ebreo, non parrebbe all’altezza del nome. B) Nell’Israele delle origini lo scontro di principio tra laici e religiosi ortodossi sul carattere della Carta, sulla sua stessa opportunità, sta per stroncare l’impresa. Fra l’élite sionista nelle sue componenti laiche, socialiste, liberaldemocratiche e il rabbinato indisponibile a riconoscerne il primato il compromesso sarà fluido o non sarà. Se la guida della vita sociale deve essere la legge ebraica non c’è spazio per qualsiasi tipo di costituzione laica, ispirata ai princìpi universalisti cui il sionismo herzliano e la Dichiarazione di indipendenza rendono omaggio. Come anticipa nel 1947 il futuro primo presidente dello Stato, Chaim Weizmann, acerrimo avversario di Ben-Gurion (ricambiato): «Prevedo qualcosa che forse ricorderà il Kulturkampf (Stato bismarckiano contro Chiesa cattolica, n.d.r.) in Germania» 21. C) La diaspora che si fa Stato esprime un’élite di giuristi formati in scuole assai diverse. Riflesse nella composizione della prima Corte suprema. Dei suoi nove giudici due sono nati nello yishuv, gli altri vengono da Stati Uniti, Regno Unito, Germania, Danzica, Polonia, Lituania e Russia. Due si sono addottorati negli Usa, tre in Germania, quattro nel Regno Unito. Non il massimo dell’omogeneità. Specie considerando la forte componente britannica, abbeverata alla common law, refrattaria alla costituzione scritta. Quanto ai capi politici, mancano di cultura giuridica o divergono sui princìpi costituzionali da adottare nell’improvvisazione dell’ora. Tanto che il ministro della Giustizia Pinchas Rosen (nato Felix Rosenblüth a Berlino) cerca ispirazione nella Teoria della costituzione di Carl Schmitt, «giurista della Corona» all’alba del Terzo Reich. Sotto questo angolo è interessante osservare il percorso che porta ad affossare le prime bozze di costituzione, affidate al giurista Leo Kohn, nato in Germania, ebreo moderatamente religioso salito in Palestina nel 1921, amico e consigliere di Weizmann. Kohn riceve l’incarico anche perché autore della costituzione irlandese. Le sue tre bozze, composte tra fine 1947 e luglio 1948 in inglese quindi versate non passivamente in ebraico da traduttore osservante perciò allergico a quei testi, riflettono la battaglia fra cultura laica e ortodossia ebraica. Attingendo alle costituzioni di Francia, Stati Uniti, Irlanda, Cina e soprattutto Germania weimariana (famigerata Judenrepublik), Kohn parte da un testo di stampo liberale, privo di riferimenti religiosi, per approdare, sotto lo sbarramenCopia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
21. C. WEIZMANN, Trial and Error: The Autobiography of Chaim Weizmann, New York 1949, Harper and Brothers, p. 464. L’originale ebraico è scritto nel 1947.
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LA SINDROME OTTOMANA
to delle critiche di ortodossi, autorevoli rabbini e politici religiosi, a una versione che reca la seguente nota: «La futura legislazione in Israele sarà guidata dai princìpi fondamentali della Legge Ebraica. Qualora la legge vigente non offrisse adeguato orientamento, le Corti di giustizia ricorreranno a tali princìpi fondamentali» 22. Errata corrige. Quanto agli opportunismi, almeno altrettanto influenti, basti evocarne due. L’uno politico, l’altro geopolitico. A) Ben-Gurion vuole avere le mani libere nell’invenzione del «suo» Stato. Per carattere e sensibilità politica. Qualsiasi costituzione traccerebbe un perimetro troppo cogente per la sua fatica. Complicherebbe il percorso forzato verso lo status quo cui punta per incardinare le istituzioni, frutto di compromessi informali con i suoi critici, specie con i capi religiosi. Una Carta scritta potrebbe inclinare verso qualche eccessiva concessione alla minoranza araba – aliena se non quinta colonna del nemico – o al rabbinato più intrusivo. Nella forbice fra etnonazionalismo ebraico e bussola umanistico-universalistica, Ben-Gurion tende ormai verso la prima lama. Da buon rivoluzionario evoluto in statista. Il suo pragmatismo repubblicano (mamlachtiut), trattamento omeopatico dei conflitti politici per evitare che degenerino in rissa senza sbocco, diffida di formalismi e giustizialismi. Tradotto: dei magistrati. In particolare della Corte suprema, specie se intesa all’americana come nelle bozze di Kohn, perciò capace di sovvertire le decisioni politiche. B) La costituzione può implicare la definizione dei confini di Stato. Ben-Gurion legge così il piano di partizione della Palestina varato dalle Nazioni Unite nel 1947. Gli sta molto stretto. Per accogliere i milioni di ebrei pronti alla aliyah servono anzitutto territori egiziani, come il Sinai, da acquisire per negoziato. Autolimitare lo spazio di Israele sarebbe suicidio. In sintesi: eccesso di identità irriducibili ad unum, senso di provvisorietà inscritto nella storia ebraica ed eterogeneità etno-religiosa qualificano Israele incompiuto. Ieri, oggi e probabilmente domani. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
5. La nascita dello Stato di Israele (genitivo possessivo) precede dunque la formazione della nazione. Ne discende carenza di legittimazione. Esplosa oggi nelle piazze, dopo che per decenni si è lasciato accumulare materia eruttiva nei gangli di comunità diverse, financo incomunicanti, e nelle profondità delle istituzioni. Sismi forse inevitabili nello Stato im-
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22. A. RADZYNER, «A Constitution for Israel: The Design of the Leo Kohn Proposal», Israel Studies, vol. 15, n. 1, Spring 2010, pp. 1-24.
ISRAELE CONTRO ISRAELE
provvisato per proteggere gli ebrei dai loro nemici mortali. Dai quali dev’essere percepito «cane pazzo, troppo pericoloso per essere disturbato», giusto il detto del suo massimo comandante militare, Moshe Dayan 23. Perché dopo la Shoah la ratio fondativa di Israele non è più il vago principio di autodeterminazione nazionale distillato a inizio Novecento da personalità polarmente opposte quali Lenin e Wilson, ma il diritto alla protezione e all’autodifesa di un popolo che si sente sotto assedio. Se gli israeliani non convergono sull’identità positiva, si riconoscono nella versione negativa. Israele nasce e cresce contro chi non lo vuole. Valga la nota di Hans Blumenberg, filosofo tedesco di ceppo ebraico, in Mosè l’egiziano, demolendo la tesi di Hannah Arendt su Eichmann e la banalità del male: «Vi sono Stati fondati dai loro nemici. Senza dei quali nessuno avrebbe potuto sormontarne l’impossibilità di esistere. Esistono malgrado o proprio perché qualsiasi altra cosa che ne avesse favorito l’avvento sarebbe stata troppo debole, troppo amichevole, troppo ideale e troppo letteraria per imporsi in un mondo che vuole resistervi» 24. La metafora di Blumenberg apre lo studio appena pubblicato dal sociologo francese Danny Trom su Israele «Stato dell’esilio» 25. Rifugio per gli ebrei di tutto il mondo. Perciò sempre incompleto. Infinibile quindi indefinibile. Formato nella diaspora (galut), della cui mentalità a-statuale, con tinte anarcoidi, tuttora risente (carta 5). Arcipelago di minoranze disperse chiuse in sé stesse, non sempre in metafisica attesa del ritorno in Terra d’Israele. Minoranze che d’un colpo assurgono a maggioranza proprietaria in terra dai confini mobili, volutamente imprecisati. Frazioni del pluriverso diasporico alla prima esperienza statuale. In tutto, circa 700 mila giudei abitano nel 1948 il loro Stato appena proclamato. Vi si scoprono talmente dissimili – fra loro oltre che rispetto agli arabi residui, cittadini di seconda o terza classe – da dovervi riprodurre strutture tipiche del più multiculturale fra gli imperi moderni, appunto l’ottomano, aggiornate dai britannici. Né lo yishuv è strutturato per evolvere in Stato. Su quella società segmentata si sovrappongono gli scampati allo sterminio e tutti coloro che non sopportano più la condizione dell’esilio. Faglie su faglie, stratificazioni incerte e porose. Inserite l’una sulla e Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
23. Cit. in L.R. BERES, «Surviving Donald Trump: Israel’s Strategic Options», Begin-Sadat Center for Strategic Studies, 2/2/2018. 24. Cfr. H. BLUMENBERG, Rigorismus der Wahrheit. “Moses der Ägypter” und weitere Texte zu Freud und Arendt, Berlin 2015, Suhrkamp, pp 13-14. Citazione posta in esergo al prologo del libro di D. TROM, L’État de l’exil. Israël, les juifs, l’Europe, Paris 2003, Presses Universitaires de France (Puf), p. 9. 25. Vedi nota precedente.
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45,3 39,5 2,9 2,6 1,9 1,1 1 0,8 0,8 0,6 0,2
Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
Fonti: Jewish Virtual Library, The American Jewish Yearbook (2022)
Israele 6.894.000 Stati Uniti 6.000.000 Francia 446.000 Regno Unito 393.500 Canada 292.000 Argentina 175.000 Russia 150.000 Germania 118.000 Australia 118.000 Brasile 91.500 ITALIA 27.200
numero % totale ebrei mondiale
Primi 10 paesi per numero di ebrei
Primi 25 paesi per presenza ebraica Primi 10 Da 11 a 25
6.760.000 44,5%
TOTALE AMERICHE
5 - LA DIASPORA EBRAICA
56.000 0,4%
TOTALE AFRICA
ISRAELE
TOTALE EBREI NEL MONDO: 15.200.000
1.328.800 8,7%
TOTALE EUROPA, EX URSS E TURCHIA
125.500 0,8%
TOTALE OCEANIA
6.914.000 45,5%
TOTALE ASIA
LA SINDROME OTTOMANA
ISRAELE CONTRO ISRAELE
nell’altra. Cittadini di uno Stato che si vuole liberale e di (asimmetrico) diritto, a egemonia ebraica. Prevalente logica nazionale e residuo istinto sub-imperiale – multiculturale ma con un ceppo dominante – s’intrecciano mentre si negano a vicenda. Movimento a fisarmonica. Altro che status quo. Israele è miracolo. In stato di emergenza permanente dalla nascita. Laica applicazione del principio di emergenza (hora’at sha‘ah) postulato dalla legge ebraica come sospensione del diritto positivo quando in pericolo è l’esistenza della comunità 26. Lo stato di emergenza è la costituzione materiale di Israele. 6. «Che cos’è Israele? Non si sa» 27. Così la Knesset nel 1950, fissato che la costituzione non s’ha da fare. Settantatré anni dopo, se Israele si guardasse allo specchio e ripetesse la domanda, identica sarebbe la non risposta. Eccoci tornati al punto di partenza. Resta da intuire se siamo nella paralisi che allude alla morte o nel canone del non finito michelangiolesco. La tecnica del rinvio permanente sembra al punto di non ritorno. Anime troppo conflittuali, per troppo tempo concentrate nell’offrire la propria intrattabile, assoluta risposta al «chi siamo?», si avvinghiano sull’orlo dell’abisso. Caso unico di crisi costituzionale senza costituzione né formale né materiale. Tre soluzioni «finali»: compromesso fra le tribù d’Israele, colpo di Stato o fine dello Stato per consunzione. Le ultime due soluzioni implicano violenza potenzialmente incontrollabile, dall’esito imprevedibile. Comunque rivoluzionario. Cambio di paradigma geopolitico a mano armata. La prima suppone magia in forma di sinedrio abilitato a tracciare finalmente la costituzione. Improbabile, stando all’esperienza di questi tre quarti di secolo. Necessario, per chi considera scaduto il tempo incostituzionale quindi vitale aprire la fabbrica costituzionale. Sottotesto dell’invito che il presidente Herzog ha rivolto ai massimi (ir)responsabili politici, impegnati a disinnescare la bomba della riforma giudiziaria o almeno a produrne un’esplosione controllata. In parallelo, un seminario segreto di personalità d’alto profilo e con profonda esperienza di governo discute il dossier Rivlin: come gestire la rissa fra tribù? 28. A quel tavolo non si ragiona su come riunire le membra del Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
26. Rabbi A. YUTER, «“Hora’at Sha‘ah”: The Emergency Principle in Jewish Law and a Contemporary Application», Jerusalem Center for Public Affairs, 21/10/2001. 27. Cit. in D. TROM, op. cit., p. 213. 28. Cfr. M. ARLOSOROFF, «Israel is Facing a Dead End. Is It Time to Split Up?», Haaretz, 10/3/2023.
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corpo israeliano. Troppo tardi. Se ne pianifica la separazione sotto lo stesso tetto. Da regolamentare. Israele deve essere costituito in Stato federale su base cantonale. Progetto da offrire al pubblico dibattito che potrebbe essere pronto in qualche mese. O restare nel cassetto, se il clima non migliorerà. Prendiamo le ipotesi appena abbozzate, con varianti. I cantoni, ovvero Stati federati, possono essere due (Israele e Giudea), tre con l’aggiunta di un’entità arabo-israeliana, addirittura quattro con quella palestinese, sanzione dello Stato unico binazionale. Ciascuno amministrato autonomamente, quanto più omogeneo possibile per carattere religioso o secolare. Si esclude quindi la contiguità spaziale fra città e territori dei singoli cantoni. Il criterio dirimente è etno-confessionale – ultima eco dei millet. Con Gush Dan (Grande Tel Aviv) capitale del cantone di Israele, mentre la vicina Bnei Brak, di tono haredim, finisce in Giudea, circondata da Israele. Ogni cantone trattiene per sé il grosso delle tasse. Anche per convincere gli ultraortodossi a lavorare, quindi garantire all’economia di punta installata fra Tel Aviv e Haifa di scatenare i suoi talenti senza dover mantenere i molto esclusivi amanti della Torah. Per il governo centrale si immagina una divisione del potere predeterminata nel segno dell’uguaglianza fra i due cantoni. Se tre, con l’arabo, i due ebraici devono avere assicurata la maggioranza. A Gerusalemme restano difesa, moneta, politica estera e infrastrutture. Ma il reclutamento dei militari finisce sulle spalle del cantone Israele, a meno che gli arabi siano liberati dallo stigma etnico e i haredim si sottraggano all’obbligo religioso. In caso di quarto cantone palestinese la rivoluzione geopolitica è troppo profonda per non rimettere in discussione tutto lo schema, forse troppo cartesiano per quelle latitudini. Il federalismo ha una faccia pubblica, pur di modesto profilo. Ne esistono alcuni progetti dettagliati e cartografati. Come il Piano della Federazione pubblicato dall’omonimo movimento (carta 6). Si presenta «formalizzazione dello status quo». Perciò è rivoluzionario. Niente meno che Stato binazionale comprendente tutte le terre a ovest del Giordano salvo l’inferno di Gaza (carta a colori 7). Spezzatino di 30 (trenta) cantoni. La superficie totale essendo di 28 mila chilometri quadri ne deriva che l’estensione media di un cantone-Stato è comparabile alla provincia di Biella (913 kmq). I circa 11 milioni di abitanti stimati dagli autori del Piano nell’Israele allargato alla Cisgiordania sarebbero in chiara maggioranza ebrei. Si assume che i palestinesi della West Bank, esclusa Gerusalemme Est, siano 1,75 milioni – non i 2,5 dichiarati dall’Autorità Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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ISRAELE CONTRO ISRAELE
6 - I TRENTA CANTONI D’ISRAELE NORD (7 cantoni) Galilea superiore Galilea centrale e occidentale HaKinneret e valli Haifa e sobborghi Carmel e/o monte Meron Bassa Galilea Wadi Ara
Mar Mediterraneo
Mar M orto
F. G i o r d a n o
OVEST (6 cantoni) Pianura costiera del Nord HaSharon Area Dan occidentale Area Dan orientale Pianura costiera del Sud Il Triangolo
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EST (11 cantoni) Area metropolitana di Gerusalemme Modi‘in e le colline Samaria del Sud Valle del Giordano Valle di Elah Regione di Lakhish Samaria centrale Samaria del Nord Rāmallāh e Binyamin Betlemme Colline di Hebron
SUD (6 cantoni) Negev del Nord Regione Sud del Mar Morto Altopiano del Negev Eilat e Arava Ashkelon e Negev occidentale Area beduina del Negev
nazionale palestinese (Anp). Il richiamo allo status quo deriva dall’integrazione di tutti gli arabi quali cittadini di pieno diritto (e dovere) e dal mantenimento degli insediamenti ebraici in Giudea e Samaria previo accordo internazionale (carta a colori 8). La moribonda Anp, fatiscente arcipelago di mafie, è dissolta, la legge israeliana estesa a tutto il paese.
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LA SINDROME OTTOMANA
Uguale per tutti, cittadini d’ogni o senza tribù. Ciascun cantone si amministra e gestisce le proprie scuole, mentre gli abitanti possono trasferirsi liberamente da un cantone all’altro 29. Basta compulsare l’indice di tali varianti federaliste/cantonali – in Rete ne circolano di ben più avventurose – per coglierne l’improbabilità. Meglio, la quasi certezza che per realizzarle o impedirle scoppierebbe la guerra civile. Con i nemici di Israele pronti ad avventarsi sulla preda. La villa sparirebbe nella giungla. In piena Caoslandia. Conclusione che riporta al dubbio con cui convivremo. Non sarà che Israele (r)esiste perché rifiuta di identificarsi? E che lo sforzo di farlo potrebbe ucciderlo? Il «chi sono?» è la domanda di chi si tormenta nella ricerca di una teoria che ne abbellisca la prassi. E rischia di morirne, dopo una vita spericolata all’insegna di scontri e astuti compromessi puntuali (hasdarah). Nella metafora di Danny Trom: «Lo Stato di Israele assomiglia a quel bambino in bicicletta che nel momento in cui si chiede come faccia a stare in equilibrio smette di pedalare, s’impanica e cade. Forse lo prevede, evita di pensare e continua a pedalare. Volta lo sguardo e smette di pensare ogni volta che è spinto a pensare che cosa stia facendo. L’assenza di costituzione, la predilezione per il bricolage e gli arrangiamenti provvisori in guisa di soluzione, la presupposta reversibilità di ogni iniziativa ne sono i sintomi più patenti» 30. Meglio allora non scoperchiare il vaso di Pandora. Salvo sia già aperto.
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29. «The Federation Plan: The Founding Document», www.federation.org.il 30. D. TROM, op. cit., pp. 271-272.
ISRAELE CONTRO ISRAELE
Parte I la TEMPESTA ISRAELIANA Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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ISRAELE CONTRO ISRAELE
IN BALLO C’È LA PROPRIETÀ DELLO STATO
di
Chaim WEIZMANN
La crisi innescata dalla riforma della giustizia voluta da Netanyahu è solo la punta dell’iceberg. Il malessere ha radici molto più profonde. Lo scontro ricalca le divisioni tribali descritte da Rivlin, ma produce anche nuove fratture. Il sionismo è al capolinea?
N
1. EL DISCORSO PRONUNCIATO ALLA CONFERENZA di Herzliya del giugno 2015 l’allora presidente Reuven Rivlin suddivise la società israeliana in quattro componenti, che chiamò «tribù»: la tribù sionista-laica, la tribù sionista-religiosa, la tribù ultraortodossa e la tribù araba. In passato, spiegò Rivlin, la tribù sionista-laica era la più numerosa e includeva oltre metà della popolazione di Israele. Era una sorta di grande centro intorno al quale ruotavano tre piccoli satelliti, il maggiore dei quali rappresentava circa un quinto della popolazione. Gli altri due erano ancora più esigui. Ma questo centro dominante sta scomparendo. Le quattro tribù si stanno avvicinando per dimensioni, pur rimanendo distanti nelle loro percezioni sociali. Restano «fondamentalmente diverse l’una dall’altra», per usare le parole di Rivlin. Quest’ultimo ha previsto il cambiamento nella «struttura della proprietà» della società israeliana e dello Stato d’Israele, ma non la lotta che ne è conseguita. O meglio la guerra, a giudicare da quanto mi ha urlato in faccia un giovane ultraortodosso in una recente manifestazione: «Questo è il nostro paese, non il tuo. Vattene!». E Rivlin non ha previsto nemmeno il ritmo dei mutamenti demografici, che stanno avvenendo molto più velocemente di quanto pensasse. L’ex presidente israeliano ha comunque identificato uno dei problemi principali: «L’ignoranza reciproca e la mancanza di dialogo fra questi quattro settori non fanno che aumentare la tensione, la paura, l’ostilità e la concorrenza». Questa mutua ignoranza deriva soprattutto da due fattori. Il primo è la separazione dei curriculum all’interno del sistema dell’istruzione. Ogni tribù ne ha uno proprio: i figli degli ultraortodossi studiano esclusivamente all’interno del sistema di istruzione ultraortodosso e lo stesso vale per arabi, sionisti laici e sionisti religiosi. Tra questi ultimi sta crescendo il peso dei hardalim, giovani che a differenza del resto degli ultraortodossi si riconoscono nello Stato sionista. Il secondo fattore riguarda la distribuzione Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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geografica di tali gruppi. Nella maggior parte dei casi – come a Umm al-Faõm (Um el-Fahem), Nazaret, ¡ayyiba (Taibeh) o Õawra (Huwara) – gli arabi vivono in comunità arabe. Specularmente, a Bnei Brak, Beitar ‘Illit, Imanuel o El‘ad risiedono di solito solo ultraortodossi, mentre gli abitanti di Ofra, di Efrat e di Netivot sono quasi tutti sionisti religiosi. Lo stesso fenomeno si riscontra nelle città e nelle comunità identificate come laiche. È vero che ci sono un certo numero di città miste e che i grandi centri urbani hanno un maggior grado di eterogeneità, ma anche in questi casi gli appartenenti ai vari gruppi si concentrano spesso in quartieri separati. 2. «Convivere in quanto israeliani» è oggi molto più un mito che una realtà. Fino a qualche anno fa il servizio militare teneva insieme le diverse anime della popolazione. Laici e nazional-religiosi servivano nelle stesse unità dell’esercito, rappresentavano i due terzi della popolazione e costituivano dunque il cuore della società israeliana. Nelle Forze armate imparavano a conoscersi, circostanza che riduceva l’ostilità verso il diverso. Negli anni successivi alla nascita di Israele gran parte degli ultraortodossi svolgeva il servizio militare, mentre oggi sono pochissimi quelli che si arruolano. Quanto agli arabi, non hanno mai fatto parte dell’esercito. Secondo i dati pubblicati nel dicembre 2022, meno della metà dei giovani e delle giovani in età di leva presta oggi servizio nelle Forze armate. Questo significa che c’è stata una flessione anche tra i due gruppi una volta considerati il nucleo di queste ultime, i laici e i nazional-religiosi. Inoltre, anche nell’esercito laici e religiosi vengono ormai assegnati a unità differenti. Il risultato è una più profonda «ignoranza reciproca» e un’acutizzazione dell’ostilità fra i diversi gruppi. Dopo il discorso sulle «quattro tribù» del presidente Rivlin è stato istituito un comitato direttivo nazionale guidato dai professori Uriel Reichman, presidente e fondatore della Reichman University, e Alex Mintz, ex direttore dell’Istituto per la politica e la strategia (Ips). Il comitato era composto da 24 membri che rappresentavano alla pari le quattro tribù e che provenivano da ogni parte del paese. Io ho ricevuto l’incarico di coordinare la dimensione accademica del lavoro del comitato. Dopo quasi un anno di discussioni, abbiamo presentato al presidente Rivlin un documento che conteneva le nostre raccomandazioni su come promuovere un’«israelianità» comune. La raccomandazione principale era quella di istituire un’autorità statale per la promozione di un’identità nazionale comune: «Solo un’autorità statale potrà promuovere seriamente una politica governativa che si adoperi per attuare i princìpi presentati dal presidente. (…) Con un ampio sostegno pubblico, sotto gli auspici del capo dello Stato, per attuare le idee che stanno alla base della visione di un’“israelianità comune”. Questa autorità opererà assicurando la piena partecipazione di tutte le tribù e la parità fra i generi». Abbiamo anche proposto che quest’iniziativa venisse finanziata da un fondo sovrano costituito dai proventi dell’esportazione di gas. Nessuna delle raccomandazioni contenute nel documento finale è stata però messa in atto. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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ISRAELE CONTRO ISRAELE
SÌ BIBI O NO BIBI (2019-2022)
70 60
65 58 55
56 52 51
50 Seggi alla Knesset
64
62
60 60
40 30 20 10
11
0 2019a: ventunesima Knesset
2019b: ventiduesima Knesset
Sì Bibi
2020: ventitreesima Knesset
No Bibi
2021: ventiquattresima Knesset
2022: venticinquesima Knesset
Forse Bibi
Un capitolo importante riguardava l’istruzione. Fra i vari punti sollevati c’era il rafforzamento della scuola media superiore, iniziativa volta a permettere al maggior numero possibile di giovani ultraortodossi e arabi di ottenere un diploma di maturità che consentisse loro di essere ammessi ai successivi livelli d’istruzione. Tuttavia, l’investimento medio per gli studenti arabi e ultraortodossi resta ancora inferiore a quello per gli studenti laici e nazional-religiosi. Divario che si riflette sui salari percepiti dai membri delle diverse tribù. Un rapporto dell’Autorità per l’innovazione pubblicato nel maggio 2022 rivela che meno del 2% dei dipendenti del settore hi-tech è costituito da arabi, i quali rappresentano circa il 21% della popolazione israeliana. La situazione è simile tra gli ultraortodossi: solo il 3% di essi è impiegato nel comparto dell’alta tecnologia. Sovrapponendosi alla spaccatura etnoculturale, queste disparità socioeconomiche costituiscono un ostacolo alla coesione nazionale e alla costruzione di capitale sociale. E rappresentano un pericolo per il futuro di Israele, che potrebbe diventare una «start-up nation» così come – a causa delle divisioni, della povertà di una parte della popolazione e dei forti divari interni – un paese del Terzo Mondo. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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3. Quella tribale non è peraltro l’unica linea di faglia che frattura la società israeliana. C’è anche la spaccatura che divide gli ebrei di origine ashkenazita e quelli di origine orientale. Alla quale si aggiunge la diseguaglianza nella distribuzione del reddito: secondo l’Ocse il 17% della popolazione israeliana vive al di sotto della soglia di povertà. Un’altra linea di demarcazione è quella che separa il centro dalla periferia sotto il profilo sociale. Nella seconda i servizi sanitari e il trasporto pubblico sono ad esempio decisamente peggiori, il che si riflette in tempi di attesa più lunghi per le visite mediche e persino in un’aspettativa di vita più bassa. Israele sta inoltre attraversando una crisi politica senza precedenti. In meno di quattro anni si sono tenute cinque elezioni, la cui posta in gioco era la conferma del primo ministro Binyamin Netanyahu alla guida del governo. La personalizzazione della competizione politica è stata tale che il Likud non si è neppure preoccupato di pubblicare piattaforme programmatiche. Tutto ciò ha fatto a brandelli la società israeliana, dal momento che per loro natura le campagne elettorali estremizzano le differenze tra i vari partiti e quindi approfondiscono le divisioni tra gli elettori. Un’altra linea di faglia si è dunque aggiunta a quelle preesistenti, sintetizzabile con il dilemma «Sì Bibi o No Bibi» (grafico). Tale spaccatura è alimentata tanto dal sentimento di ingiustizia nutrito da una vasta componente della società israeliana quanto dall’ansia generata dal rischio che Israele perda il suo carattere democratico. Dunque, dalla guerra per la proprietà dello Stato. L’epidemia di Covid-19 ha poi contribuito a dividere ulteriormente la società israeliana. A partire dal febbraio-marzo 2020 il governo impose severe restrizioni alla libertà di movimento, ma gli ultraortodossi – in particolare gli ashkenaziti – non compresero immediatamente la gravità del pericolo. Così, mentre il resto degli istituti scolastici era chiuso, le scuole elementari ultraortodosse rimasero aperte. In nome della convinzione che le preghiere fossero l’unico strumento di salvezza contro il virus. Per quanto il ministero della Salute abbia le proprie colpe, dal momento che non ha saputo spiegare efficacemente i rischi connessi all’epidemia, tale condotta ha suscitato rabbia e ansia nel resto della popolazione. Irrigidendo ancor di più la frattura tra le varie tribù. Infine, gli eventi che hanno portato all’Operazione Guardiano delle Mura del maggio 2021. Mentre su Israele cadevano i missili lanciati da Õamås, i cittadini arabi diedero vita a un’ondata di disordini che coinvolse soprattutto le città miste di Lod, ‘Akko e Giaffa. Gli ebrei reagirono ed ebbero così inizio scontri di una gravità e intensità senza precedenti, che provocarono diverse vittime. I contatti tra le due componenti della società israeliana vennero ridotti al minimo, tanto che le tensioni e i rancori generati da quegli eventi non sono ancora scomparsi. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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4. Dalla formazione dell’attuale governo Netanyahu, avvenuta nel dicembre 2022, gli israeliani sono divisi in tre fazioni: gli ambienti che vogliono rovesciare il regime, coloro che intendono preservarlo e gli arabi, i quali al momento sono quasi del tutto estranei alla crisi sociopolitica più grave dalla nascita di Israele. Una
ISRAELE CONTRO ISRAELE
CHI HA GOVERNATO GERUSALEMME Mare del Nord
Londra 1917 d.C.
Roma 63 a.C.
Pella 332 a.C.
Bisanzio Costantinopoli 324 d.C. e 629 d.C. 1517 d.C.
Mar Caspio
G
Antiochia 198 a.C. Aleppo 1246 d.C. Baghdad 750 a.C. Damasco 661 d.C. Mar Mediterraneo GERUSALEMME Amman 1949 d.C. Babilonia 587 a.C. Susa 539 d.C. Il Cairo Kerak 1239 d.C. 878 d.C., 1098 d.C. 1260 d.C. ol Pe
r sic o
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Tebe 320 a.C.
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Confini statali attuali
crisi che ridefinirà il carattere dello Stato e la natura del regime. E che stabilirà se l’entità statuale ebraica riuscirà a mantenere le sue due caratteristiche peculiari: l’ebraicità e la democraticità. C’è chi sostiene che questi due attributi siano incompatibili, ma in ogni caso per la prima volta nella loro storia gli israeliani sono costretti a domandarsi seriamene se un Israele ebraico e democratico potrà continuare a esistere. A nemmeno quattro mesi dall’insediamento dell’attuale governo, la società israeliana è in totale subbuglio. Ogni giorno decine di migliaia di persone scendono in piazza per protestare contro l’esecutivo. A un primo sguardo le manifestazioni sono dirette contro la riforma della giustizia promossa – e poi congelata – da Netanyahu, che se approvata indebolirebbe significativamente la capacità della Corte suprema di vigilare sull’operato del governo e della Knesset. Ma in realtà il malessere ha radici molto più profonde. I critici della riforma credono che la democrazia liberale sia in pericolo e che Israele rischi di diventare un regime autoritario, come già accaduto in Ungheria, Polonia, Turchia e Russia. I sostenitori del premier rivendicano invece la vittoria alle elezioni e dunque il diritto di realizzare i propri obiettivi politici. Accusando gli oppositori di volergli «rubare» il successo elettorale. Si tratta di uno confronto passionale ed emotivo che paradossalmente Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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non vede contrapposti gli ebrei agli arabi. Lo scontro è tutto interno al campo ebraico. E la posta in gioco è la proprietà dello Stato, la sua natura. Il fervore della lotta, il conseguente tumulto e l’elevato coinvolgimento emotivo mettono apparentemente in ombra le divisioni strutturali della società israeliana. Ma se si guarda un po’ più a fondo si può notare che la spaccatura tra chi vuole rovesciare il regime e coloro che si oppongono a tale iniziativa ricalca quasi esattamente la ripartizione in tribù descritta dall’ex presidente Rivlin. I sostenitori della riforma giudiziaria, che per la sua portata equivale a un cambio di regime, sono principalmente i partiti ultraortodossi e religiosi che compongono la maggioranza di governo insieme al Likud. Quest’ultimo non può essere definito un partito religioso, ma molti suoi esponenti – dai semplici osservanti della tradizione agli ultraortodossi – lo sono. Gli oppositori appartengono invece perlopiù alla tribù laica, anche se nelle manifestazioni di protesta si possono scorgere sempre più kippot di sionisti afferenti alla tribù religiosa. Tale dinamica sembra preludere a una nuova divisione, che sovrapponendosi a quelle preesistenti turberebbe ulteriormente la società israeliana. Ma è anche vero che la trasversalità delle proteste potrebbe contribuire ad attenuare il divario tra le varie tribù, con i laici e i religiosi che insieme aspirano a difendere la democrazia. Convergenza in grado di ammorbidire le fratture esistenti. Le manifestazioni si sono intensificate e la partecipazione alle stesse si è fatta sempre più massiccia man mano che l’iter legislativo alla Knesset progrediva. Sempre più israeliani hanno cominciato a interrogarsi sulla nostra capacità di impedire l’obliterazione della democrazia liberale. Dunque, di preservare lo Stato d’Israele come lo conosciamo dalla sua fondazione. Sono stati proposti nuovi modelli politici, ad esempio la «separazione parziale» prospettata da due docenti della Reichman University, i quali hanno suggerito di dividere il paese in «spazi culturali, ideologici e sociali». Dalle colonne della rivista TheMarker la giornalista Merav Arlozorov ha invece lanciato l’idea di cantonizzare il paese in base a criteri ideologici, religiosi o comunitari. «Ciascuno dei cantoni», scrive Arlozorov, «verrà gestito separatamente tanto sotto il profilo politico quanto sotto quello economico. Ogni cantone potrà determinare le proprie leggi e stabilire il suo grado di religiosità o di laicità». Personalmente, mi sembra che queste proposte siano prodotto di un crescente scoraggiamento, anche perché i loro stessi ideatori ammettono che non sono applicabili. Nel giugno 2015 il presidente Rivlin pose alcune domande al popolo israeliano: «Dobbiamo chiederci con onestà: cosa hanno in comune tutti questi gruppi? Abbiamo un linguaggio civile, un ethos condiviso? Esistono valori che possano tenerci insieme in uno Stato d’Israele ebraico e democratico?». Gli ottimisti rispondono che l’attuale crisi va colta come opportunità per correggere le storture del regime e che Israele ne uscirà più forte. Altri si chiedono invece se questa non sia la fine del sionismo. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
(traduzione di Cesare Pavoncello)
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ISRAELE AL BIVIO RIFORMA O RIVOLUZIONE? di Sergio DELLA PERGOLA La crisi attuale rivela le faglie fra le tribù ebraiche, che perseguono utopie inconciliabili. Lo scontro fra poteri e la mina vagante Netanyahu. Le storture del sistema elettorale. L’assalto alle istituzioni e la grandiosa risposta popolare. Un altro governo è possibile.
I
1. L 29 MAGGIO 1996, SEI MESI DOPO l’uccisione di Yitzhak Rabin, Binyamin Netanyahu conquistava per la prima volta la poltrona di primo ministro di Israele con il 50,5% dei voti contro il 49,5% ottenuto da Shimon Peres. Vigeva allora l’elezione diretta del premier, contestualmente al rinnovo della Knesset. Il 1° novembre 2022 la coalizione guidata da Netanyahu, composta da quattro liste di candidati (Likud, Sionismo religioso, Shas ovvero sefarditi osservanti, Ebraismo della Torah – in realtà frutto della collaborazione fra sette diversi partiti) otteneva il 48,3% dei voti validi. Complice una legge elettorale che oggi prevede una soglia di sbarramento del 3,25%, la coalizione del premier si aggiudicava 64 seggi contro i 56 dell’opposizione, ossia una maggioranza parlamentare apparentemente solida. A prima vista, dunque, lo spostamento delle preferenze a favore o contro Netanyahu nell’arco dei 27 anni intercorsi poteva apparire minimo, sia pure intercalato da notevoli oscillazioni in un senso o nell’altro. Quello che conta, in definitiva, non sono i voti ottenuti bensí i seggi aggiudicati. Nelle due tornate elettorali, con la metà dei voti circa, il vincitore era sempre Netanyahu. Prima di inoltrarsi nell’analisi delle odierne vicende, non è triviale curiosità confrontare il caso israeliano con quello italiano. Nello stesso maggio 1996 si insediava in Italia il governo di Romano Prodi (con Lamberto Dini agli Esteri e Giorgio Napolitano all’Interno), mentre alla fine dell’ottobre 2022 iniziava il suo mandato il governo di Giorgia Meloni, che a capo di una coalizione di centro-destra (come in Israele) ha ottenuto una quantità di seggi ben superiore alla percentuale di voti. Se dunque nel corso degli ultimi trent’anni la configurazione governativa in Italia si è radicalmente trasformata, espressione di un sistema di partiti anch’esso profondamente diverso, in Israele i governi Netanyahu I del 1996 e Netanyahu VI del 2023, sia pure con alcune differenze, riflettono sostanzialmente la medesima coalizione, Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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ISRAELE AL BIVIO: RIFORMA O RIVOLUZIONE?
con il Likud nel ruolo di guida, affiancato da diversi partiti religiosi nelle loro diverse sfumature fra il nazionalista, il messianico e l’ortodosso antimodernista. Israele è dunque paese estremamente conservatore o addirittura politicamente stagnante? Non è esattamente cosí, ma per meglio comprendere e cercare di analizzare che cosa è successo negli ultimi turbolenti mesi in seguito all’iniziativa di riforma legislativa del governo Netanyahu è necessario ripercorrere brevemente la sociologia profonda del paese e la sua influenza sui programmi e sugli orientamenti elettorali. 2. In un famoso intervento al convegno di Herzliya del 2015, Reuven Rivlin, allora capo dello Stato, affermò la tesi – un po’ semplicistica ma efficace e sincera – dell’esistenza di quattro maggiori tribù all’interno della società del paese: i secolari, i religiosi nazionali, i haredim (in ebraico: timorati, integralmente religiosi) e gli arabi. Rivlin intendeva richiamare l’attenzione sulla necessità di creare forme di convivenza fra questi diversi settori della società, invero di dimensioni quantitative differenti, ma ognuna essenziale e comunque non prescindibile nella geografia culturale e politica del paese. Le radici cuturali e ideologiche di questi quattro gruppi sono molto diverse dal punto di vista dell’etnia, della religione, dello sviluppo socioeconomico, perfino dei sistemi di pubblica istruzione. Ma quello cui forse Rivlin alludeva, e costituiva il suo messaggio essenziale, è che ciascuno di questi settori persegue una propria legittima utopia riguardo alla natura dello Stato in cui si trova a vivere, per scelta o per situazione acquisita. Ognuna di queste diverse utopie ha un senso perfettamente compiuto e costituisce un modello ideale ricco di vitalità e pronto a combattere per difendersi dalle sfide proposte dai modelli alternativi. Il problema è che queste utopie, se applicate integralmente, sono incompatibili le une con le altre. Non è possibile perseguirle e realizzarle tutte integralmente perché almeno in parte ciascuna di esse implica l’esaltazione e il conseguimento dei propri valori, ma anche la negazione dell’utopia dell’altro. D’altra parte non è semplice trasformare le utopie allo stato puro, attraverso un processo di sintesi, senza snaturarne completamente il significato. L’unica via possibile è quella della convivenza attraverso l’elaborazione di una o più forme di pluralismo culturale. Oggi gran parte delle società si confronta con problemi simili, se non identici. Ma nel caso di Israele, dopo 75 anni di esistenza dello Stato, nel contesto di un conflitto politico e militare non risolto e lontano da soluzioni permanenti e concordate, la tensione fra le diverse utopie e i diversi sottostanti gruppi di popolazione è molto maggiore. Sul piano politico, le inevitabili linee di faglia influenzano in modo decisivo le affinità e le incompatibilità che operano di fronte a ogni possibile governo e ostacolano la governabilità. La tipologia suggerita da Rivlin cattura abbastanza bene i fondamenti della società israeliana, ma i rapidi cambiamenti degli ultimi anni la rendono un poco obsoleta e operativemente inferiore rispetto a una differente tipologia. Accanto ai due gruppi degli arabi e dei haredim, il nucleo centrale della popolazione ebraica è in realtà meglio caratterizzato da una profonda divisione non fra secolari e reliCopia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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giosi nazionali, ma fra destra e sinistra politica. Seguendo la tipologia di Rivlin, Netanyahu e i capi attuali dell’opposizione Yair Lapid e Benny Gantz – ebrei moderni – starebbero dalla stessa parte, mentre l’ex primo ministro Naftali Bennett, religioso che appoggia la protesta di questi giorni, si troverebbe in una categoria separata. Oggi, infatti, destra, centro e sinistra includono una componente secolare o vagamente tradizionale e una religiosa. In termini concreti, chi voglia cercare di identificare una dicotomia di lungo periodo fra sinistra e destra politica, o come ho proposto altrove, tra «democratici» e «repubblicani», deve fare attenzione ai tre seguenti fattori essenziali. A) L’atteggiamento per lo meno possibilista se non attivista, o contrario, nel cercare una soluzione negoziata al conflitto israelo-palestinese. B) Il maggiore o minore riconoscimento del principio della divisione dei poteri dello Stato. Di conseguenza, la misura del supporto all’autonomia del giudiziario e in particolare a una Corte suprema forte e indipendente. C) Il riconoscimento, o meno, delle comunità ebraiche conservative e riformate nel mondo, e non solamente dell’egemonia del rabbinato ortodosso e haredi israeliano. Da questo sommario del dibattito pubblico israeliano si capisce come la questione della riforma della giustizia e dell’autonomia del potere giudiziario sia sul tappeto da tempo, non solamente a partire dalle ultime elezioni. Il tema però non era mai stato affrontato con la rudezza e la scarsità di sfumature di questi mesi. Eppure la campagna elettorale del 2022 si era giocata sui problemi del costo della vita e del terrorismo palestinese nelle strade delle città israeliane. 3. Le elezioni del 1° novembre 2022 erano le quinte dall’inizio del 2019. Dopo lo scioglimento anticipato della Knesset alla fine del 2018 causato dall’incapacità del governo Netanyahu di approvare il bilancio dello Stato, Israele ha attraversato quattro anni di instabilità politica senza precedenti. Le ripetute elezioni si sono concluse per lo più in parità fra i due maggiori blocchi di partiti: la «destra piena» promessa da Netanyahu e l’alternativa proposta dalla fragile coalizione di tutti gli altri. Brevi governi di transizione privi di maggioranza o esposti al capriccio e agli interessi di pochi franchi tiratori si sono succeduti in un paese che continuava a operare senza un bilancio dello Stato e sotto la pesante influenza dell’epidemia di Covid-19. Nel 2022 la mappa del voto non è cambiata sostanzialmente, ma la situazione si è apparentemente sbloccata. La sinistra – laburisti e radicali di Meretz – ha commesso un errore strategico presentandosi separata, con risultati disastrosi (4 e 0 seggi, rispettivamente), grazie soprattutto alla cocciuta e separatista segretaria generale dei laburisti, Merav Michaeli. Simile errore hanno compiuto i partiti orientati verso l’elettorato arabo, che hanno sciolto una loro precedente e proficua coalizione e si sono presentati con tre liste separate. I frazionamenti, gli odi interni e le lotte di ego svelano peraltro la fragilità politica del mondo palestinese. Non sono riusciti a raggiungere un accordo nemmeno sui resti dei voti, mettendo così a riCopia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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schio un altro seggio. Così, una delle tre formazioni, l’ultranazionalista Balad (Patria), ha fallito l’obiettivo della soglia. Se Meretz e Balad avessero avuto solamente poche migliaia di voti in più, o meglio se si fossero presentati come parte di liste congiunte, si potrebbero stimare a 8 i seggi in più che avrebbero conseguito i partiti contrari alla «destra piena» promessa da Netanyahu. È verosimile allora che la Knesset avrebbe avuto 60 deputati per ciascuna delle due principali parti politiche, non 64 a 56 a favore di Netanyahu come è avvenuto. E si sarebbe finiti alle seste elezioni. Ma il consumato politico Netanyahu ha invece operato perché diverse formazioni religiose e di estrema destra concorressero unite. Strategia premiata dal cospicuo successo elettorale della lista ultranazionalista del sionismo religioso di Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir, parzialmente spiegato con la recrudescenza del terrorismo palestinese nei mesi precedenti. Il risultato vero dell’elezione è dunque un pareggio, certo non un trionfo della destra. Ma un’alta percentuale di votanti ha scelto la destra, che ha raccolto i voti degli strati socialmente più bassi, delle periferie urbane e regionali, qualunquiste, senza mezzi economici o intellettuali. Significativo che molti giovani haredim abbiano votato per la lista ultranazionalista di Smotrich e Ben-Gvir e non per il loro partito religioso. Nell’osservare una crescente osmosi tra il mondo religioso ortodosso e quello nazionalista, va riconosciuto che oggi la società israeliana comprende una grossa sezione venata di razzismo e di ultranazionalismo, senza quel fondamentale quoziente di realismo politico che caratterizzava il Likud ai tempi della gestione di Menachem Begin. Il vero problema è la lettura riduttiva della democrazia di questa maggioranza. Israele rischia dunque di degradare al livello di «democrature» come Turchia, Ungheria o Russia, dove esiste sì un parlamento eletto con diversi partiti rappresentati, ma una persona al comando decide per tutti. E ancora: su 64 deputati eletti solo 8 sono donne, il che mostra una concezione quanto meno anacronistica della parità di genere. Benché Netanyahu avesse dichiarato trionfalmente che avrebbe formato il governo in meno di una settimana, ha dovuto subire una trattativa durata quasi due mesi, perché l’esito del voto lo ha reso vulnerabile e ricattabile. La coalizione vincente è formata da quattro partiti di cui il Likud è il principale, con 32 seggi: non ha dunque la maggioranza all’interno della coalizione. Questo ha comportato per Netanyahu una mediazione con gli altri partiti, i cui rappresentanti lo hanno indotto a cedere su ogni richiesta. Il risultato è stato un aumento spropositato del numero dei ministri: 32, ossia la metà dei deputati eletti. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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4. Sei giorni dopo la formazione del nuovo governo, senza alcun dibattito parlamentare, il ministro della Giustizia Yair Levin del Likud ha annunciato la volontà di effettuare grandi cambiamenti nella struttura del sistema giudiziario. Levin, nel mio immaginario, ricorda Robespierre, per il tono freddo, iracondo e minaccioso, nascosto da un’apparente formalità dei toni: lo definirei un reazionario in guanti gialli. L’altro conduttore della riforma è il presidente della commissione legislativa
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CONFIGURAZIONE DEI PARTITI POLITICI IN ISRAELE, 25a KNESSET, NOVEMBRE 2022 Analisi strutturale (SSA) basata su 12.545 seggi elettorali
Lista unificata =5
Ebraismo della Torah =7
Balad =0 Lista Araba Unita =5
Shas = 11
ARABI = 10
HAREDIM = 18 TRASVERSALE = 6 Sionismo religioso = 14
Yisrael Beiteinu =6
SINISTRA = 4
DESTRA = 46 CENTRO = 36
Meretz =0 Laburisti =4
Yesh ’atid = 24
Likud = 32
Machane mamlachti = 12
della Knesset, Simcha Rothman, esponente del sionismo religioso, altro esemplare di politico autoritario, impaziente e irascibile. I due insieme, con i rispettivi compagni di partito, ricordano una setta di predicatori flagellanti, a caccia di una loro verità assoluta, totalmente incuranti di quanto avviene intorno. Appena nominato ministro, Levin ha presentato il suo progetto per la riforma dell’elezione dei giudici, in particolare della Corte suprema. In Israele la Corte è formata da 15 giudici. Essa opera sia come Corte di cassazione per la giustizia ordinaria, sia come Corte costituzionale in merito all’ammissibilità delle leggi. Ciò, indubbiamente, a volte produce un sovraccarico di lavoro. Ma anziché proporre una riforma legislativa ampia e ragionata, Levin ha concenCopia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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trato il suo subitaneo attacco sul cambiamento della commissione che nomina i giudici. Oggi questa commissione include ministri, parlamentari della maggioranza e dell’opposizione, giudici della Corte suprema, rappresentanti dell’ordine degli avvocati. E richiede una maggioranza di 7 membri su 9 per le nomine, ossia un compromesso fra le varie proposte e esigenze. Levin propone invece di attribuire al governo la maggioranza nella commissione. In altre parole, l’esecutivo avrebbe il controllo completo sulla nomina dei giudici supremi, ponendo cosí fine al principio della separazione fra i poteri e stravolgendo il tipo di regime democratico su cui si fonda Israele. La Corte suprema israeliana svolge un ruolo fondamentale, in quanto ciascun cittadino può ricorrere direttamente a essa. In questo modo si è creata una rigorosa giurisprudenza a tutela delle leggi fondamentali, che a loro volta hanno supremazia rispetto alle leggi ordinarie. Un altro capitolo della riforma proposta è la soppressione di fatto del potere della Corte di annullare le leggi ordinarie, se in contrasto con i diritti civili e l’eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge. In mancanza di una costituzione scritta, tale principio è affermato in una legge speciale che assieme ad altre forma una specie di ossatura di diritto costituzionale. Secondo la riforma proposta, se la Corte annulla una legge questa può essere ristabilita a maggioranza semplice della Knesset, ossia su istruzione del governo. Un altro dei criteri elaborati dalla Corte è quello della plausibilità. Se viene adottato un atto, formalmente legale, ma altamente implausibile, o irragionevole, la Corte ha il potere di annullarlo. In questo modo la Corte in passato si è opposta ad atti del governo considerati irragionevoli, come per esempio l’espulsione di una donna straniera il cui visto era scaduto, separandola dal figlio minorenne con padre cittadino israeliano. O viceversa, l’espulsione del figlio minorenne separandolo dalla madre straniera ma residente legale. Ma il nodo focale del problema è che con Netanyahu sotto processo per reati di corruzione, truffa e abuso di potere, la procedura inevitabilmente arriverà alla fine davanti alla Corte suprema. Il fatto di poter nominare i propri futuri giudici è una forma di garanzia dei propri interessi inammissibile in democrazia. Meno noto è il fatto che dietro la riforma si trovi un centro studi finanziato da circoli ultraconservatori e libertari americani, il Kohelet Policy Forum. I testi delle leggi proposte sono stati elaborati dai giuristi di Kohelet e poi adottati dai politici. Ma il Forum ha un programma più vasto che comprende fra l’altro la privatizzazione selvaggia dell’apparato dello Stato e una normativa più restrittiva nelle leggi che regolano l’immigrazione in Israele. La base teorica del Kohelet Policy Forum è interessante e preparata da persone competenti, accompagnata da un’aggressiva promozione con il supporto efficiente dei social media, ma fuorviante e settaria se analizzata attentamente. Di questa ingerenza il pubblico non è consapevole. In realtà la Corte suprema, di cui si vogliono ridurre i poteri, è stata finora un importante strumento di bilanciamento ed equilibrio di un sistema pieno di lacune legislative. E ancora privo di una costituzione. Negli ultimi trent’anni la Corte suprema quasi eroicamente ha cercato di riempire i vuoti del sistema per affrontare Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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questioni fondamentali mai discusse in parlamento, come per esempio stabilire chi è ebreo (se ne parla solamente per inciso nella legge del ritorno riguardante l’immigrazione) o le conversioni. Se la Corte suprema ha un ruolo che può apparire a volte esagerato e invadente, questo dipende dalle lacune e dall’impotenza della Knesset – sempre bloccata da giochi di coalizione a volte legittimi, altre squallidi. I riformatori, nel loro tentativo di modificare la composizione della Corte e di assumerne il controllo, dimenticano che spesso i giudici ritenuti «conservatori» hanno votato assieme alla maggioranza dei giudici «liberali», semplicemente perché si tratta di persone oneste e competenti, e perché l’interpretazione della legge non lasciava altra possibilità. 5. La riforma legislativa è al centro del dibattito e della protesta in Israele. In realtà l’oggetto della contestazione è più ampio e si estende ad altri aspetti dei programmi e dello stile del nuovo governo. Innanzitutto, per rispondere alle infinite richieste di una coalizione caratterizzata da una sete inesauribile di potere, Netanyahu ha creato una compagine governativa che sembra un mostro multicefalo. È stata inventata una pletora di compiti inutili e ridondanti anche nelle posizioni chiave: abbiamo così due persone a dividersi la Difesa, tre persone agli Esteri, due alla Giustizia, quattro addetti alla Pubblica istruzione, due ai Servizi sociali, e diversi altri praticamente senza alcun incarico. Questo governo è il contrario dell’efficienza perché al suo interno si creano costantemente profondi conflitti di interesse, che obbligano Netanyahu a continue mediazioni. O meglio: è un consapevole divide et impera. Uno dei primi ordini del giorno ha cancellato tutto quanto fatto dal governo uscente di Bennett e Lapid, compresa una disposizione tesa a combattere il diabete infantile. Il nuovo governo ha anche bocciato una proposta dell’opposizione di imporre un braccialetto elettronico ai mariti che hanno minacciato di violenza le proprie mogli, in un preoccupante contesto di crescenti casi di uxoricidio e femminicidio. Netanyahu si muove come se Israele fosse una repubblica presidenziale, con poca collegialità nei confronti del parlamento e dello stesso governo, mentre si tratta (almeno per ora) di un regime parlamentare. Fra le nuove proposte, a parte quelle legate alla riforma della giustizia, vi è il progetto di sopprimere e privatizzare l’Autorità pubblica delle trasmissioni radio-televisive – l’equivalente della Rai – distribuendo i fondi a canali politicamente più vicini al governo. La ministra dei Trasporti Miri Regev, del Likud, avrebbe detto: «Se non controlliamo le comunicazioni pubbliche, a che servono?». La stessa Miri Regev ha affermato di voler fermare i lavori più che urgenti della nuova metropolitana di Tel Aviv. Il ministro della Cultura, Miki Zohar, pure del Likud, ha annunciato di voler chiudere ogni rappresentazione artistica svolta durante il sabato, salvo ricredersi poche ore dopo su ordine di Netanyahu. È anche passata la legge che vieta di introdurre pane lievitato negli ospedali durante la settimana della Pasqua ebraica, durante la quale la tradizione consente solamente il pane azzimo. Ma molti dei pazienti e del persoCopia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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nale ospedaliero sono arabi, costretti dunque loro malgrado a seguire le pratiche dell’ebraismo tradizionale. Un’altra proposta di assumere il controllo diretto della grande e pregiata Biblioteca nazionale è stata sventata da un manifesto firmato da centnaia di professori. Si sta tentando di nominare un nuovo direttore di comodo all’Ufficio centrale di statistica – fondato dal mio maestro Roberto Bachi, noto per l’integrità assoluta e la resistenza alle pressioni di primi ministri importanti come Golda Meir o Levi Eshkol – che ha un ruolo fondamentale perché calcola l’indice dei prezzi, i costi dell’alloggio, la percentuale della disoccupazione. E ancora: si parla apertamente di controllare l’accademia, influenzando il Comitato centrale per la distribuzione dei finanziamenti alle università, che dovrebbero essere indipendenti da ingerenze di partito. È anche in corso il tentativo di limitare la legge del ritorno, impedendo ai nipoti non ebrei di ebrei di ottenere i diritti immediati che spettano agli immigranti secondo l’ordinamento vigente. Uno studio della materia, nel quale sono impegnato personalmente, cercherà di dimostrare l’assurdità del tentativo di riforma confrontando benefici e perdite derivanti dall’emendamento in questione. La cosa è tanto più assurda se consideriamo che numerosi membri dello stesso governo vorrebbero incorporare nello Stato d’Israele la Giudea e la Samaria, in cui vivono due milioni e mezzo di palestinesi. Si sta cercando anche di prolungare la presente legislatura dai quattro anni consueti a cinque. Un’altra raffica di proposte di legge concerne benefici personali. È passata la legge che impedisce la rimozione del primo ministro per motivi legali (lasciandola possibile solo per motivi di salute). Procede la legge che consentirà di fare donazioni non controllate ai politici per coprire le loro spese legali e quelle delle loro famiglie (allusione al processo Netanyahu e alle numerose cause per diffamazione in cui è coinvolto il figlio Yair). È in esame la proposta di annullare la disposizione secondo cui una persona sotto processo o condannata non può fare il ministro (curiosamente, tale disposizione non si applica al premier). Ha suscitato clamore e dibattiti il caso del ministro Arieh Deri, un politico veterano, capo del partito Shas, che in passato è finito in carcere per corruzione. In seguito a nuova infrazione fiscale, Deri è stato processato in pretura, dove è riuscito a patteggiare impegnandosi a rinunciare alla politica attiva e ottenendo così la condanna con la condizionale. Ma immediatamente dopo, Deri è stato nominato da Netanyahu ministro dell’Interno e della Sanità. Non solo. L’accordo all’interno della coalizione è che tra due anni Deri dovrebbe essere nominato ministro del Tesoro, con il risultato che avremmo un evasore fiscale in controllo delle casse dello Stato. La Corte suprema ha sentenziato la nomina estremamente implausibile e Netanyahu è stato costretto a rimuovere il ministro. Ma ora la Knesset sta studiando una legge che permetterà a Deri di rientrare al governo. La Corte dichiererà verosimilmente nulla la nuova legge e a sua volta il parlamento a maggioranza semplice potrà dichiarare nulla la sentenza della Corte. La tesi governativa è che la Corte assume posizioni politiche, non rispetta il voto popolare, è espressione di ceti privilegiati ebraici ashkenaziti e Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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discrimina gli ebrei sefarditi. Del fatto che Deri non ha pagato le tasse nessuno parla. E nemmeno del fatto che tutti gli 11 giudici che hanno discusso il caso, inclusi i conservatori e i sefarditi, hanno deliberato contro Deri. Da parte loro i partiti religiosi esigono che si addivenga al più presto a una normativa che esenti una volta per tutte e in maniera chiara e inequivoca i giovani haredim dal servizio militare obbligatorio. Su tale questione, la Corte suprema in passato si è più volte pronunciata in senso negativo. Anche per questo diviene tanto pressante la richiesta della clausola che annulli la capacità della Corte di annullare le leggi. Il fatto più clamoroso resta però la nomina di Itamar Ben-Gvir, uno dei capi del sionismo religioso, a ministro della Sicurezza nazionale, che governa le forze di polizia, la forestale, le carceri e i vigili del fuoco. Ben-Gvir in gioventù è stato arrestato decine di volte per sovversione dell’ordine pubblico e sospettato di complicità in atti di terrorismo. Ed è stato escluso dal servizio militare per questi suoi trascorsi. Ha tentato nelle ultime settimane di prendere il comando diretto delle operazioni di polizia, ma gli ufficiali responsabili non glielo hanno consentito nei termini di legge. Ora, in cambio di un addolcimento del suo appoggio alla vertenza della riforma legislativa, Ben-Gvir ha chiesto e apparentemente ottenuto in linea di massima da Netanyahu che sia creata una nuova milizia sotto il suo comando diretto. La polizia si oppone. Se così avvenisse, Israele si avvierebbe sulla strada del Libano. Con conseguenze imprevedibili. Infine vi è la situazione al ministero della Difesa che, da sempre, governa il distretto centrale, responsabile anche dei territori della Giudea e della Samaria. In questo nuovo governo, il ministro Yoav Gallant, un generale eletto con il Likud, persona certamente competente, ha dovuto cedere il governo del distretto centrale a Smotrich, il quale ha così la competenza di gestire i Territori pur avendo fatto solo pochi mesi di servizio militare seduto in un ufficio legale. Quando recentemente è nato un nuovo insediamento illegale in Samaria, Gallant ha ordinato di smantellarlo, ma Smotrich si è dichiarato contrario. Netanyahu, in evidente difficoltà, inizialmente ha dato ragione a Gallant, ma non è detto che più avanti non ceda a Smotrich. Il risultato è una grande incertezza nella linea di comando. 6. Al di là della riforma della giustizia è dunque l’assalto a raffica a tutte le istituzioni che suscita una profonda offesa in chi ha a cuore il sistema democratico. Le proteste continuano ormai da tre mesi e si sono allargate notevolmente dal fulcro di Tel Aviv a tutto il paese. Il movimento di protesta è composto da centinaia di migliaia di persone che scendono in piazza per scelta personale e manifestano con una miriade di bandiere nazionali. Si profila indubbiamente una manifestazione di patriottismo e non di tradimento, come alcuni membri della maggioranza governativa vorrebbero far credere. È però senza precedenti che anche dall’esercito sia arrivata una protesta. Decine di membri di unità della riserva, in particolare dell’Aeronautica e dei servizi d’informazione – che svolgono un ruolo militare essenziale – hanno comunicato Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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che smetteranno di partecipare alle esercitazioni come volontari. Ammutinamento della riserva rispetto a cui Netanyahu ha invocato maggiore severità da parte del capo di Stato maggiore, senza chiedersi come mai queste persone che per anni hanno volato sui cieli della Siria, del Libano e magari anche in altri posti più lontani e hanno eroicamente compiuto operazioni che non si possono nemmeno nominare improvvisamente esprimono queste posizioni. Si tratta non di traditori, ma di persone che hanno permesso finora a Israele di esistere, mentre il governo è composto per una buona metà di ministri maschi che non hanno mai fatto il servizio militare o che rappresentano coloro che non lavorano e sono sussidiati a spese della previdenza sociale. A manifestare invece ci sono coloro che producono l’80% del pil in vari settori, compreso lo hi-tech. Non vi è stata violenza nella protesta degli oppositori della riforma legislativa. La polizia ha saputo mantenere l’ordine. Semmai violenza si è intravista nelle più recenti manifestazioni da parte di gruppi di sostenitori della riforma. È interessante notare, invece, la quasi assenza di haredim e di arabi nelle piazze. Questi due gruppi, o se vogliamo i membri di queste due tribù, per motivi diversi e seguendo ben precise istruzioni dei rispettivi leader hanno adottato una tattica simile. È la posizione attendista di chi si aspetta di godere tutti i benefici possibili, soprattutto libertà e benessere materiale, da uno Stato di cui non si sente realmente parte integrante. Intanto emergono gruppi di persone notoriamente di destra, religiosi tradizionali e politicamente conservatori, che manifestano contro la riforma. Si profila uno sgretolamento della maggioranza. Esiste indubbiamente una certa perplessità negli ambienti moderati. Le proteste sono ancora molto fluide. Manca ancora una chiara direzione politica. I dirigenti dei partiti partecipano ma non guidano. E si preparano a quello che verrà dopo. Sono in corso movimenti tettonici nell’elettorato, in cui si profilano l’ascesa di Gantz, uno stagnante Lapid, l’estinzione dei laburisti, mentre Lieberman si mantiene stabile con il suo partito di nicchia. I sondaggi registrano una chiara tendenza: il governo ha perso la maggioranza. Otterrebbe oggi 56 seggi in parlamento (contro gli attuali 64). Perderebbero diversi seggi il Likud, i sionisti religiosi, anche i haredim. Guadagnerebbero invece soprattutto Gantz e i suoi associati Gideon Sa‘ar e Gadi Eisenkot, cioè la parte più moderata dell’opposizione, mentre Meretz superebbe la soglia di sbarramento. All’interno del Likud si vocifera che su 32 eletti ci sarebbero 5 deputati critici verso la riforma. Se facessero i franchi tiratori, quest’ultima cadrebbe. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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7. La crisi che si è determinata suscita profondi ed estesi contraccolpi in almeno quattro direzioni. Relazioni politiche regionali. Questo è forse il rischio maggiore. Non coinvolge solamente i rapporti con i palestinesi, ma l’intero equilibrio regionale. Gli scontri e le provocazioni nei confronti dei palestinesi a livello locale fanno parte di una routine che rischia di aggravarsi, come già in passato, nel contesto del Ramadan. Ma il
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raffreddamento dei rapporti con gli Emirati, la breve crisi con la Giordania causata dalle incaute affermazioni del ministro del Tesoro Smotrich, lo stop al possibile avvicinamento con l’Arabia Saudita, sono altre pesanti conseguenze della nuova politica di Netanyahu. Esiste un grosso rischio insito nella possibilità che i regimi vicini, in primo luogo Õamås e Õizbullåh, possano commettere un errore di valutazione ritenendo di trovarsi di fronte a un Israele debole. Con l’Iran alla soglia dell’armamento nucleare, il problema è che nella psicologia delle nazioni arabe si possa sviluppare, come a volte in passato, un senso d’euforia con effetto domino. L’illusione crea euforia, l’euforia crea altra illusione. È una perversa spirale in cui il rischio di un fatto scatenante può determinare conseguenze drammatiche. La divisione interna a Israele dà l’impressione di debolezza, la protesta dei militari fa pensare che al momento giusto gli arabi possano scatenare un’altra offensiva senza dover temere un contrattacco. È un grave rischio, perché in caso di conflitto Israele indubbiamente finirebbe col prevalere, ma nelle guerre si subiscono comunque dei danni. L’accordo con il Libano sul confine marittimo e i limiti reciproci per lo sfruttamento dei pozzi sottomarini di gas, conseguito dal governo Lapid, ha richiesto delle rinunce da parte di Gerusalemme, ma è importante perché Beirut è ufficialmente ancora in guerra con noi. Netanyahu ha affermato in campagna elettorale che l’avrebbe rigettato. Non sarà facile. Se lo facesse davvero sarebbe un errore clamoroso. Politica estera. Netanyahu afferma che Israele è una democrazia forte, ma è stato oggetto di critiche e rimostranze da parte dei leader dei paesi che ha visitato recentemente: Francia, Germania, Regno Unito. Particolarmente grave appare il contenzioso latente con gli Stati Uniti, paese nel quale è di prammatica affermare la comunione di ideali con Israele. Il presidente Biden ha annunciato che non inviterà Netanyahu nel prossimo futuro, fatto senza precedenti, e ha esplicitamente richiesto di riconsiderare la riforma legislativa. Esponenti della maggioranza di governo israeliana hanno deriso le dichiarazioni del presidente americano, secondo lo slogan «Israele può fare da sé». È questa un’altra pericolosa prova della distanza fra la coalizione di Netanyahu e il mondo reale. Economia. Immediati contraccolpi delle proposta di riforma sono emersi nel campo dell’economia e della finanza, con la subitanea riduzione degli investimenti esteri, la rapida discesa dello shekel, la fuga di capitali soprattutto nei settori dell’hi-tech. Se queste tendenze proseguissero i danni all’economia e all’impiego sarebbero molto gravi. Un’economia indebolita, con minori investimenti, minore turismo, calo della capacità israeliana di servire il debito (classificata oggi ai massimi livelli mondiali), potrebbero provocare un aumento dei licenziamenti e della disoccupazione, un incremento nell’emigrazione e minore immigrazione. Tutti fattori scatenanti di povertà e di ulteriore instabilità sociale. Diaspora ebraica. La radicalizzazione del discorso religioso da parte del nuovo governo rischia di staccare da Israele cospicue sezioni della diaspora ebraica. Le parole della presidente dell’Ucei Noemi Di Segni in occasione della visita a Roma di Netanyahu, e le reazioni che hanno suscitato, sono state riportate in Israele. Fra l’altro pochissimi hanno capito che Netanyahu è stato ricevuto nella bella Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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ma piccola e sotterranea sala del Tempio spagnolo, non nella magnifica cornice del Tempio maggiore, dove forse qualcuno lo avrebbe contestato. Appare evidente che le divisioni israeliane sono state esportate nella diaspora, non solamente a Roma. La funzione di Israele quale polo aggregatore, luce di speranza, centro spirituale, ultimo rifugio per l’ebraismo mondiale si riduce e può diventare irrilevante causa le divisioni interne. 8. Esistono possibili coalizioni alternative che aiutino Israele a sbloccare lo stallo politico in cui si trova ormai dalla fine del 2018? La risposta è ovviamente positiva, ma prima di analizzare i possibili copioni è necessario ritornare al sistema dei partiti politici e al loro posizionamento sulla mappa parlamentare. La madre di tutte le sciagure è una legge elettorale che prevede la proporzionale pura con la già notata soglia del 3,25%, in un collegio unico nazionale, liste di candidati scelti attraverso primarie o dalle segreterie dei partiti, senza espressione di preferenze, con la legge «norvegese» per cui alcuni ministri si possono dimettere e venire sostituiti (temporaneamente) dai primi fra i non eletti. Questi sono in massima parte degli sconosciuti, oltre che assolutamente dipendenti dalla permanenza al governo dei ministri di cui hanno preso il seggio. Con la proporzionale pura, come a lungo si è visto anche in Italia, si incentivano la frammentazione del sistema, la creazione di coalizioni con numerosi partiti, il potere di contrattazione (e a volte di ricatto) dei partiti minori nella formazione dei governi, il totale asservimento del legislativo all’esecutivo. L’unica alternativa al monolite del potere politico è un giudiziario indipendente. Le coalizioni governative sono normalmente formate da partiti fra i quali esistono determinate affinità, anche se vi sono eccezioni alla regola. Quali sono dunque queste affinità elettive in Israele? Netanyahu in campagna elettorale aveva annunciato l’intenzione di formare un governo «di destra piena», in contrasto con la possibile alternativa di un governo di unità nazionale o di ampie convergenze. E così è stato, con la coalizione fra il Likud e i diversi partiti di matrice nazionalista e religiosa. Onde meglio visualizzare le differenti posizioni delle forze presenti nell’arco parlamentare della Knesset, la figura riporta un’analisi strutturale della configurazione delle contiguità e delle contrapposizioni, dei partiti politici in Israele dopo le ultime elezioni. Un confronto fra i 12.545 seggi elettorali in cui è diviso il paese consente di verificare la similitudine o la differenza nella distribuzione del voto secondo minuscole unità territoriali, ognuna delle quali ha una sua particolare composizione demografica, socioeconomica, etnica e religiosa, di conseguenza anche politica. Nella realtà israeliana, queste differenze micro-territoriali sono diffuse su tutto il paese a forma di mosaico, a differenza dell’Italia dove ancora si può individuare un chiaro gradiente Nord-Sud nella distribuzione di molti indicatori sociali e politici. Ogni seggio elettorale in Israele tende a essere relativamente omogeneo al suo interno, ma può risultare diametralmente opposto rispetto a una diversa realtà, Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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anche non troppo distante geograficamente. In particolare, è estremamente diversa la distribuzione territoriale della popolazione ebraica rispetto a quella araba. E all’interno della maggioranza ebraica, dei suoi settori più religiosi rispetto a quelli più secolari. Molti partiti politici cercano di catturare queste differenze e a volte trovano in esse la loro vera ragione di esistere, rivolgendosi a priori a un gruppo di popolazione piuttosto che a un altro. La maggiore o minore covariazione nelle scelte degli elettori in queste piccole unità territoriali si traduce pertanto in una certa prossimità o distanza fra i diversi partiti. Il software Ssa trasforma queste differenti correlazioni statistiche in una rappresentazione grafica. Attribuito a ogni formazione politica un punto su un piano bidimensionale, emerge una mappa complessiva dei partiti. La figura rappresenta i dieci partiti che hanno ottenuto seggi alle elezioni per la 25a Knesset e i due maggiori partiti che hanno fallito l’obiettivo del 3,25%. La mappa delle correlazioni e delle differenze nella distribuzione del voto è straordinariamente simile a quella che sarebbe la distribuzione dei partiti all’interno dell’emiciclo parlamentare. Sul lato destro appaiono i partiti della coalizione, segnati da una cornice più marcata, partendo dall’alto con i più religiosi e scendendo fino al moderatamente tradizionalista e soprattutto sempre più nazionalista Likud. Sul lato sinistro, scendendo dall’alto troviamo i partiti arabi (la Lista unificata, Balad e il Partito arabo unito che sia pure con molte difficoltà aveva appoggiato dall’esterno il governo Bennett-Lapid) e quelli di sinistra – Meretz (il partito radicale rimasto senza seggi) e i laburisti. In basso i due maggiori partiti del centro moderato. Interessante e anomala è la posizione del partito Yisrael Beiteinu (Israele casa nostra) dell’ex ministro Avigdor Lieberman, partito inizialmente sorto come lega etnica degli immigrati dall’ex Unione Sovietica che poi ha assunto posizioni trasversali – dichiaratamente nazionalista, ma anche sostenitore di mozioni molto liberali sui temi sociali. Un’altra lettura verticale della mappa ci dà in alto gli strati più poveri della popolazione (arabi e haredim), nella parte inferiore gli strati più istruiti e benestanti vicini ai partiti di centro. In teoria ci sarebbero i numeri perché nasca un governo di ampia coalizione che rinunci alle frange più integraliste, ossia i 18 seggi dei partiti haredim (Ebraismo della Torah e Shas) e anche i 14 del sionismo religioso della coppia Smotrich-Ben-Gvir, e aggreghi invece i 36 seggi del centro e anche i 6 di Lieberman. Ma questa operazione è impossibile causa la pregiudiziale nei confronti di Netanyahu da parte dei possibili alleati alternativi. Un uomo sotto processo, dicono, non può fare il primo ministro. Deve ritirarsi, come fece a suo tempo Ehud Olmert. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
9. Si arriva dunque inevitabilmente al nodo gordiano di Netanyahu, che a partire dalle elezioni del 2015 ha ipotecato un intero paese. Netanyahu non ha un delfino. Ha creato il vuoto intorno a sé, allontanando molti dei suoi più accreditati successori all’interno del Likud. Oggi il premier è attorniato da persone mediocrissime e spesso sguaiate, interamente dipendenti da lui per la propria sopravvivenza politica, o da persone di maggiore calibro che però hanno paura di parlare.
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È emblematico l’esempio del ministro della Difesa, generale Yoav Gallant, solitamente molto vicino a Netanyahu, che ha dichiarato il suo dissenso nei confronti della riforma legislativa, non in quanto tale ma in termini di tattica esecutiva. Gallant aveva espresso forte preoccupazione per la stabilità dell’apparato militare, chiedendo di sospendere temporaneamente la riforma della giustizia dopo che i riservisti avevano annunciato di non volersi più presentare alle esercitazioni in segno di protesta. Netanyahu lo ha immediatemante licenziato, lasciando di fatto Israele senza ministro della Difesa in un periodo estremamente delicato e pericoloso su tutti i fronti. Il premier, molto emozionato, quasi alterato, ha detto alla nazione: «Ora basta!». Intendeva che da ora in avanti avrebbe ignorato le ingiunzioni della procuratrice generale, Gali Baharav-Miara, a non trascurare il suo conflitto di interessi. Netanyahu si è posto risolutamente al di sopra della legge. Colossale errore strategico. Ha sottovalutato la reazione degli alti gradi militari, tutti solidali col ministro, e dell’opinione pubblica. Anche la sua tesi per cui la protesta popolare è animata da un piccolo gruppo di anarchici con l’appoggio di capitali esteri è infondata. Si tratta evidentemente di una gigantesca ondata spontanea alla quale prendono parte tutte le forze produttive e tutti i ceti che negli ultimi anni hanno guidato Israele nella sua brillante ascesa economica e tecnologica. Queste decisioni e affermazioni affrettate, influenzate dai propri canali interni di propaganda e non concordate con gli organi del suo partito, dimostrano una grave carenza percettiva nei confronti della natura profonda della società israeliana. In queste circostanze, è legittimo sollevare dubbi circa l’attuale competenza cognitiva del premier. I sondaggi politici degli ultimi giorni, con tutti i loro limiti, rappresentano un interessante barometro dal quale emerge un vero collasso del partito di Netanyahu e un’enorme avanzata dei partiti di centro, oggi parte dell’opposizione. In poco più di tre mesi il rapporto quantitativo fra governo e opposizione si è ribaltato. Molti elettori del Likud voterebbero oggi per la formazione centrista di Benny Gantz. I politici agiscono tenendo presente in primo luogo i propri interessi. Certamente un’ampia ala del Likud non vuole andare verso il collasso elettorale, che nel caso (non probabile) di eventuali elezioni anticipate le farebbe perdere il potere ottenuto con tanta fatica. Se finora ci si poteva ancora domandare se Netanyahu, in fondo, fosse un ideologo o un pragmatico, le vicende degli ultimi giorni dimostrano senza equivoci che egli segue una linea dottrinaria. Ma questo avviene perché è tenuto in ostaggio dai soci della sua coalizione, assieme ai quali può sperare di uscire senza danni dalle sue vicende gudiziarie, ma senza i quali la sua irresistibie carriera è destinata a terminare. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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10. Nella storia di Israele non vi era mai stata una protesta popolare di tale entità, culminata con la chiusura dell’aeroporto, la serrata delle università, i centri commerciali deserti, i sindacati e gli imprenditori d’accordo nel fermare il paese. Di fronte alla reazione scatenata dalla vera e propria rivoluzione di regime proposta
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dal governo, è intervenuto inizialmente il presidente Yitzhak Herzog, che in Israele svolge un ruolo soprattutto cerimoniale, con un proprio piano di mediazione. Herzog ha capito che non poteva restare in tribuna ed è entrato in campo, producendo un documento estremamente dettagliato, pubblicato su Internet, che ha voluto intitolare «Proposta del popolo», accompagnandolo con un discorso piuttosto emotivo. Ha menzionato la «guerra civile», tema quasi tabù, specificando che si tratta di pulsioni vere, non immaginarie. Su ognuno dei punti controversi Herzog ha cercato un compromesso con formule intermedie non facili, per esempio sul quorum necessario in parlamento per superare il giudizio negativo della Corte suprema su una legge della Knesset. Ma la coalizione di maggioranza ha impiegato pochi minuti per rifiutare la mediazione iniziale di Herzog, respinta da Netanyahu con tono beffardo mentre era all’aeroporto e stava per partire per la Germania. Questo grave e brutale rifiuto dimostra lo scarso rispetto della maggioranza nei confronti del presidente. Di fronte però alla massiccia reazione popolare dopo lo sconsiderato licenziamento del ministro Gallant, e all’inevitabile passo indietro da parte di Netanyahu, la proposta di mediazione del presidente torna a prendere forma. Due squadre di negoziatori, composte da esponenti del governo e dell’opposizione, si sono messe al lavoro. Non è chiaro dove possano approdare, tanto più che il ministro della Giustizia Levin ha già affermato che non transigerà su qualsiasi modifica alla sua proposta. Il problema serio, al di là del dissenso totale sulla riforma legislativa, è che le dimostrazioni delle ultime settimane hanno messo a nudo tutte le contraddizioni accumulate da Israele nei suoi tre quarti di secolo. Le incompatibilità ideologiche, la diversa e ineguale ripartizione dello sforzo economico e militare, e poi ancora le vecchie rivendicazioni sulle ingiustizie subite sessanta o settanta anni fa all’epoca dell’immigrazione di massa dal Medio Oriente e dal Nord Africa. Si tratta di un vaso di Pandora che una volta aperto è molto difficile richiudere. Al di là del problema della giustizia, quello di cui Israele ha realmente bisogno è un nuovo patto sociale che tenga conto delle diverse esigenze delle tribù. E questo obiettivo non è facilmente raggiungibile nel clima di tensione regionale che richiede periodiche mobilitazioni. In vista della stagione delle feste – la Pasqua ebraica, la Giornata del ricordo della Shoah, la Giornata della memoria dei militari caduti, e la Giornata dell’indipendenza di Israele, ma anche la Pasqua cristiana e il Ramadan – sarebbe stato impossibile, anzi folle continuare a vivere in una società spaccata in due. In generale queste giornate rappresentano momenti di grande unione e fratellanza. Forse, giunto sull’orlo del baratro, Netanyahu ha capito. Sarebbe però gravemente illusorio, al termine del periodo di tregua parlamentare, pensare di poter riproporre il processo di riforma della giustizia nella forma attuale. Su un punto in particolare non vi è possibilità di compromesso: il controllo dei giudici da parte della maggioranza di governo. O ci sarà o non ci sarà. Meglio una lottizzazione della Corte suprema che il suo controllo esclusivo da parte della maggioranza. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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ISRAELE AL BIVIO: RIFORMA O RIVOLUZIONE?
L’unico vero grande compromesso al quale si potrebbe arrivare riguarda la figura stessa di Netanyahu, fonte di polarizzazione del sistema politico israeliano. La sua presenza crea disunione rispetto a quasiasi altro argomento politico o giuridico. Questo grande compromesso potrebbe essere la sospensione del processo al premier in cambio del suo ritiro, per lo meno temporaneo, dalla scena politica. Copione molto improbabile, ma negli ultimi giorni sono in corso trattative discrete fra la pubblica accusa e la difesa. In ultima analisi, la protesta ha raggiunto, almeno in parte, i suoi scopi. Netanyahu ha finalmente capito e ha fermato la riforma per alcune settimane. È la prova che Israele è ancora una democrazia forte, non nel senso retorico attribuito al termine da Netanyahu nelle sue apparizioni all’estero, ma nel senso che la coscienza civile del popolo israeliano è emersa spontaneamente nelle moltitudini che vogliono preservare il carattere ebraico e democratico dello Stato d’Israele.
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ISRAELE CONTRO ISRAELE
LA COSTITUZIONE NASCE IN PIAZZA
di
Włodek GOLDKORN
Il movimento popolare che si oppone alla riforma giudiziaria voluta da Netanyahu esprime un nuovo linguaggio politico. In questione è la legittimità delle istituzioni di uno Stato senza Carta. L’ethos anarchico dell’ebraismo. La profezia di Leibowitz.
U
1. N GIORNO DEL 2016 ACCOMPAGNAVO lo scrittore israeliano Amos Oz in macchina da Novara all’aeroporto di Milano. A un certo punto mi disse: vorrei che ricordassi che sono stato il primo in Israele, nel 1967, a pronunciarmi contro l’occupazione. Seguì breve discussione circa tale primato. Io ero convinto che quello spettasse a Yeshayahu Leibowitz, uno dei più grandi intellettuali ebrei del Novecento, personalità controversa e al contempo popolare in Israele, che non si stancava di ripetere che l’occupazione non solo faceva male agli occupati ma avrebbe finito per rovinare gli occupanti. Cito questo episodio per introdurre un concetto caro al premier dell’epoca Levi Eshkol e che è tuttora attuale. Eshkol, successore di David Ben-Gurion, uomo ironico e dotato di grande senso dell’umorismo, capace di formulare frasi paradossali, conscio di quanto la forza possa contenere elementi di debolezza, invitava talvolta il giovane Oz a fare due chiacchiere, gli raccontava episodi di vita e faceva battute in yiddish, alcune irriferibili. Una di queste, diventata pubblica, recitava: «Isroel iz Shimshon der nebekhdiker», «Israele è un Sansone miserabile». All’epoca, Israele era un paese povero, popolato da poco più di due milioni di persone. Una striscia di terra in mezzo al mondo arabo che per sopravvivere aveva bisogno di aiuti stranieri. La vittoria nella guerra dei Sei giorni venne considerata alla stregua di un miracolo. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
2. A quasi cinquantasei anni da quella guerra la sensazione di insicurezza e di fragilità è sempre presente. Nonostante il successo dell’economia con le ormai proverbiali start-up, le tecnologie all’avanguardia nel campo della medicina, la potenza delle armi sofisticatissime dell’esercito, il mare di grattacieli dall’architettura avveniristica a Tel Aviv, la crescita e la diffusione (seppur con disuguaglianze) del benessere. Quel senso di fragilità è venuto fuori in tutta la sua potenza nei
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LA COSTITUZIONE NASCE IN PIAZZA
mesi dello scontro fra il governo di Binyamin Netanyahu e una larga fetta della popolazione (e l’establishment tutto), che ha occupato le piazze e le strade dando vita a un movimento di protesta radicale di massa. Quel senso di insicurezza non riguarda però tanto – se non a livello inconscio – il conflitto con i palestinesi, quanto invece il carattere dello Stato. Brutalmente: la posta in gioco è la legittimità non dello Stato di Israele in quanto tale ma del potere e delle sue istituzioni. Quando si parla di Israele spesso si evocano le tribù. Non quelle bibliche ma le tribù dell’attuale Israele: i laici della costa del Mediterraneo; gli ultraortodossi nelle loro enclave fra Gerusalemme e alcune città come Bnei Brak, i coloni in Cisgiordania, i palestinesi cittadini d’Israele (il 20% circa della popolazione) nella Galilea e nei distretti meridionali. Tutto vero. Però la questione più interessante e più pertinente al momento è quella dei linguaggi. Linguaggi come strumenti e veicoli di processi di inclusione ed esclusione. Il simbolo delle proteste, con centinaia di migliaia di persone in piazza, è la bandiera israeliana. Strano, visto che non si tratta di una lotta per la liberazione nazionale o contro un occupante straniero. E allora, da dove viene questo bisogno di rivendicare di essere israeliani contro i progetti di legislazione di un governo espressione di una coalizione che ha avuto la maggioranza dei voti in un parlamento eletto democraticamente e senza brogli? La risposta è semplice. C’è stata una risignificazione del simbolo. La bandiera del movimento sionista, diventata bandiera dello Stato, si è trasformata in messaggio: Israele siamo noi. Dire noi è includere ma anche escludere. Forse nelle proteste si sta formando un nuovo tipo di identità della nazione. Ci torneremo. 3. Aggiungiamo un ulteriore elemento: l’ethos anarchico dell’ebraismo. È vero che gli esponenti della destra di governo accusavano coloro che protestavano contro il progetto di «riforma» voluto da Netanyahu, che prevede la subordinazione del sistema giudiziario all’esecutivo, di essere degli «anarchici». Ma usavano questa parola senza capire di cosa parlassero: in mancanza di altri spettri, le destre radicali di tutto il mondo hanno eletto a nemico immaginario gli anarchici. Però è pure vero che l’ebraismo è restio all’idea del re, della monarchia, del potere forte, che si manifesta con sfarzo e usi e costumi da Corte reale (basti leggere i testi sacri, a partire dalla Bibbia, per comprenderlo). È quanto accaduto a Netanyahu. Il leader del Likud è stato messo sotto processo penale per corruzione e abuso di potere. E la sospesa «riforma» della giustizia è in gran parte motivata dal timore di essere condannato. Ma c’è anche, ed è importante nella percezione dell’opinione pubblica, l’aspetto di costume: alla famiglia Netanyahu viene rimproverata una condotta non consona a chi governa un paese fondato e cresciuto sull’ethos comunitario di uno Stato formato da cittadini soldati. Abbiamo detto ethos comunitario. Ecco, i sionismi, all’origine erano almeno due, così come gli idiomi. Uno era il sionismo detto «politico» di Theodor Herzl, l’autore del pamphlet Der Judenstaat (Lo Stato degli ebrei), in cui a seguito dell’affaire Dreyfus e al montare dell’antisemitismo in Europa occidentale si predicava la Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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LA SPIANATA DELLE MOSCHEE
Minareto al-Fahriyya
al-Musallā al-Marwānī (Stalle di Salomone) Culla di Gesù
Museo islamico al-Masğid al-Aqsā (Moschea) Cupola di Yūsuf Agā Stazione di al-Burāq Bāb al- Maġāriba (Porta dei Maghrebini)
Fontana di al-Ka‘s (la Coppa)
Cupola di Mosè
Minbar di Burhān al-Dīn Cupola di Yūsuf Cupola di al-Nahawiyya (Scuola di letteratura)
Bāb al-Silsila (Porta della Catena) Bāb al-Salam (Porta della Tranquillità)
Fontana di Qāsim Bāšā
Minareto di Silsila Bāb al-Mathara (Porta dell’Abluzione) Bāb al-Qattānīn (Porta dei Mercanti di cotone)
Bāb al-Rahma (Porta della Misericordia) Bāb al-Dahabī (Porta d’Oro)
Bāb al-Hadīd (Porta di Ferro) Bāb al-Tawba (Porta del Pentimento)
Bāb al-Nadīr o al-Mağlis (Porta del Consiglio)
Minareto di al-Asbāt Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
Bāb al-Asbāt (Porta dei Leoni)
Bāb al-‘Atma (Porta delle Tenebre) Bāb al-Hutta (Porta della Remissione)
Piscina di al-Nāranğ Fontana di Qāytbāy Cupola del Muezzin Cupola della Catena (Silsila) Cupola della Roccia (Qubbat al-Sahra) Cupola del Profeta Cupola del Mihrāb Cupola di al-Halīlī
Bāb al-Gawānima (Minareto)
Mi‘rāb ‘Alī Bāšā Cupola di al-Hidr Cupola degli Spiriti (Arwāh) Fontana di Ša‘lān Cupola degli amanti dei profeti Trono di Salomone
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necessità di costituire appunto uno Stato degli ebrei, partendo dalla concessione di un territorio da parte di una delle potenze europee dell’epoca. L’altro sionismo era invece quello più pratico ma al contempo romantico, che nasceva nell’impero zarista, soprattutto in quella che oggi è Ucraina. In particolare a Odessa. Processo parallelo all’azione politica di Herzl. Si trattava di intellettuali, scrittori, poeti che ricreavano una lingua, l’ebraico moderno, una cultura in quella lingua e che davano vita al movimento di ritorno a una Terra considerata culla dell’ebraismo: Eretz Yisrael, Palestina, all’epoca parte dell’impero ottomano. Quel ritorno doveva significare la creazione di un ebreo nuovo, agricoltore e combattente, non più dedito a mestieri astratti, non più un «Luftmensh» fluttuante nell’aria come certe figure nei quadri di Chagall, ma un essere umano che coi piedi nudi calpesta la terra. Il movimento laburista nasce così, con gli uomini e le donne che sbarcano in Palestina e cominciano a lavorare la terra. E poi creano una società parallela, autosufficiente, con la rete di aziende agricole, banche, cooperative, trasporti pubblici, casse mutue, imprese edilizie e via elencando. Ovviamente è una semplificazione. E va ricordato che il fondatore dello Stato, David Ben-Gurion (nato in Polonia, non in Ucraina), uno dei creatori del mito dell’ebreo nuovo, era un ottimo conoscitore delle regole del gioco geopolitico. Ad esempio, aveva capito nel 1942 che l’egemonia imperiale britannica stava finendo, che si stava profilando un mondo occidentale dominato dagli Usa e che il futuro Israele doveva far parte dell’Occidente, nonostante la grande simpatia che regnava nei kibbutz e nelle Forze armate clandestine laburiste per Stalin e per l’Urss. Eppure l’ethos laburista aveva fortissimi tratti egualitari e anarchici. Lo Stato che nasceva nel 1948 era a sua volta fondato sulle strutture create dal movimento laburista, mentre il linguaggio pubblico rispecchiava l’esperienza dei kibbutz, dei pionieri venuti dalle terre dell’ex impero zarista con i loro sogni utopisti ed esclusivi. Esclusivi? Certo, l’élite era di origini ashkenazite. Lo yiddish, considerato idioma della diaspora, quindi nemico del sionismo e indegno dell’ebreo nuovo e rinato, era comunque usato nell’intimo, per raccontare qualche barzelletta. E per escludere. Semplificando di nuovo, gli esclusi per eccellenza erano gli arabi palestinesi, cittadini dello Stato (fino al 1966 sottoposti al regime di amministrazione militare). E in altra maniera e misura, culturalmente, i mizrahim: gli ebrei provenienti dall’Africa settentrionale e dai paesi del Medio Oriente. Le strutture dello Stato erano costruite in modo da non ostacolare il potere laburista, l’egemonia del movimento e soprattutto il dominio del fondatore, Ben-Gurion. Il pluralismo era inteso dialettica fra le varie componenti del laburismo (Mapai, Mapam, Achdut haAvoda: cito solo le sigle, senza spiegare le differenze dottrinali e pratiche che in questo contesto non sono importanti). La destra sionista era invece esclusa dai giochi, bollata spesso come «fascista». Il nuovo Stato non si era dato una costituzione scritta, non era definito come repubblica. Si era voluto che il parlamento avesse una sola Camera. Il capo dello Stato disponeva di poteri poco più che cerimoniali. Le vecchie istituzioni parallele a quelle dello Stato, costruite ai tempi del Mandato britannico, espressione della comunità e dell’idioma Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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del movimento laburista, erano rimaste in piedi. Il punto è questo: l’ethos anarchico espresso nelle istituzioni autonome e il linguaggio laburista socialista legittimavano il potere di Ben-Gurion, dai non trascurabili aspetti autoritari e discriminatori. Fin qui la genesi. 4. La rottura di quello schema e la crisi del linguaggio avvengono in almeno due tappe. La prima e preliminare è la guerra dei Sei giorni. E qui torniamo all’inizio. Dopo che l’esercito d’Israele conquista la Cisgiordania e prende il controllo di Gerusalemme Est (fino ad allora territori giordani) – soprattutto della Città Vecchia, con il chilometro quadrato dei luoghi santi per le tre fedi monoteistiche – cresce l’importanza di un linguaggio fino ad allora minoritario e subalterno. Fra le varianti del sionismo c’è stata e c’è quella del sionismo religioso. Mentre fin dalla fine dell’Ottocento l’ebraismo ortodosso era per lo più ostile al sionismo perché lo Stato degli ebrei e il Terzo Tempio sarebbero sorti con l’avvento del Messia e accelerare quel processo era considerato un atto sacrilego, una piccola corrente dell’ebraismo osservante aderiva al sionismo. La sua espressione, più tardi denominata Partito nazionale religioso, si ritagliò uno spazio in uno Stato altrimenti egemonizzato dai laburisti, quale fedele e minoritario alleato di governo. Ma ecco che nel 1967 il cambiamento della geopolitica israeliana (la conquista appunto della Cisgiordania e della Città Santa) aveva portato a galla una particolare geografia del mito e della memoria – dove la memoria è ovviamente un costrutto culturale identitario. Israele controllava ora quelle terre che fanno parte del racconto della Bibbia. Cresceva così un pensiero che univa il nazionalismo alla fede e il mito alla politica quotidiana. Nascevano gli insediamenti nei Territori occupati e guadagnava popolarità l’idea del Grande Israele: idea messianica di Redenzione qui e ora, non più rimandata al Tempo dopo il Tempo. È in seno a quel movimento che viene alla luce il linguaggio radicale di oggi. Di coloro che come Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich, per molti anni considerati estremisti, non affidabili per qualsiasi incarico di governo, sono stati recentemente sdoganati da Netanyahu, elevati al rango di ministri di dicasteri importanti, fino a predominare sullo stesso premier. Oz già nel 1967 aveva intuito questo mutamento. Prevedeva che sarebbe nato un linguaggio da fanatici, gente che tratta anche la geopolitica in termini metafisici (un po’ come succede in Russia, ma questo è un altro discorso). E siamo alla cronaca di oggi. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
5. Tuttavia, prima che si arrivasse a questo, nel 1977 era nato e aveva avuto un certo successo un ulteriore linguaggio, un meta-idioma, in parte liberale, in parte messianico, in parte di rivolta, tipico della componente mizrahim. Mi riferisco all’ascesa al potere di Menachem Begin, leader della destra, in seguito alla sconfitta elettorale dei laburisti. Begin era un nazionalista, liberale, sostenitore dell’economia di mercato e nemico del collettivismo, dei kibbutz, del linguaggio e del mito dell’ebreo socialista. E – ironia della storia – avvocato cresciuto in Polonia aveva trovato il suo elettorato di riferimento fra i mizrahim. Fu un patto fra gli esclusi, fra
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un’élite politica (gli uomini di Begin, cresciuti nella lotta armata clandestina negli anni Quaranta) alla ricerca di un elettorato e un elettorato che cercava una rappresentanza. Non ne faremo la storia, se non per dire che Netanyahu si presenta come il continuatore di quell’amalgama fra il linguaggio liberale e un idioma populista. Ma non lo è. Nella destra – specie nel Likud – hanno sempre convissuto due linguaggi. Oltre a quello populista, insofferente ma mai troppo nei confronti dello Stato di diritto e con evidenti derive di stampo razzista nei confronti dei palestinesi, c’è stato sempre un altro idioma, che auspicava la sostanziale parità dei diritti per tutti i cittadini. L’esponente forse più in vista di quella corrente di pensiero e di quel linguaggio radicalmente liberale è stato il presidente Reuven Rivlin, il predecessore dell’attuale capo dello Stato, Yitzhak Herzog. Ma si potrebbero citare altri ex deputati e personalità importanti del Likud, oggi ostili a Netanyahu. Per oltre quattro decenni i due linguaggi, il populista e il liberale, hanno convissuto nello stesso partito. A tenerli insieme non erano solo il potere e il crescente benessere della società, ma anche il tacito accordo per cui non veniva sollevata la questione dell’occupazione. Accordo a cui ha aderito peraltro quasi tutta la società e non solo i seguaci del Likud. Dopo il crollo dell’egemonia laburista e sulla scia del linguaggio liberale (e con i palestinesi come grande rimosso), nel vuoto causato dall’assenza di una costituzione scritta, la laicità dello Stato e i diritti civili sono stati garantiti dalla Corte suprema, che a sua volta allargava le proprie competenze e imponeva un linguaggio radicalmente illuminista e universalista. Ora tutta questa costruzione è saltata per aria a causa dell’insipienza di Netanyahu, della sua scommessa di poter uscire indenne dai processi penali al prezzo di trasformare la struttura dello Stato. Per mantenere il potere Netanyahu si è alleato con il partito che rappresenta l’ala più oltranzista dei coloni, nonché con i rappresentanti dell’ebraismo ultraortodosso, ostili a ogni idea di laicità. Capita che la storia subisca un’accelerazione per ragioni contingenti. Il timore di un uomo (Netanyahu) di finire condannato da un tribunale e la voglia degli ultraortodossi di imporre la loro agenda hanno riportato a galla il rimosso e riaperto le contraddizioni taciute. E così, in piazza, fra i manifestanti che si oppongono alla riforma, ad ascoltare gli slogan e a sentire i discorsi, sta nascendo un altro idioma, il nucleo di un’altra identità israeliana: costituzionale e non più (solo) etnica. In piazza si difendono le fonti universalistiche del diritto, si chiede una costituzione. Perfino la bandiera nazionale sta subendo una specie di risignificazione, non più immagine plastica del sogno della costruzione di uno Stato nazionale ma simbolo di qualcosa che va verso uno Stato dei cittadini – seppure con l’aggettivo Stato ebraico, ma quell’aggettivo va interpretato. All’insicurezza innervata nell’esperienza israeliana e nella memoria delle persecuzioni contro gli ebrei, le élite – che in Israele sono di massa causa diffusione di industrie basate sul sapere di avanguardia – hanno reagito intuendo che la salvezza può venire solo dall’affermazione dei diritti. E che i diritti sono universali o non sono. È un buon inizio. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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ISRAELE CONTRO ISRAELE
L’ESERCITO DI POPOLO NON CREDE PIÙ NEL POPOLO
di
Fabrizio MARONTA
Pilastro della sicurezza e dell’identità nazionali, le Idf patiscono la tribalizzazione del paese. L’exploit dei refusenik. I contraccolpi dello scontro tra secolari e (ultra)religiosi. Il travaglio dei riservisti, anima e corpo di Tzahal. I nemici osservano e meditano.
N
1. EGLI ANNI OTTANTA YESHAYAHU LEIBOWITZ, poliedrico e ascoltato intellettuale ultraortodosso nato a Riga nel 1903, insegnava all’Università Ebraica di Gerusalemme, città dove morirà nel 1994. Nel 1985 rilasciò un’intervista al quotidiano Yedioth Ahronoth in cui esprimeva intensa ammirazione e sostegno incondizionato ai riservisti di Tzahal (l’esercito israeliano) che rifiutavano di prestare servizio in Libano contro l’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina). Questa reclutava miliziani nel paese dei Cedri (oltre che in Siria) e contro di essa lo Stato ebraico combatteva da tempo un brutale conflitto che toccava il suo apice proprio allora, in coincidenza con la guerra civile libanese. La renitenza per Leibowitz era un espediente politico lecito, finanche opportuno dopo la guerra dei Sei giorni del 1967 con cui Israele aveva strappato la Cisgiordania e Gerusalemme Est alla Giordania, il Golan alla Siria e il Sinai e Gaza all’Egitto, dotandosi di relativa profondità strategica al prezzo del perenne sopruso ai danni dei palestinesi. «Sebbene minoritario, il rifiuto di arruolarsi potrebbe disarticolare il consenso nazional-fascista, aprendo la strada all’uscita dalla barbarie»: sarebbero bastati 500 refusenik nei Territori occupati, argomentava il filosofo, per porre fine all’occupazione. Non successe al tempo e nemmeno in seguito. Durante la seconda Intifada (settembre 2000-marzo 2005) le Forze di difesa israeliane (Idf nell’acronimo inglese) uccisero migliaia di palestinesi e rasero al suolo oltre 4 mila abitazioni nei Territori. I refusenik ci furono anche allora, puniti con mesi o anni di reclusione per la renitenza alla leva in opposizione alla brutalità dell’occupazione. Fu quello il maggior episodio di rifiuto dello Stato guarnigione 1 e del suo strumento militare. Fino a oggi. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
1. F. MARONTA, «Lo Stato guarnigione mostra le sue crepe», Limes, «La questione israeliana», n. 5/2021, pp. 119-127.
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L’ESERCITO DI POPOLO NON CREDE PIÙ NEL POPOLO
Il 14 marzo 2023 alla Knesset (parlamento israeliano) la coalizione imperniata sul partito di maggioranza (Likud) del premier Binyamin Netanyahu approvava l’ormai famigerata legge che, tra l’altro, riforma il sistema giudiziario. Fulcro della norma sono il maggior potere dell’esecutivo nel comitato che seleziona i giudici della Corte suprema e la facoltà del parlamento di scavalcarne con voto a maggioranza i pronunciamenti su leggi dello Stato. Nelle settimane successive, per la prima volta in circa vent’anni, il movimento dei refusenik ha rialzato la testa con una rapidità e un’intensità senza precedenti nella storia del paese. Centinaia di soldati e riservisti hanno pubblicamente annunciato l’intenzione di astenersi dal servizio se la legge non fosse stata ritirata. Una prima dichiarazione in tal senso, fatta a caldo dopo l’approvazione della norma che «renderà la magistratura uno strumento politico dipendente dal governo, ponendo fine alla democrazia israeliana» 2, raccoglieva in poche ore quasi 300 firme di riservisti delle unità d’élite. Una seconda esternazione simile e di poco successiva veniva sottoscritta da circa 500 soldati dell’Unità 8200, caposaldo dell’intelligence che svolge intensa attività nei Territori e altrove. Nei giorni successivi la stampa israeliana riportava 3 episodi di minacciata o attuata insubordinazione in quasi ogni comparto delle Idf – compresa la Sayeret Matkal, la principale unità di ricognizione che riferisce direttamente allo Stato maggiore – le cui chat interne brulicavano di refusenik o aspiranti tali. Oltremodo pubblicizzato dai media e preoccupante per i comandi il dissenso nell’Aeronautica, una delle più rispettate divisioni delle Idf dalla cui piena efficienza e fedeltà dipende in buona misura la superiorità bellica israeliana 4. A fine marzo, investito da una protesta dilagante e pressato dall’alleato statunitense, l’esecutivo sospendeva la riforma giudiziaria. Il danno però era fatto. Fonti qualificate, dentro e fuori gli ambienti militari, avvertono che il clima da rompete le righe rischia di precipitare le Forze armate israeliane in una «crisi senza precedenti» 5. Le Idf non sono un esercito come gli altri. Pilastro di Israele, della sua sicurezza ma anche della sua identità nazionale, questo «esercito di popolo» sorto nel 1948 e dunque coevo allo Stato ebraico svolge un ruolo cruciale nel paese nato e cresciuto in costante antitesi al proprio intorno geopolitico. Quasi tutti gli israeliani, uomini e donne, sono coscritti al compimento della maggiore età (18 anni) per un periodo inimmaginabile altrove: 32 mesi gli uomini, 24 mesi le donne. Molti dopo il congedo restano volontariamente nell’esercito come riservisti, di norma fino ai 40 anni e oltre. Svolgono regolari esercitazioni e sono richiamati in caso di guerra, costituendo il grosso degli attivi combattenti in un paese dove la sproporzione tra Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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2. Y. KAPSHUK, A. ABRAMOVICH, «Decine di riservisti dell’Unità operazioni speciali delle Idf prendono posizione: non presteremo servizio se passa la riforma», Mako, 24/2/2023. 3. S. ZAMERET, «A mass wave of Israeli army refusal could be a transformative moment», +972 Magazine, 5/3/2023. 4. A. HAREL, Y. KOBOWITZ, «Segnali di un’ondata di renitenze tra i piloti della riserva preoccupano lo Stato maggiore», Haaretz, 24/3/2023. 5. «Il generale di brigata Roi Alkabats si dice fortemente contrario alla renitenza dei riservisti», Canale 13, 27/2/2023.
ISRAELE CONTRO ISRAELE
LA POTENZA DIGITALE DI ISRAELE Sidone
Damasco
LIBANO Monte Hermon Tiro
GOLAN
Haifa
Mar Mediterraneo
SIRIA
Monte Bental Monte Avital
Nazaret
Dar)ā Irbid
Netanya
al-Mafraq Nāblus
Hertzliya Tel Aviv
SEDI E BASI INTELLIGENCE
Glilot
Gerusalemme
Ashdod Kiryat Gat Gaza
Ora Hebron Mar Morto
Hān Yūnis Kibbutz Urim Beer Sheva
Glilot quartier generale del Mossad Herzliya attuale sede dell’intelligence militare e dell’accademia del Mossad (Midrasha) Kibbutz Urim nel deserto del Negev, principale base di spionaggio SatCom dell’Unit 8200 Ora base congiunta Nsa/Unit 8200 Alture del Golan stazioni d’intercettazione elettronica sui monti Avital, Bental e Hermon Beer Sheva nuova sede dell’intelligence militare
ISRAELE POLI TECNOLOGICI
Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
EGIT TO
Tel Aviv Haifa Kiryat Gat principale stabilimento israeliano Intel Herzliya sede di importanti aziende della cyber security, tra le quali il colosso Verint Beer Sheva capoluogo del Negev e capitale cibernetica d’Israele
GIORDANIA Territorio israeliano Golan Confini attuali Confini di Gaza, Cisgiordania e Golan
ARABIA S AU D I TA
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popolazione – 9,3 milioni di persone, tra cui un milione di ultraortodossi e quasi due milioni di arabi israeliani, categorie esenti dal servizio militare – ed esigenze di difesa è lampante. L’esercito si avvale dei riservisti anche per il suo funzionamento ordinario, sfruttandone la professionalità per compiti cruciali come l’addestramento o l’intelligence. Senza di essi le Idf smettono di funzionare. Il fatto che l’attuale ondata di obiezioni di coscienza coinvolga in larga misura i riservisti suscita pertanto allarme. Ma queste preoccupazioni, per quanto intense e giustificate, sono la punta di un iceberg. La potenziale emergenza operativa è l’esito di un problema più profondo. Nello Stato guarnigione, storicamente tutt’uno con le sue Forze armate, se queste soffrono a soffrire è – dev’essere – il paese, in un nesso biunivoco dove i guasti dell’uno alimentano il disagio dell’altro. Che succede? 2. «Difficile descrivere agli outsider cosa voglia dire essere un riservista delle Idf. Una volta all’anno o giù di lì si lasciano casa e affetti per una polverosa base dell’esercito i cui edifici sono normalmente infuocati d’estate e gelidi d’inverno. Mogli e figli spesso si risentono dell’assenza e delle difficoltà, pratiche e affettive, che questo comporta. Ma le difficoltà non smorzano l’entusiasmo: i riservisti di solito aspettano con ansia il momento di partire. Apprezzano il temporaneo allontanamento dalla vita quotidiana, il cameratismo tra amici che invecchiano insieme, la dignità di fare qualcosa al contempo difficile e celebrata dalla propria comunità e dalla propria cultura. I riservisti volontari non lasciano la Riserva d’impulso, né minacciano di farlo se non per uno stato di profondo dolore e ansia» 6. Dolore e ansia portano dritti al punto: la tribalizzazione della società israeliana denunciata nel 2015 dall’allora presidente israeliano Reuven Rivlin con il suo noto «discorso delle quattro tribù». Applicata alle Idf, questa balcanizzazione dello Stato può essere descritta in due modi, a seconda che si considerino le argomentazioni della destra o della sinistra israeliane. Partiamo dalle prime. Quest’anno il Likud («consolidamento») compie mezzo secolo. Fondato nel 1973 da Menachem Begin, fu da questi capeggiato fino al 1983. Per i successivi dieci anni fu guidato da Yitzhak Shamir, cui nel 1993 successe Binyamin Netanyahu. Da allora, fatta eccezione per i quasi sei anni (1999-2005) di Ariel Sharon, Netanyahu è stato il volto del partito, la cui storia ricalca quindi per metà la vicenda politica dell’attuale leader. Con Sharon – generale di lungo corso costretto nel 1983 a dimettersi da ministro della Difesa per la responsabilità nel massacro di palestinesi compiuto l’anno prima da miliziani libanesi con l’acquiescenza delle Idf – ma ancor più dal 2005 con il secondo Netanyahu, il Likud abbraccia un vendicativo anti-elitismo, da allora sua bandiera identitaria ed elettorale. Questa la narrazione: un’élite ashkenazita, razzista ed esclusiva, opprime ed emargina sistematicamente un’ampia sottoclasse sefardita per tutelare il proprio status privilegiato. Il Likud s’intesta allora la difesa della maggioranza sempre meno Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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6. H.R. GUR, «No longer willing to carry the burden: Reservist protest hints at deeper crisis», The Times of Israel, 8/3/2023.
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silenziosa di ebrei israeliani d’origine mediorientale e maghrebina (mizrahim), assurta negli anni a suo principale bacino di consensi. La spaccatura tra sommersi e (auto)salvati non risparmia alcun ambito della società israeliana. Comprese le Forze armate, i cui quadri ashkenaziti riproducono negli ambienti militari il sopruso ai danni della truppa sefardita che rischia in prima linea per proteggere gli avamposti ebraici nei Territori. Così l’ex generale Gershon Hacohen, già comandante della Regione Nord, che dopo la pensione ha sposato causa e argomenti del Likud: «Non è un caso che i riservisti renitenti siano piloti o membri delle unità d’élite, i quali brandiscono i loro valori per fare pressione su esercito e governo. Assistiamo allo scontro crescente tra un gruppo privilegiato di israeliani, che ha studiato nelle migliori scuole europee e americane allontanandosi sempre più dalle radici ebraiche, e gli israeliani più tradizionalisti e religiosi», su tutti i coloni. Le dinamiche del paese favoriscono questi ultimi: l’élite vede nell’alta fecondità dei haredim, gli ultraortodossi, una minaccia «ed è presa dalla paura. È più di una paura: è un’ossessione patologica» 7. Proseguendo in questa linea di pensiero, l’amara ironia è che le idee espresse dal leader della destra sionista Zeev Jabotinsky nel suo saggio del 1923 Il muro di ferro (scritto originariamente in russo), furono di fatto riprese da David Ben-Gurion senza ammetterlo apertamente, tanto che quel saggio divenne una delle basi della dottrina di sicurezza israeliana 8. Ancora, la destra ha sempre perseguito il libero mercato come mezzo di benessere e modernizzazione dello Stato, a differenza di una sinistra (ashkenazita) di tendenze a tratti staliniste ritrovatasi, al pari dei suoi omologhi europei, dalla parte sbagliata della storia. Nel 2005 fu poi la destra a suonare l’allarme sugli accordi di Oslo e sui problemi di sicurezza connessi al ritiro da Gaza, che porteranno lo Stato ebraico a erigere la «barriera di sicurezza» lungo la Linea verde (qui di norma il Likud sorvola sul fatto che a presiedere il ritiro fu Ariel Sharon). Ma soprattutto: dalla vittoria di Menachem Begin nel 1977 la destra, nelle sue varie incarnazioni (Likud e alleati), ha vinto una decina di elezioni ma «non ha mai detenuto il potere nel vero senso della parola, perché attraverso la magistratura, la burocrazia, gli apparati di difesa, le università, il mondo della cultura, i media e l’economia, la dottrina della sinistra ha seguitato a dominare l’orientamento del paese» 9. A questo discorso si contrappone una critica da sinistra che denuncia a sua volta la dinamica tribalizzante, ma la fa risalire al tradimento di uno spirito di sacrificio troppo a lungo deriso e sfruttato 10. Secondo questa argomentazione, in origine la sinistra laica israeliana non si percepiva come tribù, bensì come l’essenza di uno Stato israeliano nel quale coesistevano democraticamente altri orientamenti politici. Ma la ventennale, veemente accusa di esercitare un’oppressione fiCopia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
7. D. ISAAC, «Judicial reform protests threaten to undermine IDF, former commanders say», Jewish News Syndicate, 28/3/2023. 8. Per un’ampia trattazione storica dell’argomento, cfr. A. SHLAIM, Il muro di ferro, 2003, il Ponte editrice. 9. A. KAHANA, «How 10 weeks of protests finally exposed the underlying truths in Israeli politics», Israel Hayom, 14/3/2023. 10. H.R. GUR, op. cit.
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nalizzata a mantenere una crudele e ingiusta egemonia sta portando la sinistra a interiorizzare la rappresentazione di se stessa come tribù, parte disomogenea di un tutto intenibile. L’effetto più serio è il venir meno del senso di responsabilità verso il resto della società, nella misura in cui questa non è più percepita meritevole del sacrificio e grata per lo stesso. In questione non è solo la coesione sociale, ma anche l’efficacia e la potenza dello Stato israeliano. La sinistra riconosce di essere ancora sovrarappresentata in settori cruciali come l’hi-tech, l’intelligence e i quadri delle Forze armate, ma associa questa circostanza alle origini socioculturali delle élite statali i cui lasciti persistono malgrado gli ideali inclusivi del sionismo, non a causa di una precisa volontà d’esclusione. Inoltre, questa oggettiva prevalenza nella stanza dei bottoni è moralmente compensata dallo storico senso di responsabilità collettiva che comporta e che implica sacrifici personali difficili da giustificare altrimenti. È tale Beruf, concepito come pilastro del benessere e della sicurezza nazionali dalla sinistra ma additato come privilegio paternalistico (se non oppressivo) dalla destra, a essere ora in discussione. I crescenti appelli alla separazione di un «giudaismo di destra», tradizionalista e religioso, da un «sionismo di sinistra» liberale, laico e quasi apolide erodono, denuncia la sinistra, il senso di appartenenza delle élite, senza il cui apporto l’esperimento israeliano è destinato al fallimento. A fare notizia è la protesta dei militari, ma quella altrettanto massiccia dei capi d’azienda non è da meno. Il «privilegio» di questi settori è ciò che fornisce al paese le competenze e i soldi (attraverso il prelievo fiscale) che ne fanno la casa degli ebrei. Anche di destra. Queste due visioni opposte, per molti versi inconciliabili, sfilacciano il tessuto sociale di Israele e di conseguenza la coesione del suo esercito di popolo, incrinando il fin qui stretto, consustanziale rapporto tra i due. Lo certificano nel 2022 due sondaggi dell’Israel Democracy Institute. Uno rileva che, per la prima volta, gli israeliani favorevoli al modello dell’esercito di popolo con la sua coscrizione universale sono scesi a meno della metà. L’altro indica al 78% la fiducia della popolazione ebraica di Israele nelle Idf: dato alto e superiore ad altre importanti istituzioni come presidenza o polizia, ma il minimo degli ultimi tredici anni 11. 3. Fin qui il contesto. Ma cosa pulsa dentro le Idf? Quali le accuse, i risentimenti delle migliaia di quadri, soldati e riservisti protagonisti delle inedite proteste successive all’approvazione della legge incriminata? Di questa si contesta la natura illiberale, dunque il tradimento della democrazia israeliana – per quanti nelle Idf la reputano effettivamente tale. Ma c’è dell’altro, che non attiene tanto al senso di missione dell’esercito quanto al senso di sicurezza di chi vi opera. Minando la coesione del paese, dunque del suo apparato di sicurezza, le Forze armate imputano al governo di lasciarle sole mentre torna a crescere il rischio regionale, così esponendo i militari a un pericolo esistenziale. Due le principali minacce all’orizzonte. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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11. A. HAREL, «Why Public Support for Israeli Army Has Reached a 13-year-low», Haaretz, 7/1/2022.
ISRAELE CONTRO ISRAELE
IL NUCLEARE ISRAELIANO L I B A N O
S I R I A
M a r M e d i t e r r a n e o
Alture del Golan (annesse da Israele)
Yodfat
Possibile sito di allestimento e smaltimento di armi atomiche
Haifa
Lago di Ti b eri a d e Eilabun
Centro per le tecnologie nucleari militari
Possibile sito di stoccaggio
Tel Aviv C i s g i o r da ni a
Soreq Nuclear Research Center Reattore e sviluppo armi
G I O R D A N I A GERUSALEMME Possibile sito di stoccaggio
Tirosh
Ma r Mo rt o
Str isc ia di G a z a
I
S
R
A
E
L
E Mishor Rotem
Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
E G I T T O
Centro chimico e deposito di uranio
Dimona Reattore nucleare
Primo, i palestinesi. A decretare la fine della seconda Intifada nel 2005 non furono i negoziati, ma la brutale repressione di esercito e servizi di sicurezza israeliani che eliminarono terroristi e sospetti tali, effettuarono arresti in massa, rioccuparono i centri della Cisgiordania disseminandoli di posti di blocco, infiltrarono pesantemente le organizzazioni armate palestinesi e fortificarono la Linea verde. Il
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L’ESERCITO DI POPOLO NON CREDE PIÙ NEL POPOLO
successore di Arafat (morto nel 2004) alla guida dell’Autorità palestinese Abu Mazen (Maõmûd ‘Abbås) rinunciò alla violenza e accettò di contrastare (non senza ambiguità) Õamås e gli altri gruppi armati per conto di Gerusalemme e con il beneplacito di Washington e dell’Unione Europea, che hanno ripagato con lauti aiuti forieri di una corruzione endemica, ma bonariamente tollerata. Ora quell’accordo sembra svanire per crescente incapacità dei contraenti di onorarlo. Abu Mazen ha 87 anni. È politicamente – nonché fisicamente – sempre più debole e inviso al grosso dei palestinesi, che lo vede complice dell’occupante israeliano. La disperazione dei giovani arabi nei Territori fomenta Õamås, la Jihåd palestinese e altre formazioni estremiste. Tra queste spiccano due new entries: la Brigata Ãanøn (sorta nel 2021) e la Tana dei Leoni (2022). La prima è sostenuta e integrata da giovani provenienti da Õamås e dal Fronte popolare di liberazione della Palestina. Ma anche da Fatõ, il che per Israele è un problema nel problema perché attesta il tangibile arretramento del fronte pacifista (per quanto strumentale) in campo palestinese. Le due formazioni paiono per ora scarsamente organizzate, prive di risorse e capacità analoghe a quelle dell’odierno Õamås o di Fatõ ai tempi della seconda Intifada. Tuttavia, a parte il rischio di un terrorismo atomizzato e imprevedibile insito in tale situazione, resta che oltre il 70% dei palestinesi guarda con favore a questi gruppi 12. La conseguente impennata della violenza, accusano le Idf, trova Israele impreparato. I Ramadan degli ultimi anni sono stati costellati di sanguinosi attentati, brutali ritorsioni (dei coloni) e dure repressioni (di Tzahal) con forti contraccolpi su una politica israeliana instabile e rissosa, che ha portato il paese al voto cinque volte negli ultimi quattro anni. L’anno scorso le Forze armate israeliane hanno ucciso 151 palestinesi in Cisgiordania e nei dintorni di Gerusalemme Est (quasi il doppio del 2021); gli attacchi palestinesi hanno ucciso oltre 30 israeliani, mentre oltre 50 palestinesi sono morti in scontri tra Tzahal e la locale Jihåd. Secondo le statistiche delle Idf, i palestinesi hanno sparato ai loro militari quasi 300 volte, contro le circa 60 del 2021 e la trentina del 2020 13. Il 2023 è iniziato all’insegna degli scioccanti fatti di Õuwwåra, mentre il governo Netanyahu uscito dalle elezioni del novembre 2022 difendeva a spada tratta i coloni e annunciava un inasprimento della repressione. Tutto questo spinge molti, anche dentro le Idf e l’intelligence, a ritenere probabile e forse imminente una terza Intifada. Questa troverebbe certo le Forze armate israeliane più capaci che nel 2000 – l’intelligence più sviluppata, la tecnologia più sofisticata e letale. E di certo vedrebbe un clima regionale più freddo verso la causa palestinese. Ma troverebbe anche Israele – la sua società, il suo esercito – più diviso e demotivato. Con due ulteriori caveat relativi alla Corte suprema, nel mirino della contestata legge. La Corte ha infatti garantito a più riprese uno scudo giuridico alle azioni dei militari israeliani operanti in Cisgiordania, a Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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12. D. BYMAN, «The Third Intifada? Why the Israeli-Palestinian Conflict Might Boil Over Again», Foreign Affairs, 7/2/2023. 13. Ibidem.
ISRAELE CONTRO ISRAELE
Gaza, in Libano, in Siria e altrove. Politicizzarne l’operato in un clima di reciproca diffidenza interna è per molti, soldati e riservisti, fonte di inaccettabile insicurezza. Nel tempo però l’organismo ha anche bocciato alcune tra le più controverse iniziative di espansione degli insediamenti, disinnescando così situazioni di estremo pericolo per i militari poi chiamati a difenderli. Privarlo di questo margine è ulteriore fonte d’inquietudine. 4. L’altra minaccia giudicata sempre più attuale è quella iraniana. L’affossamento del Jcpoa (Joint Comprehensive Plan of Action, l’accordo sul nucleare iraniano) da parte di Trump e la sua mancata resurrezione con Biden sono stati un successo per Israele, che ora però contempla un Iran verosimilmente alla soglia della Bomba. Le intelligence israeliana e statunitense ritengono che Teheran abbia ormai la capacità, in circa due settimane, di arricchire al 90% una quantità di uranio sufficiente a fabbricare almeno un ordigno atomico e che la decisione in merito dipenda unicamente dalla sua volontà politica. Queste stime si basano sulla quantità di materiale fissile accumulato dal regime iraniano dopo il maggio 2018, data in cui Washington denunciò il Jcpoa. L’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) definisce «quantità significativa» l’ammontare di uranio necessario a fabbricare un’atomica, pari a circa 25 chili di uranio contenente almeno il 20% di isotopo U-235. Da lì alla soglia nucleare il passo è relativamente breve perché ulteriori livelli d’arricchimento sono più facili da conseguire. L’agenzia calcola che all’agosto 2022 l’Iran avesse oltre 13 «quantità significative» di uranio arricchito oltre il 20%, di cui almeno due oltre il 60%. Tale livello basta già a produrre un ordigno atomico semplice e abbastanza compatto, mentre atomiche più potenti e sofisticate richiedono ulteriori tecnologie e livelli d’arricchimento superiori 14. Questo però era un anno fa. Lo Stato ebraico, al pari dei sauditi, si dice pronto a un attacco preventivo se l’Iran acquisisse la capacità di produrre atomiche, ma il fatto che l’opzione non sia scattata già nel 2022 suggerisce che forse per Gerusalemme il vero punto di non ritorno è un arricchimento al 90%. Se e quando Teheran dovesse con certezza varcare tale soglia, le Idf sarebbero chiamate ad agire. Avrebbero la compattezza, la determinazione e la fiducia necessarie? C’è chi ne dubita. Negli ambienti militari cresce il timore che l’immagine di caos, crisi e divisione proiettata da Israele ne spinga i nemici a osare. Magari sbagliando clamorosamente i calcoli e innescando conflitti i cui esiti destabilizzino ancor più il già fragile quadro regionale. Vale per l’Iran, ma anche per il libanese Õizbullåh e per le formazioni armate palestinesi, specie se la crescente frustrazione in Cisgiordania e a Gaza dovesse spingerne una o più a tentare la carta della violenza per accreditarsi nel dopo-Abu Mazen. A questi scenari concorre il divario che la traiettoria di Israele sta creando rispetto al sempre importante alleato statunitense, il cui alienamento Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
14. W. ALBERQUE, «Iran approaches the nuclear threshold», International Institute for Strategic Studies (Iiss), 10/11/2022.
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coincide peraltro con il raffreddamento degli accordi di Abramo e con l’intesa saudita-iraniana mediata da Pechino. Il 19 marzo scorso Joe Biden ha intrattenuto con Netanyahu quella che fonti della Casa Bianca hanno descritto una conversazione «franca e costruttiva». Soprattutto franca. Biden ha infatti «rimarcato che i valori democratici sono sempre stati e devono restare un pilastro della relazione israelo-statunitense (…) e che cambiamenti fondamentali (all’assetto istituzionale di una democrazia, n.d.a.) vadano perseguiti con il maggior sostegno popolare possibile» 15. Washington è stata colta di sorpresa dalla crisi israeliana: giunto al governo con l’idea di porre fine alle forever wars mediorientali per concentrarsi sulla Cina, Biden già deve fronteggiare l’aggressione russa all’Ucraina, che riporta l’esposizione militare dell’America nel Vecchio Continente molto oltre la soglia auspicata. L’avvitamento dell’alleato israeliano in un’emergenza democratica e magari militare è l’ultima cosa che l’amministrazione desideri. E che sia disposta a tollerare. Alla telefonata del 19 marzo sono seguiti altri scambi piuttosto tesi. «Israele è un paese sovrano» che non si fa dire cosa fare, «nemmeno dai migliori amici». Così Binyamin Netanyahu a commento dell’esortazione di Biden a «non continuare su questa strada» 16. Prima che il governo Netanyahu facesse un passo indietro, fonti diplomatiche riferivano che Washington stesse valutando di accantonare il suo tradizionale veto a qualsiasi risoluzione contro Israele al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, pratica che finora ha visto una sola eccezione con Obama (e Biden quale suo vice). L’arretramento dell’esecutivo israeliano sotto l’onda d’urto della piazza sembra disinnescare, per ora, la fase più calda della crisi. Ma lascia intatti i problemi strutturali dello Stato ebraico che tale crisi hanno concorso a generare. Questi problemi escono forse acuiti, certamente evidenziati dall’ennesima, clamorosa spaccatura di politica e società israeliane. Ciò minaccia di cristallizzare lo «stato di profondo dolore e ansia» che attanaglia crescenti settori delle Idf, concorrendo all’immagine di debolezza del paese e ai rischi per la sua sicurezza da molti paventati.
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15. B. CASPIT, «Biden losing patience with Netanyahu over judicial overhaul, democratic values», Al Monitor, 21/3/2023. 16. «Netanyahu, Biden exchange frosty words over Israel legal overhaul», Arab News, 29/3/2023.
ISRAELE CONTRO ISRAELE
C’è chi dice no La renitenza spiegata da un refusenik Conversazione con Niron MIZRAHI, riservista delle Forze di difesa israeliane (Idf) a cura di Anna Maria COSSIGA LIMES Lei è un refusenik? MIZRAHI Sì. LIMES Cos’è un refusenik? MIZRAHI È un soldato o un
riservista, comunque un militare, che rifiuta di prestare servizio per motivi etici. Io ho fatto il militare per tre anni, dopo la scuola. Adesso sono riservista, ma mi rifiuto di prendere parte a qualunque guerra o azione violenta e di intervenire in Cisgiordania. LIMES Perché? MIZRAHI Soprattutto per via della riforma giudiziaria varata dalla Knesset su impulso del governo di destra guidato da Binyamin Netanyahu. Questa riforma può avere effetti negativi sui diritti di molti individui, come le persone Lgbtq e i palestinesi. I fascisti che sono al governo vogliono controllarci. Quando protesto lo faccio contro la riforma, ma anche contro i criminali – scriva così: criminali – che ci governano. LIMES Diverse voci avvertono che la riforma ora «congelata» abbia messo – e possa mettere, se riproposta – in forse la sicurezza di Israele. È d’accordo? MIZRAHI Sì, la riforma è una minaccia per Israele. Non solo sotto il profilo dei diritti civili e democratici, ma anche della sicurezza perché moltissimi militari, soldati e riservisti hanno fatto obiezione di coscienza per protesta e la rifaranno se necessario. L’opposizione è stata massiccia e questa mobilitazione è positiva per il futuro democratico del paese, ma può minarne l’efficienza militare, dunque la capacità di contrastare le minacce regionali. LIMES C’è chi vede all’orizzonte una terza Intifada. È d’accordo? MIZRAHI L’Intifada c’è da quando Israele ha dato inizio all’occupazione. Se non fermiamo l’occupazione, il problema con i palestinesi peggiorerà e ci saranno più attacchi terroristici. Che sia a Tel Aviv, a Gerusalemme o in Cisgiordania, è indifferente. Non sono violento, non credo che la violenza sia positiva. I palestinesi non dovrebbero fare attentati, non è una soluzione. Ma se si controlla la gente con l’esercito, se si entra nelle case dove vive, è un problema. Noi israeliani stiamo alimentando l’odio reciproco. La recente politica verso – anzi: contro – i palestinesi è un disastro. Non risolve niente. Per noi, loro sono i terroristi; per loro, i terroristi siamo noi. Non ci parliamo, non comunichiamo, siamo su due fronti opposti. Noi israeliani celebriamo il giorno dell’Indipendenza, che per loro è il giorno della Catastrofe (Nakba, n.d.r.). Adesso il governo li attacca di più, ma li abbiamo semCopia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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L’ESERCITO DI POPOLO NON CREDE PIÙ NEL POPOLO
pre attaccati. Quando fai il servizio militare sei giovane, credi a quello che ti dicono. Non sai cosa pensare. Sei un ragazzino e fai quello che ti dicono sia giusto per Israele. Ti arruolano a 18 anni, ti dicono: «Sii uomo, se non combatti non va bene». Ti dicono che siamo un solo popolo e che perciò dobbiamo difenderlo integralmente, compresi i coloni ultraortodossi per la cui sicurezza mettiamo in gioco la nostra vita (e quella dei palestinesi), anche se sono esenti dal servizio militare. Solo dopo, crescendo e maturando, capisci cose che prima non capivi. LIMES Cosa pensa dell’esenzione dalla leva di ultraortodossi e arabi israeliani? MIZRAHI Far parte dell’esercito non è per tutti. Ma se dai a qualcuno l’opportunità di non fare il soldato, la dovresti dare a tutti. Che ultraortodossi e arabi non facciano il servizio militare è ingiusto. Se si parla di un esercito nazionale, allora dovrebbero parteciparvi tutti. LIMES Si considera più ebreo o israeliano? O entrambi in pari misura? MIZRAHI Mi considero anzitutto un essere umano. Che sia nato ebreo e in Israele è un caso, per me non ha importanza. Voglio bene a tutti quelli che si comportano bene con me e credo che questo sia il modo in cui ci si debba comportare. Il fatto è che noi ebrei ci consideriamo i migliori, i prescelti. Per questo ci troviamo in questa situazione.
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ISRAELE CONTRO ISRAELE
TANTE SCUOLE PER TANTE TRIBÙ
di
Giuseppe DE RUVO
Il sistema scolastico israeliano spacca il paese. Il crollo degli istituti pubblici e l’ascesa di quelli religiosi e ultraortodossi. La pedagogia a senso unico mina il dialogo tra giovani ebrei e arabi israeliani e attesta che allo Stato ebraico manca una chiara identità nazionale.
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1. ENSATO IN NOME DEL «MULTIculturalismo», il sistema educativo in vigore nello Stato d’Israele cerca di riflettere la diversità culturale, religiosa ed etnica che caratterizza il paese. Tuttavia, nell’impossibile tentativo di offrire a (quasi) tutti un’educazione personalizzata, finisce per scavare solchi estremamente profondi tra le diverse tribù che convivono nello spazio israeliano. Il processo educativo non genera infatti un’unica e ben definita idea di nazione, né garantisce l’incontro tra ragazzi di diversa estrazione e tradizione. Al contrario, esso riproduce (e dunque rafforza) le divisioni che pervadono uno spazio di per sé bollente. A livello liceale, il sistema educativo israeliano è basato su due indirizzi: generale e tecnologico. L’indirizzo generale-umanistico prevede l’esistenza di cinque tipi di scuole: a) le scuole statali (mamlachti), frequentate dalla maggioranza relativa degli studenti (39%); 2) le scuole religiose statali (mamlachti dati), i cui iscritti sono in crescita (14%); 3) le scuole bibliche (chinuch atzmai, letteralmente istruzione indipendente), frequentate dai giovani haredim (22%); 4) le scuole arabe e 5) le scuole druse, che insieme formano il 25% degli studenti. L’indirizzo tecnologico prevede invece solo quattro tipi di scuole (statali, religiose statali, arabe e druse), dal momento che le scuole bibliche non offrono questo percorso di studi. Il sistema scolastico è dunque estremamente frastagliato, anche perché i singoli istituti godono di una certa libertà nell’organizzazione dei programmi, che tendono a riflettere le convinzioni religiose e gli interessi delle comunità locali. Insomma, nello Stato d’Israele non vi è alcuna traccia di pedagogia nazionale. La natura «tribale» 1 del sistema scolastico genera infatti diffidenza e incomunicabilità non solo tra ebrei e arabi, ma anche tra i giovani delle varie tribù ebraiche. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
1. R. RIVLIN, «Le quattro tribù d’Israele», Limes, «Israele e il Libro», n. 10/2015, pp. 161-166.
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TANTE SCUOLE PER TANTE TRIBÙ
Tabella 1 - OFFERTA DIDATTICA NELLE SCUOLE STATALI A INDIRIZZO GENERALE (SCUOLA SUPERIORE)
Tabella 2 - OFFERTA DIDATTICA NELLE SCUOLE STATALI A INDIRIZZO TECNOLOGICO (SCUOLA SUPERIORE)
OFFERTA DIDATTICA ORE SETTIMANALI Materie tradizionali 8 Bibbia 2 1 Tradizione orale Lingua e letteratura ebraica 3 Storia d’Israele 2 Materie secolari e scientifiche 18 Educazione civica 1 Letteratura generale 1 1 Storia generale Scienze sociali 1 Lingua straniera 4 Matematica 3 Fisica 1 1 Biologia 1 Chimica Geografia 1 Educazione fisica 2 Problemi 1 Materie complementari a scelta 8 (indicate dai singoli istituti)
OFFERTA DIDATTICA ORE SETTIMANALI Materie tradizionali 6 Bibbia 2 0 Tradizione orale Lingua e letteratura ebraica 3 Storia d’Israele 1 Materie secolari e scientifiche 19 Educazione civica 1 Storia generale 1 2 Fisica Chimica 2 Biologia 2 Matematica 4 Lingua straniera 4 2 Educazione fisica 1 Problemi Fino a 18 ore, Specializzazione tecnica in base all’indirizzo Fonte: Ministero dell’Istruzione e della Cultura
Fonte: Ministero dell’Istruzione e della Cultura
2. Le principali differenze tra le tre tipologie di scuole frequentate dai ragazzi ebrei (statali, religiose statali e bibliche) riguardano le materie «tradizionali». Le scuole statali a indirizzo generale dedicano otto ore settimanali a queste materie (due alla Bibbia, una alla Tradizione orale, tre alla Lingua e alla letteratura ebraica e due alla Storia d’Israele), mentre le scuole statali a indirizzo tecnologico offrono tre ore di Lingua e letteratura ebraica, due di Bibbia e una di Storia d’Israele, per un totale di sei ore settimanali dedicate alle materie tradizionali (tabelle 1 e 2). Nelle scuole religiose statali, invece, le materie tradizionali occupano gli studenti per tredici ore settimanali, così suddivise: tre ore di Bibbia, cinque di Tradizione orale, tre di Lingua e letteratura ebraica e due di Storia d’Israele (tabella 3). Per quanto riguarda le scuole bibliche, il monte orario delle materie tradizionali è di poco superiore rispetto a quello delle scuole religiose statali, con un’ora in più di Tradizione orale. Gli alunni di questi istituti, inoltre, non sono tenuti a seguire le lezioni delle materie scientifiche e secolari, dunque la loro istruzione è di fatto limitata allo studio della Torah (tabella 4). Se questi sono i numeri, bisogna tuttavia tenere presente che le vere differenze risiedono nell’approccio didattico. In tutte e tre le scuole, infatti, «Bibbia» è la materia più importante, ma il senso che viene dato a questo insegnamento è completamente diverso a seconda della tribù d’appartenenza. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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ISRAELE CONTRO ISRAELE
Tabella 3 - OFFERTA DIDATTICA NELLE SCUOLE RELIGIOSE STATALI
Tabella 4 - OFFERTA DIDATTICA NELLE SCUOLE BIBLICHE (HAREDIM)
OFFERTA DIDATTICA ORE SETTIMANALI Materie tradizionali 13 Bibbia 3 Tradizione orale 5 Lingua e letteratura ebraica 3 Storia d’Israele 2 Materie secolari e scientifiche 18 Educazione civica 1 Letteratura generale 1 1 Storia generale Scienze sociali 1 Lingua straniera 4 Matematica 3 Fisica 1 Biologia 1 1 Chimica Geografia 1 Educazione fisica 2 Problemi 1 Materie complementari a scelta 6 (indicate dai singoli istituti)
OFFERTA DIDATTICA ORE SETTIMANALI Materie tradizionali 14 Bibbia 3 6 Tradizione orale Lingua e letteratura ebraica 3 Storia d’Israele 2 Materie secolari e scientifiche 18 (facoltative, raramente frequentate dagli studenti) 1 Educazione civica 1 Letteratura generale 1 Storia generale 1 Scienze sociali 4 Lingua straniera 3 Matematica 1 Fisica 1 Biologia 1 Chimica 1 Geografia 2 Educazione fisica 1 Problemi
Fonte: Ministero dell’Istruzione e della Cultura
Fonte: Ministero dell’Istruzione e della Cultura
Nelle scuole statali, lo studio della Torah non ha carattere dottrinale. Viene svolto attraverso uno strumentario critico-scientifico e filologico. Per quanto sia considerata alla base della storia e della cultura ebraica, la Bibbia viene letta a partire dall’idea, sviluppata nelle ore di Educazione civica, di Israele «Stato ebraico e democratico». In queste scuole, dunque, l’approccio al Libro è prevalentemente laico e accademico: «Il cammino che deve portare alla Bibbia parte da valori laici» 2. Nelle scuole religiose statali, l’insegnamento della Torah ha invece tutt’altro senso. Frequentati soprattutto da figli di religiosi molto osservanti e vicini al movimento sionista, questi istituti centrano l’insegnamento sulla lettura diretta della Bibbia, senza mediazione critica e con l’intervento esclusivo di commentatori medioevali. Da un punto di vista storico-geopolitico, in queste scuole i professori sono spinti (anche dai genitori) a mettere al centro del programma «il concetto di redenzione dall’esilio e il diritto storico dello Stato d’Israele su tutte le terre tra il Mediterraneo e il fiume Giordano» 3. Se, dunque, nelle scuole statali si parte dai valori civili per arrivare alla Bibbia, nelle scuole religiose statali avviene il contrario: si ricerca nella lettura (non filtrata) del Libro la legittimità storica delle rivendicazioni israeliane. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
2. S. EVRON, «Patria, democrazia e Bibbia: l’Abc dello studente israeliano», Limes, «Israele e il Libro», n. 10/2015, p. 198. 3. L. WOLFF, «Education in Israel: Divided Schools, Divided Society», MomentMag, 12/5/2017.
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TANTE SCUOLE PER TANTE TRIBÙ
Infine, vi è il caso delle scuole bibliche, frequentate esclusivamente da ebrei ultraortodossi (haredim). Il programma, per quanto riguarda le materie tradizionali, non è così diverso dalle scuole religiose statali, ma l’approccio è completamente differente. Infatti, secondo i haredim l’uso della religione ebraica a fini (geo) politici costituisce una forma di laicizzazione intollerabile: lo Stato – almeno a parole 4 – è considerato un’istituzione ontologicamente laica, dunque poco degna d’attenzione. Inoltre, gli allievi delle scuole bibliche sono esentati dalla leva militare e dal frequentare le lezioni delle materie «secolari e scientifiche». Ciò genera forte risentimento nelle altre tribù, alimentato anche dal fatto che, sebbene il 55% dei finanziamenti del ministero dell’Istruzione siano destinati alle scuole haredi, oltre il 60% dei diplomati presso di esse non contribuisce attivamente al mercato del lavoro israeliano 5. Da questo quadro risulta una situazione particolarmente complessa: le tre «tribù» hanno atteggiamenti completamente diversi sia verso lo Stato sia verso la Bibbia. Le differenze curriculari e didattiche generano muri culturali e antropologici difficilmente valicabili da ragazzi poco più che adolescenti. Insomma, rimane valida la diagnosi effettuata dall’allora presidente Reuven Rivlin nel 2015, che aveva perfettamente colto come il frastagliato sistema educativo israeliano educasse i giovani a «visioni totalmente differenti dello Stato d’Israele e dei suoi valori basilari» 6. Tanto che più del 20% degli studenti delle scuole pubbliche (laiche e religiose) non ha mai avuto una conversazione con un omologo ultraortodosso. Anche i rapporti tra gli studenti delle due tribù «pubbliche» sono rarissimi, al punto che i tentativi del governo di far svolgere agli studenti compiti o laboratori congiunti si sono rapidamente arenati 7 . Per non parlare dei rapporti con gli studenti arabi, a cui volgiamo adesso lo sguardo. 3. Negli istituti arabi e drusi, il programma è pensato in modo da assicurare ai discenti un percorso formativo che li introduca alla storia e alla cultura ebraiche, garantendo però allo stesso tempo un’educazione che tenga conto della specificità della propria cultura. Nelle scuole arabe, infatti, sette ore settimanali sono dedicate agli «Studi arabi», mentre gli «Studi drusi» impegnano gli studenti appartenenti a questa comunità per otto ore settimanali. Ciò non significa che le materie «tradizionali», fulcro della pedagogia delle scuole ebraiche, non vengano insegnate. A queste materie vengono infatti dedicate cinque ore settimanali nelle scuole arabe e sei nelle scuole druse, sotto la peculiare e controversa denominazione di «Studi israeliani» (tabella 5). Usare questa formula per riferirsi alle materie che hanno a che fare esclusivamente con il pensiero e con la storia ebraici è però prassi tutt’alCopia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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4. Sull’effettivo rapporto tra haredim e Stato, cfr., B. BROWN, «Haredim vs religiosi sionisti. Eppure fede e Stato non possono divorziare», Limes, «Israele. Lo Stato degli ebrei», n. 9/2018, pp. 131-137. 5. M. VENUGOPAL, «Contemporary Challenges in Israeli Education and Why It Lags Behind Other Developed Nations», The Jerusalem Post, 16/11/2016. 6. R. RIVLIN, op. cit., p. 162. 7. L. WOLFF, op. cit.
ISRAELE CONTRO ISRAELE
tro che neutra, dato che – almeno in linea Tabella 5 - OFFERTA DIDATTICA teorica – drusi e arabi sono israeliani, sia NELLE SCUOLE ARABO-DRUSE pure sui generis. Già a partire da questa particolare SCUOLE SCUOLE OFFERTA DIDATTICA ARABE DRUSE scelta lessicale, è facile comprendere come Studi arabo/drusi e israeliani 12 14 la distanza tra studenti arabi, drusi ed ebrei Studi arabi 7 0 non dipenda semplicemente dalla diffe0 8 Studi drusi Bibbia 2 2 rente ripartizione del monte orario. A ben Tradizione orale 0 1 guardare, infatti, le cinque o sei ore dediLingua e letteratura ebraica 1 1 cate agli «Studi israeliani» nelle classi arabe Storia d’Israele 2 2 Materie secolari e scientifiche 15 16 e druse non sono così lontane dalle sei o 0 1 Letteratura generale otto ore dedicate alle materie «tradizionali» Scienze sociali 1 1 nelle scuole statali ebraiche. Il vero probleLingua straniera 4 4 ma riguarda piuttosto il modo in cui alcuMatematica 3 3 1 1 Fisica ne materie vengono insegnate, oltre al gra1 1 Biologia do di controllo che il ministero dell’Istru1 1 Chimica zione esercita sui libri di testo che vengoGeografia 1 1 Educazione fisica 2 2 no adottati in questi istituti 8. Nelle scuole Problemi 1 1 arabe, ad esempio, il tema del conflitto Materie complementari a scelta 7 6 israeliano-palestinese viene affrontato so(indicate dai singoli istituti) prattutto durante le lezioni di «Studi israeFonte: Ministero dell’Istruzione e della Cultura liani», sulla base di libri di testo approvati dal ministero, che riportano esclusivamente la narrazione ufficiale dello Stato d’Israele, senza problematizzarla. Durante le lezioni di «Studi arabi», invece, il tema viene affrontato solo tangenzialmente, in maniera molto asettica e comunque senza mai offrire la prospettiva arabo-palestinese. Nel 2009, fu addirittura fatto ritirare dal commercio un libro di testo nel quale si faceva riferimento al fatto che i palestinesi considerassero la nascita dello Stato d’Israele una «catastrofe nazionale» (Nakba). Un tale approccio didattico, che mira all’assimilazione, potrebbe funzionare a conflitto finito o in assenza di altri mezzi d’informazione, ma non è evidentemente questo il caso: i giovani arabi, infatti, si documentano attraverso la Rete e i racconti dei genitori, covando dunque un fortissimo risentimento verso le autorità israeliane, ritenute colpevoli di occultare la «vera» storia del conflitto. Se nelle scuole arabe il tema del conflitto è trattato in maniera asettica, diversamente vanno le cose nei libri di storia adottati nelle scuole ebraiche (in particolare negli istituti statali religiosi). In questi testi, gli arabi vengono connotati antropologicamente e rappresentati in maniera stereotipata 9. Al punto che il 30% degli studenti ebrei afferma di essere «terrorizzato dagli arabi», mentre il 45% non si Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
8. M. BIELING, «Divide and rule: How the school system sows division among Israel’s Palestinians», Middle East Eye, 28/19/2016. 9. Y. MATTHIAS, «The thorny way to recognition. Palestinians and Arabs in the Israeli Curriculum», in F. PINGEL (a cura di), Contested past, Disputed present. Curricula and teaching in Israeli and Palestinian schools», Hannover 2003, Verlag Hahnsche Buchandlung, pp. 29-57.
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TANTE SCUOLE PER TANTE TRIBÙ
considera pronto «a essere seduto in una classe insieme a studenti arabi» 10. Insomma, il sistema scolastico dello Stato d’Israele non riesce in alcun modo ad avvicinare arabi ed ebrei. Anzi, genera rancori e diffidenze reciproche sin dall’adolescenza. 4. Di norma, le istituzioni scolastiche dovrebbero porsi l’obiettivo di rendere la popolazione quanto più omogenea possibile, promuovendo valori comuni e generando un univoco senso di appartenenza allo Stato. Nel sistema scolastico israeliano, ciò non avviene. E forse non può avvenire. La sostanziale differenza che intercorre tra le tre scuole ebraiche (statali, statali religiose e bibliche) è infatti sintomo della difficoltà dello Stato d’Israele di dotarsi di una ben definita identità nazionale. Senza una chiara idea di sé, è inoltre estremamente complesso portare avanti il processo di assimilazione nei confronti delle minoranze, specie se caratterizzate da una storicamente giustificata diffidenza verso il ceppo dominante. Insomma, la complessa articolazione del sistema scolastico manifesta un limite strutturale dello Stato d’Israele, ovvero l’assenza di un’identità nazionale chiara e univoca. La pluralità di pedagogie (non) nazionali, diffuse a compartimenti stagni, segnala come manchi nello Stato d’Israele un fondamento comunitario in grado di tenere davvero insieme la popolazione, che continua a essere organizzata – anche in ambito scolastico – «tribù per tribù» 11. Paradossalmente, in uno spazio in cui storia e identità contano almeno quanto le armi 12, la mancanza (l’impossibilità?) di una pedagogia nazionale svela la vera natura di Israele: Stato senza nazione.
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10. L. WOLFF, op. cit. 11. R. RIVLIN, op. cit. 12. «Una giungla nella villa?», editoriale di Limes, «Israele e il Libro», n. 10/2015, p. 8.
ISRAELE CONTRO ISRAELE
La riforma spiegata ai profani Conversazione con Barak MEDINA, docente di Diritto costituzionale alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università Ebraica di Gerusalemme a cura di Cesare PAVONCELLO
LIMES A cosa punta la riforma MEDINA I membri dell’attuale
giudiziaria promossa dall’esecutivo? coalizione di governo vogliono approvare leggi e disposizioni i cui contenuti sono giuridicamente problematici. Anche le procedure e la tempistica adottate non hanno precedenti nella storia della Knesset. Sono leggi che toccano moltissimi campi a cominciare dai diritti delle minoranze, in particolare di quella araba. Si tratta di misure che la destra vorrebbe adottare e a cui la Corte suprema si oppone, sancendone l’illegalità e/o l’incostituzionalità. Non fatico a capire la frustrazione della destra. Sentiamo spesso la frase: «Abbiamo vinto le elezioni ed è assurdo che ci si vieti di realizzare la nostra agenda politica, sottoscritta dalla maggioranza dell’elettorato». È questa l’impasse che il governo vuole superare, dotandosi degli strumenti che gli permettano di prevalere sul sistema giudiziario. LIMES In che modo? MEDINA Sono due i cambiamenti principali che il governo intende introdurre. Il primo riguarda la definizione dei limiti d’azione della Corte suprema e del sistema giudiziario in generale. Vuole modificare la maggioranza necessaria ad annullare una norma, permettere alla Knesset di modificare una legge di rango costituzionale nel modo che ritenga consono (rendendola inattaccabile dalla Corte suprema), trasformare il potere del consulente giuridico del governo da decisionale a meramente consultivo. Il secondo cambiamento consiste nel conferire alla maggioranza parlamentare il diritto di nominare i giudici della Corte suprema, onde orientare la scelta su figure politicamente affini all’esecutivo. Nel complesso, la riforma punta dunque a rimuovere i limiti che il sistema giudiziario impone al governo, virando l’impianto istituzionale e costituzionale del paese in senso ipermaggioritario. LIMES Accennava prima anche a problemi di procedura e tempistica. Quali sono? MEDINA Questa riforma presenta almeno tre grandi ordini di problemi. Il primo riguarda la definizione della maggioranza necessaria ad approvare o cambiare leggi Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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LA RIFORMA SPIEGATA AI PROFANI
fondamentali, cioè di rango costituzionale. L’idea che una coalizione, da sola, possa modificare tali leggi è molto problematica, indipendentemente dal fatto che la riforma sia buona o meno. Forse i suoi promotori hanno ragione a ritenere necessari dei cambiamenti, che però non possono essere approvati solo con i voti della coalizione di maggioranza, perché si tratta delle regole del gioco democratico e modificarle in tal modo è contrario alla logica del nostro impianto costituzionale. Il secondo ordine di problemi riguarda i contenuti. Il problema non è tanto ridurre un po’ l’influenza della magistratura sulle leggi e ampliare un po’ la libertà d’azione del governo. Quanto spostare totalmente gli equilibri dalla parte dell’esecutivo e della maggioranza alla Knesset. Quest’ultima, in base alla riforma, controllerebbe la commissione che sceglie tutti i giudici, compreso il presidente della Corte suprema. La Corte non potrebbe entrare nel merito di alcune leggi e anche quando le venisse riconosciuta tale facoltà la Knesset avrebbe sempre l’ultima parola. Se questo configuri una dittatura, lascio a voi decidere. Io comunque dico che è pericoloso. Il terzo ordine di problemi concerne la motivazione. La maggioranza di governo – e forse, purtroppo, della popolazione – non intende accettare i princìpi del liberalismo, l’uguaglianza fra ebrei e arabi, la centralità democratica nella definizione di Israele come Stato ebraico e democratico, gli assiomi di uno Stato di diritto. La maggioranza non fa segreto delle sue intenzioni. In campagna elettorale e durante le trattative per la formazione del governo, i suoi leader sono stati molto chiari: vogliamo poter agire come riteniamo giusto, anche nell’ambito dei diritti umani e civili. Ma è lecito permettere a un organismo politico, governo o Knesset, di approvare in nome della maggioranza una legge che dia il diritto di violare diritti umani? Di riflesso: è giusto lasciare alla Corte suprema la possibilità di stabilire se una legge è democratica o meno, e di bocciarla? Io penso di sì. Penso che a un governo regolarmente eletto debba essere assicurata la libertà di legiferare, ma che poi le scelte del legislatore debbano confrontarsi con i limiti giuridici stabiliti dalle leggi fondamentali e che questa prerogativa spetti alla Corte. LIMES Come influisce su quanto sta avvenendo la mancanza, in Israele, di una costituzione? MEDINA La situazione di Israele è unica. Ci sono Stati che per scelta non hanno una costituzione, mentre Israele alla sua fondazione intendeva promulgarne una, ma non ci è riuscito. Questa era anche una condizione posta dal piano di spartizione del 1947, dove si prevedeva che i due futuri Stati (ebraico e arabo) adottassero costituzioni a difesa dei diritti umani e dello Stato di diritto. Fu eletta un’Assemblea costituente che nel 1949 iniziò i suoi lavori, ma non giunse a un accordo. Sui motivi dell’insuccesso ci sono varie versioni. Alcuni sostengono che il governo, in quel delicato frangente, preferisse avere meno vincoli possibili; altri che non vi fosse accordo sui contenuti. In ogni caso fu deciso di approntare la costituzione capitolo per capitolo, in modo ponderato e graduale. Ogni capitolo, una volta redatto e approvato, sarebbe diventato una legge fondamentale e a lavoro concluso tali leggi sarebbero state riunite a formare la costituzione dello Stato d’Israele. Questo Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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ISRAELE CONTRO ISRAELE
programma resta formalmente in vigore. Da allora sono state promulgate 14 leggi fondamentali che coprono quasi tutti gli aspetti della vita di uno Stato. All’inizio del percorso si è però mancato di definire due aspetti. Primo: qual è la maggioranza necessaria affinché una legge fondamentale sia approvata? Secondo: quale lo status di queste leggi fino al momento di integrare la costituzione? Negli anni si è consolidata una prassi: una legge fondamentale va approvata dalla Knesset con un consenso ampio, cioè con il concorso dell’opposizione, onde impedire che un governo possa cambiare le regole del gioco a proprio vantaggio. La prassi è sempre stata rispettata in modo consensuale da tutte le legislature e da tutti i governi, perfino nel 1992 quando fu promulgata la legge fondamentale sul rispetto dell’uomo e della sua libertà. Quella legge venne approvata da una maggioranza parlamentare non molto ampia, ma era frutto di un lavoro triennale con dibattiti e compromessi accettati da quasi tutti partiti. La Corte suprema ha stabilito che a queste leggi sia riconosciuto rango costituzionale e così si è creata una situazione singolare: Israele non ha una costituzione, ma le leggi che dovrebbero esserne i capitoli hanno rango costituzionale. Si tratta però di una prassi. Il quesito divenuto sempre più centrale negli ultimi anni riguarda il ruolo della Knesset nell’approvare leggi espressamente concepite come fondamentali. La norma dell’ampio consenso è stata più volte infranta e sono stati approvati emendamenti che sollevano dubbi sulla volontà di cambiare le regole consensualmente. È in questo quadro che s’inscrive la crisi attuale. È ormai chiara l’urgenza di una nuova legge fondamentale che fissi in modo chiaro caratteristiche e procedure per la legislazione fondamentale, ma l’attuale governo vorrebbe che a tal fine bastasse la maggioranza parlamentare. Un principio difficilmente accettabile. LIMES All’atto pratico, in che modo la riforma influenzerebbe la realtà quotidiana? MEDINA Gli esempi sono molti: dalla partecipazione dei partiti arabi alle elezioni a misure antiterrorismo come la demolizione completa o parziale della casa dei terroristi. Misura controversa perché configura una forma di punizione collettiva. Ma i potenziali bersagli della riforma non sono solo gli arabi. Si pensi alla possibile imposizione dell’osservanza religiosa nei luoghi pubblici: il divieto di cibi non consoni alla normativa alimentare ebraica di sabato, la separazione fra uomini e donne. A essere colpita sarebbe senz’altro la popolazione palestinese che vive nei Territori: questo governo ha dichiarato di voler ampliare molti insediamenti ebraici, legalizzarne altri e costruirne di nuovi. Molte di queste operazioni si scontrano con il fatto che i terreni in questione sono proprietà di palestinesi; la Corte suprema ha già bocciato una legge che avrebbe dato al governo la facoltà di espropriarli. Altro potenziale obiettivo potrebbe essere la libertà di espressione in campo politico e accademico: diversi esponenti dell’attuale maggioranza non nascondono la loro ostilità verso stampa e università, colpevoli di essere smaccatamente parziali e di esprimere quasi solo posizioni liberali. Giornali e atenei non allineati al governo potrebbero vedersi ridurre i contributi statali. Un altro esempio è la discriminazione verso le donne, in linea con gli interessi degli ultrareligiosi. Oppure l’annullamento dell’obbligo di leva per gli studenti di scuole talmudiche. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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Tra i più colpiti, almeno all’inizio, vi sarebbe comunque la minoranza araba. Già ora, prima di ogni voto qualsiasi partito può chiedere alla Commissione elettorale di escludere una o più liste. Si è creato una sorta di rituale: la Commissione generalmente accetta la richiesta, per lo più rivolta contro liste arabe, mentre la Corte suprema (interpellata sulla questione) annulla tale decisione in quanto incostituzionale. I promotori della riforma sostengono che occorra correggere questa situazione, perché il governo che rappresenta la maggioranza della popolazione israeliana non accetta che partiti antisionisti, in alcuni casi perfino contrari all’esistenza dello Stato d’Israele, partecipino alla vita politica. Ma la Corte suprema non è lì per difendere la maggioranza o le decisioni di un dato governo. È lì per difendere legalità e democrazia. LIMES Il governo ha accettato di fermare temporaneamente la riforma: quattro mesi per trovare un compromesso. Qualora l’iter dovesse riavviarsi e andare in porto, dove porterebbe Israele? MEDINA Il sistema giudiziario israeliano è ancora funzionante, indipendente e fedele all’interesse pubblico. Un interesse difeso anche dalla protesta e dall’incredibile mobilitazione popolare. Ma se anche la riforma fosse infine approvata nella versione originaria, sarebbe oggetto di ricorso alla Corte suprema che l’invaliderebbe per incostituzionalità. Il governo non potrebbe ignorare questa sentenza. Per questo si cercherà un compromesso sulla base delle proposte sin qui avanzate, a cominciare da quella del presidente Yitzhak Herzog. C’è da sperare che ne esca una riforma più moderata, in cui vengano trovati nuovi e accettabili equilibri fra i poteri. Meglio non pensare a cosa accadrebbe se il dialogo fallisse, la riforma fosse approvata tal quale e la Corte suprema, per un motivo o per l’altro, decidesse di non intromettersi. In questo caso Israele non sarebbe più quello di prima. Un governo senza freni potrebbe promulgare qualsiasi legge, in qualunque campo. Assisteremmo probabilmente all’emigrazione dei cittadini più agiati: università, esercito e industria ne uscirebbero compromessi, con enorme danno al paese. LIMES È stato sorpreso dalle dimensioni e dalla protesta? MEDINA Come oppositore della riforma penso che abbiamo avuto una grande fortuna. Il governo non si è comportato in modo intelligente: se avesse proceduto a piccoli passi probabilmente non avrebbe innescato una simile mobilitazione, trainata da un’élite relativamente esigua ma che alla fine si è estesa a molteplici settori. Difficile dire se la temporanea marcia indietro sia stata dettata della pressione della piazza o dall’entrata in scena dei sindacati, che dopo lunghe esitazioni hanno proclamato lo sciopero generale. Resta che il governo, almeno per ora, ha ceduto. Ciò detto, non avrei immaginato una mobilitazione così ampia, trasversale e risoluta, che ha coinvolto finanche persone di destra e coloni. Il 5% circa della popolazione è scesa ininterrottamente in piazza per tre mesi. «Stato profondo» è espressione spesso connotata in modo negativo, ma questa volta ha assunto un’accezione positiva: le élite economiche, militari, burocratiche e culturali sono uscite allo scoperto, si sono esposte per mettere in discussione la volontà di governo e maggioranza parlamentare. Lo hanno, lo abbiamo fatto a difesa di un equilibrio che deve riflettere il bene di tutto il popolo. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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LA VERA POSTA IN GIOCO DELLA RIFORMA GIUDIZIARIA di Cesare PAVONCELLO Le leggi proposte dalla nuova coalizione di governo rischiano di approfondire la crisi interna israeliana. Il peso della Corte suprema e i fragili equilibri di uno Stato senza costituzione. L’errore di calcolo di Netanyahu. Cosa chiedono i manifestanti.
I
1. L PRONTO SOCCORSO MENTALE ANONIMO (Eran) è un’organizzazione volontaria attiva in Israele da oltre cinquant’anni. Svolge un’attività di tutto rispetto: circa 300 mila persone chiamano ogni anno il suo numero verde per ricevere sostegno. Di recente un dipendente ha rivelato che, sullo sfondo dell’attuale crisi nella società israeliana, l’Eran ha registrato un incremento del 25% circa nelle chiamate di chi prova un pesante e preoccupante senso di ansia e incertezza per il futuro. Questo dato aiuta a comprendere la profondità di una crisi che, come mai era accaduto in passato, pervade e coinvolge buona parte della popolazione. I termini principali della contesa sono noti. A novembre, dopo la quinta tornata elettorale in quattro anni e mezzo, in Israele si è formato un governo di coalizione composto dal partito di centro-destra Likud, dal blocco ultraortodosso sia sefardita (Shas) sia ashkenazita e dall’unione dei gruppi della destra oltranzista con a capo Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir. Questi ultimi sono leader radicali e militanti su temi come l’ordine pubblico, il conflitto con i palestinesi e l’espansione degli insediamenti nei Territori occupati. Sull’altro versante si trovano invece i partiti eterogenei, che per circa un anno erano riusciti a comporre un governo fragile e funambolico. Tale intesa aveva legato assieme formazioni di centro e centro-destra, la sinistra classica ormai ridotta all’osso e, per la prima volta dalla fondazione di Israele, un partito arabo: Ra’am. Tuttavia, l’ultimo confronto elettorale ha premiato il Likud guidato da Netanyahu insieme ai partiti ultraortodossi e di estrema destra. La composizione della nuova coalizione di governo ha richiesto oltre un mese e mezzo. È stato un percorso costellato di ostacoli, crisi e soprattutto promesse, in cui le forze ultraortodosse e quelle della destra oltranzista si sono garantite incarichi sproporzionati rispetto al loro peso elettorale. Il nuovo governo, fin dal primo giorno di lavoro lo scorso Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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LA VERA POSTA IN GIOCO DELLA RIFORMA GIUDIZIARIA
dicembre, ha tentato di tradurre gli impegni assunti in leggi concrete. Il primo obiettivo è stato il sistema giudiziario, accusato da diversi anni di rispecchiare l’agenda politica della sinistra. È quindi partita una corsa per approvare numerose leggi prima della fine della sessione invernale della Knesset (2 aprile). Troviamo anzitutto i promotori della riforma giudiziaria, considerata doverosa sulla base del peso eccessivo assunto dalla Corte suprema negli ultimi decenni, a danno degli organi legislativo ed esecutivo. Ma ci sono anche gli oppositori, i quali ritengono l’iniziativa una vera e propria «rivoluzione legale». Ovvero uno stravolgimento istituzionale capace di allontanare Israele dalle democrazie e avvicinarlo alla zona grigia dei regimi democratici solo di facciata, con governi che operano (anche emanando leggi) per diminuire o annullare gli equilibri fra i poteri dello Stato, assicurandosene il pieno controllo. Agli occhi di chi sostiene la riforma giudiziaria il popolo ha dato il suo verdetto il giorno delle elezioni, il governo è legittimo e ha ricevuto un mandato per realizzare questi cambiamenti. Gli oppositori non lo negano. Ritengono necessario varare delle leggi per regolare le influenze del sistema giudiziario sull’azione legislativa della Knesset e sull’operato del governo. Dalla loro prospettiva, tuttavia, le procedure e la sostanza delle modifiche proposte sono talmente radicali da richiedere una discussione approfondita, un consenso esteso, l’approvazione di un’ampia base della popolazione. Prima di stabilire l’entità e l’impatto delle leggi proposte occorre ricordare quella che è forse la causa principale di quanto sta avvenendo nelle ultime settimane. Israele non ha una costituzione. Dalla fondazione dello Stato fino a oggi sono state scritte e approvate varie leggi fondamentali, concepite come paragrafi di una futura costituzione 1. Fino a poco tempo fa era opinione comune che l’ultimo ostacolo rimasto fosse la stesura di un capitolo su «chi è ebreo» – tema delicato che tocca aspetti come la separazione tra religione e Stato e il diritto automatico di vivere in Israele per qualsiasi ebreo in forza della legge del ritorno. Oggi viene sempre più insistentemente ricordata la necessità di definire giuridicamente innanzitutto quali debbano essere i requisiti di una vera legge fondamentale. Nella tabella 1 si vedano quindi i temi centrali toccati dalle principali proposte di legge che compongono la «riforma» promossa dal governo con un senso di urgenza senza precedenti. Non è tutto. Nel frattempo sono in fase di preparazione diverse modifiche riguardanti gli organi governativi e alcune nomine a importanti istituzioni nazionali. Sollevano quantomeno dei dubbi i tentativi di aumentare l’influenza del ministero della Giustizia sulla polizia, forza tradizionalmente autonoma. Di nominare una persona di fiducia (peraltro assolutamente priva dei requisiti necessari) a capo Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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1. Le leggi fondamentali, in ordine cronologico, sono: Knesset (1958), I terreni di Israele (1960), Il presidente delle Stato (1964), Il governo (1968), L’economia dello Stato (1965), L’esercito (1976), Gerusalemme capitale di Israele (1980), Il giudizio (1984), Il controllore di Stato (1988), Libertà di occupazione (1992), Rispetto dell’uomo e della sua libertà (19992), Referendum (2014), Israele: Stato nazionale del popolo ebraico (2018).
ISRAELE CONTRO ISRAELE
Tabella 1 - LA RIFORMA GIUDIZIARIA CHI È CONTRO SOSTIENE CHE:
Autorità e indipendenza del sistema giudiziario sono alla base della separazione dei poteri (quindi della democrazia) e del principio di freni e contrappesi
Così verrebbe lesa la separazione dei poteri poiché il governo avrebbe di fatto un potere totale sulla composizione della Corte suprema
Significherebbe una riduzione significativa dell’influenza della Corte suprema perché, di fatto, in Israele il governo e la Knesset non sono poteri separati
Un consulente legale di fiducia potrebbe per servilismo fuorviare ministri e governo sull’illegalità di un provvedimento. Verrebbe inoltre a cadere un meccanismo di controllo Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
Nella scelta potrebbero rientrare considerazioni esterne. I candidati potrebbero essere indotti a favoritismi (prima e dopo la loro elezione)
CHI È A FAVORE SOSTIENE CHE:
RISULTATO
TEMA DELLA LEGGE
Una volta approvata dalla Knesset con una maggioranza di 61 voti (su 120), una legge fondamentale non potrà essere annullata dalla Corte suprema
Annullamento di una legge fondamentale
Nel caso in cui la Corte suprema riterrà una legge anticostituzionale, la Knesset potrà reclamare la propria prevalenza sulla Corte con una maggioranza di 61 parlamentari
Clausola di prevalenza
La Corte suprema potrà annullare una legge con maggioranza di 12 giudici su 15. Ma anche in questo caso la Knesset potrà esercitare la propria prevalenza sulla Corte suprema
Annullamento di leggi normali (non fondamentali)
La composizione della commissione preposta vedrebbe una maggioranza automatica dei rappresentanti del governo
Elezioni dei giudici della Corte suprema
La Corte suprema non potrà più annullare una legge appellandosi alla sua «estrema irragionevolezza» (per es. se è contraria alle disposizioni di una legge fondamentale)
Annullamento del principio della ragionevolezza
La Corte suprema non potrà esprimersi sulla legalità della nomina di ministri anche nel caso in cui questi abbiano trasgredito la legge in passato
Legalità della nomina di ministri
Un primo ministro potrà essere deposto solo se incapace di governare per ragioni fisiche o mentali. In qualsiasi altra situazione l’incapacità potrà essere determinata esclusivamente da una maggioranza di tre quarti della Knesset (90 su 120). Anche in questo caso la Corte suprema non avrà voce in capitolo
Incapacità del primo ministro
I consulenti legali devono aiutare i ministri a mettere in atto i loro programmi politici, mentre oggi si limitano a indicare ciò che non può essere fatto
Oggi i politici sono tenuti a rispettare le indicazioni dei consulenti in tema di illegalità o inappropriatezza delle proposte di legge o delle disposizioni. Con questa legge le indicazioni dei consulenti saranno da ritenersi semplici raccomandazioni non vincolanti
Legge sui consulenti legali (di qualsiasi ministero ed ente pubblico
Non necessariamente il più anziano è il più adatto
Oggi viene eletto in base al criterio dell’anzianità. La nuova legge abbatte ogni barriera di anzianità o esperienza precedente. Potrà essere nominato anche un avvocato esterno alla cerchia dei giudici
Scelta del presidente della Corte suprema
Il governo è stato eletto per governare e il sistema giudiziario non può arrogarsi l’autorità di impedirlo annullando leggi approvate dal Parlamento
I membri del governo vengono eletti dal popolo devono quindi poter scegliere i giudici
La capacità di giudizio e la discrezione della Corte suprema non è maggiore e preferibile a quella dei parlamentari e dei ministri
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LA VERA POSTA IN GIOCO DELLA RIFORMA GIUDIZIARIA
dell’Ufficio centrale di statistica. Di controllare la designazione del direttore generale della Biblioteca nazionale. Potremmo proseguire con questa lista, menzionando per esempio il delicatissimo equilibrio tra la vita laica e l’applicazione (auspicata dalla minoranza ultraortodossa) di precetti religiosi in luoghi pubblici. Ma fermiamoci qui. 2. La società israeliana è fortemente divisa. Al di là degli schieramenti politici, troviamo una spaccatura tra ebrei ashkenaziti (con radici occidentali) e sefarditi (provenienti da Nord Africa, Yemen e altri paesi arabi). C’è poi la scissione tra laici e religiosi e quella tra popolazione ebraica e araba. Le tensioni sociali, politiche e culturali sono insomma sempre state parte della quotidianità in Israele. Sarebbe certamente lontano dalla verità sostenere che queste differenze sono sulla via di una composizione definitiva. Eppure le drammatiche disparità sociali, educative ed economiche che si potevano riscontrare fino a due generazioni fa si sono sensibilmente assottigliate. Oggi rientra nella normalità trovare sefarditi nell’accademia, nei settori dell’economia, negli organi giuridici, nella finanza o nella politica. È vero che il «primo» e il «secondo» Israele non si sono ancora uniformati del tutto. L’integrazione e la coabitazione tra arabi ed ebrei sono più dichiarate che reali. La strada da percorrere per la costruzione di una peculiare «israelianità» resta lunga. Ma la situazione attuale non è paragonabile a quella degli anni Sessanta o Settanta. L’impressione è che alcune forze politiche stiano strumentalizzando divisioni e tensioni per ampliare il sostegno alla riforma. I comprensibili rancori verso la leadership ashkenazita del Mapai (Partito dei lavoratori) – tanto meritevole per la fondazione e l’organizzazione dello Stato quanto colpevole per le discriminazioni verso le masse di migranti (soprattutto sefarditi) – vengono oggi canalizzati da numerose figure pubbliche verso sentimenti di rivalsa. Attirando così molti consensi. Certe frasi non vengono più sussurrate, ma dette ad alta voce: «Abbiamo sofferto per tanti anni le vostre scelte. Ora dovete sottostare alle nostre decisioni perché siamo diventati la maggioranza». La riforma viene presentata da alcuni politici, senza mezzi termini, come una correzione delle disuguaglianze, delle ingiustizie e degli squilibri del passato. Credo però che i promotori della riforma non si aspettassero la reazione che sta sollevando. Sia per i suoi contenuti, sia per il modo in cui è stata portata avanti. Erano senz’altro preparati ad affrontare un’opposizione all’interno delle commissioni parlamentari, nelle sedute plenarie della Knesset e nella stampa, percepita come vicina alla sinistra. Avevano preso in considerazione l’eventualità di una protesta popolare, anche sotto forma di manifestazioni. Ciò a cui stiamo assistendo in queste settimane (dodici al momento), ha superato sicuramente i confini del previsto. Inizialmente tutto era andato secondo programma. La presentazione delle proposte di legge aveva suscitato le critiche dei deputati dell’opposizione e della loro base elettorale. Poi sono arrivate le prime petizioni e dichiarazioni pubbliche di accademici, economisti ed esponenti del settore dell’alta tecnologia. Ma sono state bollate come paure di privilegiati timorosi di perdere i propri benefici. Sono Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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scese in piazza 100-150 mila persone, si ripeteva, ma cosa rappresentano rispetto ai milioni di israeliani che ci hanno votato? Con il passare delle settimane la situazione ha però preso una piega differente. Il numero dei dimostranti si è triplicato, fino a far registrare quotidianamente proteste nelle strade, di fronte alle scuole e agli atenei, nei media e sui social. Le manifestazioni sono ormai un appuntamento fisso su scala nazionale. Coinvolgono tutte le città del paese e non solo. Ogni sabato sera. Potrebbe sembrare ancora soltanto una lotta (legittima) dell’opposizione contro le scelte politiche (anch’esse legittime) di un governo legalmente eletto. Ma con sempre maggiore convinzione sono emerse anche altre voci. Meno scontate, provenienti da direzioni inaspettate. Chi cammina in questi giorni tra i manifestanti trova davanti a sé un pubblico eterogeneo e trasversale. Ashkenaziti e sefarditi. Laici, religiosi e perfino rappresentanze di ultraortodossi. Elettori del centro-sinistra, della destra moderata e alcuni sostenitori della politica degli insediamenti. Sia chiaro: questo multiforme mosaico non possiede un’idea chiara, omogenea e definita delle proposte contenute nella riforma giudiziaria. A unirli è tuttavia la convinzione che l’approvazione delle leggi che regoleranno le attività dello Stato nei prossimi decenni – assicurandone così la struttura democratica, la stabilità e l’equilibrio dei poteri – debba seguire un percorso molto più ponderato e consensuale. La protesta è gestita attraverso i social. Una miriade di gruppi WhatsApp e Facebook convoglia a getto continuo informazioni su incontri, iniziative, conferenze e attività. Gli oratori invitati a prendere parola rispecchiano la diversità delle idee e delle appartenenze culturali, etniche e politiche dei dimostranti. A ciò si sommano le figure pubbliche che hanno deciso di esplicitare la propria opposizione, dagli esponenti dell’hi-tech ai membri dell’accademia. I docenti firmatari di petizioni si contano nell’ordine delle centinaia e provengono da tutte le università e discipline. Ci sono poi personaggi che hanno ricoperto cariche molto significative per il tessuto sociale e l’organizzazione statuale del paese. Economisti con un passato da governatori o funzionari della Banca di Israele mettono in guardia dai possibili effetti negativi della riforma. Si annoverano anche ex alti ufficiali dell’esercito, alcuni dei quali sono stati persino capi di Stato maggiore, ex capi della polizia, ex giudici di vario livello. Ha fatto poi molto discutere la contestazione dei militari riservisti (attivi però in operazioni speciali, come nel caso dei piloti dell’Aeronautica) che hanno dichiarato di non essere disposti a prestare servizio in un regime dove la democrazia non è assicurata. Non meno significativi sono stati gli appelli di numerosi rabbini, punti di riferimento di un’ampia parte della popolazione religiosa. Infine, pure vecchi leader del Likud quali Benny Begin, Dan Meridor e Limor Livnat si sono espressi pubblicamente contro le leggi proposte. Il comune denominatore di questa levata di scudi è la richiesta ai politici di frenare la corsa alla riforma, affinché si possa raggiungere il più ampio consenso possibile. I sondaggi, se effettuati da istituzioni serie, possono essere utili per confermare o confutare le suddette osservazioni. Prendiamo per esempio due studi. Il primo è stato condotto dall’Istituto di ricerca Midgam (fondato da Mano Geva) in collaboCopia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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Tabella 2 - SONDAGGIO RISPOSTE
DOMANDE
No: 60% Sì: 32% Non so: 8%
Pensa che la riforma sia espressione della volontà popolare?
No: 50% Sì: 36 % Non so: 14%
(Tra degli elettori che hanno votato il Likud) Sapeva che il Likud avrebbe promosso questa riforma?
A gennaio, prima della riforma No: 39% Sì: 29% Non so: 32%
OGGI
No: 55% Sì: 33% Non so: 12%
Carovita: 45% Crisi del sociale: 19% Sicurezza: 17% Riforma giudiziaria: 8% Non so: 11%
È d’accordo con i cambiamenti proposti allo status della Corte suprema?
Di quali questioni dovrebbe occuparsi il governo?
razione con iPanel per conto di Ulpan Shishi, un popolare programma televisivo (tabella 2). Il secondo è stato elaborato dall’Israel Democracy Institute (tabella 3). Il quadro presentato tendenzialmente conferma l’impressione che una spaccatura all’interno della società israeliana esista. Tuttavia, mentre la base che alimenta i partiti di opposizione pare piuttosto compatta, quella della destra lo è molto meno. Se veramente quasi il 64% della popolazione è favorevole a un compromesso, allora al suo interno rientra una quota significativa di elettori dell’attuale governo. Lo stesso si potrebbe dire del 60% secondo cui la riforma non rispecchia la volontà del popolo. Insomma, la maggioranza degli israeliani – compresa una parte di coloro che hanno votato i partiti al governo – desidera una riforma del sistema giudiziario. Ma vuole che sia fondata su un consenso più esteso. E qui tocchiamo lo scoglio su cui la nave della democrazia israeliana potrebbe incagliarsi. Con il rischio di affondare. 3. C’è una storiella molto nota in Israele, utilizzata soprattutto in ambito politico. Emana ricordi di uno shtetl polacco, ma potrebbe essere tranquillamente ambientata in una mellah marocchina. Un pover’uomo, Chaim, vive in un piccolo monolocale con moglie e sei figli. Esasperato, si rivolge al rabbino per ricevere consiglio su come alleviare gli insopportabili fastidi della coabitazione. Il rabbino lo ascolta e poi afferma: «Metti nella stanza una delle tue capre». «Ma signor rabbino…». «Fa’ come ti dico e non discutere!». La scena si ripete identica per diversi giorni, fino ad arrivare alla sesta capra. Quando l’uomo intravede il rabbino da lontano ha ormai quasi paura di salutarlo, ma quello gli si avvicina e dice: «Chaim, ora torna a casa e fai uscire tutte le capre». I due si rincontrano il giorno dopo. E il rabbino gli Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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ISRAELE CONTRO ISRAELE
Tabella 3 - SONDAGGIO RISPOSTE
DOMANDE
Abbastanza pessimista o molto pessimista: 54,1% Abbastanza ottimista o molto ottimista: 38,1% Non so: 7,8%
Come percepisce il futuro della democrazia israeliana?
Ricchi e poveri: 2,8% Ashkenaziti e sefarditi: 4,6% Religiosi e laici: 18% Arabi ed ebrei: 22,1% Destra e sinistra: 42,5% Non so: 10%
Quali sono le principali tensioni sociali?
Ottima o abbastanza buona: 31,1% Non molto buona o pessima: 43,4%
Che cosa pensa della riforma proposta?
Potranno annullare/ammorbidire/ritardare la riforma: 54,8% Non avranno alcuna conseguenza: 23,5% Non so: 21,7%
Che effetto possono avere le proteste sull’avanzamento della riforma?
Abbastanza d’accordo o d’accordo: 63,8% Non molto d’accordo o non d’accordo: 20,7% Non so: 15,8%
Concorda che sia necessario parlare per giungere a un compromesso?
chiede: «Allora, Chaim, come va?». «Signor rabbino, non so come ringraziarla! Da ieri sera, dopo aver fatto come mi ha detto, mi sembra di vivere in paradiso!». La posta in gioco pare troppo seria per scherzarci sopra, eppure molti commentatori politici citano la storiella. Sostengono che i promotori della riforma abbiano inserito intenzionalmente molte «capre» nella loro proposta, per far digerire meglio ciò che vogliono realmente ottenere alla fine dell’iter legislativo. Magari le cose stanno così. Ma se questo era il piano iniziale, nel frattempo lo scenario si è decisamente complicato. Forse la situazione è sfuggita di mano o è a un passo dall’esserlo. Definire con certezza i motivi che muovono i riformatori è tutt’altro che semplice. Ufficialmente loro sostengono di voler riportare l’equilibrio tra il potere giudiziario e quelli legislativo ed esecutivo. Se tale è realmente l’obiettivo, allora dovranno essere molte le «capre» da fare uscire di casa. È però difficile credere che si tratti soltanto di questo. L’impressione è che le leggi proposte non siano volte ad assicurare governabilità, ma controllo. Un controllo peraltro significativo, profondo, capace di gettare le basi per usi (e abusi) di potere che assesterebbero un notevole colpo ai già fragili equilibri della democrazia israeliana. Probabilmente è stato preparato un gioco di specchi nel quale ognuno può additare l’immagine dell’interesse altrui – personale o ideologico che sia – per allontanare i sospetti dalle proprie motivazioni autentiche. Ma, detto ciò, dov’è Netanyahu? Il primo ministro si è cacciato in una situazione veramente paradossale. Siccome si trova sul banco degli imputati in un processo in corso, ha ricevuto una risoluta disposizione dalla consulente giuridica del Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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governo a non intromettersi nell’iter legislativo. Naturalmente si tratta di pura fantasia, perché è chiaro a tutti che rappresenta l’unico in grado di arrestare la corsa. E secondo quanto riferito da persone a lui vicine, l’intenzione del premier sarebbe quella di porre fine al processo o quantomeno di moderarlo. La matassa degli interessi è però molto intricata. Tutti si chiedono se, allo stato attuale delle cose, Netanyahu possa veramente prendere una decisione e quale sarebbe il suo prezzo. Qualora accettasse di discutere l’ultima bozza di compromesso del presidente Herzog, rischierebbe di perdere pezzi del suo governo o addirittura di non averne più uno. Proseguendo invece sulla strada della riforma, vedrebbe aumentare le proteste sia dentro sia fuori Israele, mettendo in moto dinamiche che coinvolgerebbero tutti gli ambiti della società e potrebbero generare una profonda crisi istituzionale, sociale ed economico-finanziaria. Al momento in cui queste righe vengono scritte, l’insieme delle pressioni esercitate sull’esecutivo – manifestazioni popolari di portata e intensità senza precedenti, dichiarazione di sciopero generale sostenuto sia dai sindacati sia da imprenditori e industriali, mobilitazione di apparati fondamentali dello Stato come esercito e polizia, proteste da parte di governi e organizzazioni internazionali – ha prodotto un primo effetto: Netanyahu ha annunciato una «pausa» di quattro mesi nella corsa alla riforma. È una decisione volta a guadagnare tempo e riorganizzare le file oppure a segnalare una reale volontà di ripartire da zero e costruire una riforma basata sul dialogo con una parte quanto più possibile ampia della popolazione? Nessuna opzione è facile per Netanyahu, ma la speranza è che riconosca e faccia proprio il messaggio che una chiara maggioranza degli israeliani – tra cui una quota significativa dei suoi elettori – sta ripetendo da settimane. Sì alla riforma giudiziaria, ma senza incrinare o danneggiare il sistema democratico. Nuovi equilibri e soluzioni andranno quindi discussi con ponderazione e convogliati in una legislazione che anzitutto rifletta i diffusi desideri della popolazione. Lasciando poi i giusti margini di manovra a qualsiasi governo eletto. Difficile ma non impossibile.
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ISRAELE CONTRO ISRAELE
‘L’utopia ebraica per salvare Israele’ Conversazione con Riccardo a cura di Federico PETRONI
CALIMANI, studioso dell’ebraismo
LIMES Israele si sta tribalizzando? CALIMANI Ritengo che l’immagine
sia forzata e non risponda alla realtà. Più che in tribù Israele è divisa in blocchi. Esiste un nuovo blocco demograficamente forte e in crescita composto da persone scappate dall’ex Unione Sovietica. Secondo alcune fonti, una minoranza di esse non è nemmeno ebrea. Questa componente ha creato malessere nella società per il rifiuto di servire sotto le armi. Poi c’è un altro blocco di origine nordafricana che ha sviluppato un certo rancore nei confronti della classe dirigente anche per motivi sociali, poiché occupa i ceti meno agiati. Israele è un paese in cui avviene uno scontro tra la modernità del mondo contemporaneo e le comunità ebraiche provenienti da territori lontani da questa modernità, come per esempio l’ex Unione Sovietica o il Nord Africa. LIMES La sua divisione in blocchi ricalca quella dell’ex presidente Reuven Rivlin, che ha parlato di laici, nazional-religiosi e ultraortodossi. Non crede che la crisi odierna verta anche sul rapporto tra identità israeliana e identità ebraica? CALIMANI No, perché il mondo ebraico ha una caratteristica distintiva: è vitale e disordinato. È estremamente diversificato al suo interno. L’identità ebraica non è monolitica e statica. È costituzionalmente frammentaria e dinamica. Va considerata con categorie diverse da quelle applicabili ai paesi europei. Esistono mille modi diversi di identificarsi nella grande storia ebraica, tanto nella diaspora quanto in Israele. Noi non abbiamo un papa, un centro unificante. Siamo particolarmente libertari e anarchici. Questo tratto è accentuato dalla vita in diaspora e dal fatto che le diaspore europee e americane oggi si identificano meno con Israele, com’è naturale che sia col passare delle generazioni e con la possibilità di svolgere un ruolo attivo nel paese di residenza. Tuttavia, Israele è ritenuto un rifugio di ultima istanza, come Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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‘L’UTOPIA EBRAICA PER SALVARE ISRAELE’
dimostrato per esempio dagli ebrei francesi che a causa delle violenze dei gruppi xenofobi si sono trasferiti nello Stato ebraico e negli Stati Uniti, riducendo la comunità transalpina da 500 a 400 mila individui. Ogni comunità ebraica porta in Israele le sue origini, le sue tradizioni, la sua mentalità. Chi è venuto dalla Tunisia ha evidentemente portato una storia diversa da chi proveniva dalla Russia. Questa ricchezza è insieme un vantaggio e uno svantaggio, poiché fornisce debolezza intrinseca a questa vasta gamma di posizioni. Oggi la società israeliana non si sta ponendo domande identitarie ma cerca sicurezza e benessere. Stanno venendo al pettine nodi fondamentali. L’occupazione dei territori arabi controllati con la guerra del 1967 ha prodotto uno status quo sclerotico. I leader politici israeliani avrebbero dovuto cercare un’armonia e invece non hanno trovato né cercato interlocutori sul fronte palestinese. Questo ha creato l’attuale disagio economico e politico. Inoltre, l’operazione tentata di Netanyahu con la riforma giudiziaria dimostra che Israele non ha sviluppato le garanzie che uno Stato moderno deve garantire. Israele è nato dopo un trauma, la Shoah, e in circostanze di necessità assoluta, cioè la guerra successiva alla fine del mandato britannico sulla Palestina. Tutto questo ha condizionato in negativo lo sviluppo istituzionale. Israele è un paese giovane che ha avuto una maturazione troppo veloce. Io sono assolutamente a favore del popolo israeliano e anche del popolo palestinese. È interesse del primo di arrivare a un compromesso con il secondo perché il benessere di entrambi è legato a un processo di pace irreversibile. LIMES Tuttavia in Israele tra le varie anime del paese sembra esserci una differenza crescente su dove debba arrivare il confine: la componente religiosa dice che bisogna annettere i Territori occupati (Grande Israele), la componente laica preferisce mantenere lo status quo. Non è una differenza fondamentale alla base del progetto nazionale? CALIMANI È una differenza contingente, frutto della paura. Viceversa occorre affermare con forza lungimirante che è necessaria una pari dignità per entrambi i popoli che vivono in quei territori. Chi ragiona in termini miopi non capisce che il futuro può essere garantito soltanto con la convivenza pacifica. In che forma? Probabilmente con due Stati indipendenti dotati di garanzie internazionali. Serve grande audacia politica o ci saranno conseguenze negative per tutti gli abitanti di quella regione. LIMES Quindi non concorda con chi ritiene incompatibile per Israele essere al contempo ebraico e democratico? CALIMANI Israele deve essere un paese ebraico e democratico. Un paese che guarda con rispetto alla tradizione millenaria e con forza di immaginazione al futuro. Peraltro è qualcosa che la comunità economico-scientifica già pratica con grande successo, è una carta vincente che non è estranea a Israele. Di più: non è estranea all’ebraismo. Il mondo ebraico è sempre stato in equilibrio tra passato e futuro. Tale condizione comporta difficoltà perché fa vivere in perenne vigilanza, ma è anche fertile. Lo dimostra tutta l’intelligencija europea da Marx a Freud, da Einstein Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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ISRAELE CONTRO ISRAELE
a Kafka che, uscita dai ghetti otto-novecenteschi, ha dato un contributo decisivo alla cultura mondiale. LIMES Ma dove li metti gli arabi se dai loro pieni diritti? CALIMANI È chiaro che in questa soluzione non c’è spazio per un Grande Israele. LIMES Quanto ritiene diffusa la sua posizione in Israele? CALIMANI Credo che intellettuali come lo scrittore David Grossman condividano questi miei auspici. In molti israeliani che conosco questa spinta è presente ed è forte. Alcuni gruppi politico-sociali hanno paura o reputano lo status quo più vantaggioso. Ma è immorale che esista una città come Gaza, isolata, con una povertà assoluta ed endemica. Se non si risolve il problema alla radice non si va da nessuna parte. LIMES I coloni vedono come anatema la soluzione da lei prospettata. Anzi si stanno armando per garantire la propria sicurezza. CALIMANI Se i coloni vogliono vivere come minoranza in un paese arabo vicino di Israele lo possono fare. Non possono pensare di portare la nazionalità israeliana dove vivono loro. Devono adattarsi a una politica realistica che punta alla pace. Condivido le parole di Amos Oz, secondo cui per superare la precarietà della situazione tra arabi e israeliani bisogna portare nell’area nuova speranza. LIMES Che cosa vuol dire nuova speranza? CALIMANI Come prima cosa, vuol dire bloccare il tentativo di Netanyahu di mettere sotto controllo politico l’organizzazione giudiziaria. Altrimenti la diffidenza e la paura continueranno a svolgere il ruolo di cattive consigliere del potere. LIMES Alcuni opinionisti hanno proposto progetti di cantonizzazione per risolvere il problema della convivenza tra le comunità ebraiche dentro Israele. È la fine del sionismo? CALIMANI Mi pare molto difficile che un tale progetto possa avere successo. Gli ebrei sono molto disordinati, non sono svizzeri. Il mondo ebraico non mi pare adatto a questo tipo di organizzazione. Ciò detto, il sionismo è un movimento che ha portato alla nascita dello Stato di Israele, ma nel momento in cui è nato lo Stato il sionismo ha portato a compimento la sua missione storica. LIMES Venendo alla diaspora nel nostro paese, la presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane ha riservato parole dure a Netanyahu nel corso della visita di quest’ultimo in Italia. Quando ha detto che l’odio verso i vicini non può essere considerato un comportamento orgogliosamente ebraico, ha espresso una opinione diffusa tra gli ebrei italiani? CALIMANI Credo e mi auguro che lo sia. Data l’autorevolezza dell’esponente dobbiamo pensare che non fosse un’opinione personale. Se io avessi avuto occasione di esprimermi, con Netanyahu sarei stato molto severo. Perché credo che il suo modo di fare indebolisca l’immagine di Israele. Per arrivare a un compromesso tra israeliani e palestinesi bisogna essere onesti, forti e lungimiranti. Qualsiasi gesto violento, che sia causato dalla guerriglia palestinese o dai coloni ebrei, va non solo biasimato ma fortemente represso, perché nessuno ha diritto a un trattamento di favore quando esercita la violenza. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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‘L’UTOPIA EBRAICA PER SALVARE ISRAELE’
Il dibattito interno alla diaspora italiana su Israele vede litigi furibondi. Le opinioni si stanno fortemente radicalizzando. È impossibile sintetizzarlo: pur essendo numericamente contenuta, sulle 22-23 mila persone, la comunità ebraica nel nostro paese esprime 22-23 mila punti di vista diversi. Ovviamente per la stragrande maggioranza è favorevole alla difesa di Israele. Oggi credo sia necessario fare un passo in più: solo la pace può garantire allo Stato ebraico una vita tranquilla. Bisogna trovare un compromesso che garantisca a entrambi i popoli pari dignità. LIMES Quanto contano le comunità ebraiche italiane? CALIMANI Nel passato in Italia hanno avuto un peso culturale sproporzionato al peso demografico. Prima della seconda guerra mondiale, gli ebrei italiani erano poche decine di migliaia, ma esprimevano ben il 7% dei professori universitari. Abbiamo avuto influentissimi direttori di giornali e telegiornali di origine ebraica. Altro conto è il peso politico ed economico, assai inferiore. Solo Mussolini credeva che gli ebrei fossero tanti e importanti. In realtà sapeva benissimo che non era così. E mentiva sapendo di mentire. In Israele, le organizzazioni della diaspora italiana non hanno molto peso. Ma ritengo sia necessario che facciano sentire a persone come Grossman che non sono sole. Intervenendo nelle piazze durante le manifestazioni contro la riforma giudiziaria, lo scrittore ha sollevato il tema del trattamento dei palestinesi e della necessità di un compromesso con gli arabi. E ha anche detto che questo momento in cui la democrazia vacilla può essere foriero di nuovi e positivi sviluppi. È un punto di vista che mi appartiene. Occorre immaginare un futuro luminoso privo di odio e di pericoli. È l’utopia ebraica.
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ISRAELE CONTRO ISRAELE
ALLE ORIGINI DEL SIONISMO RELIGIOSO DI BINYAMIN NETANYAHU
di
Arturo MARZANO
Le proteste che scuotono Israele sono la punta dell’iceberg di una torsione che ha caratterizzato la politica israeliana negli ultimi settant’anni. La dialettica tra fedeltà alla Terra e fedeltà allo Stato. Le radici dell’alleanza tra Likud e correnti ultraortodosse.
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ELLO STATO D’ISRAELE, LE MANIFESTAZIONI
antigovernative – iniziate il 29 dicembre, data in cui il sesto governo Netanyahu ha ottenuto la fiducia – proseguono senza sosta. Tra le varie questioni che circolano nelle piazze, vi è quella relativa allo stato della democrazia israeliana: cosa ha portato un’ampia fetta della classe politica a sostenere provvedimenti illiberali? Perché è stata pensata una riforma della giustizia che mira a ridurre notevolmente il potere della magistratura e a cambiare radicalmente l’equilibrio dei poteri? Meno preoccupazione hanno invece destato gli attacchi alla stampa, le posizioni apertamente razziste e omofobe di vari esponenti governativi, oltre al livello di violenza esercitata dai coloni israeliani nei Territori occupati, culminata lo scorso 26 febbraio in quello che è stato definito il «pogrom di Õuwwåra» 1. In questo articolo si tenterà dunque di individuare le ragioni della nascita dell’attuale governo, ricostruendo tre vicende la cui evoluzione è stata parallela e intrecciata. La prima è il percorso compiuto dal sionismo religioso, che nei primi due decenni di vita di Israele era saldamente ancorato a sinistra e fungeva da asse moderato per le politiche dei governi a guida laburista. Tuttavia, il sionismo religioso si è progressivamente spostato verso destra, fino a divenire una delle principali correnti a favore dell’occupazione dei Territori. La seconda concerne i cambiamenti che hanno caratterizzato il sionismo revisionista, il quale ha registrato una torsione a destra caratterizzata dall’abbandono di politiche liberali e di sostegno alla classe media. Inoltre, nei confronti dei Territori occupati, questa corrente del sionismo predilige oramai la logica militare a quella diplomatica. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
1. Cfr. J. HUGI, «Il pogrom di Õuwwåra è finito, ma le linee rosse che sono state oltrepassate sono i semi del disastro» (originale in ebraico), Ma‘ariv, 3/3/2023; B. BURSTON, «The Pogrom Against Palestinians That Brought the Occupation Home to Jewish Israelis», Haaretz, 19/3/2023.
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La terza è la diffusione all’interno del mondo dei coloni israeliani di una violenza sempre più ostentata verso i palestinesi dei Territori e verso i settori della società civile israeliana apertamente schierati contro l’occupazione.
La svolta del 1967 La conseguenza più rilevante della guerra dei Sei giorni (5-10 giugno 1967) fu la conquista israeliana della penisola del Sinai, della Striscia di Gaza e della Cisgiordania compresa Gerusalemme Est. Nello specifico, Israele ha occupato la Città Vecchia di Gerusalemme, dove si trova il Kotel, cioè il Muro occidentale, e la Cisgiordania, dove si trovano altri luoghi santi dell’ebraismo: la tomba di Rachele nei pressi di Betlemme, la tomba di Giuseppe vicino a Nåblus, la tomba dei patriarchi a Hebron e Beit El (la casa di Dio), dove il re David avrebbe collocato l’arca dell’alleanza. Il fatto che la guerra fosse durata sei giorni, esattamente lo stesso tempo impiegato da Dio per creare il mondo prima di riposarsi il settimo, fu interpretato come un evidente segno divino: Dio stesso aveva voluto che Israele rientrasse in possesso dei luoghi più santi dell’ebraismo, a partire proprio da Gerusalemme. La fotografia dei paracadutisti che giunsero al Kotel divenne l’immagine simbolo della guerra. La canzone Yerushalaym shel zahav (Gerusalemme d’oro) assurse a inno nazionale informale. La lettura messianica della guerra venne fatta propria e diffusa da molti personaggi, tra cui Rav Zvi Yehuda Kuk, direttore della yeshiva 2 Mercaz haRav. Kuk fu da subito contrario alla divisione con i palestinesi delle terre acquisite: le conquiste erano il frutto della volontà divina. Dunque sarebbe stato un vero e proprio crimine dare parte della terra di Israele a non ebrei 3. A partire dal 1967, il sionismo religioso conobbe quindi una profonda trasformazione: fino ad allora, infatti, tale visione riteneva possibile combinare l’osservanza religiosa con il principio chiave del sionismo politico, vale a dire l’idea che gli ebrei, essendo una nazione, avessero diritto a creare un proprio Stato. Dal 1967, la centralità della terra, ritenuta sacra e dunque indivisibile, divenne un tema centrale: tale lettura rendeva impossibile ogni tipo di compromesso politico e si ponevano le basi per un dissidio potenzialmente insanabile tra la fedeltà allo Stato d’Israele (Medinat Yisrael) e l’attaccamento alla Terra d’Israele (Eretz Yisrael) 4. Parallelamente, si registrò un cambiamento nella leadership del partito politico espressione del sionismo religioso, ovvero il Mafdal (Miflagah Datit Leumit, Partito nazionale religioso). Quest’ultimo era nato nel 1956 dall’unione tra il Mizrachi, abbreviazione di Merkaz Ruchani (Centro spirituale), e l’haPo‘el haMizrachi (Il lavoratore mizrachi), un movimento fondato nel 1922 con l’obiettivo di creare insediamenti agricoli nella Palestina britannica in cui si mantenesse l’osservanza, Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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2. Per yeshiva si intende un’istituzione scolastica ebraica in cui gli allievi si concentrano soprattutto sullo studio dei testi religiosi tradizionali, la Torah e il Talmud. 3. Cfr. T. SEGEV, 1967: Israel, the War and the Year that Transformed the Middle East, New York 2007, Metropolitan Book; A. BREGMAN, La vittoria maledetta. Storia di Israele e dei Territori Occupati, Torino 2017, Einaudi. 4. Cfr. A. MARZANO, Storia dei sionismi. Lo stato degli ebrei da Herzl a oggi, Roma 2017, Carocci.
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secondo il principio Torah ve‘Avodah (Torah e lavoro). Mafdal aveva fatto parte di tutte le coalizioni di governo a guida laburista. Nel 1970, tuttavia, morì Chaim Moshe Shapira, fino ad allora leader di Mafdal. Essendo uno dei membri più moderati del governo israeliano, Shapira si trovava spesso in disaccordo con Ben-Gurion. Il suo posto venne occupato da un gruppo dirigente più giovane, che già in precedenza aveva criticato l’atteggiamento pragmatico e conservatore di Shapira. Galvanizzato dal clima di euforia seguito alla guerra dei Sei giorni, tale gruppo dirigente sposò posizioni decisamente più radicali, in linea con le idee del già menzionato Zvi Yehuda Kuk, sostenendo fortemente la colonizzazione dei Territori occupati, cui si riferivano con i toponimi di Giudea, Samaria e Gaza 5.
Il 1979 e gli anni Ottanta Un ulteriore passaggio necessario a comprendere la torsione in senso estremista del sionismo religioso avvenne nel 1979. Con la firma degli accordi di Camp David, Israele rinunciava al Sinai in cambio della pace con l’Egitto e decideva pertanto di smantellare i diciotto insediamenti che, dal 1967 in poi, erano stati creati nella penisola. Questa scelta – fortemente criticata da un’agguerrita minoranza – ebbe tre conseguenze. La prima fu un’ulteriore radicalizzazione del sionismo religioso, culminata negli scontri tra coloni e soldati israeliani a Yamit. Tale episodio mostrò plasticamente la frattura tra chi riteneva prioritaria l’obbedienza alle leggi dello Stato (i soldati) e chi, invece, dava maggiore importanza ai princìpi nazional-religiosi (i coloni). In secondo luogo, nel 1979 iniziò la saldatura tra alcuni settori del Likud 6 e i gruppi del sionismo religioso che ritenevano l’attaccamento alla Terra israeliana più importante della fedeltà allo Stato d’Israele. Era l’inizio di quel percorso che avrebbe portato alla nascita del sionismo neorevisionista 7. Il 25 settembre 1979, Menachem Begin – leader del Likud e capo del primo governo non laburista della storia di Israele – cercò di far passare l’adozione degli accordi di Camp David come una scelta necessaria per evitare una nuova guerra. Begin, tuttavia, sottolineò anche l’importanza di salvaguardare le «aree liberate della Terra d’Israele», vale a dire Giudea, Samaria e Gaza. In questo modo, egli tentò di accreditarsi presso quei settori del sionismo religioso che consideravano prioritario il mantenimento della totalità della terra d’Israele. Tuttavia, ciò non bastò per evitare una scissione nel Likud. Alcuni parlamentari uscirono infatti dal partito in segno di protesta, dando vita a un nuovo raggruppamento: Tehiya (Rinascita). Il nuovo partito 8 comprendeva sia laici sia religiosi, ed ebbe la benedizione di Rav Zvi Yehuda Kuk. Come affermò successivamente Yuval Neeman (1925-2006), fisico di fama internazionale, Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
5. E. DON-YEHIYA, «Messianism and Politics: The Ideological Transformation of Religious Zionism», Israel Studies, n. 2/2014, pp. 239-263. 6. Il partito erede del sionismo revisionista di Vladimir Zeev Jabotinsky. 7. R. DEL SARTO, Israel Under Siege: The Politics of Insecurity and the Rise of the Israeli Neo-Revisionist Right, Washington 2017, Georgetown University Press. 8. Il cui nome originario era Banai (Brit Neemanei Eretz Yisrael, Alleanza dei fedeli alla Terra d’Israele).
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il trattato di Camp David e l’evacuazione di Yamit avevano messo in pericolo la ragione profonda del sionismo, ovvero l’unità della terre israeliane: la ratifica degli accordi da parte della Knesset era dunque simile al voto del «parlamento francese a sostegno di Pétain durante l’occupazione nazista della Francia» 9. Infine, nacquero gruppi della società israeliana che ritenevano fosse giunto il momento di utilizzare la violenza su ampia scala. Come ricostruisce Colin Shindler, i coloni divennero più violenti a seguito di una decisione presa nel 1978 da Rafael Eitan, allora capo di Stato maggiore delle Forze armate, in base alla quale avrebbero potuto sostituire la leva militare con la partecipazione attiva alla difesa dei loro insediamenti. Ciò finì per incoraggiare una mentalità giustizialista, con una progressiva diminuzione della distinzione tra rispetto della legge e crimine. Tra i coloni si diffuse l’idea che lo Stato non fosse in grado di garantire la loro sicurezza attraverso l’esercito. Dunque, spettava a loro farsene carico. L’esempio più noto fu il haMachteret haYehudit (Movimento clandestino ebraico), che si rese colpevole di vari attacchi armati contro palestinesi. L’organizzazione venne smantellata dal governo nel 1984 e la maggioranza della popolazione israeliana condannò le azioni del gruppo. Tuttavia, personalità rilevanti del mondo politico e culturale israeliano lo difesero. Il già ricordato Yuval Neeman, allora ministro della Scienza e dello Sviluppo, fu tra questi. E furono soprattutto rabbini legati alle idee di Zvi Yehuda Kuk a manifestare il loro sostegno verso i terroristi arrestati. Dov Lior, rabbino della yeshiva di Kiryat Arba, insediamento nei pressi di Hebron, parlò della collera di Dio contro il governo israeliano per aver arrestato i membri del gruppo. Yisrael Ariel, rabbino capo di Yamit, affermò che l’arresto dei membri di Machteret haYehudit era in contrasto con l’halakhah (la legge ebraica). Sempre nel 1984, venne eletto alla Knesset Meir Kahane, nato a New York ma emigrato in Israele nel 1971, fondatore del partito Kach (Così). Dopo aver mancato l’ingresso in parlamento nel 1973, nel 1977 e nel 1981, Kahane riuscì a essere eletto nel 1984 come unico rappresentante di Kach. L’obiettivo principale del partito era trasformare Israele in una «democrazia ebraica», espellendo tutti i palestinesi da Eretz Yisrael. Secondo Kahane, la Torah avrebbe dovuto avere un ruolo chiave nella vita politica israeliana. Sebbene Kach fosse stato completamente emarginato dagli altri partiti politici, il sostegno nel paese non fu affatto marginale. Prima che Kach fosse bandito dalle elezioni nel 1988, i sondaggi ipotizzavano che il partito avrebbe incrementato i suoi voti fino a ottenere tre o quattro seggi, anche grazie al sostegno della galassia che orbitava attorno ai terroristi di Machteret haYehudit. Tra le personalità influenti che appoggiavano Kahane si segnalarono, infatti, Zvi Yehuda Kuk, il rabbino Avraham Shapira 10 e il rabbino Yisrael Ariel, che aveva corso come numero due nella lista di Kach alle elezioni del 1984. Ciò confermava l’esistenza di un mondo formato da gruppi, associazioni, yeshivot che condividevano una piattaforma valoriale e programmatica comune, caratterizCopia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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9. C. SHINDLER, The Land Beyond Promise. Israel, Likud and the Zionist Dream, London-New York 2002, I.B. Tauris, p. 105. 10. Rabbino capo ashkenazita di Israele tra il 1983 e il 1993 e direttore della yeshiva Merkaz haRav.
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zata da una sorta di ultranazionalismo messianico che tollerava – per non dire promuoveva – il razzismo e la violenza verso i non ebrei 11.
La stagione di Oslo Gli accordi di Oslo – con i quali Israele accettava di ritirarsi da alcune porzioni dei Territori occupati per permettere la nascita di un autogoverno palestinese, in cambio del riconoscimento della sua esistenza da parte dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) – fecero venire alla luce due interpretazioni opposte del sionismo. La prima, di cui si faceva interprete Yitzhak Rabin, leader laburista e primo ministro, riteneva che gli accordi di Oslo costituissero la realizzazione piena del sionismo; la seconda riteneva che Oslo ne rappresentasse il tradimento 12. Quest’ultima posizione è quella che, nei decenni successivi, sarebbe stata abbracciata da Binyamin Netanyahu. Gli accordi di Oslo mettevano a confronto due opposte visioni, riassumibili nei già ricordati concetti di Medinat Yisrael (Stato d’Israele) ed Eretz Yisrael (Terra d’Israele): la prima visione riteneva che il cuore del sionismo fosse l’esistenza dello Stato ebraico, indipendentemente dalle sue frontiere; la seconda poneva invece la terra di Israele al centro del sionismo. Per i fautori di Medinat Yisrael, l’obiettivo del sionismo era garantire l’esistenza dello Stato. Per i sostenitori di Eretz Yisrael, al contrario, lo scopo primario del sionismo era la tutela della terra. In particolare, Giudea e Samaria, considerate il cuore della tradizione ebraica, non dovevano essere abitate da non ebrei. Nessun tipo di compromesso avrebbe potuto ripagare una perdita così rilevante. Perdere quelle terre avrebbe significato sconfessare e tradire il sionismo stesso. Non si trattava solo di una differenza di vedute. Nella galassia della destra contraria a Oslo nacquero organizzazioni che ritenevano necessario fermare il processo di pace con qualunque mezzo, inclusa la violenza. Una di queste era Chai veKayam (Vivo e presente), fondata da Yehuda Etzion, militante di Machteret haYehudit. Ancora più pericoloso era il «Centro per bloccare il piano di autonomia», fondato nel 1991 da Elyakim Ha‘etzni per protestare contro la partecipazione dell’allora primo ministro del Likud Yitzhak Shamir alla Conferenza di Madrid, alla quale, per la prima volta, il governo israeliano dovette prendere parte per avviare il processo di pace. Nel 1993, Ha‘etzni rilanciò le attività del Centro per opporsi agli accordi di Oslo, ritenuti l’inizio della fine della presenza israeliana in Giudea e Samaria e la base per la nascita di un futuro Stato palestinese. Il salto di qualità – atroce e terribile anche per le conseguenze di lungo periodo cui stiamo tuttora assistendo – avvenne il 25 febbraio 1994, con l’uccisione da parte di un colono di Kiryat Arba, Baruch Goldstein, di 29 palestinesi che si trovaCopia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
11. A. RAVTITZKY, «Roots of Kahanism: Consciousness and Political Reality», Jerusalem Quarterly, n. 1/1986, pp. 90-108. 12. D. BEN-MOSHE, «The Oslo Peace Process and Two Views on Judaism and Zionism», British Journal of Middle Eastern Studies, n. 1/2005, pp. 13-27.
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vano in preghiera nella Moschea di Abramo, costruita in corrispondenza della Tomba dei patriarchi. Goldstein era stato discepolo di Kahane e membro del partito Kach: nelle elezioni del 1984 era il numero tre della lista. La strage del febbraio 1994 ebbe effetti terribili. I gruppi estremisti israeliani e palestinesi si radicalizzarono ulteriormente. Dopo 40 giorni di lutto, il braccio armato di Õamås, le Brigate del martire ‘Izz al-Døn al-Qassåm, pianificò i primi due attentati suicidi all’interno di Israele. In ambito ebraico, invece, si sviluppò un vero e proprio culto di Baruch Goldstein, soprattutto da parte dei seguaci di Kahane. Tornava dunque in auge l’idea secondo cui ogni mezzo fosse lecito per fermare il processo di pace avviato a Oslo. Il 4 novembre 1995, al termine di una manifestazione tenutasi a Tel Aviv per sostenere il processo di pace, a cadere sotto tre colpi di pistola fu il capo primo ministro Rabin. A sparare fu Yigal ‘Amir, studente dell’Università Bar-Ilan, cresciuto in ambienti sionisti religiosi e progressivamente estremizzatosi nelle sue posizioni. Amir faceva dunque parte della galassia descritta in precedenza: aveva partecipato ai funerali di Baruch Goldstein e aveva preso parte alle attività di Zo Artzenu (Questa è la nostra terra), gruppo nato nel dicembre 1993 per creare avamposti a partire da insediamenti già esistenti in Giudea e Samaria 13. Indipendentemente dalle motivazioni psicologiche e personali più profonde che possono spiegare il suo gesto, ‘Amir era la punta dell’iceberg di un sentimento che, pur rimanendo minoritario, era ormai piuttosto diffuso all’interno del sionismo religioso 14.
I governi Netanyahu: dal 2009 a oggi Il 29 maggio 1996, alle elezioni anticipate indette da Shimon Peres, succeduto a Rabin, le urne diedero fiducia al leader del Likud Binyamin Netanyahu. La sua posizione sugli accordi di Oslo era chiara: in un testo del 1993 aveva sostenuto il diritto esclusivo degli ebrei a tutta Eretz Yisrael, accusando gli Stati arabi e i palestinesi di voler distruggere Israele 15. Tuttavia, l’eterogeneità della coalizione e la pressione esercitata dagli Usa di Bill Clinton costrinsero Netanyahu ad assumere un atteggiamento moderato e pragmatico: il premier proseguì infatti il ritiro da altre porzioni della Cisgiordania, inclusa la città di Hebron (fatta salva la parte della città, la cosiddetta H2, dove si trovava l’insediamento ebraico creato in corrispondenza della Tomba dei patriarchi 16), suscitando le ire di buona parte del suo elettorato. Benny Begin, figlio di Menachem e ministro della Ricerca scientifica, si dimise per protestare contro l’accordo; Ariel Sharon, ministro delle Infrastrutture, votò contro senza dimettersi. Ma l’opposizione maggiore venne da Moledet (Patria), un partito nato nel 1988 composto sia da laici sia da religiosi, che aveva al centro della sua Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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13. A. PEDAHZUR, A. PERLIGER, Jewish terrorism in Israel, New York 2009, Columbia University Press, pp. 104-110. 14. M. FEIGE, «L’assassinio di Rabin e i margini etnici del sionismo religioso» (originale in ebraico), Tioria veBiqoret, n. 2/2015, pp. 31-56. 15. B. NETANYAHU, A Place among the Nations: Israel and the World, London 1993, Bantam. 16. A. SHLAIM, The Iron Wall. Israel and the Arab World, London 2014, Penguin, pp. 610-603.
ISRAELE CONTRO ISRAELE
INSEDIAMENTI EBRAICI 1882-1908 Metula Aree di insediamento ebraico ALTA GALILEA
Insediamenti urbani Moshavot (insediamenti rurali)
Yesud HaMa‛ala Mahanayim Mishmar Eyn-Zeytim HaYarden Rosh Pinah Tzfat (Safed) ‘Akko (Acri) Bnei Yehuda Mitzpa Lago Kinneret Yavneel di Tiberiade Kfar Tavor Atlit Beit Gan
Haifa
Menachemiya Bat Shlomo Zikhron Ya‘akov Giv‘at ‘Ada BASSA GALILEA SAMARIA M a r Hadera M e d i t e r r a n e o
Nāblus Fiu m e Giordano
Kfar Sava SHARON Petach Tikva
Giaffa
Rishon LeTziyon Nes Tziyona Rehovot Motza GIUDEA 0
20 km
Gedera Beer Toviya
Hartuv
Gerusalemme Mar Morto
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proposta politica il trasferimento volontario degli arabi da Eretz Yisrael e che smise di sostenere il governo dall’esterno come aveva fatto nei mesi precedenti. Netanyahu continuò a guidare l’esecutivo fino al 1999, per poi rivestire la carica di ministro degli Esteri e delle Finanze nei due governi guidati da Ariel Sharon, il quale promosse però un piano di ritiro unilaterale dalla Striscia di Gaza. Nel 2004, dunque, due partiti – Mafdal e Ichud Leumi (Unione nazionale), formazione erede di Tehiya – abbandonarono la maggioranza, e così fece anche Netanyahu. Il governo riuscì tuttavia ad approvare e a implementare il «disimpegno» tra il 15 e il 22 agosto 2004. Ciò avvenne in un clima di tragedia nazionale, con l’impiego di
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decine di migliaia di soldati per impedire incidenti con i coloni. Alla fine, dopo enormi resistenze, tutti e cinquemila i coloni che risiedevano nei 21 insediamenti della Striscia di Gaza vennero evacuati 17. In quegli anni il Likud si spaccò: c’era chi, come Netanyahu, non intendeva rinunciare a nessuna zolla di Eretz Yisrael e chi, come Sharon, riteneva necessario superare tale posizione oltranzista. Alla fine, Sharon abbandonò il Likud, dando vita a un nuovo raggruppamento di centro: Kadima (Avanti). Rispetto al 1996, Netanyahu aveva abbandonato il suo atteggiamento moderato e pragmatico. Il Likud si era allineato alla posizione di Mafdal e degli altri partiti che mettevano al centro della propria politica il dominio sui Territori occupati. Netanyahu è tornato alla guida del governo nel 2009, nel 2013 e nel 2015. Le politiche economiche portate avanti da tali esecutivi sono state ultraliberiste, e hanno generato un netto aumento della sperequazione economica. Per quanto riguarda il rapporto tra laici e osservanti, i governi di Netanyahu hanno accolto quasi interamente le richieste dei partiti ultraortodossi in riferimento al finanziamento alle yeshivot, all’esenzione dal servizio militare e al rafforzamento dell’ortodossia a scapito dei movimenti reform e conservative, attivi soprattutto nella diaspora americana. Per quanto riguarda il rispetto dello Stato di diritto, i governi Netanyahu sono stati caratterizzati da una crescente intolleranza nei confronti della stampa indipendente e delle organizzazioni non governative che denunciavano le violazioni dei diritti umani compiute da Israele nei Territori occupati. Soprattutto, questi governi si sono resi protagonisti di una serie di attacchi contro la magistratura e, in particolare, contro la Corte suprema. Inoltre, i governi guidati da Netanyahu hanno legittimato e protetto la colonizzazione dei Territori 18. Nonostante le forti critiche ricevute negli anni, portate avanti persino da Ehud Barak, ministro della Difesa nel secondo governo Netanyahu tra il 2009 e il 2013 19, con l’attuale esecutivo si assiste a un ulteriore salto qualitativo. Le elezioni del novembre 2022 hanno rotto l’impasse che ha caratterizzato la politica israeliana degli ultimi tre anni 20: vi è infatti una maggioranza di destra, anche se non particolarmente solida (61 seggi su 120). Il Likud, con 32 deputati, è la principale forza di maggioranza, seguita da un cartello elettorale formato da tre partiti: haTzionut haDatit (Il sionismo religioso), ‘Otzma Yehudit (Orgoglio ebraico) e Noam (Gentilezza), che insieme hanno ottenuto 14 deputati. Infine, vi sono due partiti religiosi, Yahadut haTorah (Giudaismo della Torah) e Shas, i quali promuovono gli interessi degli ultraortodossi ashkenaziti e sefarditi, rispettivamente con 7 e 11 seggi. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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17. A. PEDAHZUR, A. PERLIGER, op. cit., pp. 122-126. 18. Cfr. A. BENN, «The End of the Old Israel: How Netanyahu Has Tansformed the Nation», Foreign Affairs, n. 4/2016, pp. 16-27; R.O. FREEDMAM, Israel under Netanyahu. Domestic Politics and Foreign Policy, London 2020, Routledge. 19. «Israel Has Been Infected by the Seeds of Fascism, Says ex-Prime Minister Ehud Barak», Haaretz, 20/5/2016. 20. Dalle quattro tornate elettorali precedenti (aprile e settembre 2019, marzo 2020 e marzo 2021) non era infatti emersa una maggioranza chiara.
ISRAELE CONTRO ISRAELE
Il sistema politico israeliano – un proporzionale puro con soglia di sbarramento – ha sin dal 1948 dato origine a coalizioni nelle quali i partiti piccoli finiscono per avere un peso maggiore rispetto alla loro reale forza. La coalizione attualmente al governo non fa eccezione. E i tre partiti uniti nel cartello elettorale hanno effettivamente chiesto e ottenuto molto. Se è vero che il Likud ha ottenuto i ministeri più importanti 21, è anche vero che il cartello elettorale è riuscito a ottenere ministeri assai delicati. Per brevità si farà riferimento solo ai due più importanti, partendo da Bezalel Smotrich, leader di haTzionut haDatit. La sua intera vita si intreccia con le vicende presentate nelle pagine precedenti: nato in un insediamento nel Golan, occupato da Israele nel 1967, ha studiato alla yeshiva Merkaz haRav. Nel 2005, ha preso parte alle proteste contro il disimpegno da Gaza. Dulcis in fundo, Smotrich è stato anche arrestato con l’accusa di preparare un attentato terroristico, ma non è stato incriminato. Nel 2006, è stato cofondatore della ong Regavim (Zolle), finalizzata a intentare azioni legali contro qualsiasi costruzione fatta senza permesso da palestinesi o beduini in Israele e in Cisgiordania. Oggi, Smotrich ha ottenuto il ministero delle Finanze, ma ha anche un ruolo nel ministero della Difesa: può infatti nominare i comandanti dell’Amministrazione civile e del Coordinamento delle attività del governo nei Territori. Questo significa che Smotrich, strenuo sostenitore della presenza israeliana in Giudea e Samaria, avrà la possibilità di influenzare queste due istituzioni, le quali si occupano dei rapporti con la popolazione e con le autorità palestinesi. Peraltro, Smotrich è balzato agli onori della cronaca per un tweet – poi cancellato – in cui, all’indomani del «pogrom», aveva affermato che Õuwwåra dovesse «essere cancellata» 22. Veniamo al secondo partito del cartello elettorale. ‘Otzma Yehudit si richiama espressamente al partito Kach. Il suo leader, Itamar Ben-Gvir, ha ottenuto il ministero per la Sicurezza nazionale e, da giovane, aveva militato nel partito Kach ed era stato vicino a Moledet. Ha poi subìto una serie di processi per incitamento all’odio razziale e, fino al momento del suo ingresso in politica, ha tenuto appeso in ufficio il quadro di Baruch Goldstein. Infine, da avvocato, ha difeso (e sta difendendo) vari coloni israeliani accusati di violenza contro i palestinesi. Con l’arrivo di Ben-Gvir, il ministero per la Sicurezza nazionale ha conosciuto un aumento dei suoi poteri. In particolare, supervisiona adesso la polizia israeliana e, soprattutto, la polizia di frontiera, attiva in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. È proprio la polizia di frontiera a occuparsi delle attività di sicurezza e, dunque, ad avere maggiormente a che fare con i palestinesi dei Territori occupati. Già nel 2001 la ong israeliana per i diritti umani B’Tselem aveva denunciato la violenza esercitata dalla polizia di frontiera nei confronti dei palestinesi. Il fatto che sia Ben-Gvir, noto per le sue affermazioni razziste fondate sul suprematismo ebraico, a controllarla è certamente fonte di inquietudine per i palestinesi. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
21. Eli Cohen agli Esteri; Nir Barkat all’Economia; Yariv Levin alla Giustizia. 22. C. MAAANIT, B.SAMUELS, «Palestinian “Village of Hawara Needs to Be Wiped Out”: Israel’s Far-right Finance Minister Justifies “Disproportionate” Response to Terrorism», Haaretz, 1/3/2023.
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ALLE ORIGINI DEL SIONISMO RELIGIOSO DI BINYAMIN NETANYAHU
Conclusioni Gli eventi degli ultimi due mesi confermano la ricostruzione svolta nelle pagine precedenti. La violenza avviene ormai alla luce del sole, perché tutti sanno che i crimini rimarranno impuniti. Il fatto stesso che il partito di Smotrich si chiami haTzionut haDatit conferma il processo di radicalizzazione che ha caratterizzato il pensiero sionista dal 1967 in poi. Inoltre, il Likud appoggia totalmente la colonizzazione crescente di Giudea e Samaria, lasciando aperta la possibilità di una graduale annessione. Questo conferma l’abbandono totale dell’iniziale posizione del sionismo revisionista: con Netanyahu, infatti, i negoziati politici hanno lasciato definitivamente il campo alla forza militare, sulla base dell’idea – imbevuta di orientalismo e razzismo – che gli arabi comprendono solo il linguaggio della violenza 23. C’è tuttavia un ulteriore tassello, senza il quale non si capirebbe perché la maggioranza di governo non compie passi indietro. L’obiettivo primario delle proteste è infatti bloccare la riforma della giustizia che Yair Levin intende realizzare. Con la riforma, la Corte suprema non avrebbe più l’ultima parola sulle leggi che contraddicono le cosiddette «leggi fondamentali», cioè le leggi più importanti su cui si fonda lo Stato d’Israele in assenza di una costituzione. Se attualmente la decisione ultima sulla «costituzionalità» di una legge approvata dalla Knesset spetta alla Corte, la riforma proposta dal governo permetterebbe al parlamento di soprassedere alle decisioni di quest’ultima e di ribaltarle con una maggioranza semplice di sessantuno parlamentari. Per Netanyahu la riforma della giustizia è prioritaria: essa si intreccia infatti con le sue vicende private, ovvero con il concreto rischio di essere condannato per corruzione. Non a caso, il 22 marzo la Knesset ha approvato una legge che impedisce al procuratore generale di dichiarare il premier inidoneo alla carica 24. Per avere i numeri necessari a far passare questa legge, il Likud ha accettato le richieste di Shas e Yahadut haTorah sul rafforzamento dell’ortodossia. Inoltre, ha nuovamente garantito agli ebrei ortodossi l’esenzione dal servizio militare, e ha confermato la linea dura sui Territori occupati. Per quanto Netanyahu abbia, a seguito delle proteste, «congelato» il voto sulla riforma della giustizia, questo governo rimane un pericolo per la tenuta democratica di Israele. Le radici di questo processo vanno però individuate nei 65 anni di occupazione dei Territori palestinesi, che hanno esacerbato le contraddizioni interne allo Stato d’Israele. Nessuno l’ha detto meglio di Yeshayahu Leibowitz, chimico e filosofo israeliano, secondo cui l’occupazione dei Territori è stata una «catastrofe per il popolo ebraico», che ha portato alla «corruzione degli individui. (…) In un breve periodo, (…) il solo interesse di quella mostruosità chiamata “l’indivisa terra di Israele” è diventata il mantenimento di questo sistema di dominio e amministrazione» 25. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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23. A. SHLAIM, op. cit. 24. N. SHPIEGEL, «Knesset Passes Law Preventing AG [Attorney General] From Declaring Netanyahu Unfit for Office», Haaretz, 22/3/2023. 25. Y. LEIBOWITZ, The Territories, in ID., Judaism, Human Values, and the Jewish State, a cura di E. GOLDMANN, Cambridge 1992, Harvard University Press, pp. 223-228.
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LA MAESTRIA TATTICA DI BIBI RISCHIA DI PRODURRE IL DISASTRO STRATEGICO DI ISRAELE Il premier cerca di imporre fatti compiuti agli avversari e ai critici interni ed esterni. Accetta lo scontro con l’America e con gli europei contando sul loro successivo adattamento a realtà che non controllano. Il coordinamento delle proteste della diaspora. di Davide
ASSAEL
T
1. UTTO SI PUÒ DIRE FUORCHÉ BINYAMIN Netanyahu sia politicamente sprovveduto. Siamo anzi di fronte a uno dei politici più abili comparsi sulla scena internazionale negli ultimi trent’anni. Fin da quando, nel lontano 1996, ricoprì per la prima volta la carica di primo ministro. Se questo è il presupposto, difficile pensare che sia stato colto di sorpresa dalle proteste suscitate dalle iniziative del suo governo, a cominciare dalla controversa riforma della giustizia già in discussione in parlamento. Forse non si aspettava una risposta così veemente o i ripetuti blocchi del paese. Forse nemmeno che i riservisti, assumendosi la responsabilità di un pericoloso precedente, annunciassero il rifiuto di rispondere alla chiamata di uno Stato non democratico. Forse non immaginava prese di posizione in diretta di noti volti del giornalismo televisivo. Forse non aveva messo in conto una così cospicua fuga di capitali dalle banche israeliane. Non è credibile, però, che il neo-premier non si attendesse proteste e una lotta senza quartiere da parte dell’establishment. Altrettanto ovvie erano le reazioni internazionali e le critiche della diaspora, in larga misura ancora legata all’immagine di un ebraismo che si percepisce minoranza, sensibile agli ideali democratici. A maggior ragione doveva aspettarsi quanto sta avvenendo dopo quello che, visto il tasso di conflittualità raggiunto oggi, pare il seguito dello scontro sulla legge della nazione del 2018, che accese un dibattito con pochi precedenti nella storia del paese. Tutto fa pensare che re Bibi, come lo chiamano i suoi sostenitori, abbia agito con lucidità fin dal principio. Per questo non regge nemmeno l’immagine dell’apprendista stregone che evoca forze non più in grado di domare. Così come quella di un primo ministro indebolito dal costante ricatto della sua coalizione. I costi della formazione del governo erano da subito chiarissimi. Ministri impresentabili compresi. Nessuno, per esempio, poteva aspettarsi che una figura come il leader Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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di Shas, Aryeh Deri, pluricondannato per reati fiscali e che nei termini del patteggiamento della pena aveva garantito il proprio ritiro dalla vita politica, potesse soddisfare la clausola di «onorabilità» a cui deve adeguarsi un uomo di governo. Era ovvio che la Corte suprema avrebbe decretato il suo decadimento dalla carica. Sentenza quasi unanime, con un solo giudice che non ha votato a favore, ma neppure contro, chiedendo solo un ulteriore passaggio formale alla commissione parlamentare. Esito del tutto scontato, che non ha fatto desistere Netanyahu dal concedere a Deri non uno ma due ministeri di peso. L’errore analitico di molti è stato concentrarsi sulle sole differenze nella compagine di governo: un Likud laico guidato da un leader cinico e pragmatico, insieme a un’ala religiosa legata a valori non negoziabili. Si è sottovalutata l’evoluzione ideologica compiuta dal Likud e di colui che ne è il leader da vent’anni, fino a trascurare le convergenze fra le componenti di governo – invero assai diverse anche nella parte religiosa 1. Si possono distinguere almeno tre assi, che in fondo ricalcano quelli indicati dall’ex capo dello Shin Bet, Nadav Argaman, in una recente intervista alla stampa estera in Israele: limitare il potere della Corte suprema, incrementare il tasso di ebraicità dello Stato, espandere gli insediamenti seguendo un progetto di Grande Israele dal Mediterraneo al Giordano. Se Netanyahu vuole limitare la Corte per bloccare i suoi processi, convinto di essere un perseguitato politico, l’argine è anche funzionale all’ala religiosa che ha sempre visto nel ramo giudiziario dello Stato il custode dei valori laici e liberali cui è ostile. Se le ragioni di un «Israele Stato degli ebrei», per citare la formula della legge del 2018, sono immediatamente comprensibili per l’ala religiosa, il progetto nazionalista è lo strumento con cui Netanyahu può espandere i confini del proprio Stato, dando il colpo di grazia all’annosa questione palestinese che lui sa bene essere passata da un pezzo di moda anche fra le leadership arabe. L’elettorato delle due aree della coalizione, insomma, non è distante come ai tempi di Begin, primo ministro dal 1977 al 1983, per citare un altro precedente che scosse la coscienza pubblica israeliana. Il punto di convergenza fra i partiti di governo è la costruzione di un’identità post-sionista 2 che superi quel delicato e sempre incerto punto di equilibrio fra princìpi universali e identità particolare confluito nella Dichiarazione d’indipendenza del 1948. Evidentemente il machiavellico Netanyahu è convinto, con buone ragioni, che gli alleati occidentali alla lunga digeriranno un’inversione autoritaria in Israele, così come lo hanno fatto con nazioni nel cuore dell’Europa (Ungheria e Polonia) o con strategici partner della Nato come la Turchia. Una scommessa sulla crisi del modello liberale emersa anche nel recente incontro a Budapest fra il ministro israeliano per le Relazioni con la diaspora Amichai Chikli e Miklós Soltész, Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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1. Cfr. D. ASSAEL, «Il peso terreno della galassia ultraortodossa», Limes, «La questione ebraica», n. 5/2021, pp. 145-153. 2. Con questa espressione sintetica ci riferiamo al sionismo classico di matrice herzliana che ha dato forma allo Stato ebraico. Escludiamo dalla definizione il sionismo religioso fondato da Rav Avraham Yitzhak haCohen Kook, che non fa parte della stessa storia ed è oggi al governo per la prima volta. Dei partiti al governo, Degel Yisrael, Agudat Yisrael e Shas sono esplicitamente antisionisti.
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ministro ungherese per le Chiese, le minoranze e gli affari civili, nel quale si intravedeva la condivisione di una sorta di modello nazional-imperiale: un territorio statuale è segnato dalla chiara presenza di un ceppo dominante, con le minoranze subordinate. Tutto da vedere se e come si possa tradurre tale progetto sul piano giuridico. Certo le formule non mancano. Per compiere questa svolta non servono dichiarazioni di principio, basta seguire un copione ampiamente collaudato: antidemocratici diventano coloro che non rispettano il voto popolare, illiberali coloro che non rispettano identità diverse dalla propria anche se repressive nei confronti delle libertà altrui (perfetta applicazione dell’antico paradosso della tolleranza per cui chi tollera deve tollerare anche chi tollerante non è), chi protesta nelle piazze è trasformato in un anarchico che mette a repentaglio l’ordine dello Stato (anarchistim è l’epiteto più usato dalla compagine di governo nei confronti dei contestatori). Oggi si può essere illiberali continuando a professarsi democratici. In fondo, un ritorno alle origini, quando i due termini rappresentavano visioni in conflitto. Progetto perseguibile, basta solo far sfogare un po’ gli animi e aspettare che il tempo riassorba il trauma. Non è una scommessa folle nemmeno se vista dall’interno. Ancora una volta, Bibi pare aver annusato i cambiamenti sociali meglio di tutti. Un’indagine del 2022 dell’Israel Democracy Institute ha mostrato che, di fronte alla scelta fra ebraicità e democraticità dello Stato, solo il 26% degli ebrei israeliani ha optato per la seconda. A questo vanno aggiunte le decine di migliaia di aliyot dalla Russia, dall’Ucraina e dalla Bielorussia dopo lo scoppio della guerra ucraina. Gli ultimi dati rilevano un incremento degli arrivi da quei paesi del 434% rispetto al gennaio-febbraio 2022. Nuovi immigrati che è certo non porteranno nel paese grandi sensibilità liberali. Film già visto negli anni Novanta. Il problema è che tutti questi obiettivi sembrano collidere con la traiettoria geopolitica seguita da Israele negli ultimi anni e fortemente promossa dallo stesso Netanyahu. 2. Il vero punto di contraddizione del progetto post-sionista sembra essere il posizionamento internazionale dello Stato. Le pretese di stampo suprematista degli alleati di Netanyahu, condite da dichiarazioni estremiste tipiche di chi non ammette compromessi con qualsivoglia logica diplomatica, rischiano di mettere in crisi i nuovi rapporti col mondo arabo. In particolare inducono una forte pressione sugli accordi di Abramo firmati nel 2020 prima con gli Emirati Arabi Uniti e poi con Bahrein e Marocco. Accordi che agli occhi degli Stati Uniti, che li hanno promossi, rappresentano l’unico strumento rimasto per garantire una qualche forma di stabilità in un’area geografica da cui vogliono fuggire al più presto per concentrare i propri sforzi sull’Indo-Pacifico. Il tutto proprio nel momento in cui si erano registrate aperture da parte dell’Arabia Saudita (per molti vera destinataria dell’accordo fin dal principio), quantomeno a partire dal giugno scorso, quando per la prima volta nella storia aprì i propri spazi aerei a un aereo proveniente da Israele per favorire l’arrivo del presidente americano Joe Biden che si trovava a GerusaCopia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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lemme. Solo la prima tappa di un percorso che più di recente ha visto delle vere e proprie aperture diplomatiche 3. Lo stesso Netanyahu è consapevole del rischio. Lo dimostrano le interviste a emittenti statunitensi e saudite in cui si è prodigato dal giorno successivo alla formazione del governo, quando ha presentato la nuova dottrina di politica estera estera israeliana. Dapprima alla Cnn, dove, con il fascino mediatico che gli è proprio, ha ribadito la sua fede democratica scaricando sull’opposizione incapace di rispettare la volontà popolare le pulsioni illiberali che gli vengono attribuite, per poi proporsi come garante della collocazione internazionale dello Stato. Come a dire: non vi preoccupate, ci penso io. Poi, con un lungo intervento ad Al Arabya, in cui ha rimarcato la volontà di rafforzare ulteriormente i nuovi legami diplomatici, proponendo un’inversione di marcia alle relazioni arabo-israeliane: non più cercare la pace col mondo arabo attraverso l’accordo coi palestinesi, ma raggiungere il riconoscimento diplomatico col mondo arabo per costringere i palestinesi a un accordo (obtorto collo). Un capolavoro propagandistico che mira a isolare i palestinesi presentandoli come un ostacolo alla costruzione di un fronte compatto contro il nemico comune Iran, che sa benissimo agitare i sonni sauditi con ben più forza della spinta amorosa verso quello che il mondo arabo fatica ancora a considerare un popolo. Questa strategia ha mostrato parecchie crepe, posto che fin dall’insediamento del nuovo governo sul fronte americano c’è stato un crescendo di dichiarazioni e prese di distanza che hanno superato di molto il caratteristico bon ton diplomatico. A maggior ragione fra paesi alleati. Dopo le rimostranze nei confronti dei piani di espansione in Cisgiordania, antecedenti alla formazione del governo, sono arrivate parole durissime contro le dichiarazioni del ministro delle Finanze, con delega ad personam alla gestione della sicurezza in Cisgiordania, Bezalel Smotrich, che noi definiremmo ultrafalco del partito sionista religioso. Le dichiarazioni di Smotrich sono state interpretate come legittimazione del pogrom di Õuwwåra consumatosi poche ore dopo. Washington le ha definite «ripugnanti, irresponsabili e disgustose». La marcia indietro successiva non è parsa delle più convincenti 4. Va inoltre rimarcata la sempre maggiore distanza che si consuma con la diaspora a stelle e strisce, che può fare pressione diretta sull’ebreo newyorkese Antony Blinken. Particolare non trascurabile. Più delle parole contano i fatti: il 20 febbraio gli Usa hanno votato a favore di un Presidential Statement presentato dagli Emirati Arabi Uniti in sede Onu, in cui si legge che «il Consiglio si oppone fermamente a tutte le misure unilaterali che impediscono la pace, tra cui la costruzione e l’espansione degli insediaCopia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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3. A inizio del marzo scorso, il governo saudita si è detto disponibile a aderire agli accordi in cambio di garanzie su difesa e nucleare civile (leggi: capacità di sviluppare una propria bomba atomica in contrasto a quella iraniana) da parte di Israele e Stati Uniti. 4. Dopo l’assassinio dei due giovani coloni israeliani da parte dei palestinesi, Smotrich aveva detto che Õuwwåra meritava solo di essere spazzata via dalla mappa geografica. A seguito del pogrom e delle reazioni internazionali, giunte persino alla richiesta delle revoca del visto alla vigilia del suo viaggio negli Usa, il ministro ha tentato di correggere il tiro affermando che, seppur Õuwwåra meriti quel destino, dovrebbe essere l’Idf a occuparsene, non la popolazione civile.
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menti da parte di Israele, la confisca della terra dei palestinesi e la «legalizzazione» degli avamposti degli insediamenti». Pare che l’intenzione degli Eau fosse presentare una mozione (legalmente vincolante), poi declassata a dichiarazione presidenziale proprio per permettere agli Stati Uniti di appoggiarla. L’intervento della rappresentante Usa Linda Thomas-Greenfield lascia pochi dubbi sui motivi dell’attuale distanza fra i due alleati: «Queste misure unilaterali esacerbano le tensioni. Danneggiano la fiducia tra le parti. Minano le prospettive di una soluzione negoziata a due Stati. Gli Stati Uniti non supportano queste azioni. Punto». In tutto questo, Biden non ha ancora incontrato Netanyahu, che si è dovuto accontentare di una assai tardiva conversazione telefonica datata 19 marzo. Alle preoccupazioni americane si sommano quelle dei partner europei, sia sul fronte politico sia intellettuale. Il primo a rompere il silenzio, secondo una prassi consolidata all’interno dei confini del Vecchio Continente, è stato il presidente francese Emmanuel Macron, che dopo aver incontrato Netanyahu a fine gennaio ha rilasciato un’intervista a Le Monde in cui ammoniva l’alleato rispetto ai piani di espansione degli insediamenti. Poi è stata la volta della ministra degli Esteri tedesca Annalena Baerbock, la quale, durante una seduta congiunta col suo omologo israeliano Eli Cohen, ha ampliato la critica all’intero progetto neo-identitario e nazionalista del nuovo governo dello Stato ebraico. Baerbock ha aperto una breccia in cui si sono inserite le più o meno radicali sinistre europee, che hanno subito calendarizzato per il 14 marzo una seduta parlamentare dedicata al «Deterioramento della democrazia israeliana e le sue conseguenze sui territori occupati». Anche in questo caso sono importanti le sfumature: le critiche sono esplicitamente rivolte alla strategia dell’attuale governo, non al progetto sionista in quanto tale. L’obiettivo è Netanyahu, non Israele in sé, come ancora ci si sarebbe potuti aspettare pochi anni fa. Elemento che possiamo riscontrare anche nelle parole di una parlamentare della sinistra radicale spagnola come Ana Miranda, che nel 2015 partecipava alle proteste a Gaza organizzate dalla Freedom Flotilla e oggi sembra voler costruire un ponte con i manifestanti israeliani, a suo dire ostaggio del governo quanto i palestinesi. La risposta di Bibi ricalca quanto visto sopra a proposito della politica interna: mettere gli alleati di fronte al fatto compiuto, confidando che né gli arabi vogliano immolarsi per i palestinesi – tanto più che ha offerto loro la piattaforma retorica a supporto della nuova strategia – né gli occidentali siano disposti a perdere un partner strategico come Israele. Anche in questo caso, strategia ben collaudata da Viktor Orbán e ancor più da Recep Tayyip Erdoãan. Così, agli annunci di espansione sono seguiti i fatti, del resto già iniziati all’indomani della formazione del governo col ripristino della yeshivat Homesh, luogo simbolo già al centro di un contenzioso pluriennale con la Corte suprema e sgomberata una dozzina di volte da Tzahal. A inizio febbraio il governo ha presentato il suo piano in Cisgiordania. Netanyahu intende procedere con la costruzione di diecimila nuove unità abitative e avviare la normalizzazione di nove avamposti già ritenuti illegali dalla legge israeliana. Al comunicato congiunto in cui i ministri di Gran Bretagna, Francia, GermaCopia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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nia, Italia e Stati Uniti hanno dichiarato la loro ferma opposizione al piano, Netanyahu ha risposto con generiche rassicurazioni sull’intenzione di fermarsi qui. Vedendo le continue richieste dei suoi alleati, il dubbio resta. La pressione nei confronti dei partner internazionali è accentuata dalle ripetute strizzate d’occhio alla Russia. Appena insediatosi, Netanyahu ha esplicitamente dichiarato che il suo governo avrebbe parlato meno del conflitto ucraino, stretto com’è fra l’incudine di un’opinione interna favorevole al paese invaso e il martello dell’esigenza di sicurezza rispetto agli avamposti iraniani in Siria, nei cui cieli Putin ha spesso concesso spazio alle scorribande israeliane. La presenza, in febbraio, di Eli Cohen in Ucraina per incontrare il suo omologo Kuleba e il presidente Zelens’kyj non ha sbloccato l’impasse riguardante la cessione dell’agognato Iron Dome. La posizione è stata ribadita da Netanyahu stesso in una recente visita in Germania al cospetto del cancelliere Olaf Scholz, che tentava di persuadere l’alleato a schierarsi apertamente col fronte occidentale. Potrà l’Occidente, ancor più nel nuovo quadro geopolitico post-24 febbraio 2022, lasciare che Israele si sposti nell’orbita russa? Qualcuno potrebbe sottolineare la contraddizione di abbracciare Mosca alleata di Teheran, ma perché non immaginare proprio Putin garante dello sviluppo nucleare iraniano? Non con accordi di sorta, vecchi strumenti occidentali, ma imponendo rapporti di forza. Il ricatto del governo israeliano ha un suo senso. A intricare ancor più la matassa ci si è messo l’attivismo cinese, capace di tirare fuori dal cilindro un finora impensabile accordo Iran-Arabia Saudita, che non può non investire Israele. Anche qui le cose sono più complesse di come appaiono. È vero che l’accordo sembra incrinare l’asse di ferro anti-Iran costruito dagli accordi di Abramo, ma potrebbe anche essere vissuto come garanzia di stabilità dell’area, con un ulteriore controllo sull’agenzia atomica iraniana. La partita è aperta e molto dipenderà dalla necessità di Netanyahu di rispondere alla crisi interna additando un nemico esterno per compattare la nazione. Oltre, naturalmente, all’evoluzione dell’ancor più instabile situazione nell’antica Persia. Si scommette, comunque, sulla necessità saudita di rimanere ancorata al fronte occidentale, che pare confermata dall’accordo firmato con la Boeing (il terzo più grande nella storia della compagnia) immediatamente dopo i patti siglati con la Repubblica Islamica. Intanto Bibi, incurante delle contestazioni che lo assediano ovunque metta piede, si è lanciato in un tour fra le diverse cancellerie europee, anche qui seguendo un copione già scritto da altri. In che modo? Proponendosi come paese venditore di cui è difficile fare a meno. In Italia parlando di gas, in Germania cedendo direttamente lo scudo antimissile Arrow 3 negato all’Ucraina, ben conscio della fame di armamenti tedesca. Il tutto senza far mancare il peso della memoria che lega i due popoli. Almeno tre lezioni di carattere generale possiamo trarle da questo quadro così intricato. A) Gli americani non sono più in grado di imporre una politica in Medio Oriente. E ci si chiede dove. B) Nemmeno i cinesi hanno la forza di farlo. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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C) Ogni attore gioca su più tavoli perseguendo obiettivi dell’istante, incurante delle proprie contraddizioni strategiche. 3. Ma l’opposizione israeliana, in questo quadro? Lapid e Gantz si sono calati bene nella parte dei capi del «Comitato di liberazione nazionale» che si crea sempre in simili circostanze. Sono attivissimi sul piano della comunicazione, fra i manifestanti nelle strade, spesso a rassicurare i cittadini sulla capacità di resistenza del paese ai tentativi autoritari. Gli strumenti per ribaltare la situazione non possono certo essere questi. C’è però un fatto a cui nessuno ha dato rilievo, ma che può non essere irrilevante. Appena insediatosi il nuovo governo, Lapid, lo stesso che al termine del suo mandato rispolverò in sede Onu la soluzione dei due Stati, ha deciso di partire per una settimana di vacanza a Parigi, guarda caso nel paese europeo che più si è speso nel criticare il nuovo esecutivo israeliano. Gantz lo ha protetto dalle critiche, annunciando anche per sé stesso un viaggio di riposo. Possibile che due leader che hanno gridato in ogni dove al pericolo democratico si concedano il lusso di una vacanza in un momento così delicato per la storia del paese? Quantomeno strano. Se poi si mettono in fila le continue contestazioni organizzate dagli israeliani residenti all’estero che Netanyahu riceve in tutti i paesi occidentali (Parigi, Roma, Berlino, Londra, New York), dove, in sua assenza, si manifesta davanti alle ambasciate e ai consolati israeliani, sembrerebbe di intravedere un coordinamento. Insomma, tra disordini interni, scontri fra poteri dello Stato e leader dell’opposizione che flirtano con governi stranieri per organizzare forme di resistenza, pare ci siano tutti gli ingredienti perché Israele si avviti in una crisi interna che lo renderà zoppo sul piano strategico mentre il Medio Oriente sta cercando forme di stabilità nel nuovo quadro geopolitico imposto dalla crisi ucraina e dal confronto Washington-Pechino. Che il tragitto venga deviato da Netanyahu appare assai improbabile. Che siano i suoi alleati, ancor meno. Compromessi con l’opposizione non paiono credibili. Anche il piano presentato dal presidente Herzog non poteva avere sbocchi: tutto fa pensare che la coalizione governativa rifiuterà necessariamente ogni soluzione che non preveda la subordinazione della Corte suprema all’esecutivo. Allora, tanto valeva non fare neppure il governo. Così come chimere sembrano i progetti di una costituente: non si capisce dove sia l’ampia convergenza parlamentare per operazioni di simile portata. L’unica opzione è che qualcuno del Likud decida di abbandonare il premier al suo destino, mettendo in conto di essere tacciato come traditore della patria. Un segnale in tal senso, cui Netanyahu ha opposto un’inusitata reazione, è giunto dal primo passaggio parlamentare della riforma giudiziaria, approvata per un solo voto a causa della defezione del parlamentare del Likud Yuli Edelstein, che si aggiungeva alle assenze di due ministri per viaggi all’estero già programmati. Non è un bel clima quello in cui Israele si appresta a celebrare il suo 75° anniversario. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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LA MEMORIA DELLA SHOAH È IL PILASTRO DELL’IDENTITÀ DI EBREI E ISRAELIANI di Anna Maria COSSIGA L’inesauribile dibattito su chi sia parte della famiglia ebraica e della comunità israeliana. Le interpretazioni religiose non coincidono con quelle dello Stato ebraico. Oggi è decisivo il ricordo del massacro hitleriano. Perché Israele continuerà a esistere.
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1. UANDO NEL 1948, DOPO LA NASCITA di Israele, la guerra tra il neonato Stato ebraico e i vicini arabi era sul punto di scoppiare in tutta la sua tragicità, Hannah Arendt scrisse un articolo in cui prevedeva la sconfitta degli ebrei e proponeva con enfasi, come unica soluzione razionale, uno Stato binazionale in cui i popoli palestinese ed ebraico potessero vivere in pace. Ciò che più la colpiva, e che criticava aspramente, era l’improvvisa unanimità di intenti di tutti gli ebrei: quelli di Palestina e gli americani, i sionisti socialisti e i revisionisti, le associazioni e le istituzioni che l’avevano pensata diversamente durante il lungo processo che dallo yishuv aveva condotto alla creazione dello Stato ebraico. Nel 1948, prima dello scoppio di quella che Israele chiamerà guerra d’Indipendenza e i palestinesi Naqba, gli ebrei, tutti gli ebrei, erano dunque pronti a rischiare il tutto per tutto pur di avere uno Stato sovrano. L’unanimità di opinione, scrive la Arendt, è un fenomeno «particolarmente nefasto» che «tende a eliminare fisicamente coloro che la pensano in modo diverso, perché l’unanimità di massa non è il risultato di un accordo, ma un’espressione di fanatismo e di isteria» 1. Non si può che concordare con la Arendt, su questo aspetto. Ma le sue previsioni sul futuro dello Stato ebraico non si sono avverate. Israele è sopravvissuto alla guerra con gli arabi e anche all’unanimità di opinione. La posta in gioco, lo Stato, era troppo alta per rischiare di perderla per i conflitti interni all’ebraismo e al sionismo. Lo Stato ha vinto altre guerre, è diventato forte. È la patria riconquistata a cui guardano (guardavano?) gli ebrei del mondo. Ha affrontato molte vicissitudini ed è riuscito anche a normalizzare le relazioni con paesi contro cui ha combattuto e che non ne avevano mai riconosciuto la legittimità. Eppure, mai come adesso Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
1. H. ARENDT, «To Save the Jewish Homeland: There is Still Time», foreignaffairs.com, maggio 1948.
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sono state tanto evidenti la disparità di opinione e la divisione all’interno di Israele; tra Israele e la diaspora ebraica; tra gli stessi ebrei. Ciò che accade oggi è solo l’ultimo atto di un dramma che dura ormai da qualche tempo. Già nel 2015, alla Conferenza di Hertzliya, l’allora presidente Reuven Rivlin aveva parlato con preoccupazione di quattro tribù all’interno della società israeliana: i laici, i nazional-religiosi, gli ultraortodossi e gli arabi. Le differenze tra questi quattro gruppi, aveva avvertito il presidente, e la diversità delle loro idee su che cosa significhi essere israeliano e su quali valori debba basarsi lo Stato d’Israele potrebbero creare un vero e proprio scisma nel paese 2. L’invito all’unità e al dialogo di Rivlin, però, non è stato ascoltato. La frattura tra le tribù, e tra Israele e la diaspora, si è fatta sempre più profonda. La controversa riforma sulla giustizia proposta dal governo Netanyahu fa discutere, dentro e fuori dal paese, sulla futura democraticità dello Stato ebraico, mentre la proposta modifica della legge del ritorno in base alla halakhah, la legge religiosa ebraica, che considera ebreo solo chi è nato da madre ebrea o chi si è convertito nell’ortodossia ebraica, crea preoccupazione tra gli ebrei americani, in larga maggioranza appartenenti all’ebraismo riformato e conservatore, e tra quelli russi e delle repubbliche ex sovietiche, che hanno e hanno avuto diritto alla cittadinanza israeliana in quanto nipoti di un nonno o di una nonna ebrei. Grande scalpore hanno destato le parole di Abe Foxman, direttore dell’Anti-Defamation League per quasi trent’anni, scampato alla Shoah e da sempre sostenitore di Israele «senza se e senza ma». In un’intervista al Jerusalem Post ha dichiarato che «se Israele diventerà uno Stato fondamentalista religioso, uno Stato basato sul nazionalismo teocratico», il 70% dell’ebraismo mondiale se ne distaccherà. Lui stesso non potrà più appoggiare Israele in modo incondizionato, anche perché se le proposte di legge dei partiti ultrareligiosi e ultranazionalisti che fanno parte dell’attuale governo passassero non verrebbe più considerato ebreo 3. Anche la diaspora, che lo stesso Rivlin ha definito «quinta tribù» 4, fa sentire, alta, la propria voce. Non solo quella americana, la più numerosa al mondo. Di recente, durante la visita di Netanyahu in Italia, si è tenuto un incontro con la comunità ebraica di Roma, alla presenza del rabbino capo Riccardo Di Segni, della presidente della comunità romana Ruth Dureghello e di quella delle Comunità ebraiche in Italia, Noemi Di Segni. Quest’ultima non ha avuto alcuna riserva nell’esporre al premier israeliano le proprie posizioni su ciò che accade in Israele e sugli effetti che questo ha sull’ebraismo mondiale. Senza dare giudizi sulla natura della dibattuta riforma giudiziaria, Di Segni ha dichiarato: «Non posso evitare di condividere un profondo senso di preoccupazione per le crescenti divisioni in Israele». Inoltre, senza menzionare il nome della cittadina di Õuwwåra, attaccata di recente dai coloni israeliani in quello che è stato definito «un pogrom», ha aggiunto che Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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2. A. LEWIS, «Tribal schisms tearing Israel apart, Rivlin cautions», timesofisrael.com, 7/6/2015. 3. Z. KLEIN, «Former ADL director says he won’t support non-democratic Israel – exclusive», jpost.com, 1/12/2022. 4. R. JACOBS, «President Rivlin Outlined Israel’s «Four Tribes», and Embraced a Fifth: Diaspora Jews», haaretz.com, 1/7/2021.
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l’espressione dell’odio contro i propri vicini, a qualunque gruppo appartengano, dando fuoco alle case, distruggendo la proprietà altrui e applicando una giustizia fai da te «non può essere considerato un comportamento orgogliosamente ebraico». Lo stesso vale se «nel nome dell’identità ebraica si ricorre al terrore o si risponde al dolore e al lutto con la violenza individuale o con la legittimazione politica di tali atti di violenza» 5. 2. Da quanto sta accadendo in quest’ultimo periodo, però, sembra che non tutti gli israeliani e non tutti gli ebrei siano d’accordo su che cosa sia un comportamento orgogliosamente ebraico o israeliano, né su che cosa implichi avere un’identità ebraica. Vero è che la discussione e il dibattito sono, da sempre, l’anima dell’ebraismo. Chi conosca anche poco il Talmud sa che, sulla stessa pagina, discutono, e spesso litigano, i più grandi maestri ebrei di tutti i tempi. Un antico detto di origine ebraica recita: «Due ebrei, tre opinioni». Tuttavia, non ci sembra di ricordare, nella storia dello Stato d’Israele e dei suoi rapporti con la diaspora, dissidi tanto aspri e tanto pubblicamente proclamati quanto gli attuali. La discussione sull’identità ebraica è probabilmente antica quanto gli ebrei stessi. Sull’argomento sono state scritte migliaia di pagine e organizzati altrettanti convegni. Come affermava A.B. Yehoshua, uno dei maggiori scrittori israeliani, «in generale pare che nessun altro popolo si preoccupi tanto di chiarire e di definire la propria identità come quello ebraico» 6. Ma oggi, chi è ebreo e su che cosa basa la propria «ebraicità»? E quella ebraicità è la stessa per l’ebreo israeliano? La domanda, che in ambito ebraico ci si pone da tempo immemorabile, è ancora in attesa di una risposta definitiva, anche se molte ne sono state già date. Secondo la halakhah attesa è ebreo chi ha madre ebrea e chi si converte secondo la tradizione dell’ebraismo ortodosso. Quando a rispondere è lo Stato d’Israele – che deve decidere a chi concedere la cittadinanza – è invece ebreo «chi ha un genitore ebreo, almeno un nonno ebreo, è coniuge di un ebreo/a o di chi ha nonni ebrei, si è convertito all’ebraismo, anche se non nella tradizione ortodossa, e non ha cambiato volontariamente la propria religione» 7. Queste, però, sono risposte esclusivamente formali, «fredde», una in base alla legge religiosa, l’altra a quella statale. Quando Sigmund Freud ha posto a sé stesso la domanda, ecco qual è stata la risposta: «Né la fede né un sentimento di orgoglio nazionale sono bastati a legarmi all’ebraismo. (…) Altri elementi gli hanno dato una forza d’attrazione a cui per me è impossibile resistere: forze occulte, sentimenti indefinibili a parole e proprio per questo potenti; e anche la consapevolezza di possedere un’identità interiore, una struttura dell’anima comune a tutti gli ebrei» 8. A.B. Yehoshua è arrivato a sostenere che «è ebreo chi si identifica come ebreo», in Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
5. A. MOMIGLIANO, «Netanyahu Meets Italy’s Far-right PM Meloni in Rome, Gets Chilly Reception From Jewish Community», hareetz.com, 11/3/2023. 6. A.B. YEHOSHUA, Il labirinto dell’identità, Torino 2009, Einaudi, p. 6. 7. «The Law of Return», jewishagency.com. 8. C.t. in A.B. YEHOSHUA, Il labirinto dell’identità, Torino 2009, Einaudi, p. 7.
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base, addirittura, a una «libera scelta» 9; dunque, ci pare voglia intendere, è ebreo chi si sente tale. L’identità non può essere definita in termini legali senza tenere conto anche dei sentimenti dell’individuo. L’identità collettiva è il «sentimento di appartenenza» che ci lega a individui che provano lo stesso sentimento: quello di far parte di un gruppo allargato di persone che hanno le stesse usanze, gli stessi valori, le stesse norme, le stesse credenze, lo stesso sistema simbolico, la stessa visione del mondo. Persone cioè che hanno la stessa cultura. Il concetto di cultura è complesso e andrebbe discusso approfonditamente. Ma lo useremo in questa sede nel senso comunemente accettato, non dimenticando, però, che la cultura non è un monolite che resta sempre uguale a sé stesso. Ogni società sviluppa una forma di esistenza culturale che è «il risultato di processi a essa propri ma, al tempo stesso, di influenze indotte dalla presenza di altre culture». Ogni società è «in grado di assorbire, rielaborare o rifiutare in base alle proprie premesse culturali e alle proprie strutture sociali» 10 tali influenze. La cultura, dunque, cambia nel tempo per dinamiche «dal di dentro» e «dal di fuori», nelle parole dell’antropologo francese Georges Balandier 11. Ogni cultura, inoltre, sviluppa quella che l’egittologo Ian Assmann ha definito la propria «struttura connettiva», attraverso la quale crea collegamenti a livello sociale e temporale. Essa collega ciascun individuo all’altro «creando uno spazio comune di esperienze, di attese, di azioni e di comportamenti». Ma lega anche il passato al presente, «modellando e mantenendo attuali le esperienze e i ricordi fondanti», includendo storie di un altro tempo nell’attualità, in modo da generare speranza e ricordo. L’identità, dunque, si basa su regole e valori comuni e su un passato condiviso, la cosiddetta «memoria culturale »12. Il passato della memoria culturale, però, non è la storia come la intendiamo normalmente. Si tratta piuttosto di narrazioni collegate a eventi simbolici, che chiamiamo «figure di ricordo» e che vengono raccontate «per chiarire il presente alla luce del passato» 13. La memoria culturale trasforma tali ricordi in «miti» che, in questo caso, non significano «storie false», ma storie fondanti. Che i fatti narrati siano storicamente accaduti o meno non ha importanza ai fini della memoria culturale e della creazione dell’identità: ciò che importa è che essi sono considerati fondamentali da chi li racconta. Le figure di ricordo hanno una valenza sacra e creano le basi dell’identità di coloro che ricordano 14. Senza memoria culturale, dunque, non vi è identità di gruppo. Le risposte «fredde» della halakhah e dello Stato d’Israele non fanno alcun riferimento al sentimento di appartenenza, né alla memoria condivisa, né a quelli che definiamo gli «elementi» di una cultura. Per quanto riguarda la cultura ebraica, Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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9. A.B. YEHOSHUA, Ebreo, israeliano, sionista. Termini da precisare, Roma 2000, Edizioni e/o, p. 31. 10. U. FABIETTI, L’identità etnica. Storia e critica di un processo equivoco, Roma 2013, Carocci p. 45. 11. Ibidem. 12. I. ASSMANN, La memoria culturale, Milano 1997, Einaudi, pp. XII-XIII. 13. Ivi, p. 27. 14. Ibidem.
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enunciarli è effettivamente forse più complesso che per altre culture. Essere ebrei è una questione di religione, di appartenenza etnica, di patrimonio familiare, di usanze o di che cosa? Quando si domanda agli ebrei che cosa significhi, per loro, essere ebrei tendono a non avere una risposta singola e uniforme. Per dirla con Yehuda Bauer, studioso della Shoah e già direttore dell’International Center For Holocaust Studies allo Yad Vashem, tra gli ebrei non vi è «un’interpretazione comune del sé» 15. Oltre alle ragioni intrinseche alla cultura ebraica, poi, non bisogna dimenticare che gli ebrei diasporici hanno certamente acquisito, e rielaborato, leggi e costumi delle società in cui vivevano. Ci pare comunque che, per quanto molto fluida, tale identità, sia essa basata sulla fede o laica, non abbia mai abbandonato uno stretto legame con il sacro, o con la religione se si preferisce 16. È stato infatti il rapporto speciale tra Dio, Abramo e i suoi discendenti a dare in eredità al popolo ebraico Eretz Yisrael, la protagonista della storia e della memoria culturale ebraica. E anche nelle varie elaborazioni della Shoah che hanno accompagnato la «ricostruzione» dell’identità ebraica dopo la tragedia, «nessuna va più in profondità di quella che attinge il proprio linguaggio e il proprio immaginario dalle fonti classiche dell’identità ebraica che, a dispetto di ogni processo di secolarizzazione, era e rimane un’identità religiosamente connotata» 17. 3. Alla già complessa realtà dell’identità ebraica si è aggiunta, proprio con il ritorno alla Terra dei Padri e la nascita di Israele, la nazionalità israeliana degli ebrei di quello Stato. Tale nazionalità non significa soltanto avere un passaporto, ma implica un sentimento di appartenenza che include una lingua comune e, forse soprattutto, la consapevolezza di condividere un territorio comune, un territorio vero, e non più solo il sogno di farvi ritorno. Torniamo quindi alla memoria culturale ebraica, arricchita di quella nazionale israeliana le cui figure del ricordo sono parte integrante di quelle ebraiche già esistenti. Sono molte le memorie condivise tra le due identità, alcune tramandate dalla tradizione religiosa ebraica, altre dalla storia del popolo ebraico e dello Stato d’Israele nel senso «scientifico» e non culturale del termine. Ecco qualche esempio: la chiamata di Abramo, l’esodo dall’Egitto, il patto del Sinai e la conquista della Terra di Israele fanno parte del primo gruppo e anche chi non è ebreo ha con esse una certa familiarità. La distruzione dei due Templi, che diede inizio alla realtà della diaspora, le crociate, la cacciata degli ebrei dalla Spagna nel 1492, la Shoah, le guerre arabo-israeliane e quelle con il Libano sono fatti storicamente comprovati e più che noti anche ai non ebrei. Alcune delle memorie religiose sono meno note ai non ebrei e narrano il rischio di annientamento: la storia di Amalek che, all’ingresso del popolo ebraico in Terra d’Israele, lo attaccò con la volontà di Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
15. Intervistato da A. GOLDBERG, «Jewish Identity after the Holocaust», yadvashen.org, 18/1/1998. 16. Su questo punto, vedi A.B. YEHOSHUA, ll labirinto dell’identità, cit. 17. M. GIULIANI, Le terze tavole. La Shoah alla luce del Sinai, Bologna 2019, Edizioni Dehoniane, p. 135. Il libro di Giuliani è una panoramica delle voci sulla Shoah, spesso discordanti, di grandi pensatori ebrei, nonché una riflessione «sull’identità ebraica moderna, ad ogni latitudine» (p. 162) e sulle più o meno positive modalità di ricordare l’Olocausto.
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distruggerlo e che Dio ha comandato agli ebrei di ricordare 18; e quella di Aman, nella megillah (rotolo e libro) di Ester e ricordata nella festa ebraica di Purim, che tenta di convincere il re Assuero ad annientare il popolo ebraico: «Esiste un popolo sparso e disseminato tra le nazioni, in tutte le province del tuo regno, le loro leggi sono differenti da quelle di ogni altro popolo e non adempiono alle leggi del re e il re non trae vantaggio dal tollerarlo. Se al re piace, sia scritto di annientarli» 19. Proprio Ester, ebrea e moglie di Assuero, convincerà il re a risparmiare il suo popolo. Tema ricorrente, in queste narrazioni, è quello del «Nemico» di Israele, personaggio archetipico via via identificato con il faraone che non vuole lasciar partire gli ebrei dall’Egitto, con Amalek, con Aman e con altri personaggi biblici. La cosa interessante è che questo «Nemico» assume anche le sembianze di personaggi storici: i babilonesi che hanno distrutto il primo Tempio, i romani che hanno distrutto il secondo, i crociati, i sovrani di Spagna che hanno espulso gli ebrei dal proprio territorio e i nazisti, gli ultimi persecutori, gli autori della Shoah 20. 4. Sul massacro di sei milioni di ebrei perpetrato da Hitler proponiamo una riflessione particolare, proprio in relazione alla memoria culturale e all’identità. Ciò che vogliamo suggerire è che la memoria dell’Olocausto sia diventata un elemento «più fondamentale» di altri per l’identità ebraica contemporanea. Forse l’unico, in un momento storico altamente conflittuale per gli ebrei, siano essi diasporici o cittadini dello Stato d’Israele, a tenere unito un mondo ebraico in trasformazione. La Shoah, dunque, come punto forte e duraturo di una struttura connettiva le cui trame sembrano farsi sempre meno fitte. L’unico che, in questo momento, tiene uniti ashkenaziti e sefarditi 21; sionisti, antisionisti e asionisti; israeliani e membri della diaspora; religiosi e laici; di destra, di centro e di sinistra. E questo non per dire che l’identità ebraica sia ridotta, ormai, a un’identità di vittime. Né che l’unica cosa che lega il popolo ebraico sia l’abominio delle stragi naziste. Tutt’altro. La nostra è una tesi offerta da chi ebreo non è, sviluppata però in continuo dialogo con chi di quell’identità si sente detentore, che sia un pensatore, un filosofo, un autore o un ebreo «comune». Ciò che vogliamo fare è guardare alla questione con sguardo antropologico, cercando di cogliere, per usare le parole di Bronisław Malinowski, il punto di vista della cultura che analizziamo. Dopo la fine della seconda guerra mondiale, e per lungo tempo, è sembrato doveroso non parlare né scrivere degli orrori perpetrati dal nazismo contro gli ebrei. Quasi fosse inopportuno, per alcuni persino vergognoso, cercare di esprimere «l’indicibile». «Pensare la Shoah», con il tempo, è stato non solo possibile ma Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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18. Deuteronomio (Devarim, in ebraico) 25, 17-19. «Ricordati di quel che ti fece Amalek, durante il viaggio, quando uscisti dall’Egitto. Egli ti attaccò per via, piombando da dietro su tutti i deboli che camminavano per ultimi, quando eri già stanco e sfinito e non ebbe alcun timore di Dio». 19. Ester, 3,8. 20. Su questo punto vedi, tra gli altri, M. GIULIANI, op. cit., p. 158. 21. Chi scrive ammette di non aver considerato la questione dei mizrahim, gli ebrei originari dei paesi arabi, durante il periodo della Shoah. Le fonti in merito sono piuttosto scarse, anche se è noto il campo di concentramento di Giodo, nella Libia italiana, in cui morirono di stenti e di malattie 526 ebrei.
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necessario. Le interpretazioni dell’accaduto sono diventate numerose e spesso in conflitto tra loro, come è d’uso nella tradizione ebraica. Ne hanno parlato i testimoni, poi teologi, filosofi e scrittori. Si è parlato di assenza di Dio, di nascondimento del Suo volto, ma anche di «nuovo inizio», di uno «sforzo collettivo» da parte «del giudaismo contemporaneo, in tutte le sue diverse correnti religiose e laiche, per “ricomporre l’infranto”» 22. In questo tentativo, «la riflessione di Emil L. Fackenheim» – filosofo tedesco riparato in Canada nel 1939 – «ha contribuito a fare di Auschwitz un momento costitutivo dell’identità ebraica» 23. «La voce di Auschwitz», scrive il filosofo tedesco, «comanda all’ebreo religioso di continuare a lottare insieme al suo Dio (…); proibisce all’ebreo secolare di usare Auschwitz come uno strumento ulteriore per negare Dio. La voce di Auschwitz comanda l’unità ebraica» 24. Gli ebrei, secondo Fackenheim, «non hanno il diritto di concedere a Hitler delle vittorie. Essi hanno il dovere di sopravvivere in quanto ebrei» 25. Questo hanno fatto nella diaspora e in Israele. Sembra dunque che il ricordo della Shoah possa essere definito con una certa sicurezza «un potente fattore identitario» e che la sua memoria sia «servita da risveglio e da scatto d’orgoglio, da tassello storico di un’identità in ridefinizione» 26. Non meno fondamentale tale ricordo è per l’identità nazionale israeliana. La Shoah è menzionata nella Dichiarazione d’indipendenza, che ricorda l’importanza della ricostruzione di uno Stato ebraico in Eretz Yisrael, dopo il massacro di milioni persone, quale rifugio e patria degli ebrei del mondo. Ricorda lo storico Georges Bensoussan che la Shoah in Israele «fa parte della storia nazionale (…) fa parte della storia del popolo ebraico e costituisce l’identità ebraico-israeliana». Ma l’Olocausto non è una storia di vittime condotte a morire senza possibilità di scelta: quei morti sono stati testimoni della propria appartenenza ebraica, ma nello stesso periodo altri ebrei hanno lottato da eroi contro il nazismo e i suoi alleati, come i rivoltosi del ghetto di Varsavia o coloro che si sono uniti alla resistenza nei territori occupati dalla Germania. Non a caso, in Israele la giornata in cui si ricorda l’Olocausto si chiama Yom haShoah vehaGvurah (Giorno della Shoah (distruzione) e dell’Eroismo (letteralmente «forza»). Esso viene celebrato una settimana dopo la fine di Pesach, la Pasqua ebraica, una settimana prima di Yom haZikaron, la giornata del ricordo dei soldati di Israele caduti in ogni guerra, a sua volta immediatamente seguita da Yom ha‘Atzmaut, la festa dell’Indipendenza dello Stato d’Israele 27. Succedersi simbolico di ricorrenze che coniuga l’uscita degli ebrei dall’Egitto, la prima «vittoria», le «sconfitte» e i morti, quelli causati dalla furia nazista e dalle guerre per la propria sopravvivenza, e la vittoria ultima, quella grazie alla quale lo Stato ebraico continua a esistere e a prosperare. Non da ultimo, ci sembra interessante ricordare, a ulteriore sostegno della nostra tesi, che in un sondaggio del 2020 del Pew Research Center il 72% degli Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
22. 23. 24. 25. 26. 27.
Ivi, p. 134. Cit. in D. DI CESARE, «Emil Fackenheim e l’identità ebraica», moked.it, 20/4/2009. Ibidem. M. GIULIANI, op. cit., p. 51. Ivi, p. 161. D. Bidussa in M. GIULIANI, op. cit., p. 164.
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intervistati ha affermato che ricordare l’Olocausto è una parte essenziale di ciò che per loro significa essere ebreo. Certo, si tratta del parere degli ebrei americani, che però sono la seconda comunità ebraica del mondo (circa 6 milioni) dopo quella di Israele (circa 7 milioni). Qualcosa di molto simile accade anche in Europa, dove secondo una ricerca condotta dall’Institute for Jewish Policy Research nel 2022 la maggior parte degli interpellati considera il ricordo dell’Olocausto – e la lotta all’antisemitismo – l’aspetto più importante del loro essere ebrei. Tutte quelle «figure del ricordo ebraiche» che, a una lettura superficiale, possono sembrare storie di «sconfitta», aprono, alla fine, a una «vittoria ebraica». Persino la Shoah. Ogni volta, il popolo d’Israele sopravvive e continua a esistere; nel caso della Shoah, poi riesce a tornare nella Terra dei Padri, da sempre agognata, e a costruire uno Stato ebraico 28. Che ci sia riuscito «a causa» della Shoah, o «nonostante» la Shoah è ancora materia di dibattito. Le culture mutano con il trascorrere del tempo, per cause interne ed esterne, e allo stesso modo può cambiare l’identità, sottraendo o aggiungendo tasselli alla propria struttura. La Shoah è l’ultimo, fondamentale tassello a essersi aggiunto a un sentimento d’appartenenza, quello ebraico, che A.B. Yehoshua ha definito, ci sembra a ragione, un «labirinto». Un tassello che, in questo momento storico di conflitti e di dubbi sulla natura stessa dello Stato ebraico, ci pare il più forte e fondante. 5. La rivista di geopolitica che ci ospita ha sempre dato grande importanza al fattore umano. Tale fattore non potrebbe esistere senza cultura, memoria e identità. E, per parlare di geopolitica, ci domandiamo: che cosa accadrà allo Stato d’Israele, in chiara crisi d’identità, sull’orlo di una crisi democratica e costituzionale e che potrebbe cessare di essere considerato la patria e il rifugio degli ebrei del mondo? Economisti, militari, servizi di intelligence e l’opposizione unita temono per la sua tenuta democratica e per la sua sicurezza, mentre l’Institute for National Security Studies (Inss) lancia per la prima volta nella sua storia un’allerta strategico, “per un profondo senso di responsabilità e con cuore pesante” 29. I suoi nemici si rallegrano per ciò che vedono accadere al suo interno e si augurano di vederlo scomparire. Il leader di Õizbullåh, Õasan Naârållåh, prevede con soddisfazione che lo Stato ebraico non celebrerà il suo 80° compleanno 30 e l’Iran – spesso considerato il nuovo Hitler – appare sempre più minaccioso, vicino com’è alla produzione di armi nucleari. Se poi le userà o meno contro Israele, rimane da vedere. Lo scenario che proponiamo, però, è positivo: il popolo ebraico ha continuato a esistere e a prosperare nonostante la Shoah. Israele è sopravvissuto e ha prosperato nonostante le guerre con gli arabi e le numerose minacce che ha dovuto e deve affrontare. Ci sembra assai improbabile che non riesca a sopravvivere ai conflitti al proprio interno e a quelli tra gli ebrei, suoi cittadini o no. Forse Israele cambierà, forse elaborerà una nuova narrazione da offrire a sé stesso e al mondo. Ma resterà. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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28. Certo, i palestinesi la vedono altrimenti, ma questo esula dai fini della nostra analisi. 29. “A Strategic Alert in the Wake of the Judicial Reform”, Inss, 21/3/2023. 30. «Gleefully picking up on Herzog warning, Nasrallah says Israel tearing itself apart», timesofisrael. com, 16/2/2023.
ISRAELE CONTRO ISRAELE
GLI EBREI D’AMERICA DIASPORA DISORIENTATA
di
Shaul MAGID
La vittoria della coalizione guidata da Netanyahu ha colto di sorpresa la comunità ebraica statunitense e messo in discussione il suo sistema valoriale. Lo storico rifiuto della tradizione apocalittica. Gli avvertimenti di Scholem. La patria lontana è sempre più distante.
N
1. EL NOVEMBRE 2022 IN ISRAELE SI È TENUTA la quinta elezione in meno di quattro anni. Ciascuna delle precedenti consultazioni aveva segnalato una decisa svolta a destra dell’elettorato, ma in nessun caso il risultato era stato abbastanza ampio da permettere ai leader dei due partiti principali, Binyamin Netanyahu e Yair Lapid, di formare una coalizione. Nella tornata di novembre, tuttavia, alcune formazioni politiche si sono fuse e altre si sono riorganizzate. In questo modo l’estrema destra è riuscita a stabilire una coalizione stabile sotto l’egida del Likud, il partito guidato da Netanyahu. L’unico schieramento autenticamente di sinistra, Meretz, non ha nemmeno raggiunto la soglia per entrare nella Knesset, il parlamento israeliano. Si è così formato il governo più di destra della storia del paese, causando un’onda d’urto che ha coinvolto tutto il mondo ebraico, anche fuori dai confini di Israele. Gli ebrei americani si sono dimostrati particolarmente spaesati. Naturalmente non mi riferisco a ogni membro della diaspora negli Stati Uniti, poiché qui si trova quasi la metà degli ebrei a livello mondiale, dagli ultraortodossi ai laici. La maggior parte sostiene Israele in qualche modo. Alcuni sono antisionisti. Altri sono favorevoli all’attuale governo di destra, specialmente coloro che si identificano come sionisti. In ogni caso, gli esiti delle ultime elezioni pongono delle sfide per l’ebraismo negli Stati Uniti. Potrebbe infatti acuirsi la distanza tra molti ebrei americani – per lo più liberali o centristi sostenitori dello Stato d’Israele – e il governo Netanyahu. Inoltre, assumendo un punto di vista più speculativo, le radici storiche dell’ebraismo americano potrebbero impedire ai suoi appartenenti di accettare il radicale riorientamento della società israeliana. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
2. A fronte della formazione della coalizione guidata da Netanyahu, molti ebrei israeliani si sono mostrati delusi e, come si può evincere dai moti di protesta, spa-
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GLI EBREI D’AMERICA: DIASPORA DISORIENTATA
ventati per l’assetto democratico del loro paese. Quelli americani hanno invece reagito con una stupefazione tale da indurli al silenzio. Per i sionisti negli Stati Uniti, nonostante le correnti israeliane di sinistra avessero preconizzato tale deriva da alcuni decenni, questo evento non sarebbe mai dovuto accadere. Gran parte di loro riteneva Israele uno Stato essenzialmente liberale, capace di tenere a bada le fazioni estremiste. Se avessero prestato maggiore attenzione, si sarebbero accorti che i risultati elettorali di novembre non costituivano una rivoluzione improvvisa, ma il risultato di tendenze che covavano da molto tempo. Era tuttavia scontato che gli israeliani, trovandosi a convivere in prima persona con l’occupazione, potessero comprendere meglio l’impatto del crescente dominio della prospettiva coloniale nel paese. Molti ebrei statunitensi sostenitori d’Israele si considerano sionisti liberali. Sono convinti che i valori americani e israeliani siano, se non identici, certamente compatibili. Questa visione sorse all’inizio del XX secolo grazie al giudice della Corte suprema Louis Brandeis, tra i primi leader del sionismo americano. Ai suoi occhi essere sionisti significava essere buoni americani e viceversa. La premessa era che i valori liberali statunitensi e l’insediamento degli ebrei in Palestina fossero conciliabili. Un altro fattore che oggi spiega il sostegno a Israele della comunità ebraica americana è l’aumento degli episodi di antisemitismo negli Stati Uniti, che evoca un costante senso di instabilità e la spinge a mettere in discussione il suo futuro nella terra di nascita o di adozione. Considerare Israele come un rifugio sicuro, anche quando sembra agire in contrasto con i valori liberali, è quindi un modo per placare i propri timori. Malgrado queste premesse, è sorprendente che gli ebrei americani si siano dimostrati così inconsapevoli dei cambiamenti che hanno portato alla svolta elettorale dello scorso novembre. Una delle ragioni potrebbe essere il loro tradizionale impegno a difendere Israele dai suoi detrattori progressisti. Tale dedizione potrebbe avere alterato la percezione delle critiche all’ingiustizia, all’erosione della democrazia e all’iniquità del paese. L’establishment sionista americano contesta solo raramente la locuzione di Israele come Stato «ebraico e democratico» inserita nella legge fondamentale nel 1985. Allo stesso modo, ai suoi occhi l’impegno alla libertà religiosa e all’uguaglianza della Dichiarazione d’indipendenza (1947) rimane un principio inattaccabile. Neppure la legge del 2018 – la quale definiva con estrema chiarezza Israele «Stato nazionale degli ebrei» e quindi non dei suoi cittadini palestinesi – ha scosso la convinzione degli ebrei americani della coerenza tra i propri valori liberali e quelli della patria lontana. La chiara affermazione di una prospettiva etnocentrica avrebbe dovuto rappresentare un campanello di allarme, ma non li ha portati a rivedere la loro percezione di Israele quale «unica democrazia in Medio Oriente». Insomma il sionismo americano, arroccato su una posizione difensiva, non era disposto a cedere terreno. Le cause della recente svolta illiberale sono molteplici. L’aumento dell’influenza del nazionalismo religioso nel paese ha giocato un ruolo importante, proprio Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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quando la pratica dell’occupazione si trasformava in un’ampia sottocultura della società israeliana. Ma una spinta decisiva è stata offerta anche dalle conseguenze della seconda Intifada nel 2000, che ha diffuso tra gli israeliani un profondo senso di minaccia dopo l’aumento degli attacchi terroristici sui mezzi pubblici. Ne è derivato un malessere generale verso qualsiasi risoluzione del conflitto, una sorta di «stanchezza da occupazione», che a sua volta ha generato un vuoto ideologico poi riempito dal nazionalismo religioso e laico. Sono quindi incrementate le misure draconiane per garantire la sicurezza dello Stato dalle minacce interne ed esterne, come la questione del nucleare iraniano. Un altro elemento a cui spesso si presta poca attenzione è l’impatto della globalizzazione. Negli anni Settanta Israele era segnato da una forte corrente umanitarista di sinistra, incentrata sul movimento del kibbutz e sull’ideologia socialista. Con l’avvio della liberalizzazione del mercato israeliano durante il primo mandato di Netanyahu e il parallelo affermarsi del processo di globalizzazione all’inizio degli anni Duemila, il paese ha guadagnato una posizione di spicco tra le economie sviluppate, ricevendo persino l’appellativo di «nazione delle start-up». Gli israeliani sono diventati più ricchi e le loro aziende si sono integrate nel mercato mondiale. Ma ciò ha provocato almeno due effetti negativi sulla situazione politica interna. I rappresentanti della sinistra si sono progressivamente orientati verso una concezione globalista. Hanno iniziato a figurare in società multinazionali e ad acquistare seconde case a Parigi, Londra, New York e Palo Alto, dove spesso risiedono. Ciò li ha resi sempre meno coinvolti nelle questioni politiche interne e più interessati a garantire il proprio successo economico. Inoltre, la scomparsa dell’etica socialista ha provocato una lacuna inedita nell’identità israeliana. Soltanto l’ideologia del nazionalismo religioso è riuscita a fornire un nuovo senso di appartenenza collettivo. Tale visione oggi non si limita agli ebrei praticanti, ma include anche quei laici che si sono trovati a vivere in una società di libero mercato molto diversa da quella dei loro genitori e nonni socialisti. Paradossalmente, Israele ha iniziato a isolarsi proprio quando ha stretto i legami con il resto del mondo. Gli ebrei negli Stati Uniti, in gran parte un portato del neoliberismo americano, hanno guardato con orgoglio alla trasformazione del paese in una «nazione delle start-up». Non si sono tuttavia resi conto che quella società poc’anzi globalizzata fosse alla ricerca di una nuova raison d’être, di una nuova base ideologica su cui fondare la nuova economia di mercato. La seconda Intifada e l’espansione degli insediamenti hanno così portato all’affermarsi della destra, nonostante il paese stesse trasformandosi in una potenza economica occidentale. Gli ebrei americani non hanno capito le conseguenze del riorientamento ideologico in atto. Quando sono arrivati i risultati delle elezioni di novembre, molti di essi li hanno considerati incoerenti. Come ha potuto Israele, che nel 1986 aveva estromesso il rabbino razzista Meir Kahane (un prodotto statunitense poi assassinato a New York nel 1990), eleggere nel 2022 dei parlamentari che sostenevano quella stessa agenda? Qualcosa doveva essere andato storto. Molti hanno puntato il dito contro l’intranCopia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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ALASKA
CALIFORNIA
NEVADA
OREGON
ARIZONA
UTAH
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HAWAII
NEW MEXICO
COLORADO
WYOMING
MONTANA
IOWA
TEXAS
OKLAHOMA
KANSAS
LO U I S I A N A
ARKANS AS
ILLINOIS
WISCONSIN
MISSOURI
S TAT I U NI T I
NEBRASKA
SOUTH DAKOTA
NORTH DAKOTA
M H IG A
K E N T UCK Y
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A L A B A MA
TENNESSEE
IC
INDIANA
WASHINGTON
Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
MIS S IS S IPPI
MINNESOTA
S O UT H CAROLINA
N O RT H CAROLINA
VI R G I N I A
FLORIDA
9
1 2 3 4 5 6 7 8 9
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MAI N E N EW HAMP SHI R E V ER MO N T MASSAC HU SET TS CO N N EC T I C U T RHODE ISLAND N EW J ER SE Y DEL AWAR E MARYLAND
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NEW YORK
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0,1% - 1,5%
1,6% - 4,5%
4,6% - 10,7%
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PENNSYLVANIA
WEST VIRGINIA
G E O R G IA
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PERCENTUALE DI POPOLAZIONE EBRAICA NEGLI STATI UNITI
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sigenza palestinese, sulla scia della campagna «nessun partner per la pace». Altri hanno capito che questa svolta a destra era indotta da ragioni più complesse. Israele, insomma, stava cambiando. Ed essere un sionista americano diventava sempre più difficile. Per alcuni, impossibile. 3. Per spiegare l’attuale disorientamento degli ebrei americani vanno considerati anche fattori storici più profondi. Il sionismo, infatti, nacque come movimento ebraico di autodeterminazione a metà del XIX secolo, in un contesto di crescente nazionalismo in Europa centrale e occidentale. Tale filone considerava il sentimento religioso la base su cui fondare un progetto di autodeterminazione nazionale, ma fu sin da subito laico, volto a garantire un rifugio alla popolazione ebraica. Il suo modo di intendere l’ebraismo è sempre stato moderno. Vale soprattutto per il sionismo americano, la cui concezione deriva dalla haskalah, corrente liberale ed espressione dell’illuminismo ebraico. Tra i principali critici del razionalismo della haskalah ci fu l’illustre studioso di cabala Gershom Scholem. La sua intera carriera fu dedicata a riportare il misticismo al centro della vita e delle lettere ebraiche. Nonostante non fosse un uomo religioso, si oppose al tentativo degli storici moderni di emarginare gli elementi mistici e apocalittici dalla tradizione dell’ebraismo. E nel primo capitolo di Sabbetay Sevi (Shabtai Tzvi) – la sua opera magistrale sul messia mistico nel XVII secolo – scrisse la seguente, sorprendente osservazione: «Uno degli errori più strani della moderna scienza del giudaismo (Wissenschaft des Judentums) è stato negare la continuità dell’apocalittica ebraica. Gli sforzi di importanti studiosi di dissociare l’apocalittica dal giudaismo rabbinico, associandola esclusivamente al cristianesimo, hanno contribuito ampiamente alla moderna falsificazione della storia ebraica e all’occultamento di alcune delle sue forze più dinamiche, sia costruttive sia distruttive». Questa valutazione si inseriva nel contesto di una valutazione dell’impulso messianico e apocalittico nell’ebraismo. Quindi Scholem aggiunse: «Il significato della redenzione era quello di una rivoluzione nella storia. L’immaginario apocalittico offriva dettagli in cui orrore e consolazione godevano dello stesso peso, in cui un popolo perseguitato e oppresso regolava molti conti amari con i suoi carnefici». Gli architetti dell’ebraismo moderno, il cui sistema di pensiero è oggi adottato da molti ebrei americani, non davano peso all’impulso apocalittico. Sostenevano che non avesse mai svolto un ruolo centrale o che costituisse un elemento snaturato nelle moderne iterazioni della vita ebraica. Non a caso il sionismo si autodefinì come una «normalizzazione» degli ebrei. Ma Scholem, nella sua opera sul messia mistico, ambiva a dimostrare il contrario. Ai suoi occhi l’apocalittica costituiva uno dei pilastri dell’ebraismo e continuava ad alimentarne l’immaginario in tempi moderni. Il sionismo, peraltro, era particolarmente suscettibile a questo impulso, vista la presenza di fonti ebraiche classiche nel suo sistema di pensiero, come il richiamo al ritorno alla terra d’Israele e al raduno degli esuli della diaspora. La logica dei sionisti americani, tuttavia, non ha mai accolto l’impulso messianico, poiché è stata costruita a partire da quella scienza del giudaismo che Scholem Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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bollava «moderna falsificazione della storia ebraica». L’ebraismo liberale è infatti privo di impulso apocalittico o sfumature messianiche. Questo aspetto, spesso non considerato, aiuta a spiegare la confusione dei sionisti americani di fronte ai risultati elettorali del novembre 2022. Tra le cause della recente svolta reazionaria in Israele figurano l’affermarsi di una forma di apocalittica moderna e l’ascesa di alcune fazioni radicali. All’inizio degli anni Settanta, Scholem definì il neonato movimento dei coloni Gush Emunim (Blocco dei Fedeli) come «neosabbatiano». Penso lo intendesse sul serio. Temeva che questa nuova versione del sionismo possedesse tratti messianici che avrebbero minacciato la società israeliana. E non era il solo. Se ne era già accorto il filosofo iper-razionalista Yeshayahu Leibowitz dopo la guerra dei Sei giorni nel 1967. Molti sionisti liberali negli Stati Uniti vedevano di cattivo occhio le pretese messianiche del movimento dei coloni, ma non le consideravano un pericolo per il tessuto sociale israeliano. Probabilmente erano troppo impegnati a difendere Israele dalle accuse dell’estrema sinistra. O forse non prendevano sul serio l’apocalittica semplicemente perché non la conoscevano. Nell’ebraismo americano non c’era spazio per questo tipo di radicalismo. Militanti con idee estreme e violente come il rabbino statunitense Meir Kahane erano ritenuti anomalie, eccezioni. L’ottusità del sionismo americano è ben illustrata dal modo in cui i rabbini riformisti Rick Jacobs e Eric Yoffie, che spesso scrivono di politica israeliana, asseriscono che il movimento religioso della destra radicale non rappresenti l’ebraismo. Quest’ultimo è visto come essenzialmente liberale, umanistico, incentrato sulla giustizia e sull’uguaglianza. Diversi leader dell’ortodossia sono oggi d’accordo con tale lettura. Ma si tratta di un quadro assolutamente incompleto. Nella tradizione ebraica ci sono vari elementi – tutt’altro che marginali – che riflettono i valori dei reazionari radicali. Aspetti che però non rispecchiano la visione di ebrei americani come Jacobs, Yoffie e altri. E qui a mio avviso sta il vero problema. Il tentativo di universalizzare la propria comprensione dell’ebraismo (in questo caso, una sorta di liberalismo razionale) rende tutto ciò che la esorbita inautentico o deviante. Diventa così impossibile capire perché altri punti di vista, come quello dei coloni di destra, riescano ad affermarsi in Israele. Per la diaspora americana, la svolta dello scorso novembre può rappresentare un’occasione di riflessione. Negli Stati Uniti l’ebraismo si è spesso legato a una visione selettiva dell’autenticità, offerta proprio dagli uomini che Scholem attaccava nei suoi scritti. Gli israeliani liberali sono rimasti profondamente turbati dai risultati elettorali, ma nessuno di loro è stato colto di sorpresa quanto gli ebrei americani, perché non sono mai stati estranei alle idee ultraortodosse o nazional-religiose. Hanno sempre ritenuto possibile l’ascesa delle fazioni più radicali. La comunità ebraica americana le ha invece semplicemente ignorate, poiché la loro esistenza confermava molte delle critiche progressiste a Israele che era impegnata a contrastare. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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4. Vi sono almeno tre ragioni distinte, ma interconnesse, per cui gli ebrei americani sono rimasti così spesati dall’esito delle elezioni del novembre 2022.
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Primo, la comunità ebraica negli Stati Uniti immagina ancora Israele con una mentalità americana. Lo fa con grande orgoglio. Sente un profondo legame con quello Stato nazione, animato dal ricordo del genocidio nazista. La coalizione guidata da Netanyahu ha suscitato un effetto dissonante nel modo in cui essa percepisce la patria lontana. Secondo, la maggior parte degli ebrei americani concepisce e pratica un ebraismo di carattere selettivo, fondato su princìpi liberali che cancellano i tratti apocalittici più radicali. Perciò, il fatto che in Israele emergano certe inclinazioni – e addirittura prendano il potere – mina la loro concezione del paese, la loro stessa visione dell’ebraismo. Terzo, uno dei princìpi fondamentali del sionismo americano riguarda il sostegno a Israele. La patria lontana va difesa dai suoi detrattori progressisti che ritengono il suo etnonazionalismo ingiusto e moralmente indifendibile. La nuova coalizione guidata da Netanyahu renderà questo compito più difficile che mai. Per tali ragioni i sionisti americani si trovano in trappola. Sono costretti a tessere una rete di scuse per il comportamento e le politiche illiberali di Israele. Scuse che però non pronuncerebbero mai in favore di un’amministrazione americana con idee simili a quelle di Netanyahu. Nel 2018 la legge sullo Stato nazionale non aveva evocato una reazione simile. Probabilmente perché aveva poche conseguenze immediate e poteva quindi essere più facilmente ignorata. Al contrario, sono troppo evidenti le politiche in discussione alla Knesset, il pogrom di Õuwwåra del marzo 2023 e la distruzione di un villaggio palestinese vicino a Nåblus. Questi elementi forzano gli ebrei americani a cedere terreno ai detrattori di Israele. E ciò a sua volta pregiudica l’essenza della missione sionista negli Stati Uniti. Il movimento di protesta in Israele è l’unico elemento che per ora riesce a sciogliere questo dilemma. Un’ampia fetta della popolazione israeliana sta infatti manifestando contro alcune politiche del nuovo governo, come la riforma del sistema giudiziario. Tali decisioni potrebbero erodere il sistema democratico del paese. Quantomeno per gli ebrei, visto che quel sistema è già piuttosto fragile per i cittadini arabi e ancor più per i palestinesi. Il sostegno alle proteste permette quindi agli ebrei americani di continuare a sostenere la patria lontana e di criticare apertamente Netanyahu. Può sembrare un po’ paradossale, ma il loro modo di sostenere Israele consiste oggi nel criticarne il governo. A prescindere dall’esito delle proteste, gli ebrei d’America si troveranno in una posizione scomoda. È un dato di fatto che Israele si stia distanziando sempre di più dalle loro idee liberali. Provare a mantenere i propri valori e continuare a supportare la patria lontana costituirà la sfida più grande nei prossimi decenni. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
(traduzione di Giacomo Mariotto)
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‘Altro che le tribù! Il problema di Israele è la supremazia ebraica’ Conversazione con Peter BEINART, docente alla Scuola di giornalismo della City University of New York, a cura di Lucio CARACCIOLO e Federico PETRONI
Gli scontri sulla riforma giudiziaria segnalano una crisi di convivenza delle «tribù di Israele», come le ha chiamate l’ex presidente Reuven Rivlin? BEINART Sicuramente Israele vive una crisi di identità, ma riguarda la convivenza tra le varie anime della società ebraica. Non il trattamento dei palestinesi. Quando persone come Rivlin parlano delle tribù di Israele trascurano questa realtà fondamentale. Esistono differenze cruciali tra religiosi e laici, tra ashkenaziti e mizrahim, tuttavia questa narrazione oscura una questione più grande: Israele è uno Stato di apartheid che nel prossimo futuro potrebbe effettuare una nuova espulsione di massa dei palestinesi. Per me questo è il dato più importante. In Israele esiste una contraddizione fondamentale tra il principio dello Stato liberal-democratico e il principio dello Stato ebraico. Il primo significa uguaglianza di tutti davanti alla legge. Il secondo significa supremazia di un gruppo etno-religioso, cioè istituzioni statali costruite per gli ebrei. Questi due princìpi stridono in particolare tra Gaza e Cisgiordania, dove la stragrande maggioranza dei palestinesi che vivono sotto il controllo israeliano non gode dei diritti di cittadinanza. Ma anche gli arabi israeliani sono cittadini di serie B, perché non hanno libero accesso alla terra e sono costretti a vivere in piccole enclave. A dispetto delle divisioni tra le componenti ebraiche della società, non esiste un vero dibattito sulla supremazia, al massimo si discute su come assicurare quella supremazia. Centristi come Yair Lapid concordano con la destra di Netanyahu nell’opporsi a uno Stato per tutti i cittadini. Lapid vorrebbe mantenere lo status quo, ovvero negare ai palestinesi pieni diritti, concedendo soltanto opportunità economiche. La vera differenza con la destra è che quest’ultima desidera annettere la Cisgiordania, eliminare l’Autorità palestinese e, in caso di resistenza, espellere le popolazioni arabe. La riforma giudiziaria discende da questo disegno: la Corte suprema è un LIMES
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ostacolo e riformarla potrebbe essere un modo per rimuoverlo. Il tribunale in passato ha lasciato fare al governo praticamente tutto quello che voleva, salvo che sui terreni privati dei palestinesi. Se riuscirà a piegare la Corte suprema, la destra potrebbe inoltre attaccare più facilmente i partiti arabi. In passato la Commissione elettorale ha negato l’autorizzazione a partecipare al voto a formazioni come Balad, perché secondo il diritto israeliano se ti opponi allo Stato ebraico non sei autorizzato a concorrere. La Corte suprema ha spesso rovesciato questo divieto. Ma se cadesse il suo baluardo, i palestinesi d’Israele rischierebbero di restare senza alcuna rappresentanza. LIMES Alcuni promotori della riforma sostengono che la Corte abbia ecceduto le sue competenze e che ora funzioni come una sorta di governo, con un’agenda politica. Hanno torto? BEINART In un sistema politico senza costituzione e con una sola camera rappresentativa, è necessario controllare l’operato del governo con una Corte indipendente. L’odio della destra per un organo che ha permesso di tutto è assurdo. È un falso mito che la Corte limiti l’operato del governo. Gli ortodossi non la amano perché ha detto che i religiosi non sono esentati dalla leva militare. Però continuano a non servire sotto le armi. Immaginano la Corte come un’istituzione molto progressista, ma gli accademici che l’hanno studiata dicono che è estremamente deferente verso i servizi di sicurezza israeliani. LIMES Non pensa che la crisi interna a Israele derivi anche dal declino demografico degli ashkenaziti, il gruppo al cuore del progetto sionista? BEINART Il sionismo come progetto geopolitico non è in crisi. Non è più impugnato dagli ashkenaziti, ma il testimone è passato ai mizrahim. Resiste l’idea di avere uno Stato suprematista ebraico che controlla sempre più territorio con sempre meno popolazione palestinese. L’attuale governo è una continuazione dell’ethos sionista. I suoi componenti dicono: siamo noi i veri eredi del sionismo, non stiamo facendo niente di fondamentalmente diverso dal passato. Il progetto è vivo e vegeto anche perché non sconta alcuna resistenza: la posizione internazionale di Israele non è mai stata così forte e i palestinesi non sono mai stati così deboli. LIMES Come si situano le comunità ebraiche americane in questo dibattito? BEINART Sono divise. Un 20% ha opinioni simili alla mia, cioè che Israele è uno Stato d’apartheid, e preferirebbe uguaglianza per tutti. Un 40% supporta Israele qualunque cosa esso faccia. E un altro 40% è per la soluzione dei due Stati. Rispettivamente, sono antisionisti, sionisti tradizionali e sionisti liberali. LIMES Ma come si fa a essere sionisti e non andare in Israele? BEINART È un dibattito che risale alla fondazione dello Stato, tra Ben-Gurion e i leader dell’American Jewish Committee. Le società economicamente sviluppate hanno conosciuto scarsissime migrazioni verso Israele, Stati Uniti compresi. I fondatori di Israele si resero conto che gli ebrei americani non avevano intenzione di trasferirsi. Quindi preferirono attingere alla loro influenza finanziaria e politica. Questo in un certo senso imbastardisce il termine «sionismo», costruito sull’idea che la vita in diaspora fosse patologica, che non permettesse agli ebrei di esprimersi Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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appieno. Ma gli ebrei statunitensi non ci credevano, erano convinti di poter vivere una vita più libera e sicura in America. LIMES Oggi dov’è il potere nella diaspora? BEINART Sicuramente a destra. Perché lì i sionisti tradizionali sono affiancati agli evangelici, così influenti che, se anche non ci fossero ebrei, i repubblicani sarebbero comunque pro-Israele. Inoltre, gli ebrei a sinistra tendono a essere più universalisti e meno concentrati sulle questioni israeliane: ciò che li spinge a preoccuparsi dei palestinesi li induce a interessarsi anche di cambiamento climatico, controllo delle armi, immigrazione. Infine, a destra c’è più ricchezza, dunque più risorse per fare politica. Questi tre fattori determinano un’enorme discrepanza di potere. LIMES Che rapporto c’è tra le organizzazioni ebraiche e quelle evangeliche? BEINART Esiste un’alleanza, intessuta dal governo di Israele, che tuttavia è leggermente scomoda perché gli evangelici vogliono evangelizzare e agli ebrei non piace essere evangelizzati. Alcuni ebrei di destra hanno opinioni sulla politica interna diverse da questi gruppi cristiani, per esempio non sono così schierati contro l’aborto o i diritti per gli omosessuali. Gli evangelici hanno le loro associazioni, come Christians United for Israel, ma parlano una lingua completamente diversa. Ciò non impedisce una sorta di divisione del lavoro. Gli evangelici sono più influenti tra i repubblicani, mentre le associazioni ebraiche hanno più impatto sui democratici. Prendete per esempio le elezioni di metà mandato nel 2022: American Israel Public Affairs Committee (Aipac, n.d.r.) e Democratic Majority for Israel temevano che al Congresso sarebbero entrati molti parlamentari giovani e filopalestinesi. Avevano le loro ragioni, visto che gli elettori democratici stanno effettivamente diventando più filopalestinesi, specialmente tra i giovani. Hanno quindi raccolto immense somme di denaro – almeno cinque persone hanno staccato assegni da un milione di dollari per Aipac – per spenderle nelle primarie contro i candidati critici verso lo Stato ebraico. Hanno ricevuto molti fondi da aziende non necessariamente affezionate a Israele ma generalmente spaventate dalla sinistra. Per ora hanno avuto successo, impedendo al Congresso di spostarsi in una direzione più filopalestinese. LIMES Ci sono affinità strutturali tra l’America e Israele? BEINART Molti americani bianchi, non solo gli evangelici ma pure i cattolici, si identificano profondamente con Israele. Il sionismo cristiano ha radici profonde: si basa sulla nozione che essere cristiani implica facilitare il ritorno degli ebrei nella storica Terra promessa. Inoltre, anche l’America è un posto in cui la gente è venuta da lontano, ha distrutto la popolazione nativa e ha creato una nuova società. In molti vedono nella fondazione degli Stati Uniti un’equivalenza biblica: se guidate attraverso il paese vedrete diverse località chiamate Bethlehem, Canaan, Hebron. I neri, gli ispanici, i laici e i più giovani invece si identificano meno con lo Stato ebraico. Ma i politici democratici non rappresentano l’opinione di questi segmenti su Israele: questo è il successo delle lobby. LIMES Gli americani morirebbero per Israele in caso di attacco nemico? BEINART Dipende dalle circostanze. Non faremmo la guerra per invadere l’Iran, questo è certo. Ma se il popolo ebreo fosse a rischio, io sarei per l’invio di truppe Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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americane a difenderlo. Solo non riesco a immaginare Israele invaso da un esercito avversario. LIMES Le attuali tensioni tra il governo statunitense e quello israeliano riflettono una crescente divergenza di interessi tra i due paesi? BEINART I due governi di certo hanno agende diverse. Biden vuole tranquillità in Palestina e Medio Oriente per concentrarsi su Ucraina e Cina. Netanyahu intende invece cambiare lo status quo, liberarsi dell’Autorità palestinese e annettere la Cisgiordania. Gli americani temono che ciò scateni un’altra Intifada, distraendoli dalle priorità. LIMES Le tribù israeliane riproducono le loro differenze nella diaspora americana? BEINART Sicuramente negli Stati Uniti la percentuale di haredim sta crescendo, esattamente come sta facendo in Israele. E inizia ad avere voce. I datiim, gli ortodossi moderni, hanno un ruolo maggiore nelle organizzazioni ebraiche rispetto a una o due generazioni fa. La questione della loro fede nel sionismo è complessa. Alcuni gruppi come Satmar lo rigettano genuinamente. Altri, pur non accettando la logica sionista, sono comunque antipalestinesi. Per esempio, Chabad-Lubavitch non mostra mai la bandiera israeliana ma è un’organizzazione molto connessa alla destra. Quando si chiede se i palestinesi debbano avere uno Stato o diritti di cittadinanza, i più contrari sono i haredim. È un modo molto particolare di non essere sionisti. Lo si vede anche negli Stati Uniti. Pur dicendosi antisionisti, gli ultraortodossi non votano per Alexandria Ocasio-Cortez o Ilhan Omar perché la loro visione del mondo è molto a destra. La vera differenza tra Stati Uniti e Israele è che in quest’ultimo i giovani sono molto più a destra dei giovani americani. LIMES In termini geopolitici, essere di destra in Israele vuol dire volere tutta la terra tra il mare e il Giordano. BEINART Anche i centristi lo vogliono. La vera differenza è che se sei di destra vuoi anche espellere i palestinesi. LIMES Ma se ti liberi di tutti gli arabi, chi farà i lavori sporchi? BEINART Israele ha iniziato a importare forza lavoro temporanea da altri paesi. Per esempio, il grosso delle badanti viene dalle Filippine. Il ragionamento è: ci sono tanti posti poveri da cui possiamo importare manodopera, possiamo fare come gli Emirati Arabi Uniti, che hanno attinto al subcontinente indiano. LIMES Nei suoi scritti, lei accusa la politica estera americana di aver peccato di tracotanza. Come dovrebbe cambiare la strategia degli Stati Uniti? BEINART Negli ultimi anni a Washington è emerso un consenso molto aggressivo nei confronti della Cina. Penso che sia un disastro per gli Stati Uniti. Avrà conseguenze interne terribili. Storicamente, quando l’America bolla un paese come nemico, fa lo stesso con le persone associate a quel paese. E commette gesti atroci. È successo con i giapponesi internati in campi di concentramento durante la seconda guerra mondiale. Ora lo si comincia a vedere con l’odio e la violenza verso i cittadini di origine cinese o asiatica. Andrà sempre peggio. L’amministrazione Biden si illude di potersela prendere solo col Partito comunista cinese. Ma siamo il paese che durante la prima guerra mondiale ha talmente brutalizzato i tedeschi che Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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la gente si cambiava il cognome pur di non essere associata alla Germania. L’America è anche questo. Il governo degli Stati Uniti sta esagerando la sfida cinese. Pechino rappresenta una minaccia esistenziale non per l’America, ma per l’unipolarismo americano. Forse non è la cosa peggiore del mondo per gli Stati Uniti vivere in un sistema più multipolare. Il terrore della Cina è connesso al terrore dell’America bianca e cristiana di perdere potere. È un discorso molto razzializzato. Per questo persone come Tucker Carlson non odiano Putin ma odiano la Cina. Putin è un cristiano bianco. Storicamente, l’America è molto più violenta quando combatte un nemico non bianco. Sin dalla fondazione degli Stati Uniti, vige una distinzione tra nemici civilizzati e nemici non civilizzati. I primi sono gli inglesi, i secondi i nativi, le Filippine, il Giappone. LIMES Quali sono le principali minacce per l’America, se ne esistono? BEINART Cambiamento climatico e pandemie. E richiedono cooperazione con la Repubblica Popolare, che ha capacità tecnologiche cruciali per affrontare le sfide ambientali. Dobbiamo lavorarci assieme. LIMES Eppure il governo teme proprio un sorpasso tecnologico da parte della Cina. BEINART Gli Stati Uniti devono pensare a loro stessi. A diventare più innovativi e avanzati possibile, ad avere le migliori scuole e università. Invece stiamo chiudendo la porta in faccia ai ricercatori cinesi, tra i più sofisticati al mondo. Soffriamo di una paranoia militarizzata. Invece di migliorarci, pensiamo a impedire agli altri di svilupparsi. La Cina ha ancora centinaia di milioni di persone che vivono in povertà e deve crescere economicamente per consentire a questa gente di condurre una vita decente. E noi vogliamo impedirglielo? Che moralità c’è in tutto questo? LIMES Se la Repubblica Popolare riconquistasse Taiwan non sarebbe una minaccia? BEINART Il vero rischio è che con il suo atteggiamento il governo americano alimenti una guerra che non può vincere. Washington dice che dobbiamo armare Taiwan fino ai denti per dissuadere Pechino dall’attaccare. Ma ciò che non possiamo davvero cambiare è l’interesse della Cina per quell’isola, enormemente superiore al nostro. La maggior parte degli americani non morirebbe per Taipei. L’Ucraina è un discorso diverso, perché lì non si parla di combattere direttamente ma di mandare armi. A Taiwan non sarebbe possibile, gli Stati Uniti dovrebbero intervenire in prima persona. Morirebbero tanti nostri militari, perderemmo navi e aerei, per non parlare del rischio di una guerra nucleare. Taiwan ha il diritto di essere libera e di non fare la fine di Hong Kong. Ma il modo in cui gli Stati Uniti si stanno muovendo, rovesciando la politica «una sola Cina», è troppo spregiudicato. LIMES Una crescente fetta della popolazione non crede più che l’America sia un paese eccezionale… BEINART … bene! Non siamo eccezionali. Abbiamo avuto grandi vantaggi storici e geografici che ci hanno permesso di rendere alcuni aspetti della vita più facili (se sei bianco). E che ci hanno consentito di avere un regime politico relativamente liberale – non uso la parola «democratico» perché alcuni tratti del nostro sistema sono fortemente antidemocratici. Ma questo non vuol dire che gli americani posCopia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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‘ALTRO CHE LE TRIBÙ! IL PROBLEMA DI ISRAELE È LA SUPREMAZIA EBRAICA’
siedano virtù innate o una particolare saggezza. Tutti gli imperi hanno una qualche forma di missione universale, ma è meglio avere l’umiltà di capire che siamo un gruppo di persone in un mondo che non vuole essere come noi. LIMES Quindi non pensa che gli americani possano fare cose grandi soltanto se sentono di avere una grande missione? BEINART Non sono necessariamente contro le grandi missioni, ma spesso questo in America vuol dire imperialismo. Forse la nostra missione può essere aiutare il mondo a sopravvivere al cambiamento del clima. Oppure evitare che in posti come New York City così tante persone debbano vivere per strada. Oppure costruire un sistema legale internazionale per far rispondere dei loro crimini Vladimir Putin, Binyamin Netanyahu o Dick Cheney. LIMES Ma come vai a prendere Putin e Netanyahu? Il diritto non ha forse bisogno di una qualche forma di potere superiore? BEINART Questo è l’argomento dei neocon. Il problema è che se costruisci un impero per far rispettare il diritto internazionale, l’impero stesso viola il diritto. Quello che sta facendo Putin in Ucraina è in parte il risultato di quello che l’America ha fatto in Iraq. Noi stessi abbiamo avuto una responsabilità nel distruggere la possibilità di un ordine internazionale più forte. Senza essere utopici, se gli americani e gli europei lavorassero per limitare sé stessi in un sistema legale, avrebbero un impatto anche sulla Cina. LIMES Il paragone con l’Ucraina è forse troppo spinto. L’Iraq non era nella sfera d’influenza americana, mentre la Russia pensa che l’Ucraina lo sia. BEINART Le sfere d’influenza contano. Tuttavia questo non autorizza a fare tutto ciò che vuoi. Alla fine della guerra, Mosca continuerà a esercitare una qualche forma di influenza sull’Ucraina, ma non vuol dire che gli Stati Uniti non debbano fare il possibile per avere un’Ucraina sovrana. LIMES Tornando a Israele, lo Stato nazionale ebraico è in pericolo esistenziale? BEINART Non nel breve periodo. Ma consideriamo uno scenario futuro. Scoppia una rivolta palestinese, lo Stato non riesce a reprimerla, la ribellione invece di qualche settimana dura mesi, anni. Americani ed europei cambiano approccio e smettono di ritenere accettabile l’uso della forza da parte di Israele. Spingono per un compromesso. Gli arabi potrebbero dire agli ebrei: se volete la sicurezza, dateci uguali diritti. Potrebbe allora iniziare una trasformazione come quella in Sudafrica alla fine dell’apartheid. Oggi è inimmaginabile, perché dividerebbe ulteriormente le comunità ebraiche di Israele. Ma quando i fenomeni di massa cambiano la realtà sul terreno, le cose impensabili diventano pensabili. Diverrebbe chiaro a una netta maggioranza della popolazione e dei poteri di Israele che lo status quo è insostenibile. Oggi invece lo status quo è sostenibile. L’unica cosa che può cambiarlo è l’impossibilità di riportare ordine nel paese in caso di ribellione. Se negli Stati Uniti ci fosse un presidente liberal, potrebbe a un certo punto rifiutare di vendere a Israele le armi usate per reprimere i palestinesi. L’embargo potrebbe estendersi all’Europa. LIMES La diaspora ebraica in America permetterebbe tutto ciò? Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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ISRAELE CONTRO ISRAELE
BEINART La diaspora antisionista dovrebbe accumulare potere per permetterlo. Dovrebbe allearsi con i palestinesi, con i neri americani, con la sinistra liberal per prevalere nel Partito democratico. Non è impossibile. Già oggi, se chiedessimo privatamente ai democratici se sarebbero favorevoli a condizionare gli aiuti a Israele, avremmo una maggioranza. Questi politici devono iniziare a dirlo pubblicamente e vedere se e come sopravvivono. Penso all’esempio sudafricano: visto che la rivolta faceva notizia, i politici furono costretti a occuparsene, creando pressione per introdurre sanzioni, persino contro la volontà del presidente Reagan. Se dall’America e dall’Europa venisse una pressione di questo tipo, la leadership israeliana potrebbe essere convinta a trovare una soluzione diversa. Cioè a redigere una costituzione che dia uguaglianza politica a tutti. E garanzie di protezione agli ebrei che lo Stato non possa essere dominato dagli arabi. LIMES È uno scenario plausibile a oggi? BEINART No, ma è il migliore che ho.
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ISRAELE CONTRO ISRAELE
Parte II TOPOGRAFIA delle FAGLIE e degli SCONTRI Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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ISRAELE CONTRO ISRAELE
60-90, ISRAELE ON THE ROAD
di
Yochanan ZOREF
Le due strade che solcano Giudea e Samaria alternano aree di relativa calma a zone di aspro conflitto tra coloni e palestinesi. L’origine storica dello Hityashvut. La geografia degli insediamenti e dei luoghi biblici. La ‘svolta’ di Smotrich è una mina vagante.
È
1. PROBABILE CHE AI PIÙ LA COMBINAZIONE numerica 60-90 non dica molto, dentro Israele e tantomeno fuori. Invece questi numeri delimitano uno spazio ben preciso. La Strada 90 attraversa tutto il paese, quasi completamente nella parte orientale dal confine settentrionale con il Libano (Metulla) fino a quello meridionale con l’Egitto (¡åbå). Circa 120 dei suoi 480 chilometri passano per Giudea e Samaria, i Territori occupati nel 1967. Anche la Strada 60 attraversa buona parte di Israele, dalla città di Be’er Sheva a sud fino a Nazaret in Galilea, a nord. In questo caso, 160 chilometri su 232,5 tagliano Giudea e Samaria. Le due strade contengono e segnano una parte importante dei Territori, sono gli scenari dei loro problemi e delle possibili soluzioni. Percorrerle è un modo di analizzare la situazione dell’area. Le strade sono molto diverse fra loro. La 90 è l’arteria stradale più lunga di Israele, ma il tratto che qui ci interessa è la Strada della Biqå‘ che corre per la Valle del Giordano. Questo segmento non presenta situazioni conflittuali stante la ridotta presenza di popolazione palestinese, che si limita ad alcuni piccolissimi centri. Quasi tutti gli insediamenti che s’incontrano sono ebraici, per lo più nati come avamposti militari sotto i governi laburisti dopo la guerra dei Sei giorni: una logica di sicurezza che ben si coniugava con l’epos sionistico dell’edificazione fondativa. Nel tempo sono diventati insediamenti civili, sviluppo facilitato dall’assenza di popolazioni ostili nei pressi. Non che la Biqå‘ sia risparmiata da attentati terroristici, ma il loro numero è imparagonabile a quelli di Israele e del resto dei Territori. Vero è che di recente si sono verificati incidenti, ma Gerico rimane la città palestinese più tranquilla, al pari del tratto di Strada 90 che percorre la Valle del Giordano. Nell’ambito del contenzioso con i palestinesi l’arteria ha importanza strategica. La valle che attraversa è larga da alcune centinaia di metri a un massimo di pochi chilometri, ricalca in gran parte il confine con la Giordania e unisce il Nord al Sud Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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di Israele. Il grosso delle proposte d’accordo presentate negli anni vede Israele indisposto a cederla e perfino nei pochi casi in cui ha accettato di inserirla nelle trattative l’eventuale cessione ai palestinesi avverrebbe solo dopo un lungo periodo di prova (5-10 anni) e previo mantenimento di forze internazionali. I palestinesi rivendicano invece la Biqå‘ come confine naturale del loro futuro Stato. Quindi per Israele la valle ha valore strategico ai fini della sicurezza, ma manca dell’elemento che rende l’adiacente Samaria centrale nell’ideologia della destra radicale: il nesso storico-nazional-religioso. Chiedete ai coloni quali siano i luoghi più importanti d’Israele. Vi risponderanno Shilo, Biet El, Eli, Elkana, la tomba di Giuseppe e forse Har Hevron. Tel Aviv probabilmente non verrà menzionata. Per questo nessuno si preoccupa di ampliare la scarsa presenza ebraica lungo la Strada 90, mentre nell’area che va da Råmallåh al Dorso della montagna (i rilievi montuosi nella Samaria nord-orientale) ci si contende ogni metro di terra. E sempre per questo la situazione della Strada 60 è totalmente differente. La Strada 60 è usata quotidianamente e obbligatoriamente dalle popolazioni ebraica e palestinese. Si snoda lungo il Dorso della montagna e attraversa molti abitati palestinesi: per accedere alle loro case gli ebrei dei molti insediamenti costruiti lungo la strada non hanno altra alternativa che percorrerla. Ciò crea un attrito continuo con esiti a volte drammatici. Il tratto emblematico è quello che nel Nord della Samaria sale per circa 7,5 chilometri verso Nåblus tagliando la cittadina di Õuwwåra con i suoi numerosi negozi e ristoranti. Le persone vi si fermano, parcheggiano; rallentamenti e ingorghi sono la norma. È un invito a compiere attentati, come avvenuto di recente. Ogni uscita e ritorno a casa degli abitanti di Yitzhar, Itamar, Har Bracha e di altri insediameni ebraici nella zona è una roulette russa. Da molto si parla di costruire una strada alternativa che colleghi gli insediamenti ebraici senza attraversare centri palestinesi, ma finora non se n’è fatto nulla. Se anche verrà realizzato, comunque, il nuovo collegamento darà un contributo marginale alla sicurezza generale e nullo sul piano dei rapporti fra popolazioni. 2. Il Nord della Samaria è oggi l’area più problematica dei Territori. Tutto è iniziato nel 1977 quando il Likud di Menachem Begin, da poco al governo, decise di creare degli insediamenti sul Dorso della montagna, area costellata di centri palestinesi (con circa 70 mila abitanti) e prossima a grandi città come Ãanøn, ¡ûlkarim e Qalqølya. L’insediamento del Dorso era parte di un piano molto più ampio che negli anni è giunto a comprendere un numero di coloni prossimo ai 500 mila. Fu una decisione imposta da una minoranza ideologica che sfruttò la congiuntura politica e cominciò a scavare un solco profondo nella società israeliana. Scendendo verso sud la strada sfiora, attraversa, aggira centri palestinesi: alcuni sotto il controllo dell’Autorità palestinese altri sotto quello militare israeliano. Solo di qui si passa per giungere a diversi insediamenti ebraici come Shilo, Eli, Ofra, Beit El, che pur rientrando in un’area amministrativa diversa dalla Samaria – quella di Mateh Binyamin – ne mantengono il carattere: hanno una forte carica Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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ISRAELE ON THE ROAD Area israeliana Zona edificata e municipalizzata Area C Pieno controllo israeliano per la sicurezza, la pianificazione e la costruzione Zone chiuse Aree chiuse esistenti e progettate dietro la barriera. L’accesso è limitato ai possessori di permesso Basi militari israeliane
Mare di Galilea
Ginosar Tiberiade
Haifa Nazaret
90 60 Afula Zona edificata Area municipalizzata
Insediamenti israeliani più isolati 1 Har Bracha 2 Yitzhar 3 Eli Netanya 4 Shilo 5 Ofra Mar 6 Beit El Mediterraneo
Area C Beit Shean Jenin
e Giordano
S amaria Tūlkarim Nāblus
Qalqīlya
1
Fi um
Area palestinese Zone A, B, C (Edificate, pieno controllo e controllo congiunto)
2 Huwwāra 3
Tel Aviv
4
G i u d e a
Strade 60 e 90 Strade secondarie
6
5
Rāmallāh Mateh Binyamin
Gerico
Ashdod GERUSALEMME
Ma‘ale Adumim Betlemme
Gush Etzion
Halhūl Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
Gaza
Hebron Yattā al-Zāhiriyya on vr Har He
Ein Gedi
Mar Morto
I S R A E L E
60 Omer Beer Sheva 90
GIORDANIA
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emotiva, storica e religiosa legata alla loro identificazione con i luoghi della Bibbia. Anche su questo tratto della Strada 60 le due popolazioni s’incontrano e non mancano incidenti, ma non si verificano situazioni estreme come nel segmento precedente dove per compiere attentati servono solo un’arma e la motivazione, mentre sfuggirvi è quasi impossibile. Samaria e Mateh Binyamin formano il blocco fondamentale dello Hityashvut (insediamento) dei Territori. Insieme a Har Hevron, cui la Strada 60 conduce, ne sono il cuore pulsante. Arriviamo così a Gerusalemme. L’area prima descritta delimita la parte centro-settentrionale di quello che nello schema «due Stati per due popoli» sarebbe lo Stato palestinese. Negli anni, uno dei nodi negoziali più intricati ha riguardato la richiesta di continuità e contiguità territoriale delle parti. Oggi Israele taglia in due un futuro Stato palestinese, con la strada e gli insediamenti – il più importante è Ma‘ale Adumim – che da Gerusalemme digradano verso il Mar Morto collegandosi alla Strada 90. Percorsa verso nord, questa entra nella Valle del Giordano; verso sud costeggia invece il Mar Morto e porta a Eilat. La rivendicazione israeliana ha una sua logica: lo Stato ebraico deve avere un’arteria stradale di collegamento con il versante orientale, con il Mar Morto e con la strada che conduce alla sua punta meridionale. Qui, come altrove, è tuttavia palese il tentativo di restringere il margine fisico dei palestinesi, popolando il territorio e frammentandolo. Se negli anni non vi fosse stata una netta opposizione degli europei e soprattutto degli americani, l’asse Gerusalemme-Ma‘ale Adumim avrebbe visto uno sviluppo edilizio molto maggiore e la presenza ebraica sarebbe oggi continua. Attraversata Gerusalemme la Strada 60 continua verso sud, portando a Gush Etzion. L’attaccamento dei coloni a questa zona (gush significa «blocco») è molto diverso: si tratta di insediamenti costruiti a partire dagli anni Venti del Novecento su terreni acquistati da privati e poi donati allo Stato d’Israele. Sono dunque lì da prima dello Stato. Nella guerra d’Indipendenza del 1948 furono attaccati e conquistati dalla Legione giordana e malgrado la resa, oltre 120 abitanti di Kfar Etzion vennero trucidati. Rimasto nella memoria collettiva come esempio di eroismo e martirio, il legame con Gush Etzion è molto più improntato all’ethos della fondazione che all’elemento religioso, sebbene la zona non manchi di rimandi biblici. La ricostruzione degli insediamenti è iniziata dopo il 1967, quando con la guerra dei Sei giorni l’area fu riconquistata. Oggi Gush Etzion raggruppa 22 tra piccoli villaggi e cittadine per un totale di circa 70 mila abitanti. In quasi ogni piano di pace è annoverata tra le enclave da mantenere dentro Israele, magari con scambi di territori non insediati da ebrei. Entrando nell’area di Har Hevron arriviamo alla fine del tratto di Strada 60 che attraversa i Territori e la parte meridionale di un futuro Stato palestinese. Hevron ospita la Tomba dei patriarchi e rimane uno dei luoghi più significativi per la storia e la religione ebraiche. In termini di impulso edilizio, oggi è però in secondo piano rispetto alla Samaria e a Binyamin. Ci vivono circa 10 mila ebrei distribuiti in 17 insediamenti, a fronte dei circa 73 mila ebrei in 46 insediamenti di Binyamin e ai 44 mila ebrei in 27 insediamenti della Samaria. Numeri che indicano il vero fulcro dello Hityashvut. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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La complessità che affligge i territori solcati dalle Strade 90 e 60 deriva in parte dal fallimento dei piani di pace. Il protagonista più tragico è forse l’Autorità palestinese, nata come soggetto transitorio verso un futuro Stato e rimasta a uno stadio iniziale che di Stato ha molto poco, oggi sempre meno. Abu Mazen ha ereditato da Arafat una situazione difficile, ma all’inizio del suo mandato seppe ricostruire i rapporti con Israele. I suoi sistemi di sicurezza avevano gerarchie e politiche chiare. La collaborazione con Israele era in genere buona, anche perché il nemico era comune: Õamås e i Fratelli musulmani. Abu Mazen ostacolerà fino all’ultimo un passaggio di poteri a Õamås; come l’egiziano al-Søsø, appartiene a una generazione che vuole tenere la religione fuori dalla politica. I suoi primi, promettenti anni di governo hanno visto la creazione di infrastrutture fisiche e sociali: 120 mila famiglie (oltre un milione di persone) sono così divenute dipendenti dall’Autorità. Tale base va mantenuta e questo crea i presupposti della corruzione, una delle accuse rivolte alla leadership palestinese. 3. Dal 2009 ma soprattutto dal 2015, anni in cui Binyamin Netanyahu ha guidato Israele (salvo un breve intermezzo con Naftali Bennett e Yair Lapid), non v’è stato alcun serio tentativo di risolvere il conflitto israelo-palestinese. Se ci sono state delle iniziative, non hanno fatto altro che indebolire ulteriormente Abu Mazen e l’Autorità agli occhi dei palestinesi. La più eclatante è stata quella di Donald Trump che ha frantumato quel poco di rispetto rimasto verso Abu Mazen, percepito ormai come fantoccio di Israele e degli Stati Uniti. Anche Õamås a Gaza ha fallito la prova di governo: oggi è molto cauto verso Israele e lascia che siano quasi sempre altre organizzazioni a condurre l’offensiva. Dopo le distruttive ritorsioni israeliane nella Striscia in risposta ai continui attacchi verso civili israeliani, il popolo di Gaza ha fatto capire alla propria leadership che non vuole altre guerre. In Giudea e in Samaria l’opinione pubblica palestinese è sfiduciata: manca di una vera leadership, è disunita e senza prospettive. Lì i sondaggi mostrano un rafforzamento delle posizioni favorevoli allo smembramento dell’Autorità e alla lotta armata. L’attuale governo israeliano non migliora la situazione. Il suo tono è dato dalla destra oltranzista che occupa poltrone importanti e il cui scopo è aumentare la presenza ebraica nei Territori. Bezalel Smotrich, leader del Partito sionistico religioso, ministro del Tesoro e responsabile della gestione civile dei Territori presso il ministero della Difesa, vede un’occasione irripetibile: un governo composto da partiti di destra e il cui premier è ricattabile. La «svolta» di Smotrich prevede che Israele annetta i Territori, ne prenda il controllo e ponga ai palestinesi tre opzioni: lasciare il paese, restare maturando il diritto alla cittadinanza israeliana dopo aver dimostrato fedeltà allo Stato, vivere in una (sotto)specie d’autonomia come cittadini di serie B. Questo piano non avrà vita facile, specie a livello internazionale: nessuno (americani, giordani, egiziani) vuole un altro focolaio di crisi. Israele ha dunque accettato di congelare per qualche mese ogni decisione di ampliamento o costruzione di nuovi insediamenti, con forte disappunto di Smotrich. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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Da una parte abbiamo l’opinione pubblica palestinese disorientata e stufa di Abu Mazen, dall’altra la società israeliana spaccata che vive uno dei suoi momenti più difficili. Personalmente, vedo nella decisione del 1977 di potenziare l’insediamento di Giudea e Samaria il germe di molti problemi odierni. È un elemento di conflitto interno che avvelena la società israeliana, si salda ad altre ragioni di conflitto sociale e crea profonde, crescenti divisioni. Se una volta l’identità politica del cittadino israeliano era definita dall’appartenenza ideologica (socialisti, liberali, comunisti, revisionisti), nel tempo la posizione sugli insediamenti (pro o contro) ha assunto un peso determinante. Salvo eccezioni, quanti sostengono l’ampliamento degli insediamenti propugnano l’indebolimento del sistema giudiziario israeliano e viceversa. C’è chi per motivi politici alimenta queste divergenze sommandovi altri elementi conflittuali, in primo luogo l’origine etnico-culturale: ashkenaziti contro sefarditi, arabi contro ebrei. Il risultato è un paese spaccato a rischio d’ingovernabilità. L’elemento palestinese è stato intenzionalmente accantonato nelle proteste. In caso contrario, molti manifestanti sarebbero rimasti a casa perché afferenti alla destra moderata. A costoro sfugge però che tra gli obbiettivi del governo c’è quello di sotterrare ogni possibile soluzione con i palestinesi. Facilitare lo smantellamento dell’Autorità e l’assimilazione dei Territori chiamerebbe gli israeliani – anche quelli che hanno a cuore la democrazia – a interrogarsi sul comportamento verso la popolazione palestinese, il cui destino non è esattamente in cima ai loro pensieri. Qui alligna la prossima crisi israeliana: quando una parte, forse minoritaria ma consistente, della popolazione israeliana si opporrà al fatto che due popolazioni vivano nello stesso Stato ma con minori diritti, il danno potrebbe essere già fatto. La vita di Israele non deve basarsi sulla dicotomia destra-sinistra, ma sull’equilibrio che la società israeliana deve trovare tra l’identità ebraica dello Stato e la sua democraticità. Allora si potrà rimettere al centro il contenzioso con i palestinesi, alla ricerca di una soluzione giusta e consapevoli che riconoscere i diritti dei palestinesi non ci indebolisce. Al contrario, ci rafforza. (traduzione di Cesare Pavoncello)
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ISRAELE CONTRO ISRAELE
NON È UN PAESE PER ARABI
di
Ahmed BAKER DIAB e Yitzhak SCHNELL
Malgrado i molti passi avanti e le notevoli eccezioni, gli arabi israeliani restano ampiamente svantaggiati. Alla relativa integrazione socioeconomica fa riscontro la segregazione politico-culturale, con forti connotazioni geografiche. Il patriarcato ci mette del suo.
L
1. E RELAZIONI FRA ARABI ED EBREI in Israele sono improntate a una stabilità caratterizzata da coesistenza sospettosa e cooperazione pragmatica, mirante a facilitare la vita quotidiana. Questa stabilità riesce a mantenersi perché nel corso degli anni lo Stato ha assegnato crescenti risorse alla comunità araba, anche se la discriminazione non è ancora stata rimossa dall’ordine sociopolitico del paese. Tale ordine si è strutturato in tre fasi. La prima, nel corso degli anni Cinquanta del Novecento, vide gli arabi sottoposti a un governo militare nell’ambito di due piani quinquennali. Questi fissarono il loro status di produttori di verdure per il mercato ebraico (allora afflitto dalla penuria di prodotti e dalla conseguente imposizione di una rigida austerità) e di forza lavoro secondaria nell’edilizia, nell’agricoltura e nei servizi. La seconda fase iniziò nel 1967, dopo la guerra dei Sei giorni. Gli arabi dei Territori occupati da Israele durante il conflitto persero i loro impieghi, sicché quelli che erano cittadini israeliani migliorarono il loro status nel mercato del lavoro. Molti di essi divennero operai con salari, stabilità e condizioni sociali migliori. Cominciò anche a svilupparsi un’imprenditorialità araba israeliana, principalmente nel settore alimentare e nell’edilizia, operante soprattutto negli insediamenti arabi. La terza fase comincia negli anni Novanta e arriva a oggi. In questo lasso di tempo una parte della forza lavoro araba si è fatta strada nelle professioni più privilegiate, dalla medicina all’hi-tech. Frattanto imprenditori arabi fondavano importanti aziende soprattutto nel campo dell’edilizia, dei trasporti e della ristorazione, mentre molti lavoratori arabi giungevano a occupare incarichi dirigenziali nel pubblico e nel privato. Le relazioni tra arabi ed ebrei vanno esaminate nel più ampio contesto della società israeliana. Nel tempo l’egemonia del Partito laburista, che ha governato il Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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NON È UN PAESE PER ARABI
paese per molti anni, è venuto meno. Dagli anni Settanta è iniziata una gara fra «tribù», ciascuna delle quali si è costruita un proprio etos circa la natura di Israele. La reciproca distanza e le differenti aspirazioni sul carattere dello Stato hanno scavato solchi sempre più profondi tra laici, ultraortodossi, nazionalisti religiosi e arabi. Il mutuo sospetto è cresciuto. I governi di destra guidati da Binyamin Netanyahu hanno cercato di integrare gli arabi nel mercato del lavoro come leva per aumentare la produttività nazionale, ma hanno continuato a escluderli dalla dinamica politica, che di conseguenza si è estremizzata. Le ricerche sulle forme di separazione e integrazione fra settori della società israeliana evidenziano percezioni estreme delle relazioni alimentate dai politici di destra. L’esame dei rapporti tra ebrei e arabi basato sul modo in cui i secondi conducono la loro vita mira a verificare il grado d’integrazione o separazione tra questi gruppi nel quotidiano. L’indice scelto per misurare l’integrazione è l’entità del capitale umano nelle sue varie forme, all’interno del gruppo di riferimento e fra gruppi diversi. Abbiamo individuato cinque forme di capitale umano la cui accumulazione migliora la vita dell’individuo: sociale, culturale, economico, emotivo e spaziale. Ognuna è misurata utilizzando due o tre indici (tabella 1). Quanto più il capitale è costituito facendo uso di fonti interne al gruppo (arabe), tanto più la persona rimane isolata; al contrario, se le risorse di capitale sono mobilitate da fonti ebraiche l’integrazione sarà maggiore. 2. Sulla scorta di tali criteri, abbiamo condotto vari studi su un campione nazionale di arabi residenti in diversi contesti israeliani: città arabe, città miste, città ebraiche. Abbiamo inoltre messo a confronto arabi che lavorano ogni giorno in ambienti ebraici con altri che lavorano in comunità arabe e sono quindi meno esposti a un pubblico ebraico (tabella 2). Circa il 40% degli intervistati si trova in una posizione intermedia tra integrazione e separazione (valore 3 sulla scala), un altro 17% è integrato (valori 4-5), mentre il 44% è separato (livelli più bassi della scala). È evidente l’esistenza di linee di separazione tra i settori della società, anche se la maggior parte degli arabi le varca quotidianamente esponendosi così all’ambiente ebraico. L’integrazione trova espressione soprattutto nella padronanza dell’ebraico, studiato a scuola dagli arabi come seconda lingua (dopo l’arabo). La lingua ha una grande importanza sul lavoro, ma anche per comprendere la cultura maggioritaria, creare relazioni sociali e provare empatia per l’altro. Purtroppo sono pochi gli ebrei che imparano l’arabo e questa asimmetria compromette il fattore linguistico come strumento d’integrazione sociale. Altri quattro aspetti dell’integrazione sono un atteggiamento positivo verso la stessa, il soggiorno prolungato in aree a presenza ebraica, un senso di agio e di appartenenza a questi spazi e un’estesa esposizione ai media ebraici. Il più basso senso d’integrazione è stato misurato nella costruzione di capitale sociale. Una percentuale relativamente bassa di arabi instaura amicizie con ebrei e sono ancora meno quanti riescono a ottenere aiuto dagli ebrei in caso di necessità. Inoltre, gli Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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Tabella 1 - CAPITALE UMANO E SUE VARIABILI INDICI OPERATIVI IN UNA GIORNATA STANDARD Quantità di tempo trascorso in un ambiente ebraico Numero di ebrei fra le persone incontrate Numero di amici ebrei fra tutti gli amici Richieste di aiuto a ebrei in caso di necessità Padronanza dell'ebraico Scala di distanza sociale Tempo speso a seguire programmi ebraici sul totale Rilevanza dell’identità israeliana Stile arabo tradizionale o stili moderni occidentali Senso di appartenenza a/confort in un ambiente ebraico Professione svolta Reddito familiare rispetto alla media israeliana (circa 9 mila nis)
ASPETTO Cerchie di attività Incontri con ebrei Amici ebrei Aiuto da ebrei Lingua Atteggiamento verso l'integrazione Media ebraici Identità israeliana Stile decorativo della casa Senso di appartenenza a un ambiente ebraico Lavoro Situazione economica
Tabella 2 - RAPPORTO TRA CAPITALE UMANO E LIVELLO D’INTEGRAZIONE DOMANDA Conoscenza lingua ebraica Legami con ebrei Senso d’appartenenza allo spazio ebraico Uso media ebraici Tempo permanenza nell'ambiente ebraico Influenza canoni ebraici nella progettazione e nell'arredamento della casa Ebrei incontrati di persona o su internet Reddito Amicizie in ambiente ebraico Importanza identità israeliana Aiuto ricevuto da parte di ebrei
CAPITALE UMANO Spaziale Sociale
Culturale
Emotivo Economico
(scala 1:5)
FORMA DI CAPITALE culturale culturale culturale culturale sociale culturale sociale economico sociale culturale sociale
LIVELLO INTEGRAZIONE 3,16 2,20 2,47 3,24 3,40 2,12 4,58 2,75 2,05 3,33 2,24
arabi trovano difficile riconoscersi in un’identità israeliana che li accomuni agli ebrei e ritengono che l’integrazione non si traduca in mobilità economica. Per questo, sebbene ebrei e arabi vivano in spazi comuni, gran parte degli arabi fatica a costruirsi un capitale sociale e trova difficile aderire emotivamente a Israele. Lo studio ha anche rivelato differenze d’integrazione nella società israeliana tra diversi gruppi arabi. Le donne trovano più arduo adattarsi, soprattutto a causa della difficoltà a costruire capitale sociale: a molte viene infatti vietato di lavorare e sono obbligate a trascorrere diverse ore al giorno nelle loro case, a causa di un regime patriarcale che resiste in molte famiglie arabe allargate. Nelle città arabe la leadership tradizionale è particolarmente forte e frena le donne che vogliono eludere la tradizione. Gli studi mostrano che gran parte delle giovani arabe ambiscono all’autorealizzazione e al successo, ma con gli anni accettano i compromessi dettati dal patriarcato familiare. Nemmeno le donne che si trasferiscono in città ebraiche si liberano di questi condizionamenti e restano attente a non danneggiare la propria reputazione, eviCopia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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NON È UN PAESE PER ARABI
tando accuratamente di intessere legami sociali con ebrei. Solo quante vivono in città miste eccellono nella creazione di capitale sociale, perché lì esistono interstizi e margini in cui le donne arabe hanno occasioni di incontro con ebrei, pur rimanendo soggette alle norme della società araba. Inoltre, nelle città miste c’è una tradizione di convivenza che prevede, sin dall’infanzia, occasioni d’incontro. Le donne arabe suppliscono alla carenza di capitale sociale con il capitale culturale ed emotivo: hanno di norma maggiore padronanza dell’ebraico, sono più esposte ai media ebraici e provano maggiore empatia verso gli ebrei. Ciò trova una spiegazione nel fatto che per le donne arabe il contatto con gli ebrei rappresenta una chance di attenuare i vincoli del patriarcato: nello spazio liminale delle città miste o nello spazio ebraico, comportamenti vietati nella società araba vengono tollerati con tacito consenso del patriarcato. Inoltre, dati alla mano gli arabi (uomini e donne) che vivono quotidianamente in un ambiente ebraico sono più integrati nella società israeliana rispetto a quanti lavorano in un ambiente arabo. Questa tendenza è più forte tra gli uomini che tra le donne, poiché da queste ultime ci si aspetta che mantengano l’identità araba e palestinese anche per trasmetterla alle nuove generazioni. 3. Un altro studio ha esaminato le differenze nell’integrazione di cristiani e musulmani a Haifa, città mista nota per le relazioni relativamente buone tra ebrei e arabi. Vi si tiene ogni anno la Festa delle feste che celebra Hanukkah, il Natale e le festività musulmane. Lo studio mostra che il 30% dei musulmani sono (auto) segregati, contro il 17% dei cristiani. Per contro, il 28% dei cristiani è integrato, rispetto al 14% di musulmani. Il resto – 55% circa di entrambi i gruppi – è in posizione intermedia. I cristiani godono pertanto di un certo vantaggio in termini d’integrazione nella realtà sociale d’Israele: incontrano più ebrei, intrattengono con loro amicizie e se necessario sfruttano a proprio vantaggio tali conoscenze. Provano inoltre un maggior senso d’appartenenza e hanno una migliore padronanza della lingua ebraica. L’integrazione degli arabi varia notevolmente da città a città. Si prendano ad esempio Haifa e Nof haGalil, vicino a Nazaret. Nella prima il livello d’integrazione è relativamente alto, nella seconda è basso: a Haifa solo il 14% degli arabi cristiani vive in modo segregato, a Nof haGalil, quasi il 64%. A Haifa il 30% dei cristiani è integrato, a Nof haGalil il 4%. Queste differenze scontano l’opposizione degli ebrei alla presenza araba dentro Nof haGalil, centro nato per rafforzare la presenza ebraica in Galilea. Qui gli arabi non sono bene accetti, per quanto si sforzino d’integrarsi. Haifa, di contro, ha una tradizione di convivenza. A Nof haGalil, e altrove, gli arabi si scontrano con un «soffitto di cristallo» che ne blocca l’integrazione. In periodi di tensione, i sospetti tra i due settori della popolazione si acuiscono e gli arabi tendono ad allontanarsi dalle aree ebraiche, in attesa che torni la calma. Nel complesso, gli arabi sono integrati nella società israeliana in modo parziale. Si muovono in ambienti ebraici, incontrano con frequenza gli ebrei e parlano ebraico, ma la maggior parte di essi fatica a costruirsi un capitale sociale ed emotivo. Solo pochi, con grandi sforzi, riescono a conquistarsi il sostegno degli ebrei e Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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comunque trovano difficile riconoscersi nella loro identità civica poiché si sentono esclusi politicamente e discriminati come cittadini. Il grado d’integrazione e separazione varia nel tempo. In periodi di tensione fra Israele e palestinesi, i due settori della popolazione sono assaliti da reciproca sfiducia: gli arabi hanno paura a girare in zone ebraiche o miste (come i centri commerciali) per timore di essere presi di mira e cercano di celare la propria identità araba. In periodi di calma invece, gli incontri con ebrei in ambienti da loro abitati sono la norma. Gli arabi, ad esempio, sono soliti visitare i parchi delle città ebraiche marcando la loro presenza con musica ad alto volume e cibi tipici messi in bella mostra. Negli ultimi vent’anni la tendenza all’israelizzazione si è intensificata. Gli arabi hanno avuto l’impressione che fosse in atto un piano per colmare i divari tra i settori della popolazione, favorendo la loro ascesa socioeconomica. Ciò li ha illusi che la strada verso l’integrazione nella società, nell’economia e nella politica fosse ormai aperta. La legge che definisce Israele Stato nazionale degli ebrei è stata dunque una doccia fredda. Anche la dura politica di Israele nei Territori e i pesanti confronti militari a Gaza hanno contribuito a riallontanare la popolazione araba dall’integrazione. Le sommosse del 2021 nelle città miste sono scoppiate sullo sfondo dell’Operazione Guardiano delle mura nella Striscia, ma erano anche sintomo di frustrazione per la negligenza verso i cittadini arabi d’Israele. Questi appaiono maggiormente integrati nelle città miste, ma tale status contrasta con l’incuria che regna nei loro quartieri. Circostanza che lascia trasparire, una volta di più, l’impenetrabile soffitto di cristallo. (traduzione di Cesare Pavoncello)
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‘In Terrasanta non ci si parla più’ Conversazione con Pierbattista a cura di Guglielmo GALLONE
PIZZABALLA, patriarca di Gerusalemme dei Latini
LIMES Qual è la condizione dei cristiani in Terrasanta? PIZZABALLA «Terrasanta» è un’espressione religiosa che,
da un punto di vista geopolitico, non esiste. Perché parliamo di due paesi, di due realtà e di due prospettive completamente diverse fra loro, Israele e Palestina. Anche la condizione dei cristiani è molto variabile quando si parla di Terrasanta. In Israele come in Palestina noi cristiani siamo pochi. Nello Stato ebraico, su un totale di 9 milioni di abitanti, ci sono circa 130 mila cristiani autoctoni, cioè arabi. Se sul piano economico non ci sono gravi problemi, su quello sociale e identitario in Israele i cristiani sono in difficoltà. Sono una minoranza dentro la minoranza. Sono israeliani ma non sono ebrei. Sono arabi ma non sono musulmani. Per definire chi sei, devi dire chi non sei. Con l’instaurazione del nuovo governo guidato da Binyamin Netanyahu stanno emergendo sempre più difficoltà nella vita pubblica, non tanto in riferimento ai diritti individuali quanto a quelli collettivi. Parlo dei diritti della comunità: la gestione di scuole, ospedali e del culto pubblico sta diventando complicata. In Palestina la situazione è diversa. Innanzitutto, esistono almeno due Palestine: la Cisgiordania e Gaza. Nel complesso, il numero dei cristiani è inferiore a cinquantamila – anche in questo caso dunque molto scarso. Più problematiche sono le prospettive di sviluppo. Se il numero di cristiani in Israele è stabile in percentuale, in Palestina il declino è lento ma continuo. LIMES Lei va spesso a trovare i cattolici palestinesi che abitano nella Striscia di Gaza. Come è la situazione? PIZZABALLA Il quadro economico e sociale è molto pesante. Disoccupazione, mancanza di infrastrutture fondamentali, razionamento di acqua e di elettricità. I permessi verso Israele o verso l’Egitto sono pochissimi. Chi abita a Gaza è ormai chiuso dentro la Striscia. Oggi più di prima. Per quanto riguarda la piccola comunità cristiana – ci sono circa ottocento cristiani su quasi due milioni di abitanti – la Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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‘IN TERRASANTA NON CI SI PARLA PIÙ’
nostra presenza è simbolica ma comunque positiva grazie alle scuole e agli ospedali che gestiamo. Finora non abbiamo avuto grossi problemi con Õamås. Insomma, si tratta proprio di un altro paese. LIMES In Israele invece arrivano sempre più migranti, soprattutto dall’Asia. Sta cambiando la composizione della comunità cristiana in Terrasanta? PIZZABALLA Israele, come tutto il resto del mondo, non è esente dal fenomeno migratorio. Abbiamo un gruppo maggioritario di filippini, seguito da indiani, cinesi e in piccola parte indonesiani. Una sessantina di varie comunità di lavoratori stranieri legali e illegali sono distribuite nel paese. E sono circa duemila i figli, nati e cresciuti qui, dei lavoratori stranieri. Di conseguenza, anche il volto della Chiesa sta cambiando: se la domenica è la giornata dedicata ai locali, il sabato è per gli stranieri. Se in Europa la prospettiva della migrazione è quella dell’integrazione, in Israele ciò non avverrà mai. Prima o poi gli stranieri dovranno andare via innanzitutto perché i permessi di soggiorno e lavoro sono rigorosamente temporanei. Eppure, Israele continuerà ad avere bisogno di lavoratori stranieri. Il fenomeno migratorio in Israele resterà instabile, ma allo stesso tempo sempre presente. LIMES L’aggressione russa all’Ucraina sta generando conseguenze economiche e sociali anche in Medio Oriente. Questa guerra interferisce nelle relazioni che il Patriarcato dei Latini ha con gli altri patriarchi e con le confessioni cristiane del mondo orientale? PIZZABALLA In forma indiretta, sì. Le interferenze causate dalla guerra in Ucraina non riguardano il Patriarcato latino perché noi non abbiamo rapporti diretti con il Patriarcato ortodosso di Mosca né con la Chiesa ortodossa autocefala ucraina. Al contrario, la guerra interferisce in particolare sul Patriarcato ortodosso, oggi più in difficoltà nelle relazioni con alcune Chiese ortodosse. E, dal momento che viviamo insieme, anche noi ne risentiamo. LIMES Cosa pensa la popolazione araba del conflitto tra Mosca e Kiev? PIZZABALLA Gran parte degli arabi cristiani in Terrasanta è dalla parte della Russia di Vladimir Putin. Il mondo arabo non ama gli Stati Uniti. Tutto ciò che è contro gli Stati Uniti piace agli arabi. Soprattutto agli arabi cristiani. Durante le guerre in Iraq e in Siria, Putin è intervenuto in maniera chiara contro lo Stato islamico. Inoltre, gli arabi cristiani nutrono simpatia per la Russia perché ritengono che la presenza di Mosca in Medio Oriente abbia tutelato i diritti dei cristiani. Ciò vale ancor più per i palestinesi, perché vivono come una ferita profonda la loro storia e leggono il corso degli eventi attraverso il filtro della propria esperienza. I palestinesi pensano che l’Europa non conceda alla Russia di poter fare in Ucraina ciò che a Israele è consentito fare da anni in Palestina. LIMES Lei si trova a Gerusalemme da trentatré anni. Nel 1999 è entrato formalmente in servizio alla Custodia di Terrasanta, nel 2004 è diventato custode e nel 2020 papa Francesco l’ha nominata patriarca di Gerusalemme dei Latini. Dal suo punto di osservazione, come è cambiata la società israeliana? PIZZABALLA È cambiata molto e si va sempre più frammentando. Il paese oggi è spaccato in due. Le manifestazioni nei fine settimana sono partecipate da una metà Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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di Israele. L’altra metà ha votato la coalizione di governo. Non si tratta di una divisione fra persone di destra o di sinistra, fra religiosi e non religiosi. Si tratta di una divisione che tocca l’identità stessa dello Stato, ossia il carattere che esso deve avere. Israele è a un punto di svolta della sua storia. Sta decidendo come impostare la forma del proprio Stato. L’ex presidente della Repubblica israeliana Reuven Rivlin notava come in Israele ci siano tante anime, tante tribù: religiosi, laici, sefarditi, ashkenaziti e via dicendo. A oggi, mi sembra ci siano due anime: una più liberale, un’altra più religiosa. Certi orientamenti, sempre esistiti, ora sono esplosi per ragioni politiche e sociali. Sono stupito dal rifiuto e dall’incapacità di questo governo di saper trovare linguaggi e formule in grado di salvare l’unità del paese. La parte religiosa della coalizione ha una visione basata esclusivamente sulla religione ebraica. Il problema è che vogliono imporre la stessa visione a tutti. Israele si è sempre presentato come Stato ebraico e democratico. Il rischio è che il primo aspetto prevalga sul secondo. In questo contesto, quel 20% di arabi sembra non esistere. Io azzardo invece che saranno sempre più importanti per l’anima liberale di Israele. LIMES E la società araba in Israele, soprattutto quella più giovane, come sta cambiando? PIZZABALLA La metà della popolazione araba in Terrasanta ha in media 25 anni. Tuttavia, vive una sorta di disaffezione verso la vita politica. Manca una leadership in entrambi i paesi. L’Autorità palestinese sta vivendo una crisi interna ed è debole. Molti giovani in Palestina si allontanano dalla vita pubblica e dall’attività politica, forse con l’eccezione di alcune zone dove invece si sceglie l’adesione a gruppi locali legati alla lotta armata, soprattutto nell’area settentrionale, verso Nåblus. LIMES Un ritorno alla violenza tra i due popoli è evidente. Da cosa nasce questa nuova escalation? PIZZABALLA Deriva dal sentimento generale di sfiducia, che riguarda sia il rapporto tra israeliani e palestinesi, sia le singole società. Quando non ci si fida più, non ci si parla più. Purtroppo, la violenza diventa così l’unico modo attraverso cui ci si esprime. Non intendo solo la violenza militare o fisica. C’è quella del linguaggio, del rifiuto, dei pregiudizi. Il numero di morti fra israeliani e palestinesi nel 2022 è paragonabile a quello della seconda Intifada. Nei primi mesi del 2023 non c’è stato alcun cambiamento, anzi. Questa è, al momento, la preoccupazione principale. LIMES Per risolvere le controversie tra Israele e Palestina, si parla ancora della soluzione dei due Stati. Che però è complicata dalla difficile convivenza tra due popoli rivali. Soprattutto, non c’è continuità territoriale. Questa soluzione è plausibile? O bisogna pensare ad altro? PIZZABALLA È illusorio pensarci ora, perché al momento una soluzione non esiste. Due popoli, due Stati è formula sempre più complicata, come anche l’opzione dello Stato unico. In ragione dei fallimenti degli accordi precedenti, bisognerebbe pensare non tanto a soluzioni ideali, quanto ad avviare processi che tengano conto di quei fallimenti. Abbiamo stretto degli accordi, ma abbiamo lavorato con la popolazione? Abbiamo preparato il terreno? Abbiamo pensato all’ambito culturale Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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‘IN TERRASANTA NON CI SI PARLA PIÙ’
e educativo? Forniamo prospettive di vita realistiche? Si deve lavorare sul lungo periodo senza pensare a soluzioni immediate. Non bisogna limitarsi a fare dichiarazioni. Occorrono gesti concreti sul territorio capaci di ricostruire la fiducia. Si dovrà comunque pensare a soluzioni creative. In questo senso, una mediazione esterna sarà necessaria. Ma nessuna soluzione potrà essere imposta da fuori. Non funzionerebbe. Israeliani e palestinesi resteranno qui; nessuno sa dire entro quali forme, ma dovranno comunque essere loro a deciderle. Solo in quel contesto una mediazione potrà essere utile. Urge insomma che le due parti decidano e accettino prima di tutto di parlarsi. A oggi non sembra probabile che ciò avvenga presto.
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ISRAELE CONTRO ISRAELE
VIAGGIO A H. UWWAˉ RA BAROMETRO DEI TEMPI
di
Elisha BEN-KIMON
La cittadina cisgiordana, cinta da coloni e teatro dei sanguinosi fatti di febbraio, come emblema della questione israelo-palestinese. Passaggio obbligato da/per Nåblus, alterna coesistenza e cieca violenza. Lo Stato ebraico è fragile e i suoi nemici lo sanno.
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1. RIMO POMERIGGIO, 26 FEBBRAIO 2023. I fratelli Hillel e Yagel Yaniv, dell’insediamento di Har Bracha vicino a Nåblus, caricano le borse sulla loro auto e si preparano a partire. All’uscita dell’insediamento i due si fermano per aiutare una giovane vicino al cancello a spostare degli oggetti pesanti. In quegli stessi minuti, a sette chilometri da loro, ‘Abd al-Fattåõ Õarûša, residente palestinese di Nåblus, inizia a camminare nel cuore della cittadina palestinese di Õuwwåra armato di pistola. Cerca cittadini ebraici per ucciderli. Secondo fonti dell’intelligence israeliana, era affiliato a Õamås. Hillel e Yagel scendono la strada tortuosa che li porta verso Nåblus e girano a destra. Entrano a Õuwwåra, superano i negozi sul lato della strada e le postazioni dei soldati dell’esercito israeliano, fino a quando restano bloccati nel traffico, a circa 150 metri dalla piazza principale della cittadina. In quel momento Õarûša li identifica come ebrei, si avvicina camminando alla loro auto e una volta arrivato all’altezza del finestrino estrae la pistola e scarica più di 15 proiettili da distanza ravvicinata su entrambi. Una esecuzione. Dopo gli spari, Õarûša inizia a correre verso il villaggio di ‘Aynåbûs, a un chilometro di distanza. Contatta i suoi figli che lo portano nel campo profughi di Ãanøn. Sulla scena dell’omicidio giungono immediatamente esercito e intelligence israeliani. Hillel e Yagel non hanno alcuna possibilità di sopravvivere: portati d’urgenza in un ospedale israeliano, i medici non possono che constatarne la morte. Le forze israeliane ordinano la chiusura del «corridoio di Õuwwåra», la strada principale nel cuore della cittadina. Tutti i negozi vengono chiusi e in pochi minuti l’affollamento diventa desolazione. I residenti palestinesi si rinchiudono nelle loro case mentre i militari israeliani iniziano una caccia all’uomo. In pochi minuti la notizia si diffonde fra i coloni degli insediamenti nei dintorni di Õuwwåra. Nei gruppi Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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Sarra
ARIEL
Tall
Ğammā‘īn
Marda
Zaytā Ğammā‘īn Kifl Hāris Qīra
Dayr Istiyā
YITZHAR Località israeliane
Basi militari
Area chiusa (zona di fuoco)
Area C Pieno controllo israeliano per la sicurezza, la pianificazione e la costruzione (per necessità relative alla gradazione di grigi, questa area comprende anche gli spazi municipalizzati intorno agli insediamenti)
Area israeliana Zona edificata (Insediamenti)
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LO SNODO DI HUWWĀRA
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Baytā
Ūdalā
‘Awartā
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Yatmā Verso Rāmallāh
C i s g i o r d a n i a
Aynābūs
Huwwāra
KFAR TAPUAH
‘Ūrīf
YITZHAR
GIVAT RONEN
HAR BRACHA Būrīn
‘Irāq Būrīn
N ā b l u s
S A M A R I A
Qabalān
Ūsarīn
Ğūrīš
HANEKUDA
ITAMAR
Awarta Località arabe
Area B Controllo palestinese aree civili e controllo congiunto con Israele per la sicurezza
Area A Pieno controllo palestinese
Area palestinese Zona edificata
Esistente In costruzione
Barriera di separazione
‘Aqrabā
Bayt Fūrīk
ELON MOREH
VIAGGIO A H.UWWAˉRA, BAROMETRO DEI TEMPI
ISRAELE CONTRO ISRAELE
WhatsApp e sui social inizia a girare l’appello ad affluire in massa per organizzare proteste nel villaggio. Passano le ore, scende la notte. Centinaia di coloni degli insediamenti ebraici manifestano agli incroci. La maggior parte sta in piedi tenendo in mano bandiere israeliane, ma nel frattempo alcune dozzine di giovani pianificano una protesta diversa. Violenta. Preparano bottiglie incendiarie, si dividono in piccoli gruppi e irrompono a Õuwwåra. I primi obiettivi sono le case nella parte occidentale della cittadina. I giovani vi scagliano contro molotov, incendiano automobili e lanciano pietre. I soldati israeliani iniziano a portare fuori i palestinesi dalle case che bruciano. Il pogrom dura ore e nel corso dei disordini giunge la notizia di un palestinese morto a seguito di ferite da armi da fuoco. Non è chiaro chi gli abbia sparato: un colono, un soldato o un palestinese armato. Le Forze di difesa israeliane (Idf) reagiscono lentamente e con grande ritardo si rendono conto che è necessario rafforzare la presenza nel villaggio. Arrivano i rinforzi. I soldati scendono dagli autobus e vengono indirizzati al campo di battaglia. Continuano a portare al sicuro i palestinesi dalle loro case attaccate e iniziano ad allontanare i coloni dalla zona. Solo dopo tre ore riescono a separare le popolazioni. Gli esiti sono pesanti: oltre 10 case e 100 automobili bruciate, negozi danneggiati. «L’esercito ci ha detto di chiuderci nelle case. Abbiamo visto i giovani arrivare e abbiamo cominciato a sentire esplosioni e spari. Avevo paura per i miei figli. Avevo paura che sarebbero venuti alla mia porta, o alle finestre. È stata una notte da incubo», racconta un residente di Õuwwåra la cui casa è stata danneggiata. Nel corso della notte i disordini diminuiscono e torna la calma. Cinque giorni dopo i negozi sulla strada principale riaprono. I coloni, seppur timorosi, tornano a percorrere l’arteria, a visitare i negozi e a ricevere i servizi dai palestinesi. «Õuwwåra è un concentrato del conflitto israelo-palestinese: calma e coesistenza e poi terrorismo, ritorsioni, separazione fra le popolazioni e di nuovo calma e coesistenza fino al prossimo evento», dice un alto esponente delle Idf. Le ferite però restano. Per giorni a Õuwwåra aleggia un pesante odore di bruciato. Vicino ai negozi si vedono i mucchi di pietre lanciate dai coloni. A distanza di pochi metri l’uno dall’altro, i soldati israeliani presidiano con le armi spianate: alcuni sono alle finestre degli edifici, altri stazionano nelle jeep in prossimità della strada trafficata, bardati dalla testa ai piedi. Alle finestre delle case sacchi di sabbia, le postazioni sono contornate da blocchi di cemento. Tutti pronti alla battaglia. La strada che attraversa Õuwwåra è attualmente la più violenta in Giudea e Samaria. Ogni giorno si verificano incidenti legati alla sicurezza. Alcune volte leggeri, altre volte gravi. La pressione è sempre alta. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
2. A Õuwwåra, nel cuore della Samaria, vivono circa 11 mila palestinesi. Alla vitalità dell’ambiente metropolitano contribuiscono molti israeliani e palestinesi di altre zone. I primi risiedono negli insediamenti circostanti come Itamar, Elon Moreh, Har Bracha, Givat Ronen e Yitzhar, sparsi nell’area nota come Dorso della montagna (i rilievi nella Samaria nord-orientale); i secondi vi transitano diretti a Nåblus e ad
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VIAGGIO A H.UWWAˉRA, BAROMETRO DEI TEMPI
altri villaggi palestinesi come Baytå, ‘Awartå o ‘Aqrabå, vicini agli insediamenti. Gli esperti israeliani di sicurezza identificano in questa prossimità il cuore del problema: impossibile separare nettamente le popolazioni, in permanente attrito fra loro. Õuwwåra è attraversata dall’arteria che conduce a tutti questi villaggi e insediamenti. Per questo la cittadina è centrale nella vita di migliaia di persone che abitano nei dintorni. La dorsale parte dagli insediamenti di Kfar Tapuach, nella parte occidentale e prosegue fino allo snodo che le Idf chiamano Zomet Habitot, punto di accesso alla cittadina. Da qui si dipana una strada principale lunga circa quattro chilometri fiancheggiata da numerose attività palestinesi: ristoranti, negozi di abbigliamento e calzature, officine meccaniche e via elencando. «In tempi buoni gli affari vanno molto bene. Per la mia officina pago un affitto di circa 50 mila nis (nuovo siclo israeliano, circa 14 mila euro, n.d.r.) l’anno e vengono qui da ogni parte, israeliani e palestinesi. Ho vari operai e gli israeliani sono benvenuti: ne arrivano molti anche da Tel Aviv, Rishon LeTziyon e Ramat Gan», spiega Ayûb Šurråb, proprietario di un’officina BMW. Per capire la realtà di Õuwwåra occorre distinguere fra le zone più interne e quelle adiacenti alla strada principale che la attraversa, denominata dalle Idf «corridoio di Õuwwåra» e teatro di gran parte degli incidenti. Il corridoio è una delle direttrici centrali della Samaria. Il fatto che sia un passaggio obbligato lo rende un costante punto d’attrito. Secondo i dati dell’esercito israeliano, nei periodi di maggiore tensione la regione di Õuwwåra vede ogni settimana fra 50 e 70 lanci di pietre contro veicoli israeliani, mentre nei periodi più tranquilli si viaggia sui 20 lanci settimanali. La media è di oltre otto episodi al giorno, con molti feriti e una tensione continua. «Gli israeliani che vivono lungo il Dorso della montagna si confrontano con questi attacchi quotidianamente. Il problema è che ogni attacco acuisce lo scontro fra le popolazioni», spiega una fonte militare, aggiungendo che «il colono colpito da una pietra, prima di chiamare l’esercito, avvisa i suoi compagni e questi accorrono a Õuwwåra per reagire con lanci di pietre e attacchi ai palestinesi. A quel punto comincia la festa: i coloni arrivano con i volti coperti per non essere riconosciuti dalle telecamere di sicurezza dei negozi, lanciano pietre e si accaniscono su auto e negozi. Si fanno giustizia da soli». Per le Idf il confronto numerico è tuttavia impari: senza nulla togliere alla gravità delle ritorsioni contro i palestinesi, la quantità di attacchi ai coloni è smisuratamente maggiore. Gli abitanti di Õuwwåra spiegano che in genere i responsabili delle sassaiole vengono da villaggi vicini. «Noi vogliamo vivere tranquilli», dice Ayûb Šurråb. «Chi lancia pietre viene da Baytå o ‘Aynåbûs (villaggi nelle vicinanze, n.d.r.). L’attentatore che ha ucciso i fratelli Yaniv era di ‘Askar (un campo profughi a Nåblus, n.d.r.), non viveva qui». Le Idf confermano: «Non c’è dubbio che la gente di Baytå sia più radicale e propensa all’uso della violenza. Gli abitanti di Õuwwåra non sono così, anche se recentemente i ragazzi della cittadina hanno cominciato a prendere parte a queste sassaiole». L’esercito israeliano è presente in forze sul corridoio per proteggere i coloni e per separare le popolazioni. Dai fatti di febbraio a Õuwwåra e dintorni staziona un Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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intero battaglione – circa 500 soldati schierati lungo la strada: una parte in postazioni difensive, altri pronti ad azioni offensive, altri impegnati in attività preventive come posti di blocco, imboscate nei punti più critici e arresti di affiliati ad organizzazioni terroristiche. «Ogni lancio di pietre incrina il nostro senso di sicurezza», spiega un colono che si trincera nell’anonimato. «Immagina di guidare verso il tuo lavoro, come ogni giorno; anche tua moglie sta percorrendo quella strada con i tuoi figli, proprio come i tuoi genitori quando vengono a trovarti. E sai benissimo che un’auto ferma nel traffico può essere attaccata con pietre o crivellata di proiettili. Qui è in gioco la vita delle persone. Vivere ogni giorno con un rinnovato senso di paura è difficile. Non abbiamo sicurezza. Quando cerchiamo di spiegare la realtà all’esercito, non otteniamo risposta. Non hanno istituito posti di blocco agli ingressi dei villaggi vicini o di Nåblus, non hanno aumentato o migliorato i controlli. Hanno continuato a fare quello che facevano prima e non è abbastanza. Per questo c’è chi reagisce in modo autonomo. L’esercito vuole solo che non ci siano scontri e per ora siamo noi a subire. Non siamo a favore della violenza, ma una parte di noi sente che deve difendersi e per questo fa quel che fa». «I giovani coloni vengono qui ogni volta, non è una novità», conferma un residente di Õuwwåra che ha visto la sua casa bruciata. «Lanciano pietre. Una volta mi hanno attaccato con bastoni e sassi mentre ero chiuso in macchina. Hanno infranto i finestrini e il parabrezza. Per miracolo non sono rimasto ferito. Ma la cosa più sorprendente è che nessuno è stato arrestato. Non ho mai sentito che le Forze di sicurezza di Israele arrestino questi giovani. Anche quando li fermano, vengono sempre liberati e non ci sono mai accuse contro di loro. Perché non li arrestano?». 3. Nell’ambito dell’indagine sui fatti del 26 febbraio scorso le Idf hanno posto due giovani israeliani in stato di fermo amministrativo: si tratta di un mandato d’arresto emesso in assenza di formale incriminazione, firmato solo dal ministro della Difesa e basato su informazioni raccolte dall’intelligence interna israeliani, lo Shin Bet, non divulgabili al pubblico. Un procedimento molto aggressivo, che vieta al fermato perfino di consultare un avvocato. Con il medesimo iter lo Shin Bet ha fermato altri due giovani ebrei sospettati di aver compiuto ritorsioni. Questo modus operandi trova ragione nel comportamento dei giovani, che generalmente tacciono e non collaborano alle indagini. Quando vengono arrestati le organizzazioni della destra israeliana promuovono campagne in loro favore per fare pressione su deputati e ministri, organizzano manifestazioni di protesta e usano tutti gli strumenti legali disponibili per ottenerne il rilascio. Non di rado lo Shin Bet è costretto a rilasciarli e il grosso delle inchieste finisce archiviato. Negli anni Õuwwåra è assurta a simbolo, a indicatore del conflitto israelo-palestinese. In periodi di (relativa) quiete è aperta e i suoi commercianti fanno affari con i molti clienti israeliani, gli automobilisti viaggiano a ridosso dei negozi senza paura e la presenza dell’esercito è ridotta. Finché non succede qualcosa, non importa se in zona o più lontano. «Ogni incidente che accade in Cisgiordania risveglia Õuwwåra», spiega una fonte dell’intelligence israeliana. «Se c’è un attacco terroriCopia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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VIAGGIO A H.UWWAˉRA, BAROMETRO DEI TEMPI
stico a Hebron, a Råmallåh, a Ãanøn o a Nåblus, immediatamente decine di coloni calano nella cittadina e compiono ritorsioni contro i suoi abitanti. E viceversa: ogni nostra azione militare che sfocia nella morte di palestinesi a Hebron, a Råmallåh, a Ãanøn o a Nåblus scatena lanci di pietre a Õuwwåra contro automobili israeliane. Õuwwåra è il luogo dove si ha il polso della situazione». Ciò si deve alla strettissima vicinanza tra le popolazioni israeliana e palestinese e all’esiguità del territorio, che alberga gruppi radicali. Considerando l’impressionante vicinanza fra gli abitati, per i giovani fanatici dell’insediamento ebraico di Yitzhar compiere ritorsioni contro i palestinesi di Õuwwåra è facile. Per la medesima ragione, un residente di Õuwwåra (o dei villaggi a ridosso) che voglia lanciare pietre deve solo uscire di casa, adocchiare l’auto da attaccare, gettare la pietra e tornare a casa per prepararsi un caffè. Quanto succede a Õuwwåra e nel resto dei Territori è inscindibile dalle dinamiche della società israeliana, del suo parlamento e del suo governo. La composizione dell’esecutivo di recente formazione, con il peso senza precedenti della destra oltranzista, influisce su quanto accade in Giudea e in Samaria: l’impulso all’espansione degli insediamenti esistenti e alla costruzione di nuovi, l’approccio alla sicurezza, l’atteggiamento dello Stato verso i coloni e i palestinesi che vivono oltre la Linea verde. A capo dei partiti haTzionut haDatit (Sionismo religioso) e ‘Otzma Yehudit (Potenza ebraica) vi sono i ministri Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir: entrambi noti agli organi di sicurezza israeliani per essere sospettati, da giovani, di ritorsioni ed entrambi addentro alle dinamiche di Õuwwåra. Sono la voce alla Knesset (parlamento) dei coloni, le cui lamentele giungono loro direttamente. Bezalel Smotrich, ministro delle Finanze e titolare di alcune funzioni della Difesa, abita nell’insediamento di Kedumim in Samaria e quindi vive la situazione in prima persona. Idem Itamar Ben-Gvir, il leader di ‘Otzma Yehudit. Õuwwåra trova posto anche negli interventi del premier Binyamin Netanyahu, che in un discorso pubblico ha equiparato i manifestanti contro la sua riforma giudiziaria ai coloni macchiatisi di violenze a Õuwwåra. Il paragone ha provocato dure reazioni. Smotrich ha invece detto che «Õuwwåra dev’essere cancellata», salvo poi spiegare che non che l’ha con le persone innocenti. Israele affronta uno dei periodi più drammatici dalla sua fondazione: abituato a confrontarsi con minacce esterne e con i palestinesi, questa volta deve fare i conti con le faglie interne alla società. L’opinione pubblica è divisa sulla riforma promossa dal governo di destra; lo scontro fra sostenitori e oppositori investe il paese. Personaggi dell’industria, della sanità, della finanza e di tanti altri settori hanno preso posizione, il grosso contro il provvedimento. Ma divisioni e proteste interessano anche istituzioni da sempre super partes come l’esercito, l’intelligence e la polizia. I palestinesi, in Samaria e altrove, guardano all’instabilità del democratico Israele e sono in molti a chiedersi se una delle organizzazioni palestinesi deciderà di sfruttare la fase di debolezza e fragilità che il paese attraversa. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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(traduzione di Cesare Pavoncello)
ISRAELE CONTRO ISRAELE
L’INTIFADA DEI LEONI DI NAˉ BLUS
di
Umberto DE GIOVANNANGELI
Chi sono i giovani palestinesi che contestano i loro capi. Gli effetti dell’occupazione israeliana. La sfida alla corruzione dell’Anp e all’islamismo di Õamås. Il mito di Ibråhøm al-Nåbulsø. L’uso dei social media e l’organizzazione delle cellule.
È
1. L’INTIFADA DEI LEONI DI NÅBLUS. SONO I militanti di ‘Arøn al-‘Usûd, della Tana dei Leoni, i giovani palestinesi che hanno rotto con le fazioni storiche di Õamås, della Jihåd islamica e di Fatõ. Guardano alla sempre più instabile e screditata gerontocrazia dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) con un misto di distacco e disprezzo. Per rappresentarsi usano TikTok, le canzoni, i social media. Non sono ispirati da una strategia politico-terroristica né eterodiretti dai pasdaran iraniani o dalle petromonarchie del Golfo. Non sono pervasi dal tradizionale fanatismo jihadista o immolati al culto del martirio. A muoverli è il disincanto armato, il proposito di offrire una risposta distruttiva alla totale assenza di futuro, a una realtà che non concede spazio alla speranza. Le leadership di Õamås e di Fatõ sono state spiazzate dalla loro ascesa, soprattutto in Cisgiordania. Hanno provato a ricondurre a sé le azioni terroristiche o di resistenza dei Leoni. Senza riuscirci. Lo stesso si può dire degli attori esterni – su tutti Turchia, Egitto, Iran, Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi Uniti – che avvalendosi di strumenti diversi, dal sostegno economico a quello militare, considerano la questione palestinese un tassello della loro strategia regionale. Ma questo schema è saltato. A Nåblus, a Ãanøn, nell’intera Cisgiordania. E non sarà un presidente ultraottantenne, sempre più isolato nella sua roccaforte di Råmallåh, a rilanciarlo. Come annotano Mariam Barghouti e Yumna Patel 1 in un interessante reportage per Mondoweiss: «Relativamente sconosciuti al di fuori di Nåblus fino a pochi mesi fa, i giovani combattenti si sono guadagnati lo status di eroi in tutta la Palestina. Nelle strade della città vecchia di Nåblus, tuttavia, sono più che semplici eroi mitici. Sono i fratelli, i figli e gli amici della gente di qui. Sono i vicini di casa di chi li ha visti crescere, i bambini che un tempo compravano merendine Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
1. M. BARGHOUTI, Y. PATEL, «The story of the Lions’ Den», Mondoweiss, 4/11/2022.
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dal negozio in fondo alla strada e che facevano baccano con i loro coetanei del quartiere». I combattenti della porta accanto. Il gruppo è legato da una tenue identificazione ideologica, ma possiede una sorprendente comprensione delle regole del marketing dei social media. I suoi membri sono diventati gli eroi di TikTok nei territori e hanno raccolto moltissimi follower su Instagram (al loro apice erano 160 mila). Questi giovani crescono con il mito del Leone di Nåblus, soprannome di Ibråhøm al-Nåbulsø, leader delle Brigate dei martiri di al-Aqâå ucciso il 9 agosto 2022 a seguito dell’irruzione di soldati israeliani nella sua abitazione. Una rappresentazione veicolata nei video che spopolano in rete e nelle canzoni dei rapper palestinesi. La loro attrattività è alimentata dalla crescente violenza dei coloni più oltranzisti, che possono contare sulla copertura dei partiti di estrema destra al governo in Israele. Non è infatti un caso che le adesioni alla Tana dei Leoni siano aumentate dopo il pogrom a Õuwwåra di febbraio, scatenato dagli israeliani ultranazionalisti che vivono nei pressi di Nåblus. Secondo il giornalista cisgiordano Nåâir Abû alHådø, «in Israele cambiano i governi ma non le politiche nei confronti dei palestinesi. (Israele) usa solo la forza, non analizza i cambiamenti che avvengono nella società palestinese, sul terreno, e non bada alle conseguenze dell’occupazione militare che dura da 55 anni». I proiettili sparati dai soldati «stanno creando nuovi eroi per milioni di persone stanche dell’occupazione. I giovani palestinesi non accettano di vivere in queste condizioni e non pochi fra loro si uniscono alle organizzazioni armate, specie nei campi profughi di Ãanøn e Nåblus» 2. «I membri del gruppo», spiega Jack Khoury, firma storica di Haaretz, tra i giornalisti israeliani più addentro al campo palestinese, «sono attivi nell’area di Nåblus, principalmente nella città vecchia e nel campo profughi di Balata. Il loro obiettivo dichiarato è quello di affrontare i soldati delle Idf (Forze di difesa israeliane, n.d.r.) quando entrano in città o vengono a proteggere i fedeli alla Tomba di Giuseppe nella periferia. Sono in gran parte giovani laici di età compresa tra i 18 e i 24 anni che non frequentano le moschee e non sono influenzati da figure religiose». Molti provengono da Fatõ, che hanno abbandonato per il suo appiattimento sulle posizioni dell’Anp, ma anche per l’avvicinamento ai servizi di sicurezza di Råmallåh. Osserva Amos Harel, tra i più autorevoli analisti militari israeliani: «Nell’ultimo anno, Israele ha sequestrato centinaia di armi attraverso i confini giordani, libanesi ed egiziani. Ma molti tentativi di contrabbando hanno presumibilmente successo. La Cisgiordania e le città arabe in Israele sono piene di armi. È la principale differenza tra l’attuale ondata di terrore, iniziata nel marzo del 2022, e quella precedente del 2015-16. Quest’ultima era stata caratterizzata principalmente da accoltellamenti e da attentati alle auto, talvolta da armi improvvisate. Oggi anche un ragazzino di 13 anni può procurarsi una pistola. Gli attacchi sono commessi principalmente dai cosiddetti “lupi solitari”, persone non affiliate ad alcuna organizzaCopia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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2. M. GIORGIO, «Pugno di ferro d’Israele e crollo dell’Anp: Cisgiordania mobilitata», il Manifesto, 11/8/2022.
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zione terroristica. Ciò rende più difficile identificarli in anticipo e aumenta la frustrazione degli israeliani. (…) La Cisgiordania sta tornando a essere il Far West. E questo accresce le possibilità che il ciclo di vendette israelo-palestinese continui a espandersi» 3. «Oggi abbiamo una nuova generazione che è consapevole della resistenza, che conosce la ferocia dell’occupazione», ha detto il mese scorso all’agenzia Reuters un giovane durante una manifestazione a Ãanøn. «La quantità di combattenti è in continua crescita. E il nemico deve sapere che la violenza contro la nostra gente e i nostri campi ne sta aumentando il numero, non lo sta riducendo», ha aggiunto un militante mascherato della Brigata Ãanøn 4. «È come se sul terreno ci fosse un movimento trasversale capace di superare l’inerzia dell’Anp», rimarca Romana Rubeo, caporedattrice di The Palestine Chronicle. La forza dei militanti della Tana dei Leoni sta nel sapersi distinguere dalle altre componenti armate della resistenza palestinese. Non solo nel modus operandi, ma anche nell’organizzazione interna e nelle forme di comunicazione. A differenza delle Brigate dei martiri di al-Aqâå (il braccio armato di Fatõ) e delle Brigate ‘Izz alDøn al-Qassåm (Õamås), loro non dipendono da una catena di comando piramidale e fortemente gerarchizzata. Le cellule sono costruite a rete, fortemente compartimentalizzate, legate al territorio. Il comando è fluido e quindi più facilmente sostituibile. Quanto alla comunicazione, i Leoni appartengono alla generazione Z. Non guardano i video truculenti dello Stato Islamico né si infervorano per i sermoni di qualche imam o califfo, come accade invece nella maggior parte dei social jihadisti. Semplicemente, sono altro. Sono figli dell’occupazione, cresciuti all’ombra della barriera di sicurezza israeliana (il «Muro dell’apartheid» per i palestinesi), o in quella immensa prigione a cielo aperto, isolata dal mondo, che da oltre un decennio è la Striscia di Gaza. Lottano contro l’occupazione e l’«Entità sionista» ma non fanno sconti al governo di Õamås a Gaza. 2. «Fanculo Õamås. Fanculo Israele. Fanculo Fatõ. Fanculo l’Unrwa (Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione, n.d.r.). Fanculo gli Usa. Noi, giovani di Gaza, siamo stufi di Israele, di Õamås, dell’occupazione, delle violazioni dei diritti umani e dell’indifferenza della comunità internazionale! Vogliamo urlare per spezzare il muro di silenzio, ingiustizia e indifferenza, come gli F-16 israeliani rompono quello del suono. Vogliamo urlare con tutta la forza delle nostre anime, sfogare l’immensa frustrazione per la situazione del cazzo in cui viviamo. Siamo come pidocchi stretti tra due unghie. Viviamo un incubo dentro un incubo, dove non c’è spazio né per la speranza né per la libertà. (…) Una rivoluzione cresce dentro di noi, un’immensa insoddisfazione e frustrazione che ci distruggerà se non troveremo un modo per canalizzare questa energia in qualcosa che possa sfidare Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
3. A. HAREL, «Collective Punishments on Palestinians Won’t Help Israel’s War on Terror», Haaretz, 30/1/2023. 4. A. SAWAFTA, J. MACKENZIE, «A new intifada? Young Palestinian fighters rise as West Bank boils», Reuters, 14/3/2023.
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lo status quo e ridarci la speranza». Così un gruppo anonimo di ragazzi, riuniti sotto la sigla Gybo (Giovani di Gaza per il cambiamento), annotò nel proprio Manifesto pubblicato su Facebook sul finire del 2010. E ancora: «Abbiamo paura. Qui a Gaza temiamo di essere incarcerati, picchiati, torturati, bombardati, uccisi. Abbiamo paura di vivere» 5. Sono trascorsi tredici anni da allora e la situazione a Gaza è ulteriormente peggiorata. I Leoni sono i fratelli minori di quei ragazzi e hanno trasformato la paura in rabbia. Non vogliono essere indottrinati e pensano il peggio del governo di Õamås. «Siamo giovani dai cuori pesanti. Ci portiamo dentro una gravezza tale da rendere difficile anche il piacere di un tramonto. Sorridiamo per nascondere il dolore. Ridiamo per dimenticare la guerra. Teniamo alta la speranza per evitare di suicidarci». Bisogna partire da qui, da questo grido di rabbia e di libertà, per avere contezza di ciò che oggi sta maturando sotto le ceneri di un duplice fallimento: quello di Õamås e quello dell’Anp. Allo stesso tempo, i Leoni sono guardati da quel che resta del gruppo Då‘øš in Palestina come competitori per l’egemonia nel variegato e frammentato campo della resistenza armata. Gli ultimi rapporti dell’intelligence israeliana segnalano infatti un ridimensionamento della presenza dello Stato Islamico. I suoi combattenti oscillerebbero tra 400 e 600, concentrati soprattutto a Rafaõ (Striscia di Gaza) e a Ãanøn (Cisgiordania). Non hanno rivendicato gli ultimi attentati in Israele, ma continuano ad agire sottotraccia, sfruttando i rapporti con le cellule jihadiste del Sinai e cercando di fare nuovi proseliti attraverso i canali social legati al radicalismo islamico internazionale. Sui Leoni non fanno presa i miti di un tempo caratterizzato da figure come Yasser Arafat, Osama bin Laden o Abû Bakr al-Baôdådø. A tal riguardo, è di grande interesse un recente sondaggio condotto dal Palestinian Center for Policy and Survey Research (Pcpsr), diretto da Khalil Shikaki (Œaløl Šiqaqø), da cui emerge che la gioventù palestinese considera oggi Israele in termini ambivalenti. Una forza di occupazione contro cui resistere, persino con le armi, ma anche una realtà dalla quale importare stili di vita moderni, al passo con i tempi. In questo senso Råmallåh è più vicina alla laica Tel Aviv che alla Santa al-Quds. Leggendo gli scritti dei Leoni si può notare una determinazione a sbarazzarsi di una doppia oppressione. C’è quella storica dell’occupazione israeliana che ha segnato i palestinesi negli ultimi 75 anni. Ma chi simpatizza per tale movimento o vi aderisce lo fa anche per liberarsi dall’atavica corruzione dei notabili dell’Anp e dall’asfissiante islamismo di Õamås e della Jihåd. I Leoni non hanno candidati alla presidenza ma, se proprio dovessero sceglierne uno, forse i loro fratelli maggiori gli parlerebbero di Marwån Barôû¿ø, mito palestinese imprigionato da più di vent’anni in Israele. Un viaggio nella nascente terza Intifada impone dunque di guardare alla rottura generazionale consumatasi nel campo palestinese. Non c’è possibilità di ritorno al passato. Come constatano osservatori indipendenti a Råmallåh e a Tel Aviv, Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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5. «Manifesto for Change», Gaza Youth Break Out (Gybo), dicembre 2010.
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se oggi si votasse nei Territori palestinesi il risultato sarebbe un astensionismo di massa. Õamås e Fatõ vincerebbero nel vuoto. E la responsabilità non può essere imputabile soltanto alla ferrea occupazione israeliana. Negli ultimi anni in Palestina la società civile ha tentato di crescere e di organizzarsi, rivendicando spazi di autonomia e di potere. Ma si è sempre scontrata con gli apparati politico-militari, ai cui occhi tali richieste rappresentavano una minaccia esistenziale superiore a quella del nemico sionista. Per questo le manifestazioni di piazza sono state disperse con la forza dalla polizia dell’Anp o, a Gaza, da quella di Õamås. Per questo gli attivisti per i diritti umani sono stati incarcerati o si sono «suicidati». È il caso di Nizår Banåt, attivista palestinese per i diritti umani e critico nei confronti delle posizioni dell’Autorità nazionale in Cisgiordania, arrestato a Hebron e picchiato a morte dalla polizia. Alcuni suoi parenti hanno assistito all’accaduto e riportato che gli agenti lo hanno colpito ripetutamente per otto minuti di fila con i manganelli, per poi trascinare via il cadavere. Sono infatti diversi i casi di critici e oppositori della linea di Abu Mazen finiti in manette in Cisgiordania nell’ultimo periodo. Il caso Banåt è solo l’ultimo di una lunga serie, a riprova della violenza e della repressione a fondamento del sistema politico nei territori palestinesi. Decenni di torture e abusi hanno portato all’instaurazione di quello che molti definiscono un «regime quasi autoritario». 3. Come nel caso delle Brigate Ãanøn, il fenomeno della Tana dei Leoni è una conseguenza dello storico fallimento della leadership palestinese – a partire dagli anni degli accordi di Oslo e del trionfale ingresso a Gaza di Yasser Arafat – esplicitata nell’incapacità di trasformare un movimento di liberazione nella classe dirigente dello Stato in formazione. Allora i Leoni non erano nemmeno nati, ma hanno vissuto sulla loro pelle le conseguenze di quel fiasco. Nel 2006, nelle prime e finora uniche elezioni libere nei territori, la vittoria di Õamås (74 seggi conquistati su 132 disponibili) nacque nel segno delle «mani pulite» e non di richiami alla resistenza armata o all’istituzione di uno Stato islamico di Palestina. Ma col tempo anche i funzionari di Õamås si sono sporcati le mani. Come annota Pierre Haski: «Nei territori palestinesi è arrivata la fine di un ciclo. Il sistema ereditato dagli accordi di Oslo del 1993 è in crisi, a causa dell’assenza della prospettiva di uno Stato indipendente come previsto dagli storici accordi, ma anche della divisione delle forze palestinesi tra Cisgiordania e Gaza, dell’autoritarismo crescente di un’autorità screditata e dell’emergere di una nuova generazione palestinese che non ha conosciuto le lotte del passato» 6. Un recente sondaggio del Palestinian Center for Policy and Survey Research ha rilevato che l’84% della popolazione di Cisgiordania e Gaza considera l’Anp corrotta e il 56% la ritiene un fardello per il popolo palestinese. In aggiunta, due terzi degli intervistati sono convinti che Abu Mazen, due anni fa, abbia cancellato le elezioni non a causa dei divieti israeliani, ma per il timore di uscirne sconfitto. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
6. P. HASKI, «L’Autorità palestinese affronta un’intifada interna», Internazionale, 28/6/2021.
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L’attuale ciclo di violenze nasce anche da questo processo involutivo. È una crisi che viene da lontano. Scrive in proposito Stefano Mazzola: «L’Anp sconta il costo di un destino fatale. Pensata come organizzazione governativa per raccogliere le varie anime politiche palestinesi e traghettare i territori verso la creazione di uno Stato indipendente, come sottoscritto negli storici accordi di Oslo, è diventata oggi uno strumento nelle mani del governo israeliano, completamente sconnessa dalla popolazione che dovrebbe amministrare. La collaborazione con le forze di sicurezza di Gerusalemme, uno dei capisaldi degli accordi stipulati in Norvegia, si è trasformata nell’accusa di collaborazionismo con il nemico, visto il naufragio di quello che doveva essere “l’accordo del secolo”. Se per Arafat l’Anp era un mezzo per arrivare a un fine preciso, la creazione di uno Stato indipendente, sotto Abu Mazen non ha fatto altro che trasformarsi in una allegoria di sé stessa. Legittimato all’estero ma senza appoggio interno, affrontato da Õamås sul tema della “questione palestinese”, Abu Mazen è ormai una figura completamente priva di capitale politico» 7. In questo scenario, l’affermarsi di gruppi spontanei come quello della Tana dei Leoni finisce per riempire il vuoto lasciato da una leadership senza popolo. «Fino a ora», sottolinea Nello Del Gatto, «i membri del gruppo armato hanno operato in piccolissimi reparti di due-tre persone e hanno tenuto come quartier generale il centro della città vecchia di Nåblus, ritenuto inespugnabile e che invece è stato attaccato e sopraffatto dalle forze israeliane anche con artiglieria pesante. Qui erano stati creati laboratori per la fabbricazione di ordigni e depositi di armi. I loro obiettivi sono azioni piccole e letali, spesso contro l’esercito, i poliziotti o i coloni. La mobilitazione, sia per la lotta armata che per il sostegno, avviene soprattutto sui social, in particolare TikTok. Questo ha permesso anche la nascita di leader popolari, non solo all’interno del gruppo, ma anche all’esterno: sfruttando la notorietà della lotta armata dei Leoni o essendo parenti di membri del gruppo caduti in scontri con l’esercito israeliano, infervorano sempre più giovani nella lotta armata. Per molti osservatori, questo gruppo rappresenta una spina nel fianco per l’Autorità palestinese che già ha perso il controllo delle strade e delle università nei confronti di Õamås». Inoltre, il sostegno alla Tana dei Leoni «si è spostato anche in Israele, dove alcuni sostenitori del partito arabo Hadash (…) hanno manifestato a favore del gruppo armato all’ingresso dell’Università di Tel Aviv» 8. Il tutto mentre è in corso una crisi economica gravissima. Nelle parole della direttrice delle campagne di sensibilizzazione del Palestine Institute for Public Diplomacy (Pipd) Inès Abdel Razek: «I paradigmi della sopravvivenza e della resistenza in una quotidianità vissuta tra l’occupazione, le ricadute di un’epidemia tutt’altro che risolta e le restrizioni alla mobilità prevalgono di gran lunga sulle aspirazioni a un cambio della leadership politica, percepita come qualcosa di remoto e non essenziale per la sopravvivenza». Essenziale è invece l’acqua, simbolo Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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7. S. MAZZOLA, «Da Banat all’Olp, così la Palestina è entrata in crisi», Orizzonti Politici, 6/8/2021. 8. N. DEL GATTO, «Da Nablus la sfida dei gruppi armati all’Autorità palestinese», Affarinternazionali, 28/10/2022.
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dello status dei coloni insediati nella Cisgiordania. Secondo uno studio del Palestinian Hydrology Group, in Cisgiordania i palestinesi ne consumano in media 70 litri al giorno. I coloni israeliani 800. 4. I principali attori della regione considerano la questione palestinese in termini strumentali. Gli accordi di Abramo ne sono stata l’ultima conferma, peraltro avvalorata da alcuni silenzi nel campo palestinese. Come quello di Õamås, al cui interno emerge un crescente scollamento tra l’ala politica e quella militare. Secondo Khaled Hroub (Œålid Õurûb), direttore di Arab Media Project, «lo scenario peggiore è che la dirigenza politica perda il controllo di quella militare, o anche di solo una parte di essa. Non è fuori luogo pensare che gruppi di “scontenti” all’interno delle brigate ‘Izz al-Døn al-Qassåm possano staccarsi dal movimento e costituire cellule indipendenti ed estremiste. Ciò genererebbe un quadro drammatico, non solo per Õamås, ma per l’intera Palestina. Potrebbe crearsi una situazione simile a quella dell’Algeria, dove il più grande movimento islamico si è sgretolato in una miriade di gruppi estremisti fuori controllo». In crisi di consenso nella Striscia e ancor più in Cisgiordania, Õamås cerca quindi di puntellare il suo potere riallacciando i rapporti con vecchi nemici. È il caso del presidente siriano Baššår al-Asad. Lo storico riavvicinamento è stato infatti sancito il 19 ottobre 2022 con l’incontro a Damasco tra il ra’øs e una delegazione del movimento islamista palestinese guidata da Œaløl al-Hayya. Õamås ha tentato così di camuffare la propria debolezza interna con il rilancio dell’asse anti-israeliano che include Teheran, Õizbullåh, gli õûñø e ora anche la Siria. Ma tale folgorazione sulla via di Damasco deve fare i conti con l’ostracismo delle petromonarchie del Golfo e della Turchia di Erdoãan. Sembra inoltre che sia stata la pressione dell’Iran a spingere Õamås a normalizzare le relazioni con la Siria. Teheran l’ha preteso in cambio del proprio sostegno al movimento palestinese. Eppure questo asse, nella sua forma più o meno allargata, non sembra fare presa sui giovani protagonisti dell’Intifada dei Leoni, il cui spontaneismo armato pare volto anche a rivendicare un’autonomia dalle tante influenze esterne. Non solo sul piano militare, ma pure su quelli politico e identitario. La loro irruzione nella resistenza armata preoccupa molto Israele. Non tanto per la difficoltà a infiltrarsi in cellule molto compartimentalizzate e orizzontali, dove tutti si conoscono fin dalla nascita. Ma soprattutto perché i funzionari israeliani preferiscono confrontarsi con nemici conosciuti, con i quali alternare guerre e tregue armate allo scopo di perpetuare lo status quo. Chi esce fuori da tali schemi è meno decifrabile, più fluido, un’incognita. Meglio tenere in vita l’ottuagenario Abu Mazen, tutto sommato un «usato sicuro». Lo stesso vale per Õamås. Dalla prospettiva della classe dirigente israeliana, la sua esistenza garantisce la possibilità di comunicare al mondo e alla propria opinione pubblica l’impossibilità di portare avanti un vero negoziato. Ma il futuro appartiene alla generazione Z. È un dato di fatto a cui neanche Israele può porre rimedio. I Leoni esistono e non si arrendono. «Non ho grandi Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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speranze per il futuro. Israele si considera in un perenne stato di guerra ed è consapevole della necessità di vincere. Si tratta di un conflitto permanente, dove periodi di violenza si alternano a momenti di tranquillità utili a raccogliere le forze e pianificare nuovi attacchi» 9. Così scrisse Thomas E. Ricks su Foreign Policy il 9 aprile 2009. Il tempo non ha scalfito questa amara verità. Semmai l’ha ulteriormente radicalizzata. In una Palestina senza speranza i Leoni di Nåblus si sentono chiusi in gabbia. Per spezzarne il telaio sono pronti a tutto.
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9. T.E. RICKS, «Israel: the age of permanent war?», Foreign Policy, 9/4/2009.
ISRAELE CONTRO ISRAELE
‘Non cederemo all’incubo del Grande Israele’ Conversazione con ‘Õanån ‘AŠRÅWØ, portavoce della delegazione palestinese ai colloqui per gli accordi di Oslo del 1993, già ministra dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), a cura di Umberto DE GIOVANNANGELI
LIMES Dentro e fuori Israele si parla del rischio di una terza Intifada. ‘AŠRAˉ WIˉ Parlare di «rischio» significa abbracciare la propaganda israeliana.
Cosa si pretende dai palestinesi? Dovrebbero forse dire all’occupante: «Prego, accomodati, fa’ come se fossi a casa tua»? Perché è questo che Israele fa da più di mezzo secolo. Tratta i Territori palestinesi occupati quasi fossero di sua proprietà. Aree da colonizzare, da annettere, come di fatto sta avvenendo. Spazi su cui instaurare un regime di apartheid. Non sono solo i palestinesi a definirlo così. Lo affermano pure le agenzie internazionali, i relatori speciali delle Nazioni Unite sui diritti umani e alcune organizzazioni israeliane come B’Tselem. Nei primi trenta giorni di quest’anno Israele ha ucciso 35 palestinesi. Dov’è l’indignazione? E la responsabilità? Il nuovo governo estremista e razzista sta peraltro intensificando le iniziative per rendere la vita dei palestinesi ancora più impossibile. LIMES Cos’è cambiato negli ultimi anni? ‘AŠRAˉ WIˉ Anzitutto la percezione dell’opinione pubblica. Alla Palestina è stato sovrapposto un Grande Israele attraverso la creazione di un sistema di apartheid e la distruzione delle fondamenta della pace. Lo vedo accadere ogni giorno. Oggi noi palestinesi abbiamo bisogno di un approccio diverso. Vogliamo libertà, dignità, pari diritti. E questo cambia le carte in tavola. Le nuove generazioni sono molto più decise, non intendono trovare compromessi o cedere pezzi di territorio. Sono pochissimi coloro che ritengono possibile una pace legittima con l’attuale governo israeliano. È tutta una questione di leadership. Dobbiamo chiederci se i nostri dirigenti sono pronti a guardare oltre, ad andare avanti. Finché le due parti non troveranno un’alternativa sarà impossibile superare la soluzione dei due Stati. Finora non ci sono altre opzioni. Israele ritiene inaccettabili sia la formazione di uno Stato binazionale sia la cessione della Cisgiordania alla Giordania e della Striscia di Gaza all’Egitto. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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‘NON CEDEREMO ALL’INCUBO DEL GRANDE ISRAELE’
Una confederazione più ampia richiederebbe inoltre il consenso di Amman. Come si può vedere, tutte le alternative cadono regolarmente nel vuoto. Succede lo stesso nel campo della medicina. Quando un medico esegue una diagnosi, rifiuta man mano tutte le ipotesi finché non trova il risultato. Nel caso del conflitto israelo-palestinese, si tratta della soluzione dei due Stati e di trovare un modo per vivere come vicini. LIMES Cosa l’ha colpita di più dell’atteggiamento della «comunità internazionale»? ‘AŠRAˉ WIˉ Il silenzio assordante di fronte alle azioni di Israele. La passività delle organizzazioni internazionali e dei governi di tutto il mondo sta permettendo il tracollo delle residue possibilità di una pace giusta e impedendo l’istituzione di uno Stato palestinese indipendente lungo i confini del 1967, con Gerusalemme Est come capitale. Israele conferma di essere uno Stato canaglia che agisce senza pagare alcuna conseguenza. Si fa beffe del diritto internazionale e di tutti coloro che persistono a chiudere un occhio sulle sue violazioni. Nessun altro paese ha calpestato tante risoluzioni dell’Onu. Ma non c’è mai stata reazione. Non sono mai state imposte sanzioni. Tale impunità internazionale lo incoraggerà a intensificare la sua campagna di aggressione. LIMES La classe dirigente palestinese accusa Israele di minare la soluzione dei due Stati. Sembra un rimpallo di responsabilità senza fine. ‘AŠRAˉ WIˉ Israele ha parcellizzato il territorio della Cisgiordania, eretto muri tra comunità di palestinesi, isolato la Striscia di Gaza dal resto del mondo creandovi una grande prigione a cielo aperto. La volontà di mettere a repentaglio la soluzione dei due Stati mi sembra chiara. Tra l’altro, la convinzione dei governanti israeliani di godere di impunità a livello globale li porta a non sentire nemmeno il bisogno di camuffare le loro vere motivazioni. LIMES Vale a dire? ‘AŠRAˉ WIˉ Per decenni Israele ha giustificato la costruzione del muro in Cisgiordania e l’assedio di Gaza in nome del diritto alla propria difesa. Ha intrapreso azioni punitive contro la popolazione civile, classificabili come crimini di guerra secondo il diritto internazionale e la Convenzione di Ginevra. Le esigenze «difensive» lo hanno portato a moltiplicare i check-point, a confiscare terre, a perpetuare la pratica delle detenzioni amministrative, a trasformare il popolo palestinese in un popolo di prigionieri. Ma oggi la situazione è diversa. Israele si sente talmente inattaccabile da affermare che la colonizzazione serve a realizzare il sogno del Grande Israele. Ovvero l’incubo dei palestinesi. A guidare le azioni del governo israeliano c’è soltanto l’ideologia, non uno stato di necessità. Come si può non vedere la matrice razzista della loro politica? Prim’ancora che nemici, noi palestinesi siamo considerati e trattati come esseri inferiori. Lo stesso avviene con gli arabi israeliani. A febbraio il governo ha dato il via libera alla realizzazione di altri nove insediamenti. I coloni costituiscono ormai il 25% della popolazione della Cisgiordania. Si comportano come se ne fossero padroni. La sicurezza qui non c’entra nulla. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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Si dice che non c’è peggior cieco di chi non vuole vedere. È un assunto che si confà all’atteggiamento dell’Europa. Quante volte ho sentito giustificare gli «eccessi» e gli «sbagli» degli israeliani soltanto perché Israele sarebbe l’unica democrazia del Medio Oriente. Ma può essere tale un paese che ha instaurato un regime di apartheid in Cisgiordania, che pratica sistematicamente la pulizia etnica della popolazione palestinese a Gerusalemme Est? Quando sento certi discorsi da amici europei, mi vengono sempre in mente le parole di Edward Said: «Non c’è niente di peggio di essere vittime delle vittime». Questa frase esprime bene la tragedia palestinese. LIMES Nel campo palestinese esiste da tempo un problema di legittimazione popolare della classe dirigente, soprattutto tra i più giovani. ‘AŠRAˉ WIˉ Non lo nego. Tant’è che ho deciso di farmi da parte. Ho rinunciato a qualsiasi carica ufficiale e annunciato di non volermi ricandidare al Consiglio legislativo palestinese (il parlamento dei Territori, n.d.r.). L’ho fatto perché credo che si possa essere utili anche senza ricoprire costantemente funzioni dirigenziali, puntando sul protagonismo della società civile, anzitutto dei giovani. Il problema del ricambio generazionale esiste ed è ineludibile. Ci sono resistenze al cambiamento, ma lasciare spazio alle nuove generazioni è un atto di lungimiranza e generosità. Non è da tutti. Eppure, il passaggio di consegne va fatto, poiché occorre guardare al futuro. Altrimenti potrebbe innescarsi un processo di rottura che farebbe il gioco di Israele e di quanti intendono continuare a voltarsi dall’altra parte. Il problema di legittimazione della leadership non può essere risolto con riconoscimenti e sostegni esterni. L’autorevolezza può esserti riconosciuta soltanto da chi intendi rappresentare. Va però sottolineato quanto sia difficile ricostruire un consenso collettivo all’interno di un sistema di occupazione. Non significa cercare scuse, è una realtà di fatto: i palestinesi sono l’unico popolo al mondo sotto occupazione. Gettare le basi di uno Stato di diritto per una popolazione senza Stato è un’impresa titanica. Ma va comunque tentata. Ai membri della vecchia guardia alla guida dell’Autorità nazionale palestinese, di cui io stessa ho fatto parte, mi sento di dire: accompagnate il cambiamento, altrimenti ne resterete travolti. La statura di un capo si misura anche da come sa uscire di scena. LIMES In questo vuoto di legittimazione crescono fenomeni come quello della Tana dei Leoni, un gruppo di resistenza particolarmente attivo a Nåblus, in Cisgiordania. Israele, che l’ha classificato come un’associazione terroristica, lo considera la riprova che non esiste una controparte palestinese affidabile. ‘AŠRAˉ WIˉ Israele considera ogni modalità di resistenza all’occupazione come una forma di terrorismo. Ha classificato in questo modo le azioni non violente di opposizione alla colonizzazione, per esempio la disobbedienza civile. Ha messo fuori legge le ong palestinesi. Ritiene una minaccia alla propria sicurezza persino l’appellarsi agli organi di giustizia internazionali – nella speranza che indaghino sui crimini commessi dalle forze di occupazione. Agli occhi del governo israeliano è affidabile soltanto chi si dimostra disposto a cedere sulla questione della sovranità condivisa di Gerusalemme, a rinunciare alle risoluzioni dell’Onu alla base della Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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soluzione dei due Stati. Ma la pace si può fare soltanto se si riconosce l’esistenza dell’altro. Ancora prima delle sue ragioni. L’ex primo ministro israeliano Yitzhak Rabin lo aveva capito e per questo è stato assassinato. In realtà, i Leoni sono giovani radicati nel territorio. La popolazione di Nåblus, e non solo, li riconosce quale parte di sé e non come corpo separato. Per questo hanno consenso, specialmente al di fuori delle fazioni storiche, che non vedono di buon occhio l’affermazione di forze esterne. Dietro la retorica del «martirio» c’è infatti la preoccupazione di Õamås, del Jihåd islamico e, per altri versi, di Fatõ. LIMES La prima Intifada – quella delle «pietre» – ebbe i caratteri di una resistenza popolare. La seconda fu invece quella dei kamikaze. La terza può essere quella dello «spontaneismo armato»? ‘AŠRAˉ WIˉ I giovani di Nåblus, come quelli di Gaza e dell’intera Cisgiordania, hanno conosciuto soltanto la guerra, l’occupazione, l’isolamento imposto con la forza. Hanno visto crescere sotto i loro occhi un muro di oltre 750 chilometri che opprime la loro quotidianità, rendendola asfissiante. Sono stati privati della speranza. E ciò crea inevitabilmente le condizioni perché un senso di giustizia finisca per trasformarsi in desiderio di vendetta. Perché il dolore diventi rabbia. I giovani palestinesi – quantomeno nella stragrande maggioranza dei casi – non sono fanatici integralisti. Io li conosco bene, ho avuto l’opportunità di insegnare a molti di loro. Amano la vita, sono istruiti, navigano su Internet. Attraverso la Rete esplorano il mondo. Nella loro testa non c’è la distruzione d’Israele. C’è il sogno, la volontà di vivere da uomini e donne liberi in uno Stato palestinese indipendente, dove costruire il proprio futuro e potersi muovere liberamente. Tutto questo viene negato dall’occupazione. Si possono dare molteplici definizioni di resistenza e di intifada. Ma sono da sempre convinta che tra militarizzazione e resa ci sia una terza via, quella dell’opposizione popolare non violenta. Resta il fatto che la resistenza costituisce una reazione e non certo la causa dell’occupazione israeliana. Se non si parte da questo riconoscimento, sarà impossibile pervenire a una pace giusta, duratura, tra pari. LIMES In Israele una parte dei fautori della pace sostiene l’idea di uno Stato binazionale. ‘AŠRAˉ WIˉ Ne ho discusso con alcuni di loro, so che sono animati da un sincero spirito di giustizia e di pace. Ma questa prospettiva non mi convince. E non solo per la sua evidente impraticabilità, visto chi governa oggi Israele. Uno Stato binazionale non sarebbe mai fondato sul riconoscimento di pari diritti tra la popolazione ebraica e quella araba palestinese. Si fonderebbe semmai sull’istituzionalizzazione dell’apartheid. Non avrebbe nulla di democratico e sarebbe la consacrazione della «sudafricanizzazione» della Palestina. Un Sudafrica mediorientale, dove i palestinesi si troverebbero a vivere in uno o più bantustan, spacciati come parte autonoma di un presunto Stato binazionale. Non è per questo che continuiamo a batterci. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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Parte III il MONDO di ISRAELE Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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ISRAELE CONTRO ISRAELE
IL PIANO DI CASA SA‘Uˉ D
di
Cinzia BIANCO
L’intesa con Teheran, mediata dalla Cina, serve a Riyad per schermarsi dalla minaccia iraniana e dar corpo ai propri progetti di potenza. Ma la petromonarchia ha ancora bisogno della protezione Usa. E non esclude l’apertura dei rapporti diplomatici con Israele.
T
1. RA IL 2010 E IL 2020 L’ARABIA SAUDITA E le altre monarchie del Golfo sono diventate il nuovo centro gravitazionale del Medio Oriente. E da qui al 2030 tenteranno di diventare attori di livello mondiale 1. Lo conferma l’accordo firmato dal regno dei Sa‘ûd e dall’Iran il 10 marzo 2023 con la mediazione della Repubblica Popolare Cinese. Sviluppo che gli Stati Uniti e l’Europa hanno accolto con sgomento. Dalla prospettiva di Riyad, l’intesa contribuisce ad allentare le tensioni con Teheran, percepita come principale minaccia securitaria e sommo ostacolo ai propri progetti di potenza. E soprattutto consacra il gioco su più fronti che il regno ha avviato nell’ultimo anno intervenendo nelle partite tra Stati Uniti e Cina, tra Russia ed Europa e tra Israele e Iran. L’Arabia Saudita cerca di bilanciare rischi e garanzie, consapevole delle sfide che l’attendono. A cominciare da quelle che riguardano l’interazione con l’Iran. 2. Riyad ha rotto le relazioni con la Repubblica Islamica nel 2016, quando quest’ultima ha lasciato che venissero devastate le sedi diplomatiche del rivale a Mashhad e nella propria capitale in seguito alla condanna a morte del predicatore sciita Nimr Båqir al-Nimr, uno dei leader delle proteste della primavera araba in Arabia Saudita 2. All’epoca, Riyad affermava più o meno direttamente che l’Iran voleva accerchiarla tramite Libano, Siria, Iraq e Yemen e destabilizzarla per mezzo di gruppi sciiti locali. Il sovrano Salmån bin ‘Abd al-‘Azøz al-Sa‘ûd e il figlio Muõammad hanno mostrato un’inedita assertività contro Teheran, lanciando in Yemen la prima operazioCopia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
1. C. BIANCO, M. LEGRENZI, Le monarchie arabe del Golfo: nuovo centro di gravità in Medio Oriente, Bologna 2023, il Mulino. 2. C. BIANCO, «Il calcolo strategico saudita nell’esecuzione di Nimr Al-Nimr», limesonline.com, 8/1/2016.
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ne militare a guida saudita della storia. Scopo: combattere i ribelli õûñø, agenti di prossimità dell’Iran. I Guardiani della rivoluzione hanno iniziato a fornire loro regolarmente missili o droni che poi venivano lanciati verso i confini sauditi 3. Solo i sistemi di difesa made in Usa hanno consentito al regno di intercettare le centinaia di proiettili sparate dallo Yemen negli anni successivi. Dal 2015 in poi lo scontro tra le due potenze si è allargato a tutta la regione. L’Arabia Saudita ha incoraggiato l’allora presidente statunitense Donald Trump a stracciare il Joint Comprehensive Plan of Action (Jcpoa, l’accordo sul nucleare) firmato con l’Iran nel 2015, cosa che poi è avvenuta tre anni dopo 4. Nel settembre 2019, Teheran ha reagito con un formidabile attacco contro le infrastrutture critiche energetiche del regno a Buqayq e a Œurayâ. Per diversi giorni il 5% della produzione globale di petrolio è stato bloccato 5. Quella operazione ha rappresentato certamente uno spartiacque per il pensiero strategico saudita. Ha mostrato le capacità balistiche iraniane e soprattutto una falla nell’ombrello di sicurezza americano. Il sistema di difesa Patriot, che da anni intercettava missili e droni provenienti dallo Yemen, è stato inefficace contro le nuove tipologie di proiettili. Sorprendentemente l’amministrazione Trump – apparentemente vicina ai sauditi – non ha reagito in alcun modo all’offensiva. Riyad non era più certa di poter contare sugli Usa per la protezione dei luoghi strategici (alcuni di interesse globale) situati sul proprio territorio. Così ha cominciato a cercare un contatto più diretto con la Repubblica Islamica. Nei successivi quattro anni, vi sono stati almeno cinque incontri segreti tra esponenti dell’establishment di sicurezza iraniano – in particolare del Consiglio supremo di sicurezza nazionale, che riporta direttamente ad Ali Khamenei – e quello saudita, per esempio il consigliere per la Sicurezza nazionale Muså‘id al-‘Aybån, molto vicino a re Salmån 6. Prima l’Iraq e poi l’Oman hanno ospitato i negoziati. I ministeri degli Esteri di Riyad e Teheran hanno conversato anche a margine della Conferenza per la cooperazione e la partnership di Baghdad, organizzata dalla Francia. Eppure, il processo è arrivato presto a un’impasse. I sauditi chiedevano agli iraniani di interrompere l’invio di armi agli õûñø e di spingerli a firmare l’accordo messo sul tavolo. Casa Sa‘ûd era ansiosa di chiudere il proprio impegno militare in Yemen. In cambio prometteva investimenti, commerci, partnership in diversi campi e la possibilità di trovare un patto di copresenza in altri paesi della regione, come la Siria. Teheran aveva fatto della normalizzazione con Riyad un obiettivo geopolitico ma non intendeva giocare subito la carta yemenita, considerata come ultima leva Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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3. S. JONES ET AL., «The Iranian and Houthi War against Saudi Arabia», Center for Strategic and International Studies, 21/12/2022. 4. A. PERTEGHELLA, T. CORDA, «Usa-Iran (e Israele): scenari di una crisi», Istituto Studi di Politica Internazionale, 5/5/2018. 5. S. BELLOMO, «Attacco con droni al petrolio saudita: fermata metà della produzione», Il Sole-24 Ore, 14/9/2019. 6. C. BIANCO, «Il dialogo tra Iran e Arabia Saudita ora non può essere costruttivo», limesonline.com, 23/4/2021.
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negoziale. Nell’aprile 2022, stanco dello stallo, il regno ha interrotto i negoziati segreti. Tutto è cambiato pochi mesi dopo, con l’inizio delle rimostranze seguite alla morte di Mahsa Amini per mano delle forze di sicurezza della Repubblica Islamica. Lo scorso settembre forti proteste hanno scosso il regime iraniano, indebolendolo notevolmente sul piano domestico, regionale e internazionale 7. Le nuove sanzioni introdotte dall’Occidente in risposta alla repressione feroce di Teheran hanno fatto il paio con quelle imposte per il sostegno militare offerto alla Russia durante l’invasione dell’Ucraina. Ciò ha determinato un crollo delle disponibilità finanziare iraniane e la morte – effettiva anche se ancora non dichiarata – del Jcpoa 8. A un tratto la Repubblica Islamica non poteva fornire armi e denaro ai propri agenti di prossimità regionali. Inoltre il fallimento dei negoziati sul nucleare complicava le relazioni con l’Occidente, mentre la Cina era diventata l’unica sponda economica possibile 9. L’inedita debolezza iraniana ha fatto gioco ai sauditi, i quali nel frattempo si erano dotati di un nuovo strumento: il gruppo mediatico Iran International che, offrendo copertura costante delle vicende riguardanti il paese rivale, alimentava malcontento locale e opposizione internazionale. Si trattava di un mezzo che poteva svolgere la stessa funzione di Al Jazeera durante la primavera araba, seppure su scala minore 10. 3. A quel punto l’Arabia Saudita ha offerto agli iraniani il medesimo accordo incentrato sul dossier yemenita che era sul tavolo dal 2019, con l’aggiunta dell’impegno ad abbassare i toni di Iran International. Gli serviva però un attore internazionale che facesse da garante, dotato di strumenti per pressare Teheran affinché rispettasse il patto. Tale soggetto doveva avere anche relazioni strategiche con Riyad. Questo attore non poteva che essere la Cina, paese da anni dipendente dal petrolio saudita e unica economia mondiale di peso a interagire ancora con l’Iran. Il regno esporta nella Repubblica Popolare oltre 1,7 milioni di barili di petrolio al giorno, fondamentali per l’approvvigionamento energetico cinese 11. Allo stesso tempo la potenza asiatica è il principale partner commerciale della Repubblica Islamica, verso cui trasferisce tecnologia nucleare e militare 12. Peraltro, la Cina ha promesso di investire 400 miliardi di dollari sul suolo iraniano nell’arco di 25 anni. Di tale cifra, 280 miliardi saranno destinati al settore degli idrocarburi. Ecco perché lo scorso dicembre, durante il summit dei capi di Stato arabi a Riyad, bin Salmån ha concordato con il presidente Xi Jinping che Pechino avrebbe Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
7. R. ALCARO, «Le proteste in Iran, la questione nucleare e l’Europa», Affari Internazionali, 17/10/2022. 8. Conversazioni dell’autrice con funzionari di Germania, Stati Uniti e Unione Europea (2022). 9. J. SCITA, «Cosa c’è dietro la Cina-Iran connection?», formiche.net, 29/3/2023. 10. M. COLLEONI, «Al Jazeera araba, regista visibile delle rivolte», Limes, «Il grande tsunami», n. 1/2011, pp. 197-204. 11. «Energia: Arabia Saudita rimane il principale fornitore di petrolio alla Cina», Agenzia Nova, 21/11/2022. 12. J. SCITA, op. cit.
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attivamente facilitato il negoziato. Lo ha convinto che gli attacchi iraniani e l’instabilità nel Golfo Persico avrebbero innescato pericolose fluttuazioni nel mercato energetico locale e globale, minato la sicurezza del commercio via mare e quindi gli interessi strategici cinesi. Nei fatti, Xi ha dato solo la spinta finale a un processo bilaterale in cui altri attori regionali si erano impegnati a lungo. Eppure Arabia Saudita e Iran hanno dato enorme credito alla Cina. Molti più di quanto probabilmente meritasse. Riyad ha sottolineato che Pechino poteva avvalersi a livello diplomatico dell’assenza di un passato coloniale, del fatto di non esser stata protagonista di aggressioni militari e di avere una posizione neutrale nella regione 13. Ovviamente una narrazione del genere serviva a rimarcare le differenze tra Repubblica Popolare e Stati Uniti e ad alimentare l’ostilità della popolazione verso Washington. I sauditi hanno respinto con forza le critiche americane al consolidamento delle relazioni con Pechino. Del resto per il regno era veramente una opportunità diplomatica da non perdere, come evidente dai primi dettagli emersi sull’accordo. Il patto, firmato lo scorso 10 marzo, impegna le due parti a riaprire le ambasciate entro due mesi e a rilanciare le collaborazioni culturali, sociali ed economiche. L’Iran dovrebbe interrompere le forniture militari agli õûñø e pressarli affinché firmino un accordo che ponga fine agli attacchi verso il territorio saudita. Così da consentire a Riyad il ritiro dallo Yemen 14. Se la Repubblica Islamica rispetterà questi impegni, i sauditi riapriranno la loro ambasciata a Teheran, contempleranno la possibilità di fare affari con aziende iraniane (sebbene con il freno delle sanzioni occidentali) e Iran International affievolirà la sua retorica. In un secondo momento, il regno potrebbe anche normalizzare le relazioni con il regime siriano di Baššår al-Asad e invitarlo al summit annuale della Lega Araba, a presidenza saudita 15. Si tratta di un accordo fragile. Motivo per cui Riyad si aspetta che Xi faccia pesare il suo ruolo economico nei confronti di Teheran qualora quest’ultima dovesse infrangerlo. Pechino passerebbe da «viaggiatore non pagante» nella regione ad assumersi le prime responsabilità geopolitiche nel Golfo. Nel garantire l’accordo, la Cina si gioca buona parte della sua immagine in qualità di aspirante superpotenza globale. Ma i sauditi non possono fidarsi della Repubblica Popolare. Tantomeno dell’Iran. Qui entrano in gioco gli Stati Uniti e Israele. Qualche giorno prima che a Pechino fosse annunciato l’accordo, sulla stampa a stelle e strisce si vociferava di negoziati in corso tra sauditi e americani sull’adesione di Riyad agli accordi di Abramo, firmati dallo Stato ebraico, dal Bahrein e dagli Emirati Arabi Uniti nel 2020 16. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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13. F. ABBAS, «How optimistic should we be about the Saudi-Iranian rapprochement?», Arab News, 13/3/2023. 14. D. NISSENBAUM, S. SAID, B. FAUCON, «Iran Agrees to Stop Arming Houthis in Yemen as Part of Pact With Saudi Arabia», The Wall Street Journal, 15/3/2023. 15. Conversazioni dell’autrice con funzionari sauditi (2023). 16. «Saudi Arabia Seeks U.S. Security Pledges, Nuclear Help for Peace With Israel», The Wall Street Journal, 9/3/2023.
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Queste contrattazioni erano state lanciate in precedenza dall’amministrazione Trump, in particolare attraverso il consigliere Jared Kushner 17. Negli Usa, la normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita è obiettivo bipartisan. Di più, per l’amministrazione Biden è diventata la priorità nel teatro mediorientale, nonostante il progressivo arretramento su quasi tutti gli altri dossier 18. In effetti l’apertura dei rapporti diplomatici con Riyad è anche il principale traguardo del primo ministro israeliano Binyamin Netanyahu, che si è persino esposto pubblicamente al riguardo 19. In questo contesto, l’accordo tra Arabia Saudita e Iran ha causato forte delusione a Gerusalemme e a Washington, dove serpeggia il timore che il ruolo cinese decreti la fine dell’egemonia americana (già in declino) nella regione. I leader dei partiti di opposizione israeliani, da Yair Lapid a Gideon Sa‘ar, hanno descritto il patto come un fallimento della strategia regionale di Netanyahu20. Per Washington, il proprio disimpegno non doveva certo significare l’uscita dei partner arabi dall’orbita statunitense. Doveva invece portare a un rafforzamento della cooperazione strategica con essi, in linea con le priorità della Casa Bianca. Questo era il senso degli accordi di Abramo firmati tre anni fa e accompagnati da una cooperazione securitaria sempre più stretta anche in funzione anti-iraniana. Tanto che nel 2022 si sono registrati progressi in ambiti quali la difesa aerea, la sincronizzazione dei sistemi radar e le operazioni di cibersicurezza tramite gruppi di lavoro militari che includevano anche l’Arabia Saudita. Nonostante gli sviluppi informali e i graduali passi in avanti nelle relazioni tra l’Arabia Saudita e lo Stato ebraico, l’accordo con Teheran fa pensare che Riyad non voglia andare fino in fondo con Gerusalemme. Per ora. 4. Se è vero che la domanda da porsi in merito all’accordo tra Israele ed Arabia Saudita è quando e non se sarà firmato, è altrettanto vero che per quest’ultima la normalizzazione dei rapporti bilaterali continua a dipendere da diversi fattori. Innanzitutto, re Salmån è ideologicamente riluttante ad approvare tale svolta. A meno che, come proposto dai sauditi nella Iniziativa di pace araba, non avvenga in cambio della creazione di uno Stato palestinese. Sarebbe più semplice attendere la dipartita dell’ottuagenario e malato sovrano e l’ascesa al trono del figlio, molto più morbido verso Israele. A ogni modo, Casa Sa‘ûd dovrebbe garantire ai palestinesi qualcosa che vada oltre l’insignificante sospensione della costruzione di nuovi insediamenti israeliani ottenuta dagli emiratini in cambio della loro firma nel 2020. Non è chiaro quanto il governo di Netanyahu – che comprende partiti di estrema destra – sia nella condizione di fare concessioni che i sauditi possano presentare come una vittoria per i palestinesi. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
17. C. BIANCO, «Israele-Arabia Saudita-Emirati: strano triangolo all’ombra di Trump», Limes, «Israele, lo Stato degli ebrei», n. 9/2018, pp. 199-206. 18. Conversazioni dell’autrice con un funzionario del Consiglio di sicurezza nazionale statunitense, gennaio 2023. 19. R. TERCATIN, «Israele, Netanyahu all’emittente di Riyad: “Conflitto arabo-israeliano può finire solo dopo la pace con l’Arabia Saudita”», la Repubblica, 16/12/2022. 20. «Saudi deal with Iran worries Israel, shakes up Middle East», politico.com, 12/3/2023.
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Infine, Riyad intende trarre il massimo vantaggio dai rapporti con Washington. Oltre alle tradizionali garanzie di sicurezza, i sauditi reclamano per esempio l’accesso a dispositivi bellici qualitativamente e quantitativamente superiori, più opportunità di addestramento per le Forze armate e ulteriori unità e armi americane sul posto. Riyad potrebbe anche pretendere la formalizzazione degli impegni statunitensi tramite un trattato, così che l’intesa sia immune agli alti e bassi della politica. Sono richieste importanti, che forse sarebbero soddisfatte più facilmente da una nuova amministrazione in America. Magari repubblicana, considerato il pessimo stato dei rapporti tra la leadership del regno e la Casa Bianca dopo l’elezione di Biden. Riyad non vuole che l’attuale presidente si prenda il merito della normalizzazione dei rapporti con Gerusalemme. Anzi, non le dispiacerebbe se gli venisse attribuita la responsabilità del fallimento delle trattative.
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‘Se Netanyahu farà un passo indietro, gli Usa torneranno a fidarsi di Israele’ Conversazione con Dov S. ZAKHEIM, già sottosegretario alla Difesa degli Stati Uniti e capo dell’ufficio finanziario della Difesa dal 2001 al 2004, oggi presidente del Foreign Policy Research Institute, a cura di Federico PETRONI
La crisi sulla riforma della giustizia riflette, per usare l’espressione dell’ex presidente Reuven Rivlin, la natura «tribale» di Israele? ZAKHEIM Senza dubbio riflette le sue divisioni interne. Nasce da un’alleanza tra gli ultraortodossi, il movimento ultranazionalista degli abitanti dei Territori occupati e Netanyahu che non vuole finire in prigione. Quest’alleanza vuole modificare composizione e prerogative della Corte suprema, tendenzialmente percepita come bastione dell’anima del paese secolarizzata e orientata a sinistra. L’attuale riforma permetterebbe alla Knesset di rovesciarne le decisioni. E questo non piace a moltissimi cittadini, anche della destra religiosa, infatti molte persone che hanno manifestato indossavano la kippah. Per un motivo molto semplice: in Israele, chi controlla il governo controlla anche il parlamento. Pertanto, la riforma genererebbe un sistema politico privo di qualsiasi contrappeso al potere esecutivo. Tutto ciò è maledettamente vicino a una dittatura. Questo non toglie che una buona parte della società vuole intervenire su un organismo che si autoperpetua, scegliendo in autonomia i propri membri. Per esempio, il presidente Herzog, che era a capo dei laburisti, riconosce la necessità di un compromesso tra Netanyahu e la Corte. Chi non desidera un accomodamento sono le tribù ultrareligiose e ultraortodosse, che vogliono solo una cosa: soldi per le loro istituzioni, per le loro scuole e per non fare nulla per il paese, dato che sono sollevati anche dalla leva militare. Alcuni di loro nemmeno considerano Israele uno Stato legittimo, ma sono ben felici di riceverne le sovvenzioni. Queste persone sosterranno Netanyahu fino alla fine, non hanno altra scelta, perché la Corte ha spesso deciso contro i loro interessi. LIMES Si rischia la guerra civile? LIMES
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‘SE NETANYAHU FARÀ UN PASSO INDIETRO, GLI USA TORNERANNO A FIDARSI DI ISRAELE’
Herzog ha evocato questo rischio. E persone di destra si sono dette pronte a portare le armi alle manifestazioni. È francamente incredibile. Non so se ci sarà una guerra civile, perché penso che Netanyahu dovrà fare un passo indietro. Soprattutto se i militari, non solo le riserve ma i membri in servizio, dovessero continuare a opporsi. E al ministro Ben-Gvir, che aveva detto di esser pronto a far cadere il governo se la riforma fosse stata sospesa, fa comodo restare al suo posto e avere potere: prenderà tutto quello che gli verrà offerto. È un uomo che viene dalla strada, non rinuncerà alla macchina e a essere chiamato «signor ministro». Netanyahu è davanti a una scelta difficile, ma deve fare marcia indietro. LIMES La tribalizzazione della nazione costituisce una minaccia esistenziale per lo Stato d’Israele? ZAKHEIM Non ancora. Quello su cui tutti sono d’accordo è che lo Stato d’Israele deve esistere. E chi ha studiato la storia sa che l’ultima volta che Israele è crollato fu a causa non delle legioni romane, bensì delle divisioni interne. Chi ha dubbi sulla legittimità dello Stato d’Israele è solo una parte degli ultraortodossi e degli ultranazionalisti dei Territori occupati, per i quali lo Stato o è fatto a loro immagine e somiglianza o è meglio che non esista. Ma sono minoranze nelle minoranze, che non costituiscono minacce esistenziali. Certo, se Netanyahu non si fermasse la situazione potrebbe davvero esplodere. Non ho avuto modo di parlare con lui di recente, ma credo sappia che, se si spingerà troppo oltre, a uscire sconfitto sarà lui e lui soltanto. Sa quello che è successo a Charles de Gaulle in Francia nel 1968. LIMES Quale giudizio darà la storia di Netanyahu? ZAKHEIM Netanyahu ha guidato la transizione di Israele da un’economia socialista a un’economia di mercato. Grazie alle sue riforme il paese ha conosciuto un importante sviluppo. Oggi, però, sta distruggendo il suo stesso miracolo economico. Le università chiudono, gli investimenti sono minacciati e le aziende si spostano. Ha fatto cose importanti, ma non è un eroe nazionale. Non è de Gaulle. Forse pensa di esserlo, ma non è a quel livello. Non ha liberato il suo paese dai nazisti. Non ha creato una nuova repubblica. Non ha chiuso una ferita sanguinante come l’Algeria. Se non si ferma, sarà ricordato come uno dei tanti leader del passato che hanno rovinato il proprio paese. È una sorta di Mussolini: è un uomo che ama il suo paese e ha cercato in mille modi di rafforzarlo, ma ha preso una traiettoria negativa. Non farà la sua fine, ma il punto è che ha minato quanto conseguito nella sua carriera. E così verrà ricordato, a prescindere dal successo o dall’insuccesso della riforma giudiziaria. LIMES Un’altra ironia è che Netanyahu è l’ebreo più influente in America, ma durante i suoi anni al potere le tensioni tra Stati Uniti e Israele sono diventate manifeste. ZAKHEIM Sì, è così. Credo che il momento peggiore sia stato quando, ospite alla Casa Bianca, ha fatto quella lezioncina a Obama. Io sono un repubblicano, non ho mai sostenuto Obama. Ma ho trovato offensivo che un capo di Stato straniero adottasse un simile atteggiamento. Inoltre, Netanyahu ha più volte cercato di dipingere Israele come amico del Partito repubblicano e nemico del Partito democratico. Lo ZAKHEIM
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ha negato, ma nei fatti è andata così. Ed è fortunato che moltissimi congressisti democratici continuino a sostenere Israele. Per esempio, nessuno può dare a Biden dell’anti-israeliano: non ha toccato niente di quello che ha fatto Trump, dagli accordi di Abramo allo spostamento della capitale a Gerusalemme fino al riconoscimento delle Alture del Golan. L’attuale presidente si limita a non invitare Netanyahu alla Casa Bianca, cosa che è comunque inaudita. Da un punto di vista geopolitico, le divergenze sono invece minori: l’America si preoccupa dell’Iran almeno quanto Israele. Ritengo che la differenza stia nel fatto che Washington crede di poter gestire i rapporti con Teheran con un ventaglio di opzioni abbastanza ampio. Insomma, attaccare e lanciare missili non sono le uniche soluzioni per evitare che la Repubblica Islamica si faccia la Bomba. E comunque, anche qualora l’Iran si dotasse di armi atomiche, semplicemente non lo ammetterebbe. Esattamente come Israele. Gli americani sanno che un tale scenario potrebbe generare una situazione di stallo. Ipotizziamo lo scoppio di un conflitto israelo-iraniano. Dovremmo mandare armi come abbiamo fatto nel 1973. Ma potremmo farlo? Le stiamo già inviando all’Ucraina e cominciamo a non averne abbastanza nemmeno per noi. L’America ha dunque tutto l’interesse a mantenere la regione stabile. E, da questo punto di vista, siamo sulla stessa linea dei cinesi. Sono combattuto sulla mediazione di Pechino tra Iran e Arabia Saudita: non ci piace che i cinesi espandano la loro influenza in Medio Oriente, ma se garantiscono stabilità ci è utile. Non è più il petrolio il nostro interesse principale: ormai ce lo produciamo da soli. LIMES Qual è la vostra linea rossa con la Cina in Medio Oriente? ZAKHEIM Non possiamo fare molto. Se i cinesi vogliono entrare in Medio Oriente sono liberi di farlo. Ci sfidano sul piano diplomatico: il modo migliore per gestire l’inserimento dei cinesi sarebbe fare come loro e avere buoni rapporti con tutti o quasi. Ma per noi è un problema: tra le grandi potenze, solo India e Cina hanno ottime relazioni sia con l’Iran sia con Israele. Dunque possono mediare, a differenza nostra. Altro esempio, russi e cinesi stanno lavorando assieme per riportare la Siria nella Lega Araba, ma noi con al-Asad non parliamo. Tuttavia, quello che i cinesi non possono fare (e che comunque non faranno) è offrire garanzie militari. Solo noi possiamo farlo. Per esempio, sauditi e iraniani non si fideranno mai fino in fondo gli uni degli altri. Potranno barattare pace in cambio di coesistenza, ma non vuol dire che saranno amici. Paesi come il Bahrein, gli Emirati o la stessa Arabia Saudita avranno sempre paura che accada qualcosa con l’Iran. E quale potenza può venire in loro aiuto? Noi. LIMES Ma ha appena detto che la vostra capacità di intervenire è limitata dalla guerra d’Ucraina e – aggiungiamo noi – dalle tensioni nell’Indo-Pacifico. ZAKHEIM Sarà sempre più dura intervenire, soprattutto per quanto riguarda la fornitura degli armamenti. Ma non bisogna dimenticare che, con la nostra flotta in Bahrein, siamo ancora la principale forza militare in Medio Oriente. Inoltre, ci sono molte persone dentro e fuori il Congresso, tra cui io, che ritengono giusto aumentare le spese militari proprio per poter gestire tutti questi scenari contemporaneaCopia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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mente. Una delle lezioni di questa mediazione cinese tra iraniani e sauditi è che dobbiamo sbarazzarci del mito secondo cui contenere Pechino significa concentrarsi soltanto sull’Asia orientale. La Repubblica Popolare è ormai una potenza globale. Se ti preoccupi davvero della Cina devi preoccuparti anche di altre regioni, come il Medio Oriente. E l’unico modo per farlo e contemporaneamente sostenere l’Ucraina è investire di più nella difesa. La gente non capisce che non spendiamo così tanto rispetto al nostro pil. LIMES Sembra però che la Cina sia una minaccia più per gli Stati Uniti che per Israele. A voi sta bene che lo Stato ebraico venda porti e tecnologie ai cinesi? ZAKHEIM Eravamo preoccupati degli investimenti cinesi nel porto di Haifa, non c’è dubbio. Quello che siamo riusciti a fare, dopo molte difficoltà, è stato impedire al grosso delle tecnologie duali di Israele di finire in Cina. C’è voluto molto tempo, ma alla fine gli israeliani hanno riconosciuto il peso delle nostre forniture militari e si sono adeguati. LIMES È soddisfatto di come si sta comportando Israele nella guerra d’Ucraina? ZAKHEIM No. Avrebbe potuto fare di più. Sappiamo che Israele è in una posizione delicata: se si alienasse Putin, subirebbe una rappresaglia dalla Siria. I russi stanno permettendo agli israeliani di continuare a colpire Høzbullåh, ma Israele sa che se si spingesse troppo oltre negli aiuti a Kiev pagherebbe un costo troppo alto in Siria. Per Israele è una decisione difficile, molto difficile: se ti dipingi sempre come un paese che rischia di essere attaccato, è complesso giustificare per quale motivo ti giri dall’altra parte quando qualcun altro viene invaso. Inoltre, ha molti russi in casa. Putin chiama quella gente la sua gente. E a quei russi Putin piace. Ora c’è tutto un dibattito se siano ebrei o no, ma non conta nulla. Quel che conta è che detestano il comunismo e Putin non è comunista. LIMES Come la vede il governo americano? ZAKHEIM Capisce, ma c’è molta frustrazione. Vorremmo che Israele facesse di più in Ucraina, come pure gli europei. E alcuni americani imputano anche alla stessa amministrazione Biden di non fare abbastanza o non abbastanza velocemente. Per esempio, ora si parla di inviare gli F-16, ma se avessimo permesso subito ai nostri alleati di inviare i Mig-29 o se avessimo inviato già un anno fa gli Himars e i Bradley, la guerra sarebbe già finita. Continuiamo a sottovalutare gli ucraini e a sopravvalutare i russi. Guardate Bakhmut: doveva cadere già a inizio marzo ma non è andata così. LIMES Ritiene dunque possibile respingere i russi nei confini pre-24 febbraio? ZAKHEIM Io sarei completamente favorevole a cacciare i russi anche dai territori ucraini occupati prima dell’invasione. La Crimea è un altro discorso e va risolta in modo diverso. Dopotutto, la penisola è finita all’Ucraina solo grazie a Khruš0ëv; se non fosse stato per lui, la Crimea sarebbe stata russa, com’è tornata a essere. Il problema è che Putin vuole tutta la costa del Mar Nero. Vuole Odessa. Ma deve capire che non può averla. Se dovesse essere cacciato dalle quattro oblast’ potrebbe realizzare che rischia di perdere anche la Crimea. Infine, non è immaginabile che sia Zelens’kyj a chiedere a Putin un negoziato: non è stato lui a invadere l’UCopia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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craina. Deve essere Putin ad aprire a Zelens’kyj. Solo a quel punto gli Stati Uniti e gli europei possono spingere il presidente ucraino a trattare. LIMES Quale supporto offrono gli Stati Uniti a Israele nella guerra non dichiarata all’Iran? ZAKHEIM Supporto significa molte cose. Di certo non obiettiamo. Anche per quanto riguarda gli omicidi e i sabotaggi industriali, vi sfido a trovare una voce americana che si sia detta contraria. Onestamente, non so se facciamo più operazioni congiunte come quella del virus Stuxnet nel 2010. LIMES Pensa che sia possibile impedire all’Iran di farsi la Bomba? ZAKHEIM Penso che a breve la avranno, è una questione di mesi. Ovviamente non lo ammetteranno, al pari degli israeliani. Questo potrebbe impedire all’Occidente di essere costretto a prendere la tremenda decisione di colpire o meno. Lo scenario sarà il seguente: entrambe le parti avranno la Bomba, lo negheranno e si comporteranno come se il rivale la avesse. A cosa porterà tutto questo? Si dissuaderanno a vicenda. Quello che Israele ha, al contrario dell’Iran, è un sistema di difesa antimissile relativamente efficace: se io fossi un generale iraniano, non sarei sicuro che il mio missile perfori lo scudo israeliano, ma sarei piuttosto sicuro che il nemico lancerebbe una rappresaglia. Eppure, l’Iran è un paese enorme, ha imparato a interrare le sue capacità nucleari e Israele non potrà mai sapere dove si trovano tutte le infrastrutture del suo rivale. Se dovesse provare ad attaccarle, legittimerebbe la pretesa iraniana di avere la Bomba. E poi non potrebbero colpire senza il nostro aiuto, che non credo gli forniremmo. Per gli Stati Uniti questo è il migliore dei cattivi esiti. LIMES Un simile scenario non porterebbe altri paesi, come gli Emirati o l’Arabia Saudita, a iniziare una corsa agli armamenti? ZAKHEIM È possibile. Tale fattore potrebbe spingere l’Iran a fermarsi a un passo dalla Bomba. Se diventassero una potenza nucleare a tutti gli effetti, gli ayatollah non avrebbero puntate addosso solo le armi israeliane, ma anche quelle di tutta la regione, a partire – ipoteticamente – da Emirati e Arabia Saudita, passando per la Turchia, che di certo non resterebbe passiva. LIMES Si ritiene soddisfatto dell’approccio di Israele alla Turchia? ZAKHEIM I rapporti tra Turchia e Israele fanno le montagne russe dal 1948. A volte sono amichevoli, altre no. Erdoãan ha capito che mettersi tutti contro non funzionava e che Ankara aveva bisogno degli investimenti e delle tecnologie dello Stato ebraico. Per questo ora le relazioni sono migliorate. Per noi non è un problema, anzi è un mal di testa in meno in una regione turbolenta. È vero che la Turchia genera frizioni ma almeno è nella Nato e noi vogliamo che ci resti. Pensate se ne uscisse: è la principale forza di terra dell’Alleanza e lascerebbe scorrazzare le navi russe dentro e fuori il Mar Nero. Sappiamo che stanno facendo impazzire svedesi e finlandesi, ma di Ankara abbiamo bisogno. LIMES Israele inoltre vi è d’aiuto perché armando Grecia, Bulgaria e Romania contribuisce a creare un arco di contenimento della Turchia. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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Sì, questo atteggiamento ha aiutato a convincere la Turchia che il suo approccio frontale non avrebbe portato da nessuna parte. Inoltre Erdoãan punta alla rielezione e le sue speranze non sono così alte come si poteva pensare qualche mese fa. In questo riorientamento, Ankara ora supporta solo nominalmente Õamås. Alla fine, però, non penso che la Turchia riuscirà a slegare Israele da Grecia e Cipro, esattamente come la Cina non distanzierà l’Arabia Saudita dagli Stati Uniti. Ci sarà maggiore equilibrio. LIMES Gli Stati Uniti vorrebbero lasciare alcune responsabilità militari a Israele e ai suoi alleati arabi? ZAKHEIM Non esattamente. Anche se questa è stata l’interpretazione delle potenze mediorientali. Si sono organizzate perché noi siamo apparsi poco affidabili. E i cinesi ne hanno approfittato per entrare nella regione. Non stiamo lavorando per trasformare Israele nella garante di ultima istanza della sicurezza della regione. Non funzionerà. Per un motivo molto semplice: non è chiaro se Israele intenda diventarlo. Tempo fa i sauditi cercavano di convincere Israele ad attaccare Õizbullåh. Israele ha risposto: non faremo il lavoro sporco per voi. Ci sono limiti a che cosa può e vuole fare lo Stato ebraico. Non faremo come Nixon che riconobbe un ruolo di garante allo scià di Persia – peraltro non è finita molto bene. Il nostro dilemma ora è: anche se continuiamo a dire che non stiamo andando via dal Medio Oriente, gli attori della regione sono convinti del contrario. Dato che scriviamo nei nostri documenti strategici che le nostre priorità sono Cina e Russia, i paesi mediorientali concludono che ci stiamo disimpegnando. Ma non è così: semplicemente, se mettiamo nero su bianco che ogni zona del mondo è da considerarsi per noi ad «alta priorità», allora nessuna lo è davvero. LIMES Quale è l’interesse fondamentale degli Stati Uniti in Medio Oriente? ZAKHEIM Preservare la stabilità per raggiungere obiettivi anche economici. Siamo ancora la più grande economia del mondo: la Cina non riuscirà a raggiungerci per molto tempo. Deve crescere più del 7-8% all’anno solo per essere stabile e quest’anno forse non supererà il 2%. Mantenere stabile il Medio Oriente ci permetterà di intrattenere rapporti economici con molteplici paesi che tra di loro non commerciano, ma che invece hanno con noi scambi estremamente fecondi. LIMES Quindi a che cosa serve una presenza militare ancora così cospicua in Medio Oriente, se l’interesse è così conservativo? ZAKHEIM Principalmente per l’Iran. Credo che l’accordo con l’Arabia Saudita possa portare stabilità, quantomeno perché Teheran non si vuole alienare Pechino e smettere di ricevere i suoi vitali investimenti. Il problema è che con gli iraniani non si sa mai. Sono imprevedibili, dunque dobbiamo continuare a garantire una qualche forma di protezione militare per evitare un rovesciamento dei regimi in Bahrein, negli Emirati Arabi e in Arabia Saudita. Se l’Iran destabilizza gli Emirati, la cosa ci riguarda; se destabilizza l’Arabia Saudita o Israele, la cosa ci riguarda. Il Medio Oriente siede su alcuni dei principali colli di bottiglia marittimi: magari gli Stati Uniti non hanno bisogno del gas e del petrolio che transitano per Hormuz, ma i nostri alleati sì, quindi anche questa cosa ci riguarda. Se vuoi mantenere il ruolo di garante delle ZAKHEIM
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rotte commerciali mondiali e impedire all’Iran di dominare quegli stretti, devi avere una presenza militare in Medio Oriente. Teheran non ha ancora dimostrato di non costituire più una minaccia per regimi importanti per i nostri interessi. LIMES Come possono gli americani fidarsi di un paese in cui c’è una spaccatura così netta tra governo e Forze armate? ZAKHEIM In America, nell’esecutivo e al Congresso, c’è simpatia verso i militari israeliani, mentre Netanyahu è stato avvisato, sia da Biden sia da Blinken, che la direzione che sta prendendo è tutto tranne che gradita. Alla fine, i militari stanno semplicemente portando avanti una linea che difende l’unità del paese. Quello che sta facendo Netanyahu non sarà illegale, ma è improprio. LIMES Se lo Stato d’Israele è così diviso al suo interno, non c’è il rischio che possa anche essere meno affidabile? ZAKHEIM Dobbiamo aspettare. Se Netanyahu si arrende, allora c’è la possibilità che buona parte del paese si prenda un momento di riflessione. Esiste ancora in quella nazione un senso di vulnerabilità, di pericolo esistenziale derivante da minacce oggettive, come l’Iran. Se Netanyahu farà un passo indietro, sono certo che gli israeliani si renderanno rapidamente conto dei problemi che li circondano e si diranno: mai più una crisi interna come questa. E gli Stati Uniti torneranno immediatamente a considerarli degli alleati affidabili. (traduzione di Giuseppe De Ruvo)
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ANKARA E GERUSALEMME CONDANNATE A PIACERSI
di
Daniele SANTORO
Mentre gli Stati Uniti si tengono a distanza dal Medio Oriente e la Cina ne profitta, turchi e israeliani riscoprono le ragioni della collaborazione. Dal sostegno all’Azerbaigian ai progetti energetici, fino al decisivo contenimento dell’Iran, corteggiato da Pechino.
I
1. TURCHI NON SONO CELEBRI PER LA raffinatezza della loro poetica. Forse è anche per questo che hanno neutralizzato sul nascere la narrazione centrata sulla metafora sismica. Al devastante terremoto che ha colpito l’Anatolia sud-orientale lo scorso 5 febbraio non corrisponderà scossa geopolitica di analoga intensità. La decisione del variopinto blocco d’opposizione incardinato nel «tavolo a sei» – variegato al punto da includere i socialdemocratici del Chp e i Lupi grigi di Meral Akúener, gli islamisti eredi di Necmettin Erbakan e i liberisti di Ali Babacan, i conservatori religiosi di Ahmet Davutoãlu e i tecnokemalisti del Partito democratico, con i nazionalisti curdi dell’Hdp come convitati di pietra – di candidare alla presidenza Kemal Kılıçdaroãlu dimostra che lo Stato turco ha scelto la continuità. Bloccando sul nascere la resa dei conti accennata da Meral Akúener – ex ministro dell’Interno nel governo della SuperNato guidato da Erbakan – quando ha abbandonato per 48 ore il «tavolo a sei» nel tentativo di imporre la candidatura di Ekrem ømamoãlu e posticipando il potenziale avvicendamento generazionale incarnato nella figura del popolare sindaco di Istanbul, sul quale pende una condanna a due anni e mezzo di carcere. Soprattutto, lo Stato turco si è rivelato ormai impermeabile alle infiltrazioni ostili. Come dimostra la nervosa reazione degli Stati Uniti, che a cavallo della nomina di Kılıçdaroãlu hanno inviato nei possedimenti siriani del Pkk prima il capo degli Stati maggiori riuniti Mark Milley e poi il comandante del Centcom Michael Erik Kurilla 1. Segnale inequivocabile del tipo di rappresaglia che gli americani intendono impartire ai turchi in caso di (probabile) vittoria di Erdoãan e delle modalità con cui si propongono di interferire nella campagna elettorale anatolica. ProCopia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
1. O. LIEBERMANN, «Top US general visits Syria for first time as chairman of the joint chiefs, meets US forces», cnn.com, 5/3/2023; «CENTCOM chief meets PKK terrorists, inspects detention camps in Syria visit», Daily Sabah, 12/3/2023.
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spettiva che ha indotto il presidente turco a smussare un angolo della contesa rimuovendo il veto all’ingresso della Finlandia nella Nato. La questione decisiva non è però tanto l’esito della competizione elettorale del 14 maggio, quanto la sua natura. Kılıçdaroãlu è certamente l’avversario ideale di Erdoãan, perché antropologicamente incapace sia di intercettare il voto conservatore in uscita dalla maggioranza sia di compattare le varie anime del suo elettorato. Ma il segretario del principale partito d’opposizione – status riconosciuto costituzionalmente, dal quale derivano non trascurabili privilegi istituzionali e parlamentari – è soprattutto un uomo d’apparato che può vantare 28 anni di servizio nella burocrazia anatolica. Giunse alla guida del Chp per volontà più o meno (in)diretta di Erdoãan, dopo lo scandalo sessuale che costrinse alle dimissioni il suo predecessore Deniz Baykal. Una delle ultime operazioni condotte congiuntamente dall’allora primo ministro turco e dal suo ex sodale Fethullah Gülen. Da tredici anni fa strategicamente da sponda alle iniziative del governo, intercettando e neutralizzando il dissenso interno. È una componente essenziale del progetto imperiale anatolico. Nell’improbabile ipotesi in cui venisse eletto al vertice dello Stato potrebbe al più slittare qualche accento tattico e narrativo, non certo intaccare la sostanza del revisionismo repubblicano. Lo Stato profondo di cui è parte integrante non glielo consentirebbe. Sui fronti geopolitici principali non ci sono divergenze radicali tra le attuali maggioranza e opposizione. Il Chp si spinse a inviare aiuti di partito agli azeri del Nagorno Karabakh per provare a intestarsi quantomeno parzialmente la vittoria di Baku nella guerra contro l’Armenia del 2020. La riconciliazione con il presidente siriano Baššår al-Asad – a questo punto imprescindibile per Ankara alla luce dell’ormai completa riabilitazione del regime da parte del mondo arabo – è uno dei cavalli di battaglia storici di Kılıçdaroãlu, che ha sempre mantenuto canali di comunicazione con Damasco. La Patria blu – declinazioni libiche incluse – è stata teorizzata da ammiragli ideologicamente affini al principale partito d’opposizione. Per impostazione culturale il rivale di Erdoãan – finito nella bufera per aver calpestato pubblicamente il tappeto di preghiera durante il Ramadan – non potrebbe tuttavia atteggiarsi ad aspirante califfo dell’ecumene islamica, circostanza che lo rende inadeguato a guidare il nucleo dell’impero repubblicano. Anche se in quanto zaza alevita totalmente assimilato al canone nazionale, la figura di Kılıçdaroãlu ha una dimensione imperiale non del tutto trascurabile. Queste dinamiche elettorali hanno però un significato che va ben oltre la natura della competizione presidenziale del 14 maggio. Le vicende che hanno portato alla nomina di Kılıçdaroãlu rivelano soprattutto che il fronte interno ha assorbito le devastanti conseguenze del terremoto. Malgrado la gestione relativamente approssimativa dell’emergenza, i temuti disordini sociali sono stati scongiurati. Prospettiva, quest’ultima, tutt’altro che peregrina considerando che il 59% della popolazione turca ha avuto almeno un parente o un amico coinvolto nel disastro sismico 2. E anche i fronti esterni non hanno subìto i contraccolpi del tragico evento Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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2. E. ÖZKÖK, «Deprem sonrası ilk anket: Yüzde kaç oyunu deãiútirdi?», ønternet Haber, 27/2/2023.
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naturale. Al contrario, la marcia imperiale della Turchia continua a essere scandita da innegabili successi geopolitici. Nelle settimane successive al terremoto Ankara ha consolidato la propria centralità nel conflitto ucraino mediante il rinnovo dell’intesa sul grano, portato a casa un accordo di libero scambio particolarmente corposo con gli Emirati Arabi Uniti 3, incamerato uno scudo monetario da cinque miliardi dollari gentilmente concesso dai sauditi 4, normalizzato pienamente le relazioni con l’Egitto. Senza contare l’entrata in servizio della portaerei leggera Anadolu, nave ammiraglia della Marina turca, la comparsa in pista del prototipo di aereo da guerra nazionale, l’uscita sul mercato delle prime automobili di produzione (quasi) interamente anatolica. In questo contesto, la visita compiuta in Egitto da Mevlüt Çavuúoãlu lo scorso 18 marzo – la prima di un ministro degli Esteri turco dal 2012 – è un evento di notevole portata tattica, soprattutto alla luce dei segnali incoraggianti provenienti dal Cairo. Anche perché propedeutico all’ormai inevitabile incontro tra Erdoãan e al-Søsø 5. Mediante tale riallineamento la Turchia si propone naturalmente di consolidare la propria posizione nelle Libie, nel Mediterraneo orientale e soprattutto nel confronto con la Grecia. Si tratta di una dinamica suscettibile di produrre aggiustamenti regionali tutt’altro che trascurabili, alla quale l’Italia dovrebbe guardare con grande attenzione. Soprattutto per le sue potenziali ripercussioni sugli equilibri libici 6. L’unica nota stonata è stata l’indefinita posticipazione del vertice tra i viceministri degli Esteri di Turchia, Russia, Iran e Siria in programma a Mosca il 15-16 marzo, tassello fondamentale della riconciliazione tra Ankara e Damasco e della spartizione turco-russo-iraniana delle Sirie. Ulteriore concessione di Erdoãan agli americani, le cui rappresaglie sono oggi la massima preoccupazione del presidente turco. Tanto che Ankara ha apparentemente deciso di bloccare il transito verso la Russia dei beni sanzionati dall’Occidente 7. La tenuta del fronte esterno è infatti anche conseguenza delle crisi parallele vissute dai rivali regionali, incapaci di approfittare delle contingenti difficoltà della Turchia perché in preda a crisi decisamente più strutturali di quella in corso in Anatolia. La Russia si è chiusa nel vicolo cieco ucraino, l’Iran attraversa una fase di malessere identitario forse senza precedenti dalla rivoluzione del 1979, Israele si trova di fronte alla crisi interna peggiore della propria storia. Quest’ultima dinamica è peraltro suscettibile di innescare conseguenze geopolitiche paragonabili per intensità – anche se non per modalità – all’impatto regionale prodotto dall’effimera «nuova alleanza» degli anni Novanta 8. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
3. «Turkey, UAE ink free trade deal in latest thaw», Al Monitor, 3/3/2023. 4. «Saudi Arabia deposits $5 bln in Turkey’s central bank – statement», Reuters, 6/3/2023. 5. «Turkey’s Erdogan and Egypt’s Sisi to meet: FM», Al Arabiya, 18/3/2023. 6. «Çavuúoãlu says Turkey and Egypt agree to work together on Libya’s stability», The Libya Update, 20/3/2023. 7. «Turkey Blocks Transit of Goods Sanctioned by EU, US to Russia», Bloomberg, 10/3/2023. 8. Cfr. Limes, «Turchia-Israele, la nuova alleanza», n. 3/1999.
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Malazgirt (Manzikert)
Mar Mediterraneo
EGITTO
CIPRO
Aleppo La porta del mondo arabo, la più ottomana delle città arabe
Gaza
Mosul
Teheran
Mar Caspio
IRAQ
IRAN
ARABIA S.
Capitale degli abbasidi. Città-simbolo della competizione tra ottomani e safavidi e della rivalità tra sunniti e sciiti. Citata da Erdoğan nel “discorso del balcone” del 2011
Baghdad
Nel gennaio 2014 Erdoğan l’ha definita la sua “seconda casa”. Insieme ad Ankara, la seconda città turca del mondo dopo Istanbul (gli azeri costituiscono circa un terzo degli abitanti di Teheran)
AZERBAIGIAN
Capitale dell’Azerbaigian, forse l’alleato più stretto della Turchia di Erdoğan. Le relazioni tra i due paesi vengono spesso descritte con la formula “una nazione, due Stati”. Citata da Erdoğan nel “discorso del balcone” del 2011
Baku
Dābiq Luogo della battaglia che, il 24/8/1516, aprì a Selim I la strada della Siria e dell’Egitto. L’operazione “Scudo dell’Eufrate” è iniziata il giorno del cinquecentesimo anniversario della battaglia Damasco La capitale degli omayyadi, città dove Erdoğan ancora nel 2012 intendeva “recitare la preghiera del venerdì”
Il simbolo dell’amputazione dell’Impero ottomano, SIRIA la città che unisce le ambizioni di Mustafa Kemal Atatürk e quelle di Erdoğan
Città dove sorge il palazzo presidenziale che riassume il potere, le ambizioni e la megalomania di Erdoğan
Ankara
TURCHIA
Kasımpaşa - quartiere di nascita di Erdoğan. Lo stadio porta il suo nome Mar Nero Piazza Taksim - la piazza del Gezi Parkı, il luogo simbolo dell’opposizione che Erdoğan vuole “riconquistare” Ayasofya - Il simbolo della conquista di Istanbul
Città di origine della famiglia di Erdoğan
Rize
Luogo della storica vittoria dei selgiuchidi di Alp Arslan contro i bizantini (1071)
Siirt
Città dove il 12/12/1997 Erdoğan lesse la poesia di Ziya Gökalp che ne causò l’incarcerazione e nel cui collegio il 3/3/2003 è stato eletto per la prima volta deputato
Gaza Il Cairo Emblema della resistenza palestinese (Erdoğan: “Le lacrime delle mamme di Gaza fanno piangere le mamme di Ankara”), La capitale dell’impero dei mamelucchi. La città dalla quale Erdoğan, al contempo simbolo e negazione del “principialismo” nel settembre 2011, della geopolitica turca. Citata da Erdoğan nel “discorso del balcone” del 2011 cercò di prendersi il mondo arabo
Gerusalemme La terza città santa dell’islam. In un cortometraggio del 2015 del regista gerosolimitano Muhāmmād Fatīh, Erdoğan viene annunciato come colui che avrebbe “liberato” la moschea di al-Aqsa
Nicosia Lefkoșa - La capitale della “yavru vatan”, la “figlia-patria”. Citata da Erdoğan nel “discorso del balcone” del 2011
Çanakkale Vittoria contro gli Alleati nella prima guerra mondiale. Simbolo della resistenza nazionale turca e dell’ostilità nei confronti dell’Europa Söğüt Il villaggio in cui si stabilisce, presumibilmente alla fine del XIII secolo, Ertuğrul Bey, padre del fondatore della dinastia ottomana Osman Gazi. È da qui che inizia la saga degli ottomani
BOSNIA ERZ.
La “Gerusalemme d’Europa” Simbolo della sofferenza dei musulmani e della dimensione balcanica dell’impero ottomano. Unica città citata due volte da Erdoğan nel “discorso del balcone” del 2011
Sarajevo
LE MEMORIE DI ERDOGAN
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2. La visita in Turchia del presidente israeliano Yitzhak Herzog del 9 marzo 2022 – in particolare la calorosa stretta di mano con Erdoãan – ha simbolicamente aperto una fase inedita nelle relazioni, soprattutto informali, tra le due potenze mediorientali. Oggi l’intesa tra Ankara e Gerusalemme si sviluppa infatti sulla base di presupposti geopolitici radicalmente diversi rispetto a quelli che hanno informato il precario asse tattico turco-israeliano tra la visita segreta in Turchia di David Ben-Gurion del 29 agosto 1958 – in occasione della quale i turchi vennero inclusi nella cosiddetta alleanza della periferia – e l’incidente della Mavi Marmara del 31 maggio 2010. Per circa mezzo secolo Ankara ha percepito lo Stato ebraico come un passe-partout per accedere ai benefici militari e geopolitici della superpotenza. Intrattenere rapporti cordiali con Israele significava garantirsi un trattamento di favore da parte degli Stati Uniti e mitigare le conseguenze delle ricorrenti crisi con Washington. Come nel triennio 1975-78, quando i servizi segreti israeliani permisero alla Turchia di aggirare l’embargo militare imposto dagli americani dopo la crisi di Cipro del 1974. Spiegando la natura profonda della relazione turco-israeliana, nel 1983 l’allora «ministro dell’Economia» della giunta del 12 settembre Turgut Özal – eletto premier quello stesso anno – ammetteva con candida sincerità che «noi facciamo un’analisi costi-benefici: conosciamo perfettamente il ruolo della lobby ebraica negli Stati Uniti» 9. Due anni prima – mentre il generale Kenan Evren cercava di rilanciare il ruolo di Ankara nel mondo islamico (anche) mediante una virulenta retorica anti-israeliana – 61 senatori statunitensi avevano recapitato all’ambasciatore turco a Washington una missiva nella quale mettevano in chiaro che l’ostilità della Turchia nei confronti di Israele avrebbe influito sulla qualità delle relazioni turco-americane 10. Per i turchi ingraziarsi lo Stato ebraico non era una scelta, ma una necessità. Che divenne ancor più impellente negli anni Novanta, il «decennio perduto» di Ankara, quando orfana della minaccia sovietica la Turchia cercava a fatica di ritagliarsi un ruolo nell’architettura di sicurezza globale a guida americana. Individuando nell’asse tattico con Gerusalemme un espediente per proporsi come baluardo degli interessi della superpotenza in Medio Oriente. E per accedere alla tecnologia militare che gli americani erano restii a concedere a una potenza in crisi d’identità geopolitica che tuttavia cominciava a emettere i primi vagiti imperiali. Israele ha sempre guardato – e continua a guardare – alla Turchia come fondamentale avamposto securitario per difendersi dalle minacce alla propria sopravvivenza. Prima dai regimi arabi, poi dall’Iran rivoluzionario. Negli anni Cinquanta e Sessanta Ankara era il perno dell’alleanza della periferia, negli anni Ottanta e Novanta divenne componente essenziale del contenimento della Repubblica Islamica. Tanto che dalla prospettiva dello Stato ebraico il cuore dell’intesa tattica stipulata dopo la fine della guerra fredda era l’addestramento dei piloti israeliani nei Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
9. Cit. in W. PICCOLI, «Geostrategia dell’asse turco-israeliano», Limes, «Turchia-Israele, la nuova alleanza», n. 3/1999, p. 28. 10. U. UZER, «Türkiye-øsrail iliúkilerinde bunalım» («La crisi nelle relazioni turco-israeliane»), Ortadoãu Etütleri, vol. 2, n. 2, gennaio 2011, p. 140.
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cieli dell’Anatolia, piattaforma ideale per un attacco preventivo contro Teheran. O comunque per monitorare le attività ostili degli ayatollah. Condizione impreziosita dall’indipendenza raggiunta dall’Azerbaigian e dalle repubbliche turche dell’Asia centrale, che rigenerava la mezzaluna turanica cingente l’altopiano iranico. Incubo strategico dei persiani fin dall’insediamento dei nomadi turcomanni nella valle dell’Aras e nell’‘Iråq al-‘Arab nel corso dell’XI secolo. Nell’ultimo decennio la natura della relazione turco-israeliana è divenuta molto più asimmetrica, circostanza che ha intaccato i parametri strutturali che hanno regolato il rapporto tra le due potenze per oltre mezzo secolo. La dinamica decisiva è stato l’exploit geopolitico della Turchia, la trasformazione di Ankara in una potenza regionale a tutto tondo dotata di un’autonomia strategica relativamente compiuta, dunque in grado di perseguire in modo parzialmente indipendente i propri interessi. Rispetto agli anni Novanta, i turchi giocano partite molto più rischiose, su tavoli dove le poste in gioco assumono dimensione strategica anche per la superpotenza e i suoi rivali diretti. In questo contesto, il vertice israeliano non può più compensare le turbolenze sul lato turco-americano del triangolo Ankara-Gerusalemme-Washington. Come dimostra ad esempio la questione degli F-16. Vent’anni fa la riconciliazione turco-israeliana avrebbe avuto un impatto sensibile sul braccio di ferro tra la superpotenza e il suo insubordinato alleato anatolico. Oggi la lobby ebraica e i gruppi di pressione che emanano dallo Stato di Israele non sarebbero in grado di influire in modo decisivo sulla decisione del Congresso. Perché quest’ultima ha un effetto tutt’altro che trascurabile sugli interessi strategici degli Stati Uniti in Afro-Eurasia e nel Mediterraneo, dalle steppe centrasiatiche alle sabbie sahariane. E persino sulla tenuta dell’impero europeo dell’America, come dimostrano le crescenti tensioni dell’Egeo – solo temporaneamente attenuate dalla diplomazia sismica turco-greca – e il fatto che la Turchia possa permettersi di ostacolare con successo l’ingresso della Svezia nella Nato per guadagnare margini di manovra nel negoziato con Washington. Mossa che ancora un decennio fa gli americani avrebbero neutralizzato con entrambe le mani dietro la schiena, facendo pagare ad Ankara un prezzo insostenibile. Senza contare che nel corso dell’ultimo decennio la Turchia è progressivamente divenuta uno dei principali produttori ed esportatori di armamenti a livello globale, testando con successo i propri innovativi sistemi d’arma sui principali campi di battaglia regionali e attenuando sensibilmente – soprattutto in una prospettiva decennale – la dipendenza dagli Stati Uniti per lo sviluppo della propria tecnologia militare. Per rimpolpare i loro arsenali svuotati dalla guerra in Ucraina, molti paesi della Nato si sono ad esempio rivolti all’industria bellica anatolica. Tanto che gli armamenti in produzione nel prossimo quinquennio sono stati mediamente già prenotati e che le aziende del settore stanno lavorando per raddoppiare la propria capacità produttiva 11. Dinamiche che riducono enormemente Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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11. N. TURAK, «Killer drones and multi-billion dollar deals: Turkey’s rapidly-growing defense industry is boosting its global clout», cnbc.com, 28/3/2023.
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l’importanza strategica di Gerusalemme agli occhi di Ankara. Anche in considerazione del fatto che nella fase storica aperta dal tentato (ma forse non ancora sventato) golpe costituzionale di Netanyahu Israele dovrà pensare innanzitutto a preservare la natura speciale della propria relazione con la superpotenza. Come dimostra il fatto che il presidente americano Joe Biden si sia spinto a catechizzare il premier israeliano sull’importanza dei valori democratici, quasi «Bibi» fosse un qualunque autocrate mediorientale 12. E che il dipartimento di Stato sia arrivato a convocare per chiarimenti l’ambasciatore israeliano negli Stati Uniti, come se lo Stato ebraico fosse un paese ostile 13. A parti invertite, la tendenza è di segno esattamente opposto. Israele non ha mai avuto così bisogno della Turchia in tutta la sua storia. Il tentativo di ribaltare l’alleanza della periferia stringendo intese tattiche formali (Emirati Arabi Uniti) e informali (Arabia Saudita) con le monarchie arabe del Golfo per contenere gli espansionismi turco e persiano e compensare il disimpegno americano dal Medio Oriente si è rivelato un fallimento strategico epocale. Certificato dall’intesa del 10 marzo scorso tra Arabia Saudita e Iran mediata dalla Cina. Evento suscettibile di innescare dinamiche in grado di trasformare radicalmente gli equilibri mediorientali, indebolendo ulteriormente la posizione regionale dello Stato ebraico. Stante il rischio che nel medio periodo sauditi e persiani raggiungano un’intesa relativamente complessiva e mutualmente soddisfacente per tutelare i rispettivi interessi vitali. Naturalmente sulla testa di Israele. Mentre gli Stati Uniti osservano distratti e indifferenti. L’accordo irano-saudita è solo la punta di un iceberg pericolosamente alla deriva. La mediazione cinese segnala l’apparente fine dell’egemonia regionale di Washington e l’affermazione di Pechino quale attore in grado di arbitrare con successo le più spinose partite mediorientali. Con l’aggravante che la Repubblica Popolare si proietta in Medio Oriente innanzitutto con il proposito di bilanciare la relazione speciale israelo-americana mediante un’intesa di ampio respiro con l’Iran. L’obiettivo prioritario della Cina è infatti creare le condizioni per rendere la Repubblica Islamica il perno – non solo logistico – del passaggio centrale delle nuove vie della seta. Prospettiva che potrebbe comportare come prima conseguenza la più o meno completa riabilitazione di Teheran sotto il profilo finanziario, vedi gli investimenti nell’economia iraniana promessi dai sauditi immediatamente dopo l’accordo del 10 marzo 14. E che nel medio periodo potrebbe permettere ai persiani di sfruttare la competizione sino-americana in Medio Oriente per costringere gli Stati Uniti a legittimare il proprio programma nucleare a condizioni più vantaggiose rispetto a quelle del 2015. Scenari che imporrebbero allo Stato ebraico di agire preventivamente per segnalare ai prudenti cinesi – il cui Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
12. «Readout of President Joe Biden’s Call with Prime Minister Benjamin Netanyahu of Israel», whitehouse.gov, 19/3/2023. 13. J. MAGID, «Israeli envoy called to US State Department in protest of Disengagement Law’s repeal», The Times of Israel, 22/3/2023. 14. R. UPPAL, A. EL YAAKOUBI, «Saudi Arabia could invest in Iran “very quickly” after agreement – minister», Reuters, 15/3/2023.
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ingresso nel porto di Haifa aveva peraltro creato qualche frizione con Washington stante la prossimità dell’infrastruttura alla principale base della Marina israeliana, spesso usata anche da quella americana 15 – la volatile esplosività del contesto regionale e convincere gli Stati Uniti a riprendere in mano il bandolo della matassa mediorientale. Ma il momento attraversato da Israele ne riduce la capacità di reazione, anche perché l’Iran resta in vantaggio nella guerra di prossimità che si combatte tra i monti Zagros e il Mediterraneo. Gli strateghi e i vertici militari israeliani sono ad esempio piuttosto preoccupati della crescente sinergia che i persiani sono riusciti a sviluppare tra Õizbullåh, Õamås e Jihåd Islamica e temono che i contraccolpi della tempesta domestica sull’esercito – in particolare sull’Aeronautica – possano indebolire notevolmente la preparazione al combattimento delle Forze armate 16. Non solo nell’immediato, alla luce della portata della crisi attraversata dallo Stato ebraico. Rischi potenzialmente fatali che aumentano ulteriormente la già pressante necessità di ristabilire un’intesa tattica di ampio respiro con la Turchia. 3. La riconciliazione tra Israele e Turchia non è avvenuta per mezzo di iniziative diplomatiche né sulla spinta di interessi economico-energetici. Strumenti e obiettivi che non possono alimentare e men che meno orientare la grande strategia o la postura tattica delle due potenze. Turchi e israeliani sono tornati ad annusarsi, e a piacersi, sul campo di battaglia. In armonia con la loro natura antropologico-culturale. A far scoccare la scintilla è stata la guerra armeno-azerbaigiana del 2020, combattuta tanto da Ankara quanto da Gerusalemme al fianco di Baku. Per ragioni diverse ma sovrapponibili. Mediante il sostegno militare all’Azerbaigian Israele ha guadagnato una notevole profondità tattica nel Caucaso. Circostanza che permette allo Stato ebraico di premere sull’Iran dal fronte settentrionale, di costringere i persiani a guardarsi le spalle, di solleticare gli istinti panturchi della minoranza azera della Repubblica Islamica (circa un terzo della popolazione iraniana), dunque di bilanciare la pressione esercitata dal nemico sui propri confini attraverso i noti agenti di prossimità. Non si tratta di una dinamica estemporanea. Nel quinquennio che ha preceduto la seconda guerra del Nagorno Karabakh Israele ha fornito all’Azerbaigian oltre i due terzi degli armamenti acquistati in quel periodo 17. E la repubblica ex sovietica – che di recente ha aperto l’ambasciata a Tel Aviv – soddisfa circa il 40% del fabbisogno energetico dello Stato ebraico. Dalla prospettiva israeliana, l’Azerbaigian è ormai un pilastro fondamentale della strategia di contenimento dell’Iran. Come dimostra il nervosismo esibito dalla leadership persiana per la presenza del nemico al proprio confine settentrionale, che il ministro degli Esteri della Repubblica IslaCopia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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15. A. EGOZI, «US Presses Israel On Haifa Port Amid China Espionage Concerns: Sources», Breaking Defense, 5/10/2021. 16. A. HAREL, «As Netanyahu’s Regime Coup Tears the IDF Apart, Trouble Awaits Israel on Other Fronts», Haaretz, 20/3/2023. 17. P.D. WEZEMAN, A. KUIMOVA, S.T. WEZEMAN, «Trends in International Arms Transfers», Sipri, marzo 2021.
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mica Hossein Amir-Abdollahian ha inteso non casualmente rimarcare in occasione della sua recente visita ad Ankara 18. E manifestatosi da ultimo con la visita del comandante delle Forze di terra delle Guardie della rivoluzione Mohammad Pakpour al confine irano-armeno-azerbaigiano, mentre i media persiani lanciavano l’allarme su un’imminente offensiva militare di Baku 19. Nel contesto caucasico la Turchia persegue obiettivi altrettanto vitali, ma di portata più strategica. Nel lungo periodo, Ankara mira a coinvolgere l’Azerbaigian nel proprio progetto di confederazione imperiale, dunque a fondere progressivamente le due entità statuali a partire da una sempre maggiore coordinazione tra le rispettive Forze armate. Che nella narrazione anatolica si traduce innanzitutto nella potenziale genesi di un esercito di fatto unico 20. Nel medio termine, i turchi puntano a consolidare la posizione della repubblica sorella quale snodo del «corridoio centrale» mediante l’apertura del cosiddetto corridoio di Zangezur, infrastruttura che permetterebbe alla Turchia di sviluppare una direttrice logistico-geopolitica propriamente turanica estesa dal Turkestan orientale all’Ungheria (membro osservatore del Consiglio turco). Dunque di sostanziare l’evocativa narrazione panturca e di introdursi da protagonista nella riedizione del Grande Gioco. Obiettivi che nell’immediato presuppongono l’estromissione quantomeno parziale di russi e persiani dal contesto caucasico, o comunque una sensibile riduzione della loro influenza regionale. Dinamica già ampiamente in corso. Come rivelano le ricorrenti crisi tra Russia e Azerbaigian, con Baku che in barba al pomposo accordo di alleanza strategica siglato il giorno prima dell’invasione dell’Ucraina accusa Mosca di scortare armamenti e truppe armene nelle zone contese 21 e i russi che stigmatizzano le violazioni del cessate-il-fuoco da parte degli azerbaigiani 22. E la crescente frustrazione delle autorità persiane, le quali guardano con grande preoccupazione al rischio che le offensive dell’Azerbaigian conducano a una trasformazione dei confini regionali. Temendo di perdere la frontiera con l’Armenia, dunque l’accesso al Caucaso meridionale. Per Israele attaccare l’influenza iraniana nel Caucaso è priorità strategica, per la Turchia necessità tattica funzionale al perseguimento dei propri obiettivi di lungo periodo. Incastro sufficiente a creare sinergie replicabili anche in Asia centrale. Come lascia ad esempio intendere la prossima apertura di un’ambasciata israeliana in Turkmenistan, a soli venti chilometri dal confine con la Repubblica Islamica 23. Mentre Ankara riesce con successo ad attirare la repubblica centrasiatica nella Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
18. L. KENEZ, «Iran warns Turkey that it is uncomfortable with Israel’s presence in the Caucasus», Nordic Monitor, 10/3/2023. 19. «Amid Armenia-Azerbaijan Tensions, IRGC Commander Visits Border Regions», Iran International, 24/3/2023. 20. «Millî Savunma Bakanı Hulusi Akar: “Azerbaycan’la gerektiãinde tek ordu, tek güç, tek yumruk olmayı biliriz”» («Il ministro della Difesa Hulusi Akar: “Quando è necessario con l’Azerbaigian sappiamo essere un unico esercito, un’unica forza, un unico pugno”»), ministero della Difesa della Repubblica di Turchia, 6/12/2022. 21. A. AVETISYAN, I. Aghayev, «Fears grow of new war between Armenia and Azerbaijan», Oc Media, 22/3/2023. 22. «Russia Claims Azerbaijan Violated Cease-Fire With Armenia», rferl.org, 25/2/2023. 23. A. KAHANA, «Israel to open embassy in Turkmenistan, closest to Iran», Israel Hayom, 3/3/2023.
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Impianti per esportazione gnl Acque contese (Libano/Israele) Importanti giacimenti di gas
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Creta
M a r
Limiti di Zee frutto di un accordo bilaterale Limiti di Zee non ufficiali
Area libica
Accordo Turchia-Tripoli (2019) Area turca
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LIBIA
GRECIA
Rodi
Impianto gnl galleggiante israeliano in progetto per intensificare lo sfruttamento di Leviathan
Idku
Gaza
SIRIA
GIORDANIA
LIBANO
ISRAELE Cisg.
Tamar Leviathan
CIPRO
Dörtyol
Membri dell’East Med Gas Forum (Egitto, Israele, Cipro, Grecia, Autorità nazionale palestinese e Italia)
LE PARTITE ENERGETICHE NEL MEDITERRANEO ORIENTALE
Damietta
Zohr
Calypso Glaucus Onisiforos Occ. Aphrodite
T U R C H I A
Impianti gnl turchi Progetto di gasdotto 2 onshore e 2 offshore (EastMed)
M e d i t e r r a n e o
E G I T T O
M a r
Nuova frontiera marittima tra Egitto e Grecia (8/2020)
Nuova frontiera marittima tra Libia e Turchia (11/2019)
Kasos
Karpathos
E g e o
Aliağa
Marmara Ereğlisi Etki
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propria orbita, sopravanzando la Russia quale principale fornitori di armamenti di Ashgabat 24. Dinamiche analoghe sono in corso nel quadrante siracheno. A partire dal 2020 la Turchia ha esteso notevolmente il proprio raggio d’azione nell’Iraq del Nord, bombardando le postazioni del Pkk fin nella provincia di Sulaymåniyya e stabilendo una zona di sicurezza di fatto costellata di decine di basi. Estroversione necessaria a fronteggiare efficacemente la minaccia terroristica, che continua a compiere notevoli salti di qualità. Come ha rivelato l’incidente del 16 marzo scorso, quando nove membri del Pkk siriano sono morti in prossimità del confine turco-iracheno in seguito alla caduta dell’elicottero che li stava trasportando 25. Evento che dimostra come gli Stati Uniti stiano fornendo ai loro agenti di prossimità questo tipo di velivoli e il relativo addestramento 26. Ma a usare il Pkk contro la Turchia nell’Iraq del Nord non sono solo gli americani. Da almeno un paio d’anni l’Iran ha infatti forgiato un’intesa tattica sempre più esplicita tra le milizie sciite e i terroristi curdi per arginare, e se possibile respingere, l’avanzata turca nella regione. Dove Israele sta consolidando la propria presenza in sintonia con il governo regionale curdo, legato a doppio filo ad Ankara. L’attacco missilistico contro Arbøl del 13 marzo dello scorso anno, rivendicato dai pasdaran, rivela la natura della posta in gioco e le crescenti sintonie turco-israeliane in questo quadrante 27. L’obiettivo dei persiani era infatti segnalare il proprio disagio verso il progetto volto a condurre il gas curdo-iracheno in Turchia (e da qui in Europa), naturalmente con il decisivo contributo degli israeliani 28. In Siria la relativa corrispondenza d’interessi turco-israeliana assume una declinazione ancora diversa, ma con esito analogo. Nel corso degli anni Ankara ha costantemente rimodulato gli obiettivi della propria politica siriana. Volta prima a rovesciare il regime di Damasco, poi a contenere il flusso di profughi, infine a creare una zona di sicurezza che consenta di combattere più efficacemente la minaccia terroristica del Pkk e, in prospettiva, di annettere una porzione dei territori del Patto nazionale. Negli ultimi mesi la Turchia sta cercando di bilanciare quest’ultimo proposito con la riabilitazione di al-Asad. Passaggio ormai necessario, alla luce della progressiva ma costante normalizzazione dei rapporti tra il governo siriano e i principali paesi arabi, a partire da Egitto ed Emirati. Ed è qui che gli interessi di Ankara e Gerusalemme tornano a incrociarsi fino a sovrapporsi. Come quando i due paesi puntavano con implicita sintonia a rovesciare il regime siriano. Per i turchi si trattava di installare un governo di prossimità a Damasco, per gli israeliani di rimuovere un satellite persiano. Oggi, Turchia e IsraCopia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
24. A. ZHOLDAS, «Import of Arms in Central Asia: trends and directions for diversification», Cabar, 1/10/2021. 25. C. CHALAK, «Mystery surrounds Duhok helicopter crash», Rudaw, 17/3/2023. 26. B. ùIRIN, «Her taúın altından onlar çıkıyor» («Sotto a ogni sasso spuntano loro»), Millî Gazete, 22/3/2023. 27. «Iran says missile attack on Iraq’s Abil targeted Israeli site», france24.com, 13/3/2023. 28. A. RASHEED, O. COúKUN, «Iran struck Iraq target over gas talks involving Israel – officials», Reuters, 28/3/2022.
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ele hanno dovuto prendere atto della resilienza del regime e si propongono di attenuare l’influenza di Teheran sullo stesso sfruttando il volano dei petrodollari del Golfo 29. 4. Le ambizioni imperiali di Ankara hanno dunque una non trascurabile declinazione anti-iraniana, connaturata alla condizione geografica dello Stato anatolico e alla sua tradizione geopolitica. Circostanza che crea una naturale sovrapposizione tra gli interessi tattici turchi e israeliani. Ma il contenimento dell’Iran per la Turchia non è priorità vitale. Con i persiani Erdoãan è incline a trattare, a mercanteggiare e se necessario a intendersi. Per le due potenze mediorientali l’ostilità nei confronti della Repubblica Islamica assume gradazioni molto diverse e non è quindi sufficiente a forgiare un’intesa analoga a quella degli anni Novanta. Soprattutto perché in cambio del suo arruolamento in un fronte anti-iraniano ormai piuttosto sguarnito Israele non può più offrire ad Ankara gli strumenti per mitigare l’avversione degli Stati Uniti. È questo che spiega, almeno in parte, l’attivismo mediterraneo dello Stato ebraico. Volto certamente a segnalarsi agli americani quale gendarme del Medioceano in grado di presiedere al contenimento dell’estroversione marittima della Turchia. Priorità strategica della superpotenza tra Gibilterra e Båb al-Mandab. Ma anche, forse soprattutto, ad aumentare le proprie leve negoziali con i turchi, a riequilibrare l’asimmetria geopolitica con Ankara. Negli ultimi anni Israele ha tentato di allestire un cordone sanitario ai confini marittimi della Turchia siglando intese militari ed energetiche con la Grecia, proponendosi di addestrare i piloti ellenici, di fornire missili alla Marina greca, di dotare Atene di un sistema di difesa antidrone modellato sulle peculiarità geografiche dell’Egeo. Le esercitazioni militari congiunte sono sempre più frequenti e coinvolgono anche Cipro Sud, dove le Forze di difesa israeliane svolgono giochi di guerra in solitaria o con greci e americani 30. Atti ostili che Ankara ha raramente stigmatizzato e che non hanno impedito ai turchi di rimettere in sesto i rapporti con lo Stato ebraico. Malgrado Gerusalemme continui a ribadire che la normalizzazione con la Turchia non intaccherà minimamente l’asse con la Grecia. Prospettiva che nel medio periodo assume connotati piuttosto inverosimili. Gli israeliani conoscono perfettamente i turchi. Sono assolutamente consapevoli che le rivendicazioni marittime di Ankara nell’Egeo e nel Mediterraneo orientale incardinate nella dottrina della Patria blu sono ragionevoli e che la postura massimalista della Grecia è insostenibile. Dunque consci del fatto che la potenza anatolica non potrà essere imprigionata nel Golfo di Antalya. È altamente improbabile che nel medio periodo lo Stato ebraico intenda effettivamente intestarsi la causa persa di Atene. Soprattutto alla luce del fatto che tale scelta implicherebbe il rischio di un confronto militare più o meno (in)diretto con la Turchia nel suo Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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29. A. KRIEG, «Why the UAE is playing long game on Syria», Middle East Eye, 12/1/2023. 30. «Cyprus opposition slams government for hosting Israeli military drills», The Times of Israel, 3/6/2022; T. KOKKINIDIS, «Greece, the US, Israel and Cyprus in Joint Military Drill in the Med», Greek Reporter, 15/3/2023.
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cortile di casa. In termini strategici, la proiezione antiturca di Israele nel Mediterraneo orientale assume una declinazione molto più sfumata e ambigua. Nell’immediato, Gerusalemme intende certamente affermarsi come perno del contenimento marittimo di Ankara. Ma in termini strumentali, prefiggendosi di aumentare la propria centralità nell’agone medioceanico in chiave antiturca allo scopo di creare i presupposti necessari a un’intesa di ampio respiro con la Turchia. E proponendosi di attenuare la propria ostilità al momento opportuno, come compensazione per l’adozione di una postura più marcatamente antipersiana da parte dei turchi. Le sinergie mediterranee turco-israeliane sono peraltro piuttosto corpose. Lo Stato ebraico intende sviluppare il proprio potenziale energetico e affermarsi come fornitore alternativo alla Russia per gli europei. Il declino del gasdotto EastMed – il cui tracciato era immaginato ad Atene e a Gerusalemme come limite fisico all’estroversione marittima della Turchia – ha confermato ai decisori israeliani che il mancato coinvolgimento di Ankara frustrerà strutturalmente le proprie ambizioni energetiche. Di qui il progetto di condurre il gas israeliano in Europa attraverso la piattaforma anatolica, che sta assumendo contorni sempre più concreti, per quanto ancora molto aleatori 31. La proposta di delimitare le rispettive Zone marittime esclusive inoltrata a Israele ormai due anni e mezzo fa da Cihat Yaycı – consigliere militare di Erdoãan e architetto dell’analogo accordo con il governo di Tripoli del novembre 2019 – permetterebbe certamente alla Turchia di legittimare in modo relativamente irreversibile la Patria blu, ma consentirebbe anche allo Stato ebraico di estendere notevolmente la propria sovranità marittima 32. In prospettiva, è persino ipotizzabile un reciprocamente proficuo scambio tra il riconoscimento israeliano della Repubblica Turca di Cipro Nord e l’attenuazione del sostegno turco alla causa palestinese, che nel corso dell’ultimo anno si è già sensibilmente ridotto. Convergenze alle quali Israele potrebbe decidere di conferire concretezza geopolitica a fronte di una più assertiva postura anti-iraniana della Turchia. La cui adozione viene oggi incentivata dall’accordo irano-saudita mediato dalla Cina. Uno dei più grandi successi geopolitici ottenuti da Ankara dopo l’invasione russa dell’Ucraina è stato quello di sfruttare la sopravvenuta parziale impraticabilità del Nuovo ponte terrestre eurasiatico per imporre ai cinesi l’uso del «corridoio centrale» come rotta transcontinentale alternativa 33. Tale direttrice imperniata sull’Anatolia aggira l’altopiano iranico attraverso Kazakistan, Caspio e Caucaso. Circostanza che ha permesso ai turchi di liberarsi dalla dipendenza dalla piattaforma iranica per le connessioni con l’Asia turanica, dunque di vincere provvisoriamente il duello solo apparentemente logistico con l’Iran, a sua volta determinato ad assicurarsi la fruibilità di rotte che gli permettano di raggiungere il Mediterraneo aggirando l’AnatoCopia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
31. V. NEDOS, «Erdogan revisits old gas proposal with Israeli FM», Ekathimerini, 16/2/2023. 32. D.S. ELMAS, A. KAHANA, «Erdogan confidant sends Israel another message of reconciliation», Israel Hayom, 6/12/2020. 33. Cfr. D. SANTORO, «Il secolo della Turchia?», Limes, «La guerra continua», n. 1/2023, pp. 201-15.
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lia. L’iniziativa diplomatica cinese mira a ribaltare il verdetto e a fare della Repubblica Islamica il perno dei commerci eurasiatici. Eventualità che indebolirebbe notevolmente la Turchia nel confronto regionale e che nel lungo periodo potrebbe persino escluderla dalle principali rotte continentali. L’apparente riconciliazione irano-saudita è infatti potenzialmente suscettibile di produrre conseguenze di rilievo nei quadranti siriano e iracheno, dunque di permettere in prospettiva alla Cina di raggiungere il Mediterraneo attraverso l’Iran, il Siraq e i porti levantini. Tali dinamiche delineano una potenziale sovrapposizione degli interessi di Gerusalemme e Ankara dai Monti Zagros alle sponde africane del Medioceano, creano i presupposti geopolitici per un’intesa persino più strutturata rispetto agli anni Novanta, in una certa misura depurata dal fattore americano. Anche perché passata la tempesta che ne scuote le fondamenta, Israele non avrà molte alternative oltre a quella di rifugiarsi nella quiete del nascente impero anatolico.
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I NEMICI ALLA FINESTRA SU ISRAELE ALEGGIA L’OMBRA DELLA GUERRA Quali minacce interne ed esterne mettono a rischio l’esistenza dello Stato. Il nucleare iraniano è la sfida principale. Il significato del fallimento dell’Anp. Õizbullåh e il fronte Nord. I boicottaggi palestinesi all’Onu. La ‘teoria della ragnatela’ è sbagliata. di
Kobi MICHAEL e Ori WERTMAN
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1. GGI ISRAELE SI TROVA AD AFFRONTARE sfide di portata insolita dal punto di vista strategico. Alle intricate minacce esterne si sommano infatti tensioni politiche e sociali interne senza precedenti dalla guerra del Kippur del 1973. Tale evento bellico, vissuto dalla nazione come un pesante trauma, generò una protesta civile di grandi dimensioni che pose le basi per il capovolgimento politico del 1977, quando il Partito laburista per la prima volta dalla fondazione dello Stato perse il controllo del governo. L’Iran sta intensificando gli sforzi per diventare una potenza nucleare e si sta espandendo in Medio Oriente. L’Autorità nazionale palestinese (Anp) ha perso il controllo dei territori sotto la propria giurisdizione e la sua crescente irrilevanza ha causato un’intensificazione del terrorismo nell’area. Õamås continua a consolidare la propria presenza nella Striscia di Gaza e a rafforzare i propri strumenti militari. Porta inoltre avanti un gioco a somma zero con Abu Mazen, poiché si considera a tutti gli effetti l’unica alternativa all’attuale governo palestinese. Agisce quindi per destabilizzare l’Anp e minare la sicurezza di Gerusalemme Est, ben consapevole di quanto sia delicato lo status quo del perimetro, spesso definito come un’autentica bomba pronta a esplodere da un momento all’altro. Parallelamente si consolida anche Õizbullåh in Libano, che procede a passi da gigante verso il collasso assoluto. La fragilità del mondo arabo destabilizza l’intorno strategico di Israele. Il tutto mentre i problemi economici, climatici e di governabilità a livello regionale potrebbero sfociare in una carenza di cibo, acqua e lavoro, incrinando così gli equilibri persino in quei paesi con cui vigono accordi di pace, come l’Egitto e la Giordania. Sul piano internazionale Israele sta subendo l’ennesima operazione di delegittimazione, portata avanti dai fautori della campagna per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (Bds), che operano nei tribunali internazionali e alle NazioCopia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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ni Unite. In precedenza gli Stati Uniti – fatta eccezione per alcuni momenti durante l’amministrazione Obama – avevano sempre garantito un appoggio incondizionato a Israele. Ma oggi i rapporti tra i due paesi sono più tesi che mai, anche a causa dell’attuale crisi nella società israeliana, causata dalle manovre del governo per promuovere una riforma giudiziaria che gli oppositori considerano un tentativo di colpo di Stato. Proprio il proposito di riformare il sistema giudiziario complica ulteriormente gli orizzonti strategici israeliani. Secondo il governo, la riforma servirebbe a correggere il sistema di equilibri e di contrappesi tra le diverse istituzioni del paese. Negli ultimi trent’anni i bilanciamenti sono stati infatti violati in favore della Corte suprema. Sussiste però una tesi contraria, per cui quella promossa dal primo ministro Binyamin Netanyahu non sarebbe una riforma o un’operazione di riequilibrio tra le autorità, ma il tentativo di garantire al governo il controllo del sistema giudiziario per acquisire un potere illimitato. Evidentemente la coalizione non aveva previsto la forte opposizione che da diverse settimane agita il paese da nord a sud con dimostrazioni di massa. Ciò ha sviluppato forme di resistenza civile che lacerano la società israeliana e indeboliscono la solidarietà al suo interno. Israele eccelle nell’affrontare sfide complesse, ma potrebbe riscontrare difficoltà nel confrontarsi con questa situazione eccezionale, in cui si intrecciano minacce esterne e domestiche. Il paese vive oggi uno dei suoi momenti più difficili. Alla classe dirigente sarà imposto di prendere decisioni fuori dal comune, favorendo la stipulazione di accordi interni per affrontare con efficacia le diverse sfide. La società israeliana si trova infatti di fronte a una delle prove più significative dai tempi della creazione dello Stato. Allo stesso tempo, le dichiarazioni sulla fine della democrazia sono esagerate. Incoerenti con la realtà. Le proteste e le dimostrazioni evidenziano anzi quanto il sistema israeliano sia vitale e funzionante. È plausibile che sulle spalle del governo ricadrà una responsabilità tale da portarlo a ricercare strategie di dialogo per la realizzazione delle riforme, senza che si inneschi una rivoluzione politica. 2. La fondazione di Israele ha tratto linfa dalla forza carismatica del suo padre fondatore David Ben-Gurion. Le premesse erano quasi impossibili. In pochi credevano che quel piccolo Stato – un lembo di terra abitato da circa 600 mila ebrei e povero di risorse – potesse riuscire a contrastare l’aggressività dei paesi arabi in una regione ostile e senza poter contare sull’effettivo appoggio di altre potenze. Fin dalla sua nascita Israele è sempre stato soggetto a gravi minacce per la sua esistenza. Nonostante gli impressionanti successi militari, lo sviluppo economico e tecnologico e i rapporti speciali con la prima potenza del mondo – gli Stati Uniti – il paese si è costantemente visto costretto ad affrontare minacce belliche, terrorismo, delegittimazione a livello internazionale. In un contesto di persecuzione che, a partire dagli anni Novanta, è stato aggravato dalla crescente minaccia nucleare costituita dall’Iran. Israele ha registrato ragguardevoli conquiste anche in campo politico, siglando patti di pace con importanti paesi arabi come Egitto (1979) e Giordania (1994). Nel Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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2020 ha firmato gli accordi di Abramo con Emirati Arabi Uniti e Bahrein e stabilito rapporti diplomatici con alcuni paesi musulmani quali Azerbaigian, Kosovo e Ciad. Negli ultimi quindici anni, inoltre, è riuscito a rinnovare le proprie relazioni con diversi attori africani e a normalizzare i rapporti con la Turchia dopo l’incidente della Mavi Marmara nel 2010. Nonostante gli straordinari successi elencati, Israele si è trovato coinvolto in conflitti violenti di diverse intensità su molteplici fronti e ha dovuto fronteggiare costanti attacchi terroristici, che in alcuni casi sono evoluti in conflitti a tutto tondo. È il caso delle due guerre del Libano (1982 e 2006) e delle due Intifade (1987 e 2000). Il terrorismo è divenuto una realtà opprimente e fastidiosa, ha causato morti e feriti, ma non è mai stato percepito come una minaccia esistenziale, a differenza della corsa al nucleare iraniana che i funzionari israeliani considerano il vero incubo. L’Iran è una potenza regionale con una tradizione radicata in un passato imperiale. È un paese vasto con una popolazione dieci volte superiore a quella israeliana. Fin dai tempi della rivoluzione islamica (1979), ha cercato di affermarsi come leader del mondo sciita e come attore egemonico della regione, tentando di esportare il proprio modello per presentare una sfida ai sunniti, in particolare all’Arabia Saudita. Dalla prospettiva di Teheran, la più significativa delle minacce all’islam e alle proprie ambizioni di egemonia è costituita dagli Stati Uniti, definiti «Grande Satana» e considerati la guida del mondo occidentale. Per otto anni Washington ha infatti sostenuto l’Iraq nella guerra contro l’Iran, costringendo quest’ultimo ad accettare il cessate-il-fuoco. Israele, stretto alleato dell’America considerato un anomalo innesto occidentale nel cuore del Medio Oriente, è dunque percepito come «piccolo Satana». Ovvero un ostacolo da eliminare. L’Iran mira quindi a distruggere il progetto sionista e lo Stato di Israele quale entità politica autonoma nella regione. La sua non è una minaccia celata né espressa tra le righe, bensì chiara e non limitata alle parole, come dimostra la formazione di Õizbullåh nel Sud del Libano. Ci sono poi gli sforzi di creare una forza nucleare volta a costituire un ombrello di protezione per rafforzare la solidità del regime e la sua capacità di azione regionale. Israele ritiene questi sforzi una minaccia alla propria esistenza. Non teme tanto l’impiego di armi nucleari, ma l’assottigliamento del proprio margine di reazione. Una delle conseguenze probabili sarebbe una corsa agli armamenti che avvierebbe un periodo di instabilità nello spazio mediorientale. Il piano dell’Iran sembra essere quello di ampliare la propria presenza regionale creando cinque fronti attivi, che potrebbero essere azionati simultaneamente al momento della resa dei conti con Israele. Teheran ha in mente una guerra di logoramento condotta con missili terra-aria e droni con l’obiettivo di infliggere un colpo mortale alla popolazione e alle infrastrutture israeliane. In questo quadro, l’ombrello nucleare servirebbe a prevenire interventi aggressivi contro il proprio territorio. Con l’ausilio delle milizie e degli esperti dei Guardiani della rivoluzione, Teheran punta a promuovere la formazione di basi militari nel quadrante mediorientale. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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Il modello più esemplare è quello di Õizbullåh in Libano, un’organizzazione che si è trasformata in una forza terroristica dotata di armi superiori a quelle degli eserciti di alcuni paesi vicini. Il sostegno e l’addestramento da parte dell’Iran hanno permesso a Õizbullåh di creare una minaccia tangibile a Israele. Ne è conseguita una sorta di deterrenza reciproca, che frena la capacità di reazione israeliana in Libano. Teheran vorrebbe riprodurre il modello libanese anche in Siria, attraverso l’impiego di milizie e processi di indottrinamento. In Yemen agisce invece per mezzo degli õûñø. In Iraq influenza le milizie sciite. Nel territorio dell’Anp supporta la Jihåd islamica e Õamås, la cui azione è finalizzata a promuovere gli interessi iraniani nell’area. Da un decennio Israele agisce per ostacolare l’espansione militare iraniana in Siria e nell’Ovest dell’Iraq. Un altro obiettivo è impedire che dal Libano vengano trasportate clandestinamente armi di precisione o tecnologia militare avanzata. Gerusalemme opera anche all’interno dello stesso Iran allo scopo di bloccare l’avanzamento della sua produzione nucleare. Impiega inoltre molte energie sul piano diplomatico per attrarre consensi verso i propri interessi. Un’azione che coinvolge soprattutto gli Stati Uniti e gli attori arabi della regione, in particolare l’Arabia Saudita e i paesi del Golfo. Il tentativo di conquistare il consenso dell’opinione pubblica americana ha raggiunto il suo apice nel 2015 con il discorso tenuto da Netanyahu di fronte al Congresso degli Stati Uniti. Le parole del primo ministro hanno generato una crisi con l’amministrazione Obama, ma non hanno impedito a Washington di firmare l’accordo sul nucleare con l’Iran. Qualche anno più tardi, Netanyahu è riuscito tuttavia a convincere Donald Trump a ritirarsi dal patto. C’è però chi sostiene che la decisione dell’ex presidente americano abbia contribuito soltanto ad accelerare i progressi di Teheran. In effetti, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) ha di recente redatto uno studio in cui si segnala il ritrovamento di tracce di uranio arricchito all’84%. Una distanza minima rispetto al 90% richiesto per la creazione della Bomba. L’Iran è considerato una minaccia anche da Arabia Saudita, Stati del Golfo e da tutti i soggetti che sono rimasti delusi dalle prese di posizione statunitensi sulla questione del nucleare. Questi paesi condividono la consapevolezza che l’unico attore capace di aiutarli a risolvere il problema sia Israele. Per questo Riyad ha sostenuto gli accordi di Abramo nel 2020 e promosso l’ampliamento delle collaborazioni strategiche, seppure non nell’ottica di una normalizzazione completa e ufficiale. Dal punto di vista di Netanyahu, Israele deve rafforzare le proprie capacità militari, ottenere l’appoggio degli Stati Uniti e approfondire i rapporti con l’Arabia Saudita. La minaccia del nucleare iraniano può essere contrastata soltanto con una forza di deterrenza credibile corroborata da pesanti sanzioni internazionali. Qualora ciò non risultasse sufficiente, a Israele resterebbe un’unica e ultima risposta: l’attacco militare. Sembra che la distanza con gli Stati Uniti sulla questione si stia riducendo, ma Washington esige qualcosa in cambio, con un occhio alla questione palestinese. A Israele è richiesto di mantenere lo status quo sul Monte del Tempio (al-Õaram alCopia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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Šarøf), di abbassare il livello della violenza, di adottare una politica inclusiva nei confronti dell’area palestinese e di rafforzare il ruolo dell’Anp. A quanto pare Netanyahu è pronto a pagare questo prezzo. 3. Õizbullåh costituisce una minaccia convenzionale notevole e immediata. A partire dalla seconda guerra del Libano, su spinta iraniana, l’organizzazione è riuscita a consolidare una sorta di equilibrio della deterrenza con Israele, servendosi di un arsenale di missili aria-terra e di un’importante presenza di unità d’élite. Dodici anni di combattimenti in Siria a sostegno del regime di Baššår al-Asad hanno rafforzato il suo status politico e militare in territorio libanese. Õasan Naârallåh, capo indiscusso di Õizbullåh, possiede una singolare capacità di captare l’attenzione del pubblico israeliano. È in grado di individuare i punti deboli della società e di sfruttarli per amplificare la percezione di minaccia dei suoi cittadini. In risposta, Israele si sta preparando a combattere. È ormai opinione condivisa che un conflitto sia destinato a scoppiare, malgrado non si sappia ancora quando e in quali circostanze. Assumerà probabilmente la forma di una «guerra del Nord» e si allargherà all’area siriana, forse persino all’Iraq occidentale. I decisori israeliani sono consapevoli degli ingenti danni che potrebbero derivare da tale scontro e faranno quindi di tutto per evitarlo. Non si può dire lo stesso di Õizbullåh, che con il sostegno dell’Iran dedica ogni sforzo per accrescere il proprio arsenale di armi di precisione e per addestrare unità scelte in grado di invadere i confini settentrionali di Israele, occupandone i territori e gli insediamenti. La combinazione di fanatismo religioso, organizzazione militare progredita ed esperienza sul campo lo rendono una grave minaccia, oltre che un importante strumento nelle mani dell’Iran. Õizbullåh sovvenziona anche le cellule terroristiche palestinesi, specialmente la Jihåd Islamica e Õamås. Garantisce aiuti economici, finanzia infrastrutture, fornisce supporto di intelligence e addestramenti militari. Tutti questi attori hanno infatti una finalità strategica comune: allargare il fronte di opposizione lungo i confini israeliani. È questo il motivo che spinge Israele a valutare la possibilità di uno scontro su più dimensioni. Una sfida militare e strategica estremamente complessa. Gerusalemme sembrerebbe quindi favorire la tattica dell’inclusione riguardo alla questione palestinese, in particolare nella Striscia di Gaza, allo scopo di dedicare le proprie capacità militari al confronto con l’Iran e al fronte settentrionale. La recente escalation e il progressivo aggravarsi della situazione potrebbero però portare Israele a uno scontro di vasta portata nei Territori. Gaza potrebbe finire completamente nelle mani di Õamås. E lo scoppio di una guerra su più fronti potrebbe non essere così distante. Ogni azione militare contro l’Iran porterà infatti a un’aspra collisione con Õizbullåh. Perciò è probabile che un attacco alle strutture nucleari iraniane potrebbe impegnare Israele anche in uno scontro ai suoi confini settentrionali. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
4. La minaccia posta dai Territori palestinesi ha assunto un ruolo secondario negli ultimi anni. Il congelamento del processo politico, la debolezza dell’Anp e la forte divisione tra le diverse fazioni hanno dato vita a due identità autonome e in
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competizione. Le possibilità di riconciliazione sono ritenute scarse poiché la scissione in atto riflette un gioco a somma zero tra le parti per esercitare influenza nell’area. Tale rivalità rispecchia l’attuale ordinamento geostrategico del Medio Oriente, formatosi in conseguenza del crollo del precedente sistema basato sugli Stati nazionali. La nuova logica si basa sulla sfida tra le correnti sciita, jihadista-salafita e islamico-politica. C’è poi quella sunnita guidata da soggetti pragmatici come Arabia Saudita ed Egitto. È una lotta feroce che coinvolge ogni quadrante della regione e quindi pure i territori palestinesi. Õamås, in qualità di rappresentante dei Fratelli musulmani, appartiene alla corrente islamico-politica, mentre l’Anp e l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) fanno riferimento ai paesi sunniti pragmatici. Dal 2009 in avanti, con l’avvio del secondo mandato di Netanyahu, la strategia israeliana verso la Palestina è stata improntata a fissare le due identità separate e in competizione. Tale approccio è stato guidato dalle necessità di mantenere la calma nella Striscia di Gaza e di gestire la situazione politica stagnante in Cisgiordania. Si tratta di un processo senza vie d’uscita, segnato dai ripetuti fallimenti verificatisi a seguito del vertice di Camp David (2000), della conferenza di Annapolis (2008) e delle iniziative dell’allora segretario di Stato americano John Kerry (2014) e dell’amministrazione Trump (2020). Netanyahu non ha mai ritenuto probabile il raggiungimento di un accordo politico con i palestinesi. È sempre stato convinto che gli sforzi internazionali per riaprire i negoziati non facessero altro che incoraggiare la controparte a restare inamovibile sulle proprie posizioni. Ha inoltre una visione molto chiara di quali siano i limiti di un eventuale compromesso, una posizione molto vicina a quella presentata alla Knesset nel 1995 dall’allora primo ministro Yitzhak Rabin: finché Israele sarà in grado di garantire le proprie esigenze di sicurezza, l’Anp potrà definirsi e agire come meglio crede. Rabin pensava che la questione palestinese rappresentasse un ostacolo per la normalizzazione dei rapporti tra Israele e gli attori arabi della regione, fattore indispensabile per il rafforzamento dello status politico e strategico del paese. I palestinesi detenevano infatti una sorta di diritto di veto e chiedevano il soddisfacimento delle loro richieste. Per molti anni sono riusciti a farsi valere con i leader mediorientali, la comunità internazionale e anche molti cittadini israeliani. Netanyahu ha invece sperato in un capovolgimento del paradigma e spinto affinché ciò potesse realizzarsi. Dal suo punto di vista, la normalizzazione con i paesi arabi è possibile a prescindere dai palestinesi, ai quali occorre imporre un procedimento di ridefinizione dell’architettura mediorientale, come avvenuto con la ratifica degli accordi di Abramo. Non a caso, questi ultimi hanno segnato il culmine della crisi tra l’amministrazione Trump e l’Anp, iniziata con la decisione americana di trasferire la propria ambasciata a Gerusalemme e proseguita con la riduzione dei sostegni economici all’Autorità e all’Amministrazione dell’Onu per il soccorso e la riabilitazione (Unrra), ma pure con la chiusura degli uffici dell’Olp negli Stati Uniti. La presentazione dell’«accordo del secolo» nel 2020 è infatti stato respinto immediatamente dai palestinesi. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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La gestione politica dell’Anp, infetta da nepotismo e corruzione, è stata fallimentare sin dal primo giorno. L’autorità ha perciò perso l’appoggio dell’opinione pubblica palestinese, in un processo iniziato nel giugno 2007 con la presa di potere di Õamås nella Striscia di Gaza. Questo fallimento – unito al colpo subito con l’elezione di Trump e alla continua delegittimazione da parte dell’elettorato – ha provocato un’effettiva perdita di controllo sui territori formalmente sotto la responsabilità di Abu Mazen. Una contrazione originatasi nella zona di Ãanøn, a nord della Samaria, che ha posto le fondamenta per l’espansione della Jihåd islamica fino alle città di Nåblus e Hebron e ai villaggi intorno a Råmallåh, capoluogo dell’Anp. Ãanøn si è trasformata in una roccaforte terroristica ed è divenuta una base di lancio per gli attacchi in Israele e in Cisgiordania. Il governo israeliano ha scelto di agire in modo mirato, basandosi su precise informazioni d’intelligence per impedire ulteriori aggressioni e giungere allo smantellamento delle strutture terroristiche nella città. Questa scelta è sorta dalla volontà di evitare un’escalation che potrebbe avere ripercussioni violente e su larga scala. Le operazioni richieste alle Forze di difesa (Idf) sono comunque andate aumentando e hanno causato un ingente numero di arresti, feriti e morti tra i palestinesi, perlopiù terroristi. Si è così installato nelle nuove generazioni – che non avevano conosciuto la seconda Intifada – un senso di frustrazione e di insofferenza per il caos esistente, che le ha spesso portate ad aggregarsi alle cerchie oltranziste. I giovani palestinesi spesso non appartengono alla Jihåd islamica, a Õamås e neppure alle Brigate al-Aqâå dell’Olp, ma sono proprio tali organizzazioni a fornire loro denaro, armi e incoraggiamento. Alla base di tutto c’è la perdita assoluta di fiducia nell’Anp, vista come collaboratrice dell’occupazione israeliana. La loro non è dunque una lotta solamente contro Israele, ma anche contro l’Autorità. Le cellule terroristiche si sono espanse al punto che l’Operazione Frangiflutti, iniziata il 31 marzo 2022, continua tuttora. Nonostante i notevoli successi a livello tattico e operativo, l’eliminazione o l’arresto di centinaia di terroristi e la distruzione di strutture pericolose, i funzionari israeliani non sono riusciti a ottenere il risultato desiderato. I giovani palestinesi che collaborano attivamente con i terroristi continuano ad aumentare. Israele si trova di fronte a un passaggio critico, che potrebbe sfociare in un violento e vasto scontro armato nei Territori palestinesi. L’unico attore in grado di fermare questa spirale negativa è Õamås, che a partire dal 2021 ha perfezionato e sviluppato il suo raggio di azione. Attualmente preferisce mantenere la calma nella Striscia di Gaza e agire con prudenza, vista anche la delicata situazione in Cisgiordania. Se decidesse di aggregarsi al cerchio del terrorismo, Israele si troverebbe costretto a condurre un’ampia battaglia su due fronti. Õamås è oggi la forza più importante e influente nel mondo palestinese. Si percepisce come alternativa al governo dell’Olp e agisce per destabilizzare l’Anp, presentandola come incapace di tutelare gli interessi nazionali e di difendere il popolo dalle aggressioni israeliane. Vuole ergersi a protettore dell’opposizione armata, dei palestinesi e di Gerusalemme. Le sue direttrici d’influenza sono dunque cinque: Striscia di Gaza, Gerusalemme Est, Cisgiordania, arabi d’Israele e Libano Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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meridionale. L’obiettivo è conseguire una posizione tale da poter aprire questi fronti simultaneamente, fino al giorno che segnerà il crollo definitivo di Israele attraverso una guerra di logoramento che la sua società – considerata occidentale, divisa e dedita al benessere – sarà incapace di affrontare. Ma gli sforzi di Õamås per consolidare il proprio status hanno portato a scarsi risultati. Il merito è soprattutto delle azioni preventive delle forze israeliane. Malgrado ciò, l’organizzazione continua a perseverare in questa direzione, soprattutto fomentando i suoi adepti a Gerusalemme Est. Nella Striscia di Gaza, Õamås ha invece puntato a favorire la stabilità con l’obiettivo di ricostruire le infrastrutture e ristabilire le postazioni colpite durante le operazioni Guardiano delle Mura (maggio 2021) e Sorgere dell’Alba (agosto 2022). Allo stesso tempo, permette di tanto in tanto alla Jihåd islamica di lanciare missili in risposta agli interventi militari israeliani in Cisgiordania, dove si è registrato un alto numero di vittime. Sorveglia però le reazioni affinché siano misurate. Non intende trascinare Gaza in un conflitto militare. Ma il vortice di azioni e reazioni mette in discussione la sua capacità di contenimento. La debolezza dell’Anp, la fine dell’èra Abu Mazen e la mancanza di un accordo sul successore riducono lo spazio di manovra di Israele, che era disposto a limitare la propria attività nei campi profughi a condizione che l’autorità fosse riuscita a smantellare le strutture terroristiche diffuse nei Territori. La leadership palestinese manca della volontà politica di agire. E i fautori degli attacchi godono di un vasto sostegno pubblico – oltre l’80% stando a un’indagine condotta nel dicembre 2022 da Œaløl Šiqaqø. Israele si vede allora costretto a intervenire. L’Anp fomenta il popolo, propone costantemente contenuti di odio nei programmi educativi, santifica i terroristi rimasti uccisi e persevera nel sostenere economicamente i prigionieri accusati di terrorismo. A fine febbraio 2023, grazie all’iniziativa congiunta di Stati Uniti, Egitto e Giordania, si è tenuto il vertice di ‘Aqaba. L’insistenza ossessiva per la continuità della collaborazione nell’ambito della sicurezza – peraltro mai interrotta nonostante le dichiarazioni dell’Anp – e la volontà di permettere all’autorità di costruire capacità militari per governare effettivamente i territori hanno condotto ad alcune risoluzioni che non corrispondono alla realtà della situazione. Sono senz’altro importanti l’incontro e il dialogo tra le parti, così come il coinvolgimento di Egitto, Giordania e Stati Uniti, paesi capaci di influenzare l’Anp. L’Autorità assomiglia però a un malato geriatrico affetto da diverse patologie e colpito da un grave disturbo cardiaco, che si ritrova a essere visitato soltanto da cardiologi, incapaci quindi di elaborare una cura adeguata alla complessità del quadro clinico. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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5. Le istituzioni internazionali, in particolare le Nazioni Unite, costituiscono una sfida. Israele si trova spesso ad affrontare critiche sbilanciate, che in molti casi scivolano nella delegittimazione della sua stessa esistenza come Stato nazionale del popolo ebraico. Il principio della maggioranza permette a palestinesi, iraniani, siriani e altri di votare all’Onu e nei tribunali internazionali senza ostacoli. Non vi è
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poi una reale opposizione alle denunce – spesso intrise di ipocrisia – portate avanti con il solo scopo di espellere il paese dai consessi multilaterali. Da due decenni esiste la campagna per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (Bds) contro Israele. Il movimento, nato a Råmallåh con il sostegno dell’Anp, opera in tutto il mondo occidentale ed è riuscito a coinvolgere numerosi intellettuali e accademici. I suoi portavoce non si limitano a contestare la politica israeliana, né invocano la sola costituzione di due Stati per due popoli. Il loro scopo principale è quello di distruggere Israele. A seguito della seconda elezione a primo ministro di Netanyahu, l’Anp ha adottato una strategia per indurre il resto del mondo a favorire la costituzione di uno Stato palestinese. Ha così ottenuto due successi. Il primo, nel 2012, quando l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ne ha riconosciuto lo status di «osservatore non membro permanente». Il secondo, nel 2016, quando il Consiglio di Sicurezza dell’Onu si è espresso sull’illegalità degli insediamenti a Gerusalemme Est, in Giudea e in Samaria. È stata peraltro la prima volta in cui gli Stati Uniti hanno deciso di non porre il veto su una risoluzione anti-israeliana. Il fine dell’Anp e del Bds è arrivare alla creazione di un’entità statuale palestinese partendo da condizioni favorevoli, senza che ciò comporti l’impegno a mettere fine al conflitto o il riconoscimento del diritto di esistenza di Israele come Stato nazionale del popolo ebraico. Nonostante l’ampia portata della sua attività nel mondo occidentale, il Bds non è riuscito a provocare danni tangibili. Il tentativo di promuovere i boicottaggi economici è fallito in modo clamoroso, come pure gli sforzi per intaccare lo status internazionale di Israele. È riuscito a influenzare diversi campus universitari in Occidente, in particolare negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Ma dal 2010 organizzazioni ebraiche e internazionali si sono iniziate a muovere per contrastare le sue attività. Un numero sempre maggiore di Stati, infatti, non approva le decisioni anti-israeliane dell’Onu e di altre istituzioni. Tuttavia, i palestinesi godono ancora di un vantaggio notevole nei consessi internazionali. Israele deve perciò perseverare sul piano politico, economico e comunicativo allo scopo di ridurre la loro influenza. 6. Un altro fronte è quello interno. A partire dal 2019, Israele ha vissuto una fase di instabilità politica a causa dello stallo tra i due schieramenti principali. Le elezioni del 1° novembre 2022 hanno portato alla creazione di una coalizione stabile di destra e alla formazione di un governo guidato da Binyamin Netanyahu, al suo sesto mandato. Obiettivo della nuova amministrazione è l’attuazione di una riforma significativa del sistema giudiziario, il cui scopo è restituire l’equilibrio tra le istituzioni statali infranto dalla Corte suprema a sfavore dei poteri esecutivo e legislativo. Nonostante l’ampio consenso del pubblico israeliano in merito alla necessità di attuare delle riforme, in molti si sono opposti alle modalità proposte dal nuovo esecutivo, sospettando un’ulteriore finalità. Gli oppositori criticano infatti l’imposizione aggressiva di un progetto che ritengono un autentico cambio di regime, capace di garantire margine d’azione illimitato al governo. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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I NEMICI ALLA FINESTRA: SU ISRAELE ALEGGIA L’OMBRA DELLA GUERRA
La protesta ha preso piede e si è espansa in modo esponenziale, assumendo una forza che obbligherà a rintracciare meccanismi di compromesso tra i due schieramenti. L’intensità e il numero delle dimostrazioni riflettono la vitalità della democrazia israeliana ed esprimono un dibattito significativo sul carattere dello Stato e del suo sistema politico. Non si contesta soltanto la rivoluzione del sistema governativo, ma anche altre tematiche importanti, rispecchiando le diversità sociali, economiche e politiche esistenti. Il confronto crea tuttavia la sensazione di una disgregazione della solidarietà interna. L’ansia di entrambi gli schieramenti per il futuro dello Stato è reale e, soprattutto, è ancorata negli strappi profondi, storici, che accompagnano Israele fin dalla sua nascita. Iran, Õizbullåh e Õamås interpretano tale subbuglio interno come la prova definitiva della «teoria della ragnatela» di Õasan Naârallåh, che afferma la debolezza della società israeliana e la sua probabile frammentazione. Si tratta di un’interpretazione errata, ma potrebbe accelerare le tempistiche di un attacco a Israele. I nemici potrebbero supporre che sia il momento giusto per trascinare il paese – già impegnato a gestire la conflittualità domestica – in una dolorosa guerra di logoramento per sancire la sua rovina. Occorre quindi evitare di sottovalutare l’intensità dell’attuale crisi sociale, legislativa e politica interna. Crisi che è penetrata persino nelle fila dell’esercito, delle organizzazioni d’intelligence e di sicurezza. Crisi che minaccia la prosperità economica dello Stato, arrecando un danno alle basi della solidarietà nazionale. La valutazione dei nemici di Israele è tuttavia assolutamente errata. La società civile e la classe dirigente troveranno il modo di riequilibrare il sistema. Ne usciranno provate, ma sapranno ricostruire gli equilibri, con la consapevolezza che sia vitale tenersi pronte ad affrontare le gravi minacce che provengono dall’esterno. 7. La nascita di Israele e il suo impressionante sviluppo sono stati dei veri e propri miracoli storici. Oggi i fronti esterni che minacciano tale eredità sono tre. Il primo e più pericoloso è quello nucleare costituito dall’Iran. Il secondo è Õizbullåh lungo i confini settentrionali. Il terzo riguarda i territori palestinesi. Israele è sempre riuscito a raccogliere le forze militari e politiche per affrontare le minacce provenienti da nord e dalla Palestina, impedendo nel frattempo l’espansione iraniana nella regione. Ora la priorità è precludere a Teheran di appropriarsi della capacità nucleare. La missione richiede acutezza e determinazione, caratteristiche che hanno contraddistinto i primi ministri israeliani negli ultimi due decenni, Netanyahu su tutti. Per contrastare la minaccia iraniana bisogna rafforzare la deterrenza e costruire una forza militare in grado di agire qualora gli sforzi diplomatici e la politica delle sanzioni dovessero fallire. Israele necessita perciò dell’appoggio americano, sia nella fornitura di armi ad alta tecnologia sia nel sostegno politico e militare per affrontare un eventuale conflitto. Il sostegno di Washington serve anche per la normalizzazione dei rapporti con l’Arabia Saudita, il paese arabo più importante per la creazione di un fronte comune anti-iraniano. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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Occorrerà inoltre mantenere uno stato di calma nell’area palestinese e nel fronte settentrionale presidiato da Õizbullåh. Ciò impone di conseguire una preparazione elevata per affrontare un eventuale attacco dell’Iran, che sicuramente accenderebbe anche gli altri due fronti. In risposta a tale scenario il governo israeliano sceglie la strategia del contenimento. L’inasprimento delle condizioni nei territori palestinesi, gli sforzi costanti di Teheran di ampliare la propria presenza militare nella zona, il grado di instabilità di Gerusalemme Est e le percezioni errate delle effettive capacità di resistenza di Israele producono un sistema di sfide strategiche particolarmente complesse. Al quale si deve sommare la crisi politica e sociale delle ultime settimane. Il paese si trova dunque ad affrontare numerosi pericoli. La classe dirigente e l’opinione pubblica saranno costrette a riprendersi rapidamente dai recenti trambusti, individuando compromessi per le riforme del sistema giudiziario. È infatti obbligatorio rafforzare le basi della solidarietà israeliana, giacché rappresentano le fondamenta della resistenza e della sicurezza nazionale. Infine, il governo israeliano dovrà ritrovare la determinazione strategica utile a rispondere in modo adeguato alle suddette minacce, rafforzando la dottrina del Muro di ferro. Quest’ultima – elaborata dal padre del revisionismo sionista Zeev Jabotinsky – fa affidamento sulla forza militare, economica, tecnologica e politica. Tali aspetti devono essere sempre accompagnati da stretti rapporti con gli Stati Uniti, dall’appartenenza ideologica e morale al mondo occidentale e dall’inclusione del paese in una nuova architettura mediorientale. (traduzione di Sarah Kaminski e Maria Teresa Milano)
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di
Nicola PEDDE
Pechino propizia l’accordo con i sauditi, che alla Repubblica Islamica serve per rompere il fronte nemico guidato da Gerusalemme. Contropartita: basta sostegno agli õûñø in Yemen. Le incognite della transizione iraniana. Quando Stato ebraico e Iran erano (quasi) amici.
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1. AL 1979 LE RELAZIONI TRA LA REPUBBLICA Islamica dell’Iran e Israele hanno subìto un progressivo deterioramento, mutando nel tempo in profonda ostilità. Sebbene complesso sin dalla formazione dello Stato ebraico, tra il 1953 e il 1979 il rapporto bilaterale è stato intenso sul piano politico, economico e militare. Nel 1947, durante il governo del primo ministro Ahmad Qavam, l’Iran fu tra gli undici membri del Comitato speciale delle Nazioni Unite per la Palestina (Unscop), costituito il 15 maggio dello stesso anno per indagare le cause del conflitto e proporre soluzioni. Il 3 settembre il Comitato presentò il suo rapporto e approvò a maggioranza un «piano di partizione» che fu votato da Australia, Canada, Cecoslovacchia, Guatemala, Olanda, Perú, Svezia e Uruguay e respinto da Iran, India e Jugoslavia. Il piano venne recepito dall’Assemblea Generale con la risoluzione 181 del 29 novembre 1947. Intenso fu il dibattito politico che ne scaturì in Iran: il governo di Qavam, leader del Partito democratico iraniano, vi si opponeva ritenendo che avrebbe provocato un crescendo di violenze nell’intera Palestina. Dello stesso avviso era il giovane sovrano Mohammad Reza Pahlavi, che all’epoca sedeva ancora sul trono di una monarchia costituzionale guidata dal parlamento. Due fattori, in particolare, alimentavano i timori dell’Iran. Il primo, esterno, derivava dall’esigenza d’intessere relazioni pacifiche e cordiali con la maggioranza degli Stati arabi. Il secondo, interno, era conseguenza del difficile rapporto con l’Unione Sovietica e del tentativo russo di sobillare il separatismo nell’Azerbaigian iraniano. Teheran temeva che il piano di partizione costituisse un rischioso precedente per alcune province a maggioranza curda. Ciononostante, il 14 marzo 1950 – negli ultimi giorni del governo di Mohammad Saed – l’Iran riconobbe di fatto lo Stato d’Israele. Rappresentanze vennero aperte nei due paesi a livello di incaricati d’affari. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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Il clima mutò bruscamente il 28 aprile 1951, quando il leader del Fronte nazionale Mohammad Mossadeq venne nominato primo ministro. La politica nazionalista promossa da Mossadeq, fortemente ostile al ruolo del Regno Unito e determinato a nazionalizzare l’industria petrolifera iraniana (in cui erano forti gli interessi britannici), comportò una crisi nelle relazioni con Israele. Considerato alleato di Londra e strumento dell’ingerenza inglese in Persia, Israele assunse presto nella retorica di Mossadeq il ruolo di nemico, da cui la rottura delle relazioni il 7 luglio 1951. L’esperienza politica di Mossadeq terminò il 19 agosto 1953 in seguito al colpo di Stato che lo spodestò, riportando in patria il sovrano dopo il breve esilio (una settimana) in Italia. Il ritorno dello scià Reza Pahlavi, tuttavia, determinò una profonda trasformazione istituzionale della monarchia iraniana, con la graduale deriva autoritaria e la subordinazione del parlamento al sovrano. Le relazioni con Israele furono ristabilite, ma mantenute volutamente in una dimensione di basso profilo senza mai formalizzare il riconoscimento dello Stato ebraico. Solo nel 1974 a Israele fu concesso di nominare un proprio ambasciatore, Uri Lubrani, che restò a Teheran fino al 1978 quando fu sostituito da Yosef Harmelin, esfiltrato da un aereo militare statunitense nel 1979 sul finire della rivoluzione. Lo scià non volle mai aprire un’ambasciata iraniana a Tel Aviv, limitandosi a una rappresentanza inaugurata nel 1961 sulla quale mantenne sempre il massimo riserbo. Ciononostante, le relazioni tra Iran e Israele crebbero ampiamente dai primi anni Sessanta, soprattutto sul piano economico e militare. L’Iran rappresentava uno dei principali elementi dell’alleanza della periferia elaborata dal premier israeliano David Ben-Gurion nella seconda metà degli anni Cinquanta per contenere la minaccia araba attraverso lo sviluppo di solidi legami con governi non arabi, in particolare Iran e Turchia. Per Teheran, invece, un tacito e discreto rapporto con lo Stato ebraico era una garanzia rispetto alla minaccia dell’Iraq baathista, nonché un modo per rinsaldare il legame con gli Stati Uniti. Nel 1958 Israele, Turchia e Iran istituirono con l’accordo segreto Trident un’alleanza d’intelligence, intensificando lo scambio di informazioni e avviando operazioni congiunte volte a sostenere l’opposizione dei curdi iracheni al governo di Baghdad. Ne scaturì un crescente legame tra i servizi di sicurezza iraniani (Savak) e il Mossad israeliano, che determinò un rafforzamento delle capacità investigative e repressive iraniane. Queste permisero allo scià di reprimere le proteste a sfondo religioso che investirono il paese nel 1963 e che portarono all’esilio in Iraq dell’ayatollah Khomeini. Sebbene Israele non avesse svolto alcun ruolo diretto nell’organizzazione della repressione, il noto legame tra Savak e Mossad determinò negli ambienti antimonarchici, sia religiosi sia nazionalisti, una percezione sempre più negativa di Israele. La cooperazione sul piano militare e dell’industria bellica crebbe significativamente a partire dagli anni Sessanta, in virtù anche della presenza a Teheran di un addetto militare israeliano ufficialmente riconosciuto dallo Stato maggiore iraniano. Progetti rilevanti furono avviati soprattutto nel settore aeronautico. Nell’aprile 1977 vennero firmati sei accordi di cooperazione, tra i quali il Project Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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Flower destinato allo sviluppo di un sistema missilistico avanzato potenzialmente idoneo a trasportare testate nucleari. Il progetto fu poi abbandonato per via della rivoluzione. 2. Il pragmatismo iraniano nella gestione delle relazioni con Israele non mutò nel corso degli anni Sessanta e Settanta, manifestandosi soprattutto durante i conflitti arabo-israeliani. Lo scià non intendeva esibire un’alleanza ufficiale con lo Stato ebraico per non esacerbare i rapporti con i paesi arabi, che tuttavia reputava mediamente ostili all’Iran, con la conseguenza di volerne contenere il ruolo. Nel 1967 ad esempio, mentre Reza Pahlavi criticava apertamente Israele per la guerra dei Sei giorni, Teheran assicurava allo Stato ebraico volumi addizionali di petrolio attraverso l’oleodotto Eilat-Ashkelon sviluppato congiuntamente. Dalla seconda metà degli anni Settanta, tuttavia, la monarchia iraniana entrò in una profonda crisi. L’incapacità dello scià di formare un’adeguata classe dirigente e di promuovere le necessarie riforme politiche alimentò l’opposizione al monarca, alimentata anche dal rinnovato attivismo delle opposizioni di area comunista, nazionalista e religiosa. Tale crisi fu accompagnata dal risentimento popolare verso i principali alleati dello scià, in particolare Stati Uniti e Israele considerati nella retorica rivoluzionaria i garanti del sistema monarchico. L’ambasciatore israeliano a Teheran mostrò di saper leggere con lucidità il momento, ma i suoi timori non parvero sortire effetti sul ministero degli Esteri guidato all’epoca da Moshe Dayan. Era palese, nelle valutazioni espresse dall’ambasciata israeliana, che l’opzione di un governo militare risultasse preferibile nell’eventualità di una crisi della monarchia, ma la complessità della situazione e la rapidità degli sviluppi impedirono di articolare una strategia. La caduta dello scià e l’affermazione di Khomeini al vertice del processo rivoluzionario (sebbene con presupposti ideologici inizialmente diversi da quelli successivi) travolsero le capacità statunitense e israeliana di gestione della crisi. L’America optò per mantenere aperta la propria ambasciata a Teheran sino alla nota crisi degli ostaggi del novembre 1979, che determinò la rottura delle relazioni diplomatiche. Lo Stato ebraico chiuse invece tutti i suoi uffici diplomatici e rimpatriò i propri cittadini, temendo (correttamente) per la loro incolumità. Ben presto, le relazioni tra Israele e la neonata Repubblica Islamica assunsero risvolti paradossali: mentre la retorica rivoluzionaria insisteva sulla necessità di esportare il modello iraniano nella regione per contrastare gli Stati Uniti e i loro alleati, la comune percezione del rischio posto dai regimi arabi continuò a improntare le politiche regionali di iraniani e israeliani. In Iran questa percezione uscì ampiamente rafforzata dallo scoppio del conflitto con l’Iraq nel 1980, che impose a Teheran di gestire i sofisticati armamenti ereditati dallo scià e di assicurarsi le forniture necessarie a sostenere lo sforzo bellico. Per Stati Uniti e Israele le minacce poste dall’Iraq di Saddam Hussein e dall’Iran di Khomeini si equivalevano; da qui la strategia del dual containment orientata ad alimentare il conflitto tra i due paesi affinché si indebolissero reciprocamente. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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Israele avviò pertanto la fornitura segreta all’Iran di armi e ricambi. Seguiva pochi mesi dopo un’iniziativa simile concepita dagli Stati Uniti (con la partecipazione di Israele), poi assurta agli onori delle cronache come «affare Iran-Contra». I dettagli di tali schemi restano oscuri, però sappiamo che dal 1980 il governo israeliano presieduto da Menachem Begin autorizzò forniture soprattutto all’Aeronautica iraniana, in aperta violazione dell’embargo all’Iran e mentre i funzionari dell’ambasciata americana erano ancora ostaggi a Teheran. Secondo alcuni storici, in cambio l’Iran autorizzò l’espatrio di numerosi ebrei iraniani negli Stati Uniti, il che alimentò però la retorica anti-israeliana interna e la collaborazione con lo sciita Õizbullåh nel Libano meridionale. Il brutale pragmatismo che informava la cooperazione indiretta tra Israele e Iran si protrasse per tutti gli anni Ottanta. Per Teheran era vitale assicurarsi i rifornimenti militari nella guerra contro l’Iraq, terminata nel 1988; per Tel Aviv era parimenti importante indebolire i due contendenti e alimentare la crisi politico-economica dell’Iraq, all’epoca minaccia ben maggiore di quella iraniana per lo Stato ebraico. Con la fine della guerra e la successiva morte di Khomeini, il quadro delle relazioni Israele-Iran prese a mutare rapidamente. Il trauma del conflitto impose all’Iran, dai primi anni Novanta, di ridefinire la propria strategia con lo sviluppo di un’autonoma capacità industriale in campo civile e (soprattutto) militare, per non ritrovarsi nelle condizioni di fragilità e dipendenza sperimentate nel dopo-rivoluzione. Per iniziativa soprattutto del presidente Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, fu dato impulso alla creazione di un’industria della difesa sotto il controllo della Sepah-e pasdaran, costituita dopo la rivoluzione e legittimatasi come guardia pretoriana della Repubblica Islamica negli otto anni di guerra all’Iraq. Lo sviluppo dell’industria militare iraniana e il contestuale avvio di programmi orientati a sostenere futuri conflitti asimmetrici portarono in breve tempo l’Iran ad acquisire capacità significative nella produzione di sistemi missilistici ad ampio raggio e a crescente capacità di carico. Tali sviluppi destarono allarme in Israele, progressivamente incluso nella gittata dei missili iraniani. Ad accelerare la crisi dei rapporti bilaterali intervenne poi la ripresa del programma nucleare iraniano, ufficialmente a scopi civili ma ritenuto da Israele segretamente orientato allo sviluppo di ordigni atomici. Eppure, a fine anni Novanta la percezione della Repubblica Islamica come minaccia esistenziale era marginale in Israele, complice le aperture del presidente iraniano Mohammad Khatami. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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3. La svolta radicale nel rapporto Israele-Iran va ricondotta al mutamento degli equilibri che seguì gli attentati terroristici dell’11 settembre 2001. La rimozione per via militare dei taliban in Afghanistan e di Saddam Hussein in Iraq determinò un nuovo contesto strategico per l’Iran, con la sensibile riduzione della minaccia posta da due attori regionali ostili alla Repubblica Islamica. L’improvvido inserimento dell’Iran nell’«asse del Male» da parte statunitense nel 2002 determinò l’arresto della politica conciliatoria di Teheran e la crisi del governo progressista di Khatami. La rinnovata ostilità americana e la crescente presenza militare degli Stati Uniti nella
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regione incrementarono la percezione iraniana di isolamento e accerchiamento, favorendo l’avvio di una nuova strategia orientata allo sviluppo di «difese avanzate» mediante alleati regionali in Libano, Siria e Iraq. Al governo Khatami seguì nel 2005 quello ultraconservatore e populista guidato da Mahmud Ahmadi-Nejad, che cercò di affermarsi nella seconda generazione del potere iraniano con il costante e crescente ricorso a una virulenta retorica anti-americana e anti-israeliana. La presidenza Ahmadi-Nejad fu inoltre caratterizzata da un’esasperata retorica antisionista ai limiti dell’antisemitismo, che giunse a contestare l’esistenza di Israele. Il populismo del presidente iraniano, unitamente al maggior ruolo regionale dell’Iran e all’accresciuta minaccia posta dalla sua rete di alleanze, incrementò fortemente la percezione di una rinnovata minaccia iraniana. Non solo in Israele ma anche e forse soprattutto nelle monarchie del Golfo, che giudicarono la strategia regionale iraniana egemonica, espansiva e fortemente aggressiva. Frattanto, da Washington giungevano segnali preoccupanti: la mutata postura americana tra il secondo mandato di Barack Obama e la presidenza di Donald Trump spinse i paesi della regione a dare per scontata una volontà statunitense di «uscire» dal Medio Oriente, da cui la necessità di ridisegnare l’equilibrio di sicurezza regionale. Ne ha beneficiato almeno in parte Israele, riuscito a imporsi come partner regionale. La firma degli accordi di Abramo ha prodotto il formale riconoscimento dello Stato ebraico da parte di importanti attori del Maghreb, del Golfo e dell’Africa orientale, strutturando altresì un’alleanza informale in chiara funzione anti-iraniana. Il doppio mandato dell’ultraconservatore Ahmadi-Nejad ha invece determinato conseguenze lette spesso in modo stereotipato. L’avvio di una difficoltosa transizione tra la prima, pragmatica generazione del potere politico (quella del clero rivoluzionario e del suo apparato istituzionale) e la seconda (espressa dai sempre più pervasivi pasdaran), più radicale, ha determinato una frattura politico-sociale. La seconda generazione, che sta gradualmente assumendo il controllo del paese, è caratterizzata da una visione della sicurezza e dell’interesse nazionale alquanto diversa rispetto alla prima. Non considera più Stati Uniti e Israele minacce esistenziali per l’Iran, bensì tradizionali minacce strategiche e dunque ritiene indispensabile dotarsi di un efficace deterrente nucleare, stante l’arretratezza dell’arsenale convenzionale. Questo ha enormi implicazioni pratiche. Viene meno la tradizionale cautela della prima generazione a non oltrepassare le «linee rosse» nel rapporto con Stati Uniti e Israele; la postura politico-militare diviene molto più decisa. Mentre la prima generazione è stata attenta a non creare attriti o, peggio, conflitti militari con i due paesi, la seconda non teme di sfidarli apertamente. Lo si vede in particolare con il programma atomico. La prima generazione ha sempre ritenuto lo sviluppo di armi nucleari un rischio insostenibile per l’Iran, dato che avrebbe trasformato il paese in obiettivo legittimo di possibili ritorsioni. È dunque intervenuta a più riprese sul profilo politico e religioso per ribadire la ferma contrarietà allo sviluppo Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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dell’atomica, puntando invece su missili il cui raggio (2 mila chilometri) esplicitasse le ambizioni puramente regionali della difesa iraniana. Alcune componenti della seconda generazione, pur nel rispetto dei princìpi espressi dalla prima, considerano invece lo sviluppo di un know-how nucleare (insieme al programma missilistico) priorità ineludibile nel nuovo modello di difesa basato sulla deterrenza. A ciò si somma il crescente dibattito sul ruolo dei clientes regionali, sempre più indipendenti e dunque difficilmente controllabili. Sebbene i vincoli del sodalizio – definito dall’Iran «asse della resistenza» – siano apparentemente solidi, l’evoluzione delle dinamiche politiche e di sicurezza regionali hanno reso Õizbullåh, Siria e Iraq molto più autonomi. Questa divergenza di posizioni, esasperata dalla transizione generazionale in atto da tempo, determina un contesto politico altamente polarizzato, sovente contraddittorio nelle sue manifestazioni strategiche e permeato dalla competizione per definire i futuri assetti del potere interno. Al contrario, la percezione esterna dell’Iran resta improntata allo stereotipo di un sistema coeso, monolitico e verticistico, dominato dalla Guida suprema e caratterizzato da una comunanza di visioni e d’indirizzo in ogni ambito della politica interna ed estera. Tale visione non coglie affatto la complessità della transizione politica in corso. 4. Per quasi vent’anni la prima generazione del potere iraniano ha fatto correre la relazione con Israele su un doppio binario: retorica ostile da un lato, politica atta a limitare i reali contrasti dall’altro. Pur se caratterizzato da toni forti, come la definizione khomeinista di Israele quale «piccolo Satana» (in contrapposizione al «grande Satana» statunitense) e il sostegno quasi messianico alla causa palestinese, fino ai primi anni Novanta il rapporto è rimasto nell’alveo di un pragmatismo che ha permesso all’Iran di ricevere da Israele supporto militare occulto e di contenere i principali attori arabi. Al mutamento di tale concezione tra fine anni Novanta e primi Duemila hanno concorso anche le dinamiche della politica israeliana, in particolare l’affermazione del Likud. La visione di sicurezza regionale del premier Binyamin Netanyahu fu influenzata dall’annuncio (1995) che l’Iran volesse affidare alla Russia il completamento della centrale nucleare di Bushehr, poi dalla rivelazione dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) dell’esistenza in Iran di impianti non dichiarati per l’arricchimento dell’uranio. Ne seguirono ispezioni, sanzioni e il tentativo di inscrivere il programma nucleare iraniano in un accordo internazionale – Joint Comprehensive Plan of Action (Jcpoa), 2015 – malgrado i crescenti timori e l’intransigenza di Israele. L’ambiguità dell’Iran in alcune fasi del negoziato ha concorso a trasformarlo nello spauracchio di Israele e in special modo della destra israeliana, che oltre a temere concretamente capacità e intenzioni di Teheran ne ha strumentalizzato la minaccia a fini elettorali. Israele ha quindi condotto numerose operazioni – mai ufficialmente dichiarate – volte a colpire le figure chiave del programma nucleare iraniano, assassinando scienziati e militari in un crescendo che ha allarCopia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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mato gli ayatollah. Al contempo, il venir meno di importanti minacce (Saddam Hussein, taliban afghani) consentiva all’Iran di ridefinire le proprie ambizioni regionali con una postura molto più assertiva nel Golfo, nella Penisola Arabica e nel Levante. La guerra civile siriana e l’emergere dello Stato Islamico hanno poi imposto a Teheran la proiezione avanzata delle proprie capacità belliche, contribuendo a ripristinare la stabilità della Siria e dell’Iraq al prezzo, però, di una frizione diretta con Israele. Per puntellare il regime di Baššår al-Asad l’Iran ha investito enormi risorse, creando una propria milizia locale (Fatamiyun) costituita soprattutto da afghani di etnia hazara coadiuvati dai Guardiani della rivoluzione. Questa presenza ha tuttavia determinato l’incremento delle operazioni militari israeliane in territorio siriano, con costanti azioni volte a colpire soprattutto la logistica dell’approvvigionamento e i canali di comunicazione con il libanese Õizbullåh. La sensibile riduzione dell’interesse statunitense verso il Medio Oriente ha alimentato le paure delle monarchie del Golfo, che temono ambizioni e capacità militari iraniane. A beneficiarne è stato Israele, che mediante gli accordi di Abramo ha fatto fronte comune con Emirati Arabi Uniti, Bahrein e (ancorché ufficiosamente) Arabia Saudita. Parimenti allarmanti per l’Iran sono stati l’incremento della presenza israeliana in Azerbaigian e il rafforzamento della cooperazione militare tra Baku e lo Stato ebraico, considerati da Teheran parte di una strategia volta a sobillare le minoranze etniche ai suoi confini occidentali. La risposta iraniana si è tradotta nel sostegno diretto alle milizie yemenite ribelli (õûñø), reputate erroneamente alla stregua di un proxy tradizionale, e nella conduzione di attacchi diretti (quasi mai dichiarati) a obiettivi petroliferi di Arabia Saudita ed Emirati nel Golfo e nel Mar Arabico. L’incremento dell’ostilità araba ha rappresentato, per l’Iran, il prodotto dell’accresciuta influenza israeliana nella regione, determinando l’esigenza di rivedere le relazioni con i paesi rivieraschi. Nel 2016 Riyad e Teheran interruppero le relazioni diplomatiche dopo che l’esecuzione in Arabia Saudita di un religioso sciita, Nimr al-Nimr, era stata strumentalizzata dall’Iran con manifestazioni di piazza culminate nell’occupazione dell’ambasciata saudita. I gravi episodi di violenza determinarono anche il raffreddamento delle relazioni con gli Emirati e con il Kuwait, accentuando l’isolamento regionale della Repubblica Islamica. L’ondata di proteste che ha interessato l’Iran dal settembre al dicembre 2022, in seguito all’uccisione di una giovane da parte della polizia religiosa, ha avuto larga eco internazionale ed è stata vista dagli apparati iraniani come parte di una strategia israeliano-saudita per alimentare disordini e frammentare le instabili province occidentali del paese. Il ruolo svolto da media riconducibili a finanziatori sauditi è stato più volte denunciato da Teheran. Nel 2021, grazie alla mediazione dell’Oman e dell’Iraq, sono iniziati a Baghdad colloqui diretti tra iraniani e sauditi, mentre gli emiratini gestivano parallelamente una loro mediazione volta a rafforzare le relazioni con la Repubblica Islamica. Dopo una lunga e complessa fase di negoziati, con molte battute d’arresto, nel Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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marzo 2023 la Cina è riuscita a mediare un accordo tra Riyad e Teheran, con il ristabilimento delle relazioni diplomatiche e l’impegno a una maggiore cooperazione regionale. L’accordo, lungi dal configurare una piena ripresa del rapporto bilaterale, offre però significativi ritorni sul piano della sicurezza. L’Arabia Saudita spera infatti che l’Iran smetta di sostenere gli õûñø, consentendole così di porre fine alla fallimentare guerra condotta in Yemen dal 2015. Per l’Iran, invece, la ripresa delle relazioni con i sauditi riduce sensibilmente la possibilità di un’azione militare di Israele e prelude alla richiesta di cessare l’ingente sostegno economico accordato dal regno ai media che appoggiano le proteste e l’opposizione in esilio, riducendo così l’attenzione e il biasimo internazionali. Nell’immediato, il principale obiettivo dell’Iran è manifestare ai paesi arabi la disponibilità a risolvere l’antagonismo degli ultimi vent’anni, anche e soprattutto per contrastare il ruolo di Israele e la sua capacità di coagulare un fronte regionale ostile alla Repubblica Islamica.
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L’INDIA PUNTA AL MEDITERRANEO ATTRAVERSO ISRAELE
di
Lorenzo DI MURO
Delhi e Gerusalemme s’intendono per pure ragioni strategiche. Disimpegno americano e slancio cinese forniscono la colla. Dalle armi all’acqua, un rapporto a tutto tondo. L’asse con le petromonarchie arabe per un corridoio verso il Medioceano.
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1. RAPPORTI TRA INDIA E ISRAELE SONO al loro massimo storico. Tenuta scientemente lontana dai riflettori da Delhi per decenni, la relazione con Gerusalemme è ormai direttrice della proiezione indiana verso Medio Oriente e Medioceano occidentale. E in quanto tale viene magnificata dai vertici indiani e israeliani. Come riassunto da Binyamin Netanyahu dopo l’incontro con Narendra Modi del 2014, «il limite [ai rapporti India-Israele] è il cielo». Dichiarazioni cui hanno fatto eco quelle del ministro degli Esteri indiano Subrahmanyan Jaishankar, che definisce lo Stato ebraico «forse il nostro partner più fidato». Dalla prospettiva di Delhi, Israele serve per radicarsi in «Asia occidentale», a salvaguardia dei suoi interessi e delle sue ambizioni. Per evitare che il nemico cinese abbia la strada spianata e per assicurarsi investimenti e tecnologia a uso duale, spendibili tanto per l’industria militare quanto per quella civile. Insomma, a elevare sia lo status geopolitico sia le condizioni socioeconomiche interne di uno Stato mosaico che si vuole «guru mondiale». La sinergia israelo-indiana, che la vulgata descrive come prodotto della vicinanza tra sionismo radicale e nazionalismo indù (hindutva), è alimentata anzitutto da dinamiche strutturali. Il disimpegno dal Medio Oriente della superpotenza americana, concentrata sulla partita con la Cina nell’Indo-Pacifico e sulla guerra per procura contro la Russia in Europa orientale. La frammentazione e la fluidità del cosiddetto mondo islamico, con la Turchia impegnata a ergersi a guida della umma e le petromonarchie arabe a ricucire con Israele. L’estroflessione della Repubblica Popolare Cinese, ormai con le mani in pasta tanto in Persia quanto tra Golfo e Levante, fino al Mediterraneo. A segnare la sinergia non sono più soltanto i tradizionali diamanti e cannoni. Indiani e israeliani collaborano a tutto tondo: difesa, intelligence, cibersicurezza, alta tecnologia, infrastrutture, gestione delle risorse idriche e alimentari. L’ascesa Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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di Modi e del suo Partito del popolo indiano, storicamente sionista, è coincisa con mutamenti nel panorama strategico che hanno approfondito tale liaison. Ma la piena apertura delle relazioni diplomatiche (1992) con Israele e il loro sviluppo sostanziale tra 2004 e 2014, parallelo a quello con gli Stati Uniti, è avvenuta sotto governi guidati dal Partito del Congresso, che pure non li sbandierava. Altrettanto decisivo per l’India e per l’asse medioceanico in fieri è il rapporto tra Delhi e le petromonarchie, Emirati Arabi Uniti in testa, protagonisti di un rafforzamento dei legami con lo Stato ebraico suggellato dagli accordi di Abramo. Il Golfo è cruciale per l’India in termini di commerci, energia, rimesse e negli ultimi anni investimenti. Quasi 9 milioni di indiani risiedono nella regione, di cui 3,4 milioni negli Emirati, dove rappresentano il 30% della popolazione. Il 50% degli 80 miliardi di dollari annuali di rimesse dell’India proviene dalle petromonarchie, come pure il 60% dei suoi approvvigionamenti energetici. Perciò oltre a «guardare» e «agire a est», in Asia sud-orientale, l’India si attrezza per replicare a ovest. Da qui il partenariato con lo Stato ebraico sul piano bilaterale e tramite formati come l’I2U2, creato nel 2021 da India, Israele, Emirati e Stati Uniti, che nell’estate 2022 hanno tenuto il primo vertice (telematico) a livello di leader. Analisti come Mohammed Soliman del washingtoniano Middle East Institute lo dipingono come «alleanza indo-abramitica»: insieme di paesi economicamente in crescita e legati con sfumature diverse all’Occidente, che hanno nel sunnismo radicale un avversario e fronteggiano al contempo disimpegno americano e penetrazione cinese. Sgombriamo il campo dagli equivoci: l’I2U2 non è un «Quad mediorientale». A differenza del Quad asiatico, che raggruppa Stati Uniti, Giappone, India e Australia, l’America non è il motore dell’I2U2. Concede placet e cappello, ma è concentrata sull’Indo-Pacifico, dove si consuma la partita con la Cina e dove – guerra d’Ucraina permettendo – deve puntellare lo status quo. Senza contare che, a differenza del Quad dall’evidente afflato anticinese, l’I2U2 manca di un nemico comune. Basti pensare ai diversi rapporti che legano i suoi componenti all’Iran, alla Turchia, al Pakistan, alla Cina stessa. La Repubblica Islamica, che tramite mediazione cinese ha appena riallacciato i rapporti diplomatici con i rivali sauditi – vedremo in quali termini – è nemico esistenziale per Israele ma avamposto marittimo e porta d’accesso ad Afghanistan e Asia centrale per l’India. La quale vede nella Repubblica Popolare la sua principale minaccia strategica, al contrario dei paesi del Golfo e in certa misura di Israele. Né è un caso che Delhi abbia irrobustito la collaborazione con Abu Dhabi mentre il nemico pakistano entra sempre più nell’orbita di Ankara, vero alfiere delle rivendicazioni del Pakistan sul Kashmir. Anzi, alla luce del loro peso sulle finanze pakistane, le petromonarchie fungono da leva con Islamabad – l’accordo indo-pakistano di inizio 2021, che ristabilisce il cessate-il-fuoco negoziato nel 2003, è stato mediato dagli Emirati. La nebulosità dell’I2U2 fa gioco agli Stati membri. A partire dall’India, interessata ai suoi dividendi economici e geopolitici all’insegna dello stesso pragmatismo mostrato dopo il 24 febbraio 2022. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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2. Dopo aver riconosciuto Israele de iure nel 1950, l’India ha atteso il 1992 per instaurare piene relazioni diplomatiche, sulla scia del dialogo tra Stato ebraico e paesi arabi apertosi a Madrid l’anno precedente e soprattutto della dissoluzione dell’Urss, che ha modificato drasticamente l’equilibrio strategico globale a favore degli Stati Uniti. Nel contesto del processo di decolonizzazione e del confronto bipolare, gli indiani percepivano il rapporto con Israele come questione da trattare con le pinze. Per Delhi il movimento sionista era l’altra faccia dell’imperialismo britannico (e occidentale), basato sul divide et impera tanto in Medio Oriente quanto nel subcontinente indiano. Soprattutto, viste la straordinaria eterogeneità interna e la copiosissima presenza musulmana, leader come Gandhi e Nehru temevano i rischi dello state building su base religiosa. Di qui l’opposizione al piano per la partizione della Palestina votato dall’Assemblea Generale dell’Onu nel 1947. A maggior ragione dopo l’indipendenza del Pakistan, Delhi temeva le ricadute del possibile avvicinamento a Israele in chiave elettorale e securitaria e non intendeva alienarsi le petromonarchie del Golfo, fonte crescente di petrolio e rimesse. Senza considerare che India e Stato ebraico si trovavano sui lati opposti delle barricate americana e sovietica. Per decenni Israele ha pazientato, sostenendo Delhi «nei momenti del bisogno», come ha ammesso l’allora presidente dell’India Pranab Mukherjee durante la sua visita in loco del 2015, la prima di un capo di Stato indiano. Lo Stato ebraico ha fornito mezzi militari, intelligence e addestramento lontano dalla ribalta, ad esempio durante la guerra con la Cina del 1962 e quelle con il Pakistan del 1965 e del 1971. L’intelligence indiana ha intessuto legami col Mossad già alla fine degli anni Sessanta, nel momento dell’istituzione della Research and Analysis Wing, il servizio estero della Repubblica di India. Negli anni Ottanta, dopo l’uccisione di Indira Gandhi (1984), Israele ha iniziato a addestrare i corpi speciali indiani. A metà del decennio seguente Delhi ha acquistato i primi droni e pattugliatori (Super Dvora) di fabbricazione israeliana. La collaborazione e le forniture militari non si sono interrotte neanche con le sanzioni degli Stati Uniti in seguito ai test nucleari di Pokhran nel 1998. Analogamente, nel contesto della guerra di Kargil, l’anno successivo gli israeliani hanno inviato missili a guida laser, oltre a munizionamento, senza i quali gli indiani non sarebbero probabilmente stati in grado di condurre a buon fine l’Operazione Vijay. Da quel momento, nonostante la successione nel 2004 di Manmohan Singh (Partito del Congresso) ad Atal Bihari Vajpayee (Partito del popolo indiano), sono stati importati fucili d’assalto (Tavor), sistemi Phalcon (negati alla Cina dietro pressione americana), radar, nuovi missili terra-aria. Come pure i sistemi di guida missilistica Spice-2000, utilizzati nel 2019 per il raid aereo a Balakot, oltre la frontiera pakistana. Dal 1992 Israele ha fornito armamenti per circa 40 miliardi, oltre ad aver condiviso tecnologia di punta in ambito di sistemi radar, di puntamento e navigazione, di guerra elettronica. Una fiorente collaborazione che si è riverberata sul piano diplomatico e retorico in concomitanza con l’elezione di Modi. Così tra 2015 e 2016 il ministero degli Esteri indiano ha iniziato a fare riferimento a Israele, in analogia con Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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l’India, come democrazia post-coloniale assediata dal terrorismo. E negli stessi anni si sono verificate le prime visite ufficiali dei rispettivi ministri della Difesa. È cambiato anche il tono riservato dagli indiani al trattamento dei palestinesi da parte israeliana. Pur continuando a sostenere e riconoscere lo Stato di Palestina, Delhi non caldeggia più Gerusalemme Est quale sua capitale e decide caso per caso come schierarsi in sede, per esempio, di Nazioni Unite. Da ultimo, nel dicembre 2022 si è astenuta dalla risoluzione dell’Assemblea Generale che chiedeva alla Corte internazionale di giustizia di esprimersi sulla «occupazione prolungata» dei Territori palestinesi. Quanto ai rapporti col mondo arabo, nel corso della guerra fredda Delhi prima ha prediletto i legami con i regimi secolari e socialisti e poi, a fronte del loro collasso e del crescente peso energetico e finanziario delle petromonarchie, non è riuscita a sviluppare un approccio sistemico. Oggi cerca di correggere la rotta: gli Stati del Golfo sono diventati cruciali anche in termini di investimenti e di sicurezza. Tanto che la Marina indiana ormai è presente stabilmente nelle acque del Mar Arabico e nel 2018 si è assicurata l’accesso al porto di al-Duqm (Oman), sullo strategico Stretto di Hormuz. La sfida sino-americana spinge gli attori mediorientali a diversificare le proprie relazioni. Delhi non intende farsi trovare impreparata e lasciare che Pechino si installi indisturbata alle frontiere occidentali del proprio intorno strategico. Insomma, l’India pare essersi dotata della visione strategica del Medio Oriente che le difettava alla fine dell’èra bipolare. 3. La svolta nelle relazioni indo-israeliane, piano simbolico compreso, avviene nel 2017, con la storica visita di Modi – inedita per un leader indiano – e l’annesso annuncio del partenariato strategico bilaterale. Il premier indiano non si reca nei Territori e rende omaggio alla tomba di Herzl, scenografico riconoscimento del sionismo e conferma dell’espunzione della questione palestinese dall’approccio allo Stato ebraico. I legami tra Modi e Israele risalgono al decennio precedente, quando l’attuale leader indiano è ministro capo del Gujarat. Nel 2006 si dichiara ammirato per come gli israeliani hanno fatto «fiorire il deserto», visita lo Stato ebraico e ne promuove gli investimenti nei settori agricolo e idrico in patria. Non è un caso che nel 2014, dopo il suo insediamento alla guida della Repubblica, il dicastero degli Esteri venga affidato a Sushma Swaraj, già presidente del Gruppo parlamentare per l’amicizia India-Israele. Sul piano militare, sotto Modi i rapporti continuano a irrobustirsi. Tra 2016 e 2020, finisce in India oltre il 40% delle armi esportate da Israele, secondo fornitore assoluto di materiale bellico per Delhi dopo la Federazione Russa. È un aumento delle importazioni sul quinquennio precedente pari al 175%. Prevede cessione e cosviluppo di tecnologie e produzione in India di parte degli armamenti. Ed è parte integrante del piano Make in India, marchio di Modi, teso a rendere il paese una potenza manifatturiera globale anche nel comparto militare. Punta in questa direzione la creazione di joint venture indo-israeliane che sviluppano e producono Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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i missili terra-aria Barak 8, i droni Skystriker e Hermes, i fucili d’assalto Travor eccetera. Gerusalemme si continua a prestare anche di fronte a emergenze come la riaccensione delle ostilità al confine sino-indiano dopo gli scontri nel Ladakh nel 2020, inviando a Delhi droni Heron-Tp per sorvegliare le frontiere. Israele inoltre addestra ed equipaggia forze speciali e di polizia indiane in chiave antiterrorismo, anzitutto quelle di stanza nel Kashmir conteso. Per metterla nei termini di Modi: «India e Israele vivono in geografie complesse. (…) L’India ha sofferto sulla propria pelle la violenza e l’odio diffusi dal terrorismo. Come pure Israele. Il primo ministro Netanyahu e io abbiamo convenuto di fare molto di più insieme per proteggere i nostri interessi strategici e per combattere la crescente radicalizzazione e il terrorismo». Ecco perché, dopo la mossa con cui nel 2019 Delhi priva dell’autonomia lo Stato del Jammu e Kashmir, scindendolo in due Territori dell’Unione, il console indiano a New York esorta ad applicarvi il «modello israeliano» per alterare la composizione demografico-religiosa della regione a maggioranza musulmana. Operazione descritta dal ministro dell’Interno indiano Amit Shah come «annessione» e definita «legittima» dal console israeliano per il Sud dell’India, per lo scorno del Pakistan. Le crescenti relazioni India-Israele non si limitano alla difesa. Escludendo le spese militari, stimate attorno al miliardo annuo, l’interscambio commerciale è passato dai 200 milioni del 1992 ai quasi 8 miliardi del 2022, anno in cui vengono riaperte le trattative sull’accordo di libero scambio bilaterale. Sul fronte agricolo-idrico, tramite l’Agenzia per la cooperazione allo sviluppo internazionale israeliana (Mashav), Gerusalemme ha condiviso tecnologie per la produzione e il processamento dei prodotti. Ha installato trenta centri di eccellenza sul territorio indiano, che hanno addestrato oltre 150 mila agricoltori nel solo 2019. Ha dislocato presso la propria ambasciata a Delhi due addetti all’acqua e all’agricoltura (unicum). Mosse funzionali all’obiettivo dell’India di innalzare il tenore di vita della popolazione ed elevare il proprio peso commerciale. Oggi il gigante asiatico dà origine al 40% delle esportazioni di riso, più dei quattro successivi fornitori combinati. È anche secondo produttore mondiale di cereali e negli ultimi tre anni ha aumentato l’export nonostante debba destinarne buona parte al mercato interno e nonostante un contingentamento dettato dalle tendenze inflattive prodotte dalla guerra d’Ucraina. 4. In questa cornice vanno calati gli accordi di Abramo, i rapporti che legano Delhi alle petromonarchie e l’I2U2, il cui obiettivo è creare un corridoio di commerci e investimenti tra Mediterraneo e India via Golfo e Levante. Il Corridoio indo-arabo-israeliano si aggiungerebbe al Corridoio internazionale Nord-Sud, che punta a connettere all’India Europa, Russia, Asia centrale, Afghanistan e Iran, dove Delhi sta sviluppando il porto di Chabahar. Ennesima dimostrazione dell’approccio multivettoriale dell’India, intenta a cogliere i vantaggi della cooperazione sia con l’Occidente e affiliati sia con il Resto del Mondo. Da Mumbai, passando per Emirati, Arabia Saudita, Giordania e Israele, le merci indiane approderebbero nei porti europei in dieci giorni, con una riduzione delle tempistiche nell’ordine del Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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40% rispetto alla rotta passante per il Canale di Suez. Nonostante il beneplacito americano, tale progetto è portato avanti soprattutto nell’ambito di precedenti intese fra gli altri tre membri dell’I2U2. A cominciare dai 14 accordi indo-emiratini del 2017, con investimenti promessi per 7 miliardi di dollari per l’edificazione di un «corridoio alimentare». Se l’India vuole diventare potenza deve non soltanto mettere in sicurezza, velocizzare e incrementare i suoi flussi commerciali, ma anche creare alternative alle nuove vie della seta cinesi, salvaguardando i suoi interessi all’estremità occidentale dell’Indo-Pacifico. Deve contribuire a plasmare l’architettura merceologica sviluppando catene del valore come quella sottesa al corridoio medioceanico. Facendo perno sui flussi commerciali e finanziari che la vedono protagonista con Emirati e Israele e sulla fluidità del quadro geopolitico. Abu Dhabi, principale referente di Delhi nel Golfo e suo partner strategico dal 2017, è la terza fonte di importazioni energetiche e terzo partner commerciale dell’India, con un interscambio di 73 miliardi che si gioverà dell’accordo di libero scambio in vigore da metà 2022. Sempre nel 2022 anche lo Stato ebraico, primo interlocutore dell’India nel Levante, ha siglato un accordo simile con gli emiratini. Il Covid prima e la guerra d’Ucraina poi hanno confermato quanto l’Asia occidentale e il Nord Africa dipendano da Mosca e Kiev per la sicurezza alimentare. Da qui i progetti indo-arabo-israeliani per creare nuovi corridoi alimentari basati sull’intreccio tra rispettivi commerci, investimenti, mercati, ritrovati tecnologici. Nei piani, tali direttrici potranno essere usate in futuro anche in campo energetico. Si procede anzitutto sul piano bilaterale e infatti, sull’esempio israeliano, anche Abu Dhabi sta giocando un ruolo crescente nel mercato alimentare indiano. Per esempio, contestualmente alla prima riunione tra vertici dei paesi I2U2, gli Emirati hanno stanziato due miliardi dollari per creare parchi agricoli in India. Delhi profitta della collaborazione tra israeliani ed emiratini anche in campo tecnologico. Nel 2021 Abu Dhabi ha annunciato l’istituzione di un fondo di 10 miliardi di dollari per investire nelle compagnie e start-up israeliane attive in campo energetico, idrico, spaziale, sanitario, dell’agritech. Tutti settori al centro della cooperazione tra Delhi e Gerusalemme. Mentre l’International Semiconductor Consortium, joint venture tra l’emiratina Next Orbit Ventures e l’israeliana Tower Semiconductor, investirà tre miliardi di dollari per costruire una fabbrica di microchip nel Karnataka. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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5. Il conglomerato indiano paradigma della convergenza Delhi-Gerusalemme e dell’asse medioceanico in divenire è il Gruppo Adani, punta di lancia dell’India di Modi nell’Indo-Pacifico e in Medio Oriente, in direzione Mediterraneo. L’obiettivo della rete di Adani è accelerare lo sviluppo socioeconomico dell’India e la sua affermazione quale potenza regionale. Anche in reazione alla proiezione infrastrutturale e militare cinese nell’Indo-Pacifico, come si evince dalle località oggetto degli investimenti del colosso indiano. Di proprietà dell’omonima famiglia, originaria del Gujarat come l’attuale pre-
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mier, il Gruppo è cresciuto esponenzialmente durante il doppio mandato di Modi espandendo le attività in settori propriamente strategici, dalla difesa all’energia, dai media alle miniere, dalla logistica alle infrastrutture. Gode del sostegno istituzionale e investe in progetti che servono l’interesse nazionale sia in territorio indiano sia oltreconfine. Sul versante marittimo, gestisce tredici terminali in patria, circa un quarto dell’intero traffico nazionale e sta costruendo il primo scalo indiano per il transhipment a Vizhinjam (Kerala). Nel vicino Sri Lanka sta sviluppando il terminale portuale di Colombo. In Malaysia ha siglato un memorandum per costruire uno scalo sull’isola di Carey. In Australia ha acquisito il porto di Abbot Point e il polo minerario di Carmichael. L’anno scorso ha poi siglato un’intesa con l’emiratina Ad Ports per fare della Tanzania «il perno commerciale dell’Africa orientale». Discorso analogo per l’Egitto, il cui leader al-Søsø ha ricevuto il presidente Gautam Adani esplicitando il suo sostegno ai piani infrastrutturali del Gruppo nel suo paese. Soprattutto, insieme all’israeliana Gadot, che partecipa all’operazione con una quota del 30%, lo scorso anno Adani si è assicurato la concessione fino al 2054 del porto di Haifa, secondo scalo marittimo dello Stato ebraico e dove spesso fa capolino la Sesta Flotta americana. Terminale posto dirimpetto a quello acquisito nel 2015 dalla Cina fino al 2040. Per l’insofferenza di Washington, che ha premuto su Israele affinché impedisse nuove cessioni ai cinesi. A confermare la strategicità dell’investimento non sono soltanto le dichiarazioni dell’amministratore delegato Karan Adani, il quale ha sottolineato che nella visione del Gruppo Israele deve divenire «perno dei crescenti flussi commerciali tra India, Medio Oriente e Europa». Né la tempistica, dato che l’annuncio dell’affare è giunto lo stesso giorno in cui si è tenuto il primo vertice tra leader dei paesi I2U2. Ma anche il tenore dell’offerta (1,2 miliardi di dollari) presentata da Adani, superiore del 55% alla seconda pervenuta alle autorità israeliane. Inoltre, il Gruppo collabora con Israele sul piano tecnologico-militare. Ad esempio, tramite gli accordi con l’israeliana Elbit Systems le aziende controllate da Adani cosviluppano e producono droni Skylark, Thor e Hermes – l’India è il primo paese a costruirne fuori dai confini israeliani. Come pure fucili d’assalto X95, Galil, Negev, Uzi. Il colosso indiano ha perso oltre 130 miliardi di dollari in seguito alla pubblicazione a fine gennaio scorso di un rapporto dell’americana Hindenburg Research che gli imputa «sfacciate manipolazioni azionarie e frodi contabili decennali». Gautam Adani è così scivolato in un mese dalla terza alla trentottesima posizione nella classifica dei super ricchi stilata da Forbes. Data la rilevanza geopolitica delle sue attività, il Gruppo ha comprensibilmente bollato il rapporto «attacco calcolato, all’indipendenza, all’integrità e alla qualità delle istituzioni indiane e alla storia di crescita e all’ambizione dell’India». La controversia ha anche mostrato chi spalleggia Adani, dunque l’estroversione indiana. Fiducia e fondi sono giunti da International Holding Co., vicina alla casa regnante emiratina. Mentre Netanyahu ha assicurato tutti gli onori di casa a patron Gautam in occasione della cerimonia per la concessione trentennale del porto di Haifa. Anche i funzionari dello Sri LanCopia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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ka, isola centrale nella competizione sino-indiana, non si sono detti preoccupati definendo l’intesa relativa a Colombo come «di fatto intergovernativa». Da ultimo, l’americana Gqg ha investito oltre 1,8 miliari di dollari in quattro compagnie del Gruppo. Riprova dell’intendimento India-Stati Uniti, comprovato anche dall’intelligence fornita dal Pentagono in occasione degli scontri con la Cina dello scorso dicembre nell’Arunachal Pradesh, controllato da Delhi ma rivendicato da Pechino come «Tibet meridionale». L’Economist ritiene la minaccia all’impero di Adani «non esistenziale», ma Delhi potrebbe scontare una perdita di fiducia dei mercati internazionali deleteria per i suoi progetti geopolitici. Modi deve proteggere il sistema capitalistico indiano e la sua immagine all’estero. Motivo per cui la Giustizia ha avviato un’indagine sui presunti illeciti denunciati da Hindenburg, mentre il governo oppone silenzio. 6. Geograficamente alle due estremità del «mondo arabo», India e Israele si considerano Stati civiltà. Entrambi figli del declinante impero britannico, dalla loro costituzione sono costretti a fronteggiare le minacce portate dai vicini islamici, terrorismo compreso. E sono stati guidati per decenni da élite secolarizzate e occidentalizzate, che tuttavia negli ultimi vent’anni hanno progressivamente perso la presa sulla popolazione. Nell’ottica di Delhi, lo Stato ebraico è perno levantino funzionale al contenimento della Cina e alla rincorsa allo status di «nazione sviluppata» (leggi: potenza), da completarsi entro il 2047, centenario dell’indipendenza dalla Corona britannica. Nel salutare l’acquisto del porto israeliano, Adani non a caso ha citato la 15ª Brigata della Cavalleria imperiale britannica, composta da contingenti indiani, che nel settembre 1918 si guadagnò gli onori con un contributo decisivo alla liberazione di Haifa. Allora dagli ottomani, oggi dai cinesi. I rapporti con lo Stato ebraico concorrono a soddisfare le esigenze di sviluppo e di sicurezza di un gigante con un’alta idea di sé e grandi ambizioni che però continua a scontare ritardi strutturali, instabilità ai confini, faglie culturali che ne minano la compiutezza geopolitica. Israele è il primo paese al mondo per spesa relativa in ricerca e sviluppo, tradizionale punctum dolens indiano e tra le ragioni che alimentano l’apertura di Delhi agli Occidenti, di cui ha bisogno per il suo progresso tecnologico in chiave socioeconomica e militare. Lo Stato ebraico fornisce soluzioni all’avanguardia in materia di gestione delle risorse idriche e agricole, settori decisamente non trascurabili per il paese più popoloso al mondo, segnato da una povertà che affligge il 25% della popolazione ma intento ad accrescere il suo export (non solo) alimentare. Quanto al comparto militare, il rapporto con Israele è decisivo al pari di quello con Russia, Francia e America. Il mercato della difesa indiano è tra i maggiori al mondo ed è anche tra quelli con il maggiore potenziale di crescita. Delhi punta non solo a modernizzare e indigenizzare il suo arsenale ma anche a divenire esportatrice di armi. Come sta già avvenendo nel Sud-Est asiatico, per esempio nelle Filippine, attore al centro delle affatto amichevoli attenzioni di Pechino. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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La cooperazione con Israele è utile infine per costruire nuove rotte commerciali e catene del valore, sempre più nevralgiche in un sistema globale segnato dalla proliferazione di mini-intese multilaterali. La sfida cinese induce infatti gli americani, in preda a una crisi d’identità e una sovraesposizione imperiale, a concentrarsi sull’Indo-Pacifico e premere sempre più sugli alleati (israeliani inclusi) affinché ridimensionino la presenza della Repubblica Popolare. Mentre incede la sglobalizzazione, diluizione dell’ordine americanocentrico. Tutto questo apre margini per i comprimari e per un rimescolamento degli equilibri anche mediorientali. Offrendo così la possibilità all’India di allargare la sua influenza, di concerto con paesi dalle risorse finanziarie e tecnologiche di Israele ed Emirati, in Medio Oriente, nel Sud-Est asiatico e in Africa settentrionale e orientale. Come ha recentemente chiosato Jaishankar: «Per motivi politici l’India si è impedita di avere relazioni con Israele (…) ma il tempo in cui mettevamo da parte l’interesse nazionale è finito».
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NELLE SCUOLE DEGLI EMIRATI SI INSEGNA LA SHOAH di Massimo GIULIANI Dal 2023 nei curriculum scolastici di Abu Dhabi entra lo studio dell’Olocausto. Insieme alla Casa della famiglia abrahamica, due segni tutti da decifrare: inedita tolleranza, dialogo interreligioso o strategia diplomatica? Il seme di papa Francesco.
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1. A NOTIZIA, RIMBALZATA SULLA STAMPA internazionale alla fine dello scorso gennaio, non è di quelle che fanno rumore e si riassume in poche righe: da Washington D.C., l’ambasciata degli Emirati Arabi Uniti ha annunciato su Twitter che includerà nei curriculum delle proprie scuole primarie e secondarie l’insegnamento della Shoah. L’iniziativa si comprende nel solco dei cosiddetti accordi di Abramo, la dichiarazione congiunta sottoscritta da Usa (amministrazione Trump), Israele ed Emirati Arabi Uniti il 13 agosto 2020 al fine di normalizzare i rapporti tra lo Stato d’Israele e l’intraprendente paese del Golfo Persico. Tali accordi si sono successivamente allargati al Bahrein (nel settembre dello stesso anno), al Marocco (nel dicembre 2020, per le sole relazioni diplomatiche) e al Sudan (gennaio 2021). Il primo riconoscimento arabo di Israele, con i relativi rapporti diplomatici, giunse dall’Egitto nel 1979; la Giordania seguì nel 1994, dopo gli accordi di Oslo con i palestinesi. La quasi totalità dei paesi che aderiscono alla Lega Araba non ha, a oggi, rapporti diplomatici con Israele. In questo quadro globale, cosa denota la «piccola» novità annunciata dagli Emirati Arabi Uniti? Ovviamente non si tratta solo di maquillage interno a un sistema scolastico, ma di un segnale che, mandato dalla capitale degli States sia al mondo ebraico (non solo israeliano) sia al resto del mondo islamico, significa più di un capitolo aggiuntivo nei corsi locali di storia (l’annuncio per ora non è stato dettagliato e ha registrato anche voci critiche, di aperto dissenso). Ma per comprendere di che tipo di segnale si tratti è opportuno ricordare alcuni eventi, religiosi e culturali, dall’indubbia rilevanza geopolitica che si sono registrati prima e dopo gli accordi di Abramo 1. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
1. Cfr. R. YELLINEK, «The Abraham Accords one year on», Middle East Institute, 19/8/2021.
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2. Cominciamo dalla Dichiarazione sulla fratellanza umana per la pace mondiale (Abu Dhabi, 4 febbraio 2019). Sebbene di difficile valutazione politica, la visita di papa Francesco nel febbraio 2019 ad Abu Dhabi, e il documento sulla «fratellanza umana» a sostegno dichiarato della pace mondiale e della convivenza tra membri di fedi e culture diverse sono stati una pietra miliare nell’ambito delle relazioni tra le religioni che si riconoscono nella fede monoteista del patriarca Abramo. Tuttavia, quella dichiarazione fu solennemente firmata dal papa e dal grande imam della moschea-università di al-Azhar (al Cairo, in Egitto) Aõmad al-¡ayyib senza coinvolgimento di alcun leader del mondo ebraico, israeliano o della diaspora. L’abbraccio mondialmente esibito tra l’imam e il capo della cristianità cattolica ma con l’esclusione di rappresentanti dell’ebraismo è apparso subito un vulnus della stessa dichiarazione, che poi così «fraterna» non è se dimentica la discendenza di Yitzhak/Isacco, la famiglia ebraica, sull’albero della quale, secondo il testo biblico, sono gemmate nel corso della storia le fedi cristiana e musulmana. Ma tale assenza non ha sorpreso più di tanto, dal momento che l’imam al-¡ayyib, filosofo formatosi in Francia ed esperto di diritto islamico, non ha mai nascosto le sue critiche a Israele e i suoi sentimenti antisionisti, pur non essendo un fondamentalista. Resta, su cui riflettere, il documento stesso, un unicum nel suo genere; in esso si invitano «tutte le persone che portano nel cuore la fede in Dio e la fede nella fratellanza umana a unirsi e a lavorare insieme, affinché essa (questa dichiarazione congiunta, n.d.r.) diventi una guida per le nuove generazioni verso la cultura del reciproco rispetto, nella comprensione della grande grazia divina che rende tutti gli esseri umani fratelli». Sebbene, e qui l’apporto papale è evidente, «questa fratellanza sia lacerata dalle politiche di integralismo e divisione e dai sistemi di guadagno smodato e da tendenze ideologiche odiose, che manipolano le azioni e i destini degli uomini». Il 3 ottobre 2020 papa Francesco ha pubblicato l’enciclica Fratelli tutti. Sulla fraternità e l’amicizia sociale, dove citava l’imam (al punto 29) e molte volte quella stessa Dichiarazione cristiano-islamica (cfr. le note 27, 112, 189, 281 e 284; alla nota 275 si ricorda anche un discorso papale alla Autorità nazionale palestinese). Nell’enciclica si raccomandava di non dimenticare la Shoah (punto 247), insieme all’altrettanto doverosa memoria dei bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki. Nella medesima sezione si distingue tra «perdono sociale», sempre su base personale, ed esigenze della giustizia, perché le ferite della storia non si rimarginano a colpi di spugna. Un papa argentino lo sa bene, anche se conclude con un moralistico «fa molto bene fare memoria del bene» 2. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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2. Papa Francesco, Fratelli tutti. Sulla fraternità e l’amicizia sociale (3 ottobre 2020), punto 249. Si veda l’edizione Morcelliana (Brescia 2020) commentata, tra gli altri, da me e da Massimo Campanini, islamologo scomparso pochi giorni dopo la pubblicazione di quell’encliclica, che tra l’altro scrive: «Ebrei e cristiani hanno vissuto per molto tempo sotto l’islàm come “minoranze protette” e ciò implicava la loro esclusione dalla direzione politica degli affari pubblici e l’impossibilità di fare proselitismo, ma anche una tolleranza e un accoglimento in seno all’organismo politico islamico molto maggiore di quelli che furono garantiti in Europa ai musulmani e agli stessi ebrei», p. 196.
ISRAELE CONTRO ISRAELE da Coba verso Coba
I VIAGGI DI ABRAMO A CANAAN E IN EGITTO
Damasco
Abramo parte per Canaan Dan
Abramo va in soccorso di Lot, liberandolo infine a Coba. Lot fa ritorno a Sodoma, Abramo a Mamre.
Mare di Galilea Megiddo
M editerran eo
Giordano
Mar
Lago Hula
Cazor
Dio ordina ad Abramo di condurre il figlio sul monte Moria e di sacrificarlo. Constatata la fedeltà di Abramo, Dio risparmia la vita del ragazzo.
Sichem
Abramo attraversa il Negheb, stabilendosi nella regione di Kades e Sur. Sua moglie Sara dà alla luce Isacco.
NA
Il nipote di Abramo, Lot, parte per Sodoma con la famiglia Abramo va nel Negheb. Infuria la carestia e si reca in Egitto, tornando più tardi a Betel.
AN
Asdod
CA
Betel
Abramo si reca a Gerar
Abramo si accampa e innalza un altare a Dio
Ai
Gerico Salem (monte Moria)
Mamre Hebron Gaza Gerar Beer Sheva
Mar Morto
Zoar Tamar
Qui sono situate le città di Adma, Gomorra, Sodoma, e Zeboim (la localizzazione è incerta). Lot è fatto prigioniero da Ghedoraomer, re di Elam.
NEGHEB
dall’Egitto Lacai-Roi
verso l’Egitto
Laghi Amari
SINAI
Kades-Barnea
Viaggio di Abramo da Coba a Mamre e Gerar Viaggi di Lot Viaggio di Abramo dall’Egitto a Coba Viaggio di Abramo da Carran all’Egitto Viaggio di Abramo dal Monte Moria a Beer Sheva Viaggio di Abramo da Gerar al monte Moria
Fonte: Atlante della Bibbia
Ora, a prescindere dal fatto che la dignità e i diritti umani, individuali e di interi gruppi etnici, siano proclamati in un linguaggio religioso preso dalle Scritture, come fanno i rappresentanti delle religioni, oppure in termini laici ispirati a etiche filosofiche che in Occidente hanno, a loro volta, una lunga storia (spesso contrastata proprio da istituzioni religiose), resta vero che un insegnamento onesto della Shoah, che includa la conoscenza delle sue condizioni storiche (economiche, politiche, sociali e soprattutto ideologiche, legate cioè alla Weltanschauung nazifascista), non può non veicolare un messaggio di condanna di ogni tipo di discriminazione sulla base di dottrine razziste o suprematiste, nonché di ogni violenza contro chi è diverso per fede religiosa, scelta politica e orientamento sessuale/identitario. Nel caso specifico, la conoscenza della storia ebraica nell’Europa del XX secolo si intreccia con le storie dei sopravvissuti al progetto nazista di sterminio e dunque non può non suscitare domande, almeno, sulla storia del sionismo. Spiegando, o anche solo illuminando, non essendone il genocidio una causa diretta, la nascita dello Stato di Israele. Se l’annuncio fatCopia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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to a Washington D.C. corrisponda a un cambio di passo in alcuni ambienti arabi circa la conoscenza storica o almeno la vulgata narrativa del sionismo e dello Stato di Israele, oppure sia semplice spia di una strategia diplomatica che accetta (deve accettare) come fatto geopolitico irreversibile l’esistenza e il ruolo di Israele in Medio Oriente, non si può evincere da una breve dichiarazione su Twitter. 3. Un ulteriore segno, o messaggio, che gli Emirati Arabi Uniti hanno dato al mondo cristiano, ma stavolta anche in modo esplicito al mondo ebraico, e che contribuisce a spiegare l’annuncio di nuovi curriculum scolastici, è la recentissima inaugurazione ad Abu Dhabi di un grandioso complesso architettonico chiamato in inglese Abrahamic Family House, traducibile come Casa della famiglia abrahamica (con l’h in mezzo, perché si tratta non dell’Abram giovane e in ricerca ma dell’Abraham maturo, chiamato da Dio a diventare «padre di una moltitudine di popoli», al quale Iddio stesso modifica il nome secondo il racconto di Bereshit/Gn 17,4-5). Situato nel distretto della cultura sull’isola di Sa‘diyyåt, nel febbraio scorso è stato aperto un complesso di tre edifici di eguale grandezza, diversi solo per i dettagli decorativi e gli interni, che serviranno per il culto delle tre fedi monoteiste: una moschea, una chiesa (per tutte le denominazioni cristiane) e una sinagoga; accanto a tali edifici si apre un’area di silenzio e meditazione per chi si professa non credente o non è affiliato a queste religioni. Il progetto è stato elaborato dall’architetto anglo-ghanese di fama mondiale David Adjaye, che ha inteso creare uno spazio dinamico per incoraggiare «il multiculturalismo e la diversità degli Emirati Arabi Uniti, dove comunità di oltre 200 nazionalità (più dei paesi dell’Onu, n.d.r.) convivono pacificamente». L’intero progetto può dirsi frutto della summenzionata Dichiarazione sulla fratellanza del 2019, stavolta senza la grave omissione della «famiglia di fede ebraica», che la memoria stessa di Abramo (e di Isacco e Ismaele, di Sara e Hagar/Keturah 3) ha conservato dai tempi più antichi, condividendola poi con cristiani e musulmani. Ognuno dei tre edifici ha proprie caratteristiche: la moschea è ovviamente orientata nella direzione della Mecca, la città santa verso cui pregano i fedeli dell’islam; la chiesa è invece in direzione dell’Est, da cui sorge il sol invictus che è simbolo di Cristo, ed è dedicata a san Francesco d’Assisi (in memoria dell’incontro, seppur agiografato e sopravvalutato, con il sultano d’Egitto al-Målik al-Kåmil nel 1219; ed è, forse, un indiretto omaggio a papa Francesco); la sinagoga, che ricorda vagamente una sukkah, la capanna rituale che si costruisce per la festa ebraica di Sukkot, è orientata verso Gerusalemme (che rispetto ad Abu Dhabi sta a ovest, in Occidente) ed è stata dedicata al filosofo e halakhista medievale Moshe ben-Maimon, il Maimonide, che fu raìs ossia capo della comunità ebraica del Cairo negli ultimi decenni del XII secolo. La mezuzah che ritualmente si fissa sullo stipite del portale della siCopia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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3. Cfr. J. SACKS, Non nel nome di Dio. Confrontarsi con la violenza religiosa, Firenze 2017, Giuntina, pp. 133 ss.
ISRAELE CONTRO ISRAELE
nagoga è stata apposta dal rabbino capo di Inghilterra e del Commonwealth rav Ephraim Mirvis. Tale progetto architettonico, già in piena funzione (e aperto ai visitatori anche turisti), è davvero un messaggio forte che dichiara, scolpita in pietra, la volontà di riconoscere pari dignità alle tre famiglie di Abramo, più che a un’unica «famiglia abrahamica», e di metterle nelle condizioni di incontrarsi e comunicare tra loro – oggi si dice «dialogare». Curioso vedere come il progetto sia stato incoraggiato e supervisionato da un ministero emiratino chiamato «per la Tolleranza», dato che il concetto di tolleranza suona alle nostre orecchie piuttosto come non intolleranza ed evoca, giuridicamente e sulla base delle fonti islamiche, lo status subalterno di êimmø per ebrei e cristiani, ossia una condizione protetta, invero tollerata, riservata ai «popoli del Libro» secondo l’espressione coranica, ma di fatto uno status di inferiorità sociale e teologica delle loro persone e delle loro fedi. Certo, tali edifici e le autorità religiose coinvolte in queste inaugurazioni sembrano aver fatto compiere un passo in altra direzione, lasciandosi alle spalle le politiche di mera tolleranza e puntando a scambi multiculturali e incontri interreligiosi ben più ambiziosi, di più alto livello, impossibili se permanesse quell’approccio tradizionale intriso di sospetti e pregiudizi, foriero di subalternità o inferiorità della fede altrui. Che gli Emirati vogliano andare oltre, innovare anche su questo delicato terreno per così dire teologico, lo indicherebbe il Forum per la pace ivi creato e presieduto dallo sceicco ‘Abdallåh bin Bayya, che presiede al contempo il Consiglio degli Emirati per la Fatwå, venuto in Vaticano sempre nello scorso febbraio, su invito della Pontificia Accademia per la Vita, per firmare una Call for Artificial Intelligence Ethics. Manifesto a favore di una tecnologia etica sottoscritto anche da autorevoli rabbini, come rav Eliezer Simcha Weisz del Gran Rabbinato di Israele, e influenti teologi cristiani, come monsignor Vincenzo Paglia, punto di riferimento della Comunità di Sant’Egidio e oggi a capo di quella medesima Accademia. Molteplici dunque sono i segnali da parte della confederazione di emiri arabi del Golfo, nella quale esiste attualmente una piccola comunità di circa tremila ebrei che vivono in quel paese per ragioni professionali (sebbene una presenza ebraica sia storicamente attestata da quasi un millennio) e che sono determinati a contribuire al nuovo corso delle relazioni tra ebrei, musulmani e cristiani di ogni nazionalità. Ben consapevoli che fino a poco tempo fa nei paesi islamici era proibito agli ebrei costruire nuove sinagoghe e ai cristiani avere campanili più alti del più basso dei minareti. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
4. Da qualche tempo circola, ed è facile acquistarlo online, una versione in arabo del capolavoro di Primo Levi Se questo è un uomo. Per nulla scontato, anche questo è un piccolo segnale che alcune cose stanno cambiando nelle società arabofone, a lungo ritenute – a torto – impermeabili o addirittura insensibili a certi testi o a certi discorsi. Non che mass media e libri di testi nel mondo arabo non trabocchino di stereotipi anti-occidentali e soprattutto anti-ebraici, dove lo
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Lega Araba Arabia Saudita Algeria Bahrein Comore Emirati Arabi Uniti Gibuti Kuwait Libia Mauritania Marocco Oman
Palestina Qatar Somalia Sudan Tunisia Yemen Egitto Giordania Iraq Libano Siria
E G I T T O
S UDA N
ISRAELE Cisgiordania Gaza
Mar Mediterraneo
CIPRO
Mar Rosso
GIORDANIA
LIBANO
Primi paesi arabi ad aver riconosciuto Israele Egitto (1979) e Giordania (1994)
Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
LIBIA
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STATI UNITI
GRECIA
S I R I A
TURCHIA
S A U D I T A
A R A B I A
I R A Q
KUWAIT
Paesi della Lega Araba (che non hanno rapporti diplomatici con Israele)
YEMEN
QATAR
E.A.U.
Abu Dhabi
BAHREIN
O M A N
Isola di Sa‘diyyāt Complesso della Casa della famiglia abrahamica
Paesi della Lega Araba (che hanno rapporti diplomatici con Israele) Negli Emirati Arabi Uniti c’è una comunità di 3 mila ebrei
Golfo Persico
I R A N
BAHREIN 09/2020 MAROCCO 12/2020 SUDAN 01/2021
USA - ISRAELE - EMIRATI ARABI UNITI
Paesi negli Accordi di Abramo (dal 13/08/2020) Mar Caspio
TURKMENISTAN LA SHOAH NELLE SCUOLE DEGLI EMIRATI
NELLE SCUOLE DEGLI EMIRATI SI INSEGNA LA SHOAH
ISRAELE CONTRO ISRAELE
Stato d’Israele non è mai menzionato e, se davvero occorre farvi cenno, semmai si parla di una «entità sionista» con relative teorie complottiste ovviamente sempre ai danni dei «poveri» paesi arabi. In un simile scenario il negazionismo, ossia la tesi che la Shoah non è mai esistita ma sia invece una menzogna inventata dai sionisti per derubare la terra agli arabi, è purtroppo moneta corrente. Una moneta che si spende bene là dove permangono e sono ripetuti, su ebrei ed ebraismo, stereotipi accusatori e pregiudizi negativi tesi a perpetuare il timore di un perfido avversario, nemico degli arabi e, quel che è peggio, nemico di Dio 4. Proprio considerando questo background tradizionale, la possibilità offerta a nuove generazioni di arabi di conoscere in maniera meno distorta un pezzo di storia moderna e contemporanea che riguarda ebrei ed ebraismo è senz’altro un segno di apertura, una piccola riforma in sintonia con la più generale sensibilità culturale dell’Occidente. Se sul piano degli studi storici c’è dunque volontà di sapere e chiarire, a livello di memoria collettiva restano nelle società di fede musulmana dei nodi problematici irrisolti. Ne ricorderò solo due. Primo nodo. La complessa ricostruzione degli eventi storici che chiamiamo Shoah non assegna a tutto il mondo arabo un mero ruolo di spettatore, silente e marginale. Nei tragici dodici anni durante i quali la Germania fu nelle mani di Hitler e dei sui accoliti, il nazismo strinse alleanza con l’allora gran muftì di Gerusalemme Muõammad Amøn al-Õusaynø (1897-1974), che fu non soltanto una figura di spicco dell’islam religioso sunnita ma anche un politico militante, attivista del movimento nazionalista arabo. Alla ricerca di sostegno nella lotta contro le potenze mandatarie europee (Inghilterra in primis), egli entrò nelle simpatie di Mussolini, che gli regalò le colonne di marmo per il restauro della moschea al-Aqâå nel cuore sacro di Gerusalemme, e – come ha documentato, tra gli altri, lo storico Giovanni Sabbatucci, allievo di Renzo De Felice – fu un convinto alleato di Hitler. Il muftì lo incoraggiò, per quanto fosse in suo potere, a perseguire sino in fondo il programma di sterminio del popolo ebraico. Insegnare in arabo e ad arabi la storia della Shoah, seppure a grandi linee, significa inciampare in questa figura, un eroe agli occhi dei nazionalisti ma un persecutore agli occhi del mondo ebraico che, persino già «in salvo» nella Palestina del mandato britannico, aveva invece buone ragioni di temere per la propria vita. Ma poiché la storia non è mai un racconto in bianco e nero, a bilanciare la memoria negativa del gran muftì c’è la memoria positiva e meritoria di quegli arabi – pochi ma non per questo da dimenticare – che salvarono vite ebraiche in quel frangente storico. Infatti, tra i ventiseimila «giusti delle nazioni» (in ebraico Chasidei Umot haOlam) riconosciuti dall’istituto israeliano Yad Vashem vi sono circa settanta musulmani, per lo più di nazionalità albanese e bosniaca, ma vi compaiono anche un turco, un persiano e un egiziano. Anni fa lo studioso ebreo americano Robert Satloff ne scrisse nel libro Among the Righteous: Lost Stories Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
4. Per approfondimenti sulle relazioni tra ebrei e mondo arabo-musulmano si veda: V. ROBIATI BENDAUD, La stella e la mezzaluna. Breve storia degli ebrei nei domini dell’Islåm, introduzione di A. ARSLAN, Milano 2018, Guerini & Associati.
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from the Holocaust’s Long Reach into Arab Lands, testo che rivelò molte storie obliate e che fanno onore a questi musulmani che sfidarono consolidati pregiudizi per salvare vite ebraiche. Il famoso aforisma del Talmud (Sanhedrin IV,5) secondo cui «chi salva una vita salva un mondo intero», riportato sulla medaglia dei giusti – oggi ancora assegnata ad alcuni loro discendenti, visto che i protagonisti non ci sono ormai più – si trova anche nel Corano (sura 5,27-32) 5. Tra questi giusti dell’islam va ricordato Selâhattin Ülkümen, il console turco a Rodi che salvò una cinquantina di ebrei connazionali, ma anche greci e italiani, dai rastrellamenti nazisti; così come va menzionato il caso di Mohamed Helmy, medico egiziano musulmano residente a Berlino, che salvò la paziente ebrea Anna Boros e la sua famiglia ospitandoli nel suo studio medico dove non poteva esercitare la professione a causa delle leggi razziali e spacciandoli per suoi parenti di Dresda. La storia è piena di sfumature e spesso alcuni angoli restano in ombra. Poco note sono anche le storie degli ebrei non europei che risiedevano nel Maghreb arabo sotto controllo francese. Nel sito ufficiale dell’associazione Gariwo, sigla per Gardens of the Righteous Worldwide, ossia la rete di giardini o foreste per la memoria dei giusti di tutto il mondo di cui è fondatore in Italia Gabriele Nissim, scrive lo studioso Massimo Ronzani: «Nella Tunisia occupata dalle truppe dell’Asse, dal novembre 1942 al maggio 1943 furono deportati nei campi di lavoro cinquemila ebrei; una quarantina di essi vi morì, mentre un centinaio fu internato in Europa. Gli ebrei algerini furono vittime a più riprese dell’antisemitismo proveniente dalla madre patria; molti parteciparono attivamente alla Resistenza e alcuni finirono in campi di prigionia fino alla liberazione del paese. Andò meglio agli ebrei marocchini: essi furono colpiti dalle leggi razziali imposte da Vichy, ma vennero protetti dal re Mohammed V e dalla stessa popolazione. Qualcosa di simile successe in Albania, dove la popolazione musulmana (e cristiana) nascose tutti i connazionali ebrei (200 circa) e accolse duemila ebrei balcanici nel nome dell’antico codice d’onore della Besa». Secondo nodo. Su un punto storia e memoria ma anche fede e politica sembrano confliggere, specie alla luce delle vicende dello Stato d’Israele e della sua non accettazione da parte di molti intellettuali arabi, e cioè il (non) riconoscimento dell’originaria identità ebraica degli stessi siti oggi sacri all’islam, un’identità che le fonti islamiche per secoli hanno riconosciuto ma che oggi, per ragioni politiche, sono rimosse, censurate, cancellate. È il caso soprattutto di quello che dagli ebrei è chiamato l’Har haBayt (Monte del Tempio) e che il mondo islamico chiama al-Õaram al-Šarøf (Spianata delle Moschee) nella Città Vecchia di Gerusalemme. Nel 2016 l’Unesco, ossia l’Organizzazione delle Nazioni Unite per la cultura, la scienza e l’educazione, ha reso pubblica una dichiarazione per la quale questo luogo sarebbe «sacro» soltanto per l’islam. Si sa, è stata una dichiarazione politicamente manipolata dalla maggioranza dei membri di tale organizzazione; nondimeno essa manipola anche la storia dello stesso islam, dato che nelle fonti docuCopia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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5. Cfr. M. GIULIANI (a cura di), Conoscere la Shoah, Brescia 2013, La Scuola, pp. 87-90.
ISRAELE CONTRO ISRAELE
mentali di quella tradizione religiosa si è sempre riconosciuta l’antica dimensione ebraica di quei luoghi e dei protagonisti delle connesse storie bibliche: da Abramo a Isacco/Ismaele, da Davide a Salomone. Uno studio dettagliato di quelle fonti islamiche è stato pubblicato di recente e mostra come la censura sia un effetto del conflitto moderno tra mondo arabo e mondo ebraico, a partire solo dai primi decenni del XX secolo. Gli autori israeliani di questo studio, Yitzhak Reiter e Dvir Dimant, sostengono che «i musulmani contemporanei che misconoscono queste fonti minano la loro stessa legittimità in quanto parte di una storia umana di continuità religiosa di sequela del percorso di fede intrapreso da Abramo. Costoro vogliono ignorare questa continuità, che è così fondamentale per l’originaria visione islamica del mondo, facendo ciò per fini politici e nazionalistico-religiosi volti a rivendicare un diritto esclusivo sulla spianata di al-Aqâå, ossia l’area del Monte del Tempio. (…) Tra le conseguenze (di tale misconoscimento, n.d.r.) vi è quella di operare una cesura netta nella trasmissione intergenerazionale delle tradizioni fondative, come pure nella loro trasmissione in seno a tutte le tre fedi monoteiste che custodiscono, invece, un antico nucleo condiviso e, parimenti, il condiviso sogno di un futuro di pace» 6. A questo punto si intuisce che inserire una prospettiva diversa, più oggettiva e aderente alla storia, nel presentare i rapporti recenti tra arabi ed ebrei, tra Stati islamici e Stato d’Israele, comporta una specie di revisionismo del revisionismo, o meglio implica accettare un’autocritica storiografica, che sarebbe, tra l’altro, un parallelo passo di avvicinamento al revisionismo israeliano, incarnato da almeno una trentina d’anni dai «nuovi storici di Israele». Da Simha Flapan a Zeev Sternhell, da Benny Morris a Tom Segev, quest’ultimo figlio di rifugiati tedeschi in fuga dalla Germania nazista – il padre morì nella guerra arabo-israeliana del 1948 – e autore del bestseller che negli anni Novanta affrontò il tema dell’impatto della Shoah su Israele e la sua identità: The Seventh Million. Israelis and the Holocaust. Tale revisionismo israeliano ha preso l’emblematico ma anche problematico nome di post-sionismo. Se l’annuncio dato a Washington D.C. dagli Emirati Arabi Uniti sull’insegnamento della Shoah nei loro curriculum scolastici avrà un seguito e cambierà qualcosa nelle giovani generazioni arabe è presto per saperlo, ma nel più ampio contesto dei cambiamenti nelle relazioni internazionali in Medio Oriente è un ulteriore segnale da non sottovalutare. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
6. Y.REITER, D. DIMANT, Il Monte del Tempio. Ebraismo, Islåm e la roccia contesa, Guerini & Associati, Milano 2022, p. 180. Reiter è figlio di sopravvissuti alla Shoah.
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ISRAELE CONTRO ISRAELE
I PAESI DEL GOLFO, ISRAELE E IL CENTRO DELLA SCENA
di
Corrado 9OK
Le monarchie arabe stringono tra loro sodalizi per recuperare autonomia strategica. Diversi i gradi di normalizzazione con Gerusalemme. Atomica iraniana e tensioni interne allo Stato ebraico rischiano di rimescolare le carte in Medio Oriente.
V
1. ISTI DAL MEDIO ORIENTE, GLI ANNI VENTI di questo secolo si contraddistinguono già per la profonda riconfigurazione della strategia regionale e internazionale delle monarchie del Golfo. In un’intervista rilasciata nel 2021 il più noto consigliere diplomatico della presidenza emiratina, Anwar Muõammad Qarqåš, aveva prospettato un «decennio delle partnership» intra ed extraregionali, marcando così una cesura con la politica di contrapposizione, diretta o per procura, che le potenze del Medio Oriente avevano adottato nel decennio precedente 1. Ma a discapito della loro strategia di stabilizzazione, le leadership del Golfo scontano oggi uno scenario globale e regionale sempre più turbolento. La crescente minaccia atomica iraniana e i venti di guerra tra Israele e Iran rischiano di stravolgere gli equilibri regionali, il tutto sullo sfondo dell’invasione russa dell’Ucraina. Come si è visto, sul dossier ucraino le monarchie del Golfo hanno deciso di non schierarsi tra l’Occidente e il fronte russo-cinese. Tale decisione è perfettamente in linea con la politica di diversificazione delle alleanze attuata da anni dagli attori mediorientali per far fronte al disimpegno americano ed europeo dalle questioni regionali, a cui si è aggiunta una crescente incomprensione tra le rispettive leadership. Oltre ai vantaggi di mantenere i rapporti con entrambi i blocchi, l’attuale contesto geopolitico ha fatto riscoprire ai paesi del Golfo la loro centralità geografica, finanziaria e soprattutto energetica, su cui intendono far leva nell’arena internazionale per diventare sempre più fabri fortunae suae. L’espansione dei partenariati va esattamente in questa direzione e permette agli attori mediorientali di sviluppare una crescente autonomia strategica. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
1. Intervista ad Anwar Muõammad Qarqåš dell’Arab Gulf State Institute in Washington (Agsiw), 2020.
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I PAESI DEL GOLFO, ISRAELE E IL CENTRO DELLA SCENA
Tra i protagonisti di questo nuovo ciclo di partnership vi è certamente Israele. Lanciato nel settembre 2020, il processo di normalizzazione tocca in maniera molto diversa le sei monarchie del Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg), con Emirati Arabi Uniti (Eau) e Bahrein a fare da capofila, avendo essi ristabilito piene relazioni diplomatiche con Gerusalemme. Diverso il discorso per le altre quattro monarchie, che nel caso di Arabia Saudita e Oman intrattengono rapporti informali con lo Stato ebraico, mentre Qatar e Kuwait preferiscono mantenere le distanze. Al di là delle differenze tra le singole monarchie, i crescenti legami tra Ccg e Israele stanno già ridisegnando gli equilibri regionali, specialmente in una fase di alta tensione militare tra lo Stato ebraico e l’Iran. Un confronto che vede le monarchie del Golfo sempre più centrali, sia geograficamente sia politicamente. 2. L’apertura a Israele stravolge uno dei capisaldi storici della politica estera dei paesi arabi del Golfo. I regnanti della Penisola Arabica sono stati storicamente sostenitori della causa palestinese, vista come strumento di posizionamento nello scacchiere mediorientale e di legittimazione agli occhi dell’opinione pubblica araba 2. La fase di totale supporto ai palestinesi e completo isolamento d’Israele cominciò a incrinarsi a inizio anni Novanta. Durante la prima guerra del Golfo, Israele e Arabia Saudita si ritrovarono bersaglio dei missili iracheni mentre l’allora leader dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), Yasser Arafat, appoggiò pubblicamente Saddam Hussein 3. A ciò si aggiunse ben presto la crescente rete di gruppi e governi filo-iraniani tra Libano, Siria, Yemen, Sudan ed Eritrea, che destava allarme tanto a Tel Aviv quanto nelle capitali del Golfo. La prima svolta ufficiale si ebbe con gli accordi di Oslo del 1993. A quel tempo, il Consiglio di cooperazione del Golfo eliminò le sanzioni secondarie e terziarie imposte a Israele, permettendo allo Stato ebraico di aprire uffici commerciali in Oman e Qatar, mentre l’emirato di Dubai iniziò a intessere legami commerciali informali con compagnie israeliane 4. Nel 2001, inoltre, i sauditi si fecero promotori dell’Arab Peace Initiative, un accordo che prometteva pieno riconoscimento di Israele da parte dei paesi arabi in cambio del ritorno ai confini del 1967 5. Dal 2000 in avanti, i profondi sconvogimenti nel quadro geopolitico mediorientale hanno gradualmente avvicinato Israele alle monarchie del Golfo, soprattutto Arabia Saudita, Emirati e Bahrein 6. L’intervento americano in Iraq del 2003 aveva creato un vuoto politico che partiti e gruppi armati filo-iraniani hanno riempito, riuscendo a controllare buona parte del paese. Dopo la breve guerra civile Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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2. C. BIANCO, C. 9OK, «L’asse Israele-arabi si piega ma non si spezza», Limes, «La questione israeliana», n. 5/2021, pp. 223-241. 3. C. JONES, Y. GUZANSKY, Fraternal enemies: Israel and the Gulf monarchies. Oxford 2020, Oxford University Press. 4. K. COATES ULRICHSEN, «The Gulf States and Israeli-Palestinian Conflict Resolution», Baker Institute, 16/9/2014. 5. G. BAHGAT. «The Arab Peace Initiative: An Assessment», Middle East Policy, 16/3/2009. 6. C. JONES, Y. GUZANSKY, op. cit.
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libanese del 2006 – aggravata dall’incursione israeliana – Õizbullåh ha assunto un ruolo di primo piano nella politica locale, consolidando la cosiddetta Mezzaluna sciita, la fascia d’influenza iraniana che attraversa il Medio Oriente da Teheran a Beirut. Anche altri fattori hanno contribuito a preoccupare israeliani, sauditi ed emiratini nel post-primavere arabe: l’espansione dei pasdaran iraniani e delle relative proxy in Siria, l’avanzata degli õûñø in Yemen e la cooperazione tra Sudan, Eritrea e Iran nel Mar Rosso. Intanto l’affermazione dei Fratelli musulmani, grazie al sostegno turco e qatarino, aveva creato profondo allarme in Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti e aveva messo in guardia anche Israele per via dei timori legati a Õamås, parte integrante della stessa galassia islamista sostenuta dall’Iran con finanziamenti e armi 7. Uniti dall’ostilità verso Õamås, ufficiali dei servizi segreti israeliani, egiziani, sauditi ed emiratini avevano tenuto una serie di incontri per far fronte all’escalation del 2014 a Gaza 8. Allo stesso tempo il Qatar, che già ospitava la leadership di Õamås dal 2012 e finanziava i salari pubblici a Gaza, aveva rafforzato il supporto al gruppo palestinese, in linea con la strategia di sostegno alla Fratellanza musulmana, uno dei principali motivi delle rotture diplomatiche del 2014 e del 2017 con sauditi, emiratini, bahreiniti ed egiziani 9. Infine giunse l’accordo sul nucleare iraniano (Jcpoa). Nel contesto del progressivo disimpegno americano dal Medio Oriente, Gerusalemme, Riyad e Abu Dhabi hanno interpretato il Jcpoa come un via libera alle mire geopolitiche regionali di Teheran, poichè esso non limitava l’uso di droni, missili balistici e proxy, minacce considerate più dirimenti del nucleare dal fronte anti-iraniano. Fu così che dietro le quinte iniziò un progressivo coordinamento di intelligence e lobbying internazionale sul dossier iraniano tra israeliani, sauditi ed emiratini 10. Tale fronte si è ben presto rivolto anche all’altra potenza regionale in ascesa: la Turchia. Gli interventi nei conflitti siriano e libico, l’attivismo nel Mediterraneo orientale, l’espansione nel Corno d’Africa e il supporto al Qatar e alle varie branche dei Fratelli musulmani erano percepiti come una chiara minaccia comune dai tre Stati 11. Un segnale del loro avvicinamento in funzione antiturca si era visto nell’East Mediterranean Gas Forum – consesso fondato nel 2019 per la gestione dei giacimenti offshore – di cui Israele è membro a tutti gli effetti, mentre gli Emirati partecipano come paese osservatore e la Turchia ne è esclusa, creando forti tensioni per via delle rivendicazioni di Ankara su ampie aree del Mediterraneo orientale. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
7. Sui finanziamenti, si veda B. GWERTZMAN, «Iran Support to Hamas, but Hamas is no Iranian Puppet», Council on Foreign Relations, 7/1/2009. Sulle armi dall’Iran a Õamås, C. SZROM, «Iran-Hamas Relation in 2008», Critical Threats, 18/2/2009. 8. K. COATES ULRICHSEN, op. cit. 9. Y. GUZANSKY, «The Gulf States, Israel, and Hamas», Institute for National Security Studies, 2017. 10. K. COATES ULRICHSEN, «The Gulf States and the Middle East Peace Process; Considerations, Stakes and Options», Baker Institute, 25/8/2020. 11. C. BIANCO, A. OCCHIUTO, «La guerra Emirati-Turchia rimpicciolisce l’Italia», Limes, «Il turco alla porta», n. 7/2020, pp. 293-299.
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3. È in questo quadro di convergenza di fronte a nemici comuni che prende piede il processo di normalizzazione tra Israele e paesi del Golfo, con la spinta decisiva della Casa Bianca 12. Fin dagli albori della sua presidenza, Donald Trump aveva concepito un piano per la risoluzione del conflitto israelo-palestinese, il famigerato «accordo del secolo» basato sul riconoscimento da parte dell’Autorità palestinese dello status quo in cambio di una sostanziosa contropartita economica, ma senza una soluzione a due Stati. Tuttavia, viste le condizioni marcatamente pro-israeliane del piano, Autorità palestinese e Giordania avevano rigettato l’accordo, spingendo l’amministrazione Trump a cercare altri sostenitori nel mondo arabo per garantirsi tale successo diplomatico e in particolare tra gli alleati del Golfo. Facendo leva sul saldo allineamento con il fronte anti-iraniano, come dimostrato dall’affondamento del Jcpoa da parte di Washington, Trump spinse il principe ereditario saudita Muõammad bin Samån al-Sa‘ûd (MbS) e il suo omologo emiratino Muõammad bin Zåyid (MbZ) a entrare nell’accordo. Fu così che nel 2020 Abu Dhabi normalizzò le relazioni con Gerusalemme, mentre Riyad si astenne per ragioni di politica interna e regionale, mandando invece avanti il Bahrein 13. Gli accordi di Abramo hanno rappresentato uno spartiacque nella politica mediorientale e posto le tre principali monarchie del Golfo – Arabia Saudita, Eau e Qatar – su tre traiettorie diverse nei confronti di Israele. Gli Emirati Arabi Uniti e Israele hanno più tratti in comune di quel che si potrebbe pensare. In un panorama di potenze regionali con dimensioni geografiche e demografiche molto maggiori – Egitto, Iran e Turchia in testa – entrambi i paesi compensano le piccole dimensioni con un attento uso della diplomazia, degli investimenti e dello strumento militare che ne aumenta il peso specifico nell’arena geopolitica. L’attivismo emiratino del decennio scorso e l’introduzione della leva obbligatoria nel 2014 avevano valso alla federazione dei sette emirati l’appellativo di «piccola Sparta», epiteto molto calzante anche per Israele. In sintesi, l’alleanza israelo-emiratina s’impernia su due traiettorie strategiche affini. Nel 2020, la decisione emiratina di normalizzare i rapporti con lo Stato ebraico era stata dettata da una serie di circostanze di breve e lungo periodo. Oltre a consolidare l’influenza di MbZ presso le istituzioni statunitensi, la normalizzazione con Israele doveva sbloccare la vendita di cinquanta caccia di quinta generazione F-35, che però si è arenata al Congresso a causa dell’interesse emiratino per il sistema 5G del gigante cinese Huawei 14. Allo stesso tempo, il know-how israeliano in alcune filiere strategiche, dalla Difesa alla gestione dell’acqua, passando per l’hi-tech, faceva indubbiamente gola a Dubai e ad Abu Dhabi, dove i programmi di Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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12. Q. FORGEY, «“The dawn of a new Middle East”: Trump celebrates Abraham Accords with White House signing ceremony», Politico, 15/9/2020. 13. C. BIANCO, H. LOVATT, «Israel-UAE peace deal: Flipping the regional order of the Middle East», European Council on Foreign Relations, 14/8/2020. 14. A. ENGLAND, S. KERR, «UAE suspends talks with US over purchase of F-35 fighter jets», Financial Times, 14/12/2021.
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transizione economica (vedi Vision 2021) puntano ad affrancare la monarchia dalla dipendenza degli idrocarburi creando un’economia della conoscenza altamente tecnologica. L’interesse reciproco ha infatti portato a un rapido intensificarsi della collaborazione bilaterale in svariati ambiti. Nel maggio 2022, la firma di un accordo di libero scambio ha fatto più che raddoppiare nel corso dell’anno l’interscambio commerciale (non petrolifero), oggi superiore a 2,5 miliardi di dollari 15. La cooperazione nell’ambito della Difesa ha fatto passi avanti fin da subito, con la joint-venture lanciata nel 2021 tra l’emiratina Edge e Israeli Aerospace Industries (Iai) per lo sviluppo di un sistema anti drone basato sull’intelligenza artificiale 16. La tecnologia di difesa aerea israeliana è d’importanza prioritaria per gli emiratini, essendo stati oggetto di attacchi di droni dagli õûñø nel 2018 (una delle ragioni del parziale ritiro dallo Yemen) e di nuovo nel gennaio 2022, a seguito dei quali Israele aveva fornito il sistema missilistico Barak, valida alternativa a Iron Dome 17. A conferma della profonda collaborazione nel settore militare, Edge e Iai hanno dato vita nel febbraio 2023 a un nuovo modello di drone navale per la sorveglianza marittima 18. Inoltre, compagnie israeliane ed emiratine già condividevano software e apparecchiature di cybersecurity sia per proteggere siti strategici dai crescenti attacchi informatici, sia per prevenire attacchi terroristici e controllare gli oppositori politici 19. Anche a livello energetico e infrastrutturale la cooperazione israelo-emiratina ha preso rapidamente piede. Nel dicembre 2020, la compagnia statale emiratina Mubadala Petroleum aveva acquisito il 22% delle quote del giacimento offshore israeliano Tamar, per un valore di 1,025 miliardi di dollari 20. Gli emiratini attendono inoltre una decisione finale delle autorità israeliane sull’utilizzo dell’oleodotto tra Eilat sul Mar Rosso e Ashkelon sul Mediterraneo per il trasporto di petrolio emiratino. Ciò porterebbe a una riduzione dei tempi e un aumento della quantità di greggio esportata rispetto a Suez, ma ridurrebbe anche le entrate dello Stato egiziano in una fase di crisi finanziaria acuta per il Cairo 21. Altri progetti congiunti sono stati lanciati nell’ambito dell’energia rinnovabile, ad esempio per la produzione di idrogeno verde. Infine, gli Emirati avevano negoziato un accordo tra Israele e Giordania per lo scambio di energia solare e acqua nel 2021, a conferma di come gli accordi di Abramo abbiano aperto spazi per le rispettive diplomazie. Sul lato delle infrastrutture, invece, il ritiro del colosso emiratino Dp World dalla gara per il porto israeliano di Haifa non ha scalfito le relazioni bilaterali in campo marittimo, dopo l’introduzione di un accordo di coCopia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
15. W. ABBAS, «UAE-Israel trade more than doubles in 11 months of 2022», Zawya, 21/12/2022. 16. M. SOLIMAN, «How tech is cementing UAE-Israel alliance», Middle East Institute, 11/5/2021. 17. A. HAREL, «With Aerial Defense Systems, Israel Aids UAE at Crucial Moment», Haaretz, 30/10/2022. 18. «UAE, Israel Unveil Joint Unmanned Vessel as Military Ties Grow», The Defence Post, 20/2/2023. 19. N. ZILBER, «Gulf Cyber Cooperation with Israel: Balancing Risks and Threats», The Washington Institute, 7/1/2019. 20. «UAE’s Mubadala in talks to buy $1.1 bln stake in Israeli gas field», Reuters, 26/4/2021. 21. V. MELIKSETIAN, «UAE And Israel Look To Forge Energy Ties Through New Pipeline», Oil Price, 9/3/2021.
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operazione in quest’ambito nell’aprile 2022. Infine, resta sul tavolo il progetto ferroviario tra Israele ed Emirati per agevolare il turismo tra i due paesi e il traffico merci tra Golfo Persico e Mediterraneo, passando per Giordania e Arabia Saudita, in ottica d’integrazione regionale. Il piano tuttavia dipende da un ulteriore progresso nelle relazioni tra sauditi e israeliani 22. Anche nella sfera politico-diplomatica gli abboccamenti non mancano. La leadership emiratina e ancor più quella israeliana godono di una vasta rete d’influenza a Washington, che le rende interlocutrici regionali privilegiate. Ma allo stesso tempo, entrambe coltivano da anni rapporti con Cina, Russia e India per controbilanciare la presenza sempre più evanescente degli Stati Uniti in Medio Oriente e per sfruttare appieno le opportunità offerte dal crescente ordine multipolare. Un esempio di queste nuove congiunture è il Quad mediorientale I2U2, lanciato ufficialmente da Stati Uniti, Israele, India ed Emirati Arabi Uniti nel luglio 2022. L’I2U2 nasce come forum per la cooperazione su trasporto marittimo, lotta ai cambiamenti climatici, sicurezza alimentare, investimenti e commercio, ma getta le basi per una partnership politica a più ampio spettro 23. Gerusalemme, Abu Dhabi e Delhi stanno infatti lavorando a un comune corridoio terrestre e marittimo alternativo alle nuove vie della seta cinesi. In parallelo, il governo israeliano si è fatto promotore del Negev Forum, un’iniziativa multilaterale con gli altri paesi firmatari degli accordi di Abramo – Eau, Bahrein, Marocco e Stati Uniti – più l’Egitto, con lo scopo di consolidare un fronte anti-iraniano, tuttavia con scarso successo 24. 4. A differenza degli Emirati, l’Arabia Saudita ha preferito tenersi al di fuori degli accordi di Abramo, pur rafforzando la propria cooperazione informale con lo Stato ebraico. La partecipazione del regno dei Sa‘ûd era ed è l’obiettivo principale degli accordi – come ribadito recentemente dal premier Binyamin Netanyahu – per via della sua centralità politica, economia e religiosa nel mondo arabo e musulmano. Nel 2020 l’amministrazione Trump si era impegnata a fondo per raggiungere tale obiettivo, organizzando perfino un incontro (sempre smentito dai sauditi) tra MbS, Netanyahu e l’allora segretario di Stato Mike Pompeo in Arabia Saudita 25. Secondo numerosi esperti vicini alla leadership saudita, è proprio il principe MbS – sempre più sovrano di fatto del regno – a volere una normalizzazione con Gerusalemme. Tuttavia, avrebbe trovato l’opposizione di suo padre re Salmån per via del suo storico impegno personale nel sostenere la causa palestinese. Al di là della differenza di vedute all’interno della leadership saudita, Riyad cerca da anni di ristabilire il suo ruolo di guida del mondo arabo e musulmano (sunnita). In Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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22. S. RAWASHDEH, «Gulf-Israel train project chugs into political, financial obstacles», The Circuit, 27/9/2022. 23. «Joint Statement of the Leaders of India, Israel, United Arab Emirates, and the United States (I2U2)», whitehouse.gov, 14/7/2022. 24. «Negev Forum meeting delayed due to Israeli escalation against Palestinians», Middle East Monitor, 20/2/2023. 25. «Netanyahu met MBS, Pompeo in Saudi Arabia: Israeli media», Al Jazeera, 23/11/2020.
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quest’ottica, la normalizzazione con Israele incrinerebbe la posizione dell’Arabia Saudita presso i suoi alleati regionali e lascerebbe campo libero a Iran e Qatar nel mondo arabo-musulmano su una questione ancora profondamente sentita come quella palestinese. C’è inoltre il problema dell’opinione pubblica interna. A differenza di Eau e Bahrein, Stati con piccole popolazioni principalmente composte da lavoratori stranieri, l’Arabia Saudita conta 35 milioni di abitanti, quasi esclusivamente cittadini sauditi, da sempre sostenitori della Palestina e che mal digerirebbero un cambio di direzione così netto. Questo potrebbe anche riaccendere il malcontento nelle aree marginalizzate e a prevalenza sciita dell’est del paese, come durante le primavere arabe. Per tali fattori, la monarchia saudita rimane temporaneamente ancorata alla soluzione dei due Stati dell’Arab Peace Initiative. Ciononostante, i rapporti informali tra israeliani e sauditi si sono intensificati negli utimi anni. Sul fronte commerciale, gli imprenditori dell’high-tech israeliano hanno iniziato a stipulare contratti con imprese saudite alla luce del sole e partecipano a eventi di alto profilo, come la Future Investment Initiative 26. Al contempo, le autorità saudite stanno espandendo i loro investimenti nelle start-up israeliane tramite fondi americani, come quello istituito dal genero di Trump, Jared Kushner 27. Al centro di questa strana intesa vi è tuttavia la collaborazione tra le rispettive intelligence, avviata già negli anni Sessanta a causa della guerra civile nello Yemen del Nord e oggi rafforzata dalla minaccia iraniana. La recente decisione americana di includere Israele nell’area di competenza dello U.S. Central Command ha poi contribuito a intensificare i contatti tra ufficiali sauditi e israeliani 28. Poggiando su questa ambiguità di fondo, MbS cerca di ottenere il massimo beneficio dalla cooperazione con lo Stato ebraico senza dover pagare il prezzo politico della normalizzazione, almeno fino a quando le condizioni non miglioreranno. Anche il Qatar non è al momento intenzionato a normalizzare i rapporti diplomatici con Israele. L’apertura di una rappresentanza commerciale israeliana a Doha nel 1996, primo paese del Golfo a compiere tale passo all’indomani degli accordi di Oslo, sembrava gettare le basi per un miglioramento delle relazioni bilaterali. Tuttavia, negli anni successivi, il protrarsi del conflitto israelo-palestinese e il sostegno del Qatar a Õamås e alla causa della Palestina hanno posto israeliani e qatarini su due traiettorie divergenti. Più recentemente, nel corso dei Mondiali di calcio in Qatar, le autorità locali hanno permesso voli diretti da Tel Aviv e aperto a visti turistici per cittadini israeliani (estesi per tutto il 2023), ma al contempo, hanno dato ampio spazio alle manifestazioni pro palestinesi dentro e fuori gli stadi 29. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
26. S. KALIN, «Israeli Business in Saudi Arabia Emerges from Shadows at Investment Conference», The Wall Street Journal, 27/10/2022. 27. D. ZAKEN, «Israelis begin doing deals in Saudi Arabia», Al Monitor, 2/6/2022. 28. B. RIEDEL, «How to understand Israel and Saudi Arabia’s secretive relationship», The Brookings Institution, 11/7/2022. 29. H. GOLD, M. NAJIB, «World Cup makes history with direct flights from Israel to Qatar», Cnn, 21/11/2022.
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Sul piano geopolitico, a differenza di Arabia Saudita ed Emirati, il Qatar non vede nell’Iran una minaccia strategica e intrattiene infatti con Teheran rapporti fruttuosi, che hanno permesso alla piccola monarchia di sfuggire all’embargo impostole dai suoi vicini tra 2017 e 2021 e di cogestire il vasto giacimento offshore di gas South Pars/North Dome. Pertanto, il Qatar non ha interesse a incrinare i rapporti con l’Iran, specie a fronte delle posizioni dell’attuale governo israeliano. 5. I paesi del Golfo si trovano oggi ad affrontare la minaccia atomica iraniana, le forti tensioni tra Israele e Iran e le turbolenze interne allo Stato ebraico, con il riaccendersi degli scontri in Cisgiordania. Il recente accordo tra Arabia Saudita e Iran, mediato da Pechino, per la riapertura delle relazioni diplomatiche delinea la strategia di Riyad e Abu Dhabi – che a dicembre ha reinsediato il proprio ambasciatore a Teheran – per proteggersi da una possibile escalation tra Israele e Repubblica Islamica. Arabia Saudita ed Emirati non vogliono diventarne il campo di battaglia, dal momento che Gerusalemme non ha i mezzi per proteggere le due monarchie da una rappresaglia su larga scala paventata da Teheran in caso di attacco ai suoi siti nucleari 30. Al di là delle prospettive di lungo periodo, Riyad necessitava nell’immediato di un allegerimento della pressione esercitata dagli õûñø in Yemen, su cui gli iraniani non hanno un controllo diretto ma una robusta influenza. Perciò i due paesi del Golfo considerano la de-escalation con l’Iran necessaria, pur continuando a intessere relazioni formali (Eau) e informali (Arabia Saudita) con Israele. Sempre in quest’ottica, sauditi ed emiratini non hanno aperto alla proposta americano-israeliana di creare un consorzio per la difesa aerea in funzione anti-iraniana 31. All’interno di questo quadro però s’innesta la crisi interna allo Stato ebraico. Più che per le proteste contro la riforma giudiziaria, le monarchie del Golfo sono preoccupate per la crescente escalation degli scontri in Cisgiordania e la violenta retorica antipalestinese degli esponenti di estrema destra del governo israeliano, che complicano le relazioni con Gerusalemme. Alcune fonti riportano che gli Emirati avrebbero valutato l’interruzione dei contratti di fornitura militare con Israele per via dei commenti dei ministri Smotrich e Ben-Gvir 32. Inoltre, il vociferato piano per la costruzione di insediamenti israeliani in Cisgiordania colpirebbe proprio una delle clausole degli accordi di Abramo che gli emiratini avevano reclamato come successo nel negoziato con il governo di Netanyahu e indebolirebbe la posizione di MbZ a livello regionale. Più che la riapertura all’Iran, sono proprio la retorica del governo israeliano e i crescenti scontri in Palestina a bloccare per il momento qualsiasi ipotesi di normalizzazione da parte saudita. Al contrario, le tensioni in Israele rafforzano il Qatar, che può vantare l’unica posizione coerentemente filopalestinese tra le principali monarchie del Golfo. La qatarina Al Jazeera ha ampiamente documentato la retoCopia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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30. J. GAMBRELL, «Iran blames Israel for drone attack, threatens retaliation», Ap News, 2/2/2023. 31. L. SELIGMAN, A. WARD, «Biden wants a Middle East air defense “alliance”. But it’s a long way off», Politico, 12/7/2022. 32. «Netanyahu denies UAE plans to suspend Israel defence deals over far-right government», The New Arab, 13/3/2022.
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rica e le violenze della autorità di Gerusalemme, soprattutto dopo l’uccisione di una delle sue reporter per mano delle forze israeliane 33. Infine, la questione dell’atomica iraniana. In un report di marzo, gli esperti dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) scrivono di aver trovato tracce di uranio arricchito all’83,7%, pericolosamente vicino alla soglia del 90% utile per produrre armi atomiche 34. Quanto suggerisce che l’Iran potrebbe dotarsi della Bomba nei prossimi anni. Sebbene Israele sia determinato a scongiurare questa eventualità a qualsiasi costo, i governi del Golfo si stanno preparando. L’anno scorso il Qatar ha continuato a spendersi per la riattivazione dei negoziati sul Jcpoa, possibilità sempre più remota. E perfino il ministro degli Esteri saudita, Fayâal bin Farõån, ha timidamente aperto a un ritorno all’accordo sul nucleare in dicembre, avvertendo al contempo che la realizzazione della Bomba rappresenterebbe la fine di qualsiasi dialogo 35. La risposta saudita più probabile sarebbe la corsa a ottenere un’arma atomica. Durante recenti colloqui con gli Stati Uniti, i sauditi hanno aperto alla normalizzazione con Israele in cambio del contributo americano alla realizzazione di un proprio programma nucleare 36, che Riyad sostiene sarebbe a fini civili. Tuttavia, la ritrosia degli americani a cooperare sul nucleare con i sauditi negli anni passati deriva proprio dal rifiuto di questi a firmare l’accordo 123 (come invece hanno fatto gli emiratini) che impegna il paese a non arricchire l’uranio oltre la soglia dell’uso civile 37. Alla luce delle attuali circostanze, probabilmente l’Arabia Saudita sfrutterebbe il programma nucleare civile per costruire in parallelo una bomba atomica. Date le difficoltà tecniche e le tempistiche legate a tale opzione, i sauditi potrebbero cercare in alternativa bombe già disponibili, che potrebbero essere fornite dal Pakistan, unica potenza nucleare dell’area e paese che necessita da anni del sostegno finanziario di Riyad per evitare il default 38. La corsa iraniana alla bomba atomica potrebbe presto innescare un attacco militare israeliano e la conseguente reazione di Teheran su larga scala, oppure una stagione di proliferazione nucleare in una regione particolarmente instabile come quella del Golfo Persico. Al momento, l’accordo sul nucleare è l’unico strumento sul tavolo capace di scongiurare tale eventualità. Per questo motivo, l’Italia e gli altri paesi europei dovrebbero ragionare seriamente su come riattivare il Jcpoa o prepararsi a estendere robuste garanzie securitarie alle monarchie del Ccg per prevenire quantomeno una proliferazione regionale delle armi nucleari. Se la crisi non dovesse essere scongiurata, le conseguenze avrebbero portata globale e impatterebbero profondamente sugli equilibri internazionali. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
33. Z. AL TAHHAN, «Shireen Abu Akleh: Al Jazeera reporter killed by Israeli forces», Al Jazeera, 12/5/2022. 34. S. LIECHTENSTEIN, «UN report: Uranium particles enriched to 83.7% found in Iran», Ap News, 1/3/2023. 35. «Saudi minister says “all bets of”’ if Iran gets nuclear weapon», Al Jazeera, 11/12/2022. 36. M. CROWLEY, V. NEREIM, P. KINGSLEY, «Saudi Arabia Offers Its Price to Normalize Relations With Israel», The New York Times, 11/3/2023. 37. «123 Agreements», state.gov, 6/12/2022. 38. Y. GUZANSKY, «Normalization for Proliferation? The Saudi Nuclear Strategy and the Price of Peace with Israel», Institute for National Security Studies, 19/3/2023.
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ACROBAZIE RUSSE E ISRAELIANE PER NON SPEZZARE UN RAPPORTO IRRINUNCIABILE La guerra in Ucraina scuote la relazione fra due paesi che condividono molti interessi. La questione iraniana. Le pressioni di Washington su Gerusalemme e gli equilibrismi dei leader dello Stato ebraico. L’emigrazione dei russi verso Israele ha ripreso a crescere. di
Mauro DE BONIS
C
1. « REDO CHE LA RUSSIA DEBBA AVERE UN RUOLO più attivo nella soluzione della crisi in Medio Oriente. Queste non sono solo parole, è la mia posizione». Così nel 1996 l’appena eletto primo ministro Binyamin Netanyahu si rivolgeva a Evgenij Primakov, capo della diplomazia russa 1. Quasi trent’anni dopo Mosca lo ha accontentato. Ha recuperato influenza nella regione mediorientale, complice anche il parziale disimpegno statunitense. E rappresenta oggi per Israele un partner imprescindibile perché gestore di alcuni dei dossier più importanti per la sicurezza dello Stato ebraico, a partire da quello iraniano. Per arginare le minacce provenienti da Teheran, Gerusalemme deve infatti mantenere libertà d’azione in Siria. Può farlo solo coordinandosi con il Cremlino. Dipendenza che nelle prime fasi del conflitto ucraino si è tradotta in esitazione e cautela nello schierarsi contro l’invasione russa. E che continua a frenare la vicinanza israeliana alle sorti di Kiev. Anche perché la relazione tra Federazione Russa e Repubblica Islamica non è figlia della guerra in corso ma di vecchia data. E potrà avere notevole sviluppo strategico vista la virata di Mosca verso l’Oriente dopo il taglio netto ai rapporti con l’«Occidente collettivo». Netanyahu sa che Putin non appoggia il programma atomico degli ayatollah e teme una troppo energica presa di Teheran su Damasco. E sa anche che le relazioni con la Russia poggiano su basi abbastanza solide da poter reggere la sfida iraniana. Cardini che la guerra in Europa può però compromettere. «La maggior parte dei russi», ci spiega Andrej Kortunov, direttore del Russian International Affairs Council, «percepisce ancora Israele come un paese amico, ma crescono le preoccupazioni per il presunto sostegno israeliano all’Ucraina». Rifiutate le sanzioni contro Mosca e presa subito una posizione equilibrata, Gerusalemme subisce la presCopia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
1. E.M. PRIMAKOV, Dall’Urss alla Russia, Milano 2005, Valentina Edizioni, p. 199.
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sione degli Stati Uniti, principali garanti della sicurezza israeliana, perché sostengano Kiev fino in fondo. Putin mantiene fiducia negli equilibrismi di Netanyahu, almeno fin quando non fosse chiara l’intenzione israeliana di schierarsi in toto dalla parte ucraina. Poi si vedrà. Per il momento i diversi interessi comuni tengono insieme la relazione: dalla sicurezza alla ricerca di stabilità in Medio Oriente, fino all’importanza della minoranza russa in Israele, notevole argine alla possibile scelta filo-ucraina di Gerusalemme. Comunità molto numerosa, di vecchia e nuova data, che le leadership israeliane non possono permettersi di ignorare e sulla quale Mosca ha sempre fatto affidamento per influenzare la politica locale. Almeno fino allo scoppio del conflitto in Ucraina, quando Israele ha accolto molti rifugiati russi non proprio in linea con le scelte belligeranti del loro presidente. Esodo che ha marcato le divisioni interne già presenti nella comunità tra i pro e i contro Putin e che secondo Kortunov «limitano il potenziale impatto della diaspora sulla politica nazionale d’Israele», oltre a incrinarne il rapporto con la madrepatria, ciò che allarma non poco le autorità russe. 2. A preoccupare di più Gerusalemme è il crescente legame tra Mosca e Teheran. Relazione che il conflitto europeo sembra aver rafforzato dal punto di vista militare e che si incornicia in una nuova dimensione eurasiatica. Chiusi i rapporti con l’Occidente, il Cremlino punta diritto verso est dove avrà bisogno di paesi amici o non ostili, sulla base di un grado di collaborazione già alto e di relazioni avviate da tempo. Anzitutto l’Iran, con cui Putin discute dello sviluppo del commercio bilaterale, fino a raggiungere i 40 miliardi di dollari dopo la firma di un accordo di libero scambio; della realizzazione al più presto del corridoio Nord-Sud, con infrastrutture utili a collegare via Mar Caspio la russa San Pietroburgo all’indiana Mumbai; dell’incremento della collaborazione nel settore energetico, che ha già registrato l’impegno della Federazione Russa a investire decine di miliardi di dollari in progetti gasieri iraniani 2. Relazione destinata a crescere nel tempo, sembrerebbe, e che gli americani bollano come diretta minaccia per Israele. Mosca e Teheran avrebbero deciso uno scambio di armamenti, dai droni iraniani che le Forze armate russe utilizzano nella guerra contro l’Ucraina agli aerei che il Cremlino sarebbe intenzionato a offrire alla Repubblica Islamica, fino alla prevista costruzione in territorio russo di una fabbrica di droni da combattimento sotto supervisione iraniana 3. Insinuazioni che la Russia respinge al mittente anche attraverso il suo ambasciatore in Israele, Anatolij Viktorov, che in una lunga intervista del febbraio scorso spiega come «prevedibilmente i nostri ex partner occidentali» cerchino di spostare l’attenzione su «presunte consegne militari» da Mosca a Teheran, e viceversa. E attacca «rispettati media israeliani» per aver sostenuto la falsa notizia che la Russia sarebbe intenzionata a supportare il programCopia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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2. S. SHINE, A. MIL-MAN, S. LERECH-ZILBERBERG, B. COHEN DRUYAN FELDMAN, «Deepening Cooperation between Iran and Russia», inss.org, n.1677, 3/1/2023. 3. Ibidem.
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ma nucleare iraniano in cambio di armamenti. Tutte «accuse prive di fondamento», chiarisce, che il regime di Kiev utilizza per ottenere più armi da paesi amici ed «esercitare pressione su Israele» affinché ne segua l’esempio 4. Il diplomatico russo assicura che la relazione con l’Iran si svolge nel pieno rispetto del diritto internazionale e che non è diretta contro alcun paese terzo, tantomeno Israele. E spiega come Mosca sia pronta a lavorare su qualsiasi questione che interessi la sicurezza regionale di Gerusalemme. Garanzie che non convincono più di tanto le autorità israeliane concentrate su come meglio combattere il nemico numero uno, che tale resta anche per l’attuale governo Netanyahu. E per il presidente Itzhak Herzog che chiede all’Alleanza Atlantica di rafforzare la pressione su Teheran, rea di fornire droni alla Russia: «La crisi va oltre i confini dell’Ucraina, con la minaccia iraniana ormai alle porte dell’Europa». Secondo il capo dello Stato ebraico l’illusione della distanza non può più reggere e la Nato deve intervenire anche con sanzioni e «una credibile deterrenza militare» 5. L’avvertimento di Herzog arriva durante il Consiglio Nord-Atlantico del gennaio scorso, prima volta per un presidente israeliano, dove a margine si è anche parlato di un nuovo e più profondo accordo di partenariato tra Gerusalemme e Bruxelles 6. Il tutto mentre in Terrasanta partivano le esercitazioni militari tra le Forze armate israeliane e quelle dello sponsor securitario americano. Operazione su larga scala denominata Juniper Oak 2023. Vi ha preso parte un numero impressionante di mezzi e uomini. La stampa statunitense l’ha subito definita come l’esercitazione militare più significativa mai condotta tra gli eserciti dei due paesi alleati. Lo scopo dichiarato è stato quello di testare la congiunta prontezza al combattimento, ma l’obiettivo è di farsi trovare pronti in caso di conflitto contro Teheran, sviluppando capacità per colpire siti vitali iraniani a cominciare da quelli nucleari e collaudare il dispiegamento in Medio Oriente delle truppe a stelle e strisce 7. Obiettivi centrati e messaggio recapitato agli attori regionali (amici e non) e ai loro garanti: Washington è decisa a sostenere Gerusalemme in un eventuale scontro col nemico iraniano. In cambio la vuole dichiaratamente al fianco di Kiev. Le pressioni non mancano e una maggiore partecipazione nel conflitto in terra ucraina potrebbe offrire anche delle opportunità. Almeno secondo un dettagliato articolo pubblicato sul sito dell’Institute for National Security Studies di Tel Aviv. Dato che la guerra tra Mosca e Kiev, con ampio utilizzo di nuove tecnologie e soprattutto di droni, può considerarsi esempio di «futuro campo di battaglia» per paesi che come Israele «rischiano di affrontare scenari simili», la possibilità di studiare e prepararsi per tempo. Un’occasione unica per esaminare da vicino vizi e Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
4. «Posol RF v Izraile: otkryty k konstruktivnomu vzaimodejstviju s nynešnim izrail’skim pravitel’stvo» («L’ambasciatore russo in Israele: aperti a un’interazione costruttiva con l’attuale governo israeliano»), interfax.ru, 10/2/2023. 5. «Israel urges NATO to confront Iran threat», english.alarabiya.net, 26/1/2023. 6. R. BASSIST, «NATO wants Israel to “re-examine” its aid to Ukraine», al-monitor.com, 27/1/2023. 7. V. IVANOV, «“Bazal’tovye duby” gotovy idti na Iran» («Le “Juniper Oak” sono pronte per l’Iran»), nvo.ng.ru, 9/3/2023.
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virtù delle capacità belliche di Teheran, coinvolta nel conflitto al fianco di Mosca, a cui fornisce quegli armamenti che potrà un giorno utilizzare anche contro Gerusalemme e che in parte sono già operativi sia nel paese degli ayatollah sia nelle mani di suoi alleati come Õamås e Õizbullåh 8. Ma sui cieli ucraini Israele segue le evoluzioni di un drone russo che ben conosce, perché fornito a Mosca in tempi meno sospetti. Si tratta del Forpost-Ru entrato in servizio di recente e utilizzato da subito nel conflitto contro Kiev, col primo obiettivo centrato già nel marzo dello scorso anno. Gerusalemme aveva venduto a inizio anni Dieci la componentistica necessaria ad assemblare il drone in una fabbrica russa di Ekaterinburg, per poi interromperne la fornitura nel 2016 quando la pressione americana si era fatta troppo forte. 3. Scelta molto complicata per Gerusalemme. In ballo la possibile rottura con Mosca e conseguenti complicazioni sul fronte siriano, dove gli israeliani rintuzzano gli attacchi dell’Iran e dei suoi alleati, coordinando le azioni con le forze russe che controllano lo spazio aereo del paese. Meccanismo ben oliato che se dovesse incepparsi potrebbe innescare nuovi incidenti e portare a un’escalation dagli sviluppi imprevedibili. Soprattutto mentre divampa la guerra in Ucraina, quando alleanze e sodalizi d’interesse che finora hanno tenuto potrebbero rompersi e aggiungere tensione in una regione facilmente infiammabile. Israele ne è consapevole e fin dall’inizio del conflitto evita di prendere posizione, per non scontentare l’Occidente a guida americana e gli amici moscoviti custodi del dossier iraniano. Non partecipa alle sanzioni economiche imposte al Cremlino e cerca di affrontare l’argomento il meno possibile. Nel marzo 2022 l’allora primo ministro Naftali Bennett si è proposto addirittura come mediatore per accelerare la fine di una guerra che a Israele proprio non piace, viste le sue pressanti questioni di sicurezza nazionale. Il tentativo fallisce. Ma l’ex premier israeliano racconterà che le trattative sono state concrete, avviate su richiesta del presidente ucraino Zelens’kyj e coordinate con i massimi vertici di Stati Uniti, Francia e Germania. E che soprattutto hanno avuto lo scopo di ritardare per Gerusalemme la scelta su «da che parte stare» 9. Dai due governi israeliani succedutisi da inizio conflitto e fino all’entrata in carica dell’odierno gabinetto Netanyahu non sono però mancate critiche e condanne alle iniziative russe. Come l’accusa di crimini di guerra lanciata contro Mosca nell’aprile 2022 da Yair Lapid, ministro degli Esteri all’epoca prima di diventare premier nel luglio successivo 10. Israele ha quasi sempre sostenuto le risoluzioni delle Nazioni Unite, si è scagliata con forza contro le frasi ritenute antisemite pronunciate dal capo della diplomazia russa Lavrov, ha fornito equipaggiamento e aiuti umanitari a Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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8. L. ANTEBI, A. NORKIN, «One Year into the War in Ukraine: Israel’s Preparedness for the Changing Aerial Threat», inss.org, 26/2/2023. 9. D. RAKOV, «The Netanyahu Government’s Approach to Russia and Ukraine», washingtoninstitute.org, 28/2/2023. 10. M. BELEN’KAJA, «Izrail’ razo0aroval Ukrainu» («Israele ha deluso lUcraina»), kommersant.ru, 16/2/2023.
ISRAELE CONTRO ISRAELE
Kiev, ma non ha mai voluto assecondare le richieste, ucraine e occidentali, di armamenti. Lo stesso Lapid, in ottobre, spiegava che l’assistenza militare all’Ucraina significherebbe oltrepassare una linea rossa, un confine invalicabile oltre il quale si metterebbe a rischio la sicurezza nazionale 11. Il No categorico si riferiva soprattutto all’invio dell’agognato sistema di difesa antimissile a corto raggio Iron Dome, che l’attuale governo Netanyahu ha dichiarato di prendere in considerazione. Al netto della confusione che aleggia intorno a quali armamenti Israele avrebbe spedito, non spedito o promesso a Kiev, restano le pressioni che Washington ha da subito esercitato sul nuovo esecutivo per spingerlo dalla parte ucraina. Insistenza che ha sortito i suoi effetti. A inizio anno il nuovo ministro degli Esteri Eli Cohen ha preferito chiamare prima il suo omologo russo invece che quello ucraino, scatenando le ire di molti. Poi, dopo la visita in Israele di Blinken e i suggerimenti arrivati da Washington, il capo della diplomazia israeliana vola a Kiev nel suo primo viaggio ufficiale. Qui conferma che Gerusalemme sosterrà il piano di pace ucraino, vorrà aiutare il paese nella ricostruzione e considererà sempre Teheran un nemico comune 12. Avversario che rifornisce Mosca di droni da combattimento, cosa che convince il suo governo – riporta Cohen agli interlocutori ucraini – ad autorizzare due importanti società israeliane alla vendita a Kiev di sistemi antidrone. Modo anche per testarne l’efficacia contro quelli iraniani 13. Ma nessuna apertura alla fornitura di armamenti offensivi, né del tanto richiesto sistema di difesa Iron Dome. Il nuovo esecutivo non vuole scontri con la Russia, soprattutto sui cieli siriani dove Israele ha bisogno di libertà d’azione per colpire obiettivi iraniani. Certo, sostiene sovranità e integrità territoriale ucraine e vota a favore di una risoluzione adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per chiedere alla Russia di riportare i suoi militari a casa. Ma non prende una posizione ferma, agevolato da un’opinione pubblica «distratta» dai seri problemi interni e da una minoranza russa, ed ex sovietica, divisa al suo interno tra chi appoggia e chi osteggia la guerra di Putin. 4. Le sorti del conflitto in Europa, oltre a poter compromettere il delicato equilibrio che Mosca e Gerusalemme hanno raggiunto sul dossier iraniano in terra di Siria, rischiano di spuntare uno degli strumenti d’influenza sul quale il Cremlino ha sempre cercato di fare affidamento, la diaspora russa in Israele. Fattore che non poco ha contribuito allo sviluppo delle relazioni tra i due paesi e che la nuova ondata di arrivi in Terrasanta può compromettere. Al milione e oltre di russi arrivati dopo la caduta dell’Unione Sovietica, se ne aggiungono altre migliaia in fuga dalla guerra. Secondo i dati distribuiti dalla Knesset a un anno dall’invasione i nuovi immigrati dalla Russia ammontano a più di 40 mila, con oltre 13 mila arrivaCopia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
11. I. ŽUKOVSKIJ, «Netanyahu rassmatrivaet postavki Kievu sistem “Železyj kupol”» («Netanyahu valuta la consegna del sistema Iron Dome a Kiev”), gazeta.ru, 1/2/2023. 12. M. . BELEN’KAJA, op. cit. 13. B. RAVID, «Scoop: Israel approves export licenses for anti-drone systems for Ukraine», axios.com, 15/3/2023.
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ti dall’Ucraina e circa 2 mila dalla Bielorussia. Numeri pressoché raddoppiati rispetto al 2021 14, mentre sono in declino gli arrivi dai paesi occidentali 15. Quella seguita allo scoppio della guerra contro Kiev è diversa dalla diaspora di inizio anni Novanta, nei numeri e nelle motivazioni. Oggi in molti sono fuggiti dalla mobilitazione imposta per rimpolpare le file dell’esercito russo, tanti in pieno disaccordo con le scelte del Cremlino. Tra loro intellettuali, ricchi uomini d’affari, figure di spicco della politica russa come Anatolij 9ubajs o artisti del calibro di Alla Puga0ëva. Il mito della canzone prima sovietica e poi russa si è rifugiata in Israele dopo aver criticato l’invasione dell’Ucraina insieme al marito, l’umorista e personaggio tv Maksim Galkin, bollato in patria «agente straniero» 16. E che ora si guadagna da vivere tenendo spettacoli davanti alle diaspore di lingua russa in giro per il mondo 17. A dispetto, sembrerebbe, di quanto affermato dal già presidente russo Dmitrij Medvedev sicuro che gli artisti che non hanno sostenuto l’operazione militare speciale e lasciato la Russia hanno perso più di quanto guadagnato, e rimasti senza pubblico in molti torneranno indietro 18. Per ora rimpinguano le file di una diaspora non proprio in linea con le strategie patrie. Mosca cerca di controllarle ostacolando le attività dell’Agenzia ebraica presente nella Federazione, organizzazione che incoraggia la migrazione degli ebrei russi verso Israele. Dal luglio scorso il Cremlino ne minaccia la chiusura con il duplice scopo di frenare la migrazione da un paese già alle prese con un grave deficit demografico e per di più in guerra, dunque che necessita all’occorrenza di forze fresche e soprattutto di tenere sulla corda le autorità israeliane. L’accusa è di violare le norme sugli «agenti stranieri» e trattare illegalmente i dati personali, cosa che ha portato a una drastica riduzione delle attività dell’Agenzia in Russia e in tutti i paesi dell’ex Unione Sovietica, tranne l’Ucraina 19. Secondo i dati raccolti dal professor Sergio Della Pergola, la popolazione ebraica presente nella Federazione Russa nel 2021 era di circa 150 mila persone, con un calo del 25% rispetto al decennio precedente 20. Comunità variegata che conta diverse organizzazioni locali, a quanto pare in linea con le scelte del Cremlino e non proprio desiderose di lasciare il paese 21. Per andare a rimpinguare una diaspora che il conflitto in Ucraina ha ulteriormente diviso riducendo la sua valenza di strumento di pressione nelle mani di Mosca per far pendere la bilancia israeliana dalla sua parte. 14. «Thousands of Eastern-European Jews move to Israel», cne.news, 23/2/2023. 15. Z. KLEIN, «2023 sees 434% increase in aliyah from the former Soviet Union – Jewish Agency», jpost. com, 14/3/2023. 16. B. MCKERNAN, «Russian pop star who criticised Ukraine war says she is in Israel», theguardian.com, 10/10/2022. 17. O. USKOV, «SMI: Alla Puga0ëva poselilas’ na “izrailskoj Rublevke”, vsja sem’ja u0it ivrit» («Alla Puga0ëva si è stabilita sulla “Israeli Rublyovka”, tutta la famiglia impara l’ebraico»), rg.ru, 21/1/2023. 18. «Pokinuvšie RF artisty bol’še poteriali, 0em vyigrali i budut vozvraš0at’sja – Medvedev» («Gli artisti che hanno lasciato la Russia hanno perso più di quanto hanno guadagnato e torneranno – Medvedev»), ng.ru, 24/3/2023. 19. Z. KLEIN, «Jewish Agency lowers profile in Russia, less activity in FSU countries – exclusive», jpost. com, 21/2/2023. 20. «Russian Jewish population down sharply since 2010, pre-Ukraine war census indicates», timesofisrael.com, 11/1/2023. 21. D. RAKOV, op. cit. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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ISRAELE CONTRO ISRAELE
ISRAELE E GRECIA AMICI PER LA PELLE
di
Bruno CIANCI
La convergenza tra Gerusalemme e Atene è profonda, soprattutto in campo energetico. Ma il vero collante dell’intesa è la minaccia della Turchia. Dalle divergenze della guerra fredda all’attuale cooperazione militare. L’importanza simbolica di Salonicco.
L
1. O SCORSO 31 GENNAIO NIKOS DENDIAS è stato il primo ministro degli Esteri di uno Stato membro dell’Unione Europea a visitare Gerusalemme dopo la formazione del nuovo governo presieduto da Binyamin Netanyahu. In occasione di questo viaggio il ministro ellenico ha incontrato non soltanto il suo omologo Eli Cohen, ma anche lo stesso premier dello Stato ebraico, ovvero l’architetto dell’amicizia greco-israeliana sbocciata nell’estate 2010, pochi mesi dopo la grave crisi intercorsa tra Gerusalemme e Ankara per le vicende legate alla Freedom Flotilla e, più in particolare, alla nave umanitaria turca Mavi Marmara. Da allora l’amicizia greco-israeliana ha dimostrato di avere basi molto solide e un elevato grado di resistenza che né i cambi di governo né la congiuntura internazionale in continua evoluzione sono riusciti a intaccare. La convergenza di interessi di questi due paesi mediterranei si concretizza in molti campi: dal commercio all’energia e alla difesa, senza dimenticare l’informatica, l’agricoltura, il turismo, la navigazione, l’istruzione e la protezione civile. L’interscambio commerciale fa segnare numeri in forte crescita. Secondo l’Ufficio centrale israeliano di statistica (Cbs), tra il 2019 e il 2022 le esportazioni israeliane verso la Grecia sono passate da 442,6 a 670,3 milioni di dollari, facendo segnare un +51,4%, mentre le importazioni di Gerusalemme da Atene sono aumentate dell’82,7%, passando da 321,2 a 587 milioni di dollari 1. La collaborazione energetica è in grande fermento. Israele e Grecia, insieme alla Repubblica di Cipro, fanno parte del «triangolo dell’energia», un ambizioso piano di estrazione di gas naturale che si prefigge di sfruttare i giacimenti israeliani Tamar (scoperto nel 2009) e Leviathan (2010) e quello cipriota Afrodite (2011). Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
1. N. TZOGOPOULOS, «What’s Next for Israel and Greece?», The Begin-Sadat Center for Strategic Studies, 13/2/2023.
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ISRAELE E GRECIA, AMICI PER LA PELLE
Attraverso il progetto EastMed, quando e se sarà realizzato, questo gas potrà raggiungere la Grecia continentale e, con l’estensione Poseidon, l’Italia e il resto dell’Europa 2. A proposito di Europa e di Ue, Atene si sta guadagnando uno status di interlocutore tra Gerusalemme e Bruxelles, due entità che hanno relazioni spesso problematiche. La visita di Dendias a Gerusalemme dello scorso gennaio ha avuto luogo pochi giorni dopo che il presidente israeliano Yitzhak Herzog ha incontrato a Bruxelles la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen. In seguito all’invasione russa dell’Ucraina, del resto, l’importanza di Israele per l’Europa è enormemente cresciuta. Com’è noto, nel suo tentativo di ridurre la dipendenza energetica dalla Federazione Russa, l’Ue ha firmato il 15 giugno 2022 un memorandum d’intesa con lo Stato ebraico e con l’Egitto per garantire importazioni diversificate e stabili di gas naturale 3. In base all’accordo, Bruxelles si prefigge anche d’incoraggiare le aziende europee a partecipare alle gare per la concessione dei diritti di esplorazione in acque sia israeliane sia egiziane. Israele, Grecia e Cipro saranno collegati fra loro entro il 2026 anche tramite cavi elettrici sottomarini che permetteranno di trasportare energia in entrambe le direzioni. Il progetto in questione, denominato EuroAsia Interconnector, avrà una capacità di 2 mila MW e comprenderà tre collegamenti: 329 km tra Israele e Cipro, 879 km tra Cipro e Creta e, in un secondo tempo, 310 km tra Creta e la Grecia continentale, per un totale di 1.518 km. Il punto sottomarino più basso dell’infrastruttura si troverà a tremila metri sotto la superficie del mare. La prima fase del progetto, con costi di costruzione totali stimati in 1,57 miliardi di euro, ha ricevuto una sovvenzione dell’Ue pari a 657 milioni di euro e ha avuto inizio il 14 ottobre scorso 4. Nel complesso, il «triangolo dell’energia» ha contribuito enormemente al miglioramento e al consolidamento dei rapporti tra i tre paesi interessati. «Le relazioni tra Grecia, Israele e Cipro», ha detto Amikam Nachmani, politologo della Bar-Ilan University di Ramat Gan, «hanno una loro ragion d’essere, e questo a prescindere dal fatto che Netanyahu sia il primo ministro. Ci sono incontri frequenti ai massimi livelli: questi mancavano in passato, mentre sono adesso molto sentiti nel triplice rapporto» 5. 2. La collaborazione in campo militare e di intelligence è in continua evoluzione e i ministri della Difesa di Atene e di Gerusalemme si riuniscono con regolarità. La Grecia è uno degli unici tre paesi con cui Israele ha firmato un accordo sullo stato Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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2. I primi ministri di Grecia, Cipro e Israele hanno firmato l’accordo sul gasdotto EastMed ad Atene il 2 gennaio 2020. Com’è noto, Biden non ha fornito sostegno a questo progetto che, invece, era stato incoraggiato dal predecessore Donald Trump. 3. In attesa che il progetto EastMed sia realizzato, una parte del gas israeliano viene inviato tramite gasdotto agli impianti di liquefazione sulla costa mediterranea dell’Egitto, da dove viene riesportato come gas naturale liquefatto (gnl). 4. «Commission participates in launch of EuroAsia Electricity Interconnector», Commissione europea, 14/10/2022. 5. Da corrispondenza privata tra l’autore e Amikam Nachmani (15/2/2023).
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delle Forze armate (Sofa), insieme agli Stati Uniti e a Cipro. Nella fattispecie l’accordo bilaterale greco-israeliano, siglato il 19 luglio 2015 e ratificato dalla Knesset il 20 novembre 2017 6, consente alle forze greche di essere ospitate in territorio israeliano e a quelle con lo Scudo di David di poter stazionare in territorio ellenico, come parte degli accordi militari e di sicurezza tra i due paesi. Le esercitazioni congiunte, cui occasionalmente prendono parte reparti delle Forze armate di altre nazioni alleate, sono frequenti. Nel 2014, come conseguenza della soppressione di un ufficio di addetto militare in Svizzera, le Forze di difesa israeliane (Idf) e il ministero della Difesa di Gerusalemme hanno deciso di aprire un nuovo ufficio militare permanente proprio in Grecia per soddisfare una necessità divenuta impellente 7. Dal 2019 le Forze armate di Atene fanno uso di droni Heron di fabbricazione israeliana. A gennaio 2021 i due paesi hanno siglato un accordo da 1,65 miliardi di dollari 8, il più importante della loro storia, che include l’acquisizione di velivoli da addestramento Leonardo M-346 per il tramite della Elbit Systems di Haifa e la creazione di un centro per l’addestramento dei piloti in Grecia modellato su quello dello Stato ebraico. L’accordo include l’aggiornamento, la manutenzione degli addestratori in uso all’Areonautica ellenica, la fornitura di simulatori e l’addestramento di piloti, oltre a supporto logistico e cooperazione tra le rispettive accademie dell’aria. Lo scorso ottobre il centro in questione ha avviato le attività a Kalamata, nel Peloponneso, e sarà interamente operativo entro il 2024 9. Stando a quanto riportato il 1° luglio 2022 dal quotidiano greco Ekathimerini, Atene avrebbe allestito segretamente nel corso del 2022 un vero e proprio ombrello contro i droni turchi 10. Prodotto e creato dalla Rafael Advanced Defense Systems di Haifa – azienda che non fornisce informazioni sui propri clienti e che pertanto non conferma la fornitura – questo sistema C-Uas11 avrebbe caratteristiche simili a quelle del Drone Dome di Gerusalemme, ma adattato alle specificità geografiche della Grecia insulare e continentale. Com’è noto il Drone Dome è in grado di bloccare i sistemi di comunicazione e il segnale Gps e, se necessario, di neutralizzare i droni anche per mezzo di un laser da 10kW efficace fino a oltre tre chilometri di distanza. È più recente la firma di un nuovo accordo di fornitura di armamenti made in Israel. Dopo un ritardo di alcuni mesi dovuto a un disaccordo con la propria leadership militare che ne aveva fatto slittare la firma, alcuni media hanno riportato che il Consiglio governativo per gli affari esteri e la difesa (Kysea) 12, sotto la presiCopia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
6. «Israel: Implementation of Status of Forces Agreement with Greece», Library of Congress, 21/12/2017. 7. Fino all’aprile 2014 l’addetto militare in Italia era responsabile anche delle transazioni e dei rapporti di sicurezza in Grecia. 8. D. GATOPOULOS, «Israeli-built flight school takes off in Greece, as Athens seeks edge over Ankara», The Times of Israel, 21/10/2022. 9. T. KOKKINIDIS, «Greece and Israel Open Flight school in Kalamata», Greek Reporter, 21/10/2022 10. V. NEDOS, «Anti-drone umbrella over the islands», Ekathimerini, 1/7/2022. 11. C-Uas è l’acronimo di Counter-Unmanned Air System. 12. Il Kysea è l’organo decisionale supremo in materia di politica estera e difesa nazionale della Repubblica Ellenica. È stato istituito su iniziativa del premier socialista Andreas Papandreou nel 1986. D’ufficio, il presidente del Kysea è il primo ministro in carica.
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denza del primo ministro Kyriakos Mitsotakis, avrebbe deciso di procedere con l’acquisto di missili Spike Nlos 13 della Rafael per equipaggiare le Forze armate greche, una fornitura da 335 milioni di euro, di cui 280 per l’Esercito e 55 per la Marina 14. Quest’ultima impiegherebbe i sistemi a bordo di quattro pattugliatori veloci del tipo MK V e su altrettante cannoniere della classe Machitis: le unità Nikiforos, Aittitos, Krateos e, appunto, Machitis. La Grecia può poi imparare molto da Israele in tema di minacce informatiche e ibride. Nella percezione di Atene il paradigma dello Stato ebraico, piccolo e storicamente minacciato da vicini ostili, può ispirare la Grecia nella quasi obbligata rivisitazione della propria dottrina di sicurezza nazionale e – alla luce dell’accordo che Israele ha siglato con il Libano nell’ottobre 2022 – fornire più di uno spunto per appianare le divergenze legate ai confini e alla sovranità marittima che la oppongono al vicino turco, dal quale si sente costantemente «bullizzata» e, a torto o a ragione, minacciata nella sua esistenza. L’attuale congiuntura vede Gerusalemme e Ankara protagoniste di un tentativo di riavvicinamento diplomatico. Sebbene la fiducia reciproca non sia ancora stata ristabilita (e con Recep Tayyip Erdoãan e Binyamin Netanyahu al potere non è nemmeno detto che il processo possa andare a buon fine), questo atteggiamento israeliano ha generato perplessità, per non dire vera e propria preoccupazione, dalle parti di Atene. Noam Katz, l’ambasciatore israeliano nella capitale ellenica, ha precisato lo scorso dicembre che «i rapporti tra la Grecia e Israele rimangono strategici e non saranno influenzati dai continui sforzi di Gerusalemme di normalizzare i rapporti con la Turchia» 15. Il 27 gennaio, sempre da Atene, Katz ha assicurato nel corso di un evento pubblico che «le relazioni bilaterali tra Grecia e Israele sono attualmente in uno dei loro punti più alti e continueranno a evolversi» 16. 3. Tuttavia, i rapporti tra Israele e Grecia sono stati storicamente travagliati. Il pieno riconoscimento diplomatico è relativamente recente ed è frutto di un percorso tortuoso giunto a maturazione solo nel 1990, quando il primo ministro ellenico era il conservatore Konstantinos Mitsotakis (1918-2017), padre dell’attuale premier Kyriakos. La tradizione giudaica ritrae gli ellenisti come malvagi prevaricatori. Ogni anno, in occasione della festa di Hanukkah, gli ebrei celebrano le vittorie dei Maccabei sul sovrano seleucide Antioco Epifane che, dopo avere saccheggiato Gerusalemme nel II secolo a.C., si adoperò in modo alacre per cancellare l’indipendenza e l’identità del popolo ebraico nel suo sforzo di ellenizzazione dei domini mediorientali. Durante i lunghi secoli della diaspora, la memoria della resistenza e delle gesta dei Maccabei divennero fonte di orgoglio, ispirazione e speranza. Più tardi, nel 1896, Theodor Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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13. Nlos sta per «Non-Line-Of-Sight». 14. E. BOGUSLAVSKY, «Rafael’s Spike missile deal with Greece expected to be signed next month», Israel Defense, 10/1/2023. 15. V. NEDOS, «Israel-Greece ties ‘not impacted’ by Turkey», Ekathimerini, 13/12/2022. 16. A. BUREAU, «Greece-Israel relations at their highest point, says Ambassador Noam Katz», greekcitytimes.com, 30/1/2023.
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Herzl scrisse nel saggio-manifesto Der Judenstaat che «i maccabei risorgeranno e gli ebrei che desiderano uno Stato lo avranno», incorporando quindi l’antica resistenza ebraica al giogo ellenista nella narrazione della rinascita nazionale. Qualcuno ha asserito che tra le affinità che accomunano gli ebrei e i greci siano da annoverare presunte analogie tra il sionismo e la Megali Idea, il concetto-manifesto del nazionalismo greco ottocentesco e protonovecentesco. In realtà, se si considera che lo scritto di Herzl aveva un’impronta marcatamente socialista e collettivista e che la «Grande Idea» dei greci, spazzata via dalla rivoluzione kemalista, sopravvive oggi solo tra i seguaci di Alba dorata e nei cuori di altri nazionalisti e nostalgici, il paragone ideologico fa sorridere. Ciò detto, alcune affinità tra i due popoli si possono trovare: gli ebrei di Palestina e i greci, per esempio, hanno vissuto entrambi sotto la dominazione ottomana, hanno conosciuto la discriminazione e hanno avuto diaspore significative, sotto il profilo sia numerico sia culturale. Tra i greci che hanno dovuto lasciare le terre natie sono da segnalare quelli dell’Asia Minore, scappati durante la rivoluzione di Mustafa Kemal, quelli che hanno lasciato la Turchia dopo il pogrom di Istanbul del 1955 e quelli che hanno abbandonato la parte Nord di Cipro dopo l’occupazione turca nel 1974. La Grecia è stata per almeno duemila anni la sede di una fiorentissima comunità ebraica. A quella più antica, detta romaniota, si sono aggiunti alla fine del XV secolo molti ebrei sefarditi cacciati dalla Penisola iberica che trovarono in Salonicco un rifugio. La città divenne talmente importante per l’ebraismo da guadagnarsi il soprannome di «Madre di Israele». Durante la seconda guerra mondiale, però, la comunità ebraica di Salonicco fu tragicamente annientata e il collaborazionismo di molti greci contribuì ad alimentare una forte diffidenza nei loro confronti da parte degli ebrei, una sfiducia che la posizione greca ai tempi della nascita dello Stato di Israele non ha contribuito affatto a mitigare 17. Quando l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite votò la risoluzione 181 che sanciva la divisione della Palestina in due entità (29 novembre 1947), la Grecia fu l’unico Stato membro a maggioranza cristiana, insieme a Cuba, a votare contro il progetto di spartizione. Le ragioni di questo atteggiamento, però, non vanno ricercate nei vecchi contrasti, ma nelle priorità di coloro che negli anni Quaranta del secolo scorso costituivano l’élite imprenditoriale greca: gli armatori della flotta mercantile ellenica. Non danneggiare le vie di comunicazione marittime – Canale di Suez in primis – e più in generale le relazioni con il mondo arabo, fornitore di petrolio di Atene oltre che importante mercato per i prodotti agricoli greci, divenne il credo che condizionò l’atteggiamento della Grecia verso Israele per decenni a venire. In Medio Oriente, peraltro, operavano numerosi uomini d’affari greci; vi si trovava anche una comunità greco-ortodossa numerosa sulla quale pendeva la spada di Damocle dell’espulsione e delle vessazioni: una ragione in più per non creare attriti con le classi dirigenti arabe e non mettere a repentaglio la sicurezza e gli interessi degli espatriati 18. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
17. Si stima che a Salonicco gli ebrei fossero 53mila nel 1943, prima delle deportazioni, e che di questi ne siano stati assassinati 49 mila. 18. Gerusalemme ospita un antichissimo patriarcato greco-ortodosso, riconosciuto come tale fin dal
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In seguito all’avvento di Nasser nel 1956, una parte della comunità greca venne espulsa dall’Egitto ed espropriata dei suoi averi senza compensazione. Le relazioni tra Atene e i paesi arabi entrarono in una fase di freddezza, ma questo non si tradusse in un avvicinamento allo Stato ebraico. Al contrario, Atene continuò a non concedere il pieno riconoscimento diplomatico a Israele, dove manteneva un consolato e non ancora un’ambasciata. Sull’atteggiamento greco verso Israele pesarono pure considerazioni dettate dai rapporti di collaborazione allora già in essere tra lo Stato ebraico e la Turchia, oltre alla politica dell’enosis (unione) che Atene – contro la volontà di Londra, Washington e ovviamente Ankara – intendeva perseguire nei confronti dell’allora colonia britannica di Cipro19. Dopo la guerra dei Sei giorni e il colpo di Stato dei colonnelli, che portò la sospensione dei diritti civili e costrinse all’esilio la famiglia reale, Atene votò una mozione presentata dalla Jugoslavia di Tito che chiedeva la restituzione incondizionata dei territori occupati da Israele nel recente conflitto. Tra il 1968 e il 1973, nonostante la perdurante politica filo-araba della Grecia, lo scalo aeroportuale di Atene si ritrovò coinvolto in cinque azioni terroristiche palestinesi. Questi attentati, iniziati il 26 dicembre 1968 durante uno scalo ad Atene del volo El Al 253 da Tel Aviv a New York 20 e culminati con l’attacco al banco della Twa del 5 agosto 1973, alienarono agli arabi molte simpatie a livello sia politico sia popolare. Il primo effetto lo si ebbe già ai tempi della guerra del Kippur (ottobre 1973) quando Spyridon Markezinis, al quale il regime affidò l’incarico di primo ministro per gestire l’auspicato ritorno alla democrazia 21, parlò apertamente di diritto dello Stato di Israele all’esistenza. Si trattò di un passo in avanti epocale nelle relazioni bilaterali, ma di strada da fare ce n’era ancora molta. Nei primi anni della Terza Repubblica (1974), in effetti, i rapporti tra Atene e Gerusalemme si raffreddarono di nuovo. L’invasione turca di Cipro Nord e l’esodo dei greci dalla parte occupata esacerbò le tensioni con Ankara e i suoi alleati (Israele e Stati Uniti in primis) e alimentò una retorica da «popoli senza terra» che accomunava greci, palestinesi e curdi. Nel corso dei primi due mandati del premier socialista Andreas Papandreou (1981-89) 22 i rapporti tra Atene e Gerusalemme precipitarono. Irriducibile oppositore di Israele e amico della causa palestinese, Papandreou concesse ad Arafat e all’Olp lo stesso status diplomatico di cui godevano i funzionari israeliani. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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Concilio di Calcedonia del 451 e che costituisce uno dei cinque patriarcati della pentarchia riconosciuti da Giustiniano nel VI secolo. 19. Con il trattato di Zurigo e Londra (1959-60) si giunse al compromesso dell’indipendenza dell’isola, con Regno Unito, Grecia e Turchia nel ruolo di potenze protettrici. I britannici mantengono ancora oggi sull’isola mediterranea le basi di Akrotiri e Dhekelia. 20. «El Al Flight Attacked in Athens», Center for Israel Education, 25/12/2022. 21. Markezinis accettò l’incarico dopo avere ricevuto garanzie di non interferenza da parte dei militari, ma rimase in carica meno di due mesi. Fu deposto da un nuovo colpo di Stato ordito da Dimitrios Ioannidis. 22. La famiglia Papandreou ha dato tre primi ministri alla Grecia: Georgios (1888-1968), suo figlio Andreas (1919-96) e il nipote Giorgos (n. 1952).
ISRAELE CONTRO ISRAELE
4. Nel 1990, con il ritorno al governo dei conservatori di Nea Dimokratia (Nuova democrazia) e con un mondo che non era più lo stesso, i rapporti tra Atene e Gerusalemme trovarono terreno fertile. Il governo di Konstantinos Mitsotakis riconobbe Israele e stabilì piene relazioni diplomatiche. Di lì a poco il primo ambasciatore greco si insediò a Tel Aviv. Sotto gli esecutivi socialisti degli anni 1993-2004 le relazioni continuarono a migliorare, anche grazie alla presa di distanze dal terrorismo di matrice araba e palestinese e al miglioramento delle relazioni tra Atene e Washington, e lo fecero con maggiore velocità e intensità dopo la definitiva uscita di scena di Papandreou, quando il governo fu nelle mani del più malleabile Kostas Simitis. Si intensificarono anche i legami di natura culturale e commerciale: l’interscambio raddoppiò tra il 1989 e il 1995, anno in cui Israele esportò verso Atene prodotti chimici e petroliferi per circa 200 milioni di dollari; nello stesso periodo beni alimentari, cemento e altri materiali da costruzione greci per 150 milioni di dollari fecero il percorso inverso 23. A dicembre 1994 fu firmato anche il primo accordo di collaborazione militare tra Atene e Gerusalemme, ma ragioni di opportunità spinsero le due parti a procrastinarne l’applicazione per non alienare i rapporti in essere, rispettivamente, con il mondo arabo e con Ankara. Il raffreddamento nelle relazioni tra Ankara e Gerusalemme ha portato Israele a sviluppare legami politici, militari ed economici sempre più stretti con Atene, sfociati negli accordi di collaborazione e di fornitura di armamenti già descritti. Nell’agosto 2010 – quattro anni dopo la visita del presidente Moshe Katzav ad Atene – Netanyahu è diventato il primo premier di Gerusalemme a recarsi in visita ufficiale in Grecia. Durante il viaggio, il capo del governo israeliano ha discusso con la sua controparte greca, il socialdemocratico Giorgos Papandreou (figlio di Andreas), della possibilità di sviluppare legami strategici e gettare le basi per una cooperazione tra le Forze armate. Tale collaborazione è sfociata nel 2012 in esercitazioni che simulavano la difesa di installazioni preposte all’estrazione di gas naturale in un momento di tensioni tra Nicosia e Ankara. Complessivamente, tra il 2010 e il gennaio 2023, sono avvenute oltre venti visite ufficiali in Grecia o in Israele tra capi di Stato, capi di governo, ministri o viceministri dei due paesi. Uno sviluppo significativo nelle relazioni bilaterali ha portato all’adozione da parte di Atene di un provvedimento legislativo dall’elevato valore simbolico: la legge 4018 del 30 settembre 2011 che consente ai sopravvissuti dell’Olocausto e ai loro discendenti di riottenere la cittadinanza ellenica. Un provvedimento che ricuce almeno in parte la ferita rappresentata del collaborazionismo di molti greci in tempo di guerra. Nel giugno 2017 Netanyahu si è recato in visita anche a Salonicco, presso la locale sinagoga Monastir, e ha incontrato la delegazione della comunità ebraica della città macedone, martire e simbolo delle atrocità naziste. Nel giugno 2020 il primo ministro ellenico Kyriakos Mitsotakis si è recato in Israele. Nel corso del suo secondo giorno di visita, a Gerusalemme, il premier ha Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
23. J. NOMIKOS, «Israel International Relations: Greece-Israel Relations», Jewish Virtual Library, 2017.
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ISRAELE E GRECIA, AMICI PER LA PELLE
visitato lo Yad Vashem, il memoriale della Shoah, dove ha reso omaggio al nome di una sua parente che figura nell’elenco dei «giusti tra le nazioni», accanto a quello di altri greci non ebrei che hanno messo a repentaglio la propria vita in tempo di guerra per dare rifugio ai perseguitati. «Per me», ha detto Mitsotakis, «è molto importante essere qui e onorare la memoria di Evangelia Georgiadou poiché il suo nome onora tutti i greci». Un modo, forse, per lasciarsi alle spalle per sempre le diffidenze di un tempo e, soprattutto, gli orrori che ebbero inizio a Salonicco, la «Madre di Israele».
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ISRAELE CONTRO ISRAELE
ISRAELE E SUDAN SI USANO NEL MAR ROSSO
di
Luciano POLLICHIENI
Il tentativo di normalizzare i rapporti diplomatici è in linea con i piani regionali di Gerusalemme. Khartûm vuole mostrarsi utile alla stabilità del Corno d’Africa, attingere al know-how dello Stato ebraico e ottenere aiuti dagli Usa. Storia di un dialogo altalenante.
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1. UDAN E ISRAELE STABILIRANNO PIENE relazioni diplomatiche. Lo ha affermato il presidente del Consiglio sovrano sudanese ‘Abd al-Fattåõ al-Burhån, che lo scorso febbraio ha incontrato il ministro degli Esteri dello Stato ebraico Eli Cohen per dare seguito al percorso di normalizzazione delle relazioni bilaterali. L’accordo dovrebbe essere firmato entro fine anno, dopo che a Khartûm i militari trasferiranno il potere a un governo civile. Non è la prima volta che i due paesi progettano la distensione. Già dopo il collasso del regime di ‘Umar al-Bašør, la nomenklatura sudanese aveva ipotizzato di riconoscere formalmente Israele. Per inciso, secondo alcuni anche il deposto al-Bašør voleva fare altrettanto. Insomma, l’esito della vicenda non è scontato. A ogni modo, la normalizzazione dei rapporti israelo-sudanesi fa parte del più ampio processo di conciliazione tra Stato ebraico e paesi arabi dopo gli accordi di Abramo e può produrre conseguenze significative nel quadrante strategico compreso tra Levante e Corno d’Africa. Del resto, negli ultimi sessant’anni il livello di sofisticatezza che ha caratterizzato l’interazione tra Gerusalemme e Khartûm non è stato inferiore a quello delle relazioni di quest’ultima con i paesi del Golfo o con gli Stati Uniti 1. Senza contare che gli apparati di Israele e Sudan attribuiscono storicamente una grande rilevanza strategica al loro dialogo. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
2. Sin dalla sua proclamazione, lo Stato ebraico assegnò un forte valore ideologico al rapporto con l’Africa facendo leva sul tema del colonialismo e della schiavitù 2. Ad esempio, Theodor Herzl nel suo romanzo-manifesto intitolato Altneuland traccia un legame netto tra il trattamento dei neri e il sionismo: «Pensate agli orrori 1. J. ABADI, «Israel and Sudan: The Saga of an Enigmatic Relationship», Middle Eastern Studies, vol. 35, n. 3, 1999, pp. 19-41. 2. A. ODED, «“Africa” in Israeli Foreign Policy. Expectations and Disenchantment: Historical and Diplomatic Aspects», Israel Studies, autunno 2010, p. 125.
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della tratta degli schiavi – esseri umani rapiti e venduti solo a causa del colore nero del loro corpo. I loro figli sono cresciuti in un ambiente straniero, disprezzati e umiliati solo per il colore del loro volto. (…) Ora che vedo il rivivere della nazione ebraica; avrei il piacere di prendere parte e assistere al processo di redenzione e di rinascita del popolo nero» 3. Il nesso ideologico e storico tra diaspora ebraica e nera e tra schiavitù e persecuzioni evidenziato da Herzl segnerà il pensiero dei fondatori dello Stato ebraico. Commentandone i primi sforzi umanitari in Africa dopo che quest’ultimo fu proclamato nel 1948, il primo ministro Ben-Gurion disse: «A Israele è stato garantito il privilegio storico, che è anche un dovere, di aiutare a risolvere il più grave problema del XX secolo – il problema centrale dell’umanità del nostro tempo – quello del pericoloso divario tra Asia e Africa da una parte ed Europa, America e Australia dall’altra» 4. Anche un altro primo ministro israeliano, Golda Meir (che dedicò all’Africa un intero capitolo delle sue memorie) affermava: «La verità è che abbiamo fatto quel che abbiamo fatto in Africa non perché consistesse in una politica sensata a tutela dei nostri interessi ma perché era la continuazione delle nostre tradizioni più alte e un’espressione dei nostri più profondi istinti storici» 5. Complice la capacità dello Stato ebraico di presentarsi come a sua volta post-coloniale, queste motivazioni ideologiche riscossero successo anche tra le élite africane 6. Al punto che alcune furono protagoniste del cosiddetto afrosionismo 7. Non è un caso che Israele avesse aperto una missione consolare in Ghana nel 1956, due anni prima che diventasse indipendente dalla Gran Bretagna. Né che i rappresentanti del corpo diplomatico israeliano fossero presenti alle celebrazioni di quell’evento alla presenza di Kwame Nkrumah, padre fondatore del movimento anticoloniale e primo presidente ghanese. La sintonia ideologica ebbe risvolti pratici sin dai primi anni dell’esistenza di Israele. Innanzitutto grazie ai programmi dell’Agenzia per la cooperazione allo sviluppo internazionale del ministero degli Esteri (Mashav), che tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta divenne uno dei principali uffici del dicastero, con due terzi delle sue risorse umane e finanziarie impegnate in Africa. Nell’arco di tempo tra la proclamazione dello Stato ebraico e la guerra dello Yom Kippur (6-25 ottobre 1973), Israele fu responsabile della formazione di diverse centinaia di tecnici nel continente e qui avviò iniziative in campo agricolo e industriale. Al di là del proposito umanitario, quelle attività facevano parte delle operazioni svolte per assicurare la sopravvivenza dello Stato ebraico. Circondata da paesi ostili, la cosiddetta «villa nella giungla» aveva bisogno di alleati e soprattutto voleva rompere quello che percepiva come un accerchiamento posto in essere dai vicini arabi. I rapporti con le nascenti statualità africane erano funzionali a entrambi gli obiettivi. Di qui la formulazione della cosiddetta alleanza della periferia, che Ben-Gurion illustrava così al Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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3. T. HERZL, Altneuland: The Old-New Land, Cabin John 2009, Wildside Press p. 54. 4. Citato in A. BELMAN IBAL, S. ZAHAVI, Rise and Fall of Israel’s Bilateral Aid Budget, Tel Aviv 2009, Tel Aviv University, p. 21. 5. G. MEIR, My Life, London 2020, Orion Publishing Group, p. 267. 6. Y. GIDRON, «Kwame Nkrumah and Israel», africaisacountry.com, 2/6/2021. 7. A. ODED, op. cit., p. 128.
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futuro ambasciatore d’Israele in Ghana Ehud Avriel: «Dobbiamo rompere l’accerchiamento da parte dell’ostile mondo arabo e creare ponti con le nazioni emergenti del continente nero» 8. In pratica, lo Stato ebraico attribuiva ai paesi del Corno d’Africa un ruolo geostrategico in virtù della loro collocazione sul Mar Rosso e in prossimità del Canale di Suez, anello di congiunzione tra Mediterraneo e Oceano Indiano. La necessità di tale progetto fu confermata prima dalla conferenza afroasiatica di Bandung del 1957 (al termine della quale 14 paesi adottarono una risoluzione di totale supporto alla causa palestinese) e poi da quella sull’Unità Africana di Casablanca del 1961. Quest’ultima confermò il sostegno alla Palestina nonostante il riserbo di diversi capi di Stato, come il presidente della Costa d’Avorio Felix Houphouët-Boigny. 3. Le relazioni con il Sudan furono condizionate dall’altissimo livello di instabilità geopolitica africana. Quando Khartûm dichiarò l’indipendenza, Israele fece leva sul dossier egiziano per costruire rapporti importanti con l’élite sudanese. Il Cairo voleva controllare il Sudan e le linee marittime verso lo Stato ebraico. Questo aspetto divenne evidente con il caso del Dimavo, il battello commerciale italiano fermato nel 1950 dalle autorità egiziane a Porto Sudan e costretto a trasbordare il proprio carico diretto verso il territorio israeliano come forma d’implementazione dell’embargo deciso dai paesi arabi all’indomani del conflitto del 1948 9. Quella vicenda mise in luce l’approccio imperialistico degli egiziani, che consideravano il Sudan come una propria appendice geopolitica. Inoltre, la capacità dei nemici di Gerusalemme di chiudere le rotte marittime di interesse israeliano divenne palese. Il nascente movimento indipendentista sudanese, coalizzatosi intorno al partito dell’Umma, guardava con crescente preoccupazione al progetto egiziano di «unificazione della valle». Perciò già dal 1956, grazie alla mediazione di Londra, il partito strinse relazioni cordiali con lo Stato ebraico in funzione anti-egiziana 10. Il governo guidato da ‘Abd ‘Allåh Œaløl mantenne legami positivi con Israele convinto che ciò avrebbe agevolato i rapporti con gli Stati Uniti. Le buone relazioni con gli indipendentisti sudanesi erano parte dell’alleanza della periferia e furono portati avanti in triangolazione con quelli ottimi intessuti con il reinstaurato imperatore etiope Hailé Selassié 11. In pratica, il triangolo con Khartûm e Addis Abeba serviva a Israele per avere accesso allo Stretto di Båb al-Mandab. Quindi per aggirare la politica proattiva degli Stati arabi e dei loro alleati nel Corno d’Africa, uno su tutti la Somalia. Prima dello scoppio della guerra di Sei giorni, grazie alla mediazione di Selassié, gli israeliani cercarono di ufficializzare l’alleanza delle periferie tramite la sigla di un trattato di difesa collettiva. Tuttavia non vi riuscirono a causa del colpo di Stato in Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
8. Cit. in ivi, p. 123. 9. G.R. WARBURG, «The Sudan and Israel: An episode in bilateral relations», Middle Eastern Studies, vol. 28, n. 2, 1992. 10. J. ABADI, op. cit., p. 21. 11. M.B. BISHKU, «Israel and Ethiopia: From a Special to a Pragmatic Relationship», Journal of Conflict Studies, vol. 14, n. 2, 1994.
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Petroleum Dock ‘Atāqa Adabiya
EGITTO
Fonte: The Africa Report
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EGITTO
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Golfo di Suez
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SUDAN
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Assab base militare E.A.U.
Massawa ERITREA
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Eilat ‘Aqaba al-T.ūr South Camp Šarm al-Šayh ˘ D.ubā
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Basi militari aeronavali Usa, Cina, Italia, Francia, Giappone
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MAR ROSSO: BURRO E CANNONI
ARABIA SAUDITA
IRAQ
QATAR
Golfo di Suez
ISRAELE E SUDAN SI USANO NEL MAR ROSSO
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Sudan, che portò alla deposizione di Œaløl. Malgrado la collaborazione tra le rispettive élite proseguisse, questo evento e l’ascesa dei successivi regimi militari fecero emergere tensioni e diffidenza reciproca. Durante la guerra dei Sei giorni (5-10 giugno 1967), che rappresentò la prima crisi strutturale nelle relazioni tra lo Stato ebraico e quelli africani, i militari sudanesi ricorsero a una retorica fortemente anti-israeliana e si avvicinarono alla sfera d’influenza araba. Inoltre, appoggiarono l’embargo contro Israele, si coordinarono maggiormente con Egitto e Siria nell’ottica del progetto della Federazione Araba e infine garantirono al Cairo la possibilità di installare alcune basi militari sul proprio territorio 12. Nel 1967 si svolse la conferenza di Khartûm (quella dei «tre no» in merito alla pace, ai negoziati e al riconoscimento dello Stato ebraico) e durante la guerra dello Yom Kippur il regime di Ãa’far al-Nimayrø inviò addirittura una brigata di fanteria per combattere a fianco dell’Egitto che, ironicamente, non arrivò in tempo sul campo di battaglia. La diffidenza reciproca emerse con maggiore rilevanza dopo il colpo di Stato contro Khalil. In quel periodo, l’intelligence israeliana e il ministero degli Esteri coltivarono con particolare cura i rapporti con l’Anyanya, il movimento indipendentista del Sudan meridionale poi armato e finanziato per mettere sotto pressione i militari panarabi di Khartûm. Dopo lo scoppio della guerra dei Sei giorni e di quella dello Yom Kippur, Israele tentò costantemente di destabilizzare il Sudan finanziando diversi movimenti antigovernativi affinché scatenassero delle guerre interne 13. Dopo il 1973, la maggior parte degli Stati del continente ruppe le relazioni diplomatiche con Israele. La cooperazione allo sviluppo con quest’ultima fu bandita e il budget della Mashav fu dimezzato. Tuttavia gli apparati israeliani e sudanesi continuarono a collaborare strettamente 14. Per esempio, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta Ariel Sharon lanciò un progetto per la deposizione dell’ayatollah iraniano Khomeini che prevedeva l’addestramento di un esercito pro scià in Sudan grazie al finanziamento saudita. Sul Monte Kenya, Sharon e Begin si accordarono con al-Numayrø e ‘Umar Muõammad al-¡ayyib (capo dell’intelligence di Khartûm), ma poi il piano fu abbandonato 15. Inoltre, tra il 1979 e il 1985 il Sudan giocò un ruolo di primo piano nell’esfiltrazione dei membri della comunità ebraica nera residenti in Etiopia (i cosiddetti «Beta Israel» o falascia) 16. Il Sudan accolse i falascia nei propri campi profughi e poi li fece partire per Israele. La collaborazione durò fino a quando la stampa non la rese pubblica, mettendo in imbarazzo il regime di al-Numayrø. Il ruolo centrale avuto dall’Etiopia di Menghistu Hailé Mariam nell’emigrazione dei falascia dimostra che l’alleanza della periferia sopravvisse alla crisi Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
12. J. ABADI, op. cit., p. 24. 13. R. TAWFIK, «Sudan’s Normalization with Israel: A Break with the Past or Another Phase of Extraversion?», African Studies Review, dicembre 2022, p. 889. 14. B. AUGÉ, Israel-Africa Relations: What Can We Learn from the Netanyahu Decade?, Institut Française de Relations Internationales, novembre 2020. 15. A. SHARON, D. CHANOFF, Warrior: The Autobiography of Ariel Sharon, New York 1989, Simon&Schuster. 16. Y. RONEN, «Israel’s Clandestine diplomacy with Sudan», in C. JONES, T.T. PETERSEN, Israel’s Clandestine Diplomacies, Oxford 2013, Oxford University Press.
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diplomatica dello Yom Kippur. Anche durante il regime di al-Bašør, il nemico perfetto nell’immaginario israeliano, la cooperazione tra apparati non cessò del tutto. Nel 1993 vi furono ripetuti contatti tra le intelligence dei due paesi per dirimere questioni di rilievo come il miglioramento delle relazioni tra Khartûm e Washington e la riduzione del supporto israeliano ai separatisti nel sud del Sudan. Tuttavia, negli anni del regime di al-Bašør i toni tra le due parti si inasprirono. Soprattutto a causa delle attività della componente religiosa del regime (quella facente capo all’imam Õasan al-Turåbø), che culminarono poi in un temporaneo avvicinamento di Khartûm all’Iran nell’ambito di un proporzionale allontanamento dalle principali potenze arabo-sunnite. Tuttavia, gli ultimi giorni del regime di alBašør coincisero con un cambiamento di questa postura. Il Sudan supportò le potenze del Golfo nella guerra contro gli agenti di prossimità di Teheran in Yemen. Inoltre, gettò le basi per un ritorno a un approccio più costruttivo con i partner arabi e per una relazione più distesa con Israele 17. 4. Oggi il Sudan ha un grande potenziale economico inespresso. Inoltre, è instabile e isolato. Quest’ultima condizione è dovuta alle scelte di politica estera del regime di al-Bašør, ai rapporti ambigui intrattenuti da al-Turåbø con le principali organizzazioni terroristiche internazionali (al-Qå‘ida in primis) 18 e alla repressione attuata dai militari di Khartûm contro il governo civile a seguito della defenestrazione di ‘Abd Allåh Õamdûk nel 2021. In questo contesto, le relazioni con Israele sono un argomento dirimente. I vertici del Consiglio sovrano del Sudan (impersonati dal presidente al-Burhån e dal vicepresidente ed ex capo dei miliziani ãanãåwød Muõammad Õamdån Daqalû «Õumaydatø») sono favorevoli a una distensione nei confronti dello Stato ebraico, considerato funzionale al miglioramento dei rapporti con Washington e a una collaborazione con Gerusalemme nei settori della sicurezza e della difesa 19. Invece gli apparti civili del governo auspicano una postura più cauta rispetto alla ripresa delle relazioni con Israele. Bisogna infatti ricordare che prima di essere defenestrato il primo ministro Õamdûk pose un freno alla distensione con lo Stato ebraico. Senza contare che la popolazione sudanese, giovane e sempre più istruita, è cresciuta a pane e antisionismo nel corso dei decenni. Perciò fatica ad accettare il processo di normalizzazione con quello che a lungo è stato presentato come uno dei principali nemici del proprio paese. Questo sentimento influenza ancora l’opinione pubblica. Basti pensare a quando al-Bašør si è rivolto al Gruppo Wagner per condurre una campagna di contropropaganda ai danni delle opposizioni che ne chiedevano le dimissioni. I mercenari russi diffondevano la voce secondo cui i dimostranti erano agenti israeliani e attivisti Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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17. A. LUBOTZKY, An Israeli-Sudanese Rapprochement? Context, Interests, and Implications, Moshe Dayan Center for Middle Eastern and African Studies, 2020. 18. N. MALIK, «“Is this justice?”: Why Sudan is facing a multibillion-dollar bill for 9/11», The Guardian, 26/8/2021. 19. Y. SALMAN, The Security Element in Israel-Africa Relations, Institute for National Security Studies, 2021.
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filosionisti 20. Inoltre, al di là del fattore prettamente ideologico o retorico, nell’immaginario collettivo è ancora viva l’idea di Israele come uno dei principali sponsor dei movimenti separatisti nel paese. Sentimento confermato dal fatto che Gerusalemme è stato tra i primi governi a riconoscere l’indipendenza del Sud Sudan 21. Dal canto suo, il primo ministro Binyamin Netanyahu ha bisogno di normalizzare i rapporti con il Sudan per motivi strettamente politici. La diplomazia israeliana ruota strettamente attorno agli obiettivi personali del capo del governo, ma i risultati conseguiti in Africa sono stati inferiori rispetto agli sforzi profusi. Gli Stati del continente sono restii a supportare Gerusalemme nei consessi internazionali e il tentativo di apertura del Forum Israele-Africa nel 2017 si è rivelato un fiasco. In questo frangente, «Bibi» deve dimostrare che il suo ritorno al potere non comprometterà il processo di distensione tra Gerusalemme e il resto del mondo. Sul piano simbolico, la normalizzazione dei rapporti con Khartûm sarebbe un risultato non da poco. Al premier e agli apparati israeliani non sfugge il potenziale sudanese e i benefici che potrebbero derivare da relazioni bilaterali pacifiche. Il Sudan rappresenta il grande attore incompiuto del Corno d’Africa. È un paese dall’altissimo valore geostrategico, fondamentale per gli equilibri regionali. Tuttavia non riesce a esprimere un decimo delle sue capacità. Ha un altissimo potenziale agricolo in una delle regioni più affamate del pianeta, ma negli ultimi dieci anni ha rischiato costantemente la crisi alimentare e la carestia 22. Questa è una delle ragioni per cui Khartûm vuole attingere al know-how israeliano 23. Inoltre, il rinnovato interesse per le rotte marittime passanti per il Canale di Suez ha rimesso il Sudan al centro dell’agenda di diversi attori. Basti pensare al ruolo degli Emirati Arabi Uniti nella distensione tra Gerusalemme e Khartûm e agli investimenti di Abu Dhabi Ports Group finalizzati alla costruzione delle infrastrutture navali di un distretto di produzione agroalimentare nell’area di Porto Sudan 24. L’élite sudanese percepisce la sintonia con Israele come funzionale a quella con gli Stati Uniti e alla ricezione di aiuti economici da Washington. In quest’ambito vanno letti il tentativo di Khartûm di mostrarsi affidabile ai fini della stabilità regionale, in controtendenza con quanto fatto da al-Bašør. Lo stesso vale per le distensioni con Addis Abeba in merito alla disputa della Grande diga del rinascimento etiope (Gerd) e alle frizioni lungo il confine di al-Fašaqa. Insomma, a prescindere dalla eventuale apertura dei rapporti diplomatici e dall’appoggio per nulla scontato delle rispettive popolazioni, molto probabilmente i destini di Israele e Sudan e delle loro leadership saranno più intrecciati di quanto accaduto in passato. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
20. L. POLLICHIENI, «La Cavalcata del Wagner», limesonline.com, 25/5/2020. 21. E. ROSENHART, «Sudanese Perceptions of the Sudan-Israel Rapprochement», in The New Normal? Arab States and Normalization with Israel, Konrad Adenauer Stiftung, Israel Office, 23/2/2021. 22. «Unlocking Africa’s Agricultural Potential», World Bank, 4/2013. 23. P. RIVLIN, Sudan’s Predicament and the Israeli Connection, Moshe Dayan Center for Middle Eastern and African Studies, 26/2/2020. 24. «Sudan, UAE’s consortium sign $6-bln deal to build new port on Red Sea», Sudan Tribune, 13/12/2022.
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‘ÕANÅN ‘AŠRÅWØ - Portavoce della delegazione palestinese ai colloqui per gli accordi di Oslo del 1993, già ministra dell’Autorità nazionale palestinese (Anp). DAVIDE ASSAEL - Filosofo e studioso di pensiero ebraico. Presiede l’associazione Lech Lechà per una filosofia relazionale, è conduttore della trasmissione di Radio Rai 3 Uomini e profeti e editorialista del quotidiano Domani. AHMED BAKER DIAB - Ricercatore al dipartimento di Geografia e ambiente umano dell’Università di Tel Aviv. PETER BEINART - Autore di Jewish Currents e docente alla Scuola di giornalismo della City University of New York. ELISHA BEN-KIMON - Giornalista del quotidiano Yedioth Ahronoth, responsabile della copertura dei Territori occupati. CINZIA BIANCO - Research Fellow sul Golfo Arabico allo European Council on Foreign Relations. Ha scritto con Matteo Legrenzi Le monarchie arabe del Golfo: nuovo centro di gravità in Medio Oriente, il Mulino (2023). EDOARDO BORIA - Geografo al dipartimento di Scienze politiche all’Università La Sapienza di Roma, è titolare degli insegnamenti di Teorie e storia della geopolitica e di Metodologia per l’analisi geopolitica. Consigliere scientifico di Limes. RICCARDO CALIMANI - Autore di oltre venti libri, tra cui Storia degli ebrei di Roma (2018). Nel 1986 ha ricevuto il Premio Cultura della presidenza del Consiglio dei ministri, nel 1997 il Premio europeo per la Cultura. È stato per anni presidente del Museo dell’ebraismo italiano e della Shoah di Ferrara. BRUNO CIANCI - Dottorando in Scienze e tecnologie del mare. Giornalista professionista, è autore di numerosi saggi. CORRADO 9OK - Ricercatore freelance, collabora con Gulf State Analytics su questioni legate al Golfo Persico e al Corno d’Africa. Lavora come project manager alla Fondazione Avsi a Nairobi. ANNA MARIA COSSIGA - Analista di questioni internazionali e antropologa religiosa. MAURO DE BONIS - Giornalista, redattore di Limes. Esperto di Russia e paesi ex sovietici. UMBERTO DE GIOVANNANGELI - Giornalista, esperto di Medio Oriente. SERGIO DELLA PERGOLA - Demografo e statistico. Professore emerito all’Università Ebraica di Gerusalemme. GIUSEPPE DE RUVO - Dottorando in Filosofia all’Università Vita-Salute San Raffaele, Milano. Tirocinante di Limes. LORENZO DI MURO - Consigliere redazionale di Limes. Si occupa di Cina-Usa-India, Indo-Pacifico e America Latina. Scrive per Aspenia, The Asia Dialogue, Formiche. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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GUGLIELMO GALLONE - Laureato in Scienze politiche e Relazioni internazionali. Collabora con L’Osservatore Romano. Alumno della Scuola di Limes (classe 2022). MASSIMO GIULIANI - Professore associato di Pensiero ebraico presso il dipartimento di Lettere e filosofia dell’Università di Trento. WŁODEK GOLDKORN - Giornalista e saggista. SHAUL MAGID - Insegna Studi ebraici al Dartmouth College. È senior fellow al Center for the Study of World Religions dell’Università di Harvard, membro eletto dell’American Academy for Jewish Research e dell’American Society for the Study of Religion. Autore di numerosi libri e saggi. FABRIZIO MARONTA - Redattore, consigliere scientifico e responsabile relazioni internazionali di Limes. ARTURO MARZANO - Professore al dipartimento di Civiltà e forme del sapere dell’Università di Pisa. Storico del sionismo. BARAK MEDINA - Docente di Diritto costituzionale alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università Ebraica di Gerusalemme. KOBI MICHAEL - Ricercatore senior allo Institute for National Security Studies (Inss) di Israele. NIRON MIZRAHI - Riservista delle Forze armate israeliane (Idf). CESARE PAVONCELLO - Traduttore e collaboratore di varie testate giornalistiche su questioni israeliane e mediorientali. NICOLA PEDDE - Direttore dell’Institute for Global Studies e direttore della Ricerca per il Medio Oriente al Centro militare di studi strategici (Cemiss). FEDERICO PETRONI - Consigliere redazionale di Limes e coordinatore didattico della Scuola di Limes. PIERBATTISTA PIZZABALLA - Patriarca di Gerusalemme dei Latini. LUCIANO POLLICHIENI - Ricercatore a Critica Research and Analysis. DANIELE SANTORO - Coordinatore Turchia e mondo turco di Limes. YITZHAK SCHNELL - Professore emerito al dipartimento di Geografia e ambiente umano dell’Università di Tel Aviv. CHAIM WEIZMANN - Docente e capo del desk politico all’Università Reichman, Lauder School of Government, Diplomacy and Strategy. ORI WERTMAN - Ricercatore allo Institute for National Security Studies (Inss) di Israele. DOV S. ZAKHEIM - Già sottosegretario alla Difesa degli Stati Uniti e capo dell’Ufficio finanziario della Difesa dal 2001 al 2004, oggi presidente del Foreign Policy Research Institute. YOCHANAN ZOREF - Ricercatore senior allo Institute for National Security Studies (Inss) di Israele. Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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La storia in carte a cura di Edoardo BORIA 1-2. Nessun popolo ha mai preso sul serio una promessa più di quanto abbiano fatto gli ebrei con le parole divine relative al diritto di occupare un territorio sulla costa orientale del Mediterraneo. Per nulla scoraggiati dalla sua ridotta estensione e palese inospitalità. Animati (anche) da tanto solenne parola, durante la guerra dei Sei giorni (1967) le Forze armate israeliane sbaragliarono le difese nemiche occupando la Cisgiordania con Gerusalemme Est, la Penisola del Sinai, le Alture del Golan e la Striscia di Gaza. Quella dimostrazione di forza ha rappresentato un motivo di orgoglio per Israele e il martellante richiamo, anche cartografico, a quella vittoria in un contesto regionale avverso ha continuato per anni a rafforzare il senso di identità nazionale di intere generazioni di israeliani (figura 1). D’altra parte, la dotazione di uno Stato proprio ha compiuto un prodigio identitario, con la trasformazione di tanti ebrei in israeliani. Non è stata solo una metamorfosi istituzionale ma anche psicologica. Viceversa, quell’evento bellico ha depresso l’autostima degli orgogliosi popoli arabi sviluppando forme spiccate di vittimismo, anch’esse manifestate facilmente attraverso il medium cartografico (figura 2). Come scrisse Yves Lacoste, «in tutte le controversie geopolitiche, ogni attore racconta la storia del suo popolo o della sua nazione; questa è, al tempo stesso, diversa ma indissolubile da quella che narra il suo avversario» («Come abbiamo riscoperto la geopolitica», Limes, «La Francia senza Europa» n. 3/2012, pp. 129135). Fonte 1: Zev Vilnay, «The Arab Deployment for attack: 1967» («Lo schieramento arabo per l’attacco: 1967»), in The New Israel Atlas. Bible to present day, Gerusalemme 1968, Israel University Press, tav. 68. Fonte 2: Manifesto palestinese disegnato da Abdel Kader Arnaout, Beirut 1971. 3-4. Vecchio stereotipo che non si riesce a debellare: la geopolitica è cinica e immorale perché della dinamica politica conosce e considera solo l’uso della forza, senza spazio per forme più nobili di cooperazione. Corollario tragico che l’ha spazzata via dal novero delle scienze per mezzo secolo: la geopolitica è semplice giustificazione di teorie espansionistiche e violente. Provo a redimerla a beneficio di chi riesce a liberarsi dai pregiudizi: capire come il potere collettivo si ottiene e si esercita non significa né rassegnarsi a una concezione della convivenza umana fatta solo di prevaricazioni né tantomeno sostenere tali pratiche sopraffattorie. Risulta, invece, utile alla loro comprensione, anche quando si manifestano nelle loro forme più perniciose. Che dietro ci sia un odioso pregiudizio verso la geopolitica è evidente. Perché, altrimenti, nessuno si sogna di incolpare gli psicologi per i loro studi sul comportamento degli stupratori o gli storici per quelli sui genocidi? A proposito di genocidi, il poco lusinghiero record mondiale spetta al Medio Oriente. Se i drammi subiti da armeni, assiri e greci del Ponto per mano ottomana sono oggetti di studio per storici, il tentativo di eliminare i curdi iracheni perpetraCopia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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to da Saddam Hussein scuote le coscienze di noi contemporanei. Come anche, evidentemente, il genocidio che, anche se non accaduto in Medio Oriente, ne ha eternamente segnato la storia politica: l’Olocausto degli ebrei (che coinvolse, con sorte non meno tragica, rom, testimoni di Geova, omosessuali, disabili e altre categorie accusate di inquinare la purezza razziale). Con il genocidio culmina la scala delle violenze che si possono commettere contro una popolazione. Ai gradini inferiori essa registra, in un crescendo di barbarità, l’assimilazione forzata, l’espulsione e il massacro. Il genocidio si distingue da queste forme, già di per sé raccapriccianti, perché non erompe improvvisamente in modo irrazionale ma è frutto di un piano accuratamente programmato. Inoltre, è alimentato da forme di politicizzazione delle identità e di strumentalizzazione del discorso politico intercomunitario oltre che, ovviamente, da una macchina logistica efficientissima. L’orrore del genocidio è reso visivamente dalla figura 3, che mostra il territorio dell’odierna Polonia disseminato di campi di sterminio (simboleggiati da forni crematori stilizzati con tanto di teschi e fumo nei camini), campi di concentramento (icona della casupola con torretta e filo spinato), luoghi delle esecuzioni degli internati (croce di ferro) e altri simboli macabri. Meno suggestiva (a causa dell’asetticità dei simboli utilizzati) ma non meno tragica è la figura 4 riferita ai campi profughi palestinesi. Per realizzare l’enormità di quest’altro dramma della storia recente basta soffermarsi sul committente della carta, l’Unrwa, una delle due agenzie delle Nazioni Unite istituita appositamente per portare sollievo ai rifugiati palestinesi. L’altra, l’Unhcr, si occupa di tutti i restanti profughi nel mondo. Fonte 3: Jan Laskowski, Zbrodnie Hitlerowskie na ziemiach Polski w latach 1939-1945 (I crimini di Hitler nei territori della Polonia negli anni 1939-1945), edito dal Consiglio per la tutela dei monumenti sulla lotta e il martirio,Warszawa 1965, Pan´stwowe przedsie˛biorstwo Wydawnictw Kartograficznych. Fonte 4: Unrwa Camps, da Issues in the Middle East, U.S. Central Intelligence Agency, 1973. 5. Nel Corano il verde è il colore del Paradiso (55:62-64) e del benessere (18:31) e dunque assume un carattere quasi sacrale nella simbologia araba. È curioso che la carta sionista del 1936 (figura 5), pubblicata dal potente Fondo nazionale ebraico con tanto di scritte propagandistiche sul blu del mare, utilizzi proprio il verde per evidenziare, gonfiando un po’ il dato per la verità, le terre in mano agli ebrei nella Palestina del tempo. Forse per incitare a trasformare il marrone del deserto nel verde delle coltivazioni. Anche nella cultura occidentale il verde funziona da metafora visuale per la libertà, la pace, la speranza e l’armonia con la natura. Tutte condizioni che il Medio Oriente non conosce da decenni. Fonte 5: «Terra di Israele. Questo è il paese che apparterrà a voi», Keren Kayemet LeYisrael, Gerusalemme 1936 Copia di f41c7efe3dac9850479ef0d4d02e836f
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RIVISTA ITALIANA DI GEOPOLITICA
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RIVISTA MENSILE - 15/4/2023 - POSTE ITALIANE SPED. IN A.P. - D.L. 353/2003 CONV. L. 46/2004, ART. 1, C. 1, DCB, ROMA