La virtù eloquente. La «civil conversazione» nel Rinascimento 8885363210, 9788885363212


274 53 24MB

Italian Pages 377 [436] Year 1995

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD PDF FILE

Recommend Papers

La virtù eloquente. La «civil conversazione» nel Rinascimento
 8885363210, 9788885363212

  • 0 0 0
  • Like this paper and download? You can publish your own PDF file online for free in a few minutes! Sign Up
File loading please wait...
Citation preview

UNIVERSITÀ ISTITUTO

DEGLI

DI SCIENZE

FILOSOFICHE

NICOLA

LA VIRTU

STUDI

DI URBINO E PEDAGOGICHE

PANICHI

ELOQUENTE

LA «CIVIL CONVERSAZIONE» NEL RINASCIMENTO

EDITRICE MONTEFELTRO

TURI RIT

Ò

iii

ITAL

i E Kaini ihi



LAUT (NANI

Vl

|

u

I

i

Ni, HO

Da

i

RO

ASSIITTI

FLi)

Ul

i i

Mi

11

Di

LI i

Ù

wi

MALO

AI fl

Ros

I)

DItoi(no orti Dt sidi

UN NI I n

ùUCI i

i

il

;

VR

realJo

:ne DIsil

Ron] n

y

‘ L]

î)

Î

Dai Il

il

ri

il

ì |

|

I

Ul De, ii)W

la :

I

:

urgai

I

%

Y

\\ AN

\

ae

iDA

i

Digitized by the Internet Archive in 2023 with funding from Kahle/Austin Foundation

https://archive.org/details/lavirtueloquente0000pani

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

Il volume è pubblicato con il contributo del C.N.R. ©

1994 Copyright

Editrice

Via Vittorio

Tutti

Montefeltro - Urbino

Veneto,

i diritti

35

riservati

UNIVERSITÀ ISTITUTO

DEGLI

DI SCIENZE

FILOSOFICHE

NICOLA

LA VIRTU

STUDI

DI URBINO E PEDAGOGICHE

PANICHI

ELOQUENTE

LA «CIVIL CONVERSAZIONE» NEL RINASCIMENTO

=

EDITRICE MONTEFELTRO

na

-

ITUZUOOII UTAN A

® Li

bo n

«TIMOISAZAAVUOI JIvID» bi - OTMAMIORAMIA JAM

uu

lì weibanno $ Giolybiicati sit Sa »

e pos Compri a

w

Alla memoria

«Il tempo

di mio padre

tutto toglie e tutto dà; [...] io

che sono ne la notte aspetto il giorno» (G. Bruno,

Candelaio.

Dedica)

mo

tuo A

La am

ti db ss pron aaa pnt

itesittan@ tnt doi Lori Pri Da

_

=



Nel congedarmi dal libro, con sollievo e disagio come accade in questi casi, il mio pensiero riconoscente va ai miei maestri, e primi lettori, i professori Pasquale Salvucci e Livio Sichirollo. Un ringraziamento anche al professore Giuseppe Paioni per avermi messo a disposizione la sua biblioteca e confortato con la sua li-

bertà intellettuale. La mia più viva gratitudine al Rettore Carlo Bo che ha gentilmente accolto il lavoro tra le pubblicazioni della nostra Università. Sono inoltre riconoscente al Direttore e al personale della biblioteca per aver in tutti i modi facilitato le mie ricerche. Urbino, giugno

1993

> ieri baitaiaST simrazacnioli cotto

eden lE vevi

itruira,

fieri dara

aU otiortdol@ ivi 4 inouvise si intesa

Paper cali 7 È

il suse Prot

divinant tocloa Sira a ibi

privo

[o gigia iapfpaemtiri de i ullst stetiorise Le s stottoti@ de 1 saloni ©

adatti sim SIotssilioaì ibom i ink pi mlTo

FORI omguig dorici

tn

:

INDICE

Come

introduzione.

Retrospettiva

al futuro

........ pag.

ile Discorso»e di Ecopardi og nn enne EeAntropologia»kantuana: gi ia Baconere:il .

etica e pragmatica

di parlare,

arte

di tacere,

al

0

Farescose

(Vimtiose)rconsle

sacro

241 244

della conversazione arte

di ascoltare

LEa.-«scora>Sdella@etorica ta Ro Antropologia della voce e del isestonenesttoo Mata Las«rosaftraticcspine» Limitazione fee

La cerimonia:

203 208 225

nella conversazione

eloquente sunt

Ermeneutica

141 145 Liz 156 164 192

pato

Rea

e profano nella conversazione

249 276 283 299 Sala S21

6. Tipologie di conversazione, figure retoriche e tipi di discorso

Ti.

rsa Da

agi

ppc

mato I ‘Al pt snecne bl

n'a

| «utt

T4 ded 4 ica b

@

Tal

II Va

nor

più

Î4

ue:

Di

»

2: TEMPIO DELLA CONVERSAZIONE E TEATRO DELLA MEMORIA «Tunc artem [memoriae] sub umbra idearum degere arbitramur, cum aut torpentem naturam antecedendo sollicitat, aut deviam

et exorbitatem dirigit et perducit, aut deficientem lassamque roborat atque fulcit, aut errantem

corrigit,

aut perfectam

sequitur,

et industriam emulatur» (Giordano Bruno, De umbrisidearum, I, 1, 86)

Dal libro al lettore: scrivere per chi?

Per l'abilità del suo autore, per l’effetto della «tessitura delle parole» e della loro varietà, il testo (la scena) ora si fa vedere. Rispetta la sua regola aurea. Il tempio della conversazione funziona e vuol funzionare come picta oratio !. Il lettore ideale di Guazzo è lo stesso di Erasmo; è colui per il quale leggere significa soprattutto guardare, come a teatro, perché l’autore glielo ha reso possibile: «... rem non simpliciter exponemus, sed ceu coloribus expressam in tabula spectandam proponemus, ut nos depinxisse, non narrasse, lector spectasse, non legisse videatur» 2. E il vedere ! ErasMO, Adagia, LB, II, cit., 714 B. Riferendosi a Botticelli, Guazzo lo definisce, con una inversione concettuale, «un leggiadro scrittore che ha di-

pinto le Grazie» (DP, 177). 2 Erasmo, De duplici copia verborum ac rerum, in Opera Omnia, LB, cit. I, 77 E-F. Alla «picta oratio» ciceroniana farà eco il rivale acerrimo di Erasmo, Lutero, se dobbiamo prestare fede al diario di Antonio Lauterbach, datato 25-29 novembre 1538: «Elogio dell’eloquenza. L’eloquenza non è uno stiracchiato belletto di parole, ma è un’orazione elegante che espone l'argomento acconciamente

e con

chiarezza,

come

una

pittura armoniosa...»

(M. LuTERO,

82

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

si imprime di più nella memoria. Se scrivere è far vedere, leggere è vedere come a teatro; ma parlare è anche ricordare e ha bisogno del suo teatro della memoria. Ciò vale anche (anzi, soprattutto) per il lettore comune, il «lettore ordinario», che la Civil Conversatione presuppone; ma anche per il «lettore delicato», sottile, dotto. Opera di mnemotecnica per la quale bisogna essere preparati: «il padre del sapere è l’uso, et la madre è la memoria» (CC, I, 15r). Nei Dialoghi piacevoli Guazzo dedicherà al tema della memoria ulteriori riflessioni. Memoria è ancora madre delle Muse e tesoro di tutte le scienze (DP, 95), anche se, similmente a Montaigne più tardi, Guazzo cercherà di non confondere memoria e ingegno: spesso infatti si nota poca memoria proprio in un «vegliato ingegno» (Ibidem, 94). La smemoratezza comunque è come un cribro: «posto nell’acqua subito s’empie» (Ibidem, 92). Guazzo guarderà proprio alla mnemotecnica come a quell’arte per «correggere [...] conservare [...] rinforzare la memoria, et renderla giuntamente

capace, et tenace» (Ibidem, 94). Per conservarsi e rinforzarsi la memoria possiede le sue tecniche che Guazzo non tarda a enucleare: si imparino «molte cose con gli occhi e con le orecchie, cioè leggere i buoni libri [che per essere tali devono farsi vedere come le parole nella conversazione (CC, II, 83r)], et pratticare con valen-

t'huomini, et non solamente segnar in carta sotto i luoghi, et sotto i suoi capi le cose più notabili che s’odono, et leggono» (ivi). Lettura/scrittura, conversazione/oralità. Bisogna inoltre «rivolgere spesso» nella mente le cose o nozioni da ricordare, «pigliarsi diletto d’insegnarle, et communicarle a gli altri, ma oltre ad essercitarla di continouo, le dà anche gran lume il proporsi in tutte le cose un certo ordine, col quale s’entri agiatamente d'una in altra» (DP, 94). Si entri, per usare un'immagine cara al Rinascimento cui lo stesso Guazzo ricorrerà nel Dialoghi piacevoli, nel teatro della

Tischreden, ed. critica in Werke. Kritische Gesamtausgabe, Weimar 1912-21, 6 voll.; tr. it. parziale, Discorsi a tavola, Einaudi, Torino 1969? a cura di L. Perini ai un

154).

saggio

su Martin

Lutero

di D. Cantimori,

p. 293, trascrizione

3 Qui, in realtà, Guazzo sembra alludere alla memoria

n.

naturalis. Il passo

riecheggia un luogo erasmiano in cui il celebre umanista, tuttavia, polemizza con l’ars memoriae: «La miglior arte di memoria consiste nel capire a fondo, nell’ordinare quello che si è capito e infine nel ripetere molte volte quello che si vuol ricordare». (Declamatio de pueris statim ac liberaliter instituendis, in Opera Omnia, LB, cit., I, 2.21; tr. it. L'educazione precoce e liberale dei fanciulli, in La formazione cristiana dell'uomo, Rusconi, Milano 1989, p. 154. Per l’e-

dizione critica del testo si rimanda a quella curata da Jean-Claude Margolin, Droz, Genève 1966). Erasmo guarda a intellectio, ordo, repetitio come ai principi essenziali per un’arte naturale della memoria.

TEMPIO

DELLA

CONVERSAZIONE

E TEATRO

DELLA

memoria 4. Si entri dopo averlo pazientemente

MEMORIA

costruito.

83

L'arte

della memoria costruisce i suoi «luoghi», i suoi «intervalli», la sua

architettonica, possiede le sue tecniche. Un'immagine ne richiama un’altra: tutte simboli, «segni», geroglifici della memoria. Alla fine questo teatro assomiglia al tempio della conversazione: qui le parole esprimono le cose «facendole vedere, et quasi toccare» (CC, II, 83r), parole pur sempre «accomodate, significanti, efficaci» (ivi).

Il lettore è morto, viva il lettore Tra lo scrittore e il lettore si instaura, tuttavia, un’altra spe-

cie di rapporto che non è solo di tipo scenico o mnemotecnico — e che soprattutto i Dialoghi piacevoli metteranno in luce. Il meccanismo/circuito che coinvolge entrambi è estremamente complesso, al punto che a volte può spezzarsi e produrre crisi nella recezione. Guazzo coglie proprio questo momento di frattura dei codici di emissione/recezione e a esso si mostra particolarmente sensibile da costituirne l’oggetto pervasivo della Dedica a Ludovico di Nevers.

4 Emblematico per questo aspetto è il testo di Giulio Camillo, L’Idea del theatro, Ludovico Domenichi, Firenze 1550 (ora a cura di Lina Bolzoni, Sellerio, Palermo 1991; già in edizioni RES, L'idea del Teatro e altri scritti di reto-

rica, cit., pp. 57-124 ) che attesta una frequentazione assidua con l’opera di Pico della Mirandola, Marsilio Ficino, Francesco Giorgio Veneto, e a cui Francis

Yates ha dedicato un lungo capitolo nell'ormai classico Art of Memory (Routledge and P. Kegan, London

1966; tr. it. L'arte della memoria,

Einaudi, Tori-

no 1972, pp. 121-159). Su Camillo si rinvia a L. BoLzonI, /! teatro della memoria. Studio su Giulio Camillo, cit.; Ip., Lo spettacolo della memoria, Introduzione a G. CamiLLo, L'idea del theatro, cit., pp. 9-38. Oltre al Dizionario biografico

degli italiani (pp. 218-230), si vedano anche: C. BoLoGna, Esercizi di memoria. Dal «Theatro della Sapientia» di Giulio Camillo agli «Esercizi Spirituali» di Ignazio di Loyola, «Intersezioni», XI (1991), 3, pp. 439-475, ora anche in PLURES, La cultura della memoria, Il Mulino, Bologna 1992, a cura di L. Bolzoni e

P. Corsi, pp. 169-223 (per gli Esercizi Spirituali di Loyola si rinvia all'edizione curata per Tea, Milano

1988, con un saggio introduttivo

di R. Barthes); Ip.,

Immagini della memoria. Variazioni intorno al «Theatro» di G. Camillo e al «Romanzo» di C.E. Gadda, «Strumenti critici» III (1988), 1, pp. 19-68; C. VasoLI, I miti e gli astri, Guida, Napoli 1977, pp. 185 sgg.; Ip., Immagini Umanistiche, Morano, Napoli 1983; In., Filosofia e religione nella cultura del Rinasci-

mento, Guida, Napoli 1988, pp. 279-321. Si segnala inoltre il numero monografico 7/8 dei «Quaderni Utinensi», 1985, dedicato a Camillo.

Nel Dialogo dell’honore, riferendosi a Ottavio Magnocavalli (fratello di Annibale, personaggio della CC), Guazzo lo definisce «un teatro d’ingegno, di memoria, di gravità, et di eloquenza» (DP, 295). Giulio Camillo è citato a p. 307 degli stessi DP.

84

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

Se non si leggono libri, se tra lettore e scrittore non si instaura nessun circuito, e le opere rimangono «intatte» e divengono «fracide» nelle botteghe dei librai, come «vergini» che invecchiano «senza marito in casa del padre»; se le opere non passano «per le mani di centomila lettori», è necessario ricercarne la ragione in una direzione duplice, senza tuttavia trascurarne una terza, che Guazzo scrupolosamente registra e alla fine mostra di preferire, anche se non vi rimane assolutamente fermo. La «colpa» della mancata recezione di un testo e dell’assenza del rapporto scrittore/lettore può a prima vista essere addebitata indifferentemente

ai primi (per ignoranza o per oscurità; oppure perché «hanno ufficio di semplici relatori trasportando di libro in libro le cose altrui senza aggiungervi del proprio»: siamo all’entregloser di Montaigne, prima di Montaigne;

i libri sui libri [CC, I, 28r]); o ai secon-

di (per incapacità di cogliere il significato profondo,

o per gu-

sto «tanto delicato» da reclamare, in ogni caso, stile «polito» e «sodezza» di argomenti). Tale duplice compromissione, del resto non autoescludentesi, non sembra, tuttavia, soddisfare Guazzo se, allontanatosi da «que-

sto primo pensiero», egli muove alla ricerca della «colpa» nella direzione, a suo avviso più promettente, di quei potenziali lettori i quali, nonostante l’esistenza di opere solide e «polite», in grado di assommare «la gravità della dottrina, la novità dei soggetti, et la candidezza dello stile», tralasciano comunque di leggerle. Guazzo a questo punto si esime dal ricercare ulteriori cause della mancata lettura; ribadisce tuttavia come ci siano buoni, anzi «eccellenti»

scrittori e manchino buoni lettori. Il lettore è assente. Allora scrivere per chi? Come assicurarsi il destinatario?: «Dopo lungo contrasto», Guazzo giunge alla determinazione che il «giudicioso scrittore» dovrebbe scrivere per se stesso, scegliere sé

come destinatario, fare un uso personale e privato della propria scrittura. Nel caso invece decida di stampare la propria opera deve adoperarsi per «procurar il fine per cui si stampa». E il fine non

tarda ad essere

delineato:

«Farle

[le opere] congiuntamente

cadere in mani di molti» (DP, 3b); assicurare un pubblico recettivo di lettori, un terreno fertile per una semina intensiva; predisporre un circuito sicuro ed affidabile. Ma per porre in atto tale finalità occorre un mezzo; anche questo un escamotage da scrittore, una strategia del coinvolgimento: portare lectorem in fabula. Il suggerimento che Guazzo fornisce è quello di correggere con arte «il natural difetto de’ Lettori» che non amano molto la fatica del concetto (i lettori «non curano d’occupar lungamente la vita, et faticar l’intelletto nelle lettioni»). Il primo accorgimento riguarda la scelta della materia da trattare che preferibilmente

TEMPIO

DELLA

CONVERSAZIONE

E TEATRO

DELLA

MEMORIA

85

deve cadere sulla «vita commune quali sono le scienze morali»; il secondo «è una dolce piacevolezza, et una dilettevole compositione di varie mescolanze seminate con discrettione per tutta l’opera, con la quale, quasi scherzando, s’inviti, et costringa il lettore, poiché avrà scorso il primo foglio, a lasciarsi inavvedutamente [...] tirar al fine». Il «parlar benigno, et piacevole» avvertirà Guazzo nella Civil Conversatione «è la calamita con la quale si traggono gli animi della moltitudine» (CC, II, 99r). Cooperazione tra lettore e scrittore: disegno compiuto, secondo Guazzo solo da Plutarco (per inciso, anche in Montaigne Plutarco rappresenta un modello di scrittura che «parla») 5. La scrittura deve trascinare il lettore nella propria interna vita:

con

la mise

en scène,

la mnemotecnica,

la sostanza

e la

sodezza dell'argomento: l’etica, la «vita commune» (di «febre ethica» Guazzo parlerà nel dialogo Della morte [DP, 684], come «giovevole

all'anima»,

come

terapia

dell'anima);

con

la dimensione

ludica della scrittura, all'insegna della «discrettione». Tutte «costringeranno» il lettore a percorrere il cammino della scrittura:

ars

est

celare

artem.

«Arte»,

«inganno»,

«zuccaro»,

proprio

come nei dialoghi della Civil Conversatione, cui i Dialoghi piacevoli si richiamano espressamente (Ibidem, 677): mai scritti piacevoli «senza dottrina» ma scritti piacevoli «inavvedutamente [per il lettore] indottrinati». Anfibolia della scrittura, cui l’autore mostra di

tenere (Ibidem, 311). «Le Roy est mort. Vive le Roy» (Ibidem, 5a). Un principio che deve valere anche per la retorica della scrittura che voglia assicurarsi un lettore e dimostrarsi persuasiva. Gli stratagemmi della scrittura assomiglieranno a quelli dei viandanti che «novellando insieme ingannano il tempo, et agevolano il cammino»; oppure dei poeti che «con le favole ci conducono ad alte speculationi» (Ibidem, 4b). Stratagemmi che allontaneranno gli scrittori da quella vita «senza spettacoli», simile a «un lungo viaggio senza albergo» (ivi). Le «varie mescolanze», inoltre, indurranno i lettori «ad inarcar le ciglia, et riempire il volto di gravità, et ora a ridere, et rallegrarsi». In questo Guazzo dichiara di seguire il «padre dell’eloquenza» il quale sosteneva che chi scrive i propri concetti e non li sa esporre né illustrare, né «attirar il lettore con qualche diletto» non merita il nome di scrittore, e forse per questo motivo non viene nemmeno letto. Incapacità allora del lettore

5 Dell’analisi dei complessi rapporti intercorrenti tra Guazzo e Montaigne renderò noti i risultati in una ricerca di prossima pubblicazione.

86

LA

VIRTÙ

ELOQUENTE

o dello scrittore? Curiosa anfibolia questa, tale da sconvolgere gli stessi presupposti guazziani: il lettore è morto, viva il lettore ‘.

Felicità/fragilità della memoria L’elogio della parola è dunque forte. Calcagnini (che scrive un elogio del silenzio) pensa a Esiodo: «Linguae Thesaurus homini optimus est»?. Ma subito dopo aggiunge — e l'aggiunta verrà a comporre lo sfondo di ogni possibile retorica della conversazione: «finché saranno osservati i detti ‘nulla di troppo’ e ‘ogni cosa a suo tempo'». Vir prudens sermonis ac silentij vices mietetur8: il prudente giudicherà il momento opportuno per parlare e per tacere. L’eloquio non è incondizionato. Va costruito e disciplinato. Si comprende bene come il tempio dell’eloquenza e della conversazione, sia il tempio della parola regolata ed evochi il tempio calcagniniano del silenzio (del silenzio regolato). Ma la metafora del tempio fornisce, del pari, ulteriori elementi per comprendere il concetto guazziano di conversazione. Il tempio, infatti, ha una sua struttura, una sua architettonica, una sua topica: assomiglia, come è stato brevemente anticipato, a un teatro della memoria, e come il teatro della memoria ha i suoi luoghi: «tanti lochi con tan-

te immagini, che possono ministrar non solamente materie di erudizion piene et artificii con nuovi modi condotti al senso, ma ancora le parole e tutte le dette cose distinte ai loro ordini che possono essere bastanti a tutti gli umani concetti» 9. È significativo che lo stesso Valeriano si preoccupi di chiarire, nel suo famoso repertorio, il senso

del mito che vede Mercurio

affidato a Latona

«che

vuol dir’ il parlare, et la memoria delle cose esser contraria alla dimenticanza: Imperocché quali cose possono essere più contrarie

6 C'è un’altra specie di lettore, il lettore-recensore. Specie verso la quale Guazzo mostra qualche motivata perplessità e ne delinea la fenomenologia. La difformità dei giudizi, soprattutto, va ricercata nell'accordo o meno

con i

gusti letterari, filosofici del recensore. In qualche caso si tratta di una vera e propria sopravvalutazione dei propri giudizi. «Altri poi dalla falsa immaginatione abbagliati, o dall’altrui auttorità sospinti, si trovano senza vergogna loro, havere alcuna volta lodato, et biasimato un medesimo

componimento,

se-

condo che fu loro presentato sotto il nome hor d’un famoso, et hor d’un vile autore» (A Claudio Peschiera, Stefano Guazzo, premesso alla CC). ? C. CALCAGNINI, Descriptio silentiîi, cit., p. 494; tr. it. p. 47.

Salva ? G. CamiLLO,

Trattato della imitazione, in L’idea del Teatro e altri scritti

di retorica, cit., p. 180.

TEMPIO

DELLA

che l'efficacia e forza

CONVERSAZIONE

dell’oratione,

E TEATRO

DELLA

MEMORIA

87

et la dimenticanza» 19, Elo-

quenza e memoria sono indiscutibilmente legate. L’eloquenza compare nel settimo grado del Teatro della memoria di Giulio Camillo. In esso è collocato un «volume», una «enciclopedia» direbbe Calcagnini, «molto ben distinto nel quale si vederanno ordinate senza eccettione tutte le scienze, con tanti anelli appartenenti alle loro particolari catene. Et finalmente l’eloquenza come ricetto et ornamento di tutte, la eloquenza, dico appartenente all’oratione sciolta, in tutte le sue specie, percioché il poema è solare, et andrà alla imagine di Apollo fra le Muse, et sotto questo

Hercole anchora sarà compresa la libreria» !!. Apollo tra le Muse al banchetto della memoria. Perché come si è riscontrato parola e memoria sono da sempre saldate. Lo ricorda anche Valeriano: Mercurio fu affidato a Latona, il parlare alla «memoria delle cose», poiché efficacia e forza dell’orazione si basano sulla memoria e fuggono la «dimenti-

canza», l’oblio. Da sempre l’ars oblivionis non vale l’ars memoriae. Dal momento che la dimenticanza, il Lete, come già insegnava Platone, non vale Mnemosine. Nella Repubblica in cui il mito della memoria è integrato a una teoria della conoscenza, dimenticare è ignorare !2. Guazzo, facendo suo un luogo ciceroniano !3, è esplicito in questo senso, anche se ne accentua la curvatura etica. Temistocle, a chi lo invitava a imparare l’arte della memoria, rispose

«che havrebbe più tosto desiderato l’arte dell’oblio, perché si ricordava spesso di quel che non avrebbe voluto» (DP, II, 96). Rapporto complesso quello tra oblio e memoria per il quale rimangono emblematiche le pagine del capitolo decimo delle Confessioni

10 P. VALERIANO, H, XXXIII, p. 239v; I, XXXIII, p. 425 D-E. 1! G. CamiLLo, L’Idea..., cit., p. 171.

12 Cfr. J.-P. VERNANT, Aspects mythiques de la mémoire, «Journal de Psychologie», 1959, pp. 1-29, ora in Mito e pensiero presso i Greci, cit., pp. 93124. 13 Per Cicerone,

de orat., II, 86, 351: «... non sum

quanto Themistocles fuit, ut oblivionis artem quam tiamque habeo Simonidi illi Cio, quem primum ferunt lisse (Io non posseggo l’ingegno di Temistocle e non l’arte della dimenticanza all’arte della memoria. Sono

tanto ego [...] ingenio,

memoriae malim; graartem memoriae protusono tale da preferire quindi grato a quel fa-

moso Simonide di Ceo che fu il primo, a quanto dicono, ad inventare l’arte della memoria»). Il riferimento a Temistocle è anche ivi, II, 299: «...Temistocle

ribatté che gli avrebbe fatto un piacere maggiore, se gli avesse insegnato il modo di dimenticare anziché di ricordare ciò che volesse [...]. Dalla sua risposta risulta evidente che era impossibile che dalla sua memoria sfuggisse un concetto, una volta che vi fosse entrato; per lui infatti era più desiderabile poter dimenticare ciò che non voleva ricordare che ricordare ciò che una volta avesse udito e visto».

88

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

di Agostino: «Supererò anche la memoria, ma per trovarti dove [...]? Trovarti fuori della mia memoria, significa averti scordato. Ma neppure potrei trovarti, se non avessi ricordo di te» !4. Non si può rinunciare ai «campi» e ai «vasti quartieri della memoria», alla propria personale «aula memoriae»: Negli individui essa si aggiunge come un largo «thesoro», custodito in uno scrigno: «artificio acquistato» o «natural dono» (Ibidem, 92). Artificiosa memoria o naturalis memoria, dibattito che appassionerà tanti filosofi !5 tra cui notoriamente Bruno.

14 AgostINO,

Confessioni,

in Opera

Omnia,

Città Nuova

Editrice,

Roma

19915, vol. I (prima ed. 1965). Cito dall'edizione einaudiana, a cura di C. Carena (Torino 1984), X, VIII, 17.26, p. 280. Per la tematica agostiniana della memoria cfr. ovviamente il De Trinitate, in Opera, cit., IV, passim. Per la rammemorazione nella sua funzione educativo/didattica, come stimolo alla remi-

niscenza

e alla rievocazione,

7,19; 9,25; 11,36, SEI, Torino

è da ricordare 1941, oppure

il prezioso De Magistro (1,1-2;

in Opera, cit. III, 2; ora anche Cit-

tà Nuova Editrice, Roma 1984), dialogo di Agostino con il figlio Adeodato sulla semiotica, la semantica, la didattica. Discute i temi linguistici in Agostino, T. Todorov, Teorie del simbolo, cit., pp. 21-73. Si veda inoltre G. RIPANTI, Agostino teorico dell’interpretazione, Morcelliana, Brescia 1980; G. SANTI, Dio e l’uomo. Conoscenza, memoria, linguaggio, ermeneutica in Agostino, Città Nuova Editrice, Roma 1989. IS Oltre Camillo, Della Porta, Pietro da Ravenna e la sua Phoenix, su cui

ha richiamato da tempo l’attenzione Paolo Rossi, pensiamo ovviamente a Bruno e al suo De umbris idearum, pubblicato a Parigi nel 1582, presso Egidio Corbino. Per l’edizione storico-critica del testo si rinvia alla paziente cura di R. Sturlese, con una Premessa

di E.Garin, Olschki, Firenze

1991. L’ed.

curata da A. Caiazza (con presentazione di C. Sini) per Spirali, Milano risulta

priva

della

seconda

parte

e, come

ha dimostrato

Sturlese,

1988,

a volte

scorretta. Per Bruno si veda almeno: G. GENTILE, Giordano Bruno e il pensiero del Rinascimento, Le Lettere, Firenze 1991, con una Introduzione di E. Garin; M. CiLiBerTO, La ruota del tempo, Editori Riuniti, Roma 1986; N. BapaLoNI, Giordano Bruno

tra cosmologia

ed etica, De Donato,

Bari

1988; F. YATES,

Giordano Bruno and the Hermetic Tradition, Routledge and Paul Kegan, London 1964; tr. it., Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Laterza, Bari 19892; Ip., Giordano Bruno e la cultura ermetica del Rinascimento, Laterza, Bari 1988, con una Introduzione di Garin; M. CiliserTo, Giordano Bruno, Laterza,

Bari

1990; G. DE Rosa, Giordano

Bruno: il linguaggio delle ombre,

in «Atti

dell’Acc. di scienze morali e politiche», Giannini, Napoli 1992. Sulla cultura della memoria esiste, com’è noto, una bibliografia nutrita. Segnaliamo tra i classici: P. Rossi, Studi sul Lullismo e l’arte della memoria,

in «Rivista critica di storia della filosofia» II (1958), pp. 148-190; Ip., Clavis universalis, Il Mulino, Bologna 1983?; Ip., I! passato, la memoria, l'oblio, Il Mulino, Bologna 1992; F. YaTEs, Art of Memory, cit.; PLuRES, La cultura della memoria, Il Mulino, Bologna 1922 a cura di L. Bolzoni e P. Corsi; PLURES, La memoria del sapere, Laterza, Bari 1990, a cura di Pietro Rossi; Cl. BALAVOINE,

Hiéroglyphes de la mémoire: émergence et métamorphose d’une écriture hiéroglyphique dans les Arts de mémoire du XVIe et du XVII siècles, in «XVIIe

siècle», Janv.-mars 158 (1988) 1, pp. 51-69; infine, PLuRES, La fabbrica del pensiero. Dall’arte della memoria

alle Neuroscienze,

Electa, Milano

1989 e il nu-

TEMPIO

DELLA

CONVERSAZIONE

E TEATRO

DELLA

MEMORIA

89

Il problema di Guazzo è quello degli antichi: con quali mezzi, «con qual arte si conservi, et aumenti la memoria» (Ibidem, 93). Come

indicava

Aristotele

nel De

memoria

et reminiscentia,

memoria non è sensazione né pensiero, ma stato di quando è trascorso del tempo !6: «Del presente nel c'è memoria», del presente c’è sensazione, del futuro solo del passato si dà memoria. Perciò «la memoria

la

uno di questi, presente non aspettazione: implica sem-

pre che sia trascorso del tempo. Di conseguenza gli esseri che per-

cepiscono il tempo, essi solo ricordano — e con la stessa facilità con cui avvertono il tempo». Tempo e memoria sono intimamente correlati. La memoria, come il tempo, appartiene al senso comune, «facoltà sensitiva primaria». Per tale motivo Aristotele ritiene che essa possa appartenere anche a taluni animali. Questa parte dell'anima comprende anche l'immaginazione e sono «oggetti» di memoria quelli che cadono sotto l'immaginazione. L’affezione, prodotta dalla sensazione nell’anima e nella parte del corpo sede della sensazione (il cuore), dev'essere concepita come un disegno: «il perdurante stato di tale disegno noi diciamo memoria» !. Il movimento che si produce nel soggetto imprime una specie di figura dell’oggetto percepito, non diversamente da quelli che segnano un'impronta con l’anello. Da questo assunto Aristotele cerca di spiegare come mai chi è in preda a forte emozione non abbia memoria, dal momento che è come se il movimento e il sigillo si imprimessero su un corso d’acqua corrente. Per la stessa ragione i troppo giovani e i troppo vecchi non hanno memoria:

entrambe le età si trovano in una «condizione di flusso»: crescita e decadenza. Similmente accade per i troppo vivaci, la cui capacità di apprendimento è precoce e repentina; o i lenti: gli uni sono più umidi del normale, gli altri troppo duri !8. Nei primi l’immaginazione non resta nell'anima; negli altri non si imprime. Fin qui si tratta della memoria e del ricordo naturali. Quando subito dopo Aristotele passa ad esaminare la «reminiscenza», che partecipa in un certo senso della memoria artificiale (?), egli chia-

mero monografico della rivista «Kos», III (1987), 30 (Memento. memoria e dell'oblio). 16 ARISTOTELE, De mem.,

Tecniche della

1, 449b 25-27.

17 Ibidem, 1, 450a 30-31. 18 Tesi questa, ripresa tra gli altri da Della Porta, Sulla Fisionomia dell’uomo, Longo, Napoli 1610, divulgazione delle ed. latine del 1586 (Cacchio, Vico Equense) e del 1599 (Longo, Napoli); ora Guanda, Parma 1988, p. 614 (Longanesi 1971). Per la memoria artificiale: L’arte del ricordare, Matteo Cancer, Napoli 1566. Una valutazione complessiva dell’opera di Della Porta si legge in PLurEs, Giovan Battista della Porta nell’Europa del suo tempo, Guida, Napoli 1990 e anche P. GETREVI, Le scritture del volto, cit.

90

LA

VIRTÙ

ELOQUENTE

risce innanzitutto che rammemorare non è un «riprendere» la memoria. Nel richiamare alla coscienza un evento non si riprende la memoria. Il processo di reminiscenza tende a ricostruire il fatto, seppur non in modo qualunque ma «basandosi sulla dinamica dello spirito umano». La reminiscenza non è quindi acquisire memoria dal momento che memoria è uno stato o affezione della sensazione e del pensiero quando è trascorso del tempo: chi ha memoria non conosce momento

in cui l’oggetto non gli sia presen-

te potenzialmente o attualmente; il rammemorare implica la caduta dell'oggetto dalla coscienza. Non sarà possibile ricordare finché non sia passato del tempo. Il rammemorare, inoltre, suppone un principio più vasto di quello cui ricorrono gli uomini quando apprendono qualcosa: «Pertanto, quando abbiamo reminiscenza, ci muoviamo secondo uno dei movimenti antecedenti finché arriviamo a quello cui tiene dietro quello che cerchiamo. Perciò col pensiero andiamo a caccia della serie successiva dei movimenti cominciando da un’intuizione presente o da un’altra o da una simile o contraria o vicina» !9. Allorché si vuole esercitare la reminiscenza di qualcosa, l’uomo deve procedere secondo Aristotele nel modo seguente: «cercherà di risalire a quel movimento iniziale al quale tiene dietro quello che cerca» 20. Lo Stagirita sta indicando qui una forma di artificiosa memoria, quella memoria di cui l’uomo può costruire un edificio, un metodo, una «strada», un ordine che consista in un

accesso privilegiato e fruttuoso. Pertanto soggiunge: «nel modo più rapido e più bello» si originano proprio quelle reminiscenze derivanti da un principio. In effetti «come i fatti sono correlati tra loro secondo un certo ordine di successione, così lo sono pure i movimenti mnemonici. Si richiamano facilmente alla memoria quei fatti che hanno un certo ordine, come le dimostrazioni geometriche,

difficilmente quelli che sono confusi» 2!. Il ricordare è,

allora, per Aristotele «possedere in sé la capacità di suscitare i movimenti [.... Ma bisogna avere un punto di partenza: di qui l'opinione che si ha reminiscenza quando si parla di luoghi mnemonici. E il motivo è che allora si passa velocemente da un punto all’altro...» 22. Aver memoria e aver reminiscenza non è dunque, sin dalla

o

ARISTOTELE, De mem., 2, 451b 19-21.

20 Ibidem, 2, 451b 30-31. 21 Ibidem, 2, 452a 1-4. 22 Ibidem, 2, 452a 10-15.

TEMPIO

premessa

DELLA

CONVERSAZIONE

E TEATRO

DELLA

MEMORIA

91

?3, la medesima operazione. La memoria precede crono-

logicamente la reminiscenza, perché si può rammemorare solo ciò che è stato posto nella memoria. A tale processo psichico non partecipano gli animali (a differenza del ricordo), l’unica eccezione in questo caso riguarda l’uomo: perché la reminiscenza «è una specie di illazione; chi rammemora

fissa per illazione che prima ha

veduto o udito o esperimentato qualcosa e ciò è, in sostanza, una specie di ricerca. Quindi naturalmente spetta a quelli soli che hanno capacità deliberativa, perché anche il deliberare è una forma di illazione» 24. Questo scritto, che come è stato opportunamente notato, si presenta come un trattato di psicologia e non come una dissertazione sulla mnemotecnica, contiene affermazioni che confluiscono

nella costruzione della mnemotecnica, in particolare: «a) La tesi della necessaria presenza dell'immagine o fantasma (...) in vista del funzionamento della memoria (...); b) La tesi che il ricordo o memoria riflessa o attualizzazione della memoria scomparsa dalla coscienza (...) sia facilitata dall'ordine e dalla regolarità (...); c) La formulazione di una legge dell’associazione secondo la quale le immagini e le idee si associano in base alla somiglianza, all’opposizione, alla contiguità» 25. Nell’Umanesimo la paideia ciceroniana era tenuta viva, tra gli altri, da Filelfo che la collegava alla tematica della memoria. In una lettera a carattere pedagogico-precettistico, indirizzata a Filiberto, duca di Savoia, dell’agosto-settembre 1479 («istruzione del ben vivere»; «ordene» e «via» da seguire «circa l'istruzione de la vostra vita, costumi

e dottrina»;

al tempo

della lettera Filiberto

aveva quattordici anni) 26, Francesco Filelfo esortava il suo giovane interlocutore a salire quella scala di virtù morali necessarie alla formazione compiuta del principe. Accanto a prerogative classiche (rispetto della divinità, exemplum e custodia di giustizia, pietà, fortezza e temperanza = le virtù del principe cristiano), sulla scorta della migliore tradizione classica di matrice aristotelica indica nell’eloquenza il caposaldo della «formazione letteraria e morale» del principe 27. Tanto nell'educazione che nell’insegna-

23 Ibidem, 1, 449b 5-10. 24 Ibidem, 453a, 10-15. 25 P. Rossi, Clavis universalis, cit., pp. 32-33. 26 F. FiLeLFo, A Filiberto I, Duca di Savoia, da Milano, ag.-sett. 1479, in

Lettere pedagogiche, cit., pp. 139-150. 27 Ibidem, A Matteo Trevi, da Milano ott. 1475, in Lettere..., cit., p. 131.

92

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

mento è opportuno conoscere l’indole del discente: «Per entrare di più nel vivo dell'argomento, penso che alle prime (initio) tu debba preoccuparti di una cosa sola, cioè di conoscere appieno la mentalità del fanciullo, in modo che tu sappia usare gli ammaestramenti più adatti» 28. Insegnamento individualizzato, dunque. Filelfo insiste e precisa: «Non esiste un metodo unico di insegnamento per qualunque discepolo, e bada che dico questo non solo riguardo all’indole e ai sentimenti, che sono frutto del temperamento corporeo, ma anche della condizione e grado sociale. Infatti, quasi tutti coloro che son figli di principi o re recano in petto non so che alterigia e superbia insolente, che ben difficilmente li induce ad obbedire a persona e fa loro ritenere sommamente servile il dar retta anche ai buoni consigli» 29. Non bisogna usare nell’insegnamento «le verghe anziché le parole» 39, sul presupposto aristotelico che la parola «è più propria all'uomo che l’uso del corpo» 3! per la difesa: se è inopportuno non sapersi difendere col corpo, sarebbe assurdo non sapersi difendere con la parola che appunto è propria all'uomo più dell’uso del corpo. Inoltre, come indicherà acutamente Montaigne, le parole si vendicano con le parole. Di qui l’importanza etica della retorica, dell’«arte de retorica». Allo scopo bisogna coltivare la «memoria del bimbo», «che sarà la sola a conservare tutti i detti e i fatti degni di ricordo come se fossero collocati in un tesoro sicurissimo» 32. Collegata alla problematica della memoria è la rappresentazione della mente del fanciullo da educare come «cera fresca» (l’«impronta» o sigillo di tradizione platonico-aristotelica): «Hai un fanciullo

incolto e tenerello,

che assumerà

come

cera fresca

ogni impronta di nozioni e di costumi; e quando gli sarà impressa a fondo, la conserverà per sempre» 33. Come si vede, la tematica della mente

come

cera (o se si vuole, più tardi, della mente

del

bambino come carta assorbente), ha la sua genesi in un dibattito legato alla problematica della memoria. Le stesse metafore utilizzate da Filelfo in ambito psico-pedagogico, che diveranno un topos della letteratura rinascimentale riguardante tale problematica, sono inevitabilmente legate alla curvatura che della memoria avevano dato Platone e Aristotele, nell’ambito gnoseologico del rap-

2281

DI EMP

MMI

29 Ivi.

30 Ivi. 31 ARISTOTELE, Retorica, I. 1355a-b. 32 Filelfo a Matteo Trevi, cit., p. 131.

33 Ibidem, p. 113.

TEMPIO

DELLA

CONVERSAZIONE

E TEATRO

DELLA

MEMORIA

93

porto memoria/intelletto, memoria/conoscenza. Si può a buon diritto sostenere che la tematica della mente come cera (o carta assorbente), assunta in questa forma in ambito pedagogico, derivi de iure dalla problematica filosofica sulla memoria. In ogni caso, l’«arte della memoria» è orientata, come suggerisce Zumthor, verso l'utilità della parola: è destinata ad abbracciare l’universalità del sapere: suo fine è «un discorso virtuoso, che si manifesta in un atto di enunciazione» 34. E nel suo rapporto con la comunità possiede una propria specifica voce: voce perfetta della memoria 35.

Il «thesoro della memoria», serbatoio e madre del sapere, si serve dunque dei «luoghi mnemonici» (luoghi topici che fungono da luoghi mnemonici, perché vi si possa attingere). Guazzo in una lettera al figlio Antonio, datata 9 maggio 1586, indica il repertorio dei luoghi comuni 36, come strada sicura da percorrere interamente, nella scrittura ma

anche nella conversazione.

Scrive Guazzo:

«Io adunque per sodisfar alla tua richiesta, ti essorto a voler raccogliere con gli occhi, et con l’orecchie dalle carte di diversi Scrittori, et dalla viva voce de’ valent’huomini tutte le cose più brievi, più sententiose, più leggiadre, più mottegievoli, et più pregnanti, et trasportarle in un volume distintamente sotto i luoghi communi secondo la diversità de’ soggetti. Ma questo libro poni ben mente, che non pigli la polvere, et maneggialo a tutte l’hore, et sia a te tanto famigliare, quanto il Breviario a Religiosi, onde co’l frequentarlo t’'accorgi d’haverlo ricevuto nella memoria. Et perché meglio vi s’imprima, studia servirtene non solamente ne’ tuoi scritti, et di venirli discretamente illuminando con la divinità di queste gemme, ma anche ragionando ne i conviti, et nelle altre raunanze prenderai diletto di spargere cotale zucchero, et cotali aromati nelle tue vivande, perché in virtù di questo stile t’acqui-

34 Per queste tematiche cfr. P. ZumTtHoR, Memoria

che investono

questioni di indubbio

interesse

e comunità, in La lettera e la voce, Il Mulino, Bolo-

gna 1990 (La lettre et la voix, du Seuil, Paris 1987), p. 189. 35 Ibidem, p. 191. Su questi temi anche Ip., Introduction à la poésie orale, du Seuil, Paris 1983 (tr. it. La presenza della voce, Il Mulino, Bologna 1984). 36 Chiarisce bene Serrai (Dai «Loci communes» alla Bibliometria, Bulzoni, Roma, 1984) quanto «la diffusa applicazione dei luoghi topici (loci, loci communes,

loci dialectici, topoi, ecc.)» sia stata effettuata dal Cinquecento al Settecento «a fini citazionali o con intenti che potremmo dire oggi di indicizzazione e di reperimento informazionale» (ibidem, pp. 5-6). E per loci communes una lunga tradizione intende «le sentenze, gli apoftegmi, le massime, le favole, gli esempi, gli apologhi, le metafore, le immagini poetiche, le parabole, i detti sapienziali, i ‘luoghi di memoria’, che si riferivano alle formule in cui il pensiero degli antichi aveva distillato ciò che occorreva sapere, ricordare, ripetere e citare» (ivi), raccolti tutti in apposite antologie o florilegi.

94

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

sterai con maraviglia mo non solamente di artificiosa memoria» Ai luoghi comuni

di tutti, et con gloria tua il credito d’un huosingolar dottrina, ma di privilegiata, et quasi (L., pp. 113-114). come «imagines agentes» faranno ricorso lo

scrittore abile e l’homo conversativus nella civil conversazione, in

vista della quale la sua «privilegiata, et quasi artificiosa memoria» si rivelerà decisamente utile. A questo riguardo Guazzo informa ancora il figlio: «Intorno a simile impresa mi sono io essercitato lo spazio di molti anni, et ne ho fabricata un’opera di assai buon rilievo, la quale rimarrà presso di te per tuo particolar beneficio, o forse verrà in luce a beneficio universale.

In fin quì t'ho

proposto le scienze appartenenti ad un certo honore esterno. Hora nel finir questa te ne propongo tre principali, che giovano singolarmente alla salute dell'anima, dico la scienza de’ benefiij ricevuti, de gli errori commessi,

lascio con la benedittione».

(L., 114) ?7.

et delle pene da voi meritate.

Ti

Di Olivola, li 9 di Maggio del 1586.

A Marliani, Guazzo chiarisce ulteriormente la strategia del suo personale teatro della memoria, popolato di similitudini, sentenze, esempi, favole, proverbi, geroglifici, mostrando proprio, con l’accento rivolto a questi ultimi nella lettera, di condividere l'operazione culturale circa il connubio della mnemotecnica con la sapienza geroglifica (su cui aveva espresso un parere più sfumato

nei Dialoghi piacevoli). Il testo della lettera al Marliani è davvero

37 Il riferimento all’«opera di assai buon rilievo» è stato inteso, evidentemente per il contesto in cui è stato inserito, come una allusione alla CC; ma la

considerazione potrebbe essere estesa indifferentemente ai DP. A nostro parere, infatti,

sussistono

elementi

che

suscitano

alcuni

dubbi

per

una

sicura

identificazione in tal senso. Intanto l’uso del futuro nella lettera al figlio datata maggio 1586 (l’opera, afferma Guazzo, «verrà in luce»). La CC «aveva visto la luce», nella prima edizione, il 1574. I Dialoghi piacevoli vennero pubblicati invece proprio nel 1586 (la dedica di Guazzo a Ludovico Gonzaga è datata 1 aprile 1585; la richiesta di privilegio 12 maggio 1586; il privilegio 24 giugno 1586). La soluzione proposta d'altronde non fuga ogni dubbio e se può rivelarsi utile per la lettera del 1586, non chiarisce definitivamente a quale opera Guazzo sicuramente si riferisca, dal momento che in una lettera posteriore (1591), scritta al Marliani (cfr. infra), Guazzo lascia intendere che il libro è ancora da scrivere o che almeno l’impresa è ancora da completare e data la sua

avanzata età ... potrebbe restare un progetto incompiuto. Lungo questo percorso di vita forse i Dialoghi piacevoli e la Civil Conversatione possono essere considerate tappe, e in quanto tali, provvisorie. Una continuità progettuale che non si è spezzata. Iniziato in gioventù, Guazzo coltiva ancora il suo laboratorio e il suo teatro della memoria. Uno sforzo come testimonia la lettera in questione,

che non

ha conosciuto

soluzione

di continuità;

uno

sforzo che an-

drebbe, per la dignità del soggetto, consegnato in un libro: ma un libro nel 1591 ancora da scrivere.

TEMPIO

DELLA

CONVERSAZIONE

E TEATRO

DELLA

MEMORIA

9S

emblematico in queste senso, e pertanto lo trascrivo pressoché per intero: «Ma intorno alla richiesta, che mi fa in nome di quell’honorato Cavaliere, dovrà sapere che infino dai miei primi anni cominciai quasi scherzando a notar confusamente hora sopra un mezo foglio di carta, hora con uno intero, et hora sopra tutto spatio, quanto cape una ricetta da Medico, tutte le cose più degne di memoria, et più piacevoli, che mi venivano innanzi nel legger diversi libri, et particolarmente quei, che contengono varie dottrine, et non solamente io segnava le cose da me lette, ma anco le udite nelle conversationi, ò. da quei, che recitano in comedia, ò da

altri. Et perché anco ne’ luoghi sterili, et sassosi nascono delle piante virtuose, io raccoglieva alcuna volta un bel motto dalla bocca di un Contadino per modo tale, che havendo io continuato lungamente questo stile, et in Italia, et in Francia, alla fine ho riempiute tante carte, ch'io ne posso comporre un grosso volume.

Ma sappia, che questi miei scritti non sono altro, che disegni fatti con

tanta

velocità,

et con

tali postille,

et cancellature,

che non

pure altri le potrebbe intendere, ma io medesimo m'’arresto nel leggerle, et rimango inciampato, né posso ritrarre quel, ch’io m’habbia scritto. È ben vero, c'ho segnati gli Auttori, onde ho cavate le dottrine, a’ quali posso ricorrere. In somma questo è un chaos, et per digerirlo, et per dargli quella forma, che già ho disegnata, vi bisognerebbe una fatica di sei mesi continoui, et vorrei ordinare tutto questo mescuglio sotto cento capi, et ridurre sotto ciascuno

capo

sei materie

distinte,

cioè,

similitudini,

sentenze,

essempi, favole, proverbi, et geroglifici. Pur l’arte è lunga, et la vita breve,

et io son

vecchio

indisposto,

et verso

l’Occaso.

Mi

nasce talhora desiderio d’occupar mio figliuolo in questa fatica con la mia assistenza, ma temo di non romper il collo al suo principale studio delle leggi, ove l’ho destinato. Ho fatto questo lungo discorso a V. S. perche resti insieme con quel Cavaliere assicurata, che questa messe è ancora in herba, onde non posso sodisfare al desiderio loro. Mi scusino et accettino il buon volere, col quale ad ambidue

bacio

le mani».

Di Pavia,

li 7 di Gennaio

1591

(L,

184-185). Leggere e ascoltare. Trascrivere per memorizzare. La funzione della scrittura assolve ancora all’intento del Thoth platonico/egizio, restituito nel Fedro. Alla scrittura è affidata unicamente (?) la memoria delle «cose notevoli», meglio ancora se in forma di loci communes, proverbi, sentenze, favole e geroglifici: tutti imagines agentes della memoria, dell’«artificiosa memoria», utile non solo allo scrittore ma al locutore della civil conversazione. Perché la memoria è parte fondamentale della conversazione e della sua retorica. Una memoria che ha operato, come vedremo meglio in

96

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

seguito, la sua saldatura e il suo patto con il geroglifico, integrando in tal modo la concezione della memoria ciceroniana e quintilianea. I disegni in quanto geroglifici veri e propri della memoria sono assenti dall’ars memorativa antica e sono il frutto della cultura rinascimentale che affida il ruolo divimagines agentes alle favole, ai proverbi, ai geroglifici più che alle persone (anche se quest’ultima ipotesi non è assente).

Ci si consenta un richiamo classico. Nella pseudo-ciceroniana Rhetorica ad Herennium III, 16, la memoria è configurata come «thesaurus inventorum», forziere delle idee trovate, e «custos

omnium partium rhetoricae» 38. Qui si soprassiede, pur dichiarandolo, al problema se la memoria sia in parte frutto dell’artificio o derivi interamente dalla natura. L'autore mostra di voler trattare il problema come se sulla memoria avessero incidenza determinante arte e precetti (ivi): «Sono d’avviso infatti che esista un’arte della memoria» 39. Esistono dunque due tipi di memoria, l’una naturalis, l’altra artificiosa. La prima è insita nella nostra mente e nata insieme con il pensiero, la seconda trae il suo vigore dal metodo

e dallo studio, e spesso accresce,

con il disciplinamento,

qualità innate, comportandosi l’arte in questo, come in altri campi: fortifica e aumenta i doni della natura. La memoria naturale va educata con regole fisse, capaci di renderla più tenace. È evidente che la memoria acquisita con l’arte deve poggiare su disposizioni naturali: in tutte le arti l'ingegno si perfeziona con lo studio. L’artificiosa memoria consiste, invece, di luoghi e immagini: «Chiamiamo luoghi quelli che sono stati formati o dalla natura o dalla mano

dell’uomo» 49, così determinati,

così riconoscibili che

la memoria naturale può facilmente comprenderli e abbracciarli; «così un intercolumnio, un angolo, un arco e cose simili». Le immagini sono forme, segni e simulacri della cosa di cui vogliamo ricordarci

«come

cavalli,

leoni, aquile».

Per serbarne

memoria,

continua lo pseudo-Cicerone, collocheremo le immagini in luoghi stabili. I concetti che si imprimono di più nei nostri animi, aveva ammonito già Aristotele, sono quelli trasmessi dai sensi. Tra questi in particolare l’udito e la vista #1. Maggiormente quest’ultima,

38 (Pseudo) CiceRoNE,

Rhetorica

ad Herennium,

III, 16, 28 (Mondadori,

Milano 1992, a cura di F. Cancelli). Ho tenuto conto anche della tr. it. di G.G. Locatelli,

SAN,

Milano

1931, Pubbl.

duecentocinquanta esemplari.

della Reale Accademia,

39 Ivi. 40 Ibidem, 29-30. 4! ARISTOTELE, Del senso e dei sensibili, 1, 437a.

ed. bilingue,

in

TEMPIO

DELLA

CONVERSAZIONE

E TEATRO

DELLA

MEMORIA

97

indulge Cicerone 4: teniamo spesso «sotto i nostri occhi ciò che non riusciamo ad abbracciare col pensiero». Come tutte le cose che «cadono sotto i nostri occhi», le immagini hanno bisogno di una loro sede: non si può concepire un concetto sensibile senza una sua collocazione. Bisogna allora servirsi di «luoghi numerosi, chiari, evidenti, poco distanziati l’un l’altro (modicis intervallis), e

di immagini efficaci (imaginibus agentibus), forti, distinte, che possano presentarsi e colpire rapidamente il nostro animo» #3. Allora come debbono essere questi luoghi, in che modo si possono trovare e come si debbono collocare le immagini? Il meccanismo, precisa Cicerone è lo stesso che presiede alla scrittura sot-

to dettatura. Come chi conosce l'alfabeto può scrivere sotto dettatura e poi leggere ciò che ha scritto, così chi apprende la «mnemonica» (nome con cui i greci designavano i luoghi in cui collocare le immagini) può collocare in determinati luoghi le cose che ha ascoltato e aiutandosi con questi ripeterle a memoria: «I luoghi sono in tutto simili alle tavolette di cera o alla carta, le immagini corrispondono alla scrittura, il proferimento alla lettura. Bisogna dunque volendo ricordare molte cose, provvedersi di molti luoghi, per potervi collocare molte immagini. E sarà necessario predisporre questi luoghi in successione ordinata, perché la mancanza di collegamento non ci impedisca di percorrere le immagini, da qual parte ci piaccia, dal principio o dalla fine, e riconoscere le

idee che ai luoghi sono state affidate» 4. L'utilità pratica della memoria è fuori discussione. Simonides docet 4. Identificando i morti, ormai irriconoscibili, dall'ordine in

cui erano seduti al banchetto, Simonide scoprì anche «che è soprattutto l'ordine che illumina la memoria». Chiunque voglia esercitare questa facoltà della mente deve scegliere dei luoghi e lasciar imprimere nell’animo, dopo averlo collocato in questi luoghi, ciò che si intende memorizzare: in questo modo l’ordine dei luoghi conserverà l’ordine delle cose e le immagini delle cose indicheranno

le cose

stesse; ci si servirà dei luoghi «come

di cera e

delle immagini come di lettere». Di grande utilità per chi parla, dal momento che è senz'altro di grande utilità tenere scolpiti nella mente tutti i concetti. Per l'oratore, o il locutore nel caso di Guaz-

4 CICERONE, de orat., II, 357. 4 Ibidem, 358. 44 (Pseudo) CicERoNE, Rhetorica ad Herennium, cit., III, 17, 30. Seguo qui, con qualche modifica, la traduzione di Locatelli.

45 CICERONE, de orat., II, 352 sgg. Per la ripresa in Quintiliano, cfr. inst. orat., XI, 2.

98

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

zo, con un'importante aggiunta tuttavia: «... tutta quest'arte del dire 0, se vogliamo così chiamarla, quest'apparenza e somiglianza di arte, possiede questo potere: essa non è capace di creare ciò di cui la nostra mente sia del tutto priva, ma è capace di sviluppare e di rafforzare quelle forze che sono radicate in noi» #. Di indubbia importanza, del resto, il ricorso all'ordine: bisogna scegliere i luoghi disposti in ordine; per collocare le immagini si potranno trovare ovunque, come le idee affidate ai luoghi. L'autore dell’Ad Herennium adduce un esempio, poi divenuto classico: se vedessimo allineate davanti a noi persone conosciute, sarebbe per noi indifferente pronunciare i loro nomi cominciando dalla prima, dall’ultima o da quella di mezzo. Bisogna procedere poi alla considerazione attenta dei luoghi fissati, perché possano restare in mente in modo indelebile, dato che le immagini, come le lettere, per il non uso si cancellano ‘#7; occorre anche che i luoghi, come

tavolette di cera, rimangano sempre a disposizione. Per evitare che la moltitudine dei luoghi tragga in inganno sarà bene contrassegnarne uno ogni cinque: nel quinto luogo si collocherà una mano d’oro; nel decimo un conoscente di nome Decimo, e così via.

Sarà inoltre conveniente disporre i luoghi in una zona deserta (derelicta), piuttosto che in una frequentata, poiché la folla e il via vai di gente confondono e indeboliscono le immagini, mentre la solitudine conserva perfettamente le figure delle immagini #8. Bisogna inoltre sceglierli dissimili di forma e di natura, perché ci appaiano ben distinti; e di mediocre grandezza: quelli troppo ampi rendono vaghe le immagini; se troppo piccoli spesso non riescono a contenerle. Non siano né troppo chiari né troppo scuri perché non svaniscano nelle tenebre, né abbaglino per troppo splendore. Siano collocati ad intervalli giusti (circa tre piedi). La vista, come la mente, ha meno forza allontanando o avvicinando troppo ciò che si deve vedere. Chi non ne trovasse di adatti potrà fabbricarsene quanti vorrà. L'immaginazione può certamente creare una regione, e in essa costruire e architettare a suo arbitrio luoghi di ogni tipo. Se non si è soddisfatti del repertorio, se ne creerà, con l'immaginazione, un altro da cui attingere. A questo punto la Retorica a Erennio passa ad analizzare la teoria delle «imagines»: dal momento che le immagini devono essere conformi ai concetti (alle cose) «dobbiamo noi stessi sce-

46 Ibidem, II, 357. 47 (Pseudo) CicERoNE, Rhetorica ad Herennium, III, 18, 31. 4. Ibidem, III, 19, 32.

TEMPIO

DELLA

CONVERSAZIONE

E TEATRO

DELLA

MEMORIA

99

gliere le somiglianze da tutte le cose» 49. E duplice deve essere la rassomiglianza: nelle cose e nelle parole. Secondo lo pseudo-Cicerone la somiglianza delle cose si ottiene formando sommariamente le immagini di esse; la somiglianza (la similitudine) delle parole sì raggiunge affidando a un'immagine il ricordo di ogni nome e di ogni espressione. Spesso si racchiude in un unico segno e in un'unica immagine il ricordo di un intero fatto: nel caso che l’accusatore sostenga che un uomo è stato ucciso dall’accusato con veleno per motivi di eredità e affermi che al fatto abbiano assistito testimoni e complici, per approntare la difesa si raffigurerà l’intero fatto; se conosciamo le fattezze della vittima la si immaginerà giacente a letto; nel caso non la si conosca si immagi-

nerà un altro ammalato, ma di una certa distinzione, perché ci torni subito alla mente: «porremo presso il letto di quello l’accusato, che reca nella destra una tazza, nella sinistra delle tavolette (testamentarie) e sull’anulare testicoli d’ariete» (la tazza simboleggia il veleno, le tavole la successione, i testicoli, dall’etimologia, i testimoni, testes) 5°. Ci si ricorderà così dei testimoni, dell'eredità

e dell’avvelenato. stesso

Nei rispettivi luoghi si collocheranno,

procedimento,

le accuse

secondo

il loro ordine;

con lo e se si

saranno ben disposte le figure, e chiaramente caratterizzate le immagini, si troverà facilmente nella memoria tutto ciò che serve alla rammemorazione. Impresa molto più difficile, secondo Cicerone, quella che riguarda la resa tramite immagini, delle somiglianze delle parole. In questo senso la formazione delle immagini ha valore in quanto suscita la memoria naturale. Dato un verso, si ripasserà due o tre volte; poi se ne rappresentano le parole con le immagini: così l’arte viene in soccorso della memoria naturale. L’una separata dall’altra risulterebbe meno efficace. Ma le immagini non possiedono tutte lo stesso vigore e la stessa forza. Ne esistono di indelebili, inconfondibili, adatte quindi allo scopo rammemorativo,

altre invece

deboli, indecise, inadatte

a eccitare

la

memoria. Di tale differenza va ricercata la causa per sapere con sicurezza quali scegliere e quali eliminare. In questo è guida la natura: nelle cose quotidiane ci dimentichiamo dell’ovvio, dello scontato, del quotidiano appunto. Ci colpiscono invece elementi nuovi o meravigliosi: è questa la ragione che ci fa dimenticare cose viste con i nostri occhi o udite da poco a vantaggio di eventi lontani risalenti all'infanzia, «anomalia» che si spiega solo consi-

49 Ibidem, III, 20, 33.

50 Ivi. Per una possibile interpretazione del riferimento all’ariete cfr. F. YaTESs, L'arte della memoria, cit., p. 39.

100°

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

derando che l’abituale sfugge facilmente alla memoria; il rilevante e l’insolito restano più a lungo 5!. A nessuno, continua l’autore dell’Ad Herennium, viene in mente di stupirsi del sorgere e tramontare del sole, spettacolo di tutti i giorni: «Imiti dunque l’arte la natura, e quel che questa richiede, acquisisca, quel che mostra, segua» 5. Non vi è nulla infatti che la dottrina abbia scoperto prima della natura. Bisogna dunque che si formino immagini simili a quelle che restano più a lungo nella memoria (naturale); si riuscirà nello scopo se si sceglieranno somiglianze note, fissando immagini né mute né vaghe, ma dense di significato: attribuendo a esse una bellezza cospicua o una bruttezza singolare, guarnendole di qualche ornamento: una corona, una veste di porpora, per rendere più evidente la somiglianza, o deformandole comunque; insanguinandole, infangandole, aspergendole d’ocra, perché ne sia meglio distinto l'aspetto; o attribuendo a esse alcunché di ridicolo, dato che anche questo elemento contribuisce a farcele ricordare 53. «I greci che scrissero sulla memoria» compilarono una raccolta di immagini di molti vocaboli (parole), a vantaggio di chi volesse memorizzarle. Questo modo di procedere non è approvato dalla Retorica a Erennio (Rhetorica nova o secunda, per distinguerla dal De inventione). La memoria delle parole (verborum memoria) potrebbe comunque sembrare molto difficile da praticare e poco utile, secondo lo pseudo-Cicerone. Ci si dovrà accontentare della memoria FErDidni:

Ma lo pseudo-Cicerone non disapprova la memoria delle parole. Infatti egli è convinto che per tenere a mente cose facili ci si debba cimentare con le più complesse. Egli consiglia l’«esercizio del discorso», perché esso rafforza la memoria delle cose. Bisogna quindi allenarsi. In ogni disciplina i precetti teorici sono sterili senza l'esercizio. Nella mnemonica poco valgono le regole se non convalidate e rafforzate dall’esercizio, dallo studio, dall’applicazione, dal lavoro. Bisogna allora procurarsi il massimo numero possibile di luoghi conformi alle regole. Esercitarsi quotidianamente a collocarvi le immagini, e non lasciarsi distrarre in questo esercizio da altre occupazioni 55. Anche se

5! Ibidem, III, 22, 35. 52 Ivi. 53 Ivi.

54 Ibidem, III, 24, 39. SS Ivi.

TEMPIO

Cicerone

DELLA

riconosce

CONVERSAZIONE

che la rerum

E TEATRO

memoria,

DELLA

MEMORIA

la memoria

101

dei con-

cetti, è quella propria all’oratore 56. Anche Quintiliano riporta l’aneddoto di Simonide. Simonide come l’inventore dell’ars memoriae. La mnemonica, come la maggior parte delle arti, deriva dall'esperienza. Anche qui la ricerca dei loci, siti quanto più ampi possibili, caratterizzati da una vasta varietà ambientale, per es. una casa ampia e suddivisa in molte stanze.

La stessa

preoccupazione

di Cicerone:

tutto

quel che è

notevole in essa lo si fissa con cura nella mente «perché il pensiero possa percorrerne, senza alcun indugio e impedimento tutte le parti». La prima fatica consisterà nel non aver indugi nel percorrerla. Il ricordo che voglia aiutarne un altro dovrà essere più che sicuro. In un secondo momento quello che si è già scritto, o si pensa, lo si mette in risalto con qualche segno rammemorativo, che può essere tratto dall’argomento nel suo insieme. Basta ricordare un solo termine, allora, per ricollocare, nella memoria,

pen-

sieri diversi. Per ciò che concerne la successione ordinata la via da seguire è la seguente: la prima idea si assegna come a un vestibolo, la seconda come a un atrio, quindi si va attorno ai cortili, si

stabilisce ordinatamente un collegamento non solo tra le stanze e le esedre ma anche con le statue e con gli ornamenti della casa. Se le cose da richiamare alla memoria sono molte, esse si presenteranno concatenate le une alle altre come una correggia (corio). Lo stesso criterio applicato alla casa è estensibile alle opere pubbliche, ai viaggi, al perimetro delle città, ai dipinti (anche al tempio della conversazione?). È lecito formarsi queste immagini e conseguentemente «c’è [...] bisogno di luoghi o immaginari o reali [e] di figure e rappresentazioni mnemoniche, che debbono essere sempre immaginate» 57. Viene richiamato Cicerone: bisogna servirsi dei luoghi come della cera, delle rappresentazioni mnemoniche come dei caratteri. Ma per la conversazione (sermo) in che modo la trama articolata delle parole potrà essere ricordata con la medesima arte? «Trala-

56 CICERONE,

de orat., II, 89, 359. Le Tusculanae

Disputationes contengo-

no uno dei più begli elogi tributati alla memoria «rerum et verborum» munate nell’intento encomiastico: «Davvero mi sembra divina questa che produce tanti e sì grandi effetti. Che cos'è infatti la memoria delle delle parole? Cos'è la facoltà inventiva? Certamente una cosa di cui

accoforza cose e non si

può concepire nulla di più grande, neppure nella divinità [...]. Omero [...] attri-

buiva agli dei le qualità degli uomini; io preferirei che avesse attribuito a noi quelle divine», qualità che sono la vitalità, il ragionamento, la facoltà inventiva, la memoria. Pertanto l’anima che possiede «vitalità, ragionamento, facoltà inventiva e memoria è [...] divina» (I, 26). 57 QUINTILIANO, inst. orat., XI, 2, 20-21.

102

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

scio il fatto che certe cose non possono essere significate con alcuna immagine mnemonica, come avviene almeno per le congiunzioni. Ammettiamo pure, infatti, di avere davanti a noi, come avviene agli stenografi (qui notis scribunt), i segni sicuri di tutte le parole e i luoghi innumerevoli, con cui rappresentare tutte le parole che si trovano nelle cinque parti della seconda azione contro Verre, di poterci pure ricordare di tutte le parole, come se ci fossero state affidate in custodia: non è forse inevitabile che lo svolgersi del discorso sia intralciato dal duplice sforzo della memoria?» 58 Osservazione di cui lo stesso Guazzo non potrà non tener conto. Insieme alla seguente: «la memoria sia aiutata dalla doppia attivi-

tà del dire e dell’ascoltare» 59. Loci communes: favole, proverbi, geroglifici che funzionano nella miglior tradizione da luoghi comuni, da segni rammemorativi per l’artificiosa memoria. Guazzo allude a un libro di loci communes, disegni e schizzi della memoria, imagines agentes, perché come recitava anche la Tipocosmia di Alessandro Citolini, conosciuta, tra gli altri, anche da Bacone, la memoria naturale «per la picciola capacità de la stanza» ripone il sapere, «che con acerbissima fatica s’acquista» 9° nella «mal sicura» aula agostiniana. L’uomo che ha conservato il sapere nella memoria naturale, da sapiente, non appena questa viene meno, si ritrova ignorante. La dimenticanza, l’oblivio, si accompagna alla distruzione del sapere e fa correre alla sapienza il rischio più pericoloso e assurdo: quello della propria morte. Essa è il rischio da cui la natura umana non preserva 6!. La Tipocosmia si pone come tentativo, un po’ atipico e bizzarro, di esorcizzare la perdita della memoria che avvicina l’uomo al bruto animale: è il «rimedio» al natural difetto dell’uomo, anzi «il rimedio vero» ; modo di acquistar senza fatica il sapere, riporlo nella sua globalità, conservarlo e conseguentemente fissarne per sempre i risultati. Progetto ambizioso: «Dico che, quantunque così difficil sia, lo acquistare, e conservar questo sapere (il quale altro non è, che haver che dire, saperlo dire; che son le scienze e le lingue) a lo acquistarlo senza alcuna noiosa fatica, e conservarlo per sempre, e starsi sicuri, di mai non perderlo,

58 Ibidem, XI, 2, 24. 59 Ibidem, XI, 2, 33. 60 A. CITOLINI, La Tipocosmia, appresso Vincenzo Valgrisi, Venezia

2r. La Yates avanza l’ipotesi che fu plagiata a Camillo. OLRIVI 62 Ibidem, 2v.

1561,

TEMPIO

DELLA

CONVERSAZIONE

E TEATRO

DELLA

MEMORIA

103

s'è ritrovato il rimedio vero...» 6. Sapere che risulta tutto imbrigliato dalle regole della sua dicibilità e dai congegni della retorica classica, che Citolini qui restituisce (inventio, dispositio, elocutio,

pronunciatio, memoria), sapere repertoriabile e citabile secondo canoni retorici, applicati però al sapere del gran theatrum mundi; imbrigliato da quel duplicato artificiale, «ampio ricetto da me chiamato il Mondo», fatto di ordini e di divisioni, in cui «tai cose

son riposte», cose apprese, da fissare nella memoria e ricordare «rispetto al quasi infinito, e incomprensibil numero di esse cose». Un repertorio nel quale chiunque possa da se stesso trovare ciò che vuole, con maggior o minor facilità, comunque in rapporto con la propria scienza. Si troverà forse più di un repertorio, «un Mondo» appunto, dal momento che Citolini è dell’avviso di non poter conferire a questa sua costruzione «né più ricercato, né più vero, né più proprio, né più accomodato nome» *. Vicino ad

abbandonare il suo progetto, argomento della sua «immensa, sterminata, e quasi infinita [sua] grandezza», tentato di abbandonare

l’impresa e poi trattenuto questo «feto» presso di sé, dopo averlo partorito, per dieci anni 6, decide di portarlo a termine perché chiunque

(«ciascuno»)

potesse conoscerlo

e «fabbricarsene»

uno

del tutto simile al «modello» che egli aveva approntato. A ciascuno, perché il sapere è utile e indispensabile, anzi, a ogni «gentiluomo» e ai principi reggitori del mondo. La Tipocosmia dichiara, così, nel suo esordio, la propria filiazione dai precetti della filosofia aristotelica e platonica: arte che tratta «de’l Mondo tutto e di tutte quante le cose che in esso si contengono...». Tipologia del conoscibile e del dicibile, di tutto quello «che è possibile esprimere in lingua humana». L’«artificioso mondo» non è che una «artificiosa memoria» e vuol imitare il «Mastro Eterno» e il «Mondo suo». Un mondo artificioso che alla fine del dialogo, coincidente con il settimo giorno, gli «interlocutori» vedranno con gli occhi: proprio quel mondo che «per sei giorni era loro stato con parole dipinto» 6. Consapevole del valore dell’oralità, Citolini motiva in questo senso le ragioni della scelta del dialogo: «per rispondere a tante tacite domande, et obiezzioni [...] Per evitare lunghe digressioni».

63 Ivi. Sott. mia. 64 Ibidem, 3v. 65 Ibidem, 4r. L'’«incomprensibile numero di cose» ha rappresentato, secondo Citolini, la ragione per cui il feto, partorito senza forma, rimase tale per dieci anni; ma la malattia che ha portato l’autore vicino alla morte, lo ha anche spinto a «leccar questo mio parto, per dargli forma», «a guisa d’orsa». 66 Ibidem, Sv.

104

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

L'immagine dell’oblioso cribro guazziano dei Dialoghi piacevoli (l’uomo apprende subito, ma altrettanto facilmente dimentica, come il cribro che posto nell’acqua subito si riempie, ma poi, se ritirato, subito si svuota) è strettamente connessa alla citoliniana «sapienza smemorata», ma ancor di più al setaccio platonico del Gorgia 9.

Guazzo

si dichiara persuaso

che con l’arte della memoria,

quest’ultima non solo si conservi ma anche si rafforzi. In conformità con quanto Aristotele osserva nel De memoria et reminiscen-

tia 8 «due sono le virtù della memoria», cioè «l’apprendere facilmente, et il ritenere lungamente, quella proviene dall'umidità, et questa dalla siccità», per cui alcuni son più abili nell'apprendere che nel mantenere e ovviamente vale anche il contrario. Ma come in Montaigne, già in Guazzo, lo abbiamo ricordato, si configura una certa diffidenza verso la memoria, e il suo «declassamento»

rispetto all’intelletto. Spesso, infatti, memoria e intelligenza non hanno lo stesso passo e accade che a uno «svegliato» intelletto sia concessa una memoria debole e viceversa una «svegliata» memoria sia accompagnata da un addormentato ingegno. In sintonia con quanto scriverà al figlio, Guazzo indica il metodo per correggere la memoria nell'apprendere e conservare il sapere «seguendo la scienza, et la prova» ed elegge come organi di senso privilegiati la vista e l'udito, cui corrispondono morfologicamente, la lettura e la conversazione, i libri e la parola. Fedele all'insegnamento ciceroniano, Guazzo richiama la costruzione dei propri luoghi e, sotto di essi, le imagines agentes o cose «più notevoli» che si leggono od odono: «rivolgerle spesso per la mente», esercitare la mente senza impacci e intoppi (i luoghi topologigamente dovevano essere abbastanza larghi, le immagini collocate a intervalli relativamente distanziati, perché fosse più semplice ripercorrerle con la mente). Anche un commentatore autorevole di Aristotele, quale Tommaso d'Aquino, aveva precisato nella Summa theologica ® e riproposto nel commento al De memoria et reminiscentia («Sic ergo ad

67 PLATONE, Gorgia, 493c. Gli «insensati» non conservano nulla. Gli abitanti dell’Ade devono portare acqua alla botte forata con un setaccio, ugualmente forato. Il setaccio è l'animo degli insensati che è «bucato» a causa «della sua incredulità e della sua dimenticanza». 68 Qualche possibile riferimento in 2, 450b. 6° Tommaso

D'Aquino,

La somma

commento a cura dei Domenicani Bologna 1986.

teologica,

16, II-II, q. 49, aa,

1-2, tr. e

italiani, testo latino dell’ed. leonina, ESD,

TEMPIO

DELLA

CONVERSAZIONE

E TEATRO

DELLA

MEMORIA

105

bene memorandum vel reminiscendum, ex praemissis quatuor documenta utilia addiscere possumus. Quorum primum est, ut studeat quae vult retinere in aliquem ordinem deducere. Secundo ut profunde et intente eis mentem apponat. Tertio ut frequenter meditetur secundum ordinem. Quarto ut incipiat reminisci a principio») 7°: «le cose che ci preme ricordare bisogna ripensarle spesso». In conformità all'insegnamento dello pseudo-Cicerone della Retorica a Erennio e del De inventione, Tommaso è consapevole che la memoria non si esplichi unicamente in base alla natura e chiami pertanto in causa arte e industria personale. Quindi egli non

si esime

dall’indicare

fondamentali

documenta,

idonei

allo

sviluppo della capacità mnemonica e rispondenti a gran parte delle soluzioni classiche.

Echi riconoscibili e, a loro modo,

rassicu-

ranti. Echi appassionanti e appassionati, ma classicamente composti: si rivestano le cose da ricordare di immagini adatte ma non troppo ordinarie; lo straordinario desta nell’individuo più meraviglia e consente all’animo di applicarsi con più forza ?!. Si tratta di una sorta di ricerca di somiglianza e immagini, immagini corporee, preferibili alle «idee semplici e spirituali», esposte al rischio dell’evanescenza e dell’oblio poiché la «conoscenza umana è più adatta alle cose sensibili» («Ecco perché la memoria si riscontra nella parte sensitiva») ??. E poi l’ordine. La disposizione ordinata nel pensiero di ciò che si intende ricordare agevola il passaggio da un ricordo all’altro: associazione a grappolo, per così dire. Viene richiamato ovviamente Aristotele: «Le reminiscenze talora prendono spunto dal luogo; e questo perché si passa facilmente da un luogo ad un altro». Spazialità del ricordo e sua architettura ma anche «sollecitudine» e «affetto» con cui investire la topica memorativa: più una cosa si imprime profondamente nell’animo più è durevole. Non a caso Cicerone insisteva, ricorda Tommaso,

che «‘la solleci-

tudine conserva intatte le immagini delle cose rappresentate’». Da ultimo è necessario ripensare spesso l’oggetto del ricordo: «Ecco

perché il Filosofo afferma, che ‘i pensieri assidui salvano la memoria’: poiché com’egli si esprime, ‘la consuetudine è come una seconda natura’; ed ecco perché subito ricordiamo le cose che

70 Tommaso

D'Aquino, De sensu et sensato.

De memoria

et reminiscentia

commentarium, Marietti, Torino 1949, Lect. V, 371. 71 Tommaso D'Aquino, La Somma Teologica, cit., I-II, q. 49, aa, 1-2. Per

l’approfondimento di queste tematiche in rapporto anche ad Alberto Magno si rinvia ai lavori di P. Rossi e F. Yates. 7 Ivi.

106

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

spesso abbiamo pensato, passando dall’una all’altra quasi seguendo un ordine naturale» 73. Guazzo insisterà esplicitamente su un ulteriore elemento significativo che è poi alla base dell’ars memorandi: luoghi e immagini che vanno a costituire la mnemotecnica siano insegnabili e comunicabili. La memoria va inoltre esercitata. Conformemente a quanto Guazzo aveva parzialmente anticipato, l’ordine ciceroniano (e in un certo senso aristotelico) con cui le immagini (le cose, afferma Guazzo, res, i concetti) vanno collocate permette di entrare «agiatamente d’una in altra»; imagines agentes che «giocano un ruolo» come a teatro. Il linguaggio teatrale della Retorica a Erennio (III, 21, 34) guarda ai loci con una concezione architetturale e alle immagini con una concezione teatrale. La concezione teatrale della memoria, come

è stato

ampiamente

dimostrato,

attraverserà

tutta

la

cultura della «artificiosa memoria» rinascimentale. Camillo ne è esempio emblematico. La memoria artificiale è una scrittura di immagini il cui supporto è l’architettura mentale. Di tale architettura mentale e della scrittura dell'immagine, Guazzo dichiara che nessuno possa farne a meno. Di mnemotecnica si vive: «... crediate che non vi ha così stabil memoria che senza queste osservationi non se ne vada leggiermente in fumo» (DP, 94). Ma la mnemotecnica o arte della memoria non basta a «edificare» la memoria se nel contempo non si fuggono le circostanze, i cibi, le passioni che la diminuiscono:

«le veglie, i legumi, i cavoli,

et tutti i cibi vaporosi, i vini potenti, et copiosamente bevuti, il patir gran freddo, il timore et l’intemperanza», la vecchiaia che naturalmente affievolisce questa «fragile» memoria «nell’huomo» (Ibidem, 95) 74. L'ars memoriae, l’artificiosa memoria, è una sfida dell’uomo alla stessa fragilità umana, alla sua «fragile» memoria,

al suo sapere sempre insidiato se non ingabbiato in una architettonica e in un teatro pronto all’uso. Memoria è pur sempre Madre delle Muse. Senza di essa, si commenta sempre e comunque, non ci sarebbe nemmeno il sapere. Mnemosine è da sempre madre delle Muse e dea della memoria. Lo ricordano Teogonia, Teeteto, Eutidemo, Crizia 75. Senza memoria non c’è sapienza; senza «bloc-

73 Ivi. 74 Sulle cause della «dimenticanza» cfr. M. Ficino, De vita triplici, Biblioteca dell'Immagine, Pordenone 1991 (a cura di A. Biondi e G. Pisani, testo latino a fronte), I, XXV, pp. 81-83; G.B. DELLA Porta, Della Fisionomia dell’uomo, cit., II, 614-615.

75 Per la Teogonia, 275d; per Crizia, 108d.

53 sgg., 915-917;

per Teeteto,

191d; per Eutidemo

TEMPIO

DELLA

CONVERSAZIONE

E TEATRO

DELLA

MEMORIA

107

co di cera» (grande o piccolo, di cera più o meno pura, umida o di grossa consistenza), dono di Mnemosine — che già prima di Aristotele e Cicerone è in Platone «sottoposto alle sensazioni e ai pensieri» — non si imprime nulla che non sia stato udito, visto o pensato da se stessi «come quando imprimiamo segni nei sigilli» 76. Ciò che resta impresso lo ricordiamo, e quindi lo sappiamo, fintanto che la sua immagine resti impressa, «mentre ciò che si sia cancellato o non sia più in grado di imprimervisi, lo dimentichiano o non lo sappiamo» 77. Guazzo è perfettamente d’accordo con l’opinione platonica. Nel Dialogo secondo sul Principe di Valacchia, Francesco Pugiella riconosce al Cavalier Guazzo di aver fatto una «domanda giudiciosa»: «perché sì come non sappiamo nulla se non quel che nella mente ritegniamo, così dee chiamarsi infelice chi è privo di memoria, la quale è titolata Madre delle Muse, et tesoro di tutte le scienze» (Ivi).

Nella Civil! Conversatione la tematica della memoria è inserita nel contesto del dibattito solitudine vs conversazione. Memoria non solo individuale ma anche collettiva e sociale. In questo testo la memoria slitta dal piano individuale (che tuttavia è presupposto dalla retorica della conversazione), per attestarsi nella dimensione della memoria sociale. Dopo aver mostrato il suo disprezzo per quella «muta, et odiosa filosofia» che se ne sta tutta presso di sé, ignorando che senza «l’opere è morta», e non sottopone il suo sapere esoterico al riconoscimento altrui («col proprio giudicio non si può [il filosofo solitario] assicurare d’havere appresa la scienza, se non la fa conoscere, et se non la sente approvare da altri intendenti»), alla comunità scientifica — per cui tra «sepolto tesoro, et occulta sapienza, non si conosce alcuna differenza» (CC, I, 14r-v); per quella filosofia che non lascia conoscere il proprio sapere e rimane ostinata nella solitudine, Guazzo riafferma che se il padre della sapienza è l’uso, la madre è la memoria: chi voglia acquistare la conoscenza, deve trarla non solo dai libri (lo studio solitario), ma dalla «prova infallibile, et l’essercitio intorno all’intelligenza delle cose, le quali conosciute, s’hanno a ricevere, et a fermar bene nella memoria, per poter poi dalla sperienza già fatta consigliarsi, et governarsi, et giovare altrui secondo gli avenimentiw.(CCyLa3191). Carattere epistemologico della memoria, dunque. La «prova infallibile», in cui agisce anche la memoria, è il primo richiamo di

76 Teeteto, ivi. Cfr. Aristotele, De mem., 1, 450a 33. n Ivi.

108

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

una certa rilevanza che Guazzo fa agire in questo brano. La ripetibilità del procedimento e la sua controllabilità sono indice della scientificità del procedimento stesso. Un procedimento, perché possa dirsi scientifico deve essere ripetibile e controllabile: la scienza è legata alla «prova», come suggeriscono anche i Dialoghi piacevoli. Prova infallibile e esercizio, ripetibilità e controllo: non basta conoscere le cose, bisogna fissarle perché il sapere che ne deriva possa essere controllato ma anche utilizzato. La memoria entra a far parte del processo conoscitivo in due momenti distinti, quello della sua costituzione e del controllo che ne provi la validità. Il primo momento è quello della fissazione del sapere. Se il sapere non venisse fissato e fosse in una continua situazione di flusso non potrebbe servirsene nemmeno il suo «cattivo» produttore. Il secondo momento è quello della conferma che tale cumulo di acquisizioni sia da identificare con il «sapere». Esso va quindi ripetuto nei suoi processi costitutivi e accertato nei suoi risultati.

Anche in questo caso entra in causa la memoria: dall'esperienza già fatta suggerisce condotte private e collettive, e le generalizzazioni sul piano scientifico. Socializzando il sapere, la memoria diviene memoria

Tommaso,

sociale. Come

sostenevano

Aristotele, Cicerone e

la memoria e il ricordo sono necessari a «ben delibera-

re sulle azioni future». E in questo senso è una forma di prudenza, per sé e per gli altri. Il carattere sperimentale del sapere è frutto allora della memoria, che è madre del sapere e della sua riproducibilità. Il momento pratico-applicativo come controprova della teoria, la ripetitività del processo, sono resi possibili dalla memoria: «non è tenuta sicura la teorica, senza la prattica». Una pratica sperimentata personalmente («confidiamo più nell’argomento delle cose da noi con ragione sperimentate, che nella semplice dottrina altrui»). Il momento del controllo e della sperimentazione implica l’uscita dall’esoterico e la comunicazione del sapere

perché

altri

se

ne

approprino.

Memoria

e «conversatione»

costituiscono un nodo indissolubile.

Dal teatro della memoria al «giardino» delle imprese

Testimonianze della strategia tipicamente rinascimentale dei loci communes

(favole, proverbi, geroglifici, emblemi, imprese che

funzionano da luoghi comuni) sono disseminate in tutte le opere maggiori di Guazzo. Certamente ne è intessuta la Civil Conversatione, ma anche i Dialoghi piacevoli, in cui l’autore, oltre a costellarne produzione e scrittura, dedica un’intera sezione (dialogo) alla definizione dello statuto di emblemi, geroglifici, imprese: in

TEMPIO

DELLA

CONVERSAZIONE

E TEATRO

DELLA

MEMORIA

109

ultima analisi della «grammatica generale dell'immagine», di questo «grande oceano», insieme alla messa a punto della funzione delle favole e dei proverbi, che in verità risultano essere anche altro rispetto ai «segni rammemorativi»: similitudini, sentenze, esempi, simboli. Dalle lettere guazziane apprendiamo che favole, proverbi, geroglifici, ecc. sono disegni e schizzi per la memoria: immagini

sulla carta, immagini

rammemorative.

Come

in Giovio,

che Guazzo ha ben presente anche nella sua polemica con Ruscelli, l’arte delle imprese è strettamente legata all’ars memoriae. Nel dialogo Delle Imprese, Guazzo per bocca di Annibale Magnocavalli — lo stesso interlocutore della CC — si dispone a compiere «un brieve, et sicuro viaggio» nel grande oceano del mondo simbolico, e soprattutto stabilire origine e forma delle imprese (DP, 170-171). L'uomo dispone di tre modalità per esprimere i concetti: «con parole, con segni o con ambidue» (Ibidem, 172). Il primo modo corrisponde al linguaggio, «modo delle parole». Allontanandosi dal parlare comune, gli oratori cominciarono a predisporre un linguaggio più sofisticato, «più polita, et artificiosa maniera», per spiegare i loro concetti: nacque l’eloquenza, la retorica. Altri «con vaghezza, et col velo delle figure» si meritarono il nome di poeti: parlavano vagamente e mestamente, velavano le loro parole. Altri ancora «con la gravità delle sentenze» si meritarono il titolo di filosofi. Sibille e profeti poi, utilizzando il linguaggio figurato, analogico, oscuro dei poeti «così da non lasciarsi intendere dalla vilissima plebe», risvegliarono gli spiriti «allo studio, et all’intelligenza de’ secreti loro» (Ivi). Tema questo che verrà ribadito con vigore e diverrà l'oggetto pervasivo del Proemio alla Iconologia di Cesare Ripa, insieme alla caratterizzazione delle immagini come «archivi della memoria». Guazzo dilata l’uso del linguaggio «oscuro» a poeti e a filosofi, coinvolgendoli in una volontà di occultamento e ermetismo teso sempre a «velare i segreti di Dio, et della natura». Nello stesso intento accomuna Sibille e «perfetti filosofi» (Orfeo, Pitagora, Socrate e Platone). Certamente il linguaggio oracolare e sentenzioso è campione di «breviloquenza», artificio che contraddistingue dall’uomo volgare, articolazione di motti come saette. La «grazia» non consiste solo in questo parlar breve «ma nel saper coprir lo spirito sotto le lettera, et figuratamente accennar cose diverse dalle parole, onde risulti il senso morale, et allegorico come dimostrano i motti, i bischici, le favole, i simboli, gli enigmi, et altri simili, de’ quali come di fiori, et di gemme, si sforza ogni leggiadra persona d’adornar i suoi ragionamenti...» (Ibidem, 174-175), il proprio

discorso, il proprio tempio. Lo stesso ruolo svolgono i proverbi, a torto ritenuti convenienti alle «persone idiote». Anzi essi procura-

110

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

no «diletto giovevole» e «giovamento dilettevole» se opportunamente accompagnati dall’ornamento della figura e dalla gravità della sentenza, se usati «discretamente»,

a luogo e a tempo, come

hanno fatto, del resto, Platone e Plutarco. Diversa difficoltà presenta invece l'enigma che non è parlare figurato ma «parlar oscuro». La ragione dell'efficacia del parlar breve è anche un’altra: delle parole presto si perde memoria, al contrario della scrittura che rimane per lungo tempo sotto la «censura» altrui (Ibidem, 177). Sin qui la modalità di esprimere i concetti con le parole. Guazzo passa ad esaminare quei concetti che si esprimono con i segni, tra questi i geroglifici egiziani. Gli egizi, infatti «non havendo ancora l’uso delle lettere s’affaticarono, nell’isprimer i concetti delle lor menti con diverse figure...» (Ibidem, 178). Il geroglifico viene inteso qui, in conformità con quanto il Rinascimento riteneva, scrittura prealfabetica, ideogrammatica, significativa di concetti (la cicogna, per l’amore verso i genitori; il papavero per la fertilità; la lepre per l’uomo vigile; il coccodrillo per l’empio e lo scellerato, ecc.). Un segno per un concetto. Ma tutti esempi tratti dal repertorio di Valeriano e in parte di Horapollo. Tuttavia si assisterebbe ora, insiste Guazzo, a un «abuso» nell'impiego dei geroglifici, tanto più che essi, segni o figure, «possono

[...] ricever

varie

interpretazioni,

et lasciar

la mente

confusa». I geroglifici si prestano a molteplici interpretazioni, specialmente i geroglifici «moderni». La preferenza dichiarata di Guazzo

va a quei concetti

che si manifestano

«giuntamente

con

segni, et con parole, come gli emblemmi raccolti dall’Alciato, et da altri nobili scrittori» 78. E di Alciati presumibilmente Guazzo è

78 La letteratura sulla emblemistica e impresistica è com'è noto sterminata. Mi limito ad indicare qualche contributo fondamentale. Oltre R. ARNHEIM, Visual Thinking, Regents of the University of California, Berkeley-Los Angeles 1969; tr. it. Il pensiero visivo. La percezione visiva come attività conoscitiva. Einaudi, Torino 1974, da tener presente come sfondo generale insieme a E. Cassirer, Philosophie der symbolischen Formen, Bruno Cassirer, Oxford 1923; tr. it. Filosofia delle forme simboliche, La Nuova Italia, Firenze 19872; PLuRES, Filosofia e simbolismo, «Archivio di filosofia», Roma

Winp,

The Eloquence

Clarendon

of Symbols.

Press, Oxford

Studies in Humanist

1952, e E.

Art, revised edition,

19923; tr. it. L'’eloquenza dei simboli, Adelphi, Mila-

no 1992? (contiene tra l’altro: Aenigma Termini: l'emblema di Erasmo da Rotterdam, pp. 121-131); E. GomBrIcH, Simbolic Images. Studies in the Art of the Renaissance, Phaidon Press, London 1972; tr. it. Immagini simboliche, Einaudi, Torino 1978, si vedano: M. Praz, Studi sul concettismo, Sansoni, Firenze

1946; Ip., Studies in Seventeenth-Century Imagery, Ed. di Storia e Letteratura, Roma 1964; R. KLEIN, La forme et l’intelligible, Gallimard, Paris 1970; tr. it. La forma e l'intelligibile, Einaudi, Torino 1975; G. PELLEGRINI, Introduzione

TEMPIO

DELLA

CONVERSAZIONE

E TEATRO

DELLA

MEMORIA

111

stato allievo 79. Gli emblemi hanno il vantaggio, secondo Guazzo — che restituisce tematiche e polemiche molto dibattute, com'è noto, all’epoca — di non offuscare la mente «né patiscono diverse interpretazioni, perché il motto ne dà chiarezza» (Ibidem, 180). Egli denuncia, tuttavia, un’insofferenza verso quella licenza di «rastrellarvi dentro non che ogni sorte di figure d’huomini, di piante, d’uccelli, et d’animali, quantunque vili, et pestiferi», in gran numero; né è sufficiente, per la loro intelligenza, illustrarli

con un motto, ma è necessario aggiungere qualche verso che faccia da chiosa e «imitar quel rozo pittore, il quale havendo così sconciamente dipinta la lepre, et ’1 cane, che non si discerneva l'uno dall’altra, vi stese sotto [il nome] in lettere» (ivi). Dal momento che si è letta la parola sotto l'emblema, le figure si rendono «otiose, et superflue». Proprio in questo disagio («questi emblemmi sono o troppo aperti o troppo humili»), Guazzo coglie la genesi delle imprese. I pellegrini ingegni di fronte alla decadenza degli emblemi «si sono rivolti ad adombrare i suoi [loro] segreti pensieri col finissimo velo delle Imprese», le quali, secondo Guazzo,

mantengono la loro superiorità sugli emblemi da parecchi punti di vista. Tra i più significativi egli annovera la maggior regolarità, la difficoltà ed eccellenza delle imprese rispetto agli emblemi. Guazzo fornisce anche la definizione della parola ‘impresa’: «con esse vengono gli huomini figuratamente a significare un fermo proponimento, et un generoso fine, ove hanno dirizzate le loro attioni» (Ibidem, 181). I libri di Giovio e di Ruscelli 8° ne hanno spiegato l’«artificio»

alla letteratura degli emblemi, RLMC, 29 (1976), pp. 5-98; G. INNOCENTI, // «testo semiotico» dell’emblema cinquecentesco, «Paradigma», 2 (1979) pp. 31-70; G. SavarESE-A. GAREFFI, La letteratura delle immagini nel Cinquecento, Bulzoni, Roma

1980; PLuRES, L’emblème à la Renaissance, SEDES, Paris 1982; i nu-

meri monografici di rature», 78 (1990).

«Revue de littérature comparée», 64 (1990), 4 e di «Litté-

79 ANDREA ALCIATI, Emblematum liber, H. Steyner, Augsburg 1531. Sugli emblemi di Alciati si veda almeno H. Miepema, The Therm ‘Emblema’ in Alcia-

ti, «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», 31 (1968) pp. 234-250. Nella sua monografia dedicata a Guazzo, J.L. Lievsay configura come plausibile questa eventualità basandola sul fatto che quando Alciati, professore a Pavia, muore nel 1550, Guazzo «in qualità di suo allievo» (as a pupil) contribuì con dei versi al volume commemorativo (Stefano Guazzo and the English Renaissance. 1575-1675, cit., p. 304; tr. it. parz. cit., p. 218). Tesi ripresa con qual. che cautela da Quondam, La virtù dipinta, in PLuRES, Stefano Guazzo e la «Civil conversazione», cit., p. 373.

80 Per questa polemica e la sua eco si vedano almeno: S. SavarESsE-A. GAREFFI, La letteratura delle immagini..., cit.; G. ARBIZZONI, Dal ricamo alla stampa. Girolamo Ruscelli editore del ‘Dialogo delle Imprese’ di Paolo Giovio, in «Studi Urbinati» B 3, V (1981-82), pp. 97-119; e naturalmente B. Croce, Impre-

112

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

e il «misterio» e hanno inaugurato una sottile polemica. Gli esiti dei loro testi sono discordanti ricorda Cesare di Nemours, protagonista del dialogo guazziano. Ruscelli si è volentieri allontanato dalle opinioni comuni introducendo «nuove ispositioni, et riformando il mondo a suo gusto così nelle cose appartenenti alla favella, come in molte altre, nelle quali però è stato più ammirato, che imitato» (Ibidem, 182) (suo rapporto con il Dolce). Il maestro indiscusso è tuttavia Giovio. Ruscelli avrebbe «con assai deboli ragioni biasimato il Giovio perché egli habbia chiamata anima il motto dell'Impresa, alla fine s’accomoda all'uso commune, et si contenta di chiamarlo anch’esso anima, et meritatamente, perché se bene i due corpi non ricevono interamente lo spirito dal motto, ma quasi per reflessione l’acquistano l’un l’altro, nondimeno si può dire con più sicurezza che le due figure senza il motto siano come corpi senza anima». Guazzo si mostra molto attento a rico-

struire questa polemica e ricorda come Ruscelli attacchi Giovio «perché [Giovio] habbia dato comiato alle figure humane escludendole come indegne dal campo dell’Imprese» (Ibidem, 184). Secondo il Ruscelli, Giovio avrebbe contraddetto se stesso e certe sue imprese nelle quali sono rappresentate figure umane. A Guazzo interessa il rapporto conoscenza-linguaggio, simbo-

licamente espresso in emblemi e imprese e per questo suo dichiarato interesse egli si situa nel novero di coloro che eleggono, per la scelta adottata, «lumière et mystère», secondo un'efficace immagine di Alain Michel 8!. Emblemi e imprese rivestono la stessa funzione dei luoghi mnemonici e possono riunire in poco spazio tutte le sfaccettature del discorso strutturato che lo spirito, aiutato dai sensi, può cogliere in un sol colpo. Allusione e reminiscenza si alleano. Giovio lo aveva indicato: le imprese assumono un valore di segno mnemonico ed evocativo. Nel suo Dialogo delle imprese militari e amorose *?, scritto in «questi fieri e noiosi caldi del mese

se e trattati sulle imprese, in Poeti e scrittori del pieno e tardo Rinascimento, Laterza, Bari 1945. Brevi cenni alla posizione guazziana si leggono in R.J. CLE-

MENTS, Picta poesis. Literary and Humanistic

Theory in Renaissance Emblem 1960, in part. pp. 112, 193, 234. 81 A. MicHEL, La parole et la beauté. Rhétorique et esthétique dans la tradition occidentale, Les Belles Lettres, Paris 1982, p. 257. 82 P. Giovio, Dialogo delle imprese militari e amorose, Bulzoni, Roma

Books, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma

1978, a cura di Maria Luisa Doglio. Il testo riproduce l’edizione romana del 1555, esemplata sulla copia offerta da Giovio a Cosimo I de’ Medici il 19 settembre 1551, edizione, come avverte la moderna curatrice, molto scorretta che ha richiesto, tra l’altro, il continuo riscontro con le successive stampe ve-

TEMPIO

DELLA

CONVERSAZIONE

E TEATRO

DELLA

MEMORIA

113

d'agosto, nemico della vecchiaia» 8, coglie l’invito di Domenichi — interlocutore del dialogo, volgarizzatore delle sue opere latine, nonché fautore della pubblicazione dell’Idea del Teatro di Giulio Camillo — sotto il segno di un «facile, memorioso ed espedito ingegno» 84, a redigere un «sommario»/orientamento del «gran pelago delle imprese», utili «pensieri visivi» — segnaletica della memoria e sua cronologia — che «riducono a memoria gli uomini segnalati de’ nostri tempi che già son passati a l’altra vita...» 85. Siamo nell’agosto 1551. Giovio compone il «primo trattato organico» su un genere in voga, riguardante l’espressione nel rapporto inestricabile tra parola e immagine, «nodo di parole e cose», «corpo e anima». «Arte delle imprese» lo nominerà il suo autore, tra poetica e retorica, in un ambito non solo estetico: ut pictura poesis, ma

anche

storico.

Dagli esempi

antichissimi

della mitolo-

gia greca alle figure simboliche sulle divise dei cavalieri: itinerario cronologico e pedagogico, sul «filo analogico della memoria», della «filosofia del cavaliere», per dirla con l'’Ammirato 86. L'impresa, come del resto l'emblema, il geroglifico, il proverbio, funziona anche da segno rammemorativo 8° — e come tale

neziane del 1556, curate mente ma rimaneggiate, ta da Ruscelli contiene Ragionamento di Mons. more,

che comunemente

da Ruscelli e da Domenichi, più corrette tipograficacensurate e interpolate — in particolare quella curaindubbie aggiunte del curatore. Per questa edizione: Paolo Giovio sopra i motti, et disegni d'arme, et d’achiamano

Imprese, con un discorso di Girolamo Ru-

scelli, intorno allo stesso soggetto, G. Ziletti, Venezia 1556, testo cui lo stesso Guazzo si riferisce nel Dialogo delle Imprese. Su Giovio si vedano gli atti del convegno tenuto a Como nel giugno 1983 dal titolo Paolo Giovio, il Rinascimento e la memoria, presso la Società Villa Gallia, Como 1985 (Raccolta Storica vol. XVII, Società Storica Comense). 83 Ibidem, p. 33. St vi 85 Ivi.

86 La definizione dell'impresa come «signification della mente nostra sotto un nodo di parole, et di cose» e come «filosofia del Cavaliere» è in ScrPIONE AMMIRATO, Il Rota ovvero dell’Imprese, cit., cui Guazzo fa riferimento. Le citazioni sono rispettivamente a p. 10 e a p. 14. Della «filosofia del cavaliere» si è occupato M. Praz, Studi sul concettismo, cit., pp. 95-98. 87 Come sottolinea P. Rossi «chi rifletta sull'importanza dei segni, delle imprese e delle allegorie nella cultura rinascimentale,

richiami

alla mente

i

testi ficiniani sui ‘simboli e le figurazioni poetiche che nascondono divini misteri’ e avverta il significato di quel gusto per le allegorie e le per ‘forme simboliche’ presente negli scritti del Landino, del Valla, del Pico, del Poliziano (e

più tardi del Bruno), non potrà non rilevare la risonanza che l’arte della memoria in quanto costruttrice di immagini era destinata ad avere in un'età che amava

incorporare le idee in forme sensibili, che si dilettava a trasferire sul

piano delle discussioni intellettuali la Febbre e la Fortuna, che vedeva nei geroglifici il mezzo usato per rendere indecifrabile al volgo la verità, che amava gli ‘alfabeti’ e le iconologie, che concepiva verità e realtà come qualcosa che si

114

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

sarà assunto anche in Guazzo. I richiami alla funzione mnemonica, nel testo del Giovio, risultano molteplici. Non solo nell’esordio citato. Subito dopo, infatti, Domenichi fa riferimento alla perso-

nale «fresca memoria»

del Giovio, «memore». delle imprese di

quei cavalieri di cui con dovizia tratta, in modo già ordinato e sistemato dalla sua memoria. Una memoria che «ragionevolmente» pone dinanzi agli occhi di Giovio «la vaghezza degli ornamenti loro» 88. Giovio si sforzerà di «ridurre a mente» ciò che Domenichi chiede, ritornando, in questo anelito, di nuovo «giovane». Non c’è dubbio, quindi, che la memoria rientri a pieno titolo a mo’ di precondizione nella descrizione delle imprese. Una memoria che peraltro non verrà «a noia» a chi «abbia giudizio e si diletti di gentilezze erudite» 8°. Non rimane che metter mano alla «bossola» dei gran capitani e procedere con ordine; ordine, stavolta, dettato

dal merito. L'impegno in questo senso è votato a riportare alla memoria collettiva la «filosofia del cavaliere», è intento parenetico.

Anche Guazzo soffermandosi sull’utilità delle imprese (più utili dei geroglifici perché meno enigmatiche), ne segnala il valore rammemorativo e edificante, capace di «risvegliar nel cuore un focoso desiderio di seguire vigorosamente le vestigia di chi ha operato da valoroso e onorato cavaliere (DP, 195). Ma il valore rammemorativo,

accompagnato,

il segnavia dell’ars memoriae, è

anzi preceduto, dall'aspetto estetico-sapienziale 9

va progressivamente rivelando attraverso segni, ‘favole’, immagini» (Clavis universalis, cit., p. 59). 88 P. Giovio, Dialogo dell’imprese..., cit., p. 37. 89 Ibidem, p. 73. 9 Il legame tra emblemi, imprese e geroglifici, tra tutte queste forme di «immagini parlanti», è stato da tempo oggetto di numerosi studi, di cui abbiamo restituito in nota (cfr. n. 78) i risultati più incisivi. Nati i primi da una filiazione rielaborata degli Hieroglyphica di Horapollo, l'intento che li accompagna è spiegabile, come si è accennato, con il desiderio di costruire un corrispettivo moderno della scrittura sacra degli Egizi, una scrittura che manifesta immediatamente l’unica essenza delle cose stesse (emblematico il commento ficiniano alla quinta Enneade di Plotino, a proposito dei sacerdoti egizi). Né bisogna dimenticare che l’origine degli emblemi, come è stato persuasivamente dimostrato (M. Praz, Studi sul concettismo, cit., pp. 20-37; In., Stu-

dies in Seventeenth-Century Imagery, cit.) è legato anche alla riscoperta dell’epigramma alessandrino e agli studi sull’Antologia Planudea. Lo sviluppo dell'impresa si legherà, come ha dimostrato Klein (La forma e l’intelligibile, cit., pp. 119-141) agli influssi dell’aristotelismo e al dibattito sul rapporto concetto-immagine. I discorsi sulle imprese, apparentemente oziosi, toccano, osserva opportunamente lo studioso, in realtà «il punto centrale dell’antropologia filosofica del manierismo, cioè il problema dell’espressione. In esso convergono logica, teoria dell’arte, poetica,

retorica e, in un certo senso,

psicologia»

TEMPIO

dell'impresa.

DELLA

Anche

CONVERSAZIONE

l’impresa,

E TEATRO

a modo

suo,

DELLA

MEMORIA

115

illustra e nasconde,

benché in maniera meno esoterica del geroglifico, più criptico (è questa una delle ragioni determinanti che spinge Guazzo a preferirla all’ideogramma). Considerazione estetico-sapienziale, nondimeno con un’accentuazione etica: le imprese: «destano mirabilmente gli elevati spiriti alla considerazione degli occulti misterij, che dentro vi sono rinchiusi»; utili anche agli stessi impresisti. Come sottolinea opportunamente Maria Luisa Doglio, mentre

l’emblematica si distingue per il costante riferimento al latino e per il tentativo di spostare l’immagine da aggiunta marginale a vero e proprio fulcro dell’emblema stesso, l’arte delle imprese è connotata all’atto della sua fondazione, sia dall’uso del volgare con la destinazione a un pubblico più numeroso, sia da un criterio descrittivo-divulgativo che si traduce formalmente nella scelta del dialogo, con dichiarati scopi didattici e finalità normative nella proposta dell’esempio e nella logica della perfezione ®!. Già nell’enunciazione delle condizioni universali che necessitano per comporre un’impresa perfetta (proporzione di anima e corpo; rifiuto della eccessiva oscurità e della eccessiva chiarezza; esigenza della «bella vista»; assenza della figura umana; il motto, «anima del corpo», deve essere un idioma diverso da quello dell’impresista), ci si rende ben conto che «lungi dall’essere semplici precetti di

convenienza o veicoli che riconducano alla scontata distinzione tra la materialità del linguaggio figurativo e l’immaterialità del linguaggio letterario, le cinque unità rappresentano il codice dell’impresa perfetta, forse la ‘realizzazione più difficile’ di un’ingegno perspicace ’ e che ‘nasce dalla notizia delle cose scritte dagli antichi’» 92. Lì nelle Istorie è nato il proposito di un'arte delle imprese. Giovio enumera quelle «magnanime»,

«generose» e «acu-

te». Ed è così che l’enumerazione si congiunge alla memoria e all’amplificazione 9. L'enumerazione fa sfilare le imprese (il «gran catalogo delle imprese»), ma anche le figure retoriche. Il dialogo, il «favellare» delle imprese, presuppone sul filo analogico del ricordo individuale (a Giovio pare di diventar «un’altra volta giovane») il piacere della memoria individuale, la quale si innesta sul «presupposto storico» del valore delle imprese che «riducono a

(Ibidem, p. 124). Inoltre «nei logici, la topica, diventata la disciplina dominante, sviluppava le sue implicazioni ‘spaziali’ nelle artes inveniendi, trasformate in ‘teatri’ di figure simboliche (Camillo, Bruno), nonché nella fioritura che conoscevano allora le mnemotecniche» (Ibidem, p. 129). 91 M.L. Dogo,

Introduzione a P. Giovio, op. cit., p. 12.

9 Ibidem, pp. 11-12. 9 Ibidem, p. 12.

116

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

memoria gli uomini segnalati», con la conseguente dilatazione delle imprese «a simbolo del memoriabile, mezzo d'espressione e di riminiscenza» *. Il racconto, sul filo della memoria, celebra la ter propria «festa» 95.

L'impresa corona il linguaggio dell’imitazione e rende più efficace e durevole «l'impressione dell’intelletto e della memoria». Ruscelli non vuole con questo affermare che il «mostrar per segni la forma delle cose sole» sia più significativo («nobile, et perfetto») del parlar e dello scrivere, attività dello spirito che «rappresentano le cose, et l’operationi interamente». Anzi Ruscelli è dell'avviso che «i segni delle cose» (la «pittura delle cose») possono solo in modo incompleto («troncamente») informare sull’intenzione di chi li produce, affinché siano intesi in qualche modo. Ruscelli perfeziona il suo concetto: «il rappresentare al senso del vedere la figura, o la forma delle cose, è più naturale in atto, et più commune a tutta la generatione de gli animanti, che non è quella dell'udito» 9%. Citando l’autorità di Aristotele, Ruscelli riafferma che l’uomo

ama più «questo sentimento della vista», «che esso più cose ci insegna et fa sapere, che alcun altro dei sensi nostri». L'uomo prende diletto dalla pittura. Sin dall'origine dell'umanità, quando «il mondo era ancor nuovo», «universalmente in tutti gli uomini»,

le «genti» figuravano animali, piante, uomini «per farne ricordi a se stessi, secondo la natura, o le qualità, che in quelli riconoscevano». Segni della memoria furono prima dei geroglifici, «colonne di Mercurio» ”, il tabernacolo

e l’arca del patto, la figurazione

dei

quattro evangelisti con i quattro animali dell’apocalisse. Il pensiero visivo ovvero «il principio di rappresentare i pensieri per mezo delle figure, è stato prodotto dalla natura nelle menti humane, et poi ricordato, et come insegnato da Dio stesso di bocca nella Bibia, et dai Sacri Scrittori, et parimenti da’ sacri filosofi et teolo-

94 Ivi. 9 P. Giovio, Dialogo dell’imprese..., cit., p. 145. % G. RusceLLI, Discorso intorno all’inventione delle imprese..., in appendice a P. Giovio, Ragionamento sopra i motti, et disegni..., cit., p. 122. L'ipotesi di Ruscelli è tanto più suggestiva per la sua capacità di collegare il problema delle imprese con quello del linguaggio in genere «presentando il segno visivo come universale modo di comunicare, più adeguato della parola all’intenzione» (E. GARIN, L'Umanesimo italiano, Laterza, Bari 19818, p. 148). Per un approfondimento della iconologia rinascimentale si rinvia a Iride, Editrice Bibliografica, Milano 1992, a cura di G. Zappella (è apparso sinora solo il primo volume).

ATTI

dem

pg 123!

TEMPIO

DELLA

CONVERSAZIONE

E TEATRO

DELLA

MEMORIA

MEZ

gi insieme, come fu quel Mercurio Trismegisto, et quei primi Egittij che istituirono quelle sacre colonne, alle quali andò per imparar Platone, et tornossene con tanto frutto» ®. Oltre a rappresentare le cose con le figure o forme visibili, gli uomini hanno rappresentato con le figure emozioni e sentimenti, «cose incorporee», con un utilizzo accorto dei colori. Alle figure delle cose, con le quali si rappresentano le cose sensibili; ai colori, che a loro volta rappresentano cose invisibili e visibili, si devono aggiungere le parole, con le quali si è in grado di «rappresentar l’uno e l’altro insieme». La regola (una delle regole) fondamentale dell'impresa è per Ruscelli la brevità, condensazione di pittura e parola, quasi «specchiatura», in modo che «si abbracci tutto con la vista, et con

la memoria» 9. La conoscenza è comunque sforzo intelligibile, atto a produrre nell'uomo gioia indiscussa e così integra da risvegliare in lui, in maniera più o meno

occulta, «la ricordanza della

divinità». Al sapere l’uomo giungerebbe o per «reminiscentia» o per «semenza posta da Dio nella natura humana» o per «particolare ispiratione» divina 1°, Al «giardino» delle imprese l’Ammirato allude sin dall’inizio del dialogo. La «Ruota» preannuncia al visitatore quarantasei imprese !9 custodite, però, in casa. Il giardino, a sua volta annunciato in absentia, è il luogo da sempre eletto per la conversazione e a maggior ragione per una «così allegra compagnia»; una conversazione, tuttavia, avviata già durante il viaggio in carrozza, e

che allude più volte, quasi ossessivamente, al «giardino». Il motivo è evidente: su ogni giardino del Rinascimento aleggia la «laeta regione di viridura copiosamente adornata» del Sogno di Poliphilo 1°, emblema di tutti i giardini. Il tempo del viaggio verso il giardino, è un tempo allusivo e preparatorio; serve all’Ammirato per

98 come è visivo»: pensare 9 100

Ibidem, p. 124. Il tono e la forma di questo preambolo teorico, sfiora, stato notato, il discorso semiologico, connesso all’ipotesi del «pensiero le illustrazioni possono insegnare, guardare è comprendere. Basti al De Anima di Aristotele: l’anima non pensa mai senza un'immagine. Ibidem, p. 125. Ibidem, p. 126.

101 S. AMMIRATO, /! Rota, cit., p. 4.

102 F. CoLonna, Hypnerotomachia Poliphili, Antenore, Padova 1964, ed. critica e commento a cura di G. Pozzi e L.A. Ciapponi, 2 voll. La cit. è tratta da I, p. 13. Per la stessa casa editrice nel 1959 M.T. Casella e G. Pozzi hanno curato una fondamentale monografia su Francesco Colonna, in 2 voll. Esiste anche un facsimile della prima edizione francese della Hypnérotomachie (Discours du Songe de Poliphile, Jacques Kerver, Paris 1546), Club France, Paris 1963, presentato da A. Marie Schmidt.

des Libraires

de

118

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

chiarire il suo punto di vista sulla teoria delle imprese: sull’anima/angelo, senza corpo !9, su enigma ed epigramma !%, sulla «manifattura» («parlar bene di quelle cose che tutti conoscono») !95; sulla meraviglia !9, Altri «ragionamenti» saranno enucleati solo una volta arrivati «al giardino» («ro. Io dirò la mia parte al giardino»). Prima di giungervi, tuttavia, gli interlocutori si accordano sulla definizione di impresa: «signification della mente nostra sotto un nodo di parole, et di cose» !. L'impresa, lo abbiamo anticipato, è «filosofia del cavaliere» come la poesia è «filosofia del filosofo». Ammirato riconosce, con gli impresisti, il carattere esoterico delle imprese: è consuetudine della saggezza il non palesare «le belle dottrine, et scientie a tutte le persone in guisa,

ch’elle si venissero a profanare dal volgo» !®. Dallo stesso punto di vista vanno spiegate, secondo Ammirato, che segue anche qui tematiche riconoscibili e condivise dalla cultura dell’epoca, le favole «sotto le cui scorze si ricoprivano da quelli antichi savi tutti i segreti delle scienze speculative, et delle cose della natura, et

tutte le utili et necessarie cognitioni, che appartengono all’huomo. Di modo che all’ignorante restava la piacevolezza della favola, et il savio ne raccoglieva, penetrando più a dentro, il frutto di essa» 199, Poesia e pittura hanno contribuito, a loro modo, al mede-

simo processo. Nella genealogia pittura e poesia sono sorelle, di qui viene giustificato il motto oraziano dell’U? pictura poesis. La poesia con mezzi suoi propri, le parole, cominciò a spiegare queste «fintioni»; allo stesso modo cominciò la pittura «a pigner di molte cose, che parevano mostruose; le quali però sotto esse rinchiudevano molti belli segreti». Ammirato procede poi a una ulteriore spiegazione degli assunti: impresa= «filosofia del cavaliere»; poesia= «filosofia del filosofo». Come il filosofo sotto le favole «cominciò a spiegare i segreti suoi meravigliosi, et divini per farsi intendere da alcuni, et non da tutti; così il cavaliere per ispiegar ad alcuni, et non a tutti il suo intendimento

ricorse alle finzioni

dell’imprese. Et l’uno adoperò le parole, et l’altro le cose» 110. Anche Ammirato si sofferma sul valore memorativo delle

103 S. AMMIRATO, I! Rota, cit., pp. 7-9. 104 Ibidem, p. 10. 105 Ibidem, p. 11. 106. Ivi.

1011 bidemy p12: 1087 Ibidena,\p15: IE IRIAL Loalbidemp 10!

TEMPIO

DELLA

CONVERSAZIONE

E TEATRO

DELLA

MEMORIA

119

imprese. Imprese «in memoria» !!!, In fondo il giardino stesso è un giardino della memoria: per la memoria storica e collettiva, ma anche ovviamente per la memoria individuale («mi ricordo, quando io era fanciullo [...] Antonio della Valle haver portato a veder all’Epicuro [Antonio Epicuro, impresista] un trattato di queste cose, et mi ricordo particolarmente

d’alcune

armi

di popoli,

che mi rimasero nella memoria, che mai più poi non me le dimenticai...» !!2), Prendendo spunto dalla persuasione di Giamblico e Platone che nelle forme inferiori si trova «conformità,

et conve-

nientia, con le superiori» !!3; Ammirato registra l'opportunità della scelta della figura o corpo dell’impresa. E per ciò che concerne il ricordo, non vi è nulla di più efficace per rinvigorirlo e mantenerlo che la «meraviglia»: «Meraviglia che cosa chiamano i philosophi? ma. Quella che di rado accade, et è fuor della natura dell’altre cose ordinarie. ves. Averrite ch’io non favello del miraculum, o monstrum, o pertentum [sic], che è di quello che, vien contra l’ordine della natura; ma dell’ammiratione, che nasce talhora della

perfettione delle cose naturali, come di alcuna singolar bellezza, o di gran valore, o di sottile ingegno, o di somma velocità, et simili» 114. Nodo di parole e di cose, l'impresa per adempiere alla sua funzione memorativa, deve suscitare meraviglia: meraviglia nelle cose e nelle parole. La definizione di impresa, da se stessa, esclude l’enigma. Chi volesse accoppiare nell'impresa ogni specie di figure darebbe vita ad un «nodo inestricabile». Invece la meraviglia deve risultare «dall’accoppiamento di due cose intelligibili», capaci di dare origine ad una terza forma che non sia né l’una né l’altra. Solo la terza forma, infatti, è atta a generar aristotelicamente la meraviglia. È lo stesso motivo che ha spinto Mercurio Trismegisto e «poscia» Platone !!5 a chiamar l’uomo «grande Miracolo». Il richiamo diretto è ad Asclepio: magnum miraculum homo est, e, indirettamente, a Pico della Mirandola che lo utilizzò nella

sua Oratio de hominis dignitate. L'uomo è impresa vivente: magnum miraculum in quanto la sua grandezza non consiste nel possesso dell'anima (la possiedono anche gli angeli), né del corpo

ll 112 113 114 115

Ibidem, p. 23. Ibidem, p. 25. Ibidem, p. 29. Ibidem, pp. 29-30. Nella cronologia rinascimentale Ermete Trismegisto precede Platone.

Solo nel 1613, Isaac Casaubon, com'è noto, scoprì la «falsità» di tale tesi, in-

sieme alla inautenticità del Corpus Hermeticum cui aveva creduto anche il suo traduttore latino, Marsilio Ficino. Per Platone e il rapporto filosofia-meraviglia cfr. Teeteto, 155d. Per Aristotele Metafisica, I. 2, 982b 14.

120

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

(corpo sono anche le pietre, le piante, ecc.), ma nel fatto che questo «mirabile artificio» sia un vero e proprio «nodo humano» !!5, angelo e animale, «huomo». Il «ritorno al giardino» si preannuncia sul filo della memoria, della «chiara e felice memoria». Il Rota restituisce qui il pensiero del suo maestro, l’impresista Epicuro. E ricorre ad un artificio retorico: «Alcuno di noi raccontando questa giornata all’Ammirato, a lui venisse poi voglia di farvi sopra un dialogo, da che egli con la lettion Platonica è tutto dato ne dialoghi» !!7. Il sentiero che porta al giardino non consente soste e sviamenti; nemmeno una parola sulla spiaggia di Posillipo, che si incontra durante il cammino: ha ragione Socrate quando nel Protagora afferma che la musica nei simposi è cosa da sciocchi: «Percioché quando gli huomini di qualche conto convengono in uno, sprezzando i cantori, i cembali, i canti, i lauti et i flauti per mezzo delle lor proprie voci con dotti, et honesti ragionamenti si trattengono insieme» !!8. Il riferimento è al Protagora 375c-e, al brano platonico sui buoni e cattivi conviti. Nei «buoni» è significativa la voce dei colloquianti che esprime la volontà comunicativa degli stessi; qui si parla con ordine e si rispetta il turno per parlare. E presumibilmente si sa anche tacere a tempo. Il sentiero, il cammino vero, il giardino non

consente

inutili

e dannose

divagazioni: «Talché a me pare hoggi

esser huomo di qualche conto; et non mi curo non aver pasciuto gli occhi di vedere la marina, et tanti belli palazzi; poi che ho pasciuto gli orecchi di così dolce, et pretiosa armonia» !!9, «La breve oratione penetra i cieli» 129, simile a quella di Socrate: «O amico Pan, et voi altri Idij tutti; i quali questo luogo abitate, concedetemi, ch'io bello dentro divenga...» !2!. Ora il cocchiere può «tirare», dirigersi verso il giardino... !22: «Et che habbiam a fare infin al giardino?» 123, Ammirato insiste ancora sul valore rammemorativo dell’impresa, mirabilmente capace di far divenire l’uomo da «smemorat0»», «memorioso» 124 La memorabilità si estende lontano anche nello spazio. Pur non nominando direttamente il Cortegiano,

116 S. AMMIRATO, I! Rota..., cit., p. 32.

1? Tbidem pi 375 118 *TbIdem:;p.. 52° 119. Tvi.

120 Ibidem, p. 54. 121 Ivi. 122 Ivi.

123 Ibidem, p. 56. 124 Ibidem, p. 60.

TEMPIO

DELLA

CONVERSAZIONE

E TEATRO

DELLA

MEMORIA

121

Ammirato allude alla «memoria della corte d’Urbino», lasciando poi intendere che il libro eponimo è l'emblema o l’impresa per estensione di quella «gentile, bella, santa, reverenda, et non mai a pieno lodata corte d’Urbino» !25, «lieu fondateur», come è stato di

recente definito con una efficace immagine. «... Noi non ci siamo aveduti d’esser già arivati al giardino» !26. E tutto nel giardino è «degno di memoria» !?. Prima di vedere le imprese è opportuno soffermarsi per leggere «certe iscrittioni di marmo antico». Dal

giardino soprattutto emerge una «gran proportione», una bellezza unica: «gitta non so che raggi fuori, che senza darne altra ragione, chi vede l’ordine se ne accheta; et sente una dolcezza, et diletto nell'animo incomparabile» !28. Il giardino, allora, è l'emblema di un Parnaso possibile, regno delle Muse e della Memoria, madre delle Muse che si «dimesticano al giardino che a casa». Il regno delle Muse è la «musica proportionatissima» del giardino !29. Per accedere alla casa nessuna incrinatura nell'ordine di quel paradiso verde: «Benedetti i denari che ho spesi in questo giardino» 130, Segue la descrizione del topiario, descrizione anche dei fiori. Il discorso introduttivo alle quarantasei imprese contenute in casa. Ancora sul meccanismo della memoria. Il giardino e la casa come riparo dalla città che ha distrutto l’uomo/Glauco, irriconoscibile ormai per l’azione dei flutti e la sedimentazione delle alghe 131, Riparo anche alla memoria del mondo, quando quest’ultimo fa desiderare di essere simile al «lupo cerviero», bramare la sua «smemorataggine», desiderare cioè di divenire come lui «così oblioso, et ismemorato» 132. Ma il dolore, l’affetto, le passioni possono configurarsi invece come «gran dettatore», capace di eccita-

re l'intelletto e la memoria e dispensare concetti e parole all’impresa !33, Infatti la memoria percossa dal dolore «et quasi dal sonno svegliata» apre «tutte le sue cassette» ed elargisce quanto con «lungo studio» vi era stato riposto, con parsimonia. È necessario

allora arricchir la memoria negli anni «più giovani, et verdi», per poi sperare «questi avanzi, et questi guadagni, ch’ella vi da» 134.

125 126 127 128 129

Ibidem, Ibidem, Tbidem, Ibidem, Ibidem,

p. 67.

p. p. p. p.

81. 86. 82. Sui giardini e la loro struttura cfr. Ibidem, pp. 85 sgg. 86.

130 Ibidem, p. 87.

131 132 133 134

Ibidem, Ibidem, Ibidem, Ibidem,

p. 100. pp. 97-98. p. 120. p. 131.

122

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

Ma anche la sala delle imprese, come il giardino, ha del paradisiaco: «Che Paradiso, che vista è questa?». Sapienza è Madre della vera quiete, luogo delle Muse. La vista delle case, dei palazzi «fondati su questo monte dolcissimo [la collina di Posillipo] toglie il gusto d’ogni altra cosa». Ma Maranta vede proprio nella sala «il mondo tutto»: «carri, mirti, ulive, fiori, vasi, sepolchri, mete, il sole, la luna [...] questo è un convito molto magnifico, et suntuo-

so» !35. In particolare il riferimento va alla luna che secondo «Horo Apolline» significa il tempo !3. Anche il teatro delle imprese 137 ha i suoi tempi e i suoi ritmi; ricalca quelli della vita, tanto più che essa è una «comedia» 138: «perché la comedia è come dice Cicerone imitation della vita, specchio della conversatione, et imagine della verità» 13° La verità. Dove trovarla? Si conosce spesso la «corteccia», «la midolla è segreta, et occultata» !4. «Le cose vere stanno nascoste. Queste che appariscono sono false, et bugiarde [...] La maschera per il viso, et il viso per la maschera» !4. Quello che Maranta vede nella sale delle imprese è poi veramente, allora,

il riflesso del mondo?

Può aiutarci qui un'impresa. Quella della

«hasta di Achille», che «feriva, et insieme sanava» !4. Essa in fon-

do è impresa del mondo, in cui scoprire una bugia, come ricordava anche Bacone, significa spesso trovare una verità.

La saldatura definitiva tra memoria ed emblema è operata da Bacone che conosce direttamente i testi cinquecenteschi sull'arte memorativa !4. Bacone è perentorio: l'emblema è fondativo rispetto alla memoria, insieme alla «prenozione», il che equivale a dire che l’arte della memoria si fonda su due principi: prenozione ed

135 Ibidem, p. 101.

136 Ibidem, p. 102. A p. 105 c'è un secondo accenno ad Horapollo; così a p. 111, in cui si allude a Horo Niliaco e ai geroglifici. 137 Ibidem, p. 138. 138 Ibidem, p. 131. 159. vi.

140 Ibidem, p. 143. 141 Ibidem, p. 188. 14 Ammirato cita Ovidio (Metam. XII, 112) «il qual parlando della istessa lancia disse: vulnus opemque gerit». L'altra fonte citata è Plinio il Vecchio (Historia naturalis, XXV, 42; tr. it. cit., III, p. 646): «Dice Plinio; ch'egli non so-

lo trovò l’Achillea, ma fu il primo che trovò la ruggine esser utilissima a gl’impiastri; et per questo si dipinse che dalla punta della lancia facea col coltello caderla su la ferita di Telefo. La lancia (dice l’istesso autor) era di frassino» (ibidem, pp. 174-175). 143 Cfr. su questo argomento P. Rossi, Clavis universalis, cit., pp. 162 sgg. Per Bacone, Advancement of Learning, cit., II, p. 408 [D.A. VI, 2, 669]; tr. it. cit.,

p. 280, in cui il filosofo cita la Tipocosmia di Citolini.

TEMPIO

DELLA

CONVERSAZIONE

E TEATRO

DELLA

MEMORIA

123

emblema. Così si esprime infatti Bacone: «La prenozione evita la ricerca indefinita di ciò che si deve ricordare, orientandoci verso una ricerca in uno spazio più ridotto, verso qualcosa di congruo, cioè, con il luogo della nostra memoria. L'emblema riduce le

nozioni intellettuali a immagini sensibili, che colpiscono di più la memoria» !4., Ritroviamo qui tutte le tesi sostenute dai fautori cinquecenteschi di emblemi e di imprese. La custodia del sapere avviene tramite la scrittura e la memoria (che si avvicina in questa funzione all’oralità). Di qui l’utilità anche per Bacone della raccolta dei luoghi comuni per la collocazione e disposizione della conoscenza, per quanto attiene alla scrittura. Sui cosiddetti «volumi di luoghi comuni», Bacone esprime il suo pieno apprezzamento. Se da una parte, incalza, i volumi di luoghi comuni possono provocare ritardi nella lettura e favorire l’indolenza e il rilassamento della memoria,

dall'altra assicurano «ricchezza d’invenzio-

ne» e rinvigoriscono il giudizio !#5, visto che «prontezza» e «pregnanza» del conoscere non possono essere che acquisite. C'è di più. Egli lamenta qui lo scarso interesse e studio per l’arte della memoria, «altro aspetto principale della custodia del sapere», per l’arte e le tecniche dell’ars memorativa, che aveva conosciuto sua massima fortuna nel Cinque-Seicento.

la

Bacone si interesserà anche nel Novum Organum della dottrina dei luoghi, delle immagini e degli emblemi, della fissazione ordinata dei concetti tramite il ricorso al carattere visivo e alla forza emotiva delle immagini. Gli «stratagemmi» della memoria vengono indicati come «istanze costitutive» o «manipolari». Istanze costitutive della memoria, di ciò che aiuta a eccitarla o conser-

varla, sono l’ordine e la distribuzione così come i luoghi della memoria artificiale, che possono essere, come insegnavano gli antichi, luoghi in senso proprio «come la porta, l'angolo, la finestra e simili; possono essere persone familiari e note; o qualunque

cosa a piacimento, purché disposta in un certo ordine, come animali, erbe; e anche parole, lettere, caratteri, personaggi storici, ecc. [...] Tali Luoghi aiutano moltissimo la memoria e la aumenta-

no molto al di là delle sue possibilità naturali» !#. Allo stesso modo si può argomentare per i versi che si imparano meglio della prosa. Queste tre istanze: ordine, luoghi della memoria artificiale, versi costituiscono una sola specie (manipolo) di aiuto alla memo-

144 Ibidem, 399 [D.A. V, 5, 648]; tr. it. cit., p. 269. 145 Ivi. 146 F. Bacon, Instauratio Magna, in Works, cit., I, II, p. 275; tr. it. in Scrit-

ti filosofici, cit., II, p. 695.

124

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

ria. Bacone lo chiama anche «interruzione dell'infinito», definizione che rende bene il tentativo vano di richiamare qualcosa alla memoria, quando non si possiede «precedente conoscenza o perfe-

zione di quel che si cerca, errando qua e là quasi all'infinito». Nel caso, invece, si possieda una sicura «prenozione», subito «l'andare all'infinito» si interrompe e il discorso della memoria non si spingerà «tanto lontano». Nelle tre istanze esposte la «prenozione» «è evidente e certa»: nella prima si tratta di qualcosa che entra in un certo ordine; nella seconda di immagini

che abbiamo

relazione e

convenienza con i luoghi stabiliti; nella terza deve trattarsi di parole che formano un verso. Solo così l'infinito viene interrotto. Altre istanze produrranno effetti diversi. È tuttavia d’aiuto alla memoria tutto ciò che impressiona il senso; anche tutto ciò che suscita forti emozioni e sentimenti (paura, meraviglia, vergogna, diletto). Bacone allunga il suo elenco di istanze utili alla memoria. Si imprime di più nella memoria ciò che è in relazione con una mente «pura e sgombra»; ciò che accade nell’infanzia e che viene in mente prima del sonno; ciò che accade per la prima volta. Sono utili alla memoria accorgimenti, circostanze, punti di riferimento: gli scritti divisi in paragrafi, le letture ad alta voce, ecc. In definitiva egli annovera sei «forme minori» di ausili alla memoria: l’interruzione

dell’infinito,

la riduzione

dell’intelletto

al sensibile,

l'impressione di un forte sentimento, l'impressione in una mente pura, la moltiplicazione dei punti di riferimento, l'aspettativa anticipata !47. L’arte della memoria, consapevolezza condivisa da molti filosofi cinquecenteschi, può giungere, se opportunamente manipolata, a livelli di «ostentazione prodigiosa», ostentazione che del pari risulta sterile, inadeguata, in questa forma, agli affari e alla vita pratica. Bacone dichiara di non fare maggior conto degli esercizi mnemonici (ripetizione di nomi, versi, parodie generalizzate, cavilli, ecc.) di quanto non faccia conto degli esercizi dei saltimbanchi, funanboli e ballerini: gli uni essendo per l’animo quello che gli altri sono per il corpo, curiosità senza valore 148. Dalla serrata analisi di Bacone, a volte impietosa, emerge pur sempre lo stretto legame tra emblema e memoria, in quanto l’emblema viene configurato nella sua funzione «schematizzante» il ricordo. L’emblema riduce le nozioni intellettuali a immagini sen-

147 Ibidem, p. 276; tr. it. cit., p. 697. 148 F. Bacon, Advancement

of Learning, p. 398 [D.A., V, 5, 648]; tr. it. cit.,

p. 269. In D.A., V, 5, 648-649 Bacone discute dell’utilità dell'ordine per la memoria (:«Itaque et ordo manifesto iuvat memoriam»).

TEMPIO

DELLA

CONVERSAZIONE

E TEATRO

DELLA

MEMORIA

125

sibili, e in tale sua funzione di «sensibilizzazione» colpisce di più la memoria. Da questo punto di vista i geroglifici non sono che «marchi ed emblemi continuati» !4, i gesti «geroglifici transitori» che «stanno ai geroglifici come le parole dette stanno alle parole scritte, nel senso che non permangono, ma hanno, come quelle, maggior affinità con la cosa significata». Bacone registra qui la produzione che andava timidamente affermandosi nella direzione della saldatura tra memoria, geroglifici e retorica. Quindi come gli emblemi, che sono sue anamorfosi, i geroglifici si rivelano estremamente utili per il'ricorso alla memoria, e anche alla trasformazione del sapere, sul presupposto, che Guazzo non avrebbe condiviso, che seppure le parole siano aristotelicamente immagini dei pensieri, e le lettere immagini delle parole !59, la parola non si configura come veicolo di trasmissione dei pensieri. È infatti atto a «esprimere pensieri», secondo Bacone, tutto ciò che è capace di «sufficienti differenze percepibili dai sensi». In questo senso è significativo il comportamento non verbale dei barbari e dei sordomuti nei quali il pensiero si esprime attraverso i gesti, per cui

la liceità della notazione si misura sulla congruità o somiglianza con l’idea, oppure ad placitum, traendo la propria forza solo da convenzione e accordo !5!. Come sottolinea Paolo Rossi anche quando nella storia della cultura tardo-rinascimentale verrà abbandonata l’idea di una collocazione delle immagini nei luoghi, resterà ben salda l’idea dei simboli, delle immagini come aiuti alla memoria !52. Simboli e immagini in funzione del ricordo. Gli emblemi non rivestono dunque, come suggerisce ancora lo studioso che integra qui Bacone, una funzione limitata allo specifico settore della memoria, ma funzionano come veri e propri mezzi di comunicazione !53.

149 Ibidem, p. 400 [D.A. VI, 1, 652]; tr. it. cit., p. 270. 150 ARISTOTELE, De interpretatione,

1, 16a.

151 F. Bacon, Advancement of Learning, cit., p. 400 [D.A., VI, I, 652]; tr. it CIOSPEZ4o: 152 P. Rossi, Clavis universalis, cit., p. 61. 153 Ibidem, p. 169; cfr. anche F. YATES, L'arte della memoria, cit., p. 116.

Ve > Ù

avuta asse ° Si

30h su]

i

ca

ib 997

so

vi

ao

k

VISIT

RIE

AT

ni Pitti rg 5)

assi tiara

vane

ne 05 riprende

pri

(be ru pi MSTRIVENZRO.: 1(5r:t08

Lino

rt

ureta

eni

Ps

TT

ISTÌ

9

n

mosano cla tota it cu

dure

|

Segr siete

sterntapdtta miepente: ù i ILILTO vin»

pari

PONI p Ferie Ari

riretaso* Laniso # attia nte tioa

ene

at

at punti

Lil:

ansi 1 Re biaàportgdrone tai LATTE: ar «libarior.9 sioni senior | PEA SILELt i siroti canrantana ul staneeret istitià T56ASr Nitto anta? sui att) ea sign) | 6

topS0A£1 Siovag

i

e mar ihbai

ato

pi

stasi iatale

i

sto sliconui ratti

+ rape arasprii cefnoenti Micia sn è tou

a

IS 3A

Patad

st vali badesse

LA ORE

entita

arene 0

dn ia

oi

EOLO

IATA

AA

attqeR oblast

\r9Vvrm

ntlety

‘mesa : Aessa

Ap

21

forme

tutte Mist Sac! asta

(ofaarte

di

d4sGa io

dov prurti neblii ictnirsdioà avro «fognaria do

eb

stona:

tegio nose è ristretti jr IT PORTA TITO

iueivdià “"* ehomear

alla livio

ut votanti DIO

smoò

18] 1757

À ABS ég:

inignemmi sti

titre

siii eno try Mn otf'*@znibute ni magno 398 aa Frostorette sibi tranne n0tlitertalisntanittàa

Te Scitosrnrmmeidta. 0 LAM.0 d

Ltd n

Ù

+3

dhe

mag pr

corto degli «

aosta, ven. parodie gere Li eta te và

si

coon

do ah costr

det le

ani cosendo ser Vamifmschit loc UTI senza ratos® Pt a

fini v

ftacone, a volte Irmplktosa ya

ta srl ua

memo,

im

è biella stiùr Duaelgrio sosta rr

ORE Mile l

no

#06)

eopre

e ty

lessi it ana

sq sità st LA TV fon

ur

le

AA Mi: amanti suoi la % Lewyitaz:

una

seen MATO

A0)906.9, ti: ui

pid

cali 0

7

AI

SE LA CONVERSAZIONE NELLA CONVERSAZIONE. DALLA BIOGRAFIA ALLA VERA «FORMA DELLA VITA» (al «fondamento della vita» CC I, 4 v) «Sanza conversazione o familiaritade

impossibile è a conoscere li uomini» (Dante, Convivio, I, IV, 10)

«‘Che cos'è più vivificante della luce?’ domandò il primo. ‘Il dialogo’ rispose il secondo».

(W. Goethe, Das Marchen) «Le son du sens et le sens des sons agissent»

(P. Valéry, Cahiers, II)

Il testo, la scena, si fa vedere.

.

La cornice

esterna:

Saluzzo, presso la dimora

di Ludovico

Gonzaga, duca di Nevers e luogotenente generale di Carlo IX, per il primo fortuito incontro tra i protagonisti del dialogo !; Gugliel-

! È forse superfluo qui ricordare che il dialogo rappresenti una delle tipologie più importanti della comunicazione filosofica del Cinquecento. Fra i contributi più significativi in questa direzione sono da considerare gli atti del convegno tenuto a Milano nel maggio 1987 sul tema: I! dialogo filosofico nel "500 europeo (Franco Angeli, Milano 1990). L.M. Batkin aveva già posto il dialogo, sulla scia degli studi di Garin, non solo come forma di comunicazione privilegiata dagli umanisti ma ne aveva colto, nella qualità strutturale e formale, l'elemento più significativo per l’interpretazione della natura storica dell’Umanesimo; più importante dello stesso contenuto concreto delle opere

128

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

mo Guazzo (il Cavaliere, fratello di Stefano), cagionevole di salute a causa di una lunga malattia e, del pari, malato di «melanconia»;

Annibale Magnocavalli, «filosofo et medico», «nostro non men di stanza, che d’animo vicino». Guglielmo Guazzo, convalescente, conosciuti i modi amabili e la «gentilezza dei costumi» di Annibale, viene preso da «un [...] ardente desiderio di goder più lungamente della sua dolce compagnia» (CC. Proemio, 2a). Il giorno seguente

si incontrano

«nelle picciole, et rimote

stanze,

dove

io

[Stefano] soglio tener riposti più per ornamento, che per studio alcuni piccioli libricciuoli» (ivi). Gli incontri si protrarranno per altri tre giorni. La sera, Guglielmo racconterà a Stefano i «lodevoli discorsi» che lo intrattengono con il suo interlocutore. Stefano esce già di scena, memoria diegetica. Alla narrazione dei preliminari si sostituisce il dialogo in pura forma mimetica. Il narratore (scrittore) non torna che sporadicamente nel testo in terza persona, nominato da Annibale che, rivolgendosi a Guglielmo, ma «vostro fratello» e dalla moglie Francesca Guazza. Nella

cornice

esterna,

fatta di tempi

lo chia-

e luoghi, metaforici

e

anaforici, si inserisce — dominandola — il pretesto biografico (il male di Guglielmo) ovvero il topos rinascimentale della malattia (prima malattia fisica, poi malattia dello spirito, melancholia o depressione) 2. Malattia che va guarita, che comporta l’intervento

(Gli umanisti italiani. Stile di vita e di pensiero, Laterza, Bari 1990; prima ed.

russa 1978). La sua tesi è che la struttura stessa del dialogo sia espressione dei rapporti interpersonali (ivi). Uno studio della struttura dei dialoghi umanistici, è sua persuasione, «deve avere come oggetto specifico il tipo di relazioni esistenti tra gli umanisti. Il modo di pensare, infatti, determina il modo

di comunicare...» (Ibidem, p. 129). Si veda anche F. TatEO, La tradizione classica e le forme del dialogo umanistico, in Tradizione e realtà nell'’Umanesimo italiano, Dedalo, Bari 1967, pp. 223-250. L’«armamentario teatrale», «vero og-

getto» della conversazione degli umanisti, in realtà si identifica con quel materiale culturale che costituisce la lingua comune dei conversanti, insieme ai luoghi comuni retorici, atti a conferire «alle opinioni dibattute un carattere culturale unitario e universale» (L.M. BATKIN, op. cit., p. 133). Lungi dal rappresentare l’ornatus del dialogo ne costituisce una necessità interna (ivi). Per altre implicazioni risultano utili anche: S. STATI, I! dialogo, Liguori,

Napoli 1982; G. FERRONI (a cura di), Il dialogo. Scambi e passaggi della parola, Sellerio, Palermo 1985; PLurES, Du dialogue, «Recherches sur la philosophie et le langage», 14, 1992 (Vrin, Paris). ? Per il concetto di malinconia e le sue trasformazioni storiche dall’antichità al Rinascimento, nonché la sua associazione alla figura di Saturno lo studio classico di R. Klibanski, E. Panofski, F. Saxl (Saturn and Melancholy, Nelson, Londra 1964; tr. it. Saturno e la malinconia, Einaudi, Torino 1983) offre una ricchissima documentazione. Per un approfondimento del rapporto intellettuali/artisti con Saturno si rinvia a R. e M. WITTKovER, Born under Saturn, Weidenfeld and Nicolson, London

1963; tr. it. Nati sotto Saturno, Einau-

LA

CONVERSAZIONE

NELLA

CONVERSAZIONE

129

del medico, ma di un medico-filosofo (come insegnava Galeno il buon medico deve essere anche filosofo 3) che conosca anche la medicina dello spirito, la «terapia della vita»; sappia dove cercare il rimedio: la malattia ha il suo antidoto, come la salute ha il suo veleno, la sua malattia, per dirla con Montaigne. La biblioteca, luogo della malinconia, casa di Saturno, diviene paradossalmente la scena evocata dalla conversazione.

di, Torino 1968, su cui richiama l’attenzione anche E. Garin in Rinascite e Rivoluzioni, Laterza, Bari 1975. Sul tema della malinconia ricordiamo: G. TANFANI, Il concetto di ‘Melancholia’ nel Cinquecento, «Rivista di Storia del-

le Scienze Mediche e Naturali», XXXIX (1948) 2, pp. 145-148; J. STAROBINSKI, Histoire du traitement de la Mélancolie des origines à 1900, J.R. Geiby, Basel 1960; tr. it. Storia del trattamento della malinconia dalle origini al 1900, Guerini e Ass., Milano 1990; Ip., Trois fureurs, Garnier Flammarion, Paris 1974; tr. it. I tre furori, Garzanti, Milano 1978; Ip., Democrito parla, premesso a R. Burton, Anatomia della malinconia. Introduzione, Marsilio,

Venezia 19882. Si vedano inoltre J. KristEva, Soleil noir, Gallimard, Paris 1987; tr. it. Sole nero, Feltrinelli, Milano 1988; C. Segre, Fuori del mondo. I modelli della follia nelle immagini dell’aldilà, Einaudi, Torino 1990; J.P. ScHaLLERr, La Mélancolie, Beauchesne, Paris 1988, tr. it., La malinconia, Gribaudi,

Per

Torino

le fonti:

1991;

G. RoccaTAGLIATA,

IPPocRATE,

Opere,

Utet,

L'immagine

Torino

nera,

19762,

Borla,

a cura

Roma

di M.

(pseudo) Ippocrate, Sul riso e la follia. Lettere, Sellerio, Palermo ra di Y. Hersant;

GaLENO,

Opere scelte, Utet, Torino

1992.

Vegetti;

1990, a cu-

1978, a cura di I. Garo-

falo e M. Vegetti; AristoTELE, Problemata XXX, I (Quae ad prudentiam et mentem et sapientiam pertinent), in Aristoteles latine interpretibus variis, Berolini 1831, pp. 465-468. Si vedano anche trad., presentazione e commento del Problema XXX, curati da J. Pigeaud, L’homme de génie et la mélancolie, Rivages, Marseille-Paris

1988 e la tr. it. La «melanconia»

dell’uomo

di

genio, Il melangolo, Genova 19882, a cura di C. Angelino e E. Salvaneschi. Una traduzione si legge anche in appendice a PLures, La malinconia nel Medioevo e nel Rinascimento, QuattroVenti, Urbino 1982, pp. 159-167; M. Ficino, De vita triplici (1489) cit. Quest'ultimo testo, emblema dell’arte di vivere destinato all’intellettuale del Rinascimento, ‘è un esempio della lunga sopravvivenza della teoria dell’atrabile, in un periodo in cui si avvera «l’età dell’oro della malinconia» (J. SraroBINSKI, Storia del trattamento..., cit., p. 156). Il De vita è definito da Ficino «officina» e «laboratorio» della «terapia della vita» (cit., p. 201); inoltre, T. Tasso, Lettere Genova 1992, a cura di M. Cabria e S. Verdino.

d’umor malinconico,

Ecig,

Sulla figura del Democritus ridens oltre alle lettere pseudo-ippocratiche rimando alle sollecitanti pagine dell’Alberti contenute nel Momus (ediz. critica e traduzione a cura di R. Conso, introduzione di A. Di Grado, Costa e Nolan, Genova 1992, pp. 209-213. Oltre Y. Hersant (Prefazione a pseudoIPPOCRATE,

Sul

riso...,

cit., pp.

9-23),

in particolare

cfr. J. JEHASSE,

Démo-

crite et la renaissance de la critique, Etudes Seiziémistes offertes à V.-L. Saulnier, Genève, Droz 1980, pp. 41-73. Alcune importanti osservazioni anche in R. BopeI, Geometria delle passioni, Feltrinelli, Milano 1992, pp. 119-126.

3 GaLeNO, Quod scelte, cit., p. 101.

optimus

medicus

sit quoque

philosophus,

in Opere

130

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

Uscire dalla «casa di Saturno»: la malinconia fuori della scena

La malinconia. avverte

in queste

Seppur pagine

una

pretesto biografico per la scena, partecipazione

ab experto

si

alla sua

angosciosa pesantezza fuori della scena, da parte di Stefano Guazzo. E una certezza. Il male di Guglielmo è lo stesso di Stefano. Una conferma in questa direzione ci giunge dall’epistolario guazziano. Come risulta dalla corrispondenza, Stefano conosceva bene «i fieri assalti di quella horribile bestia» (L., p. 13. Lettera indirizzata al medico Giacomo Brandioni), l’«infermità» della depressione, il disagio della «casa di Saturno» (L., p. 245, datata 9 ott. 1560; allo stesso anno risalgono anche le tre lettere sulla dietesi o ipocondria, L., pp. 10-13), che annunciava a Cesare Ceppo di aver finalmente abbandonato per quella di Giove. Nella stessa lettera nondimeno Guazzo allude, dimostrando una rara e raffinata capacità di autoanalisi,

a un ritrovato

rimedio

contro

la malinconia:

«Ho vergogna nel ricordarmi del tempo a dietro. Io faceva tutto dì chimere, le mosche m'’erano strali, le parole pugnalate, il riso mi dava noia, lo star malinconico, et solitario m'era conforto, le medicine mi nodrivano per immaginatione, et mi consumavano per

effetti, onde mi trovo scemate le forze, afflitti gli spiriti, accorciata la vita, appressata la vecchiezza, et quasi condotto a morte. Sia lodato Iddio che alla fine la ragione ha sottoposto i sensi, et m’ha fatto ravvedere, che ’1 mio male era nel centro del cuore, et che la medicina è in poter mio».

La medicina cui Guazzo allude è la volontà di risanamento: «Eccovi ch'io dunque l’adopero a tutto pasto, ella non mi costa nulla, ella nasce su’l mio, et quanto più ne consumo, tanto più ne abondo. Sempre fiorita, non teme né caldo, né gelo, non è composta ma semplice, non nasce ne i campi [allusione ai rimedi ippocratici, galenici e ficiniani?], né in giardini, né in deserti, ma cia-

scuna ne porta una radice nel petto, et ha nome volontà» (Ivi). E aggiunge: «Non mi dite più adunque, ch’io viva lieto, che quando anco non volessi, lo voglio fare, malgrado di me medesimo». Guaz-

zo invita il suo interlocutore a berne senza esitazione: a chi chiedesse di lui si dovrà rispondere che ha ormai lasciato la casa di Saturno per quella di Giove 4, la contemplazione per l’azione (DP, 16). Da Mantova Guazzo dichiara di non essere «riformato» ma «trasformato

in tutto».

Trasformazione

purtroppo

illusoria

per

una malinconia recidiva che, se si deve tener fede alle sue parole,

4 Per la «casa» di Saturno e di Giove, cfr. M. Ficino, De vita triplici, cit., 19} SMISI

LA CONVERSAZIONE

NELLA

CONVERSAZIONE

131

è divenuta col passar del tempo vera e propria «infermità» (L, p. 241. Lettera ad Alessandro Salmaccia da Casale, 31 maggio 1586) e gli impedisce «di dir compiutamente quel, ch'io vorrei». L'umor nero coinvolge anche la stima di sé come scrittore. Il suo interlocutore l’ha certamente sopravvalutato nel giudicare la sua opera mentre egli, Guazzo, ha voluto solamente accendere «un fuoco di paglia per mano de’ fanciulli», senza alcuna intenzione di lasciarla a lungo «nella luce del mondo». La descrizione dei sintomi della malinconia viene restituita con una rara lucidità e nitidezza in una lettera spedita da Pavia il 27 marzo 1590. A Lelia Sangiorgio, che «con tanta passione ricerca le novelle del presente mio stato», Guazzo scrive che «a guisa del cervo porto dovunque vò la saetta nel fianco, cioè la vertigine, e ‘1 batticuore, che mi danno spesso fieri assalti, onde mi conviene

mal mio grado, starmene gran parte del tempo in un riposato travaglio, et sentire non le piume ma le spine del letto» (L., p. 62). Ma la sua lotta contro la malinconia non è cessata: «... quando ho triegua col male, procuro di fuggir la malinconia mia mortale nemica, et me ne vengo compartendo le mie temporali stationi in questo modo»:

diverse

conversazioni

«dolci, et honeste

conversatio-

ni», in cui «scambievolmente si gode dello stare insieme». Guazzo mostra ancora di credere alla conversazione come rimedio alla malinconia. Nel ritornare la sera «al mio albergo questi afflitti spiriti ripigliano la nera veste della malinconia». È la solitudine pur sempre, come per la Civil Conversatione, la responsabile di questo indesiderato ritorno: «quanto più dolce è stato il riposo del giorno, tanto più amaro mi pare il travaglio, et l'inquietudine della notte. Alla fine mi ravveggo, che non posso vincere questa tristezza d'animo s’io non procuro di faticarla, et di stancarla con la varietà de nuovi, et piacevoli oggetti, et d’imitar quel Capitano, che mutava spesso il campo per travagliar il nemico» (Ibidem, pp. 66-67). Il contenuto di queste pagine riporta alle lettere degli anni 60, quando Guazzo si dichiarava «combattuto dallo zelo della sanità», avvertiva il miglioramento, fuggiva l’ozio che aumentava la sua malinconia e il suo mal di stomaco (Ibidem, p. 11), che il «silopo» riusciva ad attenuare nonostante egli facesse uso di vino, «tanto ribelle dell’acqua, quanto gli Ugonotti della messa». Anche allora era attento ai sintomi del suo male. Attento alla qualità dei suoi risvegli. L’«indispositione», somatizzata dal paziente, non gli impedisce il sonno, ma lo attende al risveglio: «nel risvegliarmi entro in una certa disperatione di salute, et di vita» (Ibidem, p. 12). Al momento di alzarsi rinasce per incanto la speranza ed egli

oz

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

si sforza di credere alla sua salute ritrovata: «et par che la natura hor si rinforzi, hor si pieghi, et me la passo così tra la speranza, e 'l timore». A tratti crede, «per la qualità degli accidenti» e per le informazioni raccolte nei libri di medicina, di essere giunto a un punto cruciale, e senza ritorno; ma il suo «zelo di sanità» non lo ferma «in questo pensiero»; egli si sforza quanto può di «viver lieto, et di non

ricordarmi

di esser

infermo».

Ha

convertito

i suoi

studi in burle e «honeste sciocchezze, et rimbambisco scherzando

talhor co’ miei figlioli» (Ibidem, pp. 12-13). Attende nuovo parere dal suo interlocutore medico. Non tralascia di ricordare l’apprezzamento di Annibale Magnocavalli all'operato terapeutico del Brandioni, che secondo la sua interpretazione ha colto «la radice del male» e prescritto opportuni rimedi: pillole, lettuario, ecc.; rimedi, si vedrà, risultati però inefficaci. Infatti nonostante «ch'io usi della ragione, et faccia virilmente contrasto alla malinconia», tentando di ingannare se stesso e persuadersi di non «aver più

male»; promettendosi di rinnovarsi «come fenice», la strategia persuasiva non impedisce alla «bestia» di mordere. L’intelletto si affievolisce, simile al lume della lampada per troppo olio, per una sorta di «accecante chiarezza», la stessa che secondo Montaigne ha colpito Tasso 5. Prevalgono le forti sensazioni, la pusillanimità ingombra il cuore e induce Guazzo, «lo voglia, o non», a temere «hora una alienazione di mente, hora una consumatione di spiriti a fuoco lento, hora un caso repentino», tutti gradini che lo fanno discendere in una «profonda viltà». Afflizione vera e a tratti divorante, quasi autofagia. «Rode il cuore» proprio come all’omerico Bellerofonte. L'unico le lettere successive, guarire. Ma lo sforzo, ha raggiunto del tutto

rimedio verrà individuato, lo testimoniano nella propria volontà e determinazione a come preciserà ulteriormente Guazzo, non il suo scopo e, come era già successo in pre-

cedenza, il miglioramento si rivela solo transitorio. L’«unico rimedio» tuttavia riuscirà a prendere forma solo nel contatto e nella conversazione con gli altri, negandosi il più possibile alla inevitabile solitudine.

Veleno e antidoto

La conversazione rimane nel libro primo della CC solo parzialmente legata alla biografia. Essa si connota essenzialmente

5 _M. DE MONTAIGNE, Essais, cit., II, XII, p. 492; tr. it. cit., p. 641.

LA CONVERSAZIONE

come metaconversazione

NELLA

CONVERSAZIONE

133

(conversazione sulla conversazione), ma

il suo oggetto è unitamente esistenziale e intersoggettivo per tau-

tologia. Della biografia pertanto si nutre, alla biografia ritorna. Il Cavaliere riconoscerà di aver considerato a lungo la solitudine «mia prima forma di vivere» (IV, 255r). Agli esordi del libro primo solo da sé egli ritiene di derivare la salute, da un io che solo presso di sé, «nelle mie stanze», riesce a liberarsi dalla «pratica del mondo»; solo così nel ritiro della solitudine «io riscuoto la mia

libertà», che diviene in tal modo bene del tutto privato, apprezzabile e dilatabile a dismisura: «non avendo ella à dar conto di se stessa ad alcuna persona, è tutta rivolta a gratificarmi, et a porgermi meraviglioso piacere, et conforto» (I, 4r).

La solitudine, la vita solitaria (Petrarca), più tardi diverrà, nella «falsa immaginazione» del Cavaliere, il «paradiso». Essa invece è un «oscuro manto» di contro alla «candida veste» della conversazione (IV, 316r). Ma il Cavaliere non tarda a comprendere

che questo solo è irrimediabilmente legato a un ora. Solo in questo momento la solitudine si presenta come l’unico rimedio e sollievo alla malattia. All’incalzare di Annibale («credete voi, che se continuaste lungo tempo quella vita solitaria, diverreste sano?») il Cavaliere è costretto ad ammettere: «Questo non ardirei d’affermare» (I, 4r). Ecco che l’ora, il cronotopo, finisce per incrinare il fascino del piacere e del conforto attribuito a una libertà che non sa garantire insieme un futuro per sé e la salute del soggetto e fa nascere un altro ora, stavolta proferito da Annibale («Hora si, ch’io comincio a temere, che cotesta infermità non sia forse incu-

rabile»), che equivale alla speranza e alla presa di coscienza della curabilità della malattia con altri mezzi. Se il presupposto della conversazione tra Guglielmo e Annibale è la malattia, al contempo suo fine è la cura; fine in qualche modo già presente in un presupposto che lascia intendere l’altra possibilità: la salute (I, 24v). Il rapporto tra Guglielmo e Annibale infatti, come è stato notato $, è di tipo retorico (suasorio). Annibale procede come il medico/retore della Retorica aristotelica. La conversazione si rivelerà terapeutica/persuasiva nei confronti del male e delle sue angosce fobiche, attraverso un percorso, in certi

casi, «impuro», alleata di nuovo la biografia, poiché chi sarà in grado di guarire il male dovrà innanzitutto presentarsi (o conver-

6 G. PaTRIZI, Una retorica del molteplice. Forme di vita e forme del sapere nella «Civil Conversatione», in Stefano Guazzo e la «Civil Conversatione»,

pp. 47-94.

cit.,

134

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

sare) al malato non come medico, ma come «amico», «a cui non s'habbia a celare i vostri accidenti» (I, 3v). Laddove sarà proprio il «valoroso medico», in luogo del «singolar amico», a decostruire la incurabilità del male, a persuadere circa il risanamento da quei «torbidi» (Cavaliere) e «noiosi» (Annibale) pensieri. In qualità di medico, infatti, suggerirà a Guglielmo di individuare «quelle cose, che gli giovano, et [...] quelle che gli nuocciono per poter fuggire queste, et seguir quelle» (I, 3r); le stesse che, come insegnava Ippocrate, «per lunghe osservazioni» abbiano «accresciuto o scemato questa vostra afflizione...» (I, 3v). Invita a farsi semetotico, a saper leggere i segni, i segni della solitudine come testo,a decifrare se stesso, in definitiva a riconoscere che la solitudine, prima forma di vivere, va abbandonata

per la conversazione,

«salute dell’ani-

ma, et del corpo» (I, 24). Segni e semiosi di cui Annibale possiede già interpretazione e che gli renderanno possibile formulare una diagnosi, elaborare una propria teoria dell’interpretazione grazie alla conversazione con Guglielmo e abbandonare, al più presto, il presupposto della conversazione tra due interlocutori (il malato e il sano, la malattia e la salute) per attestarsi e formulare un discorso sulla conversazione tout court e i suoi sensi multipli (la sua polisemia).

Solitarius/occupatus: la riappropriazione cosciente del tempo

Il confronto con il De vita solitaria di Petrarca? si impone a Guazzo per ragioni metodologiche e culturali. Nel Rinascimento, sulle orme degli antichi, in particolare della Satira VI, di Orazio 8,

? F. PETRARCA, De vita solitaria, in Opere latine I, Utet, Torino 261-567, a cura di A. Bufano.

19872, pp.

8 Sulla satira VI si è da tempo esercitato, con la consueta finezza argo1982, tr. it. L’ordine del giorno, Il melangolo, Genova 1990. La solitudine oraziana è un «’ozio’ civilissimo», è ozio in cui il saggio trova rifugio e realizzazione di un «sogno»: «hoc erat in votis» (Orazio, Satire, II, VI, 1-3 in Le opere, Utet, Torino 19833, p. 206); «un pezzo di terreno, non tanto grande, dove fosse l’orto e, vicino alla casa, una sorgente d’acqua viva e, per aggiunta, un po’ di bosco» (ivi). Alla descrizione del giardino di Orazio, come giardino del filosofo e del poeta, dedica acute pagine P. GRIMAL, Les jardins romains, Fayard, Paris 1984; tr. it. / giardini di Roma antica, Garzanti, Milano 1990, pp. 387-393. Nel rifugio Orazio troverà «ora [...] libri degli antichi, ora [...] sonno e [...] dolce far niente» (Ibidem, p. 211). Come annota Starobinski «l’anafora ora...0ra...ora sarà ormai la formula caratteristica di ogni celebrazione della pienezza indolente dell’età dell’oro» (cit., p. 13); la «forma grammaticale di questo nuovo impiego del tempo, sciolto da ogni vincolo a esso estraneo [...] Il tempo mentativa J. STAROBINSKI, L’ordre du jour, Paris, Gallimard

LA CONVERSAZIONE

NELLA

CONVERSAZIONE

35

l'opposizione di vita solitaria (la metafora filosofica del giardino e in qualche caso della biblioteca) e conversazione rimane un topos filosofico-letterario, che si presta a molteplici ricomposizioni, elaborazioni del tema centrale (vita attiva vs vita contemplativa) e configura esiti difformi. Petrarca viene eletto dalla Civil! Conversatione come il più illustre esponente, forse insuperato, di una fecondissima stagione culturale. Ma il suo elogio della vita solitaria, in netta opposizione alle cure e agli affanni della conversazione, è da intendersi in funzione di una precisa esigenza, particolarmente sentita da Petrarca: la riappropriazione cosciente del tempo ?. La tematica lo appassiona a tal punto da richiedergli più tempo e più spazio per la sua enucleazione: «Pensavo di scrivere una lettera: ho scritto un libro» 1°. Un libro, inoltre, «che non avrei diviso, appunto perché solo [solitarius] restasse il libro della vita solitaria: ma mi è venuto in men-

te che io ho esaltato la solitudine che rifugge dalla folla, non quella che rifugge anche da un amico» !!. Il suo elogio della vita solitaria è l’espressione filosofico-letteraria della centralità metaforica della scelta del luogo lontano «dalla turba degli uomini e dal turbine della città»; città e uomini ormai non si danno più pensiero del loro spirito, ma delle cose e delle merci. L’«amore della solitudine» è congiunto nel De vita solitaria con l’«amore della libertà»; libertà intesa come libertà negativa: ma non solo questo. Per realizzarli pienamente entrambi, l’uomo deve rifuggire dalle cure di una «triste attività» e fondare la propria vita sull’«ozio sereno» !2. «Della solitudine infatti lodo non soltanto il nome, ma i vantaggi che essa presenta. Non amo tanto i recessi solitari e il silenzio, quanto la pace e la libertà che vi si trovano» !3. Da questo momento in poi, nel suo «libro della vita solitaria», Petrarca segue ed espone i modelli di vita del solitarius e dell’oc-

[...] scandito dalle variazioni spontanee del desiderio» (Ibidem, pp. 12-13). La solitudine, il giardino come paradiso, rocca lontana dalla funesta ambizione della città e dal foro: «Quando

io sono

a Roma,

tu [Giano] mi trascini nelle

malleverie: ‘Orsù, sbrigati: che non risponda un altro all'appello prima di te’. E sia che l’aquilone sferzi la terra, sia che la bruma chiuda in un giro più breve la giornata nevosa, bisogna ch'io vada. Poi, dopo aver detto a voce chiara e precisa cose che possono anche nuocermi, devo lottare per rompere la calca, e dar fastidio a coloro che traccheggiano [...]» (Orazio, Satire, II, VI, 24-28, p.

209). Da ultimo l’invidia del foro. 9 J. STAROBINSKI, L'ordine del giorno, cit., p. 13. 10 PETRARCA, De vita solitaria, cit., p. 565.

ll Ivi. 12 Ibidem, p. 277. 13 Ivi.

136

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

cupatus: «Si alza nel cuor della notte l’indaffarato, infelice abitante della città, poiché il sonno gli è stato interrotto dalle sue preoccupazioni o dalle voci dei clienti; spesso anche per paura della luce, spesso atterrito dalle notturne visioni. Subito si lascia andare su di un triste sgabello e l'animo volge agl’inganni; si dà tutto a quelli, e pensa al prezzo da fissare alle merci, o al modo di ingannare il compagno [...], di stendere con le parole un velo di giustizia su di un’ingiusta contestazione, di operare infine qualche corruzione in pubblico o in privato [...]: così questo triste artefice ordisce prima dell’alba la tela delle occupazioni diurne in cui avvolgere se stesso e gli altri» !4. Completamente diversa è la situazione del solitarius: «Si alza l’uomo solitario e tranquillo, sereno, ristorato da un conveniente riposo, dopo aver non interrotto ma terminato il suo breve sonno [.... Non rivolge l’attenzione a meditare frode alcuna» !5. Il confronto tra i due modi di vita continua sotto il segno dell’opposizione. «Il giorno è arrivato [...] Quegli ha l’abitazione invasa da amici nemici, viene salutato, chiamato,

trascinato,

sospinto, biasimato,

diffamato. Questi ha sgombro l’ingresso, e, s'intende ha libertà di rimanersene in casa o di andare dove vuole. Quegli si avvia triste al Foro, pieno di noie e di affanni, e trae dagli uccelli gli auspici per l’inizio del giorno imminente» !6. I toni sono quelli oraziani; si mescolano passato e futuro: «Quegli, appena giunto ai palazzi grandiosi dei potenti o ai temuti scanni dei giudici, il vero mescolando col falso, calpesta i giusti diritti di un innocente, o alimenta l’audacia di un colpevole [...] Il rimorso lo assale [...] si rimprovera

di non aver anteposto la fame della solitudine alla fama dell’eloquenza [...] Questi [...] implora anzitutto innocenza,

freno alla lin-

gua che non conosca contesa [...] Chi di questi, domando io, ha finora meglio impiegato il suo tempo?» !. L'opposizione non risiede solo nello stato d’animo del risveglio mattutino, ovvero, una volta uscito, del foro vs il bosco, ma anche nella propria dimora, al momento del convito: «Quegli, sof-

focato e sepolto tra i cuscini si accomoda sotto un gran baldacchino che minaccia di rovinare». Ancora reminiscenze oraziane:

«La

casa rimbomba di rumori vari; cani cortigiani gli stanno intorno e topi domestici, uno stuolo di adulatori lo circonda e fa a gara per servirlo, mentre una schiera di servi radunati da ogni parte appa-

14 Ibidem, p. 279. (OLI

16 Ivi. !7 Ibidem, p. 281. Sott. mia.

LA

CONVERSAZIONE

NELLA

CONVERSAZIONE

137

recchia la tavola in mezzo alle grida e alla confusione». La critica all’adulazione come perdita della libertà individuale acquista, in queste pagine, tinte forti: «Non piangono né ridono secondo il proprio impulso, ma, messi da parte i propri affetti, assumono quelli

degli altri; trattano

infine

gli affari

altrui,

pensano

alle cose

altrui, vivono delle sostanze altrui» !8. E ancora: «Si fanno guidare

dall’altrui cenno, e leggono sul viso altrui che cosa occorre che essi facciano». Gli adulatori, tipici abitanti dei palazzi e delle stanze dei re, praticano un tipo di prigionia intellettuale e morale, condannati in perpetuo alle prigioni dei potenti: condannati alle «catene d’oro». Anche Guazzo si servità di questa metafora per caratterizzare lo status dell’adulatore, del cortigiano adulatore (il «Giano delle corti»). «Di più bella apparenza è la catena, continua Petrarca, identica la schiavitù, maggiore la colpa», rispetto ai veri e propri prigionieri. Peggiore è la colpa perché la loro è servitù volontaria. Le riflessioni petrarchiane che seguono vanno riportate per la loro incisività senza inopportune omissioni: «Si scopa il pavimento sporco, e ogni cosa si ricopre di sudicia polvere; corrono per le

stanze oggetti d’argento dorato e tazze ricavate da cave gemme; gli scanni vengono ricoperti di seta, le pareti di porpora, i pavimenti di tappeti: nudo trema intanto lo stuolo di servi. Schierato l’esercito, la tromba dà finalmente il segnale della battaglia. I generali della cucina s'incontrano con i generali della sala da pranzo, un grande fragore si leva, si portano le vivande procurate per terra e per mare e i vini premuti al tempo dei consoli antichi» !9. La sala da pranzo come un campo di battaglia. Spettacolo culinario allestito da artefici e mani sapienti che hanno saputo accostare cibi nostrani e forestieri, prodotti del mare e della terra, «vivande nere e bianche, aspre e dolci, carni di animali irsuti e pennuti, mansueti e feroci». L'epilogo è sorprendente: «... e, come

se l’antico Caos, di cui parla Ovidio si fosse rinnovato e ridotto in un angusto

spazio, non

solo in un unico corpo,

ma

in un unico

piatto, ‘i corpi freddi e umidi contrasteranno con i caldi e secchi, i morbidi con i duri, i leggeri con i pesanti’». Cosmologia sapienziale e «culinaria».

Ma guardiamo la mensa del solitarius: «Questi invece, contento di pochi servi, o di uno, o di nessuno, sobrio e vegeto per l’astinenza del giorno innanzi, prepara la sua nitida mensa sotto il lare modesto, di null’altro adornandola che della sua presenza: invece

18 Ibidem, p. 295. 19 Ibidem, p. 283.

138

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

della confusione ha la pace, invece dello strepito il silenzio, invece della folla se stesso: egli a se stesso compagno, egli interlocutore, egli commensale» 29. Sul finir del giorno anche il pranzo dell’occupatus volge al termine: «Un esercito di famigli e di parenti nemici turba l’uomo occupato, e il rovesciarsi della tavola [...] nelle stan-

ze risuonano scherzi di ubriachi e lamenti di affamati. La mensa dei ricchi ha infatti questo (non ultimo) svantaggio, che ignora ogni giustizia [...] I divani sono ora sepolcri e la cattiva coscienza è l'inferno. Per il nostro solitario invece tutto è diverso. La casa sembra più adatta ai conviti degli angeli che a quelli degli uomini [...] e la buona coscienza è il paradiso» 2! — Guazzo (CC, I, 10v) coglie e sottolinea il riferimento petrarchiano alla solitudine come paradiso. Il banchetto del primo, a ben vedere, continua Petrarca, sembrerebbe piuttosto un «funerale di un vivo». La stessa lunga fila di persone davanti e dietro. Anche i flauti «precedono il funerale affinché nulla manchi alle esequie» ?2. E se il solitario volge la sua giornata alla riappropriazione cosciente del tempo, l’occupatus sancisce definitivamente la sua espropriazione dal tempo vissuto. Egli non vive ma di fatto si lascia vivere. L’espropriazione del tempo in lui è definitivamente compiuta, tanto da assistere al suo quotidiano funerale. Il tempo vissuto ormai è «morto».

Egli

stesso

è un

cadavere;

«riccamente

addobbato,

cosparso di profumi preziosi, viene di nuovo sepolto tra i cuscini, ancora tiepido, ancora spirante». I segni esteriori della vita, l’illusione della vita, lo avvicinano sempre più alla morte. I simboli della vita e della morte sono per lui gli stessi, tanto da confonderli: il suo convito quotidiano è la messa in scena della propria morte.

La Civil conversatione realizza l'integrazione reciproca dei modelli solitarius e occupatus, sottraendo innanzitutto la conversazione al dominio esclusivo dell’occupatus; non è un caso che la topica della conversazione rifugga intenzionalmente il linguaggio del «mercato» e della «commedia», ma non altrettanto l’otium della solitudine colta. Uno dei mezzi, anzi, individuati a rimedio della

malinconia è proprio «l’otio honesto», sotto cui Guazzo semantizza, come vedremo, una fenomenologia positiva dell’otium. L'argomentazione ci è in parte familiare. Il ritiro nella solitudine non può funzionare come rimedio alla malinconia. Come è emerso dal-

20 Ibidem, p. 285.

21 Ibidem, p. 287. 22 Ibidem, p. 293.

LA CONVERSAZIONE

l’epistolario

una

delle

ragioni

NELLA

indiscusse

CONVERSAZIONE

della

malinconia

139

va

ricercata in questa senechiana «sepoltura d’huom vivo» (Ibidem, I,

10r). Non si tratta qui certamente sto», ma

dell’ozio «virtuoso»

di quello «vitioso», che nasce

o «hone-

da una certa «viltà d’ani-

mo», che fa «ritirare l’huomo dalle vigilie, da gli studi, dalle fatiche, et da tutte le lodevoli operationi, et che è proprio di coloro che sono inutili al mondo, et temono il sole, et la pioggia, né ad altro sono rivolti, che ai pensieri accidiosi, et al sacrificio di Venere, et Bacco» (CC, II, 162r). L’acedia è dunque anche il frutto dell’«otio vile», ozio «di corpo» che non procura serenità d’animo, ma inquietudine, e fornisce ulteriore alimento allo spleen. Il concetto di «otio vile» non si lascia chiudere, tuttavia, in questa segmentazione.

La sua azione è di più larga portata e genera spesso

male sociale. Robert Burton che nella sua Anatomy of Melancholy procede dalla malinconia del singolo alla malinconia degli Stati, dimostra di essere tributario di Guazzo su questo e altri argomenti chiamandolo in causa direttamente 23. Nella Civil! Conversatione l’«otio vile» non è solo quello che produce acedia, «vani, et lascivi

pensieri», ma indubbiamente pensieri «di mala vita». Guazzo sottoscrive il detto di Catone secondo il quale «gli uomini col far nulla imparano a far male» (Ibidem, 162v). L’ozioso non può essere definito vivo dal momento che «a niuno vive»; colpa tanto più grave nella gente dabbene. Di altra origine è ovviamente l’«otio honesto», inteso come riposo dalla fatica. In questo caso l’ozio onesto si configura come medicina (ivi) e rinforzo della stessa attività vitale. È lecito, allora, «richiamare l’anima da’ gravi e continoui pensieri». Simile agli strumenti musicali, la vita prova giovamento nell’alternanza del tirare e allentare le corde. Certo i «continoui pensieri» vengono avvertiti dal Cavaliere ab experto come la causa che consuma e logora la vita. Afflizione, dunque, ma non solo afflizione: «perdo quasi gli spiriti vitali in quelli del mio patrone, ne quali, come potete pensare, sono costretto per honore, et per debito a farvi dentro un habito melanconico, et son certo che già vi havrei lasciata la pelle, se non che mi sforzo pure alcuna volta di riconfortarmi con qualche honesto passatempo» (Ibidem, 163r). Tutta-

23 R. Burton, Anatomy of Melancholy, (Oxford 1621), J.M. London-Melbourne and Toronto 19783, I, p. 332; III, p. 3; p. 305. Oltre la traduzione dell’Introduzione per i tipi di Marsilio esiste una traduzione del libro terzo, Malinconia d'amore, Rizzoli, Milano 1981.

Per un’analisi complessiva dell’opera di Burton rimando a R. Simon, Robert Burton et l’Anatomie de la mélancolie, Didier, Paris 1964; J. STAROBINSKI,

Democrito parla, cit., pp. 7-43.

140

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

via anche questo tipo di ozio deve conoscere limiti dal momento che, è ferma convinzione di Guazzo, la natura ha destinato l’uomo

al lavoro piuttosto che al gioco, alla serietà più che alla frivolezza, alla severità e allo studio (ivi). ia Il Cavaliere non tarda a capire che Annibale vuol proporre tale ozio «non come vivanda per notrimento; ma più tosto come insalata per assotigliar l'appetito, et come confetto per suggellar lo stomaco» (ivi). Bisogna concedersi all’ozio quel tanto che basta «ad inanimarci, et a confortarci, nelle fatiche; et volete, che si giuochi per vivere, ma non si viva per giuocare» ?4. Bisogna evitare di divenire per sempre «otioso spettatore» della vita. Ginnastica e musica, sin dall'antichità, sono state proposte come «colonne necessarie al sostentamento della vita»; il lottare rende l’uomo

«feroce», ma la musica lo addolcisce. Insieme «compongono, et contemprano bene l’animo, et i costumi» (Ibidem, 163v). Anche nella conversazione con le donne si ritrova una forma di ozio onesto; bisogna evitare, anche qui, che tale ozio scada nell’ordinario,

dal momento che «stempererebbe» l'animo, quasi liquefacendolo: verrebbe meno l’ardire che è proprio dell’uomo. Non cibo ordinario, dunque,

ma

«un

ristorativo della vita»: a piccole dosi, parsi-

monia, ma anche abilità e sapienza di dosaggio, da poter affermare di essere giunto fino alla foce di Scilla e bevuto nella coppa di Circe, «senza essersi sommerso,

né trasformato».

Del pari il tempo dell’ozio non è solo medicina dell'anima, ma tempo della conversazione, e della discussione di argomenti per i quali «conviene mettere studio, et aguzzare lo spirito in maniera che in vece di riposare, egli talhora s’affatica più che dentro i negotij» (Ibidem, 164v). Al concetto di ozio onesto inerisce «l’essercitio dell'animo, ovvero del corpo, anzi è sentenza dei savij, che

al godimento dell’otio è necessario l’apprendere, et l’ammaestrarsi in alcune cose» (ivi). Il gioco degli scacchi e la musica, pur essendo stati introdotti per ozio, richiedono non un apprendimento «a caso», «ma a scienza». Può chiamarsi ozio quello dei contadini che dopo aver duramente lavorato passano il giorno di festa a ballare «alla disperata»? Certamente, perché il lavoro lo eseguono con noia e il ballo con piacere, tanto da tornare il giorno seguente,

24 Sul concetto di gioco nel Rinascimento restano fondamentali i contributi raccolti da PH. Arrès et J.-CL. MaRGOLIN, Les jeux à la Renaissance, Vrin,

Paris 1982 e quelli di J. CeARD et J.-CL. MargOLIN, Rebus de la Renaissance. Des images qui parlent, Maisonneuve et Larose, Paris 1986, 2 voll. Si veda anche PLurEs, Passare il tempo. La letteratura del gioco e dell’intrattenimento XII al XVI secolo, Salerno Editrice, Roma 1993, 2 voll.

dal

LA

CONVERSAZIONE

NELLA

CONVERSAZIONE

141

con rinnovato vigore, al lavoro. L'aspetto terapeutico dell’ozio viene riconosciuto da Annibale ab experto.

Rachele e Lia

L'opposizione solitudine/conversazione, nella forma di vita contemplativa vs vita attiva, giunge a Guazzo dalla tradizione ciceroniana 25 e dalla restituzione che ne compie Cristoforo Landino. Il tema del rapporto tra vita attiva e vita contemplativa inaugura il primo libro delle Disputationes Camaldulenses *, composte presumibilmente prima del 1474 ?? (antecedenti quindi di un secolo la pubblicazione della Civil! Conversazione) e dedicate al duca Federico da Montefeltro,

emblema

vivente dell’unione di vita attiva e

vita contemplativa, «eccellente» in entrambe, come le intenzioni dell’opera e la stessa imagerie consegneranno al proprio tempo ?8: «A chi dunque avrei dovuto dedicare quel libro in cui si discute delle due forme di vita se non a te che le hai abbracciate entrambe e in entrambe sei stato eccellente?» 29. Nell’elogio che il Landino fa di Federico, Guazzo potrà leggere che persino in guerra, lontano dai conviti ideali della corte, «in mezzo agli strepiti e ai tumulti [...] si son sempre

sentite le voci di coloro che discuteva-

no» 39. Da luogo improprio della di essa: è la pace che consente non la guerra. Narrazione di un convegno Alberti e Lorenzo il Magnifico,

conversazione a contro-emblema le condizioni della conversazione tra dotti, presenti Leon Battista

le Disputationes propongono

una

25 Per Cicerone cfr. in particolare de off., I, 43, 152. 26 C. LanpINO, Disputationes Camaldulenses, ed. critica a cura di P. Lohe, Sansoni, Firenze 1980. La tr. it. del libro primo si legge in E. GARIN (a cura di), Prosatori latini del Quattrocento, cit., pp. 716-791. 27 Peter Lohe considera il 1474 come il termine ante quem per la datazione dell’opera, adducendo una serie di argomentazioni probatorie, tra cui l'appellativo di princeps e non ancora di dux riferito da Landino nella dedica a Federico. La nomina a dux da parte del papa avvenne nel 1474 (Cfr. Introduzione a C. Landino, Disputationes..., cit., pp. IX sgg.). L'editio princeps venne pubblicata senza indicazione di luogo e di data. Ma sempre il Lohe, che si occupa della traduzione del testo, accetta la datazione 1480. 28 Il riferimento va al dipinto del Berruguete in cui si è letto un emblema

corrispondente

a quello futuro

di Alciati, Emblematum

liber, CLXXVII

(Ex bello pax). Non ci sembra peregrino il riferimento a queste pagine del Landino, in cui appunto viene esaltato il duplice ruolo del princeps federiciano. 29 C. LanpINO, Disputationes..., cit., p. 725. 30 Ivi.

142

LA VIRTÙ

conversazione

ELOQUENTE

sulle «due forme

della vita», «duplice modo

del

vivere umano», nonché sui «confini dei beni e dei mali» 3!, exempla ciceroniani, cari all’Umanesimo. Il testo del Landino, come suggerisce opportunamente Garin, a sua volta è esemplare in

quanto raffigura e ricostruisce l’ideale di vita del primo Umanesimo fiorentino, nel momento in cui esso si misura col platonismo già affermatosi. Dispute e discorsi, dunque, per nulla peregrini, ma carichi di significati per il destino storico dello stesso Umanesimo.

A livello simbolico i due ideali di vita nelle Disputationes rintracciano per ermeneutica la loro origine biblica (in un certo senso dicotomica) in Rachele, «principio della visione» 32, la contemplazione, e in Lia, «di vista certa» ma «fecondissima» 33, la pratica,

la vita attiva. Marta e Maria secondo la tradizione cristiana: «Maria banchetta mentre Marta è distratta in molte cose» 4. Maria è oziosa; Marta si affretta percorrendo ogni luogo. «Maria assolve il suo compito con la sola mente che è immortale e pura da ogni corruzione. [...] Marta non fa nulla senza i sensi» 5. Il godi-

mento che deriva dalla contemplazione (verità) è allora eterno: Maria si è scelta l’«ottima parte, che non le sarà tolta» 36. Ma al di là della apparente dicotomia, Marta e Maria sono sorelle ed entrambe piacciono a Dio: «Maria perché cibi, Marta perché si cibi» 37. È configurata e (da noi) anticipata qui, seguendo la traccia simbolica offerta dal testo, la soluzione del problema che Landino poneva all’inizio della conversazione, per bocca di Lorenzo il Magnifico all’Alberti: in che modo il sapere filosofico può e deve platonicamente configurarsi come sapere dei governanti per una giusta ed efficace pratica politica? Maria ciba, Marta si ciba. La risposta è contenuta simbolicamente in questa suggestiva affermazione, posta a conclusione del «gioco delle tracce». Infatti Landino si serve della rete metaforico-simbolica avendo già ben delineati punti saldi alle proprie tesi. Innanzitutto la definizione di vita contemplativa, vero e proprio avvio al testo, predisposta ad indagare «quel fine ultimo delle cose che i Greci chiamano telos,

3! Ibidem, pp. 717-719.

32 Ibidem, p. 743. 33 Ibidem, p. 753. 3tHAbidem;pish71 Mv 36 Ibidem, p. 781. 37 Ibidem, p. 789.

LA CONVERSAZIONE

NELLA

CONVERSAZIONE

143

al quale come a ultima meta della corsa noi giungendo possiamo riposare in sicura tranquillità» 38. Seppure per tradizione all'uomo di lettere si è attribuita la solitudine — sicuro porto in cui Maria si rifugia e da cui Marta fugge nel travaglio della tempesta — e la prerogativa dello spettatore di terre, mari e naufragi, il teoretico deve recuperare «quelle ali platoniche» che lo portano a cogliere una individuazione fondamentale:

«nessuno

[...] amministrerà

rettamente

se medesimo

e

la città se con quelle virtù che correggono la vita e i costumi non si sarà purificato da ogni macchia corporea; se non avrà illuminato poi l'animo suo con le virtù che recano a noi la conoscenza delle cose supreme, in modo da conoscer davvero che cosa sia lui stesso, che cosa gli altri uomini, e perché mai il sommo Iddio ci abbia prodotti» 39. Solo allora gli stati saranno «finalmente beati quando li reggeranno i filosofi, o quando i reggitori cominceranno a filosofare». A questo punto l’intelligenza di Lorenzo pone la domanda cruciale: che cosa il reggitore dello stato deve apprendere dal ricercatore del vero? Alberti non si nasconde la difficoltà del problema e propone metodologicamente di discutere i due tipi di vita, che poi coincidono con due punti di vista, separatamente poi congiuntamente. Innanzitutto l’intendere deriva all'uomo dal suo

logos 4; è peculiare

della mente,

infatti,

condursi

secondo

ragione e indagare il vero. La vita dell’uomo in quanto uomo, consiste nell’operare e nell’indagare #. La mente umana pensa quando «riduce il molteplice ad unità» 4. Diversamente dall’angelo che coglie con un semplice atto di visione 4, e la cui conoscenza è «circolare», la conoscenza umana è «rettilinea». Ma Lorenzo propone

un modello di città (la «città di Lorenzo») ‘#4 ricca di tutto, prodotto, quindi, dell’attività umana, di uomini laboriosi, architetti, scultori, fattori, fabbri, falegnami, ecc. Che farà tra costoro il sapiente

albertiano, incalza Lorenzo, tutto perduto nell’ozio, sempre solo nella sua biblioteca, «quale parte gli assegneremo nello stato, nella società...?» 45. Chi salisse su una nave che esce in battaglia senza sedersi al timone come pilota, né al posto dei rematori, senza correre per il ponte, a chi servirebbe?

38 Ibidem, p. 717. Per Cicerone, de off., I, 42. 39 Ibidem, p. 729.

40 Ibidem, p. 735. 41M vi:

4. 4 44 4n

Ibidem, Ibidem, Ibidem, Ibidem,

p. p. p. p.

743. 747. 757. 759.

144

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

Uno stato ha bisogno dei suoi cittadini come la nave dei suoi uomini. Del pari l’argomentazione dell’Alberti non è meno incisiva: nessuno compie bene la sua opera nella città se non possiederà la teoria o la sapienza dell’arte stessa. Ia salvezza dello stato non è affidata a chi «salva» il porto, le mura, le piazze, ma alla concordia dei cittadini 4: «Non possono dunque compiersi le cose che convengono alla vita attiva senza la speculazione» #. Anzi «con ciò Dio, architetto di tutte le cose, volle particolarmente indicare che quanto giova al governo della cosa pubblica può essere ritrovato dagli uomini solo attraverso l’investigazione delle cose supreme» “8. In verità solo tra poco Alberti finirà di rispondere completamente alla domanda di Lorenzo: in che modo la contemplazione filosofica serva all’azione pratica — nello specifico all’azione politica. Benché assorto «nell’indagine delle cose» e astenendosi dalla vita pubblica o da ogni affare privato, il saggio dopo aver ricercato perfettamente e compiutamente, affiderà ai suoi scritti quello che sia «utile, onesto, secondo natura» ‘. Qui è

delineato il compito dell’intellettuale, la qualità del proprio intervento: sarà infatti ben governata quella nave/stato in cui il sapiente, libero da ogni occupazione, studi ciò che giova alla navigazione. Ma sarà vero uomo colui che sa unire i due generi di vita 50: «ci uniremo a Marta per non venir meno al nostro dovere umano; ma ci uniremo molto di più a Maria perché l’anima nostra si alimenti di ambrosia

e di nettare» 5. Maria

ciba, Marta

si ciba. La

contemplazione produce l’alimento di cui la pratica deve cibarsi; è la sua luce, i suoi occhi. Ma se la vista è potenziata, può divenire fecondissima. Certamente Guazzo aveva imparato bene la lezione di Cicerone circa la «precedenza» dell’esigenza sociale e la comunione tra gli uomini sull’interesse teorico. Cicerone combatteva l'opinione secondo la quale la comunanza della società umana si sarebbe stabilita per una necessità pratica di vita, presupponente l’incapacità di realizzare, senza gli altri, «quanto la natura richiede». Opinione che aveva a suo corollario l’altra: se una virgula divina procurasse agli uomini il fabbisogno per le necessità materiali della vita, i migliori ingegni abbandonerebbero la vita pratica per dedicarsi

‘O year, jd 76% 4

Ibidem, p. 779.

ia TAV 4 Ibidem, p. 785.

50 Ibidem, p. 789. Tv

LA CONVERSAZIONE

NELLA

CONVERSAZIONE

145

alla teorica. Ma le cose, secondo l’Arpinate, non stanno così: «ché allora fuggirebbero la solitudine e cercherebbero un compagno nello studio, vorrebbero insegnare ed imparare, ascoltare e parlare. Ogni compito pertanto che mira alla tutela dell'unione e della società umana va anteposto a quello implicito nella conoscenza teorica» 52,

Guazzo interpretava il «mistero di Giacobbe» anche in altra direzione, non perdendo però i connotati di riferimento. Critica dell’ozio e elogio della fatica. L’ermeneutica biblica suggerisce che l’uomo è nato alla fatica e il mistero di Giacobbe secondo il quale egli «non poté haver la bella Rachelle senza pigliar prima Lia che haveva gli occhi infermi, ci dà avvertimento che conviene affaticarsi nella presente vita se vogliamo poi acquistar Rachelle, cioè l'immortalità nell'altra». (DP, 656). Le opere sono alimento della generosità e presupposto della sanità. Potenza e fama nascono da esse. Tutto può essere raggiunto con la fatica, l’uso e il lungo esercizio (ivi). Il rapporto tra vita attiva e vita contemplativa raggiunge in Guazzo il suo massimo significato laddove egli lo configura come «unione», di entrambe in un equilibrio capace di rendere un secolo «d’oro», che diverrà veramente tale allorché i savi regneranno e il Principe, per mezzo della prudenza, «s’impadronisca di due regni, cioè del regno di Saturno, che è la contemplazione, et del regno di Giove che è l’attione» (DP, 16). Capace di produrre un’utopia. Conformemente al credo umanista, già più di un secolo prima Enea Silvio Piccolomini, costruttore di un’altra città-simbolo, Pienza, si era così espresso: «La perfezione infatti è solo negli uomini che possono intrecciare con la filosofia il civile operare, e che riconducono a sé entrambe le cose» 53.

Crisi della conversazione cortigiana e «huomo compiuto»

Il Cavaliere pur disposto a perseguire la semiosi della sua anima, in un primo momento coglie nel segno della solitudine il rimedio alla malinconia e fornisce contemporaneamente la sua diagnosi della malattia che non lascia indifferente Annibale: «Parmi d’haver chiaramente

conosciuto, che la conversatione

di molti

mi dia affanno, et molestia, et per lo contrario la solitudine sia un

52 CICERONE, de off. I, 44, 158 (tr. it. p. 681). 53 EnFA SiLvio PriccoLominI, Tractatus de p. 201.

liberorum

educatione,

cit.,

146

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

refrigerio, et alleviamento de’ miei travagli, et se bene per servigio del mio Prencipe mi conviene conversare, non che con gli ‘altri gentil'huomini

suoi servitori, ma

in corte del Re discorrendo,

et

negotiando con molte persone di diversi paesi, et nationi, faccio però questo ufficio contra la volontà mia, et vi vado come la biscia all’incanto; perché io sento, ch’el mio spirito s’affatica oltremodo nell’attendere a i ragionamenti altrui, et nel pensare alle debite mie risposte, et nello stare con quello rispetto, et con quelle osservanze, che richiede la qualità delle persone, et l’honor mio, il che non è altro che pena, et soggettione» (CC, I, 3v-4r). La lunga citazione, tratta dalle prime pagine dell’opera guazziana, offre subito l'opportunità di cogliere l’intenzione comunicativa di Stefano (Guazzo) e insieme di formulare un'ipotesi verosimile circa la «causa del malessere» che tanto travaglia il Cavaliere e che, nonostante le apparenti oscillazioni di quest’ultimo e le affermazioni in proposito di Annibale, lo stesso Guglielmo mostra di avere individuato. La delimitazione e la definizione del malessere assumono toni e contorni precisi. Il male sembra inerire e radicarsi nel modello comportamentale cortigiano. Ancora nel libro II Guglielmo preciserà: «La conversatione de’ Prencipi non s'ha per mio giudicio a fuggire, se non in quanto ci toglie quella libertà, che tanto è grata nel conversare, et ci mette in una servitù, la quale non ci può lungamente dilettare (CC, II, 137r-v). Senza libertà: attendere ai ragionamenti altrui, pensare alle debite risposte, stare con quel rispetto che richiedono il grado e le qualità delle persone, essere «perfetto cortigiano», come l’Architesto ha suggerito ovvero modellizzato; uomo che vive nella «prattica degli altri huomini», possiede un codice di «buone maniere»,

è civile e cortese:

tutto questo, o almeno parte di esso, sembra entrare in crisi e sconvolgere l'identità della coscienza cortigiana, pur come vedremo, senza intaccarla nelle fondamenta. Piuttosto che una codifica-

zione di un ruolo, sembra al Cavaliere si tratti di un rimando speculare, come in un gioco di specchi, in cui ci si smarrisce, nel gioco dei rinvii e delle corrispondenze, il riflettente a vantaggio delli) riflesso(i). Pensando a Guazzo, tale individuazione può, prima facie, sorprendere e risultare un tentativo, più o meno consapevole, di inficiare,

almeno

parzialmente,

i risultati

che egli stesso

sembrava prefiggersi con il contenuto del libro IV. Senza voler anticipare troppo aspetti che in seguito avremo modo di sottolineare, si tratta invece nel proponimento guazziano, della individuazione di un nuovo concetto di conversazione che, pur dichiarando l’Architesto a modello, intende per alcuni presupposti e conseguenze cui perviene, deliberatamente sottrarvisi e rivolgersi a chi voglia «comporre, et formar in se stessi, un huomo compiu-

LA CONVERSAZIONE

NELLA

CONVERSAZIONE

147

to» (DP, 392), senza negare al contempo, in toto, il modello in cui si identifica pur differenziandosene. Per questo intento guazziano si puòun po’ paradossalmente parlare di «estraneità all’etichetta» 54. E proprio in fondo questa estraneità, a ben vedere, che conferisce alla Civil Conversatione un carattere universale e la riavvicina dal margine estremo del Rinascimento alla più autentica tradizione umanistica e ai suoi modelli di educazione totale, come ha

sottolineato con incisività Bonfatti 55. È un fatto che la storiografia recente, in verità non più così scarna in quantità come in passato, anche se com’è opportuno non si è lasciata chiudere entro un’interpretazione dell’opera di Guazzo nei termini di un trattato di Institutio e di codici comportamentali di buone maniere 5, e anzi ha tentato di leggere un'estensione semantica del termine «conversatione» 5° in svariati ambiti e con diversi esiti, per l’articolazione complessa della tematica che Guazzo predispone, sembra aver accantonato, forse un po’ frettolosamente, l’ipotesi che Lievsay 58 avanzava una trentina di anni fa sul rapporto cortigiania/civil conversazione, giudicandola, per certi versi, troppo semplicistica. L'ipotesi lievsayana, tuttavia, anche se eccessivamente schematica, se opportunamente corretta alla luce di ulteriori contributi, penso in particolare a Bonfatti, può risultare ancora utile. Lievsay muovendo «affrettatamente» dall'opposizione cortigiania/civiltà, cortigiano/cittadino vi sarebbe poi rimasto ancorato, limitando il suo taglio interpretativo all’esordio guazziano, di pur ampio respiro, sacrificando gli ulteriori sviluppi che alla tematica Guazzo avrebbe riservato nei libri successivi 59. Laddove è innegabile — e questo lo riconosce anche Bonfatti 0 — che contenuti e destinatari del Cortegiano e della

S4 E. BONFATTI,

La

«Civil

Conversazione»

in Germania.

Letteratura

del

comportamento da Stefano Guazzo a Adolph Knigge. 1574-1788, cit., p. 64. 55 Ivi. 56 Per la storiografia si veda Introduzione. 57 Importante contributo in questo ambito è quello di M. TETEL, Montaigne et Stefano Guazzo: de deux conversations, in Etudes montaignistes, en hommage

à Pierre Michel, Champion,

Paris

1984, ora in Présences italiennes

dans les Essais de Montaigne, Champion, Paris 1992, pp. 11-27. 58 J.L. Lievsay, Stefano Guazzo and the English Renaissance 1575-1675, cit., pp. 39-46; tr. it. parz. cit., pp. 202 sgg. 59 Vanno in questa direzione, pur con sfumature diverse, E. Bonfatti (La «Civil Conversazione» in Germania, cit., pp. 63-67), J. Javitch (Rival Arts of Conduct in Elizabethan England: Guazzo's Civil Conversation and Castiglione’s Courtier, «Yearbook of Italian Studies», I (1971), pp. 178-198). Un accenno anche in D. Aricò, Retorica barocca come comportamento: buona creanza e civil conversazione, «Intersezioni» I (1981), 2, pp. 343-344. 60 E. BONFATTI, La «Civil conversazione»..., cit., p. 64.

148

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

Civil Conversatione siano diversi. Sembra che la storiografia non abbia posto a sufficienza l'accento sulla precondizione, per così dire, della Civil Conversatione, o almeno non accordato a essa l’importanza dovuta: la crisi che coinvolge le statuto e in qualche modo il discorso del «perfetto cortegiano» che Guazzo registra

inequivocabilmente come presupposto reale da cui il discorso sulla civil conversazione muove (e conoscerà esiti significativi anche nel

libro III) e che renderà Guglielmo da malato sano, da perfetto cortigiano uomo «compiuto». In Guglielmo si avvera la metamorfosi del passaggio ed è proprio la lacerazione (e la malinconia) del passaggio a rendere possibile una piena conversazione civile, conversazione dell’uomo di mondo e soprattutto la pluralità di conversazioni e registri linguistici. È vero che Guazzo guarda all’Architesto come modello (IV libro), ma prima di addentrarsi nello specifico della «conversatione tra uguali», premette tre libri in cui chiarisce statuto, modalità, tipologie della «conversatione tra diseguali», che del pari, e a questo punto forse a più buon diritto, inerisce alla conversazione civile. Anzi si può a ragione sostenere che il concetto guazziano di

conversazione risulti più ampio e «regolamentato» non solo per il fatto che riguarda tutti gli stati sociali affacciatisi alla modernità. Precisa Bonfatti: «Di proprio Guazzo offriva sotto un denominatore comune una serie articolatissima di osservazioni, proposte e consigli rivolti non a una sola casta né a un ambito solo; andava cioè estendendo un codice etico, quello nobiliare fondato sull’onore, sulla virtù, sull'educazione (comportamento) e sulla superiore cognizione della nobiltà dello spirito a ‘ciascuna sorte di persone’ e a situazioni appartenenti a sfere diverse da quelle della città e della corte» 6!. La superiorità del centro, precisa ulteriormente Bonfatti, deve essere legittimata a sua volta da qualità possibili anche altrove. Quindi anche il giudizio corrente secondo il quale Guazzo parli a un pubblico borghese con messaggi pieni di senso pratico, dovranno intendersi in base a quest'opera di mediazione. Non un codice diverso da quello nobiliare, o almeno non un codice alternativo; alcuni (non tutti) elementi dell’etica nobiliare andranno a comporre il concetto di «civil conversazione». Anche se questo tentativo di prescrivere la «politesse» a medicina sociale può essere inteso come neutralizzazione dell’impatto aggressivo dei «ceti» sociali, in forma non oppositiva alla violenza, ma come sua forma socializzata £, non si può negare che

6! Ibidem, pp. 55-56. 62 Ivi.

LA CONVERSAZIONE

NELLA

CONVERSAZIONE

149

il codice universale delle buone maniere conversazionali sia una retorica di mise en avant delle debolezze e dei bisogni dell'altro 83. Artificiale all’inizio, risveglierà, forse, attenzione e reciprocità; favorirà — lo ricorda Guazzo — virtù sociali.

La linea interpretativa proposta poggia sulla «segnaletica» interna all’opera guazziana, ed elegge la critica della conversazione cortigiana a presupposto euristico-metodologico della «conversazione civile»; critica che riguarda non l’esigenza di una forma della conversazione, le buone maniere, le quali peraltro devono valere per tutti, ma la struttura e l’essenza stesse della conversazione cortigiana, come forma di vita, posta in gioco della conversazione tra uguali che intende «formar con parole» il perfetto cortigiano. È questo il senso da attribuire al proposito di Castiglione (il «formar con parole» non è altro che conversazione) in quanto risultato di una conversazione, pur sempre con Guazzo «cribro» della verità, quindi autorevole e «scientificamente» ineccepibile. È infatti la conversazione tra uguali a formare con parole l’ufficio del perfetto cortigiano. Conversazione che si avvera, e a tratti si identifica quasi, nell'esposizione della forma del proprio oggetto: perché in fondo, parlando di lui, è di se stessa che parla e si racconta.

Rimane qualche domanda da porsi che dà senso all’investimento guazziano. La prima riguarda il perché in fondo Guazzo abbia scelto proprio il ‘cortigiano’ 64, come modello da cui prendere le mosse per poi differenziarsene. Il riferimento paradigmatico al testo eponimo non spiega da sé le ragioni della scelta. Anzi, alla lunga, potrebbe addirittura

risultare fuorviante.

La critica auto-

proposta da Guglielmo al suo modus vivendi e conversandi, che lo riflette, serve a Guazzo per poter accedere con un punto di vista moderno a una problematica classica: il rapporto solitudine/conversazione va recuperato alla modernità operando su di esso una diversa valutazione dei connotati tradizionali, tramite una ‘inver-

sione’ che appartiene già alla modernità. Pertanto la conversazione che il Cavaliere vuole fuggire è la conversazione codificata dalla e nella corte, come forma di vita e forma di conversare che lo

63 Julia Kristeva lo afferma per il rituale galante (in PLURES, La politesse, cit., pp. 76-90), ma può a buon diritto essere esteso a tutto il comportamento.

64 È opportuno distinguere, come ha fatto anche Burke (I! cortigiano, in PLURES, L'uomo del Rinascimento, Laterza, Bari 1988, pp. 160 sgg.), nella letteratura anticortigiana la critica delle corti dalla critica del cortigiano deluso dalle corti. La critica della corte è di stampo classico, così l'opposizione tra corte e campagna, ecc.

150

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

riflette: gli procura noia e malessere, depressione e spaesamento e gli fa preferire la solitudine, come ritorno a sé dell’essere e della parola, delle stesse forme della «dicacità». Guazzo vuol dimostrare che la malattia di Guglielmo non troverà*cura nella solitudine, falso rimedio a una limitata e, in parte, falsa conversazione. Un altro tipo di conversazione, ormai, fungerà da medicina; una con-

versazione che farà dell’uomo «huomo compiuto» e non semplicemente «corteggiano». Tutto qui? E se il cortigiano fosse un falso bersaglio dacché in lui le «buone maniere» servono per un fine/ luogo spazio-temporale limitato (la corte e il cortigiano) e tanto più ‘ideale’ lontano? Perché criticare un modello che non è più storicamente modello? Ritardi di provincia o tentativo riuscito di ricostruzione storica e diacronica della forma della conversazione civile esemplare? E ancora: la codificazione per tutti delle buone maniere e la conversazione tra disuguali proposte da Guazzo implicano la codificazione dei ruoli sociali secondo l’ordine del giorno: ognuno al suo posto? Ma non è forse piuttosto nelle intenzioni di Guazzo definire le forme dell’«intertenimento» con dichiarati intenti (omologanti e differenzianti) di vero e proprio affinamento dei costumi e di educazione individuale e collettiva, perché alla fine il «vuoto» del rituale delle buone maniere, scambio di segni in cui si regolano i propri movimenti su quelli degli altri, generi benevolenza, amorevolezza, complicità sociale e non solo apparenza di virtù?

A tutte queste domande interessante

sottolineare

si cercherà di rispondere. Intanto è

che nella crisi del Cavaliere,

nella sua

«melancholia» si può leggere lo stesso spaesamento del «Grasso legnaiolo», la stessa perdita della coscienza epistemica del soggetto: io sono diventato un altro 85. Il soggetto non si riconosce più,

6° La Novella del Grasso legnaiolo, su cui di recente ha attirato l’attenzione anche Garin (L'uomo del Rinascimento,

in PLurES, L'uomo

del Rinasci-

mento, cit., p. 4), viene considerata uno dei testi in cui «la manipolazione dei mondi» raggiunge il punto più alto (cfr. C. SEGRE, Teatro e romanzo, Einaudi, Torino, 1984, pp. 46-47). La manipolazione elimina progressivamente di realtà’ del personaggio che finisce, superando progressivamente per accettare il mondo e l’identità alternativi. Com'è noto la novella complessa finzione con cui un gruppo di amici convince il Grasso di re più lui, ma Matteo. La crisi del Grasso raggiunge la sua massima in una serie di affermazioni: «... e’ mi pare che costui ch'è su sia me» l’ediz. Ricciardi, Milano-Napoli 1968, vol. XIV dei Prosatori volgari

il ‘senso i dubbi, narra la non essevertigine (cito daldel Quat-

trocento, p. 772 che riproduce la redazione del Manetti, riproposta ora da Vallecchi, Firenze 1989 insieme alle redazioni del Giambullari e del Davanzati). «Sarei io mai smemorato?» E ancora: «... sarei io mai Calandrino, ch'io sia si

tosto diventato un altro senza essermene avveduto?» (Ibidem, p. 773); «... tutto invasato quasi per certo gli parve essere un altro» (Ibidem, p. 774); «Che deb-

LA CONVERSAZIONE

non si trova. Ma al radicalità e abilità «sprezzamento»: ars vita solitaria, infatti discorso dall’ufficio che nelle sue attioni con arte; ma

NELLA

CONVERSAZIONE

dist

tempo stesso rimangono nella crisi la stessa della «sprezzatura», che Guazzo chiamerà est celare artem %. Nel condurre l’elogio della «Voi non vi sete punto discostato in questo del perfetto corteggiano, cui è comandato, ponga diligentissima cura, et faccia il tutto

in maniera

che l’arte sia nascosta,

et paia il tutto a

caso, accioché ne venga più ammirato» (I, 10v). L'uomo di corte è avvisato.

L'uomo

di mondo

conosce

perfettamente

il suo

gioco,

perché in qualche misura gli appartiene: la «sprezzatura», in parte è la sua, la sua è arte di celare l’arte e riconosce nell’elogio della solitudine che si è appena consumato la voce del Petrarca e del Vida; il Cavaliere non è riuscito in toto a «velare quest'arte» (Ibiderm,_.1.1r)

b’io fare se sono diventato Matteo? ché mi pare esser certo oramai che così sia per tanti segni quant’io ho veduti, e accordandosene ognuno unitamente: ma quale Matteo è questo? (Ivi); «Io non sono più el Grasso di certo e sono diventato Matteo»

(Ibidem, p. 775); «Do! Matteo, tu stai sì malinconoso,

che se

tu fossi per perdere la persona...» (Ibidem, p. 776). E sull’avvenuta metamorfosi: «... trovasti voi mai simile cosa? [...] d'esser diventato di uno un altro» (Ibidem, p. 777). E la domanda cruciale: «Ora ditemi, se io che era el Grasso

son diventato Matteo, di lui che ne debbe essere?», a cui si risponde: «È necessario ch’e’ sia diventato el Grasso»

«Qual è Matteo? —

(Ivi); «Questo

è un caso scambievole»;

El Grasso, fattosi innanzi, disse: —

Eccomi

messere



:

non facendo più dubbio nessuno d’esser diventato Matteo» (Ibidem, p. 780). Ma il dubbio ritorna: «E domandandolo da che egli era venuto che diceva essere el Grasso, s’egli era che gli paressi esser così, o s’egli era acciò che credessono averlo colto in iscambio e lasciansonlo [...] duro gli parea confessar d'esser Matteo» (Ibidem, p. 781): «Se già io non ritornassi el Grasso?» la risposta: «Io non la intendo [la domanda: Se già io...]: che ti bisogna parlare col Grasso? che ha’ tu a che fare con lui? ché quanto più ne parli, e con quante più persone, più discoprirai questo fatto; e tanto è peggio, e tanto è più contro a te» (Ibidem, p. 785). Ma la «fantasia d’ambiguità»: (Ibidem, p. 787) non lo lascia sino alla fine della novella. E la ricostruzione della propria «giusta» identità risulta ugualmente costellata di coups de théatre. Alla «letizia d'esser ritornato el Grasso», segue lo spaesamento per la ‘perdita’ di Matteo e l’accertamento del ‘riconoscimento’ come il Grasso da parte degli altri. E il timore. Una volta «ritornato el Grasso», inoltre, sarebbe potuto di nuovo

«tramutar-

si» in Matteo, «o in qualche altro»? (Ibidem, p. 790). Nonostante che ora «gli pareva pure essere tornato el Grasso» (Ibidem, p. 797), anche a distanza di anni ricordando

l’accaduto, il Grasso avrebbe raccontato «dello essere el Grasso, e del non essere, e se egli aveva sognato, o se sognava quand’egli rammemoriava el passato» (Ibidem, p. 801). 66 Per il precetto: ars est celare artem, cfr. CICERONE, de orat., II, I, 4 (tr.

it. cit., p. 239); QUINTILIANO,

inst. orat., I, II, 3 «Perché,

se in tutto ciò vi è una

tecnica specifica e quindi un’arte propria degli oratori, prima arte è appunto quella di non farla sembrare un'arte» (tr. it., p. 201); si veda anche Ip., XII, 9, 4 (tr. it., p. 683). Per queste tematiche si rinvia a P. D’AnceLO, «Celare l’arte». Per una storia del precetto ‘Ars est celare artem'’, «Intersezioni», 2 (1986) pp. 321-343. Un accenno va anche ad Aristotele, Retorica III. 2, 1404b.

152

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

Il vero non sempre è dicibile. In certi casi rischia di esporre alla barbarie dei rapporti umani, alla loro «sauvagerie». Il rituale delle buone maniere, pertanto, codificando il potere, mantenendolo entro certi limiti, costituisce uno sbarramento alla violenza. A maggior ragione nel «teatro del mondo», il «Parla perché io ti

veda» diviene l'esigenza di un linguaggio costruito e codificato dalla politesse (pur sempre un linguaggio), e in un certo senso ora vale di più. Lungi dal rappresentare il mero linguaggio dell’apparenza, per l’interlocutore/allocutore l’invito alla parola, d’altra parte, equivale alla possibilità di misurare la capacità del locutore di «regolare» il discorso, costruirlo opportunamente, conferirgli decoro e persuasività in vista dell’altro, smussare eccessi e passioni nocive, dosare le tecniche di controllo e autocontrollo: misurare in definitiva il disciplinamento etico di cui il locutore ha dato prova. Paradossalmente proprio per la politesse, grazie alla sua retorica, ha senso parlare di etica del discorso, che ne risulte-

rà, in tal modo, costruito opportunamente, controllato, disciplinato, in «buon ordine». Estetica, etica e retorica.

La catena d’oro

Lo scenario della corte e del cortigiano nel libro terzo tenta di modificarsi rispetto all’avvio del libro primo. Il Cavaliere sa bene come «corteggiano» (I, 33r), ovvero «servitore nobile» III, 240r), che il concetto di «servitù» entra in gioco nella scena della corte. Il discorso muove, per stabilirne ovviamente la differenza, dalla «conversatione» del servitore «vile» con il suo padrone, essenzialmente caratterizzata dal «poco amore» del primo verso il secondo. Nel chiedersene la ragione, il Cavaliere con qualche esitazione ammette che deriva «forse dalla dissimilitudine della vita,

de gli animi, et de i costumi» (Ibidem, 239v). Ma Annibale pensa a un’altra ragione da cui far discendere la causa del «poco amore», una ragione per così dire forte che inerisce all'essenza della servitù stessa, laddove essa «si fa communemente più per necessità che per volontà». È il concetto di schiavitù che si rivela contrario alla dignità umana e alla sua natura: «conoscendosi l’huomo d'esser nato

libero, et riducendosi

alla servitù,

fa violenza

natura sua, et se ben si costituisse volontariamente non è però [...] ch'egli non

alla

in prigione,

abhorrisca colui che lo ritiene sotto i

suoi commandimenti» (Ibidem, 239v). «Fedele con la lingua, ma con l’anima ribelle al suo servigio». Il Cavaliere dapprima, in queste pagine, difende inaspettata-

LA CONVERSAZIONE

NELLA

CONVERSAZIONE

ISS

mente, lo status del cortigiano 7; in questa direzione opera subito il distinguo tra servitori vili e nobili, riduce e mantiene, tuttavia, la cortigiania sotto il titolo di servitù. Bisogna venire, insiste il Cavaliere, «alle distinzioni della servitù» (Ibidem, 240v). Distinguere, differenziare. Annibale accetta l’invito ma lo volge in direzione del suo discorso: «La distinzione, che si può fare tra i nobili Corteggiani servitori de’ Prencipi, et i meccanici, che servono i nobili, è, che le catene, et i ceppi di questi sono di ferro, et di quelli d’oro» (Ibidem, 240r).

Del pari, il Cavaliere-cortigiano sembra ora recalcitrare, far riaffiorare le stesse tensioni che avevano resa precaria la sua salute, topos iniziale del libro primo; svelare il disagio, il malessere: «Questa

differenza io ve la passo, et ho io ancora

per fermo,

che stringano più forte le catene d’oro, che quelle di ferro». La scena ha le sue catene, la scena del mondo e la scena della corte;

ex abrupto il Cavaliere vuole modificare quell’opinione, ancora distinguere, se possibile, stretto ormai in una posizione che lo vede in fase di improbabili repliche. Occorre, allora, ancora distinguere, poiché nobili e vili non «servono» con un medesimo spirito e nel servire non si propongono lo stesso fine: «Horsù vi aggiungo questa differenza, che i servitori vili sono nemici del patrone,

et della catena,

et i nobili

sono

amici

del patrone,

et

nemici della catena». I servitori nobili non si pongono in servitù «astretti dalla fame, et dalla necessità, come sogliono fare i bassi servitori».

Possiedono,

al contrario,

una

sorta

di disposizione

naturale per il «servigio» (correzione lessicale di «servitù»), il cui fine principale non è certamente il guadagno «vile», ma l'onore e la gloria. C'è di più. La biografia. L’indisposizione che lo ha reso ora «privato cittadino» rischia di renderlo «quasi inutile al mondo». Alla corte, invece,

«mi passa ogn’hora per le mani

con che

giovare ad infinite persone, et acquistarmi altrettanti amici, et farmi honorare dai più honorati della Corte; onde trafitto da pungenti stimoli, maledico l’indispositione che non mi lascia star lungamente legato a questa catena d’oro, a me sopra modo cara» (Ibidem, 240v). Nostalgia della corte? Ultima resistenza? Autofagia? Annibale incalza il suo interlocutore che sembra aver dimenticato le sue stesse affermazioni/presupposto della prima giornata e avvio del discorso circa la bontà della vita solitaria, l'abbandono

necessario delle conversazioni di corte, il ritiro nelle proprie stanze: «Faccio però questo ufficio [di cortigiano] contro la volontà

67 Cfr. anche II, 137r-v.

154

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

mia» (I, 3v); «vado alla corte come la biscia all’incanto»; «nelle mie stanze [...] io riscuoto la mia libertà» (Ibidem, 4r). Questa cate-

na d’oro — all'esordio del libro primo si presentava davvero più soffocante di quella di ferro, la stessa che ora il Cavaliere dichiara di prediligere soprattutto, tanto da inveire contro l’indisposizione che lo tiene lontano dalla corte — Annibale circoscrive ai suoi scopi: essa è cara «non per se stessa, ma per gli effetti che ne seguono» (III, 241v). A questo punto Guazzo fa intervenire un ulteriore dato biografico, riguardante non più il Cavaliere, suo fratello, ma se stesso. L'autore della Civil Conversatione, che esprime le proprie convinzioni in questo momento per bocca di Annibale, chiama in causa adesso se medesimo, nominandosi nel dialogo quale «vostro fratello», come per invocare ulterire autorità alle tesi di Annibale e in definitiva alle sue stesse tesi. Guazzo si chiama in causa indirettamente/direttamente con un abile gioco di finzione narratologica. Ma quale bisogno spinge l’autore a entrare nel testo, quando la sua posizione era già chiaramente rappresentata? Perché questo ‘rinforzo’? Vediamo di che si tratta: «... mi ricordo d’aver udito vostro fratello affermare, ch'egli amava Madama

sua patrona, ma non la servitù, et vi sò dire, che innanzi

alla morte di quella Prencipessa egli si sarebbe ritirato da quelle fatiche insopportabili; se l’infinita bontà di lei, et gli straordinari favori, che tutto dì gli faceva, non l’avessero a forza ritenuto» (Ibidem, 240v). La testimonianza di Guazzo, tramite la sua presenza nel testo, funge da testimonianza veritiera, piuttosto che da excusatio per uno status ripudiato e da cui si rifugge. La testimonianza veritiera agisce a livello di testo e a livello extratestuale: chi, infatti, è più veritiero di un illustre fratello? Annibale ha ora la licenza di divenire più duro: non solo la servitù del «corteggiano» è insopportabile, la sua è vera e propria miseria esistenziale. L’Architesto stride; sembra lui il bersaglio. Il buon arciere non drizza la saetta verso ogni uccello, ma solamente verso quello che spera di cogliere (I, 33v). L'Architesto e il suo scopo: il perfetto cortigiano: «Et nel vero quell’essere astretto a mangiare, a parlare,

a camminare,

con la bocca, con la lingua, et

con le gambe altrui, quel non haver mai riposo né d’animo, né di corpo, quel perder se stesso per servigio del patrone, et insomma quei disagi, quei rompicolli, che si raccontano in una vostra lettera, et che voi avete ancor in gran parte sofferti nella persona vostra, riempiono il calice d'una medicina così amara, che con l'odore, anzi con la sola memoria s’offende la natura» (III,

240v-241r). È ora Annibale a dare corpo al malessere, alla nausea del Cortigiano-Cavaliere, quale all’inizio della Civil Conversatione sì era autopresentato: «Pena, et soggettione» nel seguire i ragiona-

LA CONVERSAZIONE

NELLA

CONVERSAZIONE

155

menti altrui, nel pensare alle risposte adeguate, «nello stare con quel rispetto, et con quelle osservanze, che richiede la qualità delle persone, et l’honor mio» (I, 3v-4r), nell'osservare, insomma,

quelle buone maniere cortigiane, le regole dell’Architesto, sua cornice e carne. Annibale è il suo ripetitore, la sua eco laddove il Cavaliere sembra voler stravolgere il copione. Il malessere ora lo esprime Annibale perché il cerchio deve chiudersi; egli dà la sua voce e la sua forza persuasiva a un sentimento già espresso dal Cavaliere, il-quale adesso, però, tenta di camuffare, ridimensionare. Con il ritorno al pretesto biografico — la lettera scritta dal Cavaliere, il suo cahier de doléances —

tutto ritor-

na all’inizio, alla biografia, al disagio, al sentirsi, in quanto cortigiano, ridotto «chicco di miglio», con il timore di venir fagocitato, o avvertirsi biscia «all’incanto». La posizione di partenza è riproposta immutata. Ma ora è cambiato il suo «portatore». Presa coscienza

del suo male, la malinconia,

Guglielmo non cerche-

rà più conforto nella solitudine ma nella conversazione, come voleva il suo medico. Tuttavia la conversazione che Guglielmo mostra di prediligere è pur sempre quella da cui cercava di fuggire. Il Cavaliere recalcitra: non si guadagna il «pregio» senza correre. Luogo comune ribaltato dal suo interlocutore: «Sono però molti che corrono, ma l’acquista un solo, et per uno, a cui tocchi in sorte gratiosa ricompensa del suo servire, se ne veggono

molti

a dolersi

d’haver

consumato

le facultà,

et la vita

al

servigio de’ Prencipi, né averne riportato altro di più che la misera vecchiezza, col vano pentimento, et pochi ve ne sono, che non siano astretti a crepare o di fatica, o di dolore» (III, 241r). Questa la natura della catena d’oro; stringe davvero più di quella di ferro, solidificata sulla perdita di sé stessi e sull’illusione. Illusione della ricompensa, meccanismo perverso che lega sempre

di più. Si ricerca

allora la stanza,

la biblioteca,

il

proprio confine, ricovero per ritrovarsi dopo essersi persi in quei molteplici negozi che spossessano, raddoppiano, sbriciolano, ma non ricompongono, in quel mangiare-parlare-camminare per grazia ricevuta. Perdere se stessi e ritrovarsi: ma dove e quando?

«A

me,

conclude

Annibale,

questa

catena

d’oro

non

piacque mai, et ho sempre tenute tutte le servitù per fallaci, et meschine». Il punto di vista di Annibale si identifica con quello di Guazzo «suo fratello» e di fatto il Cavaliere non replica; ormai il suo interlocutore ha espresso la sostanza del vivere cortigiano

Il cavaliere

e della sua

non

conversazione;

la forma

recalcitra più: sposta e abdica

è nell’Architesto.

alla sua stessa

156

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

parola: si tratta ormai della conversazione

tra «'l padrone, et ’l

servitore» (241v) 88.

Annibale/Guazzo riguardo alla conversazione tra principe e cortigiano affermerà che «ci è stato levato questo impaccio dalla polita penna di chi formò perfettamente il Corteggiano» (II, 252v). Il Cavaliere concorda: «Veramente quel Cavalier con la felicità di quest’opera, s’acquistò immortal fama, né ha lasciato che desiderare intorno all’ufficio del Corteggiano» (ivi). Il Cavaliere tuttavia invita Annibale a non discostarsi «dallo stile del diligente medico», il quale «nonostante le ricette de gli altri medici, non lascia di darne anch'egli una di sua mano all’infermo» (ivi). Annibale/Guazzo lascerà due ricette. La prima: «Avertite, che mentre guardate il cielo, non perdiate la terra» (ivi). Per comprendere a fondo questa ricetta non si deve prescindere da una affermazione scandita in qualche riga precedente, l'assimilazione, cioè del Principe a Dio, il suo essere un dio terreno. Al principe si devono onori celesti, ma a patto di non perdere di vista la terra, il consorzio

umano, la scena del mondo. Il secondo rimedio è composto di «due medicamenti» «ch'io ho cavati dal Ricettario d’un valente Filosofo dell’uno de’ quali, o d’'ambedue, volendosi servire il Corteggiano, si conserverà lungamente la gratia del Prencipe. I medicamenti sono l’astinenza, o le vivande condite col zuccaro [...] ‘Il Corteggian nanti al Signor, o taccia o sia presto a dir cosa, che gli

piaccia’» (252v-253r). È la seconda risposta di Annibale alla quale il Cavaliere non replica ulteriormente. Si sta apparecchiando, ormai, quel «convito» del libro quarto, convito tra eguali sul modello del Cortegiano, la conversazione en abîme.

L’arma di Achille: il paradosso della conversazione L’aver raggiunto lo statuto del «perfetto corteggiano» non impedisce al Cavaliere di avvertire la crisi di identità del proprio io (cortigiano); crisi della coscienza (la mancata libertà), crisi della conversazione (di quel modello, il modello dell’Architesto). Proprio su questa base si fonda la proposta di Annibale che risulta chiaramente delineata sin dalle prime battute. Nel voler risanare e tentare di comporre la crisi del soggetto, esistenziale ed epistemica, Annibale propone un modello di conversazione che pur assorbendo in sé l’Architesto (nel quarto libro, come abbiamo

6 Anche Guazzo, come aveva fatto Castiglione, distingue tra adulatore, servitore ignobile e cortigiano in senso nobile.

LA CONVERSAZIONE

NELLA

CONVERSAZIONE

157

accennato, Guazzo propone la modellistica di una conversazione tra «uguali», disposti in «circolo» prossemico dell’uguaglianza esemplata sul Cortegiano, con qualche differenza tuttavia non trascurabile), sposta l’accento dall'uomo di corte all'uomo di mondo,

dalla conversazione cortigiana alla civil conversazione cui la prima di diritto ineriva. Nell’ultimo libro, pur proponendo il Cortegiano a modello epistemologico della sua costruzione, chiarisce senza indugi in che cosa consista la differenza della nuova costruzione rispetto al modello, dopo aver proposto nei tre libri precedenti e «praticato» il proprio concetto innovativo e polisemico di «conversatione civile», che si spinge, per la sua completezza e per

il suo uso euristico, al di là delle pur fondamentali indicazioni del Piccolomini: «... chi sarà mai così di ferro, et di marmo, così aspro, acerbo, melanconico, et rozo nel conversare, et tanto della

faccia, et della presentia d’ogni altro huomo nemico...?» 99. La ragione epistemica e la risoluzione della crisi esistenziale del soggetto, nonché la proposta della conversazione civile risiedono nello spazio contiguo di una rottura storica, tra Guglielmo Guazzo e Annibale Magnocavalli, tra la crisi dell’uomo di corte e l'affermazione dell’uomo di mondo ? e delle loro conversazioni: nello spazio del desiderio di una nuova «prattica degli huomini». In questo senso sarà proprio Montaigne a cogliere della Civi/ Conversatione la vera e genuina essenza. Per l’autore degli Essais, come è stato anticipato, ogni gentiluomo dovrebbe essere educato come un cortigiano (istanza formale di bon ton, ecc.)7!, ma in vista di una nuova pratica umana di rapporti intersoggettivi. Non sono un caso le occorrenze di conversation civile negli Essais ?2.

Andare alla corte è ormai come mandare la biscia all’incanto (non a caso Guazzo usa, al di là dell'aspetto proverbiale, l’immagine della biscia, strisciante come il cortigiano), con riluttanza; diviene anzi insopportabile, quasi dolore fisico oltre che morale; può giungere, in una «fantasia di ambiguità», a trasformare parossisticamente l’individuo in animale 73 viscido e strisciante,

69 A. PiccoLoMINI, Della Istitution Morale, cit., I, p. 20.

70 Cfr. C. OssoLa, Dal «cortegiano» all’ «uomo di mondo», cit. 71 M. DE MONTAIGNE, Essais, I, XXVI, p. 172; tr. it. cit., p. 229.

72 Come ha dimostrato da tempo P. ViLLey (Les sources et l’evolution des Essais de Montaigne, Hachette, Paris 1908, in particolare vol. I, pp. 139-140, p. 248 e p. 407, nonché Sources et annotations ai diversi capitoli degli Essais, Alcan, Paris 1930) la presenza di Guazzo è forte nelle pagine ‘italiane’ degli Essais; così l’occorrenza del sintagma «civile conversation». 73 Anche

J. StAROBINSKI

(Sull’adulazione,

in Il rimedio

nel male, cit., p.

63) fa opportunamente osservare che nella stessa etimologia latina del termine adulari, il riferimento è agli animali. Il termine sottolinea dunque «l’ani-

158

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

senza libertà, la biscia appunto, o in un seme di miglio in cui l’individuo si identifica, assalito dal timore, angoscia fobica di essere divorati dalla bestia (I, 13v), di essere incorporati in essa, quale entità esterna e fagogitatrice (la corte). Antesignano, malgré lui della metamorfosi di Gregor Samsa, il malinconico può spingersi nella sua psicosi ossessiva a identificarsi nel comportamento di quel tale che «pensando d’esser trasformato in un grano di miglio, stette lungo tempo senza metter’ il pie fuori di casa, temendo che i polli non corressero a dargli del becco, et inghiottirlo» (Ibidem, 6r). Temendo lo scenario della corte, la sua scena — la conversazione cortigiana — la forma-corte. Contravvenendo all’immaginario curiale. Allontanandosi dalla pratica di quel mondo reale/immaginario, assimilazione di ordini, archetipi e atteggiamenti compromessi. Il malinconico odia le catene di qualunque natura esse siano. Ne è ancora ben cosciente Kant: «La verità è sublime ed egli [il malinconico] odia la menzogna e l’inganno [...] non sopporta la vile sottomissione. Dalle catene d’oro del cortigiano, ai pesanti ferri dello schiavo delle galee, tutti i ceppi sono da lui aborriti». Non resta che uscire dalla corte e ritirarsi nelle proprie stanze per trovare

conforto.

L’intus,

l’arrière-boutique

non

riescono,

in

questo momento, a garantire il foris, ma solo un intus/foris, una stanza che dà corpo alla propria spiritualità. Ma il paradosso prende forma proprio laddove si crede poter trovare la soluzione. Se gli uomini, la loro «prattica», procurano spavento, insicurezza che si spinge alla fobia, come potrà il Cavaliere confortarsi da se stesso? Se il suo male incurabile/curabile lo porta verso la solitudine in cui alla lunga può trovare solo immaginario conforto e sicuro peggioramento della malattia: «come potrò io confortarmi da me stesso?». Singolare affermazione questa del Cavaliere che subito dopo aver eletto la solitudine a conforto, lascia trapelare, seppur larvatamente e allusivamente, un potere terapeutico della conversazione,

tesi forte di Annibale:

«Horsù.

Signor

Cavaliere,

confortatevi, che il vostro male è facilissimo a curarsi» (I, 4r). Conforto e cura. Due pratiche che il discorso, la conversazione del Cavaliere e di Annibale, ha finora stretto entro percorsi non sovrapponibili. Trovare conforto. O almeno così ha creduto di leggere il Cavaliere; pur stimando di potersi confortare da solo e solo nella solitudine, al tempo stesso converrà con Annibale che nella

malità ora nel comportamento

dell’adulatore, ora nella natura stessa chi di si

presta all’adulazione». Sull’adulazione, indimenticabile anche la pagina pseudo-plutarchiana del De liberis educandis e l'opuscolo altrettanto famoso Quomodo adulator ab amico internoscatur.

LA CONVERSAZIONE

NELLA

CONVERSAZIONE

159

solitudine non potrà trovare la cura al suo male: «questo non m’ardirei d’affermare». Il Cavaliere sembra non cogliere il punto di vista del suo interlocutore e attribuisce una natura non dialettica alle affermazioni di Annibale, alla sua strategia conversativa che farebbe uso di una ‘impropria’ «arma di Achille, con la quale ferite, et sanate» (I, 4r) 74. Infatti l’uso che del mitologema fa il Cavaliere designa l'ambiguità del messaggio contenutovi. Telefo guarisce dalla stessa arma che lo ha ferito. Il risultato contiene in sé un esito positivo: la guarigione per mezzo della stessa causa della ferita. Il rimedio è nel male (nella conversazione considerata «male» da Guglielmo). Ma il Cavaliere, almeno

in questo momento,

mostra

di non

cogliere il mito in tal senso e lo interpreta secondo un ordine logico elementare, di esclusione degli opposti per il quale «di queste proposte contrarie» bisogna che «una sia falsa». Ne coglie cioè un duplice potere contraddittorio. Se la cura risiede, come afferma Annibale, nella conversazione con gli altri uomini e quest’ultima procura al soggetto ansia e angoscia; se la solitudine nella quale il Cavaliere sembra trovare conforto, annida in sé i pericoli della cronicità se non del peggioramento della malattia, il malinconico come potrà confortarsi da solo? Il Cavaliere sembra indicare o la solitudine o la conversazione. Ma alla lunga egli non dirà semplicemente o l’una o l’altra, poiché mostrerà di aver recepito per

74 Nel Rinascimento il mito di Telefo diviene un luogo comune. Lo stesso Guazzo vi ricorre ulteriormente nei Dialoghi Piacevoli, cit., p. 496. Lo fa, tra gli altri, Scipione Ammirato (cfr. cap. 2., nota n. 142). Conformemente al mito, l’«arma» di Achille si precisa meglio nei DP come «lancia». Per la nascita del mito e le sue implicazioni filosofico-letterarie cfr. J. Starobinski, Il rimedio nel male: il pensiero di Rousseau, in Il rimedio nel male, cit., pp. 149188. L'idea che la parola sia l’arma di Achille è già presente in Plutarco. Il riferimento è alla parola come monito o rimprovero al giovane: «Se al termine di un’operazione uno fugge via dal medico e non vuole che gli bendi la ferita, accetta la parte dolorosa dell’intervento ma non attende l’effetto benefico della cura: così chi non offre alla parola, che ha inciso e ferito la sua stoltezza, la

possibilità di cicatrizzare e rimarginare, si allontana dalla filosofia morso e sofferente, ma privo di qualunque reale beneficio, perché non solo la piaga di Telefo ‘è guarita dalla minuta limatura della lancia’ come dice Euripide, ma anche il morso che la filosofia imprime nei giovani di indole buona è risanato dalla stessa parola che provocò la ferita» (De recta ratione audiendi, 46 E-47 A; tr. it. L'arte di ascoltare, in Moralia II, cit., p. 275. L'opuscolo ebbe dal Cinquecento numerose traduzioni latine e italiane di cui mi occuperò in seguito). Il concetto, inoltre, che dal male si ricavi comunque il bene è oggetto dell’opuscoletto De capienda ex inimicis utilitate che conobbe nel Cinquecento una fortuna europea. La prima traduzione italiana a stampa è di A. Massa, Che a l’huomo possono venire di molte utilità dal suo nemico, in Alcuni opuscoletti de le cose morali del Divino Plutarco..., Michele Tramezzino, Venezia 1543.

160

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

entrambi i concetti, finora oppositivi, le controargomentazioni fatte agire da Annibale: nel cuore stesso dell’alterità il medico-filosofo insinua e articola elementi che non le renderanno più opposte. La risposta non tarda a profilarsiscon quella incisività che facendo un uso corretto della «lancia di Achille» ribalta dialetticamente le osservazioni del suo interlocutore — attestato com'era nella logica dell'identità e dell’esclusione, nel principio di bivalenza della logica, secondo il quale ogni proposizione deve essere

vera o falsa. Tertium

non

datur —:

«Et l’una, et l’altra è

vera» e «la medicina risiede nelle vostre mani» (ivi). Se il discorso di Annibale lo ha ferito, sarà proprio la sua parola, il suo discorso, la sua conversazione a guarirlo. Annibale farà comprendere al Cavaliere che il colpo di lancia è anzi stato inferto da se stesso e che in quella conversazione con gli altri che tanto rifugge troverà i germi della salute, l'antidoto alla malattia; come quella solitudine, in cui tanto si crogiola, contiene i presupposti per la sua uscita. «Quei medesimi, che vi hanno insegnata questa falsa dottrina [la solitudine per rimedio], v’'hanno anco insegnata la vera» (Ibidem, 15v). Il riferimento è a Petrarca e a Vida. Se Petrarca amava la solitudine, del pari teneva in considerazione la conversazione, senza la quale la vita sarebbe «monca». E se si ricorda il Vida è per le sue opere certamente non scritte in solitudine e per la sua «scienza» manifestata in pubblico, per la pratica di corte e per le sue azioni. Annibale per persuadere il Cavaliere giostra ancora con la sua «arma di Achille» che tuttavia anche Guglielmo imparerà presto a usare; fa anche di più; scende sul suo stesso terreno ribaltandone anche il presupposto: la critica della vita di corte. Anch’essa è una forma di associazione, pur non funzionando più come «forma della vita», o suo «fondamento».

«Et l’una, et l’altra è vera». Questa enunciazione esposta in un luogo particolare della Civil Conversatione non deve del resto trarre in inganno sulla sua reale portata che investe più generalmente l'economia stessa dell’opera, agisce sugli stessi personaggi del dialogo e sul concetto di «conversatione». Anche se infatti l’asserto riguarda, in questo singolo luogo, la crisi delle affermazioni di Guglielmo, esso manifesterà presto il suo peso complessivo tale da rendere pienamente legittimo il tentativo metodologico di Guazzo di estendere questa consapevolezza a entrambi i protagonisti del dialogo, in quanto appunto interrelazionati nella strategia discorsiva che renderà le loro affermazioni in quanto

LA CONVERSAZIONE

NELLA

CONVERSAZIONE

161

dialoganti 75 più uniformi e vicine al principio metodologico: la parola ferisce e sana. Di questa metodica si approprierà del pari il Cavaliere, ma anche il lettore che non tarderà ad accorgersi che vera è «l’una, et l’altra» proposizione: quella espressa da Annibale e quella espressa da Guglielmo (non si può in tutto biasimar la solitudine. Ci sono tempi opportuni «nei quali [...] essa è utile, et necessaria» (I, 24v). Ed è Annibale a parlare. L'uomo a volte conversa in solitudine, a volte è solitario in conversazione [ivi]). E si accorgerà che Guazzo affida di volta in volta la sua opinione a

entrambi i personaggi, divenuti ormai capaci di ferire e curare, tramite la loro conversazione. C’è verità nel registro storico-critico del cortigiano, come c’è verità in quello propositivo dell’uomo di mondo. Ma c’è più verità nella loro reciproca conversazione. C'è di più. Proprio in virtù di questa riconosciuta verità, dai segni che emergono dallo stesso cortigiano, di cui Annibale ha fornito un’interpretazione, l’uomo di mondo comprende che la medicina risiede nelle mani di Guglielmo. Per rimuovere il male bisogna conoscerne le ragioni. Guglielmo in un primo momento nega di conoscerle nonostante avesse manifestato nell’esordio tutta la «pesantezza» dell’essere cortigiano. «Ella è, aggiunge Annibale, se no’l sapete, la falsa immaginatione vostra, con la quale a guisa di farfalla gite con diletto procacciando la vostra morte» (Ibidem, 4v). Si trattava qui di una cura a rovescio, con un’arma tramite la quale pensando di sanarsi, ci si ferisce: è l’arma di Achille sconvolta nei suoi effetti, questo sì uso improprio: «perché pensando di ricever alleggiamento per mezo della vita solitaria, vi tirate addosso una soma di malumori [...], et distruggono il bel palazzo dell'anima vostra» (ivi). Bisogna abbandonare «questa sinistra credenza» che «medica a rovescio», questo pernicioso atteggiamento speculare e proporsi, ecco la terapia che già abbiamo anticipato, «la solitudine per veleno, et la conversatione per antidoto, et fondamento della vita» (ivi). Il cum versari, lo stare insieme, il vivere associato, assume un valore ontologico in quanto fondamento della vita e come Guazzo sosterrà più tardi «forma della vita». Bisogna uscire dalla corte, dalla conversazione compromessa

75 Come fa notare Batkin «la possibilità stessa che esistano posizioni differenti e siano tra loro in rapporto, senza escludersi l’una con l’altra e senza essere irriducibili, pur essendo contrapposte, testimonia non solo l'apertura del pensiero dialogico nel suo complesso, ma pure la sua chiusura. Apertura e chiusura internamente coincidono, poiché il pensiero dialogico si fonda sulla convinzione

dell’unità della natura umana,

la quale si rivela —

ogni volta in

modo condizionato e relativo — con manifestazioni eterogenee» (// dialogo, in Gli umanisti italiani. Stile di vita e di pensiero, cit., p. 145).

162

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

e feritrice e guardare a una conversazione che sia «ristorativa della vita». Ma conversare con chi? La scena della corte e la scena del mondo non riescono a esorcizzare l’ignoranza, l’alterigia, la bestialità, l'ambizione e la malignità dei suòi attori. Non riescono a eludere la non trascurabile circostanza che «l’età nostra ha pigliato tanto della qualità del ferro, che non si trovano più quegli uomini del secol d’oro». L'età dell'oro è ormai «consumata» irrimediabilmente. Bisogna convincersi di altro: «non si trova oggidì l’intera bontà, et perfettione in alcun huomo» (III, 245r) è costretto ad ammettere lo stesso Annibale. Conversare con chi? Praticare cattivi interlocutori e discorsi viziati nei presupposti a cosa e a chi può giovare? Lasciare buona opinione di sé in intenti moralizzanti? Dare, dunque, senza nulla ricevere? Allargarsi allo scenario della vita, del mondo a quale scopo? Il Cavaliere vuole vedere chiaro, non impegnarsi senza garanzie. Già, le garanzie! Vuole evitare una medicina per la quale si sani il corpo ma si ammali (nel suo caso peggiori) lo spirito. Il «Dilemma del Cavaliere» rivela a Guglielmo di non essere ancora uscito dalla vecchia logica e può configurarsi nei termini seguenti: o la solitudine che è fuggire gli uomini e guadagnare se stessi, la serenità dello spirito, perdendo il corpo; o la conversazione che è un ritrovare gli uomini, la vita comunitaria, la salute del corpo,

perdendo lo spirito. Riconquista del privato/spirituale o del civile/ corpo. Il dilemma è viziato nei suoi stessi presupposti. Guglielmo esige da Annibale una risposta secondo la logica da cui non è ancora uscito: vero 0 falso. Soprattutto identifica e riconosce in Annibale la competenza della risposta: il verbo, la voce, il principio di autorità. Annibale deve rispondere perché lo può, laddove è proprio lui a mettere in crisi la titolarità del proprio statuto ermeneutico: «sono alcuni occhiali, che fanno vedere le cose più grandi di quel che sono, così il vostro cortese affetto vi fa eccedere il vero nel giudicio del mio sapere, il quale non giunge di gran lunga a quella conoscenza che voi dite» (I, 7v). C'è di più. I segni che emanano dal Cavaliere fanno ben intendere ad Annibale che il suo interlocutore, lungi dall’esser sprovvisto in questo ambito, è egregiamente fornito «d’arme, et di valore» e sa porre le questioni secondo il motto: ars est celare artem. Il Cavaliere stenta ad ammettere, ma lo fa alla fine della terza

giornata, che il suo piacere alla presenza di Annibale lo pone in uno stato d’animo tale per cui avverte «quanto maggior bisogno ha l’infermo del medico, ch’el medico dell’infermo». E aggiunge: «Et non voglio già dire, ch'io abbia più bisogno di voi per risanarmi, ma sì bene per conservarmi la sanità, la quale conosco d’have-

LA CONVERSAZIONE

NELLA

CONVERSAZIONE

163

re per opera vostra interamente conseguita» (III, 253r). La rispo-

sta di Annibale è altamente eloquente e, in un certo senso, inverte la parabola del dialogo (inversione che aveva, tuttavia, premesse lontane come dimostra I, 7v): «Ho conosciuto molto bene da i ragionamenti di questi tre giorni, che voi sete più medico che infermo» (Ibidem, 253r-v); «i miei discorsi pigliano qualità dalle vostre ingegnose risposte» (II, 168r). Tuttavia non si può nascondere che questo nuovo status del Cavaliere debba essere conside-

rato un prodotto, una conquista da parte sua, lungo l’arco delle tre giornate; Guglielmo è divenuto ora anch'egli medico dopo la presa di coscienza che l’ «usare la solitudine per rimedio» equivaleva a darsi la «sepoltura», «facendomi chiaro, che la conversatione è la vera medicina di così fatte indispositioni, m’insegnaste a scegliere le buone dalle pessime conversationi, et mi riduceste a memoria le maniere generali, che convengono a tutti, et le particulari che convengono a ciascuna sorte di persone nel conversaTC»

2593V):

La civile conversazione come medicina è l’unica che «ci informi più di sapere, et di buoni costumi, et che più ci sproni al bene, et ritiri dal male»; nulla di più giovevole «che la compagnia degli huomini buoni, et virtuosi» (ivi). E come tutti gli uomini, uomo tra gli uomini, anche Annibale dichiara di aver bisogno di medicina. Bisogno di conversazione civile. Il discorso di Annibale acquista maggior credibilità e suasorietà; risulta un discorso veritiero perché il locutore non si differenzia dal discorso che sta conducendo come autorità extratestuale, ma configura se stesso come parte del discorso, una delle condizioni della sua stessa possibilità. Si trova ad essere tra le intercondizioni del suo discorso, a seconda dei casi, interlocutore e interloquito; il discorso lo coin-

volge a tal punto da farne un saggio fruitore: si parla anche di lui, finora si è parlato anche di lui. Se al Cavaliere fosse rimasto qualche dubbio, questa è la prova d’appello. Ma egli teme che una volta abbandonato da Annibale, come previsto alla fine delle quattro giornate, egli possa ricadere in quella «prima forma di vivere», la solitudine. La conversazione con Annibale è stata tanto «elevata»,

gli ha affinato il gusto, il palato, lo ha reso più esigente. Disdegnerà le altre ipotetiche conversazioni, con il conseguente pericolo di afasia, afasia di una rinnovata solitudine?

Ancora

una

volta

la risposta

di Annibale

è rovesciata:

è

maieutica, come maieutico è il concetto di civil conversazione. La

salute non

è solo il risultato

del suo intervento

terapeutico,

è

anche il prodotto del coinvolgimento del Cavaliere, che a sua volta

si sperimenta medico di se stesso, realizzando a pieno il successo della terapia: è il risultato della loro civil conversazione e della

164

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

loro conversazione sulla conversazione, frutto del convincimento della bontà della conversazione e della metaconversazione, della

sua fenomenologia: «Si come voi sapete [...] non per mezo de’ mie discorsi, ma per virtù delle vostre sottili dimande, et gagliarde contese, havete scoperte le ragioni, et i fondamenti della civil conversatione; così io so, che con le vostre gentili, et amabili maniere m'’havete costretto, conversando con voi, a dimostrarvi fuori per gli occhi, et per la fronte tutto l’affetto del cuor mio. La onde se

per scienza, et per isperienza havete conseguito il frutto della conversatione, la cagione è nata da voi, et tutto l’honore a voi se ne

dee» (Ibidem, 255r). Parlando, il Cavaliere ha svelato a sé e al suo interlocutore socraticamente la propria anima. Parlando si è visto e si è fatto vedere.

Ontologia e «metafisica dei costumi» Il discorso si è ormai spostato sulla conversazione come pratica intersoggettiva, forma della vita associata e suo fondamento: la voce «Huomo» significa «Insieme» e «non si può essere vero huomo senza conversatione» (I, 24r). Etimologia non tanto bizzarra se pensiamo al concetto analogo presente nel par. 60 della Critica del giudizio, laddove Kant afferma che Humanitàt «significa da un lato sentimento universale della simpatia e dall’altro la facoltà di poter comunicare intimamente ed universalmente» 76. I nostri

avi, commentava

Enea

Silvio

Piccolomini,

«come

i

Greci, non parlavano di simposi e di mangiate in comune, come se ci si riunisse per il cibo o per il vino, ma di conviti, nel senso di vivere insieme (ut simul viverent)»?. E Kant compendiava: «la buona compagnia» è «indispensabile per l’essere pensante» ?8. Vita associata sotto certe regole che non si esauriscono nel concetto di «buone maniere», ma implicano virtù etiche di prim'ordine e vanno ben al di là della strategia dei modi di conversazione

76 I. KanT, Kritik der Urteilskraft, AK, Bd V, p. 355; tr. it. cit., p. 220. TT ENEA SILvio PiccoLoMINI,

II, p. 215.

Tractatus de liberorum educatione, tr. it. cit.,

78 I. KANT, Reflexionen zur Anthropologie, n. 763, AK, Bd XV, p. 333. Come ha fatto osservare acutamente H. Arendt nelle Lectures on Kant's Political Philosophy, tenute alla New School for Social Research di New York nell’autunno del 1970 (tr. it. Teoria del giudizio politico, Il melangolo, Genova 1990) questo concetto è una chiave per la comprensione della prima parte della Critica del giudizio (Ibidem, p. 22).

LA CONVERSAZIONE

NELLA

CONVERSAZIONE

165

del modello cortigiano: la «sprezzatura», il celare artem, ecc.. Il linguaggio, come la conversazione, istituisce una relazione culturale e sociale. Solo la conversazione civile apporta «vero diletto», tale cioè,

precisa

Guazzo,

che

sia partecipabile

da molti;

anzi

capace di apportare «piacere a tutte le persone in universale». Questa esigenza per universos homines conferisce alla conversazione alta dignità e modernità e la candida a divenire una delle dimensioni dell’etica, se non la dimensione dell'etica e non solo

dell’etica del discorso: «... il viver civilmente non dipende dalla città, ma dalle qualità dell'animo» — che tuttavia solo nella città, come consorzio umano regolato, e non nella solitudine, possono essere esplicitate. «Così intendo la conversatione civile, non per rispetto solo della Città, ma in consideratione de’ costumi, et delle maniere che la rendono civile. Et si come le leggi et costumi civili sono

communicati

non

solamente

alla

Città,

ma

alle ville,

et

castella, et popoli che le sono sottoposti, così voglio che la civil conversatione appartenga non che a gli huomini, che vivono nelle Città, ma ad ogn’altra sorte di persone dovunque si trovino, et di quale stato si siano, et in somma, che la conversatione civile sia honesta, lodevole, et virtuosa» (I, 30r). Imaugurando un così «spatioso campo», è evidente che Guazzo non voglia sottrarre la dimensione della «politicità» alla conversazione o sacrificarla alla sua base per una metaconversione. Il suo intento è evidente. Infatti non si tratta qui semplicemente della «conversatione cittadinesca» 79, concetto che appare riduttivo rispetto al progetto complessivo della Civil Conversatione. Al contrario è della solitudine che si presenta come il rimedio privato nella falsa immaginazione (simulazione e dissimulazione volontaria?) del malinconico, frutto del suo gusto ormai alterato, simile a quello della «gravida». Gusto alterato della vita che spinge in maniera inesorabile alla propria morte: come singolo individuo ha perduto il gusto per «accidente» e non per «natura», perché gli uomini «naturalmente si dilettano». A questa fondamentale individuazione — di una forma ludica della conversazione — di un

convenire

collettivo

e universale,

Guazzo

fornisce

un

fonda-

mento classico, tratto dalla miglior tradizione aristotelica: «... ch’essendo l’huomo animal sociabile, ami di natura sua la prattica de gli altri huomini,

et abbia in odio la solitudine,

et facendo

il

contrario, offenda la stessa natura» (Ibidem, 5v-6r).

79 L'espressione è in D. BarBaro, Della eloquenza (1557), ora in B. WEINBERG (a cura di), Trattati di poetica e di retorica nel Cinquecento, Laterza, Bari 1970, II, p. 364 e p. 449.

166

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

L'autore della Civil Conversatione si immetteva a pieno titolo in un filone culturale longevo, da Piccolomini a Emanuele Tesauro. A questo proposito, infatti, poteva beneficiare di una produzione culturale alquanto ricca e certamente,

com'è stato dimostrato,

delle incisive tesi esposte nella Institution morale. Nel capitolo secondo del libro primo Piccolomini sosteneva che l’uomo «meritatamente animale communicativo,

over conversativo, et civile dai

filosofi è domandato» 8°. È la ragione, di cui l’uomo è dotato al di sopra di tutti gli animali, a far sì che «l’huomo de gli huomini diviene amatore». L'uomo è unito all’altro da un duplice vincolo: natura e conversazione — poste a livello ontologico e fondativo da Piccolomini sullo stesso piano: agli altri uomini «la natura, et la conversatione di maniera lo congiungono» 8!. Ed è, come per Guazzo, la benivolentia, «natural legame» che ha procurato agli uomini di scoprire «qualche bel segreto», ad assolvere questo compito. In proposito, lo faranno anche Guazzo e Montaigne, Piccolomini utilizzerà l’aneddoto di Archita, elogio dell'amicizia e della conversazione, secondo il quale diverrebbero inutili le stesse bellezze dell'universo, se non si avesse almeno un

amico cui riferirle. A Piccolomini non sfugge, tuttavia, come la corruzione esistente tra gli uomini abbia reso meno dilettevole questa «communicanza» per la quale si rendeva l’«huomo all’huomo un secondo Dio» 82 e abbia posto un ostacolo alla trasparenza interpersonale. L'uomo, dunque, è ontologicamente «animale civile, amicabile, benefico, et conversativo; come abbastanza la favella ce lo

dimostra» 83. La natura non lo ha dotato a caso del linguaggio, della «favella», con il quale «i varij pensieri, et le diverse inventioni, che intorno alle scientie, et alle operationi utili; et virtuose con la ragione forma nella mente dentro; potesse communicando il tutto con la favella, far sì che soccorrendosi gli huomini, et aiutandosi,

et supplendo l’uno a quel, che comincia l’altro, riducessero a perfettione le scientie, et le virtù: dalle quai due cose depende il lor sommo bene, et la felicità loro» 84. Perfetta sintonia con le opinioni di Guazzo: la lingua è stata data all'uomo per comunicare, «per la conversatione» (CC, I, 16r); «non perché parli seco medesimo, il

80 A. PiccoLOMINI, Della Institution morale, cit., I, p. 19. 81 Ivi.

82 Ibidem, p. 20. 83.-Ibidemyp.21 84 Ivi.

LA CONVERSAZIONE

NELLA

CONVERSAZIONE

167

che sarebbe vano, ma perché se ne serva con gli altri» (ivi). Secondo Courtine e Haroche si assiste qui, non solo all'affermazione del soggetto parlante nei confronti degli altri, conformemente a gran parte della trattatistica rinascimentale, ma anche alla ridefinizione dell’identità del soggetto nel suo rapporto con il linguaggio, anzi alla genesi del soggetto moderno come linguaggio 85. E si comprende meglio, allora, come la solitudine venga considerata una forma di pazzia; l’uomo solitario deve essere considerato fiera più che uomo, in quanto essere muto, «inutile» e «inoperosa» la sua favella. E la conversazione si configura mezzo per raggiungere la felicità. In questa direzione Piccolomini non ha dubbi. La felicità del singolo è la stessa delle città e degli stati, la «communicanza» diviene anche il fondamento e il paradigma di una società che parla. Spetta all’etica, alla filosofia morale, in quanto filosofia della virtù, filosofia della città, il compito di «sapere, et di ben vivere», di costruire una «metafisica dei costumi» che elegga la conversazione a suo fondamento: non si tratta infatti di stabilire e insegna-

re «precetti di vita», ma commune»:

benevolenza,

indicare le virtù necessarie amicizia,

alla «vita

affabilità, discrezione,

amore-

volezza — pertinenti tutte alla categoria di «civile», foriere di comportamenti convenienti (Ibidem, 14v), ma anche di coesione sociale. A Guazzo preme far emergere la saldatura tra la dimensione comportamentale e l’etica; la dimensione etica della comportamentistica, dell'etichetta e la imprescindibilità della conversazione dalla sua connotazione etica. La lezione è erasmiana: «tantum habet in se malorum membrum illud minutulum ac molliculum, nisi adsit animus integer rector ac moderator» 86. Civile non significa per Guazzo semplicemente cortese, ma implica nella sua accezione «honesto» e «virtuoso». Perché la conversazione possa dirsi civile non è sufficiente che segua la regola dell’etichetta, ma deve presentarsi

«honesta,

lodevole,

et virtuosa»

(Ibidem,

30 r).

Deve poter legare i costumi alle maniere. La civil conversazione apporta «sapere, et [...] buoni costumi»,

«sprona al bene, et ritira

dal male». Virtù e sapere di cui la stessa nobiltà deve riappropriarsi. Del pari, Guazzo avverte che suo proposito non è scrivere

un trattato di etica o meglio egli non intende proporre «tutte quelle virtù morali, ch’'appartengono alla perfettione, et alla felicità

85 J.-J. CourTINE-CL. HaRocHE, Histoire du visage. Exprimer et taire ses émotions. XVI° — début XIX° siècle, Rivages, Paris 1988, pp. 181 sgg. (L’air de la conversation); ora in tr. it. Storia del viso, Sellerio, Palermo 1992. 86 Erasmo, Lingua, cit., LB IV, 696C; ASD IV IA, 90, 119-121.

168

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

della vita» (Ibidem, 29r). Non intende innanzitutto fornire «precet-

ti di filosofia». Tanti libri di filosofia e pochi filosofi! (Ibidem, 29r-v). Lo ripeterà anche Montaigne. A maggior ragione, in questo

senso, è da prendere molto sul serio. Accanto a questa, Guazzo fa emergere un’altra ragione che ritiene «principale». Che, cioè, il «voler a pieno discorrere dell’Ethica, servirebbe solo a gli huomini d’alto ingegno vostri pari» (Ibidem, 29v). E fornisce subito una spiegazione: «essendo l’intentione mia di ragionare delle particolari maniere del conversare, che convengono a ciascuna sorte di persone, ci bisogna haver l’occhio al beneficio universale, considerando, che la maggior parte degli huomini è non solamente priva delle virtù intellettive, et delle morali, ma non è anco né per ingegno atta, né per volontà disposta a riceverle, si che sarebbe cosa vana, per non dir sciocca,

il voler a così fatte persone insegnar ordinatamente, et secondo i debiti termini le già dette virtù» (ivi). Nulla vieta però a Guazzo di procedere ugualmente in quella direzione in modo meno sistematico di quanto si intenda costruire una scienza dell’etica, e con un lessico vicino al lettore comune,

riformulazione dell’«idiota». Che

cosa possono significare d'altro le affermazioni successive circa il «titolo» della conversazione che è resa civile «in consideratione de’ costumi, et delle maniere», dell'onestà e delle virtù che le ine-

riscono? Nonostante che Annibale precisi di dover disquisire «piuttosto da puro Cittadino, che da filosofo» (II, 67r), non riesce, come l’altro personaggio del dialogo filosofico, a celare del tutto la propria arte. La sua è piuttosto, in questo caso, una simulazio-

ne più cortigiana che filosofica (Ibidem 67v). Guazzo è costretto meglio a precisare, tramite Annibale, le sue intenzioni: nella conversazione sono necessarie, come sue parti integranti, «la lingua, et i costumi». La ridefinizione del soggetto come linguaggio e come essere morale. Alla domanda del Cavaliere: «Et perché voi volete restringervi solamente a queste due?», Annibale risponde: «perché se voi considerate bene, noi principalmente acquistiamo nelle conversationi la benivolenza altrui con le maniere del ragionare, et con la qualità de’ costumi. Anzi io potrei ad un certo modo, ridurre tutta la conversatione sotto il capo de’ costumi, fra i quali sono etiamdio compresi i ragionamenti» (Ibidem 73r). Si registra qui lo sforzo di Guazzo di «portar in equilibrio», come è stato osservato 87, il parlare con la «politezza dei costumi» e rilanciare l’«armonia» di azione e parola.

? E. BONFATTI, La «Civil conversazione» in Germania, cit., Ppisd:

LA CONVERSAZIONE

NELLA

CONVERSAZIONE

169

Greco nell’eloquenza e romano nelle opere (Ibidem, 92v): comportamento corretto di chi vuol porsi come soggetto della e nella civil conversazione. Egli non intende quindi «ricercar tutte le parti dell’Ethica» (questo voleva significare l'intento guazziano di non voler discutere compiutamente dell'etica: I, 29v), «coltivare interamente gli animi [...] di precetti morali». Guazzo si sottrae di proposito alla compiutezza sistematica della scienza: ne descrive solo alcune parti, la lingua e i costumi. Suo scopo dichiarato non è di scrivere un trattato di etica: ma l’etica non può essere messa da parte, né scissa dalle «cose più familiari, et facili» che si osserva-

no nel conversare, tanto più che esse sono da proporre «a chiunque vuole acquistar luogo di gratia nelle conversationi» (ivi). Certo, si comprende molto bene il motivo che spinge Guazzo ad identificare nella lingua e nei costumi «le parti principali» della conversazione, poiché entrambe sono state da sempre il dominio incontrastato

della retorica, anche se l’analisi dei «costumi»

fornisce altre indicazioni e si è prestata storicamente a problematiche e polemiche a volte contrastanti. Il Cavaliere, infatti, ribadi-

sce ad Annibale

che chiunque voglia persuadere non potrà mai

fare a meno della retorica: «...se volete, che si muovavo gli affetti,

et si persuadano gli animi altrui con la lingua, non potete di manco, che non ricorriate a i precetti della Retorica», (Ibidem, 77r). La

stessa benevolenza, indicata da Guazzo come finalità principe della conversazione (perché l’atto comunicativo raggiunga il suo scopo deve procurare consenso da parte degli interlocutori (Ibidem 72v): «il frutto della conversatione [...] è posto principalmente nella benivolenza

altrui» [Ibidem,

108v]), oltre a essere

configurata

come uno dei fini della retorica classica, diverrà anche la «passione» sociale e la qualità antropologica più significativa per l’economia politica classica 88. Inoltre è portare a effetto la finalizzazione di un’azione o procedimento «economico» nel senso cinquecentesco del termine (buon governo, buona amministrazione). La benevolenza risulta già per Guazzo, con evidenza, il principio economico del buon funzionamento di un discorso che si rivolga a un destinatario il cui spessore culturale e potere sociale sono in progressiva crescita. La benevolenza porta in sé una natura anfibia

88 Si pensi a Smith e alla sua Teoria dei sentimenti morali (tr. it. a cura di A. Zanini, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1991). Si veda sempre di Zanini, Economia

ed etica. Il laboratorio scozzese

nella genesi del politico

moderno. Tra David Hume e Adam Smith in PLurES, L'Europa delle corti alla fine dell’antico regime, Bulzoni, Roma 1991, pp. 75-101, a cura di C. Mozzarelli e G. Venturi. Fondamentale in questa direzione resta il contributo di P. SaLvucci, La filosofia politica di Adam Smith, Argalia, Urbino 19882.

170

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

presentandosi contemporaneamente fine della conversazione e virtù sociale; principio economico del funzionamento della società e finalità della comunicazione intersoggettiva; anzi, fine della conversazione in quanto virtù sociale. Buon funzionamento e salute del corpo sociale: il testo in proposito non lascia adito a dubbi. In esso Guazzo indica il fine della conversazione: «Io propongo la conversatione [...] perché nel conversare s’apprendono i buoni costumi, et le virtù, per mezo delle quali si dispensino, et si conservino drittamente i beni della fortuna, et si venga ad acquistare il favore, la benivolenza, et la gratia altrui» (Ibidem, 72v). Alleanza, dunque, tra retorica, etica ed «economia politica» ante festum?

La benevolenza è anche il «vero legame della conversatione» (Ibidem, 98v-99r) e la si acquista tramite la «veridicità», l’«affabilità», l'’«amorevolezza», il «motteggio», la «piacevolezza», compagne tutte dell’affabilità (Ibidem, 100v-101r), contro superbia, alterigia, contesa e perfidia. Un'ultima considerazione. Additando la «politezza de’ costumi» (Ibidem, 92v) come parte essenziale della conversazione (oltre la «politezza della favella»), Guazzo si colloca di diritto nel terreno etico. Paradossalmente quella che verrà definita «arte dell’apparire», «velo uniforme e perfido» 89 gettato su un «vuoto essenziale»,

semantizza

qui un’«arte

precisarlo. Nella conversazione «civile»

l'individuo,

sostanziale».

È Guazzo

che voglia meritarsi

socraticamente,

deve

«procurar

stesso

a

il titolo di d'esser tale,

quale egli desidera di parere» (Ibidem, 92v-93r); «dobbiamo altrettanto

essere,

quanto

apparere»

(Ibidem,

106): Le «maniere»,

in

questa configurazione, si rivelano il mezzo più idoneo per rappresentare i costumi. Nell’assumere costumi e maniere (pur sempre una seconda natura), il comportamento conveniente sarà quello che realizza la coincidenza tra desiderio e dovere. Il desiderare coincide qui con il debere virtuoso. Questo è il senso più genuino che emerge dal concetto di «buone maniere». Assistiamo, inoltre,

alla ridefinizione del concetto stesso di apparenza.

In Guazzo le

maniere non sì presentano come mero apparire (configurazione che emergerà prepotentemente in seguito), nel senso della dialetti-

ca maschera/volto (anche se in un certo senso la implica: dalla maschera al volto), per cui ad esse non corrisponderebbe una

89 Cfr. la configurazione

di questa problematica

in J.-J. Rousseau,

Di-

scours sur les sciences et les arts, in Oeuvres complètes, Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard, Paris 1964, III, p. 8; tr. it. in Opere, Sansoni, Firenze 1972,

p. 5 (a cura di P. Rossi); oppure in Scritti politici, Laterza, Bari 1971, I, p. 7 (a cura di M. Garin).

LA CONVERSAZIONE

NELLA

CONVERSAZIONE

ZA

sostanza etica, ma andrebbero a insinuarsi nel (e a supplire il) vuoto etico. Il concetto stesso di apparenza subisce un arricchimento semantico e di funzione. Oltre al rischio che si configuri come «distorsione della veridicità» (è presente ovviamente anche questa accezione) per cui ci si mostra ciò che non si è («vana e pomposa apparenza»), essa nel suo senso più genuino ripristina,

tramite i costumi e le maniere esercitate normativamente nella conversazione, un «parere» che corrisponde a un «debere» e ne realizza la veridicità. Veridicità di cui l'individuo vuole riappropriarsi nelle parole e nelle opere (Ibidem, 92v; 96r). «Lealtà» e «sincerità» sono i costumi più idonei per «fuggire l'apparenza» (Ibidem, 96r). Apparenza è da intendere qui come l’equivalente di «falsità» e quindi portatrice di perdita di credibilità. L'analisi dei costumi — di «lealtà» e «veridicità» (Ibidem, 96r-97v), benevolenza (98r), affabilità (99r), amorevolezza (99v), «discretezza» (Ibidem, 105v),

«sprezzamento»,

«modestia»

(Ibidem,

105v),

di contro

a

quelli da evitare: il parlare di sé e inclinazione all’autoelogio (Ibidem, 97v), alterigia (Ibidem, 98r), superbia (ivi) -, se non costituisce una sistematica della morale (del resto conformemente ai propositi guazziani: non intendo «discutere appieno dell’Ethica»), certamente costituisce la sua peculiare introduzione, il suo campo di applicazione e la sua antropologia pragmatica. Il concetto

di benevolenza

è categoria centrale anche della

Vita civile di Matteo Palmieri, altro testo di riferimento della Civil

Conversatione. Benevolenza è, antropologicamente, naturale inclinazione «all’universale conversatione di ciascuna humana creatura» 9. Legge naturale, viene intesa e identificata con la «perfecta ragione», comune a tutti gli uomini, «vera, costante, et sempiterna»; in ogni luogo e in tutti i popoli «è una sola, perpetua, immu-

tabile e certa». Vero e proprio cosmopolitismo della ragione/natura da cui sono derivati religione, cerimonie, culti, indici di questa

«superna essentia in divina unione eternalmente perfecta» 9. La benevolenza deriva dalla legge naturale e si configura dapprima come benevolenza verso i propri congiunti e successivamente come «universale legame et diffusa dilectione dell’humana molti-

90 M. PaLMIERI,

Vita civile, cit., III, 51v, 31 (ed. crit. cit. p. 110; d’ora in

poi la numerazione tra parentesi si riferisce a questa edizione); cfr. CICERONE, de off., I, 16, 50. 91 Ibidem, 52v, 42 (p. 112). È evidente qui, come ha fatto notare anche C. Finzi (Matteo Palmieri. Dalla ‘Vita civile’ alla ‘Città di vita’, Giuffrè, Milano 1984, p. 166), la trascrizione quasi letterale di Cicerone, de Rep., III, 22, 23, frammento conservatoci da Lattanzio, Divinae Institutiones, VI, 8,9.

172

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

tudine» ®. Non è senza motivo che Palmieri analizzi queste tematiche nel cuore del libro terzo dedicato alla giustizia: dare a ognuno il suo, provvedere a tutto il corpo della repubblica, conservare ciascun membro, assicurare pace e unione civile, secondo la giustizia distributiva 9. I suoi imperativi sono sommo bene civile 9 e «perfetta virtù» che si raggiungono seguendo la natura, sicura guida dell'umanità per «comunicare insieme qualunche utilità, dando et ricevendo alternativi beneficii; con opera, studio, industria et commodo,

coniungere,

crescere

et mantenere

questo

sanc-

to legame et naturale debito dell'unione et convenientia humana» %. Il richiamo alla benevolenza è costante anche nel libro quarto: «una benevolentia universale [...] è utilissima a ritenere [tenerti unito] con ogni persona con chi conversi...» 9. Lo spessore etico-politico della conversazione, proprio tramite la benevolenza, diviene a Palmieri sempre più chiaro. La vita civile implica giustizia, modestia, temperanza anche nella conversazione finalizzata, per lo più, a procacciare quella benevolenza, virtù sociale, come Palmieri ci ha raccomandato, per eccellenza, risultato e presuppo-

sto della conversazione:

«e parlari sieno ordinati et bene conve-

nienti, disposti sempre a difendere et scusare [...]; molto poi giova

l'essere eloquente et bello parlatore et operarsi nel difendere la patria e gli amici; di così facto huomo si meravigliono gl’uditori, gl’amici ne sperano favore, i difesi gli portono gratia, et ciascuno spera fructo di tale huomo, pure che s’ingegni usare il parlare in modo che meritatamente giovi a’ più et non nuoca a persona. Sommo difecto sarebbe la eloquentia, data da natura per conservatione et salute degl’huomini, usarla in loro mancamento et dan-

2 Ivi. 9 Tra i principali «ammaestramenti» cui si ispira la giustizia, Palmieri annovera l’uso: «tutte le cose publice siano communi e publicamente usate; le private usi il possessore come sue: per natura niuna cosa è privata ma è tutto il mondo commune alla humana generatione». Palmieri passa poi ad esaminare le motivazioni che hanno portato a «dividere» e «dare in privato» i beni: la prima è l’occupazione antichissima di luoghi non abitati e non posseduti da alcuno, la seconda è la «iusta victoria». Altra ragione è che i «proprii factori d’alcune cose hanno il dominio di quello hanno facto». Successivamente «l’ordine delle leggi, i pacti, consuetudini,

conditioni et sorti hanno facto private

le possessioni che erano per natura communi. Ognuno adunque debbe possedere et tenere quello che secondo l’ordine vero gli è toccato. Chi più possiede, occupa o toglie, sarà rapace violatore dell'ordine della humana coniunctione la quale [...] si debbe acrescere et inviolata sempre mantenere» (Ibidem, 49r-v, 14-16; p. 106).

9% Ibidem, 47r, 7 (p. 104). 95 Ibidem, 49v, 18 (p. 106-107).

% Ibidem, IV, 82v, 79 (p. 166); ancora 84v, 93 (p. 169).

LA CONVERSAZIONE

NELLA

CONVERSAZIONE

157,3

no. La vera gloria in effecto si cerchi con optimi facti et buoni et ben usati detti, acciò che meritatamente

s’acquisti benevolentia,

stima et riputatione di cose honeste et che paiano mirabili alla popolare moltitudine» 9. A queste sollecitanti indicazioni Palmieri aveva premesso: «....è attissimo a gloria dell’esser buono et per buono conosciuto». L'ampiezza della citazione di una delle più belle pagine scritte nel Rinascimento in elogio alla benevolenza ci consente di indicare alcuni fattori di indiscutibile valore storico e teorico che da Palmieri conducono a Guazzo sino a raggiungere il suo maturo sviluppo, mutatis mutandis, in Emanuele Tesauro. Tentiamo di analizzare più a fondo questo sottile rapporto. Anche Palmieri, come gli altri due filosofi, possiede una concezione etica del linguaggio. Il parlare, l’eloquenza hanno un senso a

patto che siano

«giovevoli»

alla comunità

di parlanti/agenti

e,

quindi, vadano al di là della locuzione stessa: non parole di vento, ma di carne e ossa, farà eco, dopo Palmieri e Guazzo, Montaigne.

Il «giovevole» viene assunto nell’area semantica di «moralità». Sono i benefici morali a procurare benevolenza. Un'altra evidente analogia è il destinatario. È la benevolenza della «popolare moltitudine» quella che interessa Palmieri; la stessa, meno edulcorata,

del lettore «ordinario» o uomo comune di Guazzo. Nella sua complessità l’analisi palmieriana dell’«huomo compiuto» e delle sue virtù non può essere scissa, direttamente o indirettamente,

dalla tematica

della ‘vita civile’, anche nel momento

più propriamente pedagogico-normativo che guarda al concepimento e alla nascita, all’opportunità di adottare una balia, al «governo» del giovane e all’età giusta per apprendere, ai rapporti maestro-scolaro — che quest’ultimo «sappia tacere» a tempo e preferisca, al momento di parlare, il «sermone ordinato e mirabile» — configurati come in «amplesso amoroso», anzi come vera e propria «generatione», che può avvenire solo con il concorso «d’ambedue i generanti». Allo stesso modo «la dottrina è vana dove non concorre l’unito volere di darla et di riceverla» 9. Anche qui una forma di società e di mutua collaborazione. Lo scopo pedagogico-politico è quello di formare/divenire «huomo compiuto» e «pienamente virtuoso», in questo alleate l’eloquenza come «doctrina dell’ornato parlare» per la quale l’uomo avanza gli animali «che non parlano», ma

anche gli altri uomini; e la filosofia,

specialmente quella parte che «ministra i costumi

97 Ibidem, 86 r, 108-109 (p.172) 98 Ibidem, 10r, 71 (pp. 27-28).

et approvato

174

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

vivere degl’huomini virtuosi» 9, cioè l'etica. La «rotundità della virtù», della paideia, implicherebbe di adoperarsi per il bene altrui. Solo pochi, in realtà, simili a rarissimi uccelli o all’araba

fenice, hanno raggiunto lo scopo. Scopo rimasto più dichiarazione di intenti, modello, e quasi mai realizzato nella pratica: uomini «più di rado veduti che ragionati». Chi voglia comunque intraprendere questo compito dovrà soprattutto perseguire le virtù civili:

prudenza,

fortezza,

temperanza

e giustizia,

virtù

sociali

«integrali», inutili solo agli uomini «oziosi» che vivono in solitudine «et rimossi da ogni pubblica actione, senza utilità del vivere commune degli altri mortali, solo intenti alla propria salute» 19, Vita civile è quella nella quale «con iustitia reggere et governare le congregationi et multitudine d’huomini unitamente con iustitia ragunati» !0!. Per i governanti e reggitori di città giuste, Dio riserva un determinato luogo in cui vivere eternamente. Pur sempre concezione «geografica» dell’al di là. Se nel passato gli uomini si sono determinati a ben imparare, ora per Palmieri, come del resto per la maggior parte degli umanisti, è venuto il momento di «optimamente operare» !°2, Il monito è ancora quello di seguire l’ordine «aperto et chiaro» della natura. Come l’animale, l’uomo si adopera alla conservazione di sé e lo fa

con una particolare strategia che va dalla cura attenta e dalla ricerca di ogni possibile «subsidio», all’individuazione di tutto ciò che gli è necessario per appropriarsene, alla difesa personale. Innato è anche il «comune appetito di coniuctione», desiderio di moltiplicarsi e continuare la specie. Ciò che distingue l’uomo dall’animale è, allora, secondo la tradizione «la ragione dell’intelletto e la potentia del poter exprimere ogni concetto, delle quali cose niuna bestia partecipa» !9. La «potentia del poter esprimere ogni concetto» è il linguaggio. Tale ragione permette all'uomo di ripensare e ripetere «prevedere» le di sua vita et necessarie» !9.

le cose passate, esaminare e giudicare le presenti, venture, «onde agevolmente conosce tutto il corso a reggere et governare quella apparechia le cose È questa, come è stato suggerito un po’ impropriamente, una delle più felici intuizioni di Palmieri. L’intuizione di una legge appartenente all'individuo e alla società, poiché è la

99 100 101 102 103 104

Ibidem, 11r, 79 (p. 29). Ivi. Ibidem, 22v, 201 (pp. 54-55). Ibidem, II, 25v, 12 (p. 61). Ivi. Ivi.

AGLIig

U

)

jjss19 =

LE:

dè4De

SS

TRS

TM

11,(/

741!

(har Èi

4 1) o

bi Ù/ po

gyjDpP?.

==" —

SCC079 CZ

GG9,“o, LZ 00 Gy Cleza. ZA 144410! 3Li PSLCZAISS7 277,

CESARE RIPA, Conversatione,

in Iconologia, Padova

1618.

è

here

Duo

ta 3

ro

(leg)

SI

loan

(9,

virressio

se gd i. ince nsi

atrgliinio

DS AV

1a

l

-

k

|

e

:

n

(4 \Wi

I

Uni i rricP

î

dI,

i

‘e udenatt o

t camma

ipuetta e

sigii

(DIO

anpiaretta stione

lo Un

pelo

Wop

LA CONVERSAZIONE

NELLA

CONVERSAZIONE

17/5)

ragione che fonda la seconda. La società è fondata sulla ragione, ed è proprio la ragione la facoltà che consente all’individuo, e di riflesso al cervello sociale, di avvertire lo scorrere del tempo. L'uomo tramite il senso del tempo riesce a porre il problema della stabilità del flusso delle cose e degli uomini stessi, dei loro rapporti, delle loro istituzioni e governi !9, La naturalità della società, dunque, va di pari passo con la condanna della solitudine, innaturale e contro ragione. È comunque da questo istinto origi-

nario che nasce la «conversatione civile». Dalle «coniuctioni» dell'amicizia, parentele e unioni, dalle «conversationi et misterii del-

la vita humana, onde quasi stretti gl’huomini si sono conciliati in unione di ragunata moltitudine. Quinci hanno avuto principio le città, in nelle quali l’uso et conversatione civile ha dimostrato infinite utilità, con le quali si subministra prima alla necessità, poi all’amplitudine et hornamento di nostro vivere». A compimento del suo discorso sulla virtù civile, contenuto nel libro II, Palmieri sottolineava opportunamente la funzione della virtù civile della temperanza sul linguaggio. Percorso non esattamente coincidente con quello guazziano ma che induce a comprendere meglio il riferimento al «civile» e la sua riconduzione non solo alla civitas, alla città, ma sopratutto ai costumi e alla lin-

gua. Adottando un'ottica congrua al proprio discorso, l’autore della Civil Conversatione poteva trovare anche a questo proposito un

adeguato referente in qualche aspetto della problematica palmieriana. A ben vedere i punti di contatto tra i due autori sono rilevanti e per nulla episodici o interpolati. A cominciare dal concetto di intelligenza umana che la natura avrebbe conferito all'uomo per conoscere il «vero», norma di verità, necessità e evidenza ma pur sempre legata alla libertà dell’arbitrio e del volere, quindi al verosimile e al problematico. Quest'uomo seguirà le cose che la ragione mostra «honeste e migliori»; e la ragione è la ragion pratica che guarda ai valori, alle passioni, alle leggi. La retorica della ragion pratica, configurata tra natura e arte, è essenzialmente retorica dell’homo conversativus: questa retorica capace di «aonestare» 19 le cose stesse con la lingua aveva trovato cittadinanza anche nel Galateo. È la conversazione

di Panfilo,

ricordato

da Terenzio:

«la

conversatione sua era facile et benigna a tutti coloro con chi egli usava: accordavasi con loro et seguitavagli in tutti i costumi buoni; non contrariava persona né voleva essere innanzi in modo che

105 Cfr. C. Finzi, Matteo Palmieri..., cit., p. 144. 106 M. PALMIERI, Vita civile, cit., 37r, 116 (p. 83).

176

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

agevolmente, senza invidia, acquistava loda et buona amicitia» !%. Il paradigma della lingua è l'«Honestà».

A circa un secolo di distanza dalla pubblicazione della prima edizione della Civil Conversatione, esce a Venezia dall’editore Pezzana (1673) la Filosofia morale di Emanuele Tesauro, corredata dall’aggiunta, nell’undicesimo libro, dei capitoli 11 e 12, dedicati

rispettivamente alla «buona creanza» e al tabacco (come espressione della «cattiva creanza»), interessanti perché permettono all'autore di precisare meglio e definire più nettamente nei suoi contorni quello che è stato definito «altro grande incunabolo tematico» della Filosofia morale, la civile conversazione !98 — insieme

ovviamente

ai libri XI, XII, XIII, dedicati

all’affabilità,

alla veridicità e alla «facetudine». In effetti, il concetto di civil conversazione è presente all’attenzione di Tesauro sin dalle' prime pagine della sua opera e si avvia dal presupposto che «la Filosofia Morale, considerando l’Huomo come Animal Conversevole, e non Selvaggio, ordina principalmente gli suoi precetti alla Vita Civile, a cui convengono grandi Beni, per le grandi virtù, che riguardano il Publico» 199 Gli uomini sono i più «sociabili» tra tutti gli animali !!9; «non nacono tutti a tutto; ma l’uno impara dall’altro, e l’un dell’altro ha bisogno; così necessariamente

amano

la Vita Sociale, e la Conversatio-

ne za di le

è la mutua Conversatione» !!!. Per questa ragione la Provvidenha conferito loro «la Favella, e l’arte dello scrivere, per parlar vicino; e di lungi, e di conversar con tutto il Mondo, giugnendo parole dove non giugne la voce» 112, Ma la più sollecitante ed emblematica definizione di civil conversazione che la Filosofia morale esibisca segue il percorso nobile già tracciato da Guazzo e poggia sul presupposto aristotelico della parola come interprete dell'anima. Infatti «La Civil Conver-

107 Ibidem 39v, 140-141 (p. 88); per Terenzio Andria, I, I, 55-56. 108 L'espressione è in D. ArIcò, Retorica barocca come comportamento: buona creanza e civil conversazione, cit., p. 317. Della stessa autrice si veda // Tesauro in Europa, Clueb, Bologna 1987. ra 109 Cito dall’edizione del 1704 (sesta ed.) per Giovanni Molino, in Trevigi,

MLD05

!!0 Ibidem, XI, I, p. 251. Tutte le sottolineature, salvo indicazione contra-

ria, sono riportate dal testo.

TRI: 112 Ibidem, pp. 250-251. Definizione classica della scrittura quella di Castiglione che la connotava come «una forma di parlare, che resta ancor poi

che l’omo ha parlato, e quasi un’imagine o più presto vita delle parole» (I/ Cortegiano, I, XXIX).

LA CONVERSAZIONE

NELLA

CONVERSAZIONE

1I7A7A

satione è una reciproca communication de Pensieri: come l’Amicitia è una reciproca communication degli affetti» 153, La veridicità — essa conforma «i detti al cuore» 114 — è quindi una delle condizioni della civil conversazione, in quanto riguardante «i Pensieri, che noi communichiamo agli altri!!5. Nelle pagine precedenti Tesauro si era occupato di quelle virtù che, al contrario, riguardano «i Pensieri, che gli altri communicano a noi». Il principio della veridicità comunicativa reciproca si autoelegge come regola aurea della conversazione civile, dal momento che si identifica con il criterio del reciproco piacere, scopo dei rapporti intersoggettivi. E

subito dopo Tesauro procede a un distinguo tra la «veracità delle Conversationi» e la «veracità dei contratti», distinzione che presenta una sua specifica ragion d’essere, più di quanto immediatamente non si lascerebbe supporre. Innanzitutto, mentre la prima si configura come «conformità de’ nostri detti alle nostre attioni, le quali volontariamente communichiamo a’ Collocutori» 116, la seconda è «conformità dell’effetto alla promessa». I due tipi di veridicità non vanno dunque confusi: l’una «parte essenziale» della Giustizia

che

«rende

il suo

a ciascuno»;

l’altra

«Particella

potentiale della Temperanza, per ricever e dar diletto nelle collocutioni» 117,

Certamente,

commenta

ulteriormente

Tesauro,

chi

«ha l’habito della Veracità del colloquio», sarà certamente disposto alla veracità del contratto, dal momento che chi è verace per «eletione», lo sarà di più per «obligatione» !!8 e farà «volontaria la necessità» 119, La veridicità di cui Tesauro si occupa viene definita «habito virtuoso dell’Anima, il quale consiste nella Mediocrità circa la verità di quelle cose, che noi communichiamo ad altri nelle Civili Conversationi» 12°. Laddove naturalmente per «mediocrità» è da leggere medietà, uno dei principi fondamentali cui la stessa opera guazziana si ispira. Tuttavia nella conversazione, diversamente dalla stipulazione dei contratti, la veridicità va protetta e sottoposta a cautele. Nella conversazione, infatti, occorre misura e deco-

ro. È regola conversazionale quella di non dire «più che non è». Anzi il «dir più che non è»; il non far ricorso all'economia che l’ar-

113 E. TesauRO, Filosofia morale, cit., XI, X, p. 272. 114 Ibidem, XII, III, p. 297. 115 Ibidem, XII, I, p. 293.

6 117 118 119 120

Ivi. Ibidem, pp. 293-294. Ivi. Ibidem, XII, III, p. 297. Ibidem, XII, I, p. 293.

178

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

gomento richiede, funziona negativamente anche nella dinamica della veridicità. E questo non è l’unico «vizio» potenziale della strategia conversativa. Vale anche il suo contrario: è invero «vizio» il «dir manco che non è». Nella ricerca del vero, e nella sua espressione, la brevità eccessiva, come la prolissità risulta alquanto insidiosa. L'atteggiamento corretto è quello che si ispira

alla «Mediocrità virtuosa»: «dir quel che è, e quanto convien dirlo». Solo alla «veracità» spetta il giusto titolo di virtù e vanno evitate arroganza (eccesso di informazione veritiera) e simulazione (difetto di informazione veritiera). C'è qualcosa d’altro. La parola non viene assunta da Tesauro come veicolo privilegiato della conversazione perché se «ogni Huomo Sociale, naturalmente gode di far communi al Compagno i suoi pensieri; e principalmente quelle cose, che sono honorevoli a chi parla, e piacevoli a chi ascolta» !2!, si parla non solo con le parole, «ma co’ Scritti, co’ Cenni, co’ Fatti, con gli Habiti, col Silenzio istesso [...] così con tutte queste lingue si può dire il vero,

o mentire; con tutte si persuade, od inganna...» !22. Varie lingue che vanno sorvegliate con la stessa vigilanza, poiché «l’Habito ha salde radici nell’Anima» !23. E quando conviene, l’anima «spontaneamente,

e lietamente riduce l’Habito all’Atto». Quest’abito non

va dimenticato, favorisce peraltro l’insorgere di azioni relative a «maggiore virtù», esercitate anche fuori della civil conversazione: un abito virtuoso non servirà mai a un atto non virtuoso. Quindi Tesauro reputa scorretta l’interpretazione secondo la quale dalle virtù possano nascere vizi, per es. arroganza da generosità, simulazione da modestia. Affermare questo equivarrebbe sostenere che

«Habiti virtuosi» possano nascere da «Habiti vitiosi» 124, Ma il «vero»

nelle conversazioni,

come

anticipato, è sottopo-

sto a regole perché la sua operosità risulti apprezzabile dalle «persone civili, e capaci della Morale Disciplina» !25. La «mediocrità», il saper scegliere l'atteggiamento corretto nella comunicazione del vero, suggerisce una scansione ben precisa. Il «verace», colui che intende «dire il vero nelle conversazioni», deve sottoporre il suo

proposito

al «Quando,

Come,

Dove,

Quanto,

conviene»,

avendo sempre di mira «la Discrettione per misura del dire, e del

121 (Ibidem, XII, I, p.294.

L2281b1demwE2961 123 Ibidem, XII, III, p. 297. 124 Ibidem, XII, V, 303. 125 Ibidem, XI, XII, p. 292.

LA CONVERSAZIONE

NELLA

CONVERSAZIONE

179

tacere» !26. Il commento è eloquente e sintetizza egregiamente quanto la letteratura precedente aveva da par suo espresso !?7: «Quantunque mai non convenga il dire la falsità, non sempre conviene dire la verità. Tutto ciò che si dice deve essere vero; ma non

tutto ciò che è vero si deve dire» !28. Ecco salvate, con un colpo da maestro, la moralità dell’individuo e la sua abilità (prudenza) nel comportamento sociale: non tutte le verità che si potrebbero comunicare a un amico è opportuno comunicare nella conversazione. Con i «collocutori» vi può essere «amorevolezza, ma non amicitia; vi è cortesia, ma non confidenza; vi è civiltà ma non cor-

dialità. Onde tra l’Amor de’ Compagni, e degli Amici, è differenza, come tra Amor della Specie e dell’Individuo; perché nei Compagni son molti animi; ma nell’Amicitia anzi, dalle conversazioni è assente

è un amico solo» !29. Spesso, anche la «candida benevolen-

za» e il verace invece di amore si procura biasimo. Sia dunque il verace,

sincero

coi sinceri,

simulatore

coi simulatori,

«mezano»

coi «mezani»: né per questo smetterà di essere verace. Proprio perché, Tesauro l’aveva anticipato, la virtù della veracità non è la

stessa virtù della giustizia. Non è una «giudicial Confessione del fatto», bensì «una volontaria partecipazione de’ nostri Concetti, de’ quali necessariamente non è dire ogni cosa; purché sia convenevole, e vero, ciò che si dice» 130,

La virtù della buona creanza, più conosciuta per il suo «nome» che per la sua «definitione», per Tesauro ancora virtù di cavalieri e di cortigiani (Guazzo sembra sopravanzare questa concezione della buona creanza, appannaggio curiale e cavalleresco, per la sua dimensione universalizzante) è sinonimo di (buona) costumatezza !31. Come a ogni virtù, vi si approda tramite l’educazione e si apprende nelle «buone città» e nelle «civili conversationi». I latini l’hanno chiamata urbanitas, gli italiani civiltà: «Urbanità, cioè Civiltà» !32. Si professa nelle corti «tra Donne, e Huomi-

ni gentili». Con maggior proprietà Tesauro suggerisce di chiamarla Cortesia e Gentilezza, e anche Leggiadria. I «leggiadri» sono i «ben creati» ovvero «osservatori delle Leggi di Civiltà che ogni giovane Cavaliere per essere aggradevole nelle corti, deve sape-

126 Ibidem, XII, IV, p. 298.

127 128 129 130 131 132

Ivi. Ivi. Ibidem, Ibidem, Ibidem, Ibidem,

p. 299. pp. 299-300. XI, XI, p. 275. XIII, I, p. 311.

180

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

re» 133: anche una nobiltà di sangue, privata di questa virtù, perde la sua prerogativa. Ma cos'è la buona creanza? Quale la sua definizione? In questa direzione un aiuto dichiarato viene a Tesauro dal Casa, quel «Catone» riformatore dei tostumi, dopo che nel recente passato la «Barbarie delle Fattioni» aveva cacciato dall’Italia ogni «Buon costume» e disciolta «ogni Humana società». Il suo «volumetto» rappresentò il vero «specchio delle Buone Creanze» !34, anche se in esso manca una vera e propria definizione di tale virtù. Anzi, a parere di Tesauro, mancherebbe non solo la sua «Dottrinal Definitione» !35, ma anche un’analisi di ciò che la distin-

gua dalle altre e del posto che occupi «nella genealogia delle Virtù Morali» !36. L'attenzione di Tesauro per tale virtù è motivata dal fatto che essa merita, senz'altro, di essere «filosoficamente esaminata co’ principii della Scienza Morale». La sua importanza per la filosofia

morale,

secondo

Tesauro,

è fuori

discussione.

Essa

appartiene al genere di quelle virtù che portano beneficio anche al di fuori della civil conversazione, a virtù ancora più altamente morali, all’abito della virtù in generale che comunque rende migliori. È importante per la filosofia morale, ad adiuvandum, perché i prudenti sanno riconoscere dalle cattive o dalle buone maniere «i costumi dell'animo». E senza dubbio questo deve essere stato il proposito di Aristotele, il quale sostenne, ricorda Tesauro, opportunamente che «il vestimento del corpo, et il riso de’ denti,

e il caminar

dell’Huomo,

dimostrano

quale

egli [l’uomo]

sia» !57. Antropologia del segno. Buona creanza in Tesauro è sinonimo di civiltà e compare tra le virtù che costituiscono la civil conversazione e la rendono tale: affabilità, veracità, e facetudine, anche se più propriamente, sotto-

linea puntualmente Tesauro, essa è compresa nella prima che ha per oggetto la compiacenza e può esser chiamata anche amorevolezza. Aristotele nell’affabilità considerò soprattutto la compiacenza nel lodare e assentire ai sentimenti altrui. Affabilità è allora «compiacenza nel colloquio», nel «favellare insieme». Ma questa definizione non la esaurisce, poiché essa estende la sua sfera di azione alla «Civiltà nello scrivere». Anzi estende la piacevolezza a tutti «gli Atti esterni e indifferenti della civil conversatione» !88, in

135Tbidem, XI XI p.275

134 Ibidem, p. 277. 135 Ibidem, p. 278. 136 Ivi. 137 Ivi.

138 Ibidem, p. 279. Precisa Tesauro: l’affabile si adoperi a che «non solo

il suo parlare, il lodar, e il suo complimentare, ma il gestire, il ridere, lo stare,

LA

CONVERSAZIONE

NELLA

CONVERSAZIONE

181

cui per indifferenti bisogna leggere le azioni che si compiono in maniera rozza o gentile, senza tuttavia procurare «delitto». La civiltà della creanza va definita, pertanto, lungo questo tracciato: essa non è «la Legge civile che regola i contratti con la giustizia; ma una Legge curiale, che regola il modo delle Attioni con la Compiacenza. Quella si chiama Società, questa Conversatione» 13°. Distinzione importantissima che differenzia e rafforza concettualmente il cum versari, lo stare insieme del vivere associato, in riferimento ad una organizzazione politica, dalla conversazione come cum versari dialogico, nella corte e fuori della corte, momento ludico-comunicativo ed ermeneutico, struttura ontologica della società. Dunque la definizione che Tesauro aveva promesso: «... Buona Creanza altro non è che la stessa virtù dell’Affabilità, in quanto nella Civil Conversatione, procura di compiacere altrui con modi Seriosi, e cortesi nelle Parole, e negli Atti quanto richiede il Decoro» !4. Buona creanza è sinonimo di «affabile compiacenza», nel «Serio, e con Decoro». Non senza ragione, puntualizza Tesauro, si

è inserita la categoria del decoro nel concetto e nella definizione di buona creanza, poiché essa riguarda «il luogo, il tempo, e le Persone» !4. Il decoro è «la misura della civiltà»; si apprende con l’intelligenza, la lettura, la frequentazione di persone civili: «Tutto consiste nel modo e nella Misura» !%. La definizione che Tesauro elabora è di tipo operativo, nel senso che lascia cogliere immediatamente la direzione nella quale il «ben creato» operi. Dal momento che buona creanza consiste «nelle

Parole,

e negli Atti manierosi,

e compiacevoli» !#, il ben

creato si guarderà dal far ricorso, negli atti e nelle parole, ad argomenti che cagionino noia o dispiacere al «collocutore»; preferirà atti e parole «decorosi». Come richiedono le più elementari norme di buona creanza si eviti di nominare cose «oscene»: l’occhio a cui è stata procurata «nausea dall’oggetto» non è più sensi-

bile dell’immaginazione cui è sufficiente udire il nome dell’oggetto incriminato: «perché i nomi non sono altro che Immagini delle

il sedere, il camminare,

il vestire, il pulirsi, il cibarsi, il giocare, l’honorare, e

tutte le altre Attioni indifferenti, che far si sogliono nella Conversation

di

Gente Civile, si facciano con tanta Civiltà e decoro, che non solo non offenda-

no ma appaghino chi le vede» (Ibidem, p. 280). 139 Ivi. 140 Ivi. 141 Ibidem, p. 281. 14 Ibidem, XI, XII, p. 292. 143 Ivi.

182

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

cose, che si Stampano nel senso commune»

!4. Da questo momen-

to in poi Tesauro elenca tutte quelle azioni e parole che la trattatistica classica da Castiglione a Guazzo aveva enucleato come da evitare, aggiungendovi l’uso del tabacco, emblematico in tal senso: fa parte della cattiva creanza, anche se in se stesso non sarebbe riprovevole 14. Ed è proprio in questo capitolo che Tesauro rende «Civil Conversatione» come sinonimo di «Moral Conversatione». Quindi conversazione non solo cortese (civile sin qui nel testo era sinonimo di cortese, gentile, ecc.).

Il riso si configura sempre e comunque come rimedio alla malinconia !4: l’ozio è riposo del corpo, la «facetia» riposo dell’animo, «ma non riposo otioso, né spensierato; perché l’Intelletto è facoltà spirituale, e lo spirito, se non è legato dal sonno, tant’opera quanto vive, perché la sua vita è operare». L'attività dell’intelletto è lavoro, è opera !47. Già nel primo libro la Filosofia morale annunciava che pietre, piante, animali, uomini «... tutto il mondo è in lavoro» !#. Anzi si può ragionevolmente affermare che se nei motti seri c'è più «sodezza», certamente nei faceti c’è più acutezza d’ingegno; i primi nascono dalla «verità delle cose», i secondi dalla fecondità dell’intelletto che li riconosce con compiacimento come propri e in questa operazione trova il suo riposo. Le facezie

assolvono inoltre compiti «salutevoli» alla conservazione dell’individuo e alla conversazione con gli altri: «Perché si come la natura ligò gli Huomini tra loro con occulti vincoli di Simpathia; e la Mestitia dell’uno riverbera nel viso dell’altro; così un viso ridente,

rallegra il cuore di chi lo mira: perciò il Faceto guadagna il cuor di coloro con cui ragiona». È quindi la simpatia naturale che lega l’uomo all’altro uomo,

questo sentire insieme, che rende il faceto

144 Ibidem, XI, XI, p. 284.

145 In queste pagine dedicate al «tabacco» si legge una polemica nei confronti del nuovo mondo da parte di chi (Tesauro) si ritiene a pieno titolo rappresentante del «Mondo vecchio», verso il quale ovviamente coagulare tutta la simpatia. La Florida sarebbe tale «di nome, ma sterile di terreno, ricca di miniere, ma povera di denari, tra Popoli più stolidi, e più sordidi dell'Occidente,

cercati solamente per l'oro, da loro dispregiato; e per questa Herba [il tabacco, «Herba Reina»], che fu sempre tra loro in sommo pregio» (Ibidem, p. 288). Bisogna distinguere, secondo Tesauro, tra l’uso del tabacco in ordine alla «sanità» del corpo, e il suo abuso, in ordine alla «Moral Conversatione». Infatti

se è conveniente per ciascuno fare uso della medicina più opportuna per la propria salute, non è affatto conveniente «alla Civiltà» di assumerla in ogni tempo, in ogni luogo, e al cospetto di ogni persona» (Ibidem, p. 289). 146 Ibidem, XIII, I, p. 309. 147 Ivi. 148 Ibidem, I, p. 27. Sott. mia.

LA CONVERSAZIONE

NELLA

CONVERSAZIONE

183

immediatamente piacevole. Le facezie sono «i più dolci condimenti della Civil Conversatione» 149. Adesso, come in tutte le altre sezioni, Tesauro si abbandona alla sua, e della sua epoca, mentalità tassonomica, alla declinazio-

ne dei vari tipi di facezie, tutte raggruppabili, però, sotto la bipolarità parole e fatti: facezie di parole, «facetie dicaci», relative alla «Dicacità» !5° e facezie di fatti. Tra queste ultime Tesauro annovera i «cenni» «che sono Imagini de’ Concetti, come le Parole, onde possiam chiamarli parole mutole, o voce senza suono» !5!. Non sono faceti «coloro che significano naturalmente i concetti» con i gesti: battere «palma a palma», o «spiccar salti per allegrezza», ecc.. «Faceti sono quelli che significano concetti per se stessi faceti. I Popoli Seri oltre all’Indo, parlavano solo a Cenni; e pur fra loro giocosamente motteggiavano, e scherzavano; perché tanto i Cenni quanto le parole sono imagini dell’Ingegno e l’Ingegno è la fonte delle facetie». Anche la facezia è abito virtuoso dell'anima e conviene comunque alla conversazione di «Persone civili e honorate». E la «mediocrità» ne è regola aurea. «Ottima» anche in questo caso la legge del decoro, l’attenzione al luogo e al tempo. Tommaso Moro viene ricordato come maestro di facezie: «quel savissimo, ma infelicissimo capo del Consiglio della Gran Bretagna, fece un tal habito alle Facetie, ch’etiamdio lasciando la scala per lasciare la testa veneranda sopra il palco; disse ridendo ad un de Satelliti: Aiutami di gratia al salire, che nello scendere non chiederò ajuto a niuno. Tutti lo piangevano; e esso tuttavia scherzava» !52.

Una eco di questa definizione forte del concetto guazziano di conversazione civile è possibile rinvenire ancora nella restituzione «iconologica» che ne fornisce Cesare Ripa !53. Nella sua Iconologia, «ragionamento d’Imagini», o come Garin l’ha recentemente definita «dizionario completo del linguaggio delle ‘immagini’» !54

149 Ibidem, XIII, I, p. 310.

150 Ibidem, XIII, VI, p. 325. 151 Ibidem, XIII, VII, p. 328. 152 Ibidem, XIII, XI, p. 336.

153 Bisogna tuttavia notare che il testo di Ripa nelle molteplici redazioni non rimase mai nella sua forma originaria e ogni edizione si è fatta portatrice di alterazioni e ampliamenti, come ricorda opportunamente D.J. Gorpon, Sorte di Ripa, in L'immagine e la parola. Cultura e simboli del Rinascimento, Il Saggiatore, Milano 1987, p. 85. L'edizione del 1603 dell’/conologia, come anticipato, non contiene l’immagine «ragionata» della conversazione. 154 E. GARIN, Prefazione a D.J. Gorpon, L'immagine e la parola, cit., p. 3. Si tratta infatti di «un preciso sistema espressivo di simboli, tutto definito che si fonda su una base culturale classica e la traduce [...]. Il dizionario delle

186

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

chi è degno della vera, et virtuosa Conversatione» !6!. L'allegoria della conversazione termina con il motto: guai a chi è solo. —

Con l’allegoria della conversazione e il relativo ragionamento di immagini, Ripa risponde simbolicamente allo stesso problema di Guazzo: la comunicazione intersoggettiva. E fornisce una giustificazione, nell’esordio, del suo modo di procedere in generale:

«Le Imagini fatte per significare una diversa cosa da quella, che si vede con l’occhio, non hanno altra più certa, ne più universale regola, che l'imitazione delle memorie, che si trovano ne’ Libri,

nelle Medaglie, e ne’ Marmi intagliate per industria de’ Latini, et Greci, et di quei più antichi, che furono inventori di questo artificio». I più antichi sono evidentemente gli Egizi, inventori delle «colonne di Mercurio», geroglifici o pittogrammi, il cui senso sapienzale e saggezza perduta vanno riacquistati, proponendo «immagini moderne», meno criptiche, più inclini al disvelamento. Nel Proemio Ripa è voce tra le altre della cultura rinascimentale che legge nel geroglifico anche una forma anteriore alla scrittura alfabetica. Come ha precisato Fumaroli «les fables, les paraboles étaient des projections par anamorphose, sur les langues alphabétiques,

de ces

‘Idées-mères’,

mieux

logées et mieux

à l’abri dans

leurs pictogrammes d'origine» !62. Ma l’Iconologia di Ripa segna una svolta importante rispetto a questa concezione. In un certo senso si allontana dal proposito di «imitare» gli antichi non tanto perché intenta a definire «immagini moderne» ma piuttosto perché caratterizza il diverso atteggiamento dell’uomo nei confronti del sapere. Una raccolta, allora, tratta dalle «cose più antiche» risulterà insufficiente. Sin dal Proemio Ripa dichiara al lettore la modalità formativa dei «concetti simbolici» attinenti alla modernità del suo tempo storico. Lascerà da parte, innanzitutto, quell’«Imagine di cui si serve l’Oratore, e del quale tratta Aristotele, nel terzo libro della sua Rettorica» !63. Presumibilmente

si trat-

ta dell’elocutio e di quella forma («Imagine») particolare che è la metafora. Il suo non è un trattato di retorica, anche se con questa intrattiene rapporti stretti, non si occuperà quindi direttamente di immagini verbali (metafore); si affiderà invece all’«Imagine» che appartiene ai pittori, «overo a quelli, che per mezo di colori, o d'altra cosa visibile possono rappresentare qualche cosa differen-

161 Ibidem, p. 118.

16 M. FumarOLI, Hiéroglyphes et Lettres: la «Sagesse mystérieuse des Anciens» au XVII? siècle, in Hiéroglyphes, langages chiffrés, sens mystérieux au XVII? siècle, «XVII* siècle», cit., p. 8. 163 C. Ripa, Proemio, cit., lv.

LA CONVERSAZIONE

NELLA

CONVERSAZIONE

187

te da essa, et ha conformità con l’altra; perché come questa persuade molte volte per mezzo dell’occhio, così quella per mezzo delle parole muove la voluntà». Ripa dunque privilegia l’immagine visiva che come il geroglifico rappresenta e rimanda, ma a differenza di questo spiega, «dichiara». Come per il geroglifico l’apprensione e la persuasione giungono attraverso lo sguardo. La parola invece va ascoltata: è orazione, persuade con il suono della voce, con la chiarezza espositiva, la forza e l’ordine del discorso. Il «pensiero visivo» guarda «le metafore delle cose, che stanno fuori dell’huomo, et quelle, che con esso sono congiunte, et che si dicono essentiali». La differenza tra retorica e pittura è la stessa che corre tra linguaggio e vista, tra il parlare (ascoltare) e il vedere. Tuttavia mentre il geroglifico è linguaggio non verbale, coagulo di sensi multipli pieni di sapienza esoterica, l’allegoria vuole porsi come il suo sostituto moderno. Anch’essa si affida in un primo momento al vedere ma, al di là del problema del destinatario che si configura su altri presupposti rispetto al geroglifico, non si consegna unicamente ad esso se all'immagine fa seguire il suo «ragionamento», la sua spiegazione e, in più, in lingua volgare. Si tratta certo di una forma di comunicazione

che si affida al vedere, tuttavia, quasi paradossal-

mente l’fconologia ricorre al discorso. L’allegoria, Ripa è chiaro, è il corrispondente visivo della metafora. Iconologia, metafore visive e metafore linguistiche. Queste ultime, apparentemente estromesse dalla metodica, ne costituiscono a ben vedere il paradigma. Infatti l’elocuzione esprime le «metafore delle cose» (i concetti) tramite il linguaggio. La metafora verbale è il modo di significazione linguistica diverso dal senso proprio: si tratta sempre di slittamento, sostituzione, trasporto di significato. L'immagine iconologica, del pari, è una sorta di metafora visiva, è l’immagine del pittore che «guarda le metafore delle cose, che stanno fuori dell’huomo, et quelle, che con esso sono congiunte, et che si dicono essentiali» !64 rappresenta comunque

qualcosa di diverso da esse, rimanda a un senso nascosto che va svelato. Nel primo modo, relativo alle «metafore delle cose» al di fuori dell’uomo, ha proceduto l’antichità: «fingendo» le immagini degli dei ha velato e «rivestito» quella parte della filosofia che riguarda «la generatione, et la corrutione delle cose naturali, ò la

dispositione de’ Cieli, ò l’influenza delle Stelle, o la fermezza della terra, ò altre simili cose» !65, Le «Imagini» degli dei sono ritenute

US RL "C5 JRGI-

188

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

anche da Ripa «veli, ò vestimenti» che ricoprono le forme della filosofia naturale. Il velamento di contenuti ai quali i dotti hanno avuto accesso «con lungo studio» è risultato di un graduale occultamento nei confronti della «Plebe» perché «non egualmente i dotti, et gli ignoranti potessero intendere, et penetrare le cagioni delle cose» 166. La volontà esoterica spingeva a una comunicazione tra adepti («se le andavano copertamente communicando fra se stessi»), consegnando, tra l’altro il sapere «per mezzo di queste immagini a’ Posteri, che dovevano agl’altri essere superiori di dignità, et sapienza». Con lo stesso intento Ripa spiega la favola e il mito. Anch’essi vanno svelati: «Di qui [dalla sapienza antica] è nata la gran moltitudine delle Favole de gl’antichi Scrittori, i quali hanno l’utile della scienza per li dotti, et il dolce delle curiose narrationi per gli ignoranti». Ma la volontà ermeneutica di Ripa evidenzia come una stessa volontà interpretativa abbia spinto «huomini di gran conto» a «spiegare quelle cose, che trovavano in queste Favole occultate, lasciandosi scritto, che per l’immagine di Saturno, intendevano il Tempo...». Il «secondo modo dell’Imagini» abbraccia virtù, vizi, affetti, passioni umane, «quelle cose che sono nell’huomo medesimo»,

oppure quelle «che hanno gran vicinanza con esso, come i concetti et gli habiti, che da concetti ne nascono, con la frequenza di molte attioni particolari; et concetto dimandiamo senza più sottile investigatione tutto quello, che può esser significato con le parole». Il concetto, ovvero ciò che può esser significato con la parola. E si può significare procedendo in due modi: «l’una parte è che, afferma o nega qualche cosa d’alcuno; l’altra che nò» !97, Nella prima direzione si sono mossi i fautori delle imprese e degli emblemi, che pur appartenendo al primo gruppo, si differenziano nel formare l’«artificio» in quanto i primi «con pochi corpi, et poche parole» accennano a un sol concetto; gli altri manifestano «maggior concetto con più quantità di parole, et di corpi». Dalla seconda direzione nasce l’arte «delle altre Imagini, le quali appartengono al nostro discorso, per la conformità, che hanno con le definitioni; le quali solo abbracciono le virtù, et i vitij; ò tutte quelle cose, che hanno convenienza con questi, o con quelle, senza affermare, ò

negare alcuna cosa, et per essere o sole privationi [vizi], o habiti puri [virtù] si esprimono con la figura humana convenientemente» 168. Si tratta della definizione simbolica.

166 Ivi. 167 Ivi. 168. Ivi.

LA

CONVERSAZIONE

NELLA

CONVERSAZIONE

189

L'uomo è la misura di tutte le cose e la definizione «è la misura del definito»: questo assunto conduce Ripa a stabilire una correlazione all’interno dello strumentario concettuale essenzialmente di natura aristotelica che egli utilizza. Allora se la definizione è misura del definito, allo stesso modo la «forma accidentale» 19, che appare esteriormente, può essere considerata misura «acci-

dentale» delle qualità definibili dell'animo umano o «di composto». L'immagine scelta da Ripa dovrà rispondere, questo intento, a due requisiti fondamentali: deve avere d’huomo» e presentarsi sufficientemente chiara proprio definizione.

Vizio

inficiante

la significazione,

infatti,

tutto il secondo «forma come la

è l'essere

l’immagine «malamente distinta». E proprio come nella definizione il «corpo principale» deve adempiere «in qualche modo l’ufficio, che fa della definizione il suo genere». Parallellismo riuscito,

quindi, tra la definizione (concettuale e verbale) chiara e distinta e la figura dell’uomo che non è tanto il definito quanto il definiente. In quanto metafora visiva definisce un significato «spostato» rispetto a ciò che gli occhi vedono: l’immagine simbolica. Nella definizione di allegoria l’altro aspetto di cui Ripa dichiara di tenere conto è la «dispositione» della figura, ovvero come

egli stesso precisa nel testo poco dopo, «positione distinta,

et regolata», cui corrisponde la «dispositio» retorica (pur dichiarando Ripa di non volersene occupare, la retorica rientra transversis itineribus). Il parallelismo con il linguaggio perdura e si rafforza con evidente inclinazione evocativa: definizione iconologica di un concetto simbolico. Bisognerà allora decodificare nella posizione della testa (alta o bassa), nell'espressione allegra o malinconica del volto le passioni che vi si depositano o che queste esprimono «come in un Teatro nell’apparenza della faccia dell’huomo». Il volto come teatro delle passioni, perché il corpo dell’uomo è sempre e comunque un corpo eloquente, al pari della sua voce: un insieme di segni da decifrare in quanto espressivi e significanti. Ripa li enumera: braccia,

mani, gambe, piedi, trecce, vestiti. Decodificare anche la qualità che non si può facilmente «separare dalla cosa» personificata: l'essere bianca o nera, proporzionata o meno, grassa o magra, gio-

vane o vecchia. Parti e qualità dovranno comporre «un'armonia [...] concorde», risultato di un ordine sapientemente predisposto da chi in qualità di «facitore» di immagini intenda farne conoscere la conformità alla cosa espressa; l’adaequatio al suo messaggio

LS) IRVAL,

190

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

e intento comunicativo: ne risulterà un messaggio univoco, «una cosa sola», ma «perfetta, et dilettevole». Agli stessi requisiti rispondono le «Imagini» degli sntichi e quelle dei «Moderni che non si governano a caso». A guida, pur sempre la fisiognomica e i colori, come insegna lo pseudo-Aristotele. Per quanto concerne la «definitione scritta» che segue nel testo le immagini, la regola da seguire è la brevità, ma tale che rappresenti comunque una «compositione»/descrizione simile a quella degli oratori e dei poeti, piuttosto che a quella dei dialettici. L'aspetto pittorico dell'immagine proposta è più confacente alla retorica e alla poesia che non alla dialettica «più occulta, et più difficile». Gli antichi, anche in questo caso, risultano dei maestri, normativi rispetto al moderno. L’allegoria moderna è assimilabile (si «riduce») alla «similitudine della definitione». Qui Ripa si richiama alla teoria aristotelica della metafora. Per costruirla quattro i principi («i capi, ò le cagioni principali») che Ripa dichiara di assumere con i nomi aristotelico-scolastici:

«Materia,

Efficiente,

Forma,

et Fine».

Dalla

diversità dei principi derivano la diversità delle definizioni di una medesima cosa da parte dei vari autori e, al tempo stesso, la diversità di molte immagini finalizzate a significare una medesima cosa. Le «cagioni» che Ripa ripropone sulla scorta dichiarata degli antichi sono state utilizzate congiuntamente. Tuttavia «dovendosi haver riguardo principalmente ad insegnar cosa occulta con modo non ordinario, per dilettare con l’ingegnosa inventione, è lodevole farlo con una sola per non ingenerare oscurità, et fastidio in ordinare, spiegare, et mandare a memoria le molte» 170,

Laddove è possibile rintracciare «l’ultima differenza», «questa sola» sarà in grado di rendere ragione della perfezione dell’immagine; in mancanza della opportuna differenziazione, nessuna immagine può risultare «differente» dall’altra. Ma una volta distinti le qualità, le cagioni, le proprietà e gli accidenti di una cosa da definire, perché se ne faccia un'immagine bisogna ricercare la «similitudine» nelle «cose materiali», «la quale terrà in luogo delle parole nell’Imagine, ò definitione de’ Rettori». Ripa ritiene a questo punto di aver esaurito gli «avvertimenti» al lettore, e può quindi procedere alla sua «Bibbia simbolica» e ai suoi «crittogrammi morali». Tuttavia prima di congedarsi compie un richiamo di un certo interesse. Dopo aver ricordato la deri-

170 C. RipA, Proemio, cit., 2r.

LA CONVERSAZIONE

NELLA

CONVERSAZIONE

191

vazione delle sue immagini dai geroglifici (la «dottrina Egittiaca»), «letti» ovviamente dal suo tempo che li ha fatti «rinascere», egli paragona questa cultura a una «persona sapiente, ma versata nelle solitudini, et nuda per molti anni, la quale per andare dove è la conversatione si riveste, acciocché gli altri allettati dalla vaghezza esteriore del corpo, che è l’imagine, desiderino d’intendere minutamente quelle qualità, che danno splendidezza all'anima, che è la

cosa significata, et solo era mentre stava nelle solitudini accarezzato da pochi stranieri». Con queste significative metafore Ripa allude al rapporto solitudine (cui al pari della conversazione dedica una allegoria !71)/ conversazione. La saggezza nella solitudine è per pochi; si deve invece rivestirla di «imagini» e farla accedere alla conversazione,

che è forma altrettanto alta di sapere. Bisogna mandare il sapere a conversare perché sia divulgato e divenga patrimonio intersoggettivo. Gli enigmi, che occultano il sapere in un linguaggio cifrato

rendendolo accessibile a pochi, devono lasciare posto alle immagini, enigmi rivestiti di un linguaggio più comprensibile, atte a comunicare quel che intendono simbolicamente rappresentare. Mantenendosi in questo ambito Ripa aggiunge che la «sapientia degli Egittij» può essere assimilata a un «huomo horrido, et mal vestito, adornato dal tempo per consiglio dell’esperienza, che mostrava esser male celar gl’indicij de’ luoghi, ne’ quali sono i Tesori, acciocché tutte [i] affaticandosi arrivino per questo mezzo a qualche grado di felicità» !?2. La maggior differenza per Ripa tra il sapere degli antichi e quello dei moderni risiede qui. Del resto, lo preciserà anche Hegel, l’allegoria fa «della chiarezza il fine dominante» !73, mentre l’enigma nasconde in sé il significato. E

171 Ibidem, p. 458 dell’ed. 1603. Ernst H. Gombrich

si sofferma sull’alle-

goria della solitudine in Ripa nel suo Symbolic Images, cit. 172 Ibidem, Proemio, 3r. L’ed. del 1645 corregge l’evidente refuso ‘tutte’ in ‘tutti’. 173 G.W.F. HecEL, Aesthetik, Aufbau-Verlag, Berlino 1955, tr. it. Estetica, Einaudi, Torino 1976, p. 454, a cura di N. Merker e N. Vaccaro. Com'è noto

Hegel dedica ai temi del «simbolismo cosciente», in particolare all’enigma, allegoria, metafora, immagine, similitudine, pagine come sempre illuminanti: «L’enimma [...] si distingue dal simbolo vero e proprio per il fatto che il significato è chiaramente e completamente saputo da chi ha inventato l’enimma e la forma, che lo maschera e con cui deve essere spiegato, è scelta intenzionalmente per questo mascheramento a metà [...] l’enimma è in sé e per sé risolto, per cui Sancho Panza disse giustamente di preferire che gli si desse prima la soluzione e poi l’enimma» (Ibidem, p. 448). L’allegoria cerca anch'essa «di rendere intuibili le qualità determinate di una rappresentazione universale per mezzo di qualità affini di oggetti sensibilmente concreti; tuttavia fa questo non in vista di un mezzo velame [...] ma proprio con il fine opposto della chia-

192

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

Ripa ritiene che assolva a una funzione di svelamento in vista della comunicabilità del sapere, coscientemente simbolico per dirla con Hegel. L'esperienza ha sufficientemente mostrato che non è opportuno nascondere il sapere, velarlo alla maggior parte, poiché proprio da esso, comunicabile e fruibile da tutti, pur con fatica si possa raggiungere la felicità. Risponde pienamente a questa esigenza il «vestire iconologico», che segue una tecnica di costruzione dell'immagine avente a presupposto la sua comunicabilità. Tanto più che al di sotto delle immagini Ripa ritiene debba essere posto il nome, il significato — ridimensionando in qualche modo il valore della trasparenza comunicativa affidata unicamente all'immagine. Perché senza la «cognitione del nome», precisa, «non si può penetrare alla cognitione della cosa significata». Che concluderne? Innanzitutto il riferimento alla persona (dopo tanti dibattiti storici e contrario) come segno (l’immagine nell’Iconologia è sempre personificata). Secondariamente, ma non per questo non meno importante, l'affermazione che tutto il linguaggio figurativo deve piegarsi alle regole del discorso. E il metodo inoltre funziona, come abbiamo appena visto, a patto che sia aiutato dal linguaggio. La teoria generale del simbolo deriva a Ripa dalla tradizione aristotelica. L'immagine è il corrispondente della metafora nell'ambito linguistico: della metafora visiva Ripa cerca di elaborare la definizione. Retorica, poetica e logica aristoteliche lo guidano su questo cammino. Dalla Retorica, infatti, Ripa deriva la teoria della metafora; ma dalla logica la tecnica della definizione 174.

Filosofia del vivere associato

I sensi plurimi del termine conversazione, enucleati da Guazzo sin dalle prime pagine della Civil! Conversatione, sembrano ormai convogliarsi nell'accezione principe: forma del «vivere associato». «Et però s'ha a presupporre, che la natura ha fatto l’huomo animal sociabile, accioché co’1 mezo della conversatione, possa et dare, et ricevere aiuto, secondo i bisogni altrui, et suoi» (CC,

rezza più completa, cosicché l’esteriorità di cui si serve deve essere la più trasparente possibile per il significato che in essa deve apparire» (Ibidem, p. 449). Discute criticamente e storicamente la sezione del «simbolismo cosciente», che ha dato luogo a note e annose polemiche, P. D’AncELO, Simbolo e arte in Hegel, Laterza, Bari 1989.

174 Cfr. E.H. GomBrIcH, Immagini simboliche, cit., pp. 203 sgg.

LA CONVERSAZIONE

NELLA

CONVERSAZIONE

193

II, 102v). La condanna di Guazzo verso quei filosofi e intellettuali che si siano rifiutati all'impegno civile, nella più classica tradizione umanistica, è senza appello. La conversazione con gli antichi nella propria biblioteca !75, la biblioteca delfica, il «convito solenne» delle Accademie rappresentano, senza dubbio, punte di diamante nella formazione della paideia, cioè di quella cultura di tipo letterario-retorico che elegge la parola (parlata e scritta) come strumento di civilizzazione, ma a questo tipo di «riscrittura» intellettuale e teorica deve seguire una pratica, un «operare» finalizzato al bene comune. Sono allora da biasimare quegli intellettuali per così dire privati che abbiano rifiutato impegni in cariche e amministrazioni pubbliche («dignità, et le amministrazioni civili»), stimando

mera

servitù il sottomettere

l’«animo

libero» e

«lasciarlo occupare da negotij del mondo». Con un’argomentazione classica, fatta agire più volte da Guazzo, viene indicato come

tradimento delle propensioni naturali il sottrarsi a un invito cui la stessa natura

esorta.

La conversazione

viene così configurata

forma e sostanza del vivere associato, vivere per gli altri, massimo grado della virtù che consiste nell’«operare». La filosofia è impegno civile, «rivoluzione sostanziale», secondo l’efficace immagine sottoscritta da Garin: «facendo centro nella ‘conversazione civile’, nella ‘vita civile’», la filosofia «poneva il colloquio come forma espressiva esemplare» !76. La conversazione, l’operare al servizio

di altri, la filosofia

pratica,

si differenzia

da quella

«odiosa e muta filosofia» di cui si può affermare che appunto perché è senza «l’opere è morta». Non esiste saggezza che ricerchi le verità più alte del consorzio umano o una vita moralmente ineccepibile separata da ogni rapporto con gli altri. È sempre lo spirito socratico che aleggia: «Perdonami carissimo! Io sono uno che ama imparare. La campagna e gli alberi non mi vogliono insegnare niente; gli uomini della città, invece, sì» !77. Quella filosofia è morta in quanto non si attesta come sapientia, la platonica phronesis,

in cui scienza morale e conoscenza della verità coincidono. Morta in quanto non reca «giovamento ad alcuno, nè anco a colui che

175 Acute analisi del concetto di «libreria», in rapporto a quello di «studiolo» dedica D. Ménager nel saggio Montaigne, la «librairie» et le «pays sauvage», in Etudes Seiziémistes, cit., pp. 383-394. . 176 E. GARIN, Medioevo e Rinascimento, cit., p. 108. E da leggere qui, secondo Garin, non solo la condanna

di un metodo fondato su astratti schemi dimostrativi, ma quello di una filosofia che vuol negare l'esigenza di una disciplina del pensiero più aderente alla concretezza del pensare (Inp., L'Umanesimo italiano, Laterza, Bari 19815, pp. 171, 180-181, 207 [ultima ed. 1993). 177 PLATONE, Fedro, 230d.

194

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

l’ha acquistata, il qual col proprio giudicio non si può assicurare d’haver appreso la scienza, se non la fa conoscere, et se non la sente approvare da altri intendenti» (I, 14r). A ben vedere con le ultime argomentazioni Guazzo fornisce un ulteriore tassello al suo concetto polisemico di conversazione. Essa è la controprova dell'utilità sociale, ma anche della validità scientifica di quel sapere, in particolare nella sua comunicabilità e nel riconoscimento altrui. Di conseguenza non merita alcun onore la filosofia esoterica «che non lascia conoscere il suo sapere». Alla luce di queste affermazioni emergono a chiare tinte la funzione e il merito di Socrate, filosofo della piazza e della città, che si

rivolse e «si diede tutto alla coltivatione di questa parte [della filosofia] tanto utile, et necessaria alla vita commune»

(Ibidem,

14v).

Problema logico e metodologico per Guazzo, ma c'è dell’altro: simile a Pindaro che non voleva considerare la filosofia alla stregua dell’arte statuaria, producente, in definitiva, figure mute e prive di sentimento,

Guazzo,

Pindarus

redivivus nel campo

della

filosofia e dell'etica, guarda a una sapientia rivolta alle «operationi civili», cui ineriscano la concezione e la funzione del linguaggio e il concetto di moralità intesa come socialità. Come insegna il mito di Orfeo (anche se Guazzo in queste pagine non sembra privilegiarlo su altri: «... chi che egli si fosse, o Saturno, o Mercurio, o Orfeo, o Anfione, che raunò insieme le genti disperse per le sel-

ve...» [Ibidem, 9r]) è dall’eloquenza che si sviluppa la società umana. Origine della società civile, la conversazione fa circolare l'energia della comunicazione che la ricrea e vitalizza senza posa. Il discorso è vincolo e legame della società, suo tessuto connettivo. Socrate che conosce gli uomini perché li pratica sa che «il padre della sapienza è l’uso, et la madre la memoria»; nell’ambito della conoscenza non bastano i libri, atti a produrre solo una «virtù dipinta». Occorrono «la prova infallibile, et l’esercitio intorno all’intelligenza delle cose, le quali conosciute

s’hanno a ricevere,

et a fermar bene nella memoria, per poter poi dalla sperienza già fatta consigliarsi, et governarsi, et giovare altrui secondo gli avenimenti» (Ibidem, 15r). E conclude: in nessuna attività umana «non è tenuta sicura la teorica, senza la prattica» (ivi). Ciò che emerge immediatamente da queste considerazioni è il concetto, carico di implicazioni, di «conversatione tra disuguali». La distanza dal convito tra nobili si impone da sé. Anzi il presupposto ontologico risiede proprio nella disuguaglianza che reclama il mutuo soccorrersi. Il primo imperativo è la «vita civile», il vivere tra gli uomini. E il «restar privo dell'aiuto, et commercio de gli huomini» (Ibidem, 16v) è un tipo di condanna inflitta ai malfatto-

LA CONVERSAZIONE

NELLA

CONVERSAZIONE

195

ri. Il Cavaliere avverte dubbio e incertezza: «né sì, né no nel cuor

mi suona intero» !78. Alle ragioni di Annibale (il sapere si realizza e veicola nella conversazione), aggiunge un ulteriore elemento. Se è vero che la perfezione umana consiste nel sapere, del pari «gli huomini, i quali attendono a’ negotij, et alle prattiche delle corti, et delle cose pubbliche, sono per lo più senza lettere, et scienze, et

per lo contrario, quei che le vogliono acquistare, non le cercano per le piazze, et fra le turbe, ma nelle loro rimote stanze» (Ibidem, 17v). Per il cavaliere la «malignità» !9, lo aveva anticipato, distorce ogni possibilità comunicativa: «... siamo hora giunti a tal segno, che voi non potete operare così direttamente, che non riceviate mille torti, se non nella vita, la quale non è anco sicura, almeno

nella fama; et è hoggi mai tanto cresciuta la malignità de gli huomini, che non si perdona più all’honore di chi che si sia, o Prencipe o privato, et si pigliano in sinistro sentimento tutte le buone opere, permodo tale che se vi date alla divozione, et all’esercitio della carità, ne ricevete il nome d’hippocrita; se sete affabile, et cortese ecco chi vi chiama adulatore; se date aiuto a una sconsolata vedova, tosto udite una voce, che dice: Io intendo il resto; se per

inavvertenza non risalutate l’amico, egli non vi vuole più parlare; se difendete uno oppresso, avvertite a non vi lasciar giunger fuor di casa dopo le ventiquattro; né pensate che vi sia portato rispetto, perché non facciate professione di soldato, c'hormai s’usa il dar delle bastonate, et delle ferite infino a dottori per farli cessare dalla protetione de’ clienti. Ma a che fine mi vo io perdendo nello intricato laberinto de gli abusi, et de i disordini dei nostri tempi?» (Ibidem, 18 v). D'altra parte la vita solitaria, replica Annibale, dà adito alla spirale del sospetto (Ibidem, 23v): accuse proteiformi considereranno il solitario, di volta in volta, «Alchimista» o «Fabricatore di

false monete». Facile bersaglio, finirà per ritornare alla «vita commune», determinandosi a «voler vivere dirittamente malgrado i malviventi». Andrà «calzato tra le spine» nel «pellegrinaggio della commune vita». Il Cavaliere, da questo momento in poi, si fa sempre più portavoce di una salutare «retorica del dubbio». Retorica salutare e feconda;

la stessa che, tramite

Guazzo

agirà senza

soluzione

di

continuità sulla configurazione generale della funzione del sapere

178 I] verso di Petrarca (Rime, 168), citato in italiano in Essais II, 17, 654; tr. it., p. 873, dà vita alle annotazioni montaigneane sulla propria «cicatrice». 179 Si confrontino queste riflessioni sulla ‘malignità’ con l'esordio del capitolo II, I, De la tristesse, contenuto negli Essais.

196

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

adottata da Montaigne, e nello specifico sulla configurazione dell'opposizione di solitudine — luogo metaforico dell’uomo di lettere — e di conversazione — natura propria dell’uomo sociale e «pubblico». Ora certezza del dubbio e necessità del dialogo, poi della coesistenza necessaria e sapientemente dosata, quindi prolifica, di solitudine

e conversazione,

tema

cui Guazzo

condurrà

il

lettore gradualmente e, a bella posta, in questo momento non lascia emergere nella sua complessità. Emergono invece le ultime resistenze del Cavaliere. Nelle «rimote stanze» si può acquistare ciò che l’uomo di corte e anche l’uomo «di negotij» inesorabilmente perdono: le lettere, lo studio, la vita contemplativa. Annibale, per seguire il Cavaliere e farsi seguire a sua volta, è costretto a prendere le difese non solo dell’uomo di mondo, ma anche dell’uomo di corte, che non sapranno disquisire di retorica, ma non risultano ignoranti «nelle cose del mondo». Anzi non cadono neppure nell’errore di credere che «la dottrina s’acquisti più nella solitudine fra i libri, che nella conversatione fra gli huomini dotti». E se per Guglielmo la città continua ad essere albergo dei vizi, per Annibale, al contrario, va elo-

giato «quel primo, che con grande giudicio raunò le genti disperse» (Ibidem, 13r), le quali, aggiunge dando prova della sua professione di fede metodologica, se non avessero conoscenza dei vizi che regnano nelle città, non avrebbero nemmeno conosciuto l’altra faccia della medaglia, ex captivitate salus, ovvero la «conoscenza delle discipline, della creanza de i costumi, delle amicitie,

delle arti, et delle operationi, per mezzo delle quali si fecero differenti dalle fiere selvaggie, a cui erano simili; onde si può forse dire, che chi si parte dalla vita, et congregatione civile, per ridursi in solitudine, ritorna quasi in fiera, et ripiglia, in un certo modo,

la natura bestiale» (ivi). L'origine della città e del consorzio umano diviene, nella restituzione di Annibale che ribalta dialetticamente le posizioni di Guglielmo, albergo di virtù, delle virtù sociali per eccellenza: le arti e la costumatezza, per mezzo delle quali l’uomo si fa differente dalla bestia. Ciò che distingue l’uomo dall’animale risiede nella conoscenza delle discipline, la creanza dei costumi e l’uso delle arti che rendono quell’insieme organico una «congregatione civile». Accanto alle varie ipotesi e suggestioni sull'origine della società civile, cui Guazzo fugacemente allude in I, 9r, resta ferma

la persuasione che al solitario spetti a pieno titolo la condizione della bestia o del tiranno, entrambi negazione dell'umanità e del suo scopo ultimo: la realizzazione del «tempio della giustizia» nella società, legge e forma della vita. Messe da parte le teorie sulla genesi del vivere associato, Guazzo guarda al concetto di perfetti-

LA

bilità umana che è «...naturale è tutto migliore, et acquisti La «vita civile»

CONVERSAZIONE

NELLA

CONVERSAZIONE

197

al tempo stesso naturale e storico-politico: quello, che natura consente, che si faccia perfettione» (II, 76v). è comunque configurata, sulla scorta di Pal-

mieri, come «salute del mondo». Con estrema lucidità Palmieri tentava di definire, con la sua opera classica, «se non la perfecta,

almeno la meno maculata vita de’ mortali» !80. Dopo «prolungata examina» giungeva a configurare la vita activa, nella migliore tradizione umanistica, a vero e proprio stile di vita in cui potessero coesistere privato e pubblico, affari legittimi e pubblico rispetto,

etica e affari. All’autore della Vita civile si imponeva un problema metodologico ed epistemologico: in che modo, «con che arti, et sotto quale disciplina» procedere per raggiungere la dimensione etica della vita pratica? In che modo orientarsi di fronte alle «numerate carti» e alla prolifica produzione filosofica antica, tesa pur sempre a salvaguardare la «salute del mondo»? Come utilizzare questa enciclopedia del sapere colto anche da parte di chi, desideroso

di «vivere

bene

et virtuosamente»,

mancasse

dello stru-

mentario di accesso linguistico idoneo? Tutti problemi e tematiche affrontati e sviscerati dalla tradizione umanistica che si interrogava sullo statuto delle proprie letture e dei propri lettori, dei codici veicolanti i messaggi, in particolare traduzioni e volgare, sulla storicità degli stessi. Tali coordinate inducevano Matteo Palmieri a rinunciare

a una generica «imaginata bontà de’ non mai

veduti in terra cittadini»: modelli platonizzanti, «fincti di virtù et di sapientia perfecti», figure dipinte più che uomini in carne ed ossa. Ma anche a concepire una paideia del singolo, un progetto politico-educativo affidato al dialogo e al volgare !8!. Modello del dialogo è quello degli «amichevoli parlari» e della «ioconda [...] conversatione» !82 che procura diletto e utilità, pre-

fieurando il concetto di vita civile, frutto maturo «che noi caveremo dal parlare tuo» !83. Piccolo simposio (ristorato il corpo, si ristora l’anima) nel corso del quale l’animo acquisirà l’«habito vero di compiuta virtù». Posta in gioco della conversazione è il

180 M. PALMIERI, Vita civile, cit., Proemio,

1-3 (p. 4).

181 L’opera divisa in quattro libri è dedicata ad Alessandro degli dri. Personaggio centrale del dialogo è Agnolo Pandolfini, istruttore lente. I suoi interlocutori: Franco Sacchetti e Luigi Guicciardino. Il gue una scansione classica: fasi e istruzioni per il giovane sino all’età

Alessanbenevotesto se«perfec-

ta dell’uomo»; le sue virtù morali: prudenza, temperanza, fortezza; analisi del-

le categorie di onesto, giustizia e utile. 182 Ibidem, I, 3v, 1-3 (p. 12).

183 Ibidem, I, 23v, 213 (p. 57); II, 25v, 11 (p. 61).

198

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

concetto di «vivere bene», di «vita buona» come sommo grado dell’operare umano. Si vive bene e onestamente solo a patto di esercitare con virtù «le pubbliche degnità» e di lasciarsi guidare nella vita da «honesti costumi» !84. Considerazioni, forse, fin troppo note «a chi molto legge». Ma la garanzia del leggere molto non è condizione sufficiente per ben intendere: la lettura insegna la vita buona solo quando «la discrettione naturale non fa difetto» !85. Il «nostro leggere» non «merita tanto da te che sai che la virtù sta nell'opera». E l’operare travalica l’intendere e guida la civile conversazione. In questo l’operare, che non è un operare cieco, elegge come «disciplina» («sotto quale disciplina» si chiedeva nell’esordio Palmieri sussumere la vita attiva?) la filosofia morale, quella filosofia che tradizionalmente «ministra i costumi et le virtù agl’uomini» !86. Ma una più attenta analisi rivela che i suoi precetti parlano a chi ha «già imparato» preferendolo a chi «fusse rozo». La stessa preoccupazione avrebbe condiviso Guazzo tanto da far nascere la sua opera sotto il segno della «mediocrità». Per un motivo analogo a quello di Palmieri egli dichiarava, lo ricordiamo, di non volersi addentrare nei meandri complessi della filosofia morale, non immediatamente comprensibile dal suo interlocutore «mezano»,

lettore

ordinario

e comune,

allocutore

‘ideale’

della

Civil Conversatione. Palmieri, in particolare, adottava un linguaggio privo di «parabole», comparazioni svolte tramite analogie, velami poetici, lunghe narrazioni. Riteneva che il suo linguaggio fosse consono

ai giovani; lo esemplava, come

Guazzo, sull’oralità,

sul «parlare», con lo scopo di «dimostrare quali debbano essere i costumi et le virtù d’un optimo cittadino per tutta la vita mortale». L'ordine preferibile da seguire è sempre la natura: si sceglierà un «fanciullino nuovamente nato» e lo si seguirà nel suo sviluppo sino alla vecchiaia e alla morte «narrando quello che si confà a ciascun virtuoso per ciascuna età, in qualunque grado o degnità si trovasse» !87. E affermava l’uguaglianza nella civiltà che trae l’uomo dal suo stato rozzo a quello civile. Lo sviluppo progressivo dell'umanità dalla «vita roza, inculta» perviene alla «vita civile», con-

cetto quest’ultimo, come è stato notato, molto vicino a quello di «civilizzazione» !88, Ma di qui anche il suo «umanesimo civile» e il concetto di politica come educazione.

184 Ibidem, I, 4r, 10 (p. 13). LeSRIIVa” 186 Ibidem, Sr, 19 (p. 16). 187 Ivi.

188 Cfr. L.M. BRAGHINA, Il pensiero etico-sociale di Matteo Palmieri nella «Vita civile», in Filosofia e cultura. Per Eugenio Garin, Editori Riuniti, Roma LO9P EDMS

LA CONVERSAZIONE

NELLA

CONVERSAZIONE

199

In questo cammino dalla «rozzezza» alla civiltà, leggi e industria si configurano come i veri motori della storia umana. Nel libro terzo Palmieri insisterà a lungo sullo scopo universalizzante della legge scritta: la «equale salute di tutti» ovvero la «conservatione commune di tutta la generatione humana» !89. L'utile comune è il vero scopo delle leggi. Nel momento in cui la «conversatione civile» ha procurato e esibito numerosi vantaggi è intervenuto il diritto a fissarne e garantirne i risultati.Quindi la legge, il diritto, la normatività,

risultano nell'analisi palmieriana un momento

indissociabile dal principio di civilizzazione, come del resto dall’urbanizzazione. C'è chi ha letto nella distinzione diacronica operata da Palmieri tra una fase storica in cui la società provvede alla «necessità» e quella in cui si dedica «all’amplitudine et ornamento del nostro vivere» !9, la distinzione tra società barbarica e società o

vita civile; distinzione non immediatamente leggibile qui, ma che si lascia cogliere se messa in rapporto alle argomentazioni concernenti il mito di Saturno, inventore delle arti e dell’uso del denaro come mezzo di scambio. Al suo arrivo in Italia, Saturno trovò

uomini «di pochissime cose contenti», che vivevano «di pomi e di fructi, spontaneamente dalla abondante terra prodocti» e senza leggi !9!. Nessuno possedeva in proprio, nessuno seminava o si adoperava per «delicatezza di vita»: li regolava la «necessità natu-

rale». «Vita semplice», dunque. Scambi amichevoli e baratto. Quando sopravvenne, Saturno sconvolse un così «pacifico et contento vivere». Giungendo da Creta si unì a Giano, governatore eletto «volontariamente da e paesani». Saturno «huomo prudente et in varie operationi virtuosamente exercitato», per compiacere a

Giano e per condurre la vita degli abitanti «a modo più ornato» fornì loro diversi «ammaestramenti»: insegnò a seminare e raccogliere, coltivare i frutti «et ritenere i paesi abondanti et culti». Di qui ebbero origine le arti, si apprese a cuocere le vivande, a condirle, a fare il pane e a «vivere come huomini». A vivere come uomini.

Prima, erano allora barbari. Barbari felici, se dobbiamo

tener fermo alla descrizione precedente di Palmieri. Ma non uomini a tutti gli effetti. Non è difficile notare quanto questo tipo di vita primitiva non riecheggi nella Vita civile alcuna nostalgia. «Utilità et commodo» sono solo il risultato delle arti e delle industrie degli uomini senza le quali «la vita humana sare’ vagante,

189 M. PALMIERI, Vita civile, cit., IMI, 53r, 45 (p. 113). 190 Ibidem, IV, 94r, 190 (p. 189). 191 Ibidem, IV, 86r, 118-119 (p. 174).

200

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

rozza,

inculta

et simile

alla vita bestiale» !9. Tramite

le «indu-

strie» si è «ornato et polito il nostro vivere», si sono edificate città, scritte leggi che regolano il vivere associato, «approvato le consuetudini et i costumi civili et ordinate tutte le discipline del politico vivere» !9. Nessun rimpianto, anzi compiacimento e lode della civilizzazione, nonostante le inevitabili perdite. Non si assiste pertanto alla condanna della civiltà ma viene espressa la persuasione della sua superiorità rispetto all’età «rozza»; o meglio, all’idea di

civiltà si accompagna la coscienza dei mali inevitabili che essa comporta: la civiltà è inseparabile dal suo rovescio. A scopo «migliorativo» sarà proprio Guazzo a proporre, insieme ad altri mezzi, la politesse, qualità indispensabile a «quest’età di ferro». La «civiltà» nella Civil Conversatione, assume spesso tinte più fosche. All’idea di civiltà, che spinge gli individui prima a edificare case, poi città, attribuisce

loro il diritto di possesso

della terra

che ciascuno lavorava per sé e fa apprezzare «la commodità dell’ordinato vivere», si affianca anche il desiderio di possedere ciò che non appartiene. E se lo stesso «politico vivere» è il risultato di questo processo di dirozzamento del genere umano, del suo processo di civilizzazione cui contribuirono le leggi ma anche le consuetudini e i costumi ormai divenuti civili !94, certo Palmieri sotto-

linea con forza i risvolti negativi del processo di civilizzazione e di incivilimento: «L’arti cominciarono a crescere et chi s’afaticava voleva l’utile fusse suo [...]. Seguirono

i tempi ne’ quali dì per dì,

riducendosi gl’huomini insieme, dierono principio al desiderio, alla avaritia et appetiti non ragionevoli; per questo iniurando l’un l’altro, prima le castella, poi le città per difesa e salute sono state edificate» !9. E soprattutto il potere corruttore del denaro. La visione etica di Palmieri si profila allora a chiare lettere: «... le pecunie si debbono pigliare maximamente de’ frutti che sono ordinati dalla natura et vengono dalle tue proprie sustantie, però che, così facendo, si manca di fare iniuria» 1%.

È necessario

quindi

«virtuosamente

acquistarle,

poi

con

modo et ordine debito in uso conferille. Vane et di niuno valore sono le riccheze che morte, si nascondono senza usarle per com-

19° Ibidem, IV, 77r, 31 (p. 155). 134[bidem, IV 4/7, 92155) 194 Ivi.

195 Ibidem, IV, 88r, 123-129 (pp. 175-177). 196 Ibidem, IV, 88r, 130 (p. 177).

LA CONVERSAZIONE

NELLA

CONVERSAZIONE

201

modità et bene di nostro vivere» !97. Il denaro è essenzialmente valore di scambio, da sempre è quella la sua funzione universalizzante, misura delle cose, si configura cioè «come attissimo mezo a commutare tutte le cose delle quali s'ha nella vita bisogno». La giustificazione della funzione ineludibile del denaro va ricercata, secondo Palmieri, nel fatto che «se le varietà et multitudine delle

cose [...] usate da noi fussino equali, superflue certo sarebbero le pecunie. Ma la inequalità delle cose ha fatto trovare il danaio acciò che con quello s’aguagli la differentia che hanno le cose di che s’ha bisogno» !98. i Va evitato soprattutto lo sfruttamento dell’uomo sull'uomo. La Vita civile su questo punto non registra oscillazione alcuna: va evitato lo sfruttamento degli «operarii» che già i Romani rinchiudevano in «certi chiostri murati in e quali chiudevano detti servi et di varie arti li facevano lavorare, dando loro solo le spese magre; de’ lavorii facti facevano poi mercantia con multiplicata utilità» !9. Ai nostri tempi, commenta ancora Palmieri, «si paga con prezo l’opere et tempo di chi per noi se exercita» 29. Quindi un monito: «In negli operarii s’observi modo giusto, comandando tali cose sieno iuste et convenienti alla persona che serve. Ricordici

che la iustitia è tanto diffusa in ciascuno che infino nelle ultime conditioni de’ servi vuol essere servata». Tuttavia esistono modi legittimi e misurati per esaltare la dignità del lavoro e della sua dimensione creativa, da cui poter legittimamente derivare un incremento dei propri averi: «L’amplificare et acrescere le proprie sustantie con exercitii et arti che non nuochino a alcuno è sanza biasiamo» 20. Concetto di civilizzazione e concetto di lavoro,

industria umana

per eccellenza, divengono per Palmieri indisso-

ciabili, anche se, come aveva chiarito già nel libro primo, il valore

antropogenico viene riconosciuto a quel lavoro non coatto ma liberamente scelto. In veste di pedagogista dell’«huomo universale» Palmieri indugia sulla considerazione che è il lavoro umano a promuovere il processo di civilizzazione, lavoro umano inteso come forza trasformativa e creatrice che tenga conto di inclinazioni, talenti, tendenze e propensioni di ciascuno. Per questo assume

molta importanza il «modo di imparare». C'è una via precisa da seguire, per operare le dovute scelte. Si deve innanzitutto evitare

197 Ibidem, IV, 86v, 113-114 (p. 173).

198 Ibidem, IV, 86v-87r, 117 (pp. 173-174). 199 Ibidem, IV, 91r, 158 (p. 183). Sott. mia. 200 Ibidem, IV, 91r, 159 (p. 183). Sott. mia. 201 Ibidem, IV, 87r-88v, 131 (p. 177).

202

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

di conoscere «tutte le virtù et le degnità». La genericità annullerebbe ogni sforzo conoscitivo-pratico, coll’unico risultato di ‘produrre ignoranza, anziché capacità operativa 292. Nel processo conoscitivo è opportuno «rappresentare et fissare» chiaramente «la spetie et la perfectione», di cui ci si vuol rendere esperti. Per. seguirle tenacemente. Nello spirito dell’uomo compiuto e proteiforme, Palmieri formula del pari una critica ante litteram della divisione del lavoro come foriera della categoria della separazione e lacerazione dell’uomo universale, figlio di un «ingegno universale», di un cervello sociale («la natura dello ingegno nostro è [...] universale») 293. Gli esempi addotti nell’ambito operativo e metodologico sono molteplici: è molto più difficile applicarsi ad un'unica attività sia essa teorica o pratica, che applicarsi a una svariata gamma di interessi («Vedesi ancora per effecto essere molto più difficile seguitare in una medesima cosa più hore che non è tutto il dì darsi a industrie di varie doctrine» 2°), con la forza eraclitea del mutamento: «la mutazione è quella ci ricrea [...].. Debbesi dunque non prima volere essere perfecto grammatico, poi diventare optimo musico, dopo

cercar farsi scultore o architetto, però che già sare’ perduta la prima dottrina quando fussi acquistata la sezza...» 29; sul presupposto pur sempre che l’«ingegno» può «più cose in un tempo» 20. In breve il dedicarsi a «più cose scelte» è la condizione del poter operare con diletto; rendersi «commune a molti»; in un certo senso «alleva» all’universale dimensione della prassi umana. Si segua per questo il proprio talento, si ascolti e assecondi la propria predisposizione naturale. Solo così si potrà raggiungere quell’«equalità», equilibrio fondamentale per la vita, equilibrio che nello spessore etico-politico dell’umanesimo civile di Palmieri acquista uno spessore individuale e sociale: questa conservazione «non può chi, lasciando le forze della propria natura, segue altro» 207. La conversazione civile si basa sul principio dell’«equalità» sociale, che non è egualitarismo, ma equilibrio sottoposto a regole. L'etica sociale di Palmieri, infatti, si basa sulla distribuzione degli onori secondo virtù 298, La più alta dignità umana risiede «nella virtù a

202 Ibidem, I, 14r, 128 (p. 39). 203 Ww Ibidem, I, 16r, 135 (p. 41).

204 Ibidem, I, 16r, 137 (p. 42).

205 Ibidem, I, 16r-v, 137-138 (p. 42).

206 Ibidem, I, 16r, 136 (pp. 41-42). 207 Ibidem, I, 19r, 166 (p. 48). 208 Ibidem, III, 58r, 169 (pp. 138-139) 00

LA CONVERSAZIONE

NELLA

CONVERSAZIONE

203

servitio del bene commune» 29. Uomo intero, uomo compiuto, uomo sociale si attestano nella Vita civile come sinonimi.

II ritorno di Apelle: autoconoscenza, teoria della conoscenza

conoscenza

intersoggettiva,

Dal «conoscer per segni», dalla teoria dell’interpretazione, Guazzo giunge a fondare la conversazione come teoria dell’auto-

conoscenza. Il suo motto: «intendere» più che «contendere» significa innanzitutto intendere se stessi, un’antropologia del soggetto. Alla conoscenza di sé tramite la conversazione Guazzo dedica pagine incisive. La civil conversazione si configura come presupposto di ogni «palingenesi» individuale. Suo tramite l’uomo si spoglia della «presuntione», frutto dell’amour-propre inteso come ubriachezza «dell’amor di sé», e si veste «della cognittione di se stesso»: «perché, spiega Guazzo, se ponete ben mente, quel giudicio, che habbiamo

di conoscere

noi stessi, non

è nostro,

ma

lo

togliamo quasi in prestito da altrui...» (II, 70r). La comunità funziona da specchio, giudice e occasione «per essaminar la [...] coscienza» (Ibidem, 70v). Il biasimo, l’avvertimento o la riprensione funzionano da reagenti sociali e individuali, entrano nel gioco dell’accettazione delle regole per cui ci si sottopone alle «communi opinioni» e al «giudicio altrui». Indicatori, correttivi, «emendatori» dei costumi in un primo momento, si sedimentano poi nella coscienza collettiva come metaetica, come norma per chi voglia «per propria volontà» «considerare diligentemente le parole, i fatti, et modi di diversi huomini, et si come imparano a fuggire quelle cose, che veggono disdirsi in alcuni, così si sforzano di seguire, et farsi proprie quelle, che ne gli altri sono lodevoli; et conversando divengono osservatori, et imitatori de’ savij, et esemplari, et per finirla, s’acconciano a fare, a lasciare, a mutare, et a correggere molte cose a giudicio altrui» (Ivi). È per questo che nei Dialoghi piacevoli (XI, Del conoscimento

di se stesso) Guazzo occupandosi dell'impresa delfica propone come percorso preliminare la conoscenza degli altri; invita a conoscerli «esteriormente», praticandoli, dal momento che l’esterno è sempre legato all’interno come sua manifestazione. Anima e corpo costituiscono il «nodo» emblematico dell’uomo. Come la lingua che «dà segno manifesto dell’animo» (Ibidem, 522) e risponde

209 Ibidem, III, 67v, 158 (p. 136).

204

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

all'esigenza del «Parla perché io ti veda»; conformemente al motto socratico «deve esser rivolta a dichiarar la sua [dell’uomo] mente»

(DP, Della morte, 658) — così è del gesto: «i movimenti del corpo sono la voce dell'anima» (DP, 522). Anche «dal passeggiare, et dal vestire si fa giudicio o della gravità o della leggerezza altrui» 210. Coincidenza di foris e intus? Legami e affinità congiungono certo anima e corpo. Le passioni dell'uno sono la salute o la malattia dell’altro. Sin dall'antichità la filosofia ha introdotto nel suo sapere lo studio della fisiognomica,

«l’arte, et la scienza di conoscere

per segni esteriori le qualità, et le dispositioni occulte de gli animi nostri, i quali segni si prendono da i movimenti,

da i colori, da i

lineamenti della faccia, dalla voce, dalla carne, da i peli, dalle parti e dalla figura di tutto il corpo» (Ibidem, 523). La cultura e la memoria storica della malinconia presentano i malinconici, i nati sotto Saturno, con un volto color bronzo, segno manifesto e ipostasi dell’atra bilis che alberga in loro. Imago nigra. Il filosofo deve riuscire

a comprendere,

tramite la scienza semiotica, e deco-

dificare i segni; ma così deve procedere anche chi voglia conoscere se stesso. Guazzo insiste: «gli habiti, il riso, et l'andare rendano

testimonianza di lui [l’uomo]» (Ivi). Ma tale operazione, e Guazzo lo registra, richiede decise cautele. Il foris e l’intus non sempre coincidono — e l’osservazione vale anche per il linguaggio. La cautela è d’obbligo: il voler trarre dai «segni esteriori» un sicuro «giudicio della mente» è mera «temerità». Non si può giudicare dalla faccia, dal corpo, dalla fisiognomica. Socrate insegna, lui che fu un «Sileno di Alcibiade» per eccellenza. La sua proverbiale bruttezza avrebbe fatto pensare a un animo malvagio (il suo originariamente era incline alla «lussuria», se dobbiamo credere a Pla-

tone, coincidenza, quindi, dentro/fuori), ma la filosofia l’aveva opportunamente corretto (Ibidem, 524) sconvolgendo la corrispondenza e simmetria del foris e dell’intus. Bisogna, del pari, sottoporre anche la lingua alle stesse cautele. Benché infatti sia ontologicamente «specchio, et ritratto dell’animo suo [dell’uomo]» e «dal

suono delle parole comprendiamo a dentro le qualità dell’huomo, et dei suoi costumi» (CC, II, 75v), essa conosce la distorsione della

possibilità comunicativa, la menzogna e la falsità. Nel progetto di Guazzo

tuttavia

questa

«possibilità»

va

comunque

esorcizzata:

«chi desidera adunque usar felicemente della civil conversatione,

210 Tra gli altri, questo è uno dei testi guazziani che Montaigne ne l’Art de conférer riporta quasi alla lettera, pur non condividendo appieno l’assunto per l’effetto di pura apparenza di tale coincidenza.

LA

CONVERSAZIONE

NELLA

CONVERSAZIONE

205

ha da considerare, che la lingua è lo specchio, et il ritratto dell’animo suo...» (Ivi). Dalla conversazione

come

«fondamento

della vita», filosofia

del vivere associato e sua «forma», a quello come autoconoscenza si svelano il senso profondo e il valore ontologico e intersoggettivo del linguaggio. La conversazione, tra i suoi sensi primari, registra quello della possibilità di conoscere attraverso la parola: se stessi e gli altri, ma anche il mondo, le cose, le istituzioni.

Qui si afferma l’identità della conversazione come forma linguistica, atto linguistico (il discorso come atto comunicativo/conoscitivo, comprendente l’intento autoconoscitivo e autoreferenziale) e della conversazione come «prattica» sociale, «forma della vita» stessa, vero «diletto» e «piacere» per tutte le persone «in universale». Il Cavaliere avverte dunque il suo interlocutore che non intende avventurarsi in una disputa di tipo medievale. Gli farebbe difetto la conoscenza della topica e dei luoghi retorici: «non appresi mai i luoghi, donde si cavano gli argomenti, et quel, ch’io dico è più per opinione, che per intelligenza; ma desidero bene di darvi cagione d’insegnarmi, più per intendere, che per contendere, et è si grande il piacere ch’io sento, mentre voi rispondete alle mie dimande, ch'io possa dir con Dante: Tu mi contenti sì quando tu solvi, che non men, che saper, dubbiar m’aggrada» (I, 7v).

Comprendere più che disputare. Dubitare anche, per raggiungere il sapere. Montaigne su questa arrière-pensée guazziana scri-

verà pagine memorabili. Al Cavaliere non interessa perdersi in dispute che affatichino lo spirito in sottili «considerationi»; lo «studio del contraddire» distrugge congiuntamente il corpo. La conversazione che si esaurisce nella disputa, e che quindi privilegia l'atteggiamento di chi vuol prevalere sugli altri, non presenta spunti degni della sua attenzione. Anzi ripeterà «senza affettazione» (il Cortegiano docet) argomenti sperimentati da altri o che siano dettati dalla ragione: spetterà ad Annibale giudicarli. Il Cavaliere celerà in definitiva la sua arte; i ragionamenti ne risulteranno «familiari» piuttosto che «affettati» o «gravi», come ha già imparato a fare, dietro scritti altrui o «spirito di ragione», lasciando ad altri il giudizio definitivo: per intendere senza ostacoli né pregiudizi. Si deve allora al Cavaliere la metà dell’opera, risultato della sua strategia discorsiva (I, 19r). Intendere piuttosto che contendere: in questo assunto bisogna ricreare il senso genuino della conversazione. Guazzo, come è risultato, attira l’attenzione del lettore su una

etimologia cara al Rinascimento e che anche l’Iconologia di Ripa

206

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

farà sua. Uomo=insieme. Chi vorrà comprenderla a fondo, insiste la Civil Conversatione,

senza alcun dubbio «s’accorgerà,

che non

si può esser vero huomo senza conversatione; perché chi non conversa, non ha sperienza, chi non ha sperienza non ha giudicio, chi

non ha giudicio è poco men che bestia» (I, 24r). E se la finalità della conversazione e i suoi sensi multipli spesso si intrecciano nell’opera di Guazzo, questi li enuclea tutti riferendoli e riassumendoli emblematicamente nella figura del filosofo che «a luogo, et tempo» ha conversato con i discepoli «per insegnare», con gli altri filosofi per disputare o intendere, o per procurare proseliti alla sua dottrina (I, 13v). La forma dialogica, la conversazione, risulta lo strumento privilegiato tramite il quale la filosofia (Socrate) insegna, comprende,

si arricchisce:

teoria della conoscenza,

della

disputa, della persuasione. Il valore ontologico del linguaggio, la sua ineludibile funzione intersoggettiva, fonda da sempre la finalità precipua della conversazione con gli altri. Strumento del sapere e della moralità concreta la conversazione è l’organo di cui l’uomo si serve «in insegnare, in dimandare,

in conferire, in negotiare, in consigliare, in

correggere, in disputare, in giudicare, in isprimere l’affetto dell’animo nostro, co’ quali mezi vengono gli huomini ad amarsi, et a congiungersi fra loro; et conchiude alla fine che non si può ricever alcuna scienza, se non ci è insegnata da altrui» (Ibidem, 16r; anche II, 75r). Il linguaggio come pratica intersoggettiva e pervasiva il mondo dell'umano, dalle forze conoscitive ai sentimenti più riposti dell'individuo, veicola la possibilità stessa del sapere: «ANN. [...] da cui si imparano comunemente le scienze? — cav. Da maestri. — ANN. [...] con queste parole mi confessate, che il principio, e ’l fine

della scienza dipende dalla conversatione» (Ibidem, 19r). E ancora «la conversatione è il vero affinamento, et l’intera perfettione della dottrina» (Ibidem, 21v). La conversazione si attesta definitivamente, in una delle sue accezioni, come principio epistemologico, che trova nella comunità scientifica la sua contro-prova: «... così come può il letterato assicurarsi del suo sapere, infin che non viene

ad

accozzarsi

con

altri

letterati,

coi

quali,

discorrendo,

et

disputando, si certifica il suo valore» (Ibidem, 19r). La controprova della comunità scientifica è una sorta di «ragione sperimentale», di un experimentum corale conversandi che acquista proprio dalla comunità scientifica il suo statuto epistemico: «... la onde mi pare assai manifesto che 'l sapere comincia dal conversare, et finisce nel conversare» (ivi). «La disputa è il cribro della verità» (Ibidem, 20v). Se ne convincerà Montaigne. Ma lo narravano velatamente le favole degli antichi, i loro miti. Benché Giove fosse onni-

LA CONVERSAZIONE

NELLA

CONVERSAZIONE

207

potente «nondimeno chiamava al concilio gli altri Dij, et ascoltava i sentimenti loro». Lo stesso procedimento seguiva Apelle che dopo aver esposto ‘«in pubblico le sue pitture» se ne stava nascosto «ad udire il parere de circostanti, et dove molti concorrevano nel riprender alcuna parte, non le correggeva egli secondo le communi opinioni?» (Ibidem 21r). L’intellettuale, il letterato,

il filosofo devono

assumere

nel loro orizzonte

comuni-

cativo la «vita commune»: Apelle ritorna se il suo modo di procedere viene assunto a principio metodologico. La verità si «cava» dalle «intelligenze communi»; la pratica degli uomini è il suo macrosegno. Ma data la validità dell’aforisma ippocratico: l’arte è lunga, la vita breve, e del convincimento

che in un solo

uomo non possano concorrere tutte le virtù, la massima funzionalità comunicativa si realizza quando «molti si riducano insieme per far tra tutti un huomo perfetto, si come avviene in queste virtuose adunanze» (II, 148r). Il fiorire umanistico delle Accademie viene delineato su questa esigenza di compiutezza, di enciclopedismo e di sapere universale. È il «magnifico, et solenne convito» (I, 21v), ormai di «desemantizzata origine platonica»,

l’«intertenimento»

modellizzante,

a esorcizzare

al meglio la

«virtù dipinta». I saggi, del resto, amano la solitudine non per natura ma «per difetto del pari loro, con cui possano conversare», dell’interlocutore. La loro è una «virtuosa ambizione» che dà prova «del sapere», «dando, et ricercando scambievolmente di quei frutti che con lunghe fatiche hanno raccolti». Fatica e

socializzazione del sapere, appunto. Il saggio è solo «quando si trova tra gli ignoranti da i quali ha l’animo disgiunto, et astratto». L'assenza dell’interlocutore valido spinge all’afasia o alla retraite.

Al contrario

la dotta

conversazione,

la conversazione

con i propri simili, la conversazione tra uguali ha nella tipologia culturale dell'accademia, soggetto collettivo universale, come suggerisce Quondam, il suo «cuore più interno» ?!!, il luogo più naturale deputato all’«intertenimento», anche se proprio nel convito del libro quarto Guazzo proverà in pieno la necessità di una appropriazione socializzata del rapporto tra sapere e «vita commune» ?!2,

211 A. Quonpam,

L'Accademia,

in Letteratura

italiana,

Einaudi,

Torino

1982, vol. I, Il letterato e le istituzioni, in part. pp. 835-841. L'autore ritiene il testo del Guazzo emblematico, tra gli altri aspetti, per l’analisi della composizione sociale delle accademie nella loro fase cinquecentesca (cfr. p. 836) 212 Ibidem, p. 837.

208

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

Oralità e senso comune

Nella sua polisemia la conversazione si mostra comunque «necessaria alla perfettione dell’huomo». Là sentenza stoica di un teleologismo del mondo vs l’uomo trova piena giustificazione nella Civil Conversatione. E al finalismo Guazzo affianca l’antropologia: l’uomo

«creato

all'uso dell’huomo»

soccorre

il suo simile, si

spinge a «conferire insieme [agli altri uomini] le communi utilità col dare, et col ricevere, et congiungersi, et obligarsi fra loro con l’arti, con l’opere, et con le facoltà» (I, 16v). Un'interrelazione e un’obbligazione mutua fatta di arti, opere, facoltà: un reticolo di interdipendenze,

pone — per la là e al di fuori e l'accademia). conversazione mondo stesso,

una

sorta

di comunità

sovraindividuale,

che

società — il «senso di comunicabilità», anche al di della conversazione tra uguali (il convito tra nobili La conversazione fatta di arti, opere, facoltà è la della pratica del mondo; è il tessuto connettivo del il suo liquido amniotico: il fondamento della vita.

In questa accezione semantizza un significato più ampio e onnicomprensivo rispetto alla conversazione tra uguali che tuttavia

rimane sempre sullo sfondo e continua a rappresentare il modello del principio di comunicabilità, anche se di esso, pare a Guazzo, non ci sia più nulla da spiegare: in questa direzione tutto sarebbe stato detto (Guazzo vs Castiglione, III, 252v). Alla tipologia dei convitati che «in cerchio» parlano negli «intertenimenti» alla corte di Urbino, cosa resta da spiegare? Conoscono le buone maniere e le esplicano; possiedono costumi virtuosi, formano già una «honesta, et lodevole compagnia». Per contro il loro modello di conversazione è pur sempre esemplare. Il modello della conversazione/accademia si presenta come una vera e propria «festa» dell’oralità. In generale per Guazzo la conversazione insegna più dei libri (I, 20r) che platonicamente rispondono sempre allo stesso modo ed esprimono una «virtù dipinta» (Ibidem, 22r). Invece «la prova ci dimostra, che meglio s’apprende la dottrina per l’orecchie, che per gli occhi, et che non accaderebbe consumarsi la vista, nè assottigliarsi le dita nel rivolgere i fogli de gli scrittori, se si potesse haver del continuo la presenza loro, et ricever per l’orecchie quella viva voce, la quale con mirabil forza s’imprime nella mente, oltre che abbattendovi nel leggere in qualche oscura difficultà, non potete pregare il libro, che ve la dichiari, et vi conviene talhora partirvi da lui mal contento, dicendogli se non vuoi essere inteso, ne io ti intenderò; dal che potete riconoscere quanto più util cosa sia il parlare co i vivi, che co i morti» (Ibidem, 20r).

LA CONVERSAZIONE

NELLA

CONVERSAZIONE

— 209

Dimostra di aver compreso la lezione sul primato dell’oralità guazziana Gabriello Frascati. Nella sua lettera inserita da Guazzo

a presentazione della Civil Conversatione, egli mette in relazione oralità, scrittura e lettura. Accanto al compiacimento per «la lettura del vostro libro» egli enuclea la ragione forte: «l’havervi io sentito à ragionar meco pur all’hora [nel momento in cui Guazzo consegna

la CC a Frascati] [...] mi lasciasse

impressa

nell'animo

quella sì grata armonia, che fanno insieme la pronuntia co’ vostri concetti, sì che in leggendo poi, mi pareva proprio di sentirmi [sic] favellare in persona...» Una conversazione nel libro, dunque.

È innegabile. La Civil Conversatione vuole porsi come filosofia dell’oralità,

nella

migliore

tradizione

filosofica;

delle

trame

molteplici e metaforiche dell’oralità sfrutta tutte le risorse. È sempre Gabriello Frascati, lo ricordiamo, corrispondente/recensore di Guazzo a inneggiare al novello Socrate. Il filosofo greco ha portato la filosofia dal cielo sulla terra, Guazzo l’ha «ridotta» dalla scuola dei sofisti (dal suo statuto di retorica) nella «conversatione civile», scienza o retorica della comunicazione intersoggettiva. Guazzo avrebbe «garbatamente» vestito la vecchia filosofia con la politezza (politesse), «abito della virtù» anche per Kant, e l’ha portata a «conversare con tutti, amorevolente». Ha ricoperto e abbellito la filosofia morale con la scienza retorica, tuttavia non

alla stregua dei sofisti, per i quali la retorica riguardava i generi epidittico, dimostrativo e giudiziario. Ne ha tratto una retorica come scienza della comunicazione nella forma della conversazione, non solo in vista del vivere associato, della città, ma anche per gli intertenimenti privati, rivolti alla salute dell'anima e non solo del mondo.

Primato

dunque

dell’oralità 213, della conversazione,

della parola che risponde alla parola, insegna più dei libri, mimesi di una parola che non può rispondere, anzi risponde, per una forma di sordità e di parziale afasia, sempre allo stesso modo. Platonici «giardini scritti», sterili giardini di Adone. Il richiamo a Platone si impone da sé. I testi sono noti. Il Protagora e il Fedro attestano il primato dell’oralità, del dialogo e della parola sulla scrittura. La tematica, appena accennata in Castiglione, giungerà a completa maturazione in Montaigne 2!4. Da

213 Cfr. almeno E.A. HaveLock, Preface to Plato, Harvard University Press, Cambridge, Massachussetts 1963; tr. it. Cultura orale e civiltà della scrittura. Da Omero a Platone, Laterza, Bari 1973; W.J. Onc, Orality and Lite-

racy. The Technologizing of the Word, Methuen, London and New York 1982; tr. it. Oralità e scrittura. La tecnologia della parola. Il Mulino, Bologna 1986. 214 Per Castiglione, /! Cortegiano, cit. I, XXXI, p. 138. Al cortigiano infatti «più spesso» occorre «il servirsi del parlare che dello scrivere». Per la re-

210

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

questo punto di vista il Protagora e il Fedro platonici fungono da testi eponimi. Il discorso scritto 2!5, vi si racconta, se interrogato non risponde, o risponde sempre la stessa cosa: i libri non rispondono nulla e, a loro volta, non hanno nulla da chiedere, «anzi se li

si interroga anche su una questione da poco, come i vasi di bronzo percossi risuonano e vibrano a lungo finché non li si arresta» ?!°. Laconicamente mandano sempre lo stesso suono. Nel Fedro ?!7 Socrate ricorda che Theuth, dio dell'Egitto, fu il primo a scoprire non solo il numero e il calcolo, la geometria

o l'astronomia,

ma

anche la scrittura. Scrittura che procurò «l'oblio nelle anime di coloro che l’apprendono per mancanza di esercizio della memoria, in quanto confidando nella scrittura, arriveranno a ricordarsi a partire dall'esterno, da segni estranei, non dall’interno di se stessi da se stessi...». In analogia alla pittura, inoltre, la scrittura presenta qualcosa di «terribile»: «effettivamente i prodotti della pittura stanno davanti come esseri viventi, ma se fai loro qualche domanda,

ciono solennemente. Lo stesso potresti credere che essi parlino se tu volendo imparare domandi ti indicano una cosa sola sempre discorso circola dappertutto 2!°

tac-

fanno anche i discorsi scritti: come se pensassero qualcosa, ma loro qualcosa di quanto dicono, la stessa» 2!8. Una volta scritto il «tanto in mano di quelli che se

dazione del Libro del Cortegiano segnalo quattro pregevoli edizioni: Sansoni, Firenze 1946, a cura di V. Cian (che resta fondamentale); Utet, Torino 1981, a cura di B. Maier; Rizzoli, Milano 1987, a cura di G. Carnazzi, introduzione di S. Battaglia; Garzanti, Milano 1987, introduzione di A. Quondam e note di N.

Longo. Per Montaigne oltre l’Art de conférer mi riferisco al progetto complessivo degli Essais, improntati all’oralità. Il suo scrivere è in realtà nelle intenzioni dell'autore un «parlare alla carta», un parlare che tiene conto delle repliche. 215 Volendo definire la «retorica» del discorso scritto, Socrate in Platone si esprime nel modo seguente: «...ogni discorso deve essere costituito come un essere vivente, dotato di un corpo proprio, in modo da non essere privo né di testa né di piedi ed avere, invece, parti mediane ed estremità, scritte in maniera appropriata le une alle altre e con l’opera intiera» (Fedro, 264c). Sulla critica della scrittura in Platone cfr. T.H.A. SzLEZAK, Platone e la scrittura della filosofia, Vita e Pensiero, Milano 1988, In., Come leggere Platone, Rusconi, Milano 1991 e J. DeRrRIDA, La pharmacie de Platon, in La Dissémination, du Seuil, Paris 1972; tr. it. La farmacia di Platone, Jaca Book, Milano 1985; G. CERRI, Platone sociologo della comunicazione, Il Saggiatore, Milano 1991. Per una discussione più ampia si veda anche C. Sini, Etica della scrittura, Il Saggiatore, Milano 1992, passim. 216 PLATONE, Protagora, 329a.

217 PLATONE, Fedro, 275a.

218 Ibidem, 275d-e. 21° La stessa preoccupazione coglieva Castiglione, anche se egli riferiva il «periculo del libro» alla sua «multiplicazione» ad opera della stampa che lo

LA CONVERSAZIONE

NELLA

CONVERSAZIONE

211

n’intendono quanto di quelli per i quali non è affatto adatto e non sa a chi deve parlare e a chi no. E maltrattato e ingiustamente vilipeso, ha sempre bisogno del soccorso del padre, perché da sé non è capace né di difendersi né di portarsi aiuto» 220, Socrate, allora, delineata con queste parole la scrittura, invita a «osservare» un altro tipo di discorso, «fratello legittimo» del primo, scritto nell'anima «di chi apprende», capace di difendere se stesso e in grado di sapere «con chi deve parlare e con chi tacere» 22!. Discorso che si «fa vedere» ripeterà Guazzo (CC, II, 83r). Discorso vivente e animato di chi sa, rispétto al quale il discorso scritto «potrebbe dirsi giustamente un’immagine» 222. Il dialogo, i discorsi, del Cavaliere

e di Annibale sembrano ispirarsi direttamente a queste tematiche contenute nel Fedro. Impiegando la tecnica dialettica 223 e colta un’anima adatta (il Cavaliere, ma perché no, anche Annibale) «vi si piantano e seminano discorsi accompagnati da scienza, capaci di portare aiuto a se stessi e a chi li ha piantati» 22. Il Cavaliere si sana perché ha saputo porre ad Annibale domande sollecitanti. Annibale, a sua volta, ne ricava un sicuro beneficio. L’«arma di Achille», il ragionamento dialettico con cui Annibale «ferisce e sana», è germinativo, contiene semi che potranno germogliare in altri discorsi, perpetuandone la fecondità e facendo cogliere, a chi li coltivi, la massima felicità e pareneticamente diventare sempre più «belli interiormeniey #2!

La posizione platonica è stata a lungo oggetto di indagine e di dibattiti ad opera di esperti antichisti ed esegeti 226. Benché nota,

fa cadere in «mani di molti», espropriato, raddoppiato, moltiplicato. L'autore però aveva in mente un fatto specifico: la pubblicazione e diffusione del Cortegiano prima che egli ne avesse autorizzato la pubblicazione (I, I). 220 PLATONE, Fedro, 217e. 221 222 223 224 225

Ibidem, Ibidem, Ibidem, Ibidem, Ibidem,

276a. 276b. 276e. 277a. 279b-c.

226 Oltre i testi già citati alla nota n. 215 vanno ricordati: F. SIRcANA, Le figure platoniche della scrittura e della moneta, in PLuRES, L'ideologia della città, Guida, Napoli 1977, pp. 105 sgg.; M. UNTERSTEINER, Problemi di filologia filosofica, Cisalpino-Goliardica, Milano 1980, pp. 23-32, a cura di L. Sichirollo e M. Venturi Ferriolo; K. Gaiser, Platone come scrittore filosofico. Saggi sull’ermeneutica dei dialoghi platonici, Bibliopolis, Napoli 1984, in part. pp. 77102; H.G.

Gapamer,

Studi platonici,

Marietti,

Casale

Monferrato 1984; M. «Elenchos» 5

ISNARDI PARENTE, Il Platone «non scritto» e le autotestimonianze,

(1984), pp. 201 sgg.; In., /l problema delle «dottrine non scritte» di Platone, «La

212

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

tentiamo di riassumerla anche alla luce della Lettera VII e delle Leggi ? che vanno ad integrare i passi dell’opera platonica sin qui esaminata. Il discorso scritto, «fratello bastardo». e «immagine inanimata» 228, sconta la sua parentela con la pittura; come la pittura, la scrittura non sa far parlare il suo oggetto: se interrogata, continua a tacere la persona dipinta come la parola scritta. Il discorso scritto è infinita ripetizione di sé: come i bronzi percossi, ripete sempre lo stesso suono. La scrittura sfugge al controllo di chi la concepisce e può finire in mano di chi non è in grado di capirla. Non può quindi selezionare i suoi interlocutori e non sa adottare, come invece fa o deve fare il parlante, le regole dell'opportunità: dire oppure tacere a qualcuno, regola aurea anche del Simposio. È inoltre impossibilitata a procedere alla propria difesa e a quella del suo autore: impossibilitata a chiarire equivoci, obiezioni. Nessuna risposta. Come è stato fatto osservare 229, il secondo punto indicato da Platone contro la scritturaè stato interpretato di solito in chiave sociologica nel senso che vi si è scorto una volontà di chiusura, conseguente a una concezione elitaria del sapere e della verità; interpretazione storicamente accettabile ma che lascia da parte, forse troppo, la profonda relazione di questo aspetto con gli altri due argomenti di critica alla scrittura che Platone produce, a cui abbiamo accennato. Più interessante risulta quindi sottolineare, soprattutto per la riproposizione della tematica nella Civil Conversatione, che questo tipo di critica alla scrittura di matrice platonica, si pone sul piano della pragmatica del discorso, in quanto si riferisce, come le altre due, alla dinamica del rapporto trasmissione-ricezione 230: il discorso scritto non rispondendo alle domande né alle obiezioni,

parola del passato», 41 (1986), pp. 5 sgg.; H.J. KRAMER, Platone e i fondamenti della metafisica, Vita e Pensiero,

Milano

19872; M. VecetTI,

Dans

l’ombre

de

Thoth. Dynamiques de l'écriture chez Platon, in PLURES, Le savoir de l’écriture en Grèce ancienne, Lille 1988, pp. 287-419; tr. parz. in Sapere e scrittura in Grecia, Laterza, Roma-Bari 1989, pp. 121-150; M. Tutti, Dialettica e scrittura nella Lettera VII di Platone, La Goliardica, Pisa 1989; M. DETIENNE, L’écriture d’Orphée, Gallimard, Paris 1989; tr. it. La scrittura di Orfeo, Laterza, RomaBari 1990; G. REALE, Per una nuova interpretazione di Platone, Vita e Pensiero, Milano 199110.

227 In questa direzione si muove G. CERRI, Platone sociologo della comunicazione, cit.,

p. 77 sgg.

228 PLATONE, Fedro, 276a. 229 Cfr. G. CERRI, op. cit., p. 84. 230 Ibidem, p. 85.

LA CONVERSAZIONE

non potendo sordità.

NELLA

CONVERSAZIONE

213

scegliere l’interlocutore evidenzia la sua rigidità e

La posta in palio è evidentemente,

sin qui, il sapere, la scien-

za, come oggetti del discorso, trasmissibili solo tramite il discorso orale, il dialogo socratico, la dialettica come tecnica della domanda e della risposta, dell’obiezione e della replica, dell'impegno degli interlocutori. La dinamica stessa del discorso si attua mediante la costituzione dell’oggetto discorsivo, prodotto a sua volta dalla collaborazione dei parlanti, inquisitori e inquisiti. La scrittura, invece, refrattaria a ulteriori interventi rispetto al suo

essere

discorso

strutturato,

è soltanto

un

gioco, come

gioco è

quello, lo abbiamo ricordato, di seminare nei giardini di Adone, sterili giardini scritti, a termine, di nuovo muti. Gioco, imitazione

illusoria, ma anche «promemoria» 231, «provvista, tesoro di ricordi» 232. La teoria dello scritto/promemoria configura quest’ultimo come aiuto per richiamare alla mente la trattazione dialettica a chi ne ha sperimentato la dinamica; funzione ipomnematica della scrittura, selettiva sequenza, conchiusa e irrigidita, di un percorso dialettico. Al di fuori della teoria dei principi, «i principi sommi e primi nella natura», per i quali «non c'è nulla che si possa esprimere in più breve giro di parole» 233, la filosofia ha bisogno di promemoria. E proprio la teoria dei principi sommi e primi della natura è affidata alla «dottrina non scritta» 234, sensa tacere

poi che i dialoghi scritti di Platone possono essere considerati dialoghi a più voci, poiché prevedono obiezioni e diverse soluzioni allo stesso problema. È senz'altro da condividere la tesi secondo la quale la critica che Platone rivolge alla scrittura non è da considerarsi una critica alla scrittura tout court, ma alla rigidità e fissità testuale di cui sopattutto il discorso scritto è portatore; circostanza che può inerire, come

è stato efficacemente

sottolineato,

anche

al discorso

orale qualora sia concepito con criteri analoghi (fissità e rigidità, ripetizione mnemonica di una parola chiusa). Il discorso non scritto, ma memorizzato parola per parola, presenta le difficoltà elencate per il discorso scritto. Si deve leggere qui, allora, una critica più generale al discorso a testo fisso, al discorso strutturato in base ad una precisa idea compositiva: è il caso del discorso retorico. L'opposizione, quindi, tra oralità e scrittura in Platone può

231 232 233 234

PLATONE, Fedro, 275d. Ibidem, 276d. PLATONE, Lettera VII, 344d-e. Cfr. note nn. 215 e 226.

214

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

essere ricondotta sotto il segno dell'opposizione discorso aperto e discorso a testo rigido ?35. L'uno, discorso disinteressato alla ricerca della verità, aperto a tutte le domande possibili, dialogico e orale necessariamente,

capace

di affrontare

nuovi

problemi,

di

trasformarsi in un altro discorso: il suo sviluppo è imprevedibile; ogni progresso è la conseguenza necessaria di quello precedente, a volte contro l’aspettazione e la volontà dei parlanti. Il logos orale è proprio del discorso aperto, senza struttura. Dall'altra parte il discorso che sostiene tesi preconcette, progettato parola per parola da un singolo autore, il quale si rivolge agli altri ma non entra in dialogo con loro. È la parola chiusa, foriera del proprio svolgimento e della propria conclusione: la parola che sa di sé, inalterabile: per la sua conservazione si affida al libro o al discorso strutturato.

Si tratta, come è stato osservato, della retorica che pretende di porsi come tecnica della persuasione proponendosi il prevalere di chi parla a prescindere dal problema della bontà o utilità della tesi espressa: messaggio

suasorio,

a una dimensione,

con un fine

precostituito cui Platone nega lo statuto di scienza sia per ciò che attiene ai contenuti, sia per ciò che attiene alla forma (la nuova retorica dovrà commisurare la forma e l’impostazione del discorso all’animo di chi ascolta; la vera retorica deve presupporre il possesso della dialettica da parte dell’oratore, non identificandosi mai con essa). Il lungo percorso della ricerca dialettica spetta a chi abbia l'opportunità e la capacità di seguirne il cammino. Invece il discorso chiuso, strutturato in funzione della persuasione e del suo stesso fine, partecipa dell'opinione, dominio della doxa, «formazione e informazione di massa» 239. La tesi proposta da Cerri, senz'altro condivisibile, è riassumibile come segue: per Platone

il discorso dialettico-filosofico, discorso aperto e non strutturato, è necessariamente orale; al contrario del discorso persuasivo che,

in quanto discorso strutturato, a testo chiuso, può essere indifferentemente orale o scritto, presentando in entrambi i casi svantaggi e difetti. Nei confronti del discorso strutturato, bisognerà però riconoscere alla struttura, in questo orizzonte teorico, una indubitabile funzione positiva, strumento di composizione e conversazione più

235 G. CERRI, op. cit., p. 93. E si veda ancora, sull’intera questione, A. KoyrÉ, Introduzione a Platone (1946), Vallecchi, Firenze 1973 e G. RyLE, Pla-

to's Progress, Cambridge n.p. 1966; tr. it. Per una lettura di Platone, Guerini e ass., Milano 1991.

236 Ibidem, p. 108.

LA

CONVERSAZIONE

NELLA

CONVERSAZIONE

205

preciso ed efficace della memoria. La scrittura allora finirà per perdere l’assoluta connotazione ipomnematica, funzione su cui il Fedro insiste nei confronti del discorso dialettico, ma acquisterà — allorché la si collochi nell’ottica della persuasione e della trasmissione della doxa — una valenza per così dire non pleonastica, anzi si configurerà come vero e proprio elogio della scrittura. In particolare in un passo delle Leggi, interpretabile a prima vista come una palinodia della critica alla scrittura contenuta nel Fedro e nella Lettera VII. Nelle Leggi, infatti, Platone riconosce il «grande aiuto» che viene alla legislazione saggia dalla circostanza che le prescrizioni «una volte messe per iscritto, dando esse ragione di sé in ogni tempo, sono salde, e non bisogna temere che in principio siano difficili da intendere: che sarà lecito più volte anche all’ignorante tornare più volte a esaminarle; né bisogna temere che siano lunghe dal momento che sono utili. Non è dunque ragionevole [...] che, entro i limiti della propria forza, ogni uomo non debba portare il suo contributo a tali discorsi» 237. Si coglie immediatamente il senso dell'ampliamento e della complessità della problematica. Ecco che il discorso scritto può rispondere: chi non lo ha capito può rileggerlo tante volte, fino a capire. La scrittura aveva bisogno del padre che l’aprisse, quasi come i sileni: nuovi discorsi, nuove repliche. Ora l’aiuto viene dalla scrittura

stessa,

dal fatto

di essere

discorso

scritto

dal suo

autore e dal suo impegno profuso nella scrittura. Non si tratta come è stato osservato di contraddizione. In realtà nelle Leggi è cambiato il referente del discorso scritto: non si tratta del discorso scientifico, ma di quello persuasivo, non della verità ma dell’opinione, formule da intendere nel loro senso letterale, da memorizzare come ingredienti di una cultura doxastica 238, come sociologia della comunicazione. Opportuno il richiamo ad Aristotele, generalmente più trascurato in proposito. Nel De interpretatione ?39 Aristotele ribadisce il privilegio dell’oralità sulla scrittura allorché istituisce una gerarchia tra le affezioni che hanno luogo nell’anima e i suoni della voce: le espressioni e le lettere scritte, al contrario, si configurano come simboli dei suoni. Un legame indissolubile viene enunciato tra memoria

e verità, memoria

e conoscenza.

ferenza tra memoria delle parole

Si istituisce una dif-

e memoria delle cose, distinzio-

237 PLATONE, Leggi, 890e-891a. 238 Cfr. G. CERRI, op. cîit., p. 217. 239 1, 16a. Per queste annotazioni rimando all’Introduzione di F. Sircana a ARISTOTELE, De anima, Le Monnier, Firenze 1987, pp. 7-32.

216

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

ne che verrà ripresa notoriamente da Cicerone. Si instaura un legame complesso tra verità, sapere, parola, scrittura e memoria. La scrittura viene a configurarsi come una varietà della memoria artificiale. Cicerone e Quintiliano riconoscono in Simonide di Ceo

l'artefice del perfezionamento in Grecia del sistema di notazione alfabetica, valido aiuto alla memoria se i «luoghi» sono impressi nella mente 24. In ogni caso per Platone, come più tardi per Guazzo e Montai-

gne, memoria è madre delle Muse. La visione su cui si fonda la memoria non è uno sguardo gettato sul testo; essa non fa alcun appello «al rilievo grafico del significante»; non ha nulla in comune con la memoria visiva che associa i contenuti concettuali all’aspetto di una superficie composta di segni scritti. Corrono invece alla mente luoghi, oggetti, volti che porgono supporto a una parola deformata. Nella gnoseologia aristotelica sarà motivo di perplessità e d’imbarazzo il rapporto che viene a istituirsi tra la parola corrotta,

degenerata

e lo sguardo,

fonte

di corruzione

della

realtà, condizione e fondamento di ogni teoria. Si sconta qui il peso dell’irriducibile scansione epistemologica che distanzia nettamente due forme di sapere: la vista data dalla natura a tutti gli animali per migliorare la qualità della loro esistenza 24, quindi non indispensabile, a differenza del tatto, essenziale ai fini della sopravvivenza. Se da una parte lo sguardo fonda il rapporto solitario dell’uomo con la realtà naturale, l’udito e il linguaggio istituiscono la relazione sociale e culturale. La voce è il segno linguistico, non segno della cosa. Tra le ragioni dello sconcerto platonico di fronte alla scrittura il Fedro, lo abbiamo sottolineato, registra l'intrusione dello sguardo nell'economia del significato: in quanto sceglie come veicolo della comunicazione un segno visibile ma irriducibilmente muto, la scrittura si situa in quella strana condizione simile a quella della pittura 24. Al contrario l’esercizio del linguaggio relega, nella forma della comunicazione, dell’insegnamento e per Guazzo della conversazione, lo sguardo a una funzione secondaria, al contrario della scrittura e della sua funzione

mnemotecnica. Questo vuol indicare Platone quando afferma di voler attribuire alla scrittura il rango di ricetta per richiamare alla mente 24, mai veicolo di diffusione del sapere, ma supporto

XIII

240 Per Cicerone, A224

de orat., II, LKXXVI,

241 ARISTOTELE, De anima, III. 435b. 24 PLATONE, Fedro, 275d. 24 Ibidem, 275a.

351-354;

QUINTILIANO,

inst. orat.,

LA CONVERSAZIONE

NELLA

CONVERSAZIONE

217

per il ricordo di ciò che è noto. Nome e discorso sono suoni della voce. La trama metaforica dell’oralità rimanda alla trama metaforica della scrittura, pittura e immagine, giardino scritto, giardino di Adone. Come per Aristotele, per Montaigne chi scrive esplicita un contenuto mentale che la scrittura simultaneamente tradisce e rivela, illustra e nasconde, confondendo

il lettore 24. La lettura è

operazione complessa che intrica chi la effettua nel registro di un’ambiguità difficile da ridurre e non consente facili certezze.

Erede legittimo di questa ipotesi interpretativa, Guazzo proclama che «dalla viva voce» si apprende meglio; gli argomenti esposti ne beneficiano in chiarezza, è concessa la delucidazione e la replica. Il libro non può sciogliere eventuali difficoltà che si presentano al lettore: meglio è «il parlar co i vivi, che co i morti». Non si legge qui solo la difesa socratica dell’oralità. Ci sono altre ragioni, intime e profonde, che devono spingere alla conversazione: la disputa è «il cribro della verità», «perché la verità si cava dalle intelligenze communi, non si possono apprendere queste intelligenze se non co’l pratticare, et questo vollero inferire i Poeti, raccontando che quantunque Giove fosse onnipotente Iddio, nondimeno chiamava al concilio gli altri Dij, et ascoltava i sentimenti loro» (I, 20v). Se la disputa è étamine, come amerà ripetere anche Montaigne, cribro o setaccio della verità, in questo asserto non assistiamo solo al primato epistemologico dell’oralità sulla scrittura, ma del pari all’esaltazione dell’intelligenza comune, esercitata nella conversazione, del sapere «commune», sapere sociale collettivo,

interpersonale, in cui è possibile leggere l’altra dimensione della conversazione. Accanto alla pratica dotta del sapere, si attesta il sapere che si «cava» dall’intelligenza ordinaria (la stessa del lettore «ordinario» scelto da Guazzo come allocutore della Civil Conversatione), e non solo come la somma dei saperi raffinati, comparati, perfezionati nella disputa e nella pratica dell’intelligenza collettiva dei dotti (l'Accademia), il «solenne convito». Non si può escludere che queste considerazioni servano a Guazzo, e vengano utilizzate in tal senso, per dimostrare che la verità può essere attinta solo come risultato di un sapere collettivo che si confronta anche in una conversazione tra «disuguali», vaglio del sapere. Che si tratti, in definitiva, della conversazione tra uguali (la corte, le Accademie) o della conversazione tra disuguali (principe/nobile,

244 ARISTOTELE, De anima, I. 404a.

218

LA VIRTÙ

nobile/ignobile,

ELOQUENTE

uomo/donna,

in casa/fuori

casa,

dotti/ignoranti,

cittadino/straniero, ecc.) si tratta pur sempre di intelligenze a confronto che comunicano, si autocorreggono, progrediscono nel loro sapere, qualsiasi grado di scientificità presenti. La disputa, infatti, si configura anche come mezzo di autocorrezione («chi è ripreso si ravvede, et si corregge») e serve da stimolo alla negligenza. Facendo ricorso ad una metafora tratta dal mercato, Guazzo allu-

de a una maggior efficienza procurata dalla e nella concorrenza. Inoltre: si reca a vergogna il cedere a «uno eguale»; così grande onore è reputato il poter avanzare nella disputa un «superiore».

Alla dimensione epistemica della conversazione, «vero affinamento» e «intera perfettione della dottrina», si affianca la consapevolezza della funzione della «intelligenza commune» come criterio di verità: «giova più al letterato un’hora, ch'egli dispensi nel discorrere tra i suoi uguali, ch’un giorno di studio in solitudine, anzi nel conferire si sganna molte volte degli errori, ch'egli ha preso da se stesso, non havendo indirettamente inteso il senso delle scritture, et viene a ravvedersi ch’el giudicio d’un solo di leggieri esser offuscato dal velo dell’ignoranza, o d’alcuna passione, et che nella moltitudine non avviene così facilmente che tutti s’abbagliano» (I, 21v-22r). Solo la conversazione può far acquistare il «sentimento commune», la «perfettione delle scienze», e fa giungere «all’altezza de gli honori, et dei beni del mondo» (Ibidem, 23v). Assistiamo tuttavia a uno slittamento semantico, parzialmente annunciato in queste pagine, riguardo al concetto stesso di «intelligenze communi» che dalla conversazione tra uguali si spinge con arte (sottile: ars est...) alla conversazione tra disuguali e a identificare in senso lato, nella «comunità»,

il criterio e il cribro

per l'approvazione di qualsiasi pratica: il pontefice si rivolge ai concili, i principi ai consiglieri, i magistrati alle sentenze dei dottori (giureconsulti), i medici nella cura degli infermi si uniformano «col giudicio della maggior parte»; Apelle espone al pubblico le sue pitture e rimane nascosto ad ascoltare il parere degli astanti, correggendole secondo «le communi opinioni»; un altro pittore affermava che «il popolo era il maestro, da cui aveva appreso l’arte sua» (Ibidem, 21r). Un imperatore inviava «tutto il dì» spie per cogliere quel che si dicesse di lui, rinnovando poi le sue azioni in base alle «loro relationi». Con abilità Guazzo ci ha condotto a una nuova equazione: l’identificazione dell’«intelligenza commune» con l'intelligenza ordinaria, di tutti, anche dei disuguali. In luogo dell’ambiguità con cui egli aveva investito in un pri-

mo tempo il sintagma «intelligenze communi», che per il contesto

LA CONVERSAZIONE

NELLA

CONVERSAZIONE

219

sembrava semantizzare la conversazione tra uguali, si riafferma invece l’identificazione della verità come risultato del giudizio comune e si postula, in tal modo, una disuguaglianza capace di costituirsi quale fonte di verità. Certamente

Guazzo

esalta

la conversazione

tra

uguali,

le

Accademie, i prototipi dell’Architesto, le sue «imitazioni»: l’Accademia degli Invaghiti di Mantova, fondata da Cesare Gonzaga, quella degli Affidati di Pavia, quella degli Illustri di Casale seguaci del motto ippocratico: l’arte è lunga, la vita breve. Gli affiliati all'Accademia «discorrono» di diversi argomenti, delle «divine» e delle «humane historie», di filosofia, poesia, ecc. (Ibidem, 21v). «Imitano» coloro i quali convengono in un luogo (la corte?) con altri, «conferiscono insieme le loro portioni, delle quali compongono uno magnifico, et solenne convito. Et perciò con molto giudicio fu detto, che l’uomo è Dio all’huomo, poscia che l’uno riceve tanto giovamento dall’altro» (ivi). Ma il suo interesse ora va al «sentimento commune», a quella prefigurazione del senso comune come «senso universalmente comunicabile» di vago sapore kantiano 24. Certo Kant nega al senso comune un valore etico decisivo (Critica della ragion pratica) —

la vera conoscenza del bene è indipendente da un sentimento o senso comune etico: la decisione della comune ragione umana per

245 I. KANT, Kritik der Urteilskraft, AK, Bd V, 295; tr. it. cit., p. 153 (d’ora

in poi con la sigla CDG). Su questo aspetto della problematica si è da tempo esercitata la storiografia contemporanea dando vita a un filone interpretativo molto prolifico. Cfr. in particolare: E. GarRONI, Estetica ed epistemologia, Bulzoni, Roma 1976; Inp., Senso e paradosso, Laterza, Bari 1986; L. SCARAVELLI, Scritti kantiani, La Nuova Italia, Firenze 1968?; S. Marcucci, Aspetti epistemo-

logici della finalità in Kant, La Nuova Italia, Firenze 1972; W. HocreEBE, Kant und das Problem einer transzendentalen Semantik, Alber, Freiburg-Minchen 1974, tr. it. Per una semantica trascendentale, Officina, Roma 1979; Ip., Er-

kenntnistheorie

ohne

Erkenntnis.

Aspekte

der Asthetik

im Blick auf Kant

[datt. 1982] ora in PLURES, Statuto dell'estetica, Mucchi, Modena 1986, pp. 203221; M. Mopica, Che cos'è l'estetica, Editori Riuniti, Roma 1987; E. WEIL, Problèmes kantiens, Vrin, Paris 1970, tr. it. Problemi kantiani, QuattroVenti, Urbino 1980, a cura di P. Salvucci e P. Venditti; K.0. ApeL, Transformation der Philosophie, Suhrkamp, Frankfurt 1973; tr. it. parz., Comunità e comunicazione, Rosenberg & Sellier, Torino 1977; In., Le problème de l’évidence phénomé-

nologique à la lumière d'une sémiotique transcendentale, «Critique», 464-5 (1986) pp. 79-113; H. PaRRET, Principes de la déduction pragmatique, «Revue internationale

de Philosophie»,

30 (1976), pp. 486-510; Ip., L’axiologisation

de

la pragmatique, «Archivio di Filosofia», 1-3 (1987), pp. 13-38; P. RICOEUR, «Logica ermeneutica?» (1981), ora in «aut aut», 217-218 (1987), pp. 64-100; L. Amoroso, Senso e consenso, Guida, Napoli 1984; P. MontANI, // linguaggio, il senso e

l'esemplarità ermeneutica della poesia, Documenti di lavoro, 178-179 (1988), pubbl. del Centro Internazionale di Semiotica e di Linguistica, Università di Urbino.

220

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

la moralità poggia sul sentimento, sul cuore e non è influenzata dal concetto di dovere in quanto tale; e ne disconosce il valore conoscitivo (Prolegomeni) 24 — il senso comune non può decidere nulla perché non sa giustificare se stesso nei suoi principi 2. Comunque

nella Critica del Giudizio esso è assunto, è noto, come

«comune ragione umana» (par. 40). L’«intelligenza commune» di Guazzo è la «comune ragione umana», quell’intelligenza «sana» cui si deve aspirare per meritarsi il nome di uomo. Senso comune come senso universalmente comunicabile che si prefigura, invece, in Guazzo con una valenza e uno spessore teorico-conoscitivo, in

quanto espressione di un consenso generale che abbia funzione teoretica: dall’intelligenza comune si cavano i frutti delle scienze. Anche se non si può negare che per Kant l'estetica è una epistemologia della comprensione ?4. In Guazzo il senso comune ?* è il senso del vero che l’universalità degli uomini possiede. In quanto unico senso insito in tutti gli esseri umani che presenta una struttura logica, realizza l’accordo di tutti gli uomini nella conoscenza. L’autore della Civi/ Conversatione ne fa il veicolo conoscitivo privilegiato in quanto da tutti partecipabile. È proprio nella conversazione, secondo Guazzo, che tale senso comune ha modo di pervadere tutte le dimensioni epistemiche. La sua «razionalità» consiste nel ragionare secondo concetti e sembra che nella Civil Conversatione si assista a una sua identificazione (circostanza che si realizzerà in Kant solo limitatamente) con la ragione tout court. In Kant infatti spetta al giudizio estetico piuttosto che a quello intellettuale il nome di senso comune. Ancora. Nella Civil Conversatione (come per il Kant della Critica del Giudizio) senza il sentimento o senso comune è impossibile comunicare la conoscenza. Il consenso universale, l’intelligenza comune, sembra essere anche qui il frutto maturo della civil conversazione, memore

beninteso del dialogo valliano De vero bono ?%, in

cui si giunge all’identificazione del senso comune

con il sommo

246 Per la Kritik der praktischen Vernunft, AK, V, 155; tr. it., Laterza, Bari 1971, p. 186; per i Prolegomena cfr. Vorwort, AK, IV, 259; tr. it., Laterza, Bari 1979, p. 8.

I CNGIPIEZINE 248 Cfr. nota n. 245. 24° Sulla disseminazione lessicale della categoria costitutiva di «commune» nella Civil Conversatione si è occupato A. Quondam, La virtù dipinta, cit., pp. 281 sgg. 250 Questo tipo di approcio è perseguito da B. GERL, L'importanza filosofica del senso comune. Confronto critico tra Kant e Lorenzo Valla, in PLURES, Il senso comune, «Archivio di filosofia», 1970, pp. 157-170.

LA CONVERSAZIONE

NELLA

CONVERSAZIONE

221

bene. Guazzo da parte sua si approssima molto a questo indirizzo di ricerca: il sentimento del bene e del vero, l’etica e l’episteme risiedono nel senso comune, organo di verità e conoscenza. E c’è di più. In questa direzione il senso e il sentimento comune diviene l'assoluta misura del comportamento della comunità. Una sorta di irresistibile irruzione della verità nella ragione di tutti, ragione che si esibisce, cresce, produce ulteriori conoscenze nello scambio intersoggettivo della conversazione, che si delinea come punto più alto di ciò che è «universalmente comunicabile».Solo nella conversazione la ragione di tutti,-il senso comune,

letto comune prende coscienza verità del singolo.

di essere

o sentimento o intel-

superiore

alla ratio o

Senso comune in Guazzo si identifica, allora, con il sentimento della comunità, un co-sentirsi, un sentimento che abbiamo in comune, sentimento della soggettività in quanto intersoggettività. Avrebbe aggiunto significativamente Kant: «...ognuno aspetta ed esige dagli altri che si abbia in vista questa comunicazione univer-

sale, quasi come se fosse un patto originario dettato dall’umanità stessa» 251, L’aneddoto di Archita, come abbiamo ricordato, scelto

da Guazzo e poi ripreso, tra gli altri da Montaigne 252, sembra andare già nella direzione di un senso comune estetico come senso della comunicabilità e della comunità: le visioni delle bellezze del macrocosmo, del mondo, non sarebbero dall’individuo adeguatamente apprezzate, se quest’ultimo non avesse alcuno cui poterle «communicare» (I, 16v). E Kant: l’uomo solo nella società comincerà a comprendere di non essere semplicemente uomo, «un uomo distinto nella sua specie (ciò che è principio di incivilimento): perché così è giudicato colui che è disposto e capace di comunicare agli altri il proprio piacere, e che non è soddisfatto da un oggetto, se non ne può condividere con gli altri il piacere» 253. Gli uomini sono interdipendenti, lo sosteneva anche Kant, non solo nei bisogni, ma anche per quanto riguarda la loro facoltà somma, l’intelletto, che non può funzionare al di fuori della società umana 254. La buona compagnia, allora, è veramente indispensa-

251 I. KANT, CDG. cit., AK., V, 297; tr. it. cit., p. 154. 252 M. De MONTAIGNE, Essais, cit., III, IX, p. 986-987;

tr. it. cit., p. 1315.

L’aneddoto è ricorrente nei testi umanistici. 253 I. KANT, CDG, ivi.

254 I. KANT, Beobachungen..., cit. AK. II, 209-210; tr. it. cit. pp. 295-296. La tesi della Arendt è nota. La CDG., più delle altre, si riconnette al problema della politica (H. ARENDT, Teoria del giudizio politico, cit. p. 25). Una critica alla posizione arendtiana sul senso comune si legge in E. Tassin, Sens commun et communauté. La lecture arendtienne (1987), pp. 81-113 (in part. pp. 96-113).

de Kant, «Cahiers

de Philosophie»,

4

222

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

bile per l'essere pensante. In questo senso risulta condivisibile la tesi della Arendt secondo la quale la Critica del Giudizio o del gusto sia stata scritta da Kant in risposta al problema della «socievolezza» e le stesse Osservazioni sul bello e sul sublime si lasciano leggere come se fossero state scritte da uno dei moralisti francesi. Si ricordi il sogno di Carazan, uomo ricco che aveva «chiuso il cuore» agli altri uomini e «stretto i suoi tesori in un pugno di ferro». Nel suo viaggio nell’al di là, una sorta di onirico Somnium Scipionis dell’uomo moderno nel suo progressivo allontanamento dagli uomini e dallo stesso universo, egli prende coscienza dell’inutilità della sua ricchezza, del pericolo della sua solitudine. Si deve leggere qui un artificio ben riuscito per la critica della solitudine dell’uomo moderno. Kant esprime già qui, ma in modo dispiegato nella Critica del Giudizio, «il pensiero della comunità nel seno stesso della comunità» e si attesta come «pensatore del comune». Qualcuno ha letto in queste intenzioni, un invito a non uscire dalla caverna platonica ?55.

Non è un caso che Guazzo alla «retorica della conversazione» premetta,

nella struttura

complessiva

della Civil Conversatione,

un primo libro in cui attesta la fondamentale socievolezza dell’uomo e la comunicabilità entro cui pensare il pensiero stesso e il linguaggio che lo manifesta. La pluralità dei soggetti non ha compiuto senso se non collegata a una comunità politica di parlanti e ascoltatori. Il parlare e l’ascoltare sono eminentemente politici e Guazzo invita a fare uso del pensiero e del linguaggio come fini. E il punto di partenza di una società che parla è appunto il senso comune. Allo stesso modo di Socrate, Guazzo (e anche Kant), lo ricordava Frascati, mette in opera le massime del senso comune. Un pensiero che «dal cielo» scende sulla terra per risultare valido e utile agli uomini deve pensarsi libero da pregiudizi, sottoponibile al giudizio altrui, reso pubblico dal dialogo e sottomesso ai criteri della comunicazione (la retorica) e per divenire pensiero conseguente risultare dalla prova. Che altro significa che il sapere inizia e finisce con la conversazione e che la conversazione è cribro della verità, se non che il pensiero (e il linguaggio) presuppone la comunità e ha per fine la comunità stessa? Di qui la sua politicità. Il pensiero e il linguaggio presuppongono una comunità di uomini

255 Cfr. E. TassIn, Sens commun

et communauté,

cit., p. 83.

LA CONVERSAZIONE

NELLA

CONVERSAZIONE

223

a cui rivolgersi: che ascolta e risponde. Cicerone aveva indicato con l’espressione «in communibus infixa sensibus» il suo concetto di senso comune ?$, di cui la natura ha voluto che nessuno rima-

nesse privo. Il senso comune per Guazzo è il senso di ciò che conviene alla comunità, il suo inter esse, la sua dimensione etica, anzi

«ein Kriterium der Ethik» come suggerisce Richard Auernheimer 257. La conversazione risulta la condizione necessaria della comunicabilità (senso comune) e mette a nudo l’essenza necessariamente comunitaria degli esseri umani.

Bernard Lamy nell’esordio della sua Retorica esprimerà con efficacia questo concetto: «Non sarebbono punto sociabili gli Uomini, se gli uni cogli altri corrispondere non potessero con sensibili contrasegni di ciò che pensano, e di ciò che vogliono» 258.

Civil conversazione e conversazione tra disuguali

Con un’abile «tessitura delle parole», muovendo dalla distorsione della possibilità comunicativa causata dalla «malignità» degli interlocutori sulla «scena del mondo» sottolineata dall’analisi del Cavaliere, Guazzo

riafferma non solo la validità della con-

versazione tra dotti o tra nobili (come modello dell’Architesto) ma si impegna strategicamente e prepara il terreno per affermare e abilitare, agli occhi dei contemporanei, la conversazione tra «disuguali»: «...qualunque persona havrà riguardo a queste ragioni [al concetto di socialità] [...], s'accorgerà che non si può essere vero huomo senza conversatione» (I, 23v-24r). Lo «stare insieme», la

dimensione

essenzialmente

sociale,

politica,

«conversativa»

e

«communicativa» dell’uomo, implica per il suo stesso esserci e svilupparsi un cum versari diseguale, basato sulla disugualianza e «dissimilitudine della vita». Guazzo aveva evidenziato la funzione epistemologica della conversazione ma di fronte a tipologie «conversative» variegate, per fugare ogni dubbio fa chiedere al Cava-

256 CICERONE, de orat., cit., III, 195. «Perché nessuno si chieda con meravi-

glia, in qual modo la turba dei profani noti queste finezze quando ascolta, vi dirò che grande, anzi incredibile è la forza della natura in questo campo come in ogni altro. Tutti gli uomini,

infatti, in virtù di un loro incosciente istinto

(tacito quodam sensu) [...] sono capaci di giudicare i pregi e i difetti di un’opera d’arte o di un problema scientifico». 257 R. AUERNHEIMER, Gemeinschaft und Gesprich. Stefano Guazzos Begriff der ‘Conversatione civile’, Fink, Miinchen 1973, p. 94. 258 B. Lamy, La Rettorica ovvero l’arte di parlare..., tradotta dalla lingua

francese nell'italiana, Lucca 1750 (ed. or. 1687), p. 1.

224

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

liere: «qual sorte di conversatione s’habbia ad eleggere...?» (Ibidem, 28r). Qual sorte di conversazione? La risposta di Annibale lo spinge verso un significato che prevarrà, pur con la sua polisemia, in tutta l'economia del testo: «Io escludendo tutte le altre, propongo a questo effetto la civil conversatione» (Ibidem, 30v). Prima di riflettere ulteriormente sul significato di «civil conversatione»

e, per così dire, scandagliarne

il «titolo» che Guazzo

esibisce, è opportuno ripercorrere brevemente le note argomentazioni preliminari al dichiarato intento definitorio. Chiarire, infatti, la qualità («qual sorte») della conversazione non esaurirebbe la «catena dei nostri discorsi» (Annibale) perché sarà anche necessario procedere alla definizione «delle generali maniere che hanno a tenere tutti gli huomini nel conversare» (ibidem 28v). Questo genere di analisi della pratica conversazionale implica la sua identificazione con un codice di comportamento normativo e/o con il trattato delle buone maniere. Almeno anche questo. Un trattato per il quale bisogna soprattutto tener presente che «non si può conversare con tutti ad un medesimo modo», implica una precettistica e una topica delle «particolari maniere appartenenti a ciascuna sorte di persone» (ivi). Questa prima duplice formulazione del problema (esigenza di un trattato sulle generali maniere del conversare comuni a tutti gli uomini / assunzione di una precettistica fondata sulla necessità che non si può conversare con tutti allo stesso modo; universale/particolare) realizza di fatto la possibilità/impossibilità dell’esistenza di simile trattato, o almeno la sua propria ambiguità strutturale (o ne segna la nascita all’insegna dell’ambiguità). Ma all’insistenza del Cavaliere che vorrebbe venire a conoscenza «di tutte le cose appartenenti alla conversatione» al fine di non tralasciare nulla «con questo o con quello», con i vari ipotetici interlocutori,

Annibale

risponde di trovarsi,

da buon filosofo,

nell’impossibilità di fornire tutti i particolari. Tra l’altro non si può aver «certa, et determinata scienza de’ particolari in particolare» (Ibidem, 28v). E adesso è il Cavaliere ad approdare al concetto di conversazione tra disuguali, anzi a valutarne genesi, significato e conseguenze. La conversazione,

secondo questo punto di vista, non è dise-

guale per la «diversità delle cose» che occorrono nel conversare, quanto per «la dissimilitudine della vita, et de’ costumi delle persone con cui si conversa». L'impresa di Annibale prospettata dal Cavaliere era, in questa direzione, rivolta allo scacco: una fatica maggiore di quella di Ercole. Annibale dovrà esimersi dal doverne «compiutamente parlare, perché essendo gli huomini tra loro differenti di grado, d'età, di sesso, di conditione, di vita, di costumi,

et di professione, sarebbe cosa malagevole, et di lungo tempo il

LA CONVERSAZIONE

NELLA

CONVERSAZIONE

225

proporre a pieno quel, che si convenga a ciascuno di questi, et a chiunque con essi ha da conversare, et credo che quando si sarebbe data la forma a tutti questi; non per ciò sarebbe compiuta l’opera; perché non solamente conviene haver riguardo della dissimilitudine, che si vede tra una spetie, et l’altra, ma a quella che si vede tra le persone d'una sola spetie, perché non solamente sono differenti di costumi i giovani da i vecchi, et i nobili da gli ignobili, ma sono differenti i giovani tra loro, si come è anco differente di costumi un vecchio da un'altro vecchio, et un nobile da un'altro

nobile» (Ibidem, 28v-29r). Quindi si può ben affermare che la politesse nasca dalla disuguaglianza ma in un certo qual modo la cancelli instaurando una forma di uguaglianza: tutti si devono comportare secondo le regole stabilite dalla normativa. La «dissimilitudine della vita, et dei costumi» (Cavaliere) diviene la differenza (Annibale) che, riconosciuta a fondamento della conversazione disuguale, di fatto cerca di instaurare la forma della conversazione civile, ovvero «alcuni modi generali, et più

necessarij, co’ quali si avranno a ridurre tutte [le differenze] ad una legge» (ivi). Riguardo alla forma che si richiede nel conversare con quelle persone differenti di grado, et di conditione» (la «conversatione diseguale»), Annibale dichiara che sua intenzione non è di «stare a discorrer compiutamente de’ loro ufficij, et di proporre tutte quelle virtù morali, ch'appartengono alla perfettione, et alla felicità della vita» (ivi). La «forma» della conversazione diseguale — la forma della vita e della sua «dissimilianza» — richiederebbe risposte a quesiti filosofici ed etici di cui Guazzo apparentemente dichiara di non voler farsi carico (un assunto questo cui non resterà fedele, come in parte abbiamo dimostrato). I testi in proposito sono noti e sono stati già richia-

mati. Il mondo è pieno di «precetti di filosofia»: «quanto più abbondano hoggidì i libri della filosofia, tanto più mancano i filosofi» (Ibidem, 29r-v), fa eco il Cavaliere, fornendo a Montaigne temi per ulteriori riflessioni. Tuttavia Annibale ha in serbo un’altra ulteriore

ragione,

come

si è costatato,

per

sottrarsi

a una

discussione compiuta, sistematica e onnicomprensiva dell’Etica (cfr. anche II, 92r). Una ragione ben delineata. Il libro ha scelto il suo interlocutore (e il suo lettore) augurandosi per lui un «beneficio universale», anche per chi, in un certo senso, difetti di pratica

di virtù. Il destinatario del libro non è tanto l’uomo «di compiuta virtù» ma il lettore «poco intendente», il classico «idiota», già presente nella dedica a Vespasiano; un lettore che deve ancora compiere un lungo cammino e in questo senso allora il discorso guazziano diviene anche un discorso parenetico. Solo la civil conversa-

226

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

zione, proponendosi un beneficio universale, può essere eletta a mezzo più idoneo per raggiungere ogni tipo di lettore. Annibale ora può, coerentemente con gli assunti e le anticipazioni testuali, esibire una lapidaria definizione di civil conversazione, la stessa che renderà famoso il suo autore, a cui ci siamo già richiamati: «...il viver civilmente non dipende dalla città [molti cittadini procedono nelle loro azioni incivilmente], ma dalle qualità dell'animo. Così intendo la conversatione civile, non per rispetto solo della Città, ma in consideratione de’ costumi, et delle maniere che la rendo-

no civile» (I, 30r). E il vivere associato è reso possibile anche dalla costumatezza e dalle qualità dell'animo che l’individuo scopre e disciplina in se stesso. A Guazzo interessa evidenziare come la civil conversazione sia la forma più consona alla conversazione disuguale; civile qui, si intuisce subito, non significa solo cortese e conveniente: in quanto forma della vita, partecipa anche della sua sostanzialità più piena. La riflette, la permea, vi si specchia e congiunge al punto tale da perdersi in essa senza tuttavia perdere il filo di Arianna, il «bussolo di Dedalo»: «...si come le leggi, et costumi civili sono communicati

non solamente alla Città, ma alle ville, et castella, et

popoli, che le sono sottoposti, così voglio che la civil conversatione appartenga nonche a gli huomini, che vivono nelle Città, ma ad ogni altra sorte di persone, dovunque si trovino, et di quale stato siano, et in somma che la conversatione civile sia honesta, lodevole, et virtuosa» (ivi). Annibale da un certo punto di vista mette in crisi l’«aspettatione» del Cavaliere che si auspicava di veder gettata una «rete d’oro nell'ampio mare della moral filosofia» (II, 66r-v), in cui sono contenuti «tutti i divini precetti» riguardanti la vita. La ragione di Annibale è da identificarsi con il suo rifiuto a una concezione

della morale

universalmente

valida. Qui Guazzo,

forse senza esserne pienamente cosciente, coglie nel segno. Il bene e il male della morale,

come

è stato osservato,

si danno

sempre

come assoluti, ancor più che trascendenti, ed è a questo titolo che entrambi si pretendono universali — in quanto l’assoluto si impone identicamente a tutti. Una sorta di metaetica, quindi; principi prescrittivi universalmente validi e non «adeguata» valutazione del buono e del cattivo, sempre relativi a un individuo o a un gruppo. Guazzo pensa a una soluzione di compromesso: «le ragioni sono oggidì le medesime [per la nascita della morale], ch'erano già mille anni, non sono però i medesimi i tempi, gli huomini, i costumi», cui proprio l'etica è chiamata a rispondere. Proprio questa pluralità fa parte della sua definizione. La filosofia morale, nella interpretazione di Guazzo, si configura come una metaetica

LA CONVERSAZIONE

NELLA

CONVERSAZIONE

227

rivolta a caratterizzare la natura atemporale della morale e a fornire principi generali normativi della condotta umana, precettistica universale che terrebbe conto delle identità delle ragioni ma non della inevitabile differenza ora che il tempo è talmente «corrotto» e i costumi sono diventati così «perversi» e «ripugnanti» alle leggi della «filosofia», alle leggi della morale filosofica. Si comprende meglio ora l’atteggiamento cauto di Guazzo. La Civil Conversatione dichiarando di occuparsi di «quelle cose che richiedono i tempi moderni»,

piuttosto di ciò che è scritto nei «libri»,

sceglie l’etica, si pone dalla parte della differenza, delle etiche, per cosi dire, più da parte del cittadino, per parafrasare Guazzo, che del filosofo. Al «che cosa devo fare?» Guazzo sembra preferire il «come devo vivere?», senza ovviamente eludere il primo. Il problema che si ripropone alla mente del Cavaliere è se Annibale si trovi veramente a un bivio. L’anceps via indica «una forma di conversatione, della quale tutti indistintamente s’habbiano a servire, opure assegnar diverse maniere, secondo la diversità delle persone» (II, 69r). La risposta non tarda a profilarsi: «se con una medesima regola havessimo a procedere tutti verso tutti nel conversare, tosto verremo a capo della nostra impresa». Poi aggiunge: «Egli è ben vero, che vi sono alcune cose generali, che indifferentemente

hanno

ad osservare

tutti verso

tutti [...] Ma io

voglio sopra il tutto, che ci rivolgiamo a considerare i diversi modi, che ci conviene usare nella conversazione, secondo le diversità delle persone, da i quali ci ravvedremo, che non si può così agevolmente trovare una forma di conversatione commune a tutti gli huomini, come si è trovata la forma di alcune selle da posta, le

quali s’addossano al dosso d’ogni cavallo» (ivi). Non si devono infatti usare stessi concetti e stesso linguaggio conversando con superiori, uguali, inferiori. Ma il rischio degli eccessivi distinguo scoraggia il Cavaliere («Se adungq; [sic] la civil conversatione si ha da variare secondo la varietà delle persone, io dubito che non riescano lunghe, et malagevoli queste regole, che volete proporre, poscia che siamo communemente sospinti da diversi accidenti a pratticar con persone differenti di sesso, d’età, di gradi, di qualità, di paese, et di natione» [II, 69v])). Annibale è rassicurante: al di

là delle «diverse maniere del conversare» è possibile e doveroso cogliere un sostrato comune che, alla lunga, emergerà e farà sembrare la conversazione «una sola» («se ben sono diverse le maniere del conversare, noi scopriremo in ultimo tanta convenevolezza fra loro, che ci parerà una sola»). E anche quando il Cavaliere pur dichiarandosi pago del discorso di Annibale, che «comprende le cose generali, et conviene ad ogni sorte di persone», non mancherà di invitarlo ulteriormente a «discendere» nelle particolarità e

228

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

dichiarare «i modi, che hanno a serbare tutti gli uomini secondo lo stato, et le qualità loro» (Ibidem, 107r), Annibale ribadirà l’im-

possibilità di «voler particolarmente assegnare quel, che a ciascuno si convenga osservare nelle conversationi; per la qual cosa ci contenteremo di considerare solamente, che le cose già dette hanno ad essere communi a tutti, come a tutti sono communi

le piaz-

ze, i tempij, le fontane, et i pozzi» (Ibidem, 107r-108v). Il problema si sposta, a questo punto, sull’individuo. È lui che deve appropriarsi della forma del vivere-conversazione, adattarla e regolarla al suo status. Indulge ancora Annibale: «Ma si come ciascuno attende ad acquistarsi, et farsi propria o casa, o possessione, o mobili; così ciascuno ha da proporsi nel vivere, et

nel conversare le sue particolari leggi, et costumi convenevoli al suo stato. Ma per conseguire perfettamente il frutto della conversatione, il quale è posto principalmente nella benivolenza altrui, gli conviene non solo conoscere, et apprendere i costumi a lui appartenenti, ma la diversità delle maniere, ch’egli ha a tenere verso gli altri, secondo la differenza loro, poscia che gli occorre a conversare con giovani, o con vecchi, o con nobili, o con ignobili, o con Prencipi, o con privati, o con dotti, o con idioti, o con cittadini, o con forestieri, o con religiosi, o con secolari, o con huomini, o con donne» (Ibidem, 108r).

L'impresa sarà agevolata, a suo avviso, procedendo a una prima «divisione» della conversazione in conversazione della piazza e della casa; «popolaresca» o familiare; in definitiva pubblica o privata. In questo non verrà seguito l'ordine naturale che si attende il Cavaliere: dalla casa alla piazza. Annibale chiarisce inequivocabilmente che quando ha proposto «la conversatione per salute non meno dell’anima che del corpo, io intesi della conversatione fuori casa, dalla quale particolarmente si cavano i frutti, et quella perfettione, che già habbiamo raccontato». Il metodo seguito da Guazzo è segnatamente aristotelico. Metodo

diairetico.

L'articolazione

è discendente,

dal tutto

alle

parti, seguendo quasi un diagramma ad albero. La forma diairetica regge l'impianto generale del testo. La conversazione «fuori casa» viene privilegiata rispetto a quella privata o domestica: «L’huomo solitario che è veramente infermo, et privo di quella cognittione, che s’acquista con la prova del giudicio commune, ha bisogno di cercare i rimedij fuori casa. Et se ben gli verranno innanzi alcuni forse più infermi di lui, et altri incurabili, non lasci d’andar oltre sin tanto, che trovi i savi che lo confortino, et i medici che lo guariscano» (Ibidem, 71v). La conversazione «fuori casa» è l'osservatorio privilegiato per considerare «parole», «fatti» e «metodi» di uomini diversi tra

LA CONVERSAZIONE

NELLA

CONVERSAZIONE

229

di loro. Osservatorio privilegiato dell’alterità e della differenza, rende a sua volta «osservatori, et imitatori dei più savij, et essemplari...» (Ibidem, 70v). Il metodo divisivo vale anche per l’imitazione. Ma osservatorio di chi? Nel descrivere la conversazione pubblica Guazzo (Annibale) avrà riguardo «al giovamento universale, et particolarmente de’ poco intendenti», sottraendosi in parte alla ricerca di tutte le «virtù morali», «delle quali tutti non sono capaci». Ma non

escluderà

la cultura e la morale

dell’ordinario,

del-

l’ordinaria «prattica del mondo»: «sodisfacendo in qualche picciola parte all’aspettatione d’un huom dotto [...] farò conto poi nel rimanente di ragionare con persone povere d’intelletto, et mi sforzerò di presentare loro di quelle cose, delle quali potranno senza fatica restar capaci» (Ibidem, 71r). La civil conversazione, dunque, si rivolge anche e soprattutto all'uomo comune, ha come suo interlocutore privilegiato l’uomo di mondo. Che tale indicazione vada letta in questa direzione lo testimoniano le ulteriori annotazioni guazziane: «... io mi persuado, che la cognitione, et contemplatione della natura sia nell’uomo, come cosa manchevole, et imperfetta, se con essa non sono le attioni congiunte. Et però se a questi contemplativi è necessaria

la conversatione, molto più è necessaria a quelle persone, che non hanno alcuna scienza, le quali [...] è ben ragione, che conversando,

si sforzino d’imparare per bocca altrui, quel, che da se stessi non possono con lo studio delle lettere conseguire» (Ibidem, 71r-v). Questa lunga citazione ci consente di rinvenire ed evidenziare ulteriori sensi e significati del concetto di «civil conversatione»: essa è da intendere nell’accezione di esito istruttivo di una possibilità comunicativa o supplemento della possibilità comunicativa stessa laddove esista una posizione di partenza con scarto culturale (quella degli «idioti»). Si assiste qui al tentativo di Guazzo di fornire statuto scientifico e abilitante, affermazione/legittimazione di una figura sociale emergente. Cosa si deve intendere, infatti, sotto la locuzione «poco intendenti», ovviamente riferita al campo del sapere, non certo della pratica del mondo, oppure per «persone che non hanno alcuna scienza»? Guazzo chiarirà qui nel libro secondo quando affronterà il tema della conversazione tra nobili e ignobili, che cosa bisogna intendere rettamente per «ignobili» cui la Civil Conversatione è diretta: «Se voi chiamate ignobili solamente i zappatori, et i contadini, saranno per certo inutili, et gettate al vento le nostre parole. Ma se considerate l’infinito numero di persone, le quali se ben non giungono al grado de’ nobili, ne sono però poco lontane, voi non negherete che et per l’altezza dell'ingegno, et per la qualità della vita loro non meritino qualche

230

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

luogo nelle conversationi, et che non si debba loro insegnar quel mezo che si trova tra i nobili, et i plebei» (Ibidem, 112v-113r). La civil conversazione non è (solo) il codice delle corti, il trattato delle buone maniere a uso del cortigiano; è il livre de chevet dell’uomo di mondo, è il codice delle buone maniere finalizzate all'uomo di mondo, ad un uomo che, con la conversazione deve

tendere

a rendere

(Ibidem, 104r) 259.

«se sia possibile,

tutti gli uomini

favorevoli»

Il Cavaliere, tuttavia, avverte che gli uomini non sempre sono

spinti «a uscire di casa, et pratticare con gli altri con questo zelo» (Ibidem, 72v), aggiungiamo con questa finalità: «non mancano altri stimoli che li spingono a cercare le conversationi». Tra queste altre «conversationi» Guazzo annovera «il desiderio di conservare, et aumentare la facultà, et d’aggrandire l’esser suo» — in cui include la conversazione cortigiana, la pratica della corte, della scena reale della corte, alter ego del mercato del mondo. La corte è il luogo tradizionalmente deputato all’incontro di «infiniti Corteggiani» che si «adunano tra loro per trattare di molte cose»: morte e confisca dei beni di qualcuno, «prattiche» per ottenere dal principe o cariche, o «robba», o grazia, qualche esenzione o privilegio, per se stessi o per gli altri, e cercare di inoltrare queste richieste, di «far partito co’ mezani, et co’ secretarij, et con gli uscieri; né mancheranno

altri confederati,

che restringendosi

in

un bel cerchio a consiglio secreto, discorreranno del modo di porre in disgratia del Sig. qualche ufficiale, et di discavarcarlo per rimetterne un'altro...» (Ibidem, 72v) 26. Qualcosa di analogo può capitare di cogliere passeggiando per la città non solo «ne’ giorni destinati all’opere, et essercitij mondani; ma in quelli che sono consecrati all’honore, et al culto di Dio, una infinita moltitudine d’huomini lungo i portici, tener continouo mercato, dove non si discorre d’altro, che di comperare, di vendere, di permutare, di dare, ò di torre denari ad interesse, et si contrattano in somma

tutte quelle cose che sono atte a curare i mali della povertà, et acquistare la salute delle ricchezze; onde non accade pigliarsi fatica di mettere in cuore a gli huomini la conversatione, alla quale sono per natura tanto inclinati» (Ivi).

Il mondo come mercato reclama tre specie di persone, come suggeriva Pitagora: l'una per comperare, l’altra per vendere, l’ulti-

259 Su questo punto concorda gran parte della storiografia guazziana: Lievsay, Quondam, Patrizi, Ossola, Fiorato, Pons, ecc. Più critico Bonfatti.

260 Da notare l’allusione ironica al cerchio della prossemica conversazionale cortigiana.

LA CONVERSAZIONE

NELLA

CONVERSAZIONE

231

ma per «stare a vedere il mercato», i filosofi. Il mondo come «Scena» in cui gli uomini giocano il ruolo di «Histrioni», rappresentano la «Comedia» e «gli Iddij gli spettatori, fra i quali per avventura conprendeva [Pitagora] i filosofi» (Ibidem, 72v). Certamente, commenta ulteriormente Annibale, «hoggidì sono pochi quà giù i divini spettatori [...] quasi tutti siamo rivolti col pensiero a trattare quelle cose, che avete raccontate». Rivolti

al

mercato,

alla

contrattazione,

immersi

in

quel

discorso: comperare, vendere, permutare. Annibale chiarisce immediatamente che il finé della civil conversazione ne connota le intenzioni, in un certo senso le purifica e pone le condizioni perché lo stesso «mercato» si svolga secondo regole convenienti: per questo, o anche in questo, essa è forma del vivere. Anzi argomenta persuasivamente: per mezzo della civil conversazione, si possono «dispensare» dividere tra più persone, distribuire, assegnare con giusta misura e con sapiente ordine; concedere, spartire e conser-

vare «drittamente» i beni della fortuna: distribuire e conservare rettamente i beni e, al tempo stesso, la possibilità di acquistare favore, benevolenza e gratitudine altrui. A ben vedere, queste ultime, virtù sociali per eccellenza, nobilitano l’antropologia dei bisogni. Ma il punto più delicato che Guazzo intende affrontare è relativo al «ragionamento dei nobili, et degli ignobili, tra quali per la differenza, et disparità loro, s'hanno ad osservare diversi modi nel

conversare» (Ibidem, 112v). Ecco che Guazzo è giunto all’antipodo dell’Architesto: conversazione tra ignobili e nobili, tra disuguali polarizzati, il massimo grado della disuguaglianza, per antitesi. L’uguaglianza rarefatta delle «buone maniere» — tutti devono avere buone maniere nonostante la «dissimilitudine della vita» — è stata frantumata dal «ciascuno deve imparare la forma della conversazione convenevole al suo stato», secondo la «differenza» della vita (uguaglianza del presupposto, differenza dei modi, differenza o uguaglianza del risultato?). Ma qui il discorso si è evoluto, rappreso, concentrato, arricchito di germi vivificatori. Non si insiste tanto sulla differenza, quanto sulla possibilità anche per gli ignobili di «istruirsi». La diffidenza del Cavaliere assume toni di irrisione: «Io stimo fatica soverchia, et quasi indegna di voi il voler instruere anco gli ignobili, i quali essendo naturalmente incolti, rozi, inetti, duri, inhumani, aspri, fieri, selvaggi, et quasi barbari,

et privi di intendimento,

perdereste,

secondo

il volgar

proverbio, l’acqua, e ’1 sapone» (Ivi). Il discorso è forse scivolato sulla «educabilità» del volgo, ma anche su quel significato non secondario di civil conversazione finalizzata, come lo stesso Guazzo chiariva in qualche pagina pre-

232

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

cedente, a «educare» le modalità attraverso le quali «si dispensino, et conservino

i beni della fortuna»

e che chiamano

in causa

direttamente «il nodo della nobiltà». E se diviene urgente, su questo terreno, chiarire il concetto di ignobile, la stessa operazione preliminare richiede il concetto di nobile. L’ignobile cui si fa riferimento è «l’infinito numero di persone» che non raggiungono lo status

di nobili, ma

ne sarebbero

«poco

lontane»,

nel senso

che

con l’intelligenza e la qualità della vita occupano un posto importante nella scena del mondo e a volte, per gentilezza dell'aspetto, «con la soavità delle creanze, et con la politezza dei ragionamenti, et dei costumi, vincono molti nobili», nobili che spesso sono più «incivili, che i rustici». L'affermazione di Annibale apre il varco alla definizione di nobiltà. Il punto di vista di Castiglione è la conversazione tra uguali, tra nobili. La disposizione in cerchio è emblematica in proposito. In fondo anche la conversazione tra principe e cortigiano può rientrare in questa tipologia, con qualche precauzione: «Io estimo che la conversatione, alla quale dee principalmente attendere il cortegiano con ogni suo studio per farla grata, sia quella che averà col suo principe; e benché questo nome di conversare importi una certa parità, che pare non possa cader tra ’l signore e ’l servitore, pur noi ora la chiameremo così» 261. Anche Castiglione, nonostante le precauzioni dichiarate e non fatte agire, è cosciente dell’uguaglianza dei disuguali nella conversazione. L’esserci stesso della conversazione realizza un’uguaglianza anche nel caso della conversazione tra disuguali, che certamente Castiglione non ignora anche se non l’assume a modello conversazionale paradigmatico. Egli infatti afferma: del conversa-

re quotidiano «credo veramente che sia difficile dar regola alcuna per le infinite e varie cose che occorrono nel conversare, essendo che tra tutti gli omini del mondo non si trovano dui, che siano d’animo totalmente simili. Però chi ha da accomodarsi nel conversare con tanti, bisogna che si guidi col suo giudicio proprio e, conoscendo le differenzie dell’uno e dell’altro, ogni dì muti stile e modo, secondo la natura di quelli con chi a conversar si mette» 262, È innegabile che la Civil Conversatione si iscriva sotto il segno della molteplicità, del «comune», dell’«universale». Che la sua sia un’«articolazione interclassista», per l’attenzione rivolta verso le differenze delle categorie sociali, fisse nella propria defi-

261 B. CASTIGLIONE, Il Cortegiano, cit., II, XVIII. Sott. mia. 22% Ibidem ID VIE

LA CONVERSAZIONE

NELLA

CONVERSAZIONE

233

nizione (sociale), ma interconnesse tramite lo scambio comunicativo. Che rappresenti anche un’operazione didattica, voluta con determinazione dal suo autore, rivolta a nuovi destinatari, espliciti e, per così dire, illimitati; compiuta

sotto lo stesso

segno:

la

«civiltà universale» ovvero la «volgarizzazione» della civiltà, sottratta all’esclusivismo curiale ed erede del significato ultimo del modello erasmiano, consegnato al De civilitate morum puerilium, che analizzerò, seppur brevemente, in seguito. Nel novero dei suoi allocutori includerà anche l’illetterato,

l’«idiota», le «persone povere di intelletto» (Ibidem, 71r) e non solo la nobiltà. Tuttavia è proprio quest’ultima a registrare nel testo guazziano una sorta di «vivisezione» modale. Essa innanzitutto rappresenta un «nodo», abbisogna di una ridefinizione dal

momento che molti nobili si dimostrano più incivili dei «rustici». Di qui la domanda del Cavaliere: «Et se sono incivili, come sono nobili, et se nobili, come

incivili?»

(Ibidem,

113r). Innanzitutto,

che cos'è la nobiltà? La ridefinizione che Guazzo si appresta a formulare è una riaffermazione di una concezione puramente umanistica della nobiltà che aveva alle spalle un iterato dibattito e che comunque rifiutava la concezione della nobiltà di sangue come unico parametro definitorio 283, Nel rifiutare la concezione castiglionesca della nobiltà di sangue, la Civil Conversatione giunge alla fiera affermazione: la vera nobiltà «è figlia della scienza». La «sola rivolutione dei nostri tempi» è quella che ha coinvolto la nobiltà. Guazzo per bocca di Annibale, suo portaparola, si avvia ad argomentare in proposito premettendo, al contempo, giudiziosamente un riferimento all’auctoritas scientifica. Consapevole che sull'argomento «hanno diffusamente scritto infiniti autori» egli fa riferimento al «gran Tiraquello» (Ibidem, 113r) e al Baldo 264. La nobiltà si rivela ancora un con-

263 Oltre ai lavori di Garin, si rinvia, per una impostazione generale della problematica, a F. TaTEo, La disputa sulla nobiltà, in Tradizione e realtà..., cit., pp. 355-421; C. DONATI, L'idea di nobiltà in Italia. Secoli XIV-XVIII, Later-

za, Bari 1988, in part. pp. 152-165. Tuttavia è utile richiamare Buonaccorso DA MontEMaGNO, De nobilitate tractatus, ora in E. GARIN (a cura di), Prosatori latini del Quattrocento, cit., pp. 142-165 e anche P. BraccioLINI, De nobilitate, ed. di Basilea dell'Opera omnia, t. I, 1535 (a cura di R. Fubini, Torino 1964, pp.

64-85). Per ciò che concerne le fonti del dibattito umanista mi limito a richiamare ARISTOTELE, Politica, V. 1301b e PLurarco, De nobilitate, conosciuto in frammenti, 139-141, e una versione più lunga pseudo-plutarchea con il titolo Pro nobilitate (Moralia, VII, pp. 194-241 a cura di N. Bernardakis). 264 Si tratta ovviamente di André Tiraqueau, autore dei famosi Commentarii de Nobilitate et iure primogeniorum tertia hac eadem postrema editione..., apud Guglielmum Ravillium, Lugduni 1573. Guazzo non nomina Bartolo da Sassoferrato, cui il Baldo del resto si ispira, autore di uno dei testi fonda-

234

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

cetto polisemico

autorizzante

tassonomie

e tipologie. Nella sua

definizione rientrano, storicamente sono rientrati, riferimenti alla

«dignità dei padri, et predecessori» (ivi), alla «ricchezza antica», alla «ricchezza congiunta con virtù» o alla.«sola virtù». Il Baldo,

la cui autorità è fuori discussione «vuole che ’1 nobile si dica in tre modi: il primo per sangue, come intende il volgo; il secondo per virtù, come intende il filosofo; il terzo per l’uno, et per l’altro,

et questo chiama perfettamente nobile» (Ibidem, 113v). Anche in questo caso vince la medietà, e non solo la medietas rhetorica. Anche qui sembra riecheggiare l’Etica Nicomachea e la sua ripresa dell’esortazione omerica: «Fuori di questo fumo e di quest'onda guida la nave...» 255. Ma il Cavaliere propone di aggiungere quel tipo di nobiltà che si acquista col privilegio del principe, che lo stesso Baldo «incorpora» alla nobiltà intesa dai filosofi. Il principe accordando il privilegio della nobilitazione verrebbe a riconoscere implicitamente la virtù e ad approvare i meriti «di colui, che egli ingentilisce, et nobilita».

In un’accezione ristretta «l'eccellenza della nobiltà» fu concepita da Diogene che la configurava nel disprezzo delle ricchezze, della gloria, dei piaceri, della vita stessa. I «nobilissimi» erano per il filosofo «i vincitori de’ contrarij, cioè della povertà, dell’ignominia, della fatica, et della morte» (ivi). Di questa specie di nobiltà, della nobiltà di Diogene, commenta

amaramente

il Cavaliere,

«io

credo [...] sia hoggidì spenta la razza». Nella ridefinizione della nobiltà Guazzo ristabilisce la preminenza della virtù e del sapere e propone una sua «distintione» della nobiltà articolata in tre «gradi»: seminobili, nobili e nobilissimi (Ibidem, 114v). I primi sono i nobili di sangue, eredi di un’antica nobiltà, senza possederne ormai virtù, costumi, apparenza. Di loro al massimo si può dire che hanno un lignaggio. Il loro comportamento è caratterizzato da un ricorso costante al titolo di gentiluomo quando non ve ne è bisogno. Vere e proprie degenera-

mentali del dibattito sulla nobiltà in Italia: In Secundam Codicis Partem... Novissime accesserunt additiones Jacobi Menochii, s.n.t., Venetiis, 1585, cc.

45v-48v. Si tratta del commento al libro XII «De Dignitatibus» del Codice giustinianeo. Per un inquadramento generale della scuola dei commentari risultano indispensabili: E. Besta, Storia del diritto italiano [...] Fonti..., Giuffrè, Milano AR

P.S. LeIcHT, Storia del diritto italiano. Le fonti, Giuffrè, Miano ; sp 265 ARISTOTELE, Etica Nicomachea, II. 9, 1109a. Per Omero, Odissea, XII,

LA CONVERSAZIONE

NELLA

CONVERSAZIONE

235

zioni dal ceppo nobiliare che alla lunga si isterilisce. Famiglie, città, il mondo invecchiano inesorabilmente. Lo stesso presupposto su cui antichi casati poggiano il loro lignaggio si incrina. Guazzo condivide l’opinione che ogni nobiltà ha un'origine: «fu detto con gran ragione, che se si guarda alle prime origini, non vi è alcuno Re, il quale non tragga origine da servi, né alcuno servo, che non venga da Re». Dal passato alla «sola rivolutione de’ nostri tempi», l'instabilità sociale, coinvolge le famiglie «non men di tutte le altre cose»: esse girano «a guisa di ruota», mostrando i segni della loro ascesa e della loro decadenza. La «ruota del tempo» coinvolge il ritmo delle faccende umane che è, in quanto tale, tautologicamente ciclico: «l’aratore si fa guerriero, et il guerriero torna all’aratro; la onde si può dire, che vi è la nobiltà, che comincia, quella

che cresce, quella ch'è in colmo, quella che si scema, et quella ch'è al fine» (ivi). Guazzo aggiunge un altro significativo elemento: la nobiltà non solo ha sempre un inizio, ma deriva da «iniquità», nasce dall'ingiustizia. Di qui l'affermazione: «Un degno autore parlando della nobiltà del mondo, afferma, che ella non è altro che antica

ricchezza, et soggiunge ch’ogni ricco è iniquo, o herede d’un iniquo; onde conchiude, che la nobiltà della famiglia viene da iniquità» (Ibidem, 114v-115r)?6. Altrove aggiungerà «Non si possono acquistare giustamente tante ricchezze». I seminobili sono tanto più «degni di riso», poiché non possiedono valore e virtù; vantando i meriti dei loro predecessori scoprono in realtà i loro difetti: nulla provoca più «dolore» nei posteri che la grandezza degli avi. L’unica loro nobiltà è «’l1 nome», non corrispondono «con l’opere» alla grandezza della famiglia, e per questo vengono poco stimati. Ben altro è il nome dalla cosa, ma questo esempio testimonia che gli uomini generalmente preferiscono, come aveva da par suo ricordato Erasmo, «il nome alla cosa» 207,

Erasmo si era dedicato all’analisi dello svuotamento del significato, del suo divorzio dal significante, in una pagina celebre dei Colloquia dedicata, appunto, a Cose e vocaboli, con riferimento anche al concetto di nobiltà. La citazione è lunga, ma per il suo piglio va trascritta per intero: «Beato:... quanta gente incontriamo

che preferisce farsi considerare istruita o pia piuttosto che esser-

266 Si tratta presumibilmente del testo pseudo-plutarcheo. 267 Erasmo, Colloquiorum liber, in Opera omnia, LB, I, 629 sgg.; tr. it. / colloqui, Feltrinelli, Milano 1959, a cura di G.P. Brega, p. 535.

236

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

lo veramente [...] Beato: Se avessimo qui un dialettico, il quale definisse in modo esatto il concetto di re o di vescovo o di magistrato o di filosofo, forse troveremmo altri casi in cui la gente è disposta ad accettare il titolo ma non i doveri che ne derivano. Bonifacio: Certamente! se il re è colui che nelle leggi e nella giustizia considera l'interesse del proprio popolo e non il suo. Se il vescovo deve dedicarsi esclusivamente a curare il gregge del Signore, se il magistrato provvede al bene dello stato, se infine il filosofo è colui il quale trascura le seduzioni della fortuna e pensa unicamente a raggiungere la saggezza! » 288.

In questo caso ci sarebbe perfetta coincidenza o adaequatio tra nome e cosa. L'uomo è animale razionale: «ma non è assoluta-

mente contro ragione preferire la cosa reale al nome, quando si tratta di beni o meglio di vantaggi materiali ed esterni che la fortuna concede e toglie a suo piacere; e preferire il nome alla cosa quando si tratta degli autentici beni, quelli dell'anima?» 29°. Erasmo presenta qui il «giudizio alla rovescia», che vale anche per l’argomentazione contraria: «Beato: Ciò che si è detto dei nomi di cose da desiderare si può dire anche dei nomi di cose da evitare». Lo scollamento tra nome e cosa, significato e significante, ha instaurato la propria pragmatica, la propria teatralizzazione: tutti mascherano le proprie azioni, una pragmatica nella «negativa» e nella «positiva». Tutti si fingono nobili perché al cavaliere tutto è permesso: «Beato: Con che diritto? Da quali leggi? Bonifacio. Dalle stesse che assegnano al prefetto del mare tutte le merci rese dalle onde dopo un naufragio, anche se c’è lì il padrone a reclamarle; dalle stesse leggi che considerano chi ha ritolto qualcosa ai ladri e ai predoni, come il legittimo proprietario» 270. Ma per quale motivo, incalza Beato, «il cavaliere può fare ciò che è proibito al fante [...] questo titolo, così pieno di prerogative, donde deriva?. Bonifacio: C'è chi lo ha ricevuto dagli antenati, chi lo compera a prezzo d’oro e chi se lo conquista. Beato: Chiunque può conquistarselo?

[...] Bonifacio:

Non

facendo

nulla di buono,

vestendosi splendidamente, andandosene in giro carico di anelli, dandosi al puttanesimo, giocando accanitamente a dadi e a carte; e poi basta passare il tempo a bere e a divertirsi, non tenere i soliti discorsi, ma parlar solo di fortezze, di battaglie, di guerre, con tono roboante, da Trasone» 271,

268 Ibidem, pp. 536-537. 269 Ivi. 270 Ibidem, pp. 541-542. 271 Ibidem, pp. 542-543.

LA CONVERSAZIONE

NELLA

CONVERSAZIONE

237

Trasone, appunto. Il nome non la cosa.

Ai nobili per sangue, ovvero ai seminobili, Annibale fa seguire i «nobili per virtù»: i primi, tali per natura o fortuna; i secondi, per fatica e industria. La nobiltà per virtù si acquista a «buona guerra» (Ibidem, 115v), ci si approda dopo aver passato «mille angustie». La prima riguarda il corpo, la seconda l’animo. I nobili di sangue possono essere stimati a pieno titolo ignobili (Ibidem,

116r-117v). Vano è il nome di quella nobiltà «la quale riferendosi alla chiarezza del sangue, non è nostra ma d'’altrui; onde non può lo splendore altrui rendermi chiaro, se non è in me il proprio splendore». La mancanza di virtù spinge l’individuo ad adornarsi di insegne e immagini, blasone degli avi. Questa «vanagloria» è simile a certi denari, che hanno corso solo in determinati luoghi, ma altro-

ve non sono spendibili, anzi considerati falsi (Ibidem, 118r). La falsa moneta è il corrispettivo del nome senza la cosa, anzi la sua variante; la volontà assoluta di farsi differenti dagli altri, di presumere tanto di sé al punto di credere di «essere stati formati da un altro Fattore diverso da Dio; conciosia che la carne non ci fa

differenti, né più chiari l’uno dell’altro» (ivi). L'oro vale più del rame, per l’intrinsicità del valore materiale; lo stesso parametro non può essere usato con gli uomini che provengono «tutti da una stessa massa di carne». Nemmeno l’anima conosce differenziazioni di questo tipo. Guazzo convoglia qui tematiche cristiane ma anche stoiche. La «virtù dell'anima» che egli invoca, pur attribuendola a tutti, si configura come virtù eminentemente filosofica, di una filosofia che si acquista nell’affermazione delle virtù etiche tra le quali l'’imparare a morire senechiano che tanto influenzerà Montaigne: «La chiarezza

non

si acquista

nascendo,

ma

vivendo,

et talhora

morendo» (Ibidem, 118r-v). Socrate, Catone e Seneca hanno considerato il morire la più diretta rappresentazione della filosofia messa in pratica: coincidenza assoluta tra logos et praxis, tra anima e corpo, simbologia della vita stessa, realizzazione piena della sua eticità. La nobiltà, come la filosofia, si fa tale. Anzi è la portata etica,

quindi pratica, del logos a realizzare la nobiltà vera=vivere=imparare a morire. Il vero nobile non nasce tale «come il poeta, ma si fa come

l’oratore».

«La filosofia non

raccolse

Platone nobile,

ma lo fece». Annibale si appresta ora a chiarire il concetto di «nobili per sangue, et per virtù» (i «nobili»). L'aggiunta della virtù si rende imprescindibile: «perché se uno ignobile dà principio alla nobiltà

238

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

con l'eccellenza di qualche virtù, è ben certissimo, che la virtù è

il fondamento della nobiltà, et che per conservatione della nobiltà è necessaria la conservatione del fondamento» (Ibidem, 119v). Non solo, la nobiltà è «figliola della scienza» (Ivi). La virtù delle lettere accresce la propria nobiltà. Solo qui la regola dell’aurea mediocritas viene meno alla sua fondamentale funzione e deroga dalla sua «regola universalissima». Nell'ambito della virtù e dell'etica non vale il principio del «mezanamente» virtuoso; ci si deve sforzare a raggiungere lo status del più virtuoso. Solo così ci si colloca lontani dai nobili «di semplice figura». Guazzo definisce nobilissimi coloro i quali «con la nobiltà del sangue, et con quella delle virtù, hanno congiunto le ricchezze, et la magnificenza, le quali giovano grandemente alla conservatione, et al sostentamento della nobiltà» (Ibidem, 121r). Le ultime affermazioni guazziane danno l'impressione di uno slittamento nella problematica e potrebbero assumere il valore di un’ammissione che in definitiva le ricchezze siano elemento apportatore di nobiltà, quando l’autore aveva fatto credere il contrario. Da tanta «filosofica saggezza», come la definisce il Cavaliere che registra la coscienza del glissement in Guazzo stesso, si è pervenuti a un elemento estraneo alle argomentazioni filosofiche finora addotte, caratterizzante

tra l’altro, esso solo, il

«fiore della nobiltà», che come l’autore aveva prudentemente anticipato riveste diversi gradi? Bisogna allora intendere che l'oro e l'argento, commenta acutamente il Cavaliere, mancanti ai nobili di sangue e di virtù, siano il vero elemento che apporti nobiltà? Uno dei «segni certissimi» che conferisce un’altra specie di nobiltà? Le ricchezze, risponde risoluto Annibale, non possono apportare nessun grado di nobiltà: «sono però mezo potentissimo d’alcune virtù, particolarmente della magnificenza». I nobili di «semplice figura» non conoscono più la magnificenza; vivono così numerosi intorno «a questi colli» che tocca loro appena «un merlo per ciascuno», sbucano dalle porte «a schiera» come «conigli», avendone avvertito il «fumo»; marciscono nell’ozio e compiono «atti indegni»: «perdono, cioè, la nobiltà restando in signoria» (Ibidem, 123r). I veri nobili sostengono il loro grado «con la virtù, col valore, et con l’havere, in modo tale

che non è sproportione, né disconvenenza, tra il feudo e ’1 feudatario» (Ibidem, 123v). Guazzo subito dopo affronta il dibattito sulla «deroga» alla nobiltà, riflettendo sul rapporto nobiltàlavoro. La conclusione è espressa con una metafora per certi versi suggestiva: il più alto e sicuro grado di nobiltà è rappresentato

LA CONVERSAZIONE

dallo

«scanno»

«a tre fortissimi

NELLA

piedi»:

CONVERSAZIONE

Sangue,

Virtù,

239

et Ric-

chezza ??2: i «nobilissimi» (Ibidem, 121r).

A questo punto è opportuno sottolineare che il discorso guazziano in merito alla nobiltà era interessato a un determinato punto di approdo: la conversazione tra «nobili» e «ignobili». La nobiltà non è qualcosa di puro, di assoluto. Guazzo l’ha appena ribadito con tipologie classiche ma anche originali. Molte contaminazioni si sono presentate all’interno di questa categoria sociale da farne temere il destino. Diverse variabili si sovrappongono a questa nobiltà ormai vacillante che vanta a se stessa prerogative ambigue, a volte improponibili; superata negli stili di vita e negli stilemi comportamentali da altre figure sociali, che non rivestono ruoli di semplici figuranti. La conversazione tra nobili e ignobili, la sua stessa opportunità, sapientemente preannunciata da Guazzo nelle pagine precedenti, trova qui la sua giusta collocazione per così dire assiologica, alla fine di una discussione su elementi storico-pragmatici da cui la nobiltà come figura sociale esce in modo eterogeneo e anche malconcio. Ci sono ignobili migliori dei nobili. Bisogna ascoltarne la voce, il che equivale a: bisogna insegnare loro a parlare. Al Cavaliere che teme la «cattiva mescolanza» — variante inedita della normale abitudine secondo la quale il nobile «si ritira verso i suoi eguali, et [...] pratticando, fuori di qualche necessità, con ignobili, et inferiori, sarebbe ripre-

so di viltà, et tenuto in poca stima dagli altri nobili» (Ibidem, 125v-126r) — Annibale/Guazzo chiarisce che quel concetto così formulato («cattiva mescolanza») dipende da un pregiudizio circa il concetto di ignobile. Pregiudizio che a sua volta discende da un inadeguato concetto di nobiltà. L'unica differenza, ripete Guazzo, tra nobile e ignobile è la stessa che c’è «tra due mattoni di una medesima terra, de’ quali uno è posto nell’edificio d’una torre, et l’altra d'un pozzo» (Ibidem, 126r). Dalla stessa carne, dalla stessa terra: stessi mattoni che non variano la loro struttura per la diversa posizione in cui sono stati collocati. L'unica differenza consiste nella posizione; ma da questo non ne discende motivo ontologico di superiorità. Anzi il nobile che conversa con l’ignobile realizza una senten-

272 Poco dopo Guazzo introduce una ulteriore distinzione: «nobili de’ nobili», «nobili de’ gli ignobili» e «gli ignobili de i nobili». I primi: «nati di virtuosi, et antichi predecessori,

seguono le vestigie, et la vita loro». I secondi:

«nati di padri vili, si sono con la virtù ingentiliti». I terzi: «degenerando dalla virtù dei suoi maggiori, son diventati vitiosi» (Ibidem, 125v).

240

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

za «filosofica» e «christiana» secondo la quale più si è in alto più ci si deve «humiliare, il che è uno essaltarsi maggiormente». La conversazione

civile non solo nel suo cerimoniale, nell’at-

teggiamento del ruolo da osservare, si rivela rispondente alla laicizzazione della pratica del sacro. L’umiltà è virtù del vero cristiano che si rende visibile anche nell’accoglimento dell’inferiore nella conversazione. Realizza anche il principio del socratismo cristiano: «non tenere troppo chiuso il tesoro» della nobiltà. In fondo la conversazione inerisce all'uomo in modo così costitutivo che egli non vi si può sottrarre nemmeno durante periodi di «morte nera», di peste. Lo testimonia Marsilio Ficino che in chiusura del suo Consilio contro la pestilenzia, pur suggerendo: «Fuggi presto et di lungi et torna tardi», premetteva: «Io t'ho serbata nel fine del libro la dichiarazione delle regole principali in questa materia, cioè che tu fugga le conversazioni, maxime a digiuno; et quando conversi, stia discosto dal compagno due braccia almeno, et a luogo aperto; et quando è di sospecto, stia eziam più di lungi, almeno sei braccia, et allo scoperto. Et fa ch’el vento non venga da lui inverso te. Intra te et lui sia sole, fuoco, odori o vento che fossi inverso lui» 273. Nemmeno la peste riesce del tutto ad esorcizzare la conversazione.

273 M.

PU glia.

Ficino,

Consilio

contro

la pestilenzia,

Cappelli,

Bologna

1983,

p. 108, a cura di E. Musacchio e con un saggio introduttivo di G. Mora-

4. LA SOLITUDINE

NELLA CONVERSAZIONE «La*coscienza

parla

e costantemente silenzio»

unica nel

venite

modo

del

(M. Heidegger, Sein und Zeit)

Il silenzio eloquente Come trattare allora la solitudine nella conversazione? E come procedere? È metodologicamente legittimo seguire il reclamato «principio di bivalenza»: vero o falso? O piuttosto sarà opportuno seguire l’avvertimento metodologico di Annibale secondo il quale le «propositioni contrarie» sono entrambe vere ed estenderlo anche alla solitudine? La conversazione veniva identificata dal Cavaliere con il male. Annibale «dimostra» che in quel male risiede la cura. È proprio attraverso la conversazione suasoria tra i due che l’«intertenimento» acquista un immediato potere terapeutico. Annibale da pedagogo/medico/retore conosce il potere della conversazione, ne fa l'oggetto della conversazione stessa (la conversazione nella conversazione) e mette a fuoco i risultati di questa mise en abîme. Guglielmo impara presto la lezione. Incalza: si dovrà allora identificare il male

tout court nella solitudine

0, conformemente

alla

proposta di Annibale, estendere l’arma di Achille, il rimedio nel male anche alla solitudine? E con quali risultati? La risposta non tarda a enuclearsi: la solitudine (e il suo corrispettivo, il silenzio), a seguito di mediazioni mirate e opportuni aggiustamenti per l’intendimento retto del suo concetto, viene a installarsi e a far parte

nel e del dominio della conversazione, autodefinendosi in qualche aspetto della sua fenomenologia, forma particolare della conver-

242

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

sazione stessa: la conversazione con sé, paradiso della solitudine colta, «dove [i dotti] parlano con loro medesimi»

e «pascono l’ani-

ma del soavissimo nettare delle scienze» (Ibidem, 10r). In questa accezione la Civil Conversatione registra l’arco storico-filosofico di quella che può essere a ‘buon diritto definita la cultura del silenzio !. Le argomentazioni di Guglielmo seguono un percorso attraverso il quale solo alla fine la «mediazione» si compirà interamente. In un primo momento egli esamina la solitudine come conversazione con sé, secondo i paradigmi entro cui il discorso — interattivo con Annibale — sulla solitudine è nato: da questa ottica le conversazioni sono «uncini, et tenaglie» che «ritrahendoci a forza dal corso de nostri giusti pensieri ci tirano nella strada della dannatione, percioché essendo questa vita piena di sospetti, d’inganni, di lascivie, di spergiuri, di calunnie, d’invidie, d’oppressioni, di

violenze [...], non si possono rivolgere gli occhi, né l’orecchie in alcuna parte...» (Ibidem, 8v). Ancora, secondo il punto di vista adottato dal Cavaliere solo la solitudine mette a riparo dai pericoli di quest’«età di ferro». Solo la solitudine (e il silenzio), atta al culto di Dio, è stata scelta, eletta, dagli antichi padri, dai religiosi,

da Cristo stesso. I filosofi nel ritiro delle «proprie stanze» esorcizzano la «pericolosa conversatione», quella con la «turba popolaresca» e si sottraggono, del pari, alla gestione degli Stati (Ibidem,

! Pagine indimenticabili

sul silenzio, con esiti più complessi, quelle di

M. Merleau-Ponty in Le visible et l’invisible, Gallimard, Paris 1964; tr. it., Il visibile e l'invisibile, Bompiani, Milano 1969; ora 1993? ed. arricchita a cura di M. Carbone; Ip., La prose du monde, Gallimard, Paris 1969; tr. it., La prosa del mondo, Editori Riuniti, Roma 1984; Ip., Phénomenologie de la perception, Gal-

limard, Paris 1945; tr. it., Fenomenologia della percezione, Saggiatore, Milano 1972. Si veda anche C. BoLocnaA, Il linguaggio del silenzio, «Studi storico-religiosi», II (1978) 2, pp. 305-342; Ip., Flatus vocis, Il Mulino, Bologna 1992; P. VaLesIo, Ascoltare il silenzio, Il Mulino, Bologna 1986; PLURES, I! silenzio e la parola, Morcelliana, Brescia 1989, a cura di M. Baldini e S. Zucal (Atti del Convegno «Il silenzio e la parola», Trento, 15-17 ott. 1987); C. Sini, Il silenzio e la parola, Marietti, Genova 1989; PLURES, Oltre la svolta linguistica. Filosofia oggi 1991, a cura di G. Vattimo, Laterza, Bari 1992; P.A. ROVvATTI, L'esercizio del silenzio, Raffaello Cortina, Milano 1992.

Uno dei testi più emblematici e dimenticati per la problematica del silenzio nel '500 è senza dubbio il Cymbalum Mundi di Bonaventure Des Périers, definito in un saggio di Saulnier (Le sens du Cymbalum Mundi, «Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance», XII (1951) pp. 43-69 e 137-71) una «apologie du silence», in direzione mistica. Per le notizie bio-bibliografiche sull'autore e una valutazione storico-culturale del Cymbalum, in particolare per i suoi rapporti con la Imitatio Christi, cfr. P.H. Nurse, Introduction a B. Des PERIERS (?), Cvymbalum Mundi, Manchester University Press, Manchester 1958, pp. VI-XLV, ristampa Droz, Genève 19833, con Préface di M.A. Screech.

LA SOLITUDINE

NELLA

CONVERSAZIONE

243

9v). Si negano a quelle cariche cui aspirano uomini ambiziosi; le rifiutano e disprezzano diversamente da coloro che «vanno tutto il dì con tanto studio, con tante prattiche, con tanta fatica, et con

tanta vergogna mendicando» (ivi). Guglielmo non prenderà nemmeno in considerazione «quella moltitudine di gente, la quale o per desiderio di vano piacere, o di vil guadagno, o di fragile honore, se ne sta in continoua conversatione» (Ibidem, 10r). Moltitudine di non uomini la cui conversazione è peggiore della solitudine, ozio senza lettere, deserto conoscitivo. L’ozio «senza lettere» può considerarsi, come insegnava Seneca, «una morte, et una sepoltura d’huomo vivo» (ivi); ma l’otium dell’uomo colto, incalza il Cavaliere, diviene in solitudine

veramente

proficuo, vera conoscenza.

In questo

senso

sono

da

intendere l’insegnamento di Pitagora, che invitava a perseguire un

sapere per pochi piuttosto che «passeggiare per la via pubblica» (Ibidem, 10v), e l’aneddoto di Diogene secondo il quale il filosofo deve entrare nel tempio quando la moltitudine ne esca. Nella solitudine colta, quella dei filosofi e delle Accademie,

i

«solenni conviti» (Ibidem, 21v), va ricercato, come in parte farà lo stesso Rousseau del primo Discorso e della Prefazione al Narciso, il rimedio al male. Annibale aveva identificato il male di Guglielmo nella solitudine o malinconia. Ma ora si può correggere. Esiste, infatti, una forma di solitudine, fa notare il Cavaliere, che è «vera vita [...] grata a Dio, et agli huomini», simile alla solitudine

del filosofo, «amica della virtù, nemica de’ vitij, istitutione, et forma della vita» (Ibidem, 10v). La solitudine come «istituzione, et forma della vita». Fondamento e forma del vivere. Il Cavaliere attribuisce qui alla solitudine, velatamente, in nome di quel principio che ha recepito, le stesse qualità, gli stessi attributi e funzioni che Annibale aveva proposto per la conversazione. E dimostra di aver imparato bene la lezione («...ricordatevi quella sententia, ch’una volta havete data contra di me, la quale se non sete iniquo giudice, dee haver luogo contra di voi nel medesimo caso»), anche se sarà Annibale, colui che ferisce e sana, a far emergere alla fine il nuovo statuto della solitudine che egli non intende in tutto «bia-

simare» né «sbandire». Anche per la solitudine, infatti, esistono «tempi opportuni» (Ibidem, 24v). «Essa è utile, et necessaria» (Ibidem, 28r). Annibale indicherà «come convenga talhora usarla nella conversatione» (ivi) . Se la conversazione per Annibale è «fondamento della vita» e se per il Cavaliere è la solitudine, invece, a ricoprire questo ruolo,

non si dovrà cercare in una delle due proposizioni la verità o la falsità dell’enunciato: «et l’una, et l’altra è vera». Bisognerà piut-

244

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

tosto

chiarire

«qual

sorte

di solitudine»

(ivi) assolverà

questo

compito.

Ermeneutica della solitudine

Ci sono «alcuni tempi» in cui la solitudine non solo è utile, ma necessaria. «Tempi opportuni» per la solitudine, pausa ontologica: l’«huomo alcune volte conversa in solitudine, alcuna volta è solitario in conversatione» (Ibidem, 24v). Questo diritto di cittadinanza conferito alla solitudine, storicamente e culturalmente, era andato manifestandosi con l'emergere dell’individuo dalla società

feudale, la cui struttura, granulosa e compatta, permetteva di rado al singolo di sottrarsi alla convivialità («la promiscuità necessaria») che costituiva paradossalmente la sua privacy ?. Isolarsi, vivere nel proprio giardino, segregare se stesso diviene oggetto di sentimenti contrapposti, sospetto e ammirazione, in una società in cui «non è mai previsto un posto per l’isolamento individuale» 3 e il desiderio di essere soli si accompagna a una «promiscuità necessaria». Se vita privata significa segreto, il segreto è collettivo. Il solitario si configura contestatore o eroe; ma anche folle e, nel migliore dei casi, malinconico. Il desiderio di essere soli, inteso come desiderio di indipendenza, conduce spesso verso gli «spazi del disordine», tra realtà e immaginazione (la landa, la foresta, ecc.). Desiderio di autonomia: anacoreti, cavalieri erranti; realizzazione di sé, itinerario di una formazione progres-

siva attraverso ostacoli che contribuiscono gradatamente alla piena affermazione del soggetto. L'emergenza del soggetto, la sua indipendenza e autonomia, confluiscono nello spazio del desiderio e divengono negazione del codice sociale: qualche volta, mondo a rovescio. Come la conversazione segnala la dimensione del soggetto moderno in quanto parlante e il suo rapporto con il linguaggio, la solitudine ne scandisce la «modernità» per essere e configurarsi condizione dell’appropriazione del proprio spazio interno, del proprio esilio interiore — la voce del silenzio, la retraite in quanto conversazione con sé, che non ha bisogno nemmeno di parole (Ibidem, 16r). Per questo Guazzo allontana subito, nel procedere alla fenomenologia della «buona» solitudine, quel tipo di solitudine

2 G. DuBy, Situazione della solitudine. Secoli XI-XIII, in La vita privata dal feudalesimo al rinascimento, a cura di Ph. Ariès e G. Duby, Laterza, Bari

1988, p. 427.

3 Ibidem, p. 426.

LA SOLITUDINE

NELLA

CONVERSAZIONE

245

«perfetta» sconfinante nella santità, sempre priva di «commercio humano»

(Ibidem, 24v), che va considerata piuttosto dono di Dio,

a garanzia che il beneficiato non si esponga al rischio della malattia mentale. Il suo sguardo si rivolge a quella solitudine «non priva di conversatione» che egli classifica in modo tripartito: solitudine di tempo, solitudine di luogo e solitudine d'animo (ivi). La prima coglie l'istante in cui «un solo parla nel cospetto di molti». In quel momento l’individuo (l’allocutore) apprende dalla viva voce dei lettori e dei predicatori con maggior efficacia di quanto possa imparare dalla scrittura. La «solitudine di tempo» infatti non è solo «il silenzio della notte» — per il quale Erasmo nella Lingua aveva scritto: «Nec luscinia, nec graculus, nec ullum omnino genus avium tam loquax et obstreperum est, quin noctu consilescat» 4; a tutti «nox imponit silentium» — ma l’«istante» in cui si creano i presupposti perché il messaggio raggiunga chi si pone in questa condizione e sa crearla. Presuppone l’ascolto e il silenzio. È una sorta di silenzio metafisico, della sospensione del sé, per accogliere la parola dell’altro nel foro interiore. La parola è dell’altro. La «solitudine di luogo» è lo spazio privato per la retraite; anzi essa è «quella privata stanza, la quale si elegge ciascuno con intentione di ritirarsi da parte, et fuori della conversatione altrui» (Ibidem, 25r). Solitudine che esercitata «ne’ tempi debiti» e per ragioni valide è da considerarsi estremamente proficua. Nel novero delle ragioni e degli «effetti» che spingono alla retraite, Guazzo elenca la contemplazione,

cui la mente

si innalza

col silenzio e non con la parola, per comprendere «quel, che l’occhio non può vedere». È il silenzio metafisico, quel silenzio che dice la felicità e la salute dell’anima. L’altra ragione «honesta» è l’istanza epistemica: lo studio volto a cogliere «il frutto delle scienze» (Ibidem, 25r). Ultima motivazione è la conversazione (il «discorrer con sé») privata su problemi di ordine pubblico e privato. Esercizio privato del libero arbitrio? L'annotazione guazziana in proposito è illuminante: «Tutte queste solitudini di luogo elette, et essercitate ne’ debiti tempi, hanno gran forza di risvegliar gli spiriti, et di far loro la strada più agevole, et più sicura alle attioni, et all’opere appartenenti alla conversatione» (ivi). Questa forma di solitudine, anch'essa voce del silenzio, nel suo variegato articolarsi possiede un potere vivificatore per l’anima che la esercita e si configura come una preparazione (e un metodo) alla conversazione stessa, all’esercizio

4 Erasmo, Lingua, cit., LB IV, 669 B; ASD IV, I A, 45, 643-644.

246

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

delle sue pratiche. Risveglia gli spiriti e li rende pronti alla conversazione. Pausa necessaria che, come il silenzio, non è spazio vuoto: benché, infatti, si ritirino «a gli studi, et discorsi privati», gli individui «solitari rispetto al luogo, dove dimorano soli», «non-

dimeno stanno in conversatione rispetto alla diversità delle cose che rivolgono per la mente» (Ibidem, 25v). In questo senso si esercitano alla conversazione. La solitudine di luogo non nega dunque cittadinanza alla possibilità comunicativa; anzi in un certo senso la implica. Lo stare soli riguarda unicamente la dimora ed è il risultato di una retraite volontaria, «a tempo», resa possibile proprio dal commercio e dalla conversazione con il mondo. È la pausa che scandisce la prosa del mondo che tuttavia presuppone. Pertanto il luogo privato, la stanza, la biblioteca, può divenire anche luogo del segreto e della malattia. Malattia, per le ragioni che Guazzo ha largamente anticipato: l’uomo acuto, di ingegno sottile, può far concrescere, in una sorta di febbre teoretica, i propri pensieri e farli divenire mostri e chimere, elucubrazioni e ossessioni, distruggendo la possibilità stessa della conversazione e rendendo l’art de conférer per sempre à batons rompus. Ma Guazzo coglie, qui in veste di difensore del Concilio di Trento (almeno così emerge da questo contesto e da altre coeve indicazioni), il «pericolo» del segreto, la possibilità — nella segretezza offerta dalle «proprie stanze» — di una corrosione e lacerazione della «buona dottrina» a opera di «certi libri», venefici e forieri di «sceleratezze»; segreto peggiore della «continoua conversatione» dei luoghi pubblici: la piazza e il mercato. Di qui l’inquietante benedizione invocata da Guazzo al fuoco purificatore, al rogo che avvampa i libri pericolosi, destabilizzanti, già strumento di nefan-

dezza nella volontà perversa dei loro «fabricatori» 5. La solitudine,

inoltre, può essere

scelta, è stato

anticipato,

per viltà, ozio, disimpegno; per tenere l’individuo come il «musco nella bambagia», o meglio, «come porci nel letame». A lui l’anima è stata data per «sale», perché non imputridisca (Ibidem, 26r). Questa solitudine e questo silenzio non conoscono «honesta cagione»: sepoltura di uomini vivi, non ne precedono nemmeno l’agonia, perché

una

simile voce

in realtà è afasica,

non

è voce,

ma

5 «Cautela eccessiva» e «deferenza smaccata» verso il concilio tridentino caratterizzano questo atteggiamento di Guazzo che in un certo senso Gianni Bartocci tenta di spiegare (La «riscoperta di Guazzo», «Canadian Journal of Italian Studies», I (1978), 3, in part. pp. 191-192). Si veda anche per una impostazione più generale della problematica G. ToFFANIN, L'Umanesimo al Concilio di Trento, Zanichelli, Bologna 1955 e C. DIONISOTTI, Geografia e storia della letteratura italiana, Einaudi, Torino 19712.

LA SOLITUDINE

NELLA

CONVERSAZIONE

— 247

costante soppressione della voce significante e del silenzio sensato. L'uomo non può rivolgere loro alcuna lode. Lodare bisogna al contrario

«la solitudine

d'animo»,

ultima forma

di solitudine/si-

lenzio eloquente, che si verifica «quando un si truova con la persona in mezo a molti, et si ritira con l’animo, et col pensiero tutto

in se stesso» (Ibidem, 26v). Essa non rappresenta solo un tentativo (riuscito) di rinchiudersi nel proprio foro interiore. Il sintagma non vuol significare solo questo. Funziona soprattutto da autoprotezione, quasi autodifesa. La solitudine d'animo è l’unica a permettere di essere «presenti assenti»: è il prototipo della condotta giusta nella conversazione intersoggettiva, ma con un particolare tipo di allocutore: il malvagio, il molesto, ecc.; conversazione che non va fuggita, ammonisce Guazzo, ma richiede cautele. In questo caso entra in gioco anche il corpo, «fortezza dell'anima»: per

difenderla si dispone in modo tale che «con gli occhi, con la fronte, co’ gesti, et con altri segni esteriori» gli individui si mostrino «intenti a i ragionamenti altrui, et sono tuttavia con l’animo rivolti altrove, in sì fatta maniera che sono in un punto presenti, et assenti, et sodisfano giuntamente a loro medesimi, et a gli altri». Le cautele: provvedersi di un animo che sappia esercitarsi, in presenza di cattivi interlocutori, «in più lodevoli pensieri»; in questo senso sappia mascherare — dissimulazione onesta e «honesto inganno» — il proprio interno per autodifesa nei confronti di chi non

voglia cedere

o piegarsi.

Si congiunga

in un

unico

punto,

aspetto sottolineato anche da Courtine e Haroche $, la retraite in sé, raddoppi quasi se stesso. Divenga l’io della propria interiorità e superi il sentimento della scissione con l’io che appare all’esterno. Impari a sdoppiarsi perché tale sdoppiamento è «utile, et necessario», quindi «honesto». L'animo rimarrà «franco, et invitto». In tal modo converserà in presenza/assenza con i «cattivi»; chiuderà il foro esterno dell’orecchio, da cui i messaggi arriverebbero all'anima, e farà transitare solo l’impalpabilità del silenzio. Un silenzio benefico simile a quello di Ulisse di fronte alle sirene. L'unica via di scampo. L’orifizio esterno, l'orecchio, deve essere chiuso, serrato al foro interiore. Solo così si eviterà di essere

intaccati dai «cattivi costumi». Per l’«huomo ben composto», la solitudine d’animo rappresenta la salvaguardia e il presupposto della sanità morale. Della salute. Così l'individuo andrà nel mondo «calzato tra le spine», come il sole che, lo racconta Diogene, manda i suoi raggi nei luoghi sporchi, «ma non s’imbratta». Come

6 J.-J. COURTINE-CL. HaROocHE, Histoire du visage, cit., p. 184.

248

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

il medico, non si contagia: l’uomo «ben composto» intatto nel commercio

«si mantiene

de’ tristi [...] egli fa conto di non esserci»

(Ibidem, 27v). Presente assente. Questo il salvacondotto per non cessare «dal pellegrinaggio della commune vita», per non abdicare al proprio status di homo viator. Anche la solitudine d’animo si configura come preparazione e palestra (bisogna sapere in che modo presentarsi alla conversazione, con quali interlocutori trattate; eec.)

Si può a buon diritto affermare che la solitudine, la solitudine che risponde a «honesta cagione», si attesta, in uno spazio sin-

cronico e diacronico al tempo stesso, come una delle condizioni della conversazione. Per l’individuo una salvaguardia del proprio foro interiore, presenza/assenza silenziosa ed eloquente; presenza

affidata a un corpo surrettiziamente eloquente che simula una condotta pubblica e ne nasconde una privata, in cui l’individuo si appartiene interamente ma si sdoppia, concedendo l’io esterno, che pur è legato all’interno, al mondo, agli altri: mezzo di scambio di una torsione comunicativa con interlocutori non ideali.

DI RETORICA, ETICA E PRAGMATICA DELLA CONVERSAZIONE «E allora dissi: ‘Poimandres! ora sono giunto al massimo del desiderio e non bramo che ascoltare. Non passare ad altri argomenti’. Poimandres replicò: ‘Taci! non ho ancora portato

a

termine

il primo

argomento’.

‘Ecco non parlo, risposi’». (Corpus Hermeticum,

«Esse

[le persone

1,16)

mediocri

e volgari], per

mancanza di educazione, non sono capaci di conversare tra loro, mentre bevono, con la

propria voce e con i propri discorsi e allora fanno rincarare il prezzo delle suonatrici di flauto, pagando largamente una voce estranea, cioè quella dei flauti, e per mezzo di essa si intrattengono tra loro. Quando invece i convitati sono gente educata e per bene, non vedrai né suonatrici di flauto né danzatrici né citariste: essi soli bastano a condurre tra loro una conversazione con la loro stessa voce, senza dover ricorrere a sciocchezze e giochi, e parlano e ascoltano a turno ordinatamente [...] Così anche le riunioni come la nostra [...] non hanno bisogno di una voce estranea [...] Le persone educate [...] si

intrattengono tra loro soltanto assumendo e dando prova di se stesse nei propri discorsi» (Platone, Protagora, 347c-348a).

Arte di parlare, arte di tacere, arte di ascoltare

Charles Sorel affrontando nella sua Bibliothèque francoise la tematica della trattatistica comportamentale e più in generale Des

250

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

livres qui traitent des moeurs et de la conduite de la vie dans le monde !, si esprime nei confronti dell’opera guazziana nei seguenti termini: «Estant plus élevé dans les connoissances, on peut voir La Conversation civile d’Estienne Guazzo, La vie Civile de Mathieu Palmier, celle de Fabrice Campani, et les Dialogues philosophiques de la vie de Baptiste Giraldi, tous Livres Italiens, qui sont faits pour enseigner ce que c’est la Vie civile et la pratique du Monde, lesquels on a estimez si bons, qu'il y a longtemps qu'on les a traduits en Francois...» 2. Sorel immette la CC di diritto tra i «bons livres du siècle» come testo eponimo sulla retorica della conversazione 3.

Della differenza con l’opera del Castiglione e con quella di Monsignor Della Casa fa menzione lo stesso Guazzo in due luoghi distinti della Civil Conversatione (III, 252v; II, 80r), per il farsi quest’ultima compiuta retorica della conversazione. Sorel sembra non accomunare il testo guazziano né al Cortegiano né al Galateo: «Estant plus élevé dans les connoissances...». Certamente la Civil Conversatione, pur nella inevitabile parentela con l’Architesto, si segnala per la sua maggior complessità e articolazione riguardanti le analisi di finalità, mezzi, strategie, norme che presiedono alla conversazione — la sua retorica — nonché dei

sensi multipli del concetto stesso di conservazione e del suo stesso porsi come «retorica del molteplice». Dalla semantica delle forme di conversazione (la sua classificazione e la sua topica), dalla definizione dei campi in cui i sensi multipli si dispiegano, Guazzo con grande maestria restringe progressivamente il discorso sulla conversazione attestandola come retorica e pragmatica della conversazione. Si spinge cioè ad analizzare le «regole» della conversazione (le griceane «massime conversazionali» 4 che regolano lo scambio verbale), i temi a essa

! CH. SorEL, Bibliothèque francoise, à Paris, par la Compagnie braires du Palais 1667 (Slatkine Reprints, Genève 1970). 2 Ibidem, p. 64. 3 Di «retorica

della conversazione»,

sulle orme

di Guazzo,

des Li-

si occuperà

Sorel ne De la connoissance des bons livres, Pralard, Paris 1671 (Slatkine Reprints, Genève 1979; anche Bulzoni, Roma 1974): in particolare De la manière

de bien parler en toute sorte de sujets, ed. Bulzoni, pp. 227-260. 4 Attraverso la griglia griceana delle quattro categorie (quantità, qualità, relazione, modo), che vanno a costituire le leggi del discorso, R. Nigro ha ana-

lizzato l'economia conversazionale della CC in Gli atti di parola nella «Civil Conversatione», PLurES, Stefano Guazzo e la Civil Conversazione, cit., pp. 95120. Per H.P. Grice, cfr. Logica e conversazione in PLURES, Gli atti linguistici, Feltrinelli, Milano 19882, pp. 199-219, apparso anche in «Communications», 30 (1979), pp. 57-72; ora in H.P. GRICE, Logica e conversazione, Il Mulino, Bologna

RETORICA,

ETICA

E PRAGMATICA

DELLA

CONVERSAZIONE

251

opportuni, tempi e luoghi; stile della conversazione, tipologia dei parlanti e delle individualità storico-sociali dei «dicitori», regole che presiedono alla funzione comunicativa della parola e del silenzio. Si comprende subito quale sia il debito della conversazione, in quanto discorso orale, verso la retorica. Anzi, alcuni interpreti si sono spinti ad affermare che la retorica del XVII secolo (specialmente in Francia) si presenta anche come retorica della conversazione nella misura in cui da una parte essa formula regole per la comunicazione e, dall'altra, riprende determinate regole della conversazione per discorsi estranei alla conversazione stessa 5. Risulta evidente che Guazzo per larga parte utilizzi il repertorio retorico e i suoi procedimenti per dare regole alla conversazione. Quelle che erano le regole della retorica classica divengono le prerogative della conversazione che voglia porsi come piacevole ed efficace. L’oratore diviene, allora, il modello del locutore, ma

anche dell’allocutore, in quanto coinvolti entrambi nel «patto della conversazione» * e rispettosi delle regole del gioco. La teoria della conversazione/comunicazione intersoggettiva si dà a modello la retorica, tramite il concetto di «conveniente», di

1993, pp. 55-76, a cui si aggiunge: Ancora su (ed. originale Studies in the Whay of Words, bridge-London 1989). Sulla teoria degli «atti L. PRIETO, Principes de noologie. Fondements

logica e conversazione, pp. 78-95 Harvard University Press, Camlinguistici» ricordiamo almeno:

de la théorie fonetionnelle du Si-

gnifié, PUF, Paris 1964; J.R. SeaRLE, Speech Acts, Cambridge University Press, Cambridge 1969; tr. it. Atti linguistici, Boringhieri, Torino 1976; J.L. AUSTIN,

How

to do Things with

Words, Oxford University Press, Oxford-New

York

1975; tr. it. Come fare cose con le parole, Marietti, Genova 19882. Ovviamente anche il volume collettaneo Gli atti linguistici, cit., curato da M. Sbisà. Si veda inoltre: 0. DucroT, Les mots du discours, Minuit, Paris 1980; M. HaLLipay, //

linguaggio come semiotica sociale, Zanichelli, Bologna 1983. 5 La tesi è di CH. STROSETZKI, Rhétorique de la conversation. Sa dimension littéraire et linguistique dans la société francaise du XVII° siècle, tr. franc. a cura di S. Seubert, Leiner, Paris 19872 (Titolo originale: Konversation. Ein Kapitel gesellschaftlicher und literarischer Pragmatik im Frankreich des 17. Jarhunderts, Frankfurt, Bern, Las Vegas 1978). Cfr. anche B. BEUGNOT, L'entretien au XVII? siècle, Les Presses Universitaires de Montréal, Montréal

1971. 6 Ne L'arte di ascoltare Plutarco evidenziava la «collaborazione» tra i parlanti, in quanto coinvolti nel discorso. Su Plutarco più oltre. Grice parlerà di «principio di collaborazione» o cooperazione. Discute criticamente questa assunzione di fondo del «texte fondateur» J. Carroy (Science, éthique ou esthétique de la conversation?, «Verbum», XII (1989) 1, pp. 5-11) che ritiene opportuno spostare l'accento dal carattere costitutivo del principio di cooperazione, quale si presenta in Grice, a quello regolativo della conversazione e quindi sulla pertinenza di un'etica e un'estetica della conversazione piuttosto che di una scienza.

DS

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

aptum, e ne deriva le regole. Inventio, dispositio, ma soprattutto elocutio, actio, pronunciatio

e memoria

divengono elementi costi-

tutivi della conversazione civile. Del resto lo stesso Cicerone sembrava autorizzare un simile procedimento (o estensione di procedimento). Nel De oratore, è noto, così si esprimeva: «...la materia di tutte le altre arti deriva per lo più da fonti segrete e nascoste, mentre l’arte di dire è accessibile a tutti, è, per così dire, nell’uso di tutti e appartiene alle abitudini e alla conversazione degli uomini (atque in hominum ore et sermone versatur)?. Del pari si era peritato nel sottolineare come l’eloquenza fosse una, qualunque siano il campo, le forme e i soggetti in e tramite cui si esplichi 8. Il suo ambito, infatti, è così vasto da coinvolgere l’origine, l'essenza, l'evoluzione di cose, virtù e doveri «insomma di tutto quel complesso di leggi che regolano i costumi, gli animi e la vita degli uomini. È anche compito dell’eloquenza illustrare i costumi, le leggi e il diritto, governare gli Stati, esporre con parola ornata e ricca qualunque concetto su qualunque argomento» ?. Pur lamentando Cicerone che «nessuno c’è che studi l’arte del conversare (praecepta sermonis), mentre tutto è pieno della folla dei maestri di retorica» !9, deve poi ammettere che si tratta comunque di insegnamenti «relativi alle parole ed ai concetti, que-

sti stessi apparterranno anche al conversare» !!. Cicerone aveva altresì anticipato che la parola non è meno efficace se, abbandonato il tono enfatico, pubblico, la si esercita con accento dimesso e familiare. Il «discorso familiare», anzi, sarà il più adatto alle

riunioni private, alle discussioni, agli incontri familiari e ai conviti !2. E si chiedeva se poi non fosse davvero possibile dare delle regole al «parlare comune», come si era già fatto per la retorica. Conosciamo la risposta. E allora: esercizio e imitazione apparterranno anche al conversare !3 perché la voce, «strumento della parola», risulti chiara e piacevole. Cicerone fornisce le sue regole per la modulazione della voce: sull'esempio e a imitazione dei Catuli, la pronuncia sarà dolce, le sillabe non troppo larghe e nemmeno smorsicate (litterae neque expressae, neque oppressae),

7 CICERONE, de orat. I, 12.

8 Ibidem, III, 22. 9 Ibidem, III, 76. !0 CICERONE, de off. I, 37, 132. l Ivi.

12 Ivi. 13 Ibidem, 133.

RETORICA,

ETICA

E PRAGMATICA

DELLA

CONVERSAZIONE

253

onde evitare oscurità e sguaiataggine; la voce mai sforzata, nemmeno languida e tanto meno cantante (nec languens nec canora) *4. Anche il conversare, quindi, ha le sue regole. Si bandisca, seguiamo Cicerone nel suo galateo, ogni forma di petulanza e ci si attenga alla grazia; si tenga conto degli interlocutori e si abbandoni subito l’idea di essere entrati «in una caccia riservata»; anche nel-

la conversazione familiare si dia il cambio: ognuno deve rispettare il suo turno. Si deve tener conto anche dell'argomento su cui si discute e adeguare lo stile del discorso; si provveda subito che la conversazione non presenti un qualche «difetto morale», come accade sovente quando si parla degli assenti per denigrarli e offenderli malevolmente. Cicerone raccomanda, inoltre, la pertinenza argomentativa. Il discorso sia sempre ricondotto agli argomenti di cui si intende discutere e che generalmente riguardano affari privati, politica, lettere e scienze. E si ponga attenzione al momento in cui è opportuno che la conversazione termini, circostanza sempre possibile dato che si è trovata precedentemente una ratio incipiendi, un modo per iniziarla. Dalle parole non trapelino mai le passioni dell'anima e come regola generale si rinunci al «rimprovero» e, laddove si sia costretti, lo si faccia nel momento in cui non sia trovata «alia medicina» ‘5. La coerenza del parlare deve ergersi a modello dell’ordine delle azioni e perseguire tramite la conversazione/parola il mantenimento di quell’ordine !6. Sembra che qui Cicerone prefiguri una concezione del linguaggio come forma di azione sociale ed evidenzi la presenza di una «grammatica» comune all’agire linguistico e all’agire sociale. La sua definizione della moderazione appare illu-

14 Ibidem, 134.

15 Ibidem, 38, 136. 16 Ibidem, 40, 144. Retorica e pragmatica del discorso, secondo una efficace immagine di Marc Fumaroli — che dedica al rapporto retorica/pragmatica, eloquentia/sermo un raffinato saggio in cui indaga anche la teoria della conversazione in Aristotele — sono discipline fatte per intendersi, sin dallo loro stesso fine dichiarato: «faire agir». Non è un caso che la riscoperta della retorica sia andata di pari in passo con lo sviluppo presso filosofi e linguisti della «pragmatica» del discorso (Les sanglots d’Ulisse, cit., p. 169): «La rhétorique, art de persuader, et la pragmatique, analyse de la parole comme action ou interaction, ont ceci de commun qu'’elles envisagent les orateurs (les locuteurs) et leur public (les interlocuteurs) sous l’angle exclusif du mouvement: la parole dans les deux cas, non contente d’informer, agit, et pousse à l’action. La rhétorique [...] se situe explicitement dans un ordre institutionnel, civique et politique, qui relève tout entier de la vie active [...] La pragmatique, apparue dans ‘l'ensemble flou’ des sociétés modernes, étudie indistinctement toutes les situations de discours, méme d’ordre privé [...] mais elle les envisage

toujours du point de vue de l’action et de l’interaction»

(ivi).

254

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

minante in questa direzione: essa viene indicata come «scienza del collocare a loro luogo quelle cose che si dicono o si fanno». Luogo dell’azione (pragmatica o linguistica) è l’«occasio». La moderazione allora si configura come «scienza dell'opportunità del tempo adatto all’azione» !7, definizione che avvicina la moderazione

alla

prudenza. Lo scopo è sempre l'approvazione altrui; il principio regolatore sempre legato alla possibilità che Apelle ritorni. E Apelle non manca mai alle promesse: pittori, scultori e anche poeti ricercano l'approvazione della comunità e correggono ciò che viene criticato da molti !8. Come nell’azione, nel parlare tutto deve essere «corrente e connesso reciprocamente». L'osservazione del comportamento altrui insegna a evitare atteggiamenti sconvenienti. Gravi difetti, infatti, si rivelano da piccoli indizi: «dal modo

di guardare, dallo

spianarsi o dal corrugarsi delle sopracciglia, dalla tristezza, dall'allegria, dal riso, dal parlare, dal tacere, dall’alzarsi, dall’abbas-

sarsi della voce e da altri indizi di tal fatta facilmente giudicheremo quale di questi atteggiamenti sia preso in maniera opportuna, quale invece contrasti al dovere e alla natura» !9. Moderazione e temperanza fanno parte della categoria ciceroniana dell’«onesto» che coincide, in questo caso, con l’ordine e la

misura di quanto si fa o si dice ?; partecipano, insieme ad altre, a tale categoria in quanto richiedono una certa attività pratica e non solo intellettuale «adibendo dunque moderazione e ordine in quelle attività pratiche della vita conserveremo l’onestà e la convenienza» ?!. Né si può dimenticare il decorum che riassume in sé il senso della convenienza, l’«ornamento della vita» (per così dire,

precisa Cicerone). Ciò che si addice è onesto e viceversa: «servirsi del pensiero e delle parole con prudenza, ed agire in tutto ponderatamente,

e scorgere ed osservare

ciò che vi sia di vero in ogni

cosa, questi sono tutti comportamenti che si addicono....» 22. Appropriata e costruita armonia, risultato del controllo della ragione, e quindi dell’autocontrollo. Decoro, convenienza sociale, norme di etichetta. L'ideale del gentiluomo cortese, liberale e magnanimo, ebbe non poca influenza sulla costruzione dell’ari-

!7 CICERONE, de off., 40, 144. 18 Ibidem, 41, 147.

19 Ibidem, 41, 146. 20 Ibidem, I, 5, 15. 21 Ibidem, I, 5, 17. 22 Ibidem, I, 27, 93.

RETORICA,

stocrazia dell’età ogni uomo.

ETICA

moderna.

E PRAGMATICA

A Guazzo

DELLA

CONVERSAZIONE

il merito

255

di estenderla

a

Lungo questo itinerario non si può passare sotto silenzio l’ap-

porto di Quintiliano, se è vero che proprio in suo nome il Rinascimento compie e rappresenta un cambiamento di regime educativo, un nuovo modo di insegnare la retorica: «une éducation réglée

de la parole» 23. È parere unanime che la scoperta del Quintiliano «intero», non più disiecta membra, abbia permesso la formulazione di un'arte di parlare e di persuadere implicanti, come sottolinea

Marc

Fumaroli,

«dans

ses exercices

gradués,

une

méthode

pour bien penser, pour avoir des moeurs et des manières» 24. In Quintiliano, infatti, la retorica è scienza del parlar bene, capace di abbracciare in un unico atto, la virtù di un discorso e la moralità

dell’oratore 25. È stata richiamata la tesi secondo la quale solo l’uomo onesto possa parlare bene (virus bonus dicendi peritus). Quintiliano, che segue Isocrate e Cicerone (di Isocrate Cicerone ricorda che dalla sua scuola, «come dal cavallo di Troia», uscirono uomini di prim'ordine 26), vede nella retorica il mezzo che ha condotto gli uomini alla politica e alla civilitas ??. Scopo del sapere e dello studio degli auctores non è tanto la costituzione di una episteme, quanto «l’éveil et la mise en forme d’une puissance d’étre, la parole» 28. Si tratta di una eloquenza, è noto, informata dal principio ciceroniano dell’aptum, del conveniente e che possiede diversi campi di applicazione. Il suo ruolo è un ruolo generativo, una vera e propria «géorgique de la parole» 29, dal cui osservatorio possono essere meglio compresi diversi aspetti della «civilitas». Anche per Quintiliano uno degli ambiti privilegiati di applicazione della retorica è la conversazione in quanto partecipazione a un processo educativo di adulti 3°. Idea in cui il Rinascimento si ritrova. La conversazione fa posto alle dottrine della cultura dotta, alle novità scientifiche, alle mode

letterarie, ai possibili cam-

biamenti politici. Bisogna, in quanto galantuomini, essere preparati per il banchetto delle Muse: educazione permanente e aspetto

23 taire», 24 25 26

M. FUMAROLI, Histoire de la rhétorique et destin de l’Europe, «Commen10 (1987) 39, p. 571. Ibidem, p. 569. Ivi. CICERONE, de orat., II, 94.

27 QUINTILIANO, inst. orat., II, 15, 34; II, 16,9. 28 M. FUMAROLI, Histoire..., cit., p. 570.

29 Ivi.

30 Ibidem, p. 575.

256

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

estetico della paideia procedono di pari passo. Così il senso del decoro, della misura, convenienza,

cortesia, raffinatezza,

concor-

rono a fondare la capacità di coesione della società stessa. E Teeteto aveva assicurato: chi parla bene è bello e buono 3!. Nella vita,

come sulla scena della conversazione, le cose più importanti vanno dette socraticamente non al più ricco, ma al più saggio 32.

Sulla scena/collège, (l’espressione è di Fumaroli) del mondo si apprendono le buone maniere, il «buon tono», lo ricordava ancora Leopardi, e si fa un uso etico del discorso. Come per la retorica tout court, la retorica della conversazione deve farsi dimenticare e

sancire la propria invisibilità a chi la pratichi: la regula universalissima dell’ars est celare artem diviene comune alla società come alla letteratura. Se ne era accorto anche Erasmo. La sua è una pedagogia del moderno 33. Una filosofia dell'educazione con evidenti finalità eti-

31 PLATONE, Teeteto, 185e. 32 SToBEO, Sententiae, III, 1, 180.

33 Mi riferisco qui in particolare al De pueris statim ac liberaliter instituendis, pubblicato in prima edizione a Basilea, presso Froeben nel settembre 1529 e composto, verosimilmente, verso il 1509 (Opera Omnia, LB, cit., I). La storiografia concorda nel considerare quest'opera testo in origine complementare al trattato di retorica De duplici copia verborum ac rerum, voluto da John Colet e poi pubblicato separatamente nel 1511. Sulle vicissitudini che accompagnano la sua pubblicazione si veda la prefazione alla traduzione del De pueris di Edilia Orlandini Traverso in ERAsMmo Da RoTTERDAM, La formazione cristiana dell’uomo, cit, pp. 87-89. Lungi dal costituire un’appendix Copiae, come

la considerava

ancora

Erasmo

nel

1517,

l'opuscolo

costituisce

un

vero

trattato di pedagogia. Per un commento approfondito si rinvia all’Etude critique premessa all’ed. critica del De pueris... da J.-Cl. Margolin (cit., pp. 7-364). Sul carattere etico della pedagogia erasmiana rimando a: A. GamBaRO, La pedagogia di Erasmo, Libreria della Stampa, Torino 1942; R. FoRNACA, L’influen-

za di Erasmo sul pensiero educativo di Locke, «Il Saggiatore», V (1955) 3-4, pp. 407-433; VI (1956) 1, pp. 39-71; E. GaRIN, L'educazione in Europa, 1400-1600, Laterza, Bari 1957; In., Erasmo e l’umanesimo italiano, «Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance», XXXIII (1971) pp. 7-17; Ip., Echi italiani d’Erasmo e Lefèvre d’Etaples, «Rivista critica di storia della filosofia», XXIV (1971), pp. 88-

90; J.-CL. MargoLIN, Pédagogie et philosophie dans le «De pueris statim ac liberaliter instituendis», «Pedagogica historica» VI (1964) 2, pp. 370-391; W.A. REBHORN, Erasmian Education and the «Convivium religiosum», «Studies in Philo-

logy» (1972), pp. 131-149; H. MEyLAN, D’Erasme à Théodore de Bèze. Problèmes de l’Eglise et de l’Ecole chez les Réformés, Droz, Genève

1976. Per l’influsso di

Erasmo sull’educazione di Montaigne: R. TRINQUET, La jeunesse de Montaigne. Les origines familiales, son enfance et ses études, Nizet, Paris 1972, CCVIII-X.

Sul rapporto tra i due cfr. M. MANN PÒÙiuips, Erasme et Montaigne, in Colloquia Erasmiana Turoniensa, Vrin, Paris 1972, II, pp. 479-501. Sulla retorica di Erasmo: J. CHOMARAT, Grammaire tres, Paris 1981, 2 voll.

et rhétorique

chez Erasme,

Les Belles Let-

RETORICA,

ETICA

E PRAGMATICA

DELLA

CONVERSAZIONE

257

co-pedagogiche: viste alla luce della totalità dell’opera erasmiana, si manifestano come programma educativo per l’uomo, per l’acquisizione di quella pietas literata, uno dei fulcri dell’umanesimo erasmiano. La cosiddetta cultura dello spirito lungi dall'essere mero ornamento dell’anima bella, si profila e configura essenzialmente come formazione morale e civile — penso soprattutto al De civilitate morum puerilium — comprendente quell’insieme di comportamenti,

le buone

maniere,

indicati

con

il termine

civilitas.

Se

introducono alla vita di società, risultano altresì indispensabili al miglioramento e allo sviluppo della vita sociale, dei rapporti interumani. Nel De pueris Erasmo aveva precisato che scopo dell’educazione è quello di formare un filosofo, cioè un uomo completo, che viva per gli altri e per la società. La filosofia come scienza per l’uomo. Evidenti i legami con lo pseudo-plutarcheo De liberis educandis 34, utilizzato per larga parte da Erasmo nel De pueris come seconde

main.

In entrambi

si lasciano

cogliere

soprattutto

una

34 L’opuscolo vanta una straordinaria fortuna sin dagli albori del Quattrocento, quando Guarino Veronese ne fece una traduzione in latino verso il 1411, di cui egli stesso dava notizia in una lettera indirizzata al Angelo Corbilelli, pubblicata da Garin in L’Umanesimo, cit., p. 309. L'’opuscolo ebbe una portata «rivoluzionaria» in quanto suo tramite la grecità «proiettava una luce nuova, suggerendo un modello educativo inteso principalmente a costruire l’uomo ‘laico’, il cittadino, pienamente consapevole dei suoi doveri familiari,

civili e religiosi» (G. PIsANI, Nota storico-critica premessa al De liberis educandis, in Moralia, II, cit., p. 6). La quasi concomitante

scoperta del Quintiliano

«integrale», nel 1416 presso il convento di San Gallo da parte di Poggio Bracciolini, segnò una fortunata coincidenza e una data importante per l’Europa. L'Istituzione oratoria è di per sé un programma di educazione completa. Plutarco e Quintiliano divennero gli illustri ispiratori, come è stato notato, di Vittorino da Feltre e della sua celebre «Giocosa». A tacere d’altri (un interessante resoconto degli influssi pseudo-plutarchei nel Quattro-Cinquecento in G. Pisani, op. cit., pp. 5-11), emblematici gli esempi di Enea Silvio Piccolomini e il suo De liberorum educatione (cit.) e Leon Battista Alberti con i suoi Libri della famiglia (Einaudi, Torino 1969), ma anche Erasmo e Montaigne che, in generale, da Plutarco troveranno fonte di assidua ispirazione. Il primo collaborò all’editio princeps dei Moralia insieme a Demetrio Ducas e Girolamo Aleandro, per le edizioni aldine, pubblicata nel marzo 1509; il secondo pervase gli Essais della lettera e dello spirito del maestro di Cheronea. Sul rapporto MontaignePlutarco prezioso il lavoro di I. KonsraNTINovic, Montaigne et Plutarque, Droz,

Genève 1989 in cui l’autrice analizza criticamente la scoperta progressiva di Plutarco da parte di Montaigne, le relazioni tra l’opera plutarchea e gli Essais, i procedimenti tecnici dell’appropriazione, dell’emprunt e infine fornisce un repertorio dei «prestiti» plutarchiani. Al problema dell’educazione Montaigne dedica, com'è noto, specificamente i capitoli XXV e XXVI del libro primo. Per tornare al De liberis..., bisogna ribadire che nel Quattrocento le idee espresse nel libello costituivano un terreno nuovo di cui l’Umanesimo si sarebbe fatto interprete.

258

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

certa liberalità del metodo pedagogico e la raccomandazione una sapiente educazione alla e della parola. Plutarco,

come

Erasmo,

intende

l’educazione

come

di

«unico

nostro bene immortale e divino» 35. Intelletto e parola costituiscono gli elementi imprescindibili della natura umana: «L’intelletto è signore della parola e la parola è a servizio dell'intelletto: è inespugnabile dalla sorte, inattaccabile dalla calunnia, indenne dalla

malattia, al riparo dai guasti della vecchiaia, perché solo l’intelletto invecchiando ringiovanisce e il tempo, che porta via ogni cosa, alla vecchiaia aggiunge invece la saggezza» 36. L’opera educativa dovrà allora esercitarsi sull’intelletto e sulla parola. Il sapere come la virtù, ribadiva Erasmo, ha il suo noviziato: «la filosofia ha la sua infanzia, la sua giovinezza, la sua maturità» 57. Non esula dall’«infanzia della filosofia» la tematica del De civilitate morum puerilium, pubblicato nel 1530 a Basilea, che Erasmo fa oggetto di uno studio per certi versi senza precedeniti38: Civilitas, buona creanza: regione trascurata della filosofia, anzi la regione più umile (crassissimam Philosophiae partem) che tuttavia sa conciliare la benevolenza e far valere le qualità migliori 39, ovvero i buoni costumi si riflettono nella politesse delle buone maniere. L’idea della compostezza, il decoro, si applichi ai gesti, ai vestiti come all’intelligenza del fanciullo: la sua prima qualità è la modestia e la nobiltà si misura sulla capacità di coltivare lo spirito con la pratica delle humanae litterae. Il decorum manifesta l’equilibrio delle facoltà, la chiarezza del giudizio; al

35 Per Erasmo, De pueris..., cit., 2.7, 2.12, 2.13. Per Plutarco De liberis..., cit., 3-4, 2 A-B, 8, 5 E, 14, 10 A, 14, 10 E-F.

36 PLuTARCO, De liberis..., cit., 8, 5 E. 37 ERASMO, De pueris..., cit., 2.12. 38 Erasmo, De civilitate morum puerilium,

in LB, I, 1033-1044.

Ricordo

La Civilité puérile, trad. francese del testo erasmiano ad opera di Alcide Bonneau, Liseux, Paris 1877, cui l’autore premette una Notice sui Livres de civilité

depuis le XVI° siècle, pp. V-LV. Di questo testo da tempo si è occupato N. ELIAS, La civiltà delle buone maniere, cit., in particolare pp. 170-189. Rinvio anche a J.-CL. MargoLIN, La «Civilité puerile» selon Erasme et Mathurin Cordié, in PLURES, Ragione e «civilitas», cit., pp. 19-45; riprodotto in Ip., Erasme: une abeille laborieuse, un témoin engagé, Paradigme, Caen 1993, pp. 157-184. Si veda ora la tr. it., L'educazione civile dei bambini, Armando, Roma 1993 (commento trad. e testo latino), a cura di G. Giacalone e S. Sevry. 39 Erasmo, De civilitate..., cit., 1033 C-D. «Nec inficior hanc esse crassis-

simam Philosophiae partem, sed ea, ut sunt hodie mortalium iudicia, plurimum

conducit et ad conciliandam benevolentiam, et ad praeclaras illas animi dotes oculis hominum commendandas».

RETORICA,

ETICA

E PRAGMATICA

DELLA

CONVERSAZIONE

259

contrario delle maniere rozze che Erasmo aveva stigmatizzato a tinte fosche in uno dei suoi Colloquia: Diversiora 4. Educazione per tutti, ammonisce il De civilitate. E parla di sé: se il testo prescrive regole per il nobile ed è dedicato a un nobile (Henri de Bourgogne), tutti i fanciulli (omnes pueri) riceveranno più volentieri questi insegnamenti 4!. Il libello, questa la persuasione di Erasmo, costituirà senz'altro un pungolo per il fatto che anche i figli dei principi attingeranno agli stessi precetti. Un valore parenetico, dunque. Nella conclusione del De pueris verrà ulteriormente ribadito. Erasmo invita il principe destinatario a offrire il libello a tutti i giovani della sua età: «Hoc quicquid est muneris [...] universo puerorum sodalitio perte donatum esse volui» *. Procedendo alla formulazione di un codice di institutio, Erasmo traccerà lo spartiacque tra inurbanum e aptum relativamente al comportamento, ai vestiti (De cultu corporis: «vestis quodammodo corporis corpus est, et ex ea quoque liceat habitum animi conijcere» 4), alla tavola, alla conversazione, alla voce, alla parola,

al gioco, alla camera da letto. Non possiamo fare a meno

di notare un’interessante conver-

genza che lega con filo sottile Erasmo, Serlio e Guazzo e congiunge nella «dignità del moderno» ogni bambino, ogni mediocre architetto e ogni conversante: progetto ideologico e sociale ed evocazione di categorie proprie della modernità.

La retorica della conversazione non può prescindere, Guazzo lo aveva anticipato, dalle «virtù» e dai «costumi» di una determinata società. Erasmo ricordava che il linguaggio umano può funzionare da «letale venenum» o «saluberrimum pharmacum». Dunque va curato e sorvegliato; esemplato sul debere virtuoso. Se vuol porsi come «saluberrimum pharmacum», come salute (Guazzo), è necessario che la conversazione adotti un metodo proprio.

40 Erasmo, Diversiora, in Colloquia, LB, cit., I, 629-911, tr. it. cit., pp. 153-

162. Emblematico è l'accostamento delle tovaglie nelle locande tedesche alle «vele di canapa staccate dall’albero di qualche nave» (Locande, cit., p. 158), insieme a puzzo, urla, rutti e peti; lenzuola che vanno al bucato una volta ogni

sei mesi; e quello che Erasmo chiama «l'andamento» del pasto nella Babele di linguaggi non è altro che l’andirivieni del «torvo Ganimede», l'oste, che agisce come l’attore della tragedia alternando i cori alla scena, le pappe alle pietanze «avendo cura che l’ultimo atto sia il migliore di tutti» (Ibidem, p. 160). 41 Erasmo, De civilitate..., cit., I, 1033 A-B. 4 Ibidem, 1044 B. 4

Ibidem,

1036 F. In De conviviis

Erasmo

ironizza in due occasioni

comportamento dei cortigiani (delicati aulici): «dissimulandum tandum» (IV, 1038 C e 1038 E-F).

sul

est non imi-

260

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

La prima norma è che «per buono spatio di tempo» l’atto del conversare abbia più riguardo all'entrata che all’uscita (CC, II, 72v-73r). Una sorta di «economia» della conversazione si insinua in queste pagine che in apparenza conduconoa opinioni contrarie al comune buon senso. Il Cavaliere se ne fa interprete: «a me pare, che nelle conversationi riescono assai più grati quei, che allargano, che quei, che restringono la mano» (Ivi). Sin dall'antica Roma «gratificare» e «donare» al popolo era ritenuto il mezzo più idoneo per acquisirne benevolenza e amore, ma anche per far carriera politica (Ivi). In questo caso si rivelerebbe più efficace allo scopo una sorta di procedimento che si ispiri a un principio antieconomico: la spesa ecceda l’entrata. Annibale si vede costretto a precisare il suo pensiero facendo ricorso a un argomento improntato a Plutarco: si possiedono due orecchie e una sola lingua #4. Questa costatazione di natura anatomica ha un suo corrispettivo nella logica della conversazione: «m’a dato soggetto d’attribuire all’orecchie l’entrata, et alla lingua la spesa». Non pago di questa indicazione Annibale

soggiunge:

«...nel conversare

è necessario

l’uso

di due cose principali, che sono la lingua, et i costumi, onde a queste due parti rivolgeremo il nostro pensiero» (Ivi). Lingua e costumi sono dunque «le due principali parti della conversatione». Il Cavaliere legge in questa indicazione una volontà di limitazione: «et perché volete voi restringervi solamente a queste due?». La risposta di Annibale è estremamente consequenziale: «perché, se voi considerate bene, noi principalmente acquistiamo nelle conversationi la benivolenza altrui con le maniere del ragionare, et con la qualità de” costumi. Anzi io potrei ad un certo modo, ridurre tutta la conversatione sotto il capo de’ costumi, fra i quali sono etiandio compresi i ragionamenti; nondimeno perché vi sono alcu-

44 «... perché [...] sono più quelle cose, che s’odano, che quelle, che si parlino» (CC, II, 73r). Così anche Erasmo, Lingua, cit., LB, IV, 601 E-F; ASD, IV, 1A, 32, 230-231

e Calcagnini, Descriptio silentii, cit., p.491; tr. it. cit., p. 36. Per

Plutarco si veda De garrulitate, 1,502 C; in Moralia, cit., I, e De recta ratione audiendi, cit., 3, 38 B. Si indica nell’«incapacità di tacere» l’effetto della «inca-

pacità di ascoltare». Si tratta, quindi, di una «sordità volontaria» (ivi). Gli uomini sono maestri del dire, gli dei del tacere (De garr., 8, 505 F). Nessuna parola ha giovato tanto quanto la parola non detta. «Lo stile concettuoso e l’acuta prontezza nel rispondere sono il risultato di una lunga pratica del silenzio» (Ibidem, 17, 510, F). L'opuscolo ebbe nel Cinquecento numerose traduzioni latine a cominciare da quella dell’umanista inglese Richardus Paceus, Venezia,

Bernardinus de Vitalibus 1522. Nel 1560 Ludovico Domenichi ne fece una traduzione italiana: Della Garrulità overo Cicaleria, pubblicata a Lucca per i tipi di Vincenzo Busdrago. Per ulteriori notizie sull’opuscolo cfr. G. PisANI, Nota storico-critica premessa al De garr. in Moralia I, cit., pp. 347-349.

RETORICA,

ETICA

E PRAGMATICA

DELLA

CONVERSAZIONE

261

ne parti della lingua le quali non dipendono in tutto da i costumi, io seguirò questi due capi» (Ibidem, 73r-v). In questo contesto acquista tutta la sua pregnanza la problematica relativa all’«arte di parlare», ma correlativamente anche all’«arte di tacere» 4 che è «una paradossale arte della parola, un altro capitolo della retorica, della quale ha mantenuto tutte le finalità pratiche: non è tanto, infatti, un'arte di far silenzio, quan-

to un'arte di far qualcosa all’altro con il silenzio» 4. «Chi non sa tacere, non sa parlare» (Ibidem, 74r). Il parlare e il tacere sono forme

di comunicazione

e di conoscenza,

ma

anche

«costumi»

comunicativi. Il «saper contenere la lingua» rappresenta la massima virtù. Come viene ricordato «l’uomo che parla è anche un uomo che tace; manuali di buone maniere (civilité), modelli di conversazione,

trattati di retorica lo ricordano

tra il XVI

e il XVII

secolo» 47. ; E chi controlla la lingua controlla tutto il corpo. Lo ricordava Giacomo

cui Erasmo

direttamente

si richiama:

«Si quis, inquit,

verbo non offendit, hic perfectus est vir. Potest etiam freno circumducere totum corpus. Si autem equis frenum in ora mittimus ad consentiendum nobis, totum corpus illorum circumferimus. Et ecce naves; magnae cum sint et a ventis validis agantur, circumferuntur modico gubernaculo quocumque dirigentis impetus voluerit» 88. Il silenzio richiede esercizio e fa appello al disciplinamento etico, implica umiltà, tolleranza, discrezione, disponibilità all’ascolto. Il tacere, insieme all’ascoltare, sono traguardi ardui, cui ci

si approssima gradatamente, facendo resistenza a se stessi, al fluire fuori di sé della parola; abituandosi «pian piano a tener più chiusa la bocca, et più aperte l’orecchie [...] il nostro infermo comincierà tacendo a risanarsi, et a riacquistar credito tra i sani».

In questa direzione va letto l’obbligo pitagorico di osservare

45 Famosissimo,

anche se molto più tardo e con diverse implicazioni,

il

il

trattato dell’Abbé Dinouart, L'art de se taire, principalement en matière de religion, Simon Bénard, Paris 1771, recentemente,

riproposto dall'editore Selle-

rio di Palermo (1989). 46 J.-J. CourTINE-CL.

HarocHe,

Un’archeologia

del silenzio,

premesso

a

ABATE DINOUART, L'arte di tacere, cit., p. 9.

47 Ivi. Implicitamente si tratta di un invito alla prudenza, di cui tra gli altri, si era fatto portavoce anche Calcagnini nella sua Descriptio silentii, apparentemente elogio del silenzio, ma a ben vedere elogio della parola misurata. Riportando Omero egli affermerà: «Barbaro è il clamore, greco è il silenzio». 4. Giacomo, Epistola, III; riprodotto in Erasmo, Lingua, cit., LB II, 723D; ASD IV, IA, 134, 547-551.

262

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

silenzio per un lungo periodo di tempo. Educazione al silenzio, certo. L’ignorante, l’«idiota», non sa serbare il silenzio: il saper tacere è tipico dell’uomo avveduto, civilizzato, cortese, etico. Chi

sa tacere a tempo riscuote la stessa ammirazione di chi sa ben parlare: se il parlare è segno di «eloquenza» e di «dottrina», il silenzio lo è di «gravità» e di «prudenza». La prudenza, virtù eminentemente politica, si misura sulla valutazione attenta delle circostanze. Nei Dialoghi piacevoli sarà additata come la virtù che «comprende quasi in un cerchio tutte l’altre» (DP, 12) #. L’accenno ai tempi e ai luoghi «opportuni», per il parlare e il tacere, è pervasivo nella Civil Conversatione, insieme alla conside-

razione sulla tipologia dei parlanti e alla regola dell’aurea mediocritas: «secondo il luoghi, i tempi, et i soggetti usare questa virtù hor intensa, hor rimessa; conciosia che nelle cose gravi, et impor-

tanti si dee con le parole, et con gli atti rappresentare la gravità, et nelle piacevoli la piacevolezza, et chi farà altrimente, commetterà uno sciocco barbarismo

ne’ costumi»

(CC, II, 102r; 104v). La

virtù cui si fa riferimento è la «virtù mezana», richiamata spesse volte in queste pagine, così congiuntamente unita al problema della prudenza, che evita «gli estremi vitiosi», in quanto tali «abominevoli» (ivi). È dunque segno di saggezza: «onde si dice che è parte di sapienza il coprir la pazzia co’ silenzio, et che ’1 savio non si conosce dal pazzo se non al parlar, et è anco il volgar proverbio, che assai sa chi non sa, se tacer sa» (Ibidem, 74r). Lo spirito di queste affermazioni è un invito per gli indotti all’ascolto del «ragionamento altrui», ovviamente per l’apprendimento, ma per tutti gli altri quello al controllo interiore, al dominio di sé, modello di condotta sociale e politica dominata dalla prudenza;

arte della circospezione,

dell’attesa,

dell'occasione,

strategia di affinamento, arte di celare l’arte. La risposta al perché tacere è la stessa che al perché parlare. «Chi vuol apprendere a parlare con sentimento, dee ascoltare quei che sanno», non dimenticando che l’ignoranza «è una certa vacuità d'animo» e che l’intelligenza s’acquista e si potenzia di più ascoltando «la viva voce, che leggendo le morte parole» della scrittura, del libro. Seguire l'esempio socratico di interrogare tutti, non rispondere ad alcuno, poiché non si possiede alcuna risposta precostituita. Interrogare per sapere. Esercizio critico della conversazione.

4° La prudenza «vi insegnerà a conoscere, et a reggere voi stessi, la fami-

glia, la città, et i sudditi [...] Questa vi recherà prontezza, isperienza, memoria,

et discorso» (DP, 15).

RETORICA,

ETICA

E PRAGMATICA

DELLA

CONVERSAZIONE

263

Il guadagno ricevuto «frenando la lingua» 5° ha il suo corrispettivo nella spesa che «convien far ragionando» (Ibidem, 74v). È da notare, tuttavia, che anche qui, il primo interlocutore è l’«uomo privo di sapere». In ogni caso «come quel danaio, che è bene speso, oltre al profitto di chi lo riceve, torna a commodo di chi lo sborsa, così le parole ben considerate recano beneficio a chi le ascolta, et honore a chi le esprime» (ivi). Il corpo, la bocca in particolare, è un contenitore che va controllato 51; prima di «spinger fuori» le parole, bisogna ricorrere allo specchio interiore» (Ibidem, 93r) 52. i «Et si come fuori di una borsa escono diverse sorti di monete o d’oro, o d’argento, o di rame, così fuori della bocca escono sen-

tenze, et altre parole di più, et di manco valore» (ivi). Il controllo verbale delle emissioni linguistiche risulta funzionale ad una logica tale per cui come è illecito «fabricare» o «spendere» false monete,

così non

è lecito «né dire, né pensare

cosa che torni in

danno, o biasimo altrui». Timore che la parola prenda il sopravvento, non sia controllabile, metta in pericolo il locutore dopo averlo disonorato, in definitiva faccia «perdere se stesso».

50 «Un tempestivo silenzio è cosa saggia e vale più di qualsiasi discorso» (Pseudo-PLUTARCO, De liberis educandis, cit., 14, 10 E).

51 Tema questo indiscutibilmente plutarcheo. Il «pieno controllo della lingua» richiede un disciplinamento etico: «non si può mantenere il pieno controllo della lingua, che costituisce una parte non piccola della virtù, tenendola costantemente soggetta e docile alla ragione, se non si perviene grazie all’esercizio, l'applicazione e l’operosità, al dominio delle peggiori passioni [...]. La ‘voce che involontariamente balza fuori’, la ‘parola fuggita dalla chiostra dei denti’, o il fatto che ‘certe frasi volano fuori da sole’, sono incidenti che acca-

dono soprattutto agli spiriti non esercitati, che per così dire scivolano e fluttuano per debolezza d'animo, mancato dominio razionale, avventato stile di vita» (PLUTARCO, De capienda ex inimicis utilitate, 8, 90 B-C, in Moralia, III

Etica e politica, cit.). Sulla fortuna europea di questo libello cfr. nota n. 6 p. 287 a cura di Pisani. Oltre la traduzione latina di Erasmo (su cui esemplò la traduzione francese A. du Saix) e la traduzione francese di Estienne Pasquier, è da segnalare la prima traduzione italiana a stampa, a cura di A. Massa, con il titolo Che a l’uomo possano venire di molte utilità dal suo nemico, nel volume Alcuni opuscoletti de le cose morali del Divino Plutarco..., Michele Tramezino, Venezia

1543.

In età umanistica così si esprime anche Enea Silvio Piccolomini: «Dicevano gli antichi che la lingua non deve essere libera di vagare, ma mossa e per così dire governata da freni collegati al profondo del petto ed al cuore [...] La barriera dei denti fu collocata ad arginare la petulanza delle parole, proprio perché l’avventatezza dell’eloquio non sia solo tenuta a freno dalla custodia del cuore, ma anche guardata da una sorta di sentinelle» (Tractatus de liberorum educatione, cit., p. 235). 52 La metafora dello specchio ricorre più volte anche nei Dialoghi piacevoli con diverse accezioni.

264

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

Di esercizio per il pieno «controllo della lingua» parlava, come si è notato, il «moralissimo» Plutarco. Necessità di applicazione e operosità, come in ogni arte. E arte è anche il tacere. Anzi

il tacere «a tempo» costituisce l’arte di ben parlare; è preferibile a quest’ultima in determinate occasioni. C'è di più. Per Guazzo essa è «virtù filosofica». Come l’oratore si riconosce dal ben parlare, il filosofo si riconosce dal saper «tacere a tempo», oltre che dal «ragionar filosofando». Per cui, questo l’invito: «havrà ciascuno a procurare, che la lingua dimostri più tosto necessità, che volontà di ragionare, imitando quel savio, il quale vien commendato per tre segnalate virtù, cioè per non haver mai mentito, per non haver mai detto male d’alcuno, et per non haver mai ragionato se non per necessità» (Ibidem, 95v). Allora si guardi ai tempi della conversazione; «due tempi di parlare» che ciascuno deve proporsi: si parli o di quelle cose «ch'egli intende benissimo», oppure di quelle «delle quali è necessariamente

costretto

a ragionare».

Detto diversamente

si racco-

manda il principio di competenza/pertinenza. Solo in questi tempi è raccomandato più il parlare che il tacere, la parola è preferita al silenzio. Il tempo della parola si rarefà laddove il locutore non intenda a pieno ciò di cui si propone di parlare (il topic), oppure non sia costretto a ragionare. Nello spazio immenso del silenzio, il tempo del silenzio, il silenzio può ridiventare eloquente. La loquacità è comunque fastidiosa, ridicola e sciocca; può divenire autentica malattia, difficile da guarire. Dopo la diagnosi, Plutarco aveva indicato la terapia, gradatim, a piccoli passi. Il rimedio è pur sempre nel male: la medicina appropriata per la loquacità è la parola; ma purtroppo i chiacchieroni non ascoltano nessuno.

Il non saper tacere è soprattutto un non saper ascoltare.

Rispetto ai discorsi il chiacchierone è «filo bianco», è cioè senza misura 5. Anche Socrate in Platone afferma di sentirsi «filo bianco». Nel giudicare la bellezza dei giovani tutti gli sembrano belli 54. Non ha misura. Il chiacchierone è incapace di pagare un compenso così piccolo come il silenzio 55 e procede come «un animale verso i pascoli consueti» 5. Certo, non bisogna deporre le parole come se fossero un «peso opprimente» 5, buona regola è, secondo

53 PLUTARCO, De garrulitate, cit., 22, 514 A. 54 PLATONE, Carmide, 154b. 5 PLUTARCO, De garrulitate, cit., 22, 514 B. 56 Ivi. 57 Ivi.

RETORICA,

Plutarco,

«rimanervi

ETICA

E PRAGMATICA

accanto»

anche

DELLA

CONVERSAZIONE

265

dopo averle pronunciate 88.

Bisogna quindi sorvegliarle anche dopo averle proferite. Gli uomini, infatti, usano la parola o quando ne hanno bisogno, o per essere utili ai loro interlocutori oppure per procurarsi reciproci favori, addolcendo col sale delle conversazioni le ore libere 59.

Chi al contrario fa un uso eccessivo e inadeguato della parola, «che è il mezzo

di comunicazione

più piacevole e umano,

fini-

sce per trasformarla in qualcosa di disumano e insocievole» 90. La loquacità tra le «passioni dell'anima» vanta il primato di assommare in sè pericolo, odio, ridicolo 6!. Si identifica in Plutarco con l’«inesauribile voracità di parole» 2. Da qui l'assunto: chi ha ricevuto un'educazione veramente nobile e regale impara in primo luogo a tacere, poi a parlare ®. È il silenzio, spesso, a determinare la strategia del combattimento 6. Bisogna allora imparare a «bloccare il flusso» verbale 65. Infatti, come nel corpo le parti malate e sofferenti attirano quelle vicine, così la lingua dei chiacchieroni, sempre «infiammata e palpitante», trascina e attira verso di sé qualche segreto che dovrebbe rimanere nascosto 66. Necessità, quindi, del disciplinamento: il ragionamento agisce come ostacolo «costantemente posto davanti alla lingua» per frenare il flusso delle parole, e impedir loro di scivolare fuori 9. La sordità dei chiacchieroni è del tutto volontaria e forse, aggiunge Plutarco, essi rimproverano alla natura di aver forgiato una sola lingua e due orecchie. Il garrulo parla a chi non l’ascolta e non ascolta chi gli parla. Se ascolta un poco, per riflusso della sua loquacità ricambia l'ascolto per così dire moltiplicando per cento la parola. In lui il condotto dell'udito, commenta ironicamente Plutarco, non è collegato con l’anima, ma con la lingua, peggio del portico di Olimpia che per gli echi prodotti viene chiamato «Sette-voci». Mentre gli altri trattengono le parole, i loquaci le lasciano scappare: simili a vasi «se ne vanno via vuoti di senno, ma pieni di rimbombo». Le condizioni più importanti nella e della conversazione sono

58 Ibidem, 23, 514 E. 59 Ivi.

60 61 ai 62 63 64 65 66 67

Ibidem, Ibidem, Ibidem, Ibidem, Ibidem, Ibidem, Ibidem, Ivi.

6, 504 E. 7, 504 F. 20, 512 F. 9, 506 C. 9, 506 E. 22, 513 D. 14, 510 A.

266

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

l’ascoltare e l'essere ascoltati. La natura

ha protetto,

Plutarco, la lingua con lo steccato dei denti, in modo

ribadisce che se non

obbedisce alle «redini del silenzio della ragione», si può morsicare. Doppio freno, dunque 68. A nessuno infatti servono «magazzini privi di porte» o «borsellini senza legacci». ‘Il garrulo usa una bocca senza chiave né porte, che riversa fuori un flusso ininterrotto simile a quello del Ponto, come se la parola fosse la cosa meno preziosa 6. Il loquace, quindi, non trova quella credibilità cui mira ogni discorso, perché il fine proprio del parlare consiste, appunto, nel generare credibilità in chi ascolta 7°: «ascoltare sempre e tenere a portata di mano gli elogi riservati alla discrezione nel parlare e contemporaneamente la dignità, santità e religiosità del silenzio» 7!. A tal punto «il silenzio è qualcosa di profondo, di mistico e di sobrio» 72. Platone, ricorda Plutarco, nel Protagora ? elogia quegli uomini che sanno concentrare pochi concetti in poche parole e li paragona ai lanciatori di giavellotto «perché il loro linguaggio è serrato, denso, asciutto» 74. La concettuosità e la vivacità delle risposte derivano da una lunga pratica del silenzio 75.

La vita stessa dell’uomo, preciserà Guazzo «insieme con la morte è in facultà della lingua». Da specchio dell’anima, suo segno manifesto (DP, 522) e intenzione a «dichiarar la [...] mente» (DP, 658), può divenire quel «picciol fuoco» che gran fiamma seconda, con effetti imprevisti e imprevedibili. Il «periculo» della lingua espone alla maldicenza, sempre gratuita; si proferiscano invece parole per quanto possibile «pure, et dettate da semplice affetto, quali convengono ad huomo leale, et christiano, ritenendo

sempre che con La evitarlo

in se stesso quel detto che è meglio sdrucciolar co’ piedi, la lingua» (CC, 75v) 7°. lingua «sdrucciola» sul comportamento individuale; per bisogna fare della lingua «il timone della nave», il quale

68 Ibidem, 3, 503 C.

69 Ibidem, 3, 503 C-D. 1041bidem,33,503 DI 71

Ibidem, 16, 510 D.

7? Ibidem, 4, 504 A-B. 73 PLATONE, Protagora 342 e. 74 PLUTARCO, De garr., cit., 17, 510 E.

75 Ibidem, 17, 510 F-511. A. 76 Il detto è attribuito a Socrate (Gnomologium tr. it. in G. GIANNANTONI

Bari 19862, p. 401).

(a cura di), Socrate.

Vaticanum, 743 n. 483,

Tutte le testimonianze,

Laterza,

RETORICA,

ETICA

E PRAGMATICA

DELLA

CONVERSAZIONE

267

«se ben’ è la più piccola parte della nave, nondimeno salva, et affonda la nave» (ivi). La metafora della nave suggerisce la presenza del corpo nella sua dinamica nautica. Ma di un corpo che rimanda all'anima. L'uso del timone salva o perde la nave; l’uso della lingua salva o perde la vita, l’anima nella sua attività, nel suo fluire nel mare della vita 77. Chi vuol esser «degno» della civil conversazione non deve soprattutto offendere l’altro «con la lingua». Ma questa non sarà l’unica condizione

da soddisfare;

il debito non

sarà intera-

mente pagato se a tale ineludibile punto di partenza non si farà seguire il «giovare» e il «dilettare», per raccogliere «tutto il frutto della lingua», poiché la lingua, il parlare, «congrega gli uomini» «insegnando, conferendo, disputando, discorrendo»; li congiunge insieme,

ciceronianamente,

«con

un

certo

natural

legame».

Sul

valore ontologico e intersoggettivo del linguaggio Guazzo si era soffermato, lo ricordiano, già nelle prime pagine della Civil Conversatione. Linguaggio che è manifestazione esemplare dell’umanità» 78; non

solo

quindi

tessuto

connettivo

della

società,

ma

anche, come sottolinea Garin riferendosi alla posizione di Guazzo, «vivente tradizione del sapere umano, per cui la scienza si realizza e si trasmette». Nessuna scienza, Guazzo ne è ben consapevole,

può essere appresa se non è trasmessa da altri. La forma della comunicazione e della comunicabilità del sapere si esplica soprattutto attraverso la parola, la conversazione ormai fatta civile, fine e principio di ogni sapere (I, 19r), cribro della verità. La conversazione è mezzo per realizzare la scienza, frutto di un processo collettivo: l’uomo è come l’ape, non può vivere solo (Ibidem, 16v). Il linguaggio è la sua più genuina, profonda essenza. La natura ha dato la «favella» all'uomo ?° non già perché parli con se stesso, ma perché lo metta in contatto con gli altri, su molteplici piani. La sua condanna fu Babele, la confusione delle lingue. Di questo «istromento ci serviamo in insegnare, in dimandare,

in conferire,

77 Il buon cristiano e l’uomo leale (e virtuoso) si appropriano delle buone maniere «man mano che le pratiche civili si allontanano dai comportamenti religiosi» (J.-J. COURTINE-CL. HAROCHE, op. cit., p. 13). Civilité e honnéteté diventano il suo credo. Per ciò che concerne il concetto di honnéteté e di «honesto» in riferimento a Guazzo cfr. Le Courtisan de B. Castiglione, et la vogue italienne des manuels de comportement, di J. Guidi in PLURES, La catégorie de l’honneste dans la culture du XVI® siècle, «Actes du colloque international de Sommières II», Université de Saint-Etienne, Institut d’Etudes de la Renaissance et de l’Àge Classique, 1985, p. 31. Si vedano inoltre le numerose pagine consacrate all'argomento da M. Magendie, op. cit., passim. 78 E. GARIN, L’Umanesimo italiano, cit., p. 180. 79 Cfr. CICERONE, de orat., cit., I, 33-35.

268

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

in negotiare, in consigliare, in correggere, in disputare, in giudica-

re, in isprimere l’affetto dell'animo nostro, co’ quali mezzi vengono gli uomini ad amarsi, et a congiungersi fra loro (ivi) 8°. La conversazione è essenzialmente parola, Guazzo puntualizza «lingua» e «costumi», e si comprende bene il significato da attribuire alla determinazione circa «le due principali parti della conversatione». Si conia una buona moneta e la si spende come mezzo di scambio. Chi voglia «usar felicemente della civil conversatione» non può prescindere dalla consapevolezza che la lingua è lo specchio dell’anima, aderisce all'anima come un vestito, è in definitiva il suo ritratto. E come dal suono del denaro si riconoscono «la bontà, et falsità sua», così dal suono delle parole «com-

prendiamo a dentro le qualità dell’uomo, et i suoi costumi» (Ibidem, 75v). Qui si insinuano le buone maniere, la gestione corretta del flusso verbale e del corpo, dell’eloquenza dei suoi atti linguistici e gesti 8!. Il gesto e la voce. L’actio e la pronunciatio retoriche. Un comune errore risiede, come già suggeriva Plutarco, nel fatto che generalmente ci si esercita nell’arte del dire ma non in quella di ascoltare: come se l’artificio, lo studio e l’esercizio riguardino solo il discorso e non l’ascolto, il che equivale a dire che non ci si può avvicinare all’ascolto in modo improvvisato 82. Guazzo (I, 95r, ma anche Montaigne) ha ben presente questo testo di Plutarco e ha imparato, da buon discepolo, la lezione. Ripete quasi alla lettera: «Se è vero che chi gioca a palla impara contemporaneamente a lanciarla e riceverla, nell’uso della parola, invece, il saperla accogliere bene precede il pronunciarla, allo stesso modo in cui concepimento e gravidanza vengono prima del parto» 83. Le uova non fecondate delle galline, le cosidette «uova chiare» o «parti di vento» 84, presentano gusci imperfetti e sterili; così

80 Cfr. CICERONE, de off., cit., I, 16, 50.

8! Decoro anche per i gesti. Lo ricordava, tra gli altri, Enea Silvio Piccolomini nel suo Tractatus de liberorum educatione (cit., pp. 209-211): «Il decoro, dunque, va sempre mantenuto, nei movimenti e da fermi. E di questo i Greci si dettero tanto pensiero da formulare una legge del gestire che chiamarono chironomia. La approvò Socrate; Platone la mise tra i comportamenti civili; non la dimenticò Crisippo nei precetti sull’educazione dei figli». 82 PLUTARCO, De recta ratione audiendi in Moralia II, cit., 3, 38 D. Per le

traduzioni cinquecentesche dell’opuscolo cfr. Premessa storico-critica di G. Pisani, pp. 232-235. 83 Ibidem, 3, 38 E. 84 Ivi. L'immagine dei «parti di vento»

lium, 559b 21 sgg.; Gener. anim. 751a 10 sgg.

risale ad Aristotele, Hist. anima-

RETORICA,

ETICA

E PRAGMATICA

DELLA

CONVERSAZIONE

269

è dei discorsi: è «di vento» quel discorso che esce da giovani «incapaci di ascoltare e disabituati a trarre profitto attraverso l'udito» 85. Discorsi «di vento» quelli non fecondati dall’ascolto. E pensare, soggiunge Plutarco, che al momento di travasare qualcosa, perché l’operazione riesca correttamente, si inclinano e ruotano i vasi al fine di evitarne la dispersione. Quando si ascolta, di solito non ci si dispone né si impara, a offrire se stessi a chi parla e a seguirlo con attenzione, lasciandosi così sfuggire affermazioni utili. Anche qui, come nell’eloquio, si tratta di trattenere e disci-

plinare. Generalmente si è portati, in mancanza di disciplina all’ascolto, a recepire discorsi magari insulsi e a divenire «sordi volontari» di fronte a un discorso utile; si preferisce riempire le orec-

chie di «qualche cosa», precludendosi ciò di cui si ha veramente bisogno: «vasi difettosi e incrinati». Bravo educatore sarà pertanto chi saprà rendere sensibile «alle parole le orecchie dei ragazzi, insegnando loro a non parlare molto ma ad ascoltare molto». Non a caso

allora, la tematica

diverrà

ricorrente,

la natura

all'uomo due orecchie e una lingua sola: siamo Plutarco, ad ascoltare più che a parlare 86. Anche

l’ascolto

ha il suo

codice,

la sua

ha dato

tenuti, ribadiva

etichetta.

Si eviti

innanzitutto di agitarsi e abbaiare a ogni affermazione; anche se il discorso non è gradito all’ascoltatore, questi attenda che il locutore sia arrivato alla conclusione, concedendogli tempo prima di investirlo con obiezioni; si conceda cioè una pausa di riflessione,

perché l’altro abbia il tempo, eventualmente, di apportare qualche correzione o integrazione al suo discorso. Chi si mette subito a controbattere finisce per non ascoltare e per non farsi ascoltare. Si prenda l’abitudine, invece, di ascoltare in modo «controllato e rispettoso»; quest’atteggiamento consentirà di cogliere al volo un discorso utile, e di discernere l’inutilità di un altro. Il «retto com-

portamento» nell’ascolto permette di considerare l’eloquio positivamente, perché un discorso è tale solo per chi voglia udirlo o accoglierlo. Da qui la concezione etica dell'ascolto. Anzi l’etica dell'ascolto. Chi ascolta, infatti, deve liberarsi da ogni atteggiamento di invidia, malizia e livore verso chi parla. L'’invidia, in particolare, è pessima consigliera, dal momento che rende fastidiose e sgradevoli le osservazioni utili: «[...] gli invidiosi godono di qua-

lunque altra cosa piuttosto che di quelle dette bene». Molte possono essere, inoltre, le cause dell’origine dell’invidia in chi ascolta:

ricchezza, fama o bellezza di chi parla. In questo caso la ragione

SOMIVI Soma

270

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

del tormento dell’ascoltatore è la felicità altrui. Ma in verità chi soffre nell’ascoltare un discorso giusto è infastidito dai suoi stessi beni. Plutarco ammoniva contestualmente che un discorso è un bene solo per chi lo voglia ascoltare. IL L’invidia, tuttavia, può nascere anche da disposizioni rozze o selvagge per cui la «rivolta» contro chi parla è mossa da esibizionismo e cattiva ambizione. L'aspetto più negativo colto da Plutarco è che un simile comportamento scorretto impedisce a chi ascolta di concentrarsi serenamente su ciò che viene detto; la sua men-

te è distratta e disturbata da elementi estranei al discorso: «ora si mette ad osservare se le proprie capacità siano inferiori a quelle di chi sta parlando e ora invece si sofferma a guardare se gli altri seguano compiaciuti ed ammirati, e si sente urtata dagli assensi e si indispettisce con i presenti se mostrano di gradire chi parla». Riguardo ai discorsi l'invidia lascia cadere in oblio quelli già pronunciati; ne autocensura il ricordo, perché rammemorarli significherebbe sofferenza e, al tempo stesso, ipoteca i futuri per il timore che possano risultare migliori. E auspica che al più presto chi parla termini il suo bel discorso. L’ascolto finisce senza alcun ripensamento del detto, solo oblio e voluta dimenticanza. L’invidioso pensa piuttosto alle reazioni dell’uditorio per evitare chi approva e accordarsi con chi critica, distorcendo magari le argomentazioni svolte. Se non riesce a distorcere, o non c’è nulla da sottoporre a una simile operazione, si scredita comunque chi par-

la insinuando che argomentazioni analoghe siano state svolte più efficacemente da qualcun altro, e così via nel tentativo di rendere l'ascolto «inutile e vano» 87. L’etica dell'ascolto impone dunque una «tregua» tra voglia di ascoltare e tentazione esibizionistica. Bisogna disporsi all'ascolto: questa è la via «diritta», etica, per ottenere il diritto alla parola. E disporsi all'ascolto significa predisporre l’animo in modo pacato e non preconcetto, come se si fosse invitati a un banchetto, per apprezzare a pieno l’efficacia di chi parla. Gli esiti felici di un discorso non vengono da soli, o dalla fortuna, sono invece frutto di applicazione costante e di faticosi studi. Spinti da sentimenti di ammirazione si dovrebbe provvedere a imitarli. Nel caso di un insuccesso si dovranno vagliare analiticamente le ragioni che l'hanno determinato: i bravi padroni di casa sanno trarre profitto dagli amici come dai nemici. Un modello senz'altro da evitare sarà quello del locutore che fallisce per pochezza intellettuale,

87 Ibidem, 5, 39 E.

RETORICA,

ETICA

E PRAGMATICA

DELLA

CONVERSAZIONE

271

vacuità espressiva, portamento volgare, smania congiunta al compiacimento del consenso: sarà piu agevole cogliere tali difetti nel-

l'ascolto piuttosto che nella propria locuzione. È il momento in cui è opportuno trasferire il giudizio da chi parla a noi stessi, per valutare se inconsciamente cadiamo in atteggiamento erroneo. L'errore altrui deve far correggere il nostro (così Castiglione, Guazzo e Montaigne). Va letto in questa direzione, secondo Plutarco, il detto platonico: «Sono forse anch’io così?» 88: «Come negli occhi di chi ci sta vicino vediamo riflettersi i nostri, così noi dob-

biamo ravvisare i nostri discorsi in quelli degli altri per evitare di disprezzarli con eccessiva durezza e per essere noi stessi più sorvegliati quando arriva il nostro turno di parlare» 89. Certamente anche il buon banchetto si caratterizza per la presenza di convitati che sanno quando è il loro turno di parlare. Nel Simposio dei sette sapienti (come del resto nelle Questiones convi-

vales) Plutarco invita a procedere a turno, come suggeriva Omero, «uomo per uomo» 9. Si profila tuttavia, da sempre, un’insidia pericolosa per l’etica dell’ascolto. L'ascolto, del resto, non sempre sfugge all’adulazione che, accanto all’atteggiamento denigratorio, generalmente occasionato dall’invidia, definisce i limiti estremi del non ascolto. Anche l'ammirazione incondizionata impedisce di attuare un vaglio critico e attento, per simpatia e fiducia verso chi parla. Se possibile, bisogna mettere tra parentesi, operare una epoche, lasciar perdere chi parla per valutare unicamente il pregio intrinseco delle argomentazioni. «Come in guerra, così anche in ascolto ci sono molti vani apparati: la canizie, l'intonazione suadente, lo sguardo accigliato e l’inclinazione dell’autoelogio di chi parla»; sconcertano sicuramente l’ascoltatore giovane, come gli applausi del pubblico. Del pari, lo stile racchiude qualcosa di ingannevole: scorrendo fluente, investe i concetti in modo enfatico e ricercato. Ed è qui che Plutarco adduce un esempio, ripreso anche da Montaigne: «Si narra che Melanzio, sentendosi chiedere un parere su una tragedia di Diogene, rispose che non gli era riuscito di vederla perché eclissata dalle parole».

Il modello stilistico sarà allora rappresentato dal comportamento delle api e non da quello delle tessitrici di ghirlande: queste ultime intrecciano soltanto composizioni soavi ma effimere, mentre le api, pur svolazzando di fiore in fiore, «vanno a posarsi

88 Ibidem, 6, 40 D. 89 Ivi. 9 PLutARco, Septem Sapientium Convivium, 6, 151 E (Il simposio sette sapienti, Sellerio, Palermo 1991, p. 26, a cura di P. Puppini).

dei

272

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

sul timo, la più acre e la più pungente delle piante, e vi si fermano» 9!.

i

Il locutore deve dunque liberare lo stile da ogni eccesso di vacuità,

mirando

unicamente

al risultato.

Il buon

ascoltatore,

colui che sa ascoltare, da parte sua «deve lasciar perdere le parole fiorite e delicate e pensare che gli argomenti teatrali e spettacolari sono solo ‘pastura di fuchi’ sofisticheggianti, ed immergersi invece con la concentrazione fino a cogliere il senso profondo del discorso e la reale disposizione d’animo di chi parla, per trarne ciò che è utile e giovevole, rammentando a se stesso che non è andato a teatro o in un odeo, ma in una scuola e in un’aula per raddrizzare la propria vita con la parola» ?. Dall’etica dell'ascolto si è così approdati all’etica del discorso, della parola che agisce sulla propria vita; all’atto di parola e al suo possibile indirizzo etico. Si tratta ancora e comunque della parola altrui, della parola che ci è giunta con l’ascolto; ci aiuterà comunque a valutare, partendo da noi stessi «se qualche passione sia divenuta più debole, qualche fastidio più leggero, se si siano risaldati [...] determinazioni e volontà», se in definitiva sia cresciu-

to in noi «entusiasmo per la virtù e per il bene [...] ‘Se un bagno o un discorso non purificano — dice Aristone — non hanno alcuna utilità’» 3. Bisogna tenersi stretti ai concetti. I giovani non debbono pretendere di possedere «uno stile attico e sobrio», almeno non immediatamente: è come se qualcuno rifiutasse di bere un antidoto perché la coppa in cui lo si porge «non è di ceramica coliade attica» o di indossare un mantello d’inverno «se la lana non è di pecore attiche, ma siede inerte e immobile, avvolto, per così dire,

nel mantello leggero e sottile del linguaggio di Lisia». Considerazioni che diventeranno «consustanziali» al «libro sincero» di Montaigne, che come Plutarco stigmatizzava il deserto d’intelletto e di buoni pensieri, la pedanteria formale e la verbosità: rischio reale «dato che gli adolescenti non osservano la vita, le azioni e la condotta pubblica di un uomo che si presenta come filosofo, ma gli ascrivono a lode i lemmi, le frasi, la bravura dell’esposizione, non

sapendo o non volendo indagare se ciò che dice sia utile o inutile, se sia indispensabile o al contrario vuoto e superfluo» 9. A questi precetti Plutarco ne fa seguire altri. Chi va al «banchetto delle parole», se il tema è stabilito, ascolti in silenzio chi

3! PLUTARCO, De recta ratione audiendi, cit., 8, 41 F.

92 Ibidem, 8, 42 A. 93 Ibidem, 8, 42 B. 9 Ibidem, 9, 42 D-E.

RETORICA,

ETICA

E PRAGMATICA

DELLA

CONVERSAZIONE

273

parla, non devii su altri argomenti e al momento opportuno faccia domande pertinenti che non esulino, cioè, dalla competenza del locutore 9. Si eviti di porre troppe domande e intervenire in continuazione. Non si eliminino mai garbo, misura, affabilità: per questo «gli antichi collocarono Ermes vicino alle Grazie, volendo significare che un discorso richiede soprattutto grazia e gentilezza». In chiusura Plutarco ritorna alla sua etica dell’ascolto: «Altri pensano che chi parla abbia dei doveri da assolvere e chi ascolta, invece, nessuno; pretendono che quello si presenti dopo aver meditato ed essersi preparato con cura, mentre loro invadono la sala liberi da ogni pensiero e riflessione, e prendono posto esattamente come se fossero andati a un banchetto, a spassarsela, men-

tre altri faticano» *. Plutarco è del parere, condiviso da Montaigne, che persino un convitato «che sappia stare in compagnia, ha

dei doveri da assolvere»; ma molti di più «ne ha chi ascolta, perché è coinvolto nel discorso ed è chiamato a cooperare con chi parla [...] Quando si gioca a palla le mosse di chi riceve devono essere

in sintonia con quelle di chi lancia: così in un discorso c’è sintonia tra chi parla e chi ascolta se entrambi sono attenti ai loro doveri». Montaigne affermerà, pensando a queste pagine plutarchee, che la parola è per metà di chi parla e per metà di chi ascolta, intendendo con questo, peraltro, investire problematiche che qui non possiamo esaminare. Guazzo richiama a massima conversazionale quella «di non lasciar precedere la lingua all’animo, perché si suol dire, che non è degna d’huomo savio quella parola, la quale non è stata prima infusa nella mente» (Ibidem, 93v). Per evitare di «spingere fuori» le parole senza controllo è necessario «formarsele dentro», come in uno «specchio interiore», se vogliamo che «gli ascoltanti» non le vedano uscire dalla bocca piuttosto che dal petto, «casuali, più che ragionevoli» (ivi). Erasmo

ripeteva:

«Quid est gestare cor in

lingua? Prius effundere sermonem quam cogitaris, quid sit dicendum. Quid est habere linguam in corde? Est non nisi praecogitata tecum et expensa loqui» ”7. Bisogna eleggere a massima anche il principio di competenza; parlare di ciò che si conosce, evitando, quindi, di discorrere di pittura «in casa di Apelle» e di musica come Tolomeo: «Altra cosa o

95 Ibidem, 10, 42 F. 9 Ibidem, 14, 45 E. 9? Erasmo, Lingua, cit., LB IV, 697 F; ASD, IV, IA, 92, 199-201.

274

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

Re, è lo scettro, altra il plettro» (ivi), ovvero con Properzio: «Basti al nocchiero ragionar de’ venti / Al bifolco de’ tori, et le sue piaghe / Conti un guerrier, cont’il pastor gli armenti» (Ibidem, 94r). Con Plutarco Guazzo invita, inoltre, a non interrompere l’interlocutore, a non intromettere «la lingua ne i ragionamenti altrui», finché non si sia compreso

il locutore: «molte persone [...]

non lasciano finire il compagno, ma prevenendo a quel ch'egli vuol dire, et quasi togliendogli le parole di bocca, vogliono mostrar di saper meglio di lui, quel che voglia inferire; nel che imitano certi idioti, i quali mentre odono cantare i sacerdoti, rimescolano insieme la lor voce, et tengono bordone al canto, sen-

za saper, quel che si dicano» (Ibidem, 94r-v). Vizio «odioso» nella conversazione quello di «interrompere il favellatore». Ancora peggio «l’impatienza dell’ascoltatore» che induce a prendere «le cose in altro sentimento di quello, che ancor non ha ben espresso colui che ragiona» (Ibidem, 95r). L’ascoltatore impaziente si comporta come il cane che sentendo aprir la porta abbaia senza sapere se si tratti di amico o nemico. Se l’«ascoltante» si fosse dimostrato più paziente e disponibile a udire la fine del discorso, si sarebbero evitate contese e confusioni. Chi è impaziente nell’ascoltare risulta temerario nel giudicare (ivi). Guazzo richiama anche alla necessità, nella conversazione, di quella che i linguisti chiamano oggi «presa di turno». Non bisogna parlare tutti insieme né accavallare le voci o interrompersi a vicenda: in questo caso la conversazione

assomiglierà alla «conversatione degli stormi, o delle mulacchie»: «gracchiano» tutti insieme. L’ascoltatore «giudicioso» è costretto, in questa circostanza, per non mostrarsi parziale, a guardar ora l’uno ora l’altro, annuire a tutti con il capo «per mostrare d’ascoltar tutti». Ora Guazzo chiama in causa direttamente Plutarco («un greco»): il «voler dir ogni cosa, et non ascoltar niente, è una specie di tirannia, à tale, che ne ragionamenti vi ha da intervenire tra chi dice, et chi ascolta una corrispondenza,

come

nel gioco di palla;

oltre che l’uomo avezzo a star patiente, et temperarsi nell’udire, fa conoscere a tutti quanto egli sia affettionato alla verità, et quanto nemico del parlar inconsiderato, et contentioso» (Ibidem, 95r-v).

C'è una pagina di Matteo Palmieri che merita attenzione e vale la pena riportare per intero. Riguarda anch'essa le massime, le regole costitutive della conversazione, il patto di collaborazione tra i parlanti perché l'equilibrio — e il gioco comportamentale — non venga rotto: rispetto del turno, pertinenza degli argomenti, chiarezza, nessuna prolissità (fornisci le informazioni richieste nella conversazione), ordine del discorso e qualcosa d’altro. Ascol-

RETORICA,

ETICA

E PRAGMATICA

DELLA

CONVERSAZIONE

275

tiamo Palmieri: «El parlare conveniente de’ ragionamenti che in particulare

s’usano,

sia commune,

non

effeminato

o molle,



troppo altiero; le parole siano spedite et chiare,et sanza iniuria d’alcuno. Quando è con misura detto quello che in parte ci tocca, rendasi il luogo ad altri et ascoltando si scambi il ragionare, in modo non sia tedio né rincrescasi pel parlare troppo. Sia considerato di che cose si parla: se di cose gravi et che importino, con auctorità pesata s’aiunga il moderato dire; se di cose piacevoli, siano le parole iocose et con sollazzo festive. In gnuno modo si dichino parole che dimonstrino o diano sospecto di vitio. Dire male d’altrui in presentia o in absentia si faccia, è odioso, riprensibile et disonesto, et merita vituperio. Quando di facti proprii o che a noi s’apartenessino non s’avessi a dire, piglisi ragionamenti di cose honeste et più che si può fructuose et utili, come di bene vivere,

che cosa

meriti

honore

et che vituperio,

come

si governi

bene la famiglia, come la republica. Sempre quando siàno ociosi, si parli d’industrie, d’ingegni, doctrine et buone arti; et se i ragionamenti transcorressino ad altro, rapichinsi a questo, observando sempre che tale ragionare sia con dilecto accomodato et abbia debito principio et modo nel fine, acciò non sia troppo lungo, onde si diviene in vitio parabolano. Et come in tutta la vita si vuole mancare di perturbazione, così il parlare non sia irato, non arrogante o superbo, né anche non sia timido o pigro, né in alcuna parte disordinato, ma sempre si dimonstri reverire et amare quegli con chi si parla. Come nel conversare dà grandissimo ornamento il temperato parlare, che né in troppo né in poco disordina, così ancora si commettono varii vitii, fra’ quali sono molti che consentono ciò che si dice o fa, et a nulla si contrapongono per non dispiacere...» 98. Si eviti di divenire uno Gnatone, sempre e comunque condiscendente, che segue quella «generatione d’huomini» che vuole apparire ciò che non è. Che si compiace di esser lodata per quel che non è: «Di natura contraria si truovono molti che sempre dimonstrono meno che non hanno, et niegano o scemano le loro proprie cose, secondo si vede fare alla magiore parte de’ vechi. In ne’ ragionamenti festivi et di piacere si debbe ancora seguire virtuoso ordine, però che vituperabile è molto dire cose da ridere et, più tosto cercando come si faccia ridere che come si parli honesto, essere simile a dissoluto buffone. Non avere modo a dire alcu-

na cosa di dilecto, et non consentire alle volti gli altrui motteggi è

98 M. PALMIERI,

Vita civile, cit., 37v-38r, 121-126 (p. 84). Sott. mia.

276

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

una inhumanità roza e salvatica. Chi a’ tempi temperatamente sa motteggiare è piacevole; ma sopra a ogni altro colui che in ogni conversatione di molte cose, bene et come si richiede a’ tempi, con maniera ragiona et fa, è universale et compiuto di conversativa virtù» 99. Per ritornare

alla

metafora

del

denaro,

Guazzo

stesso

la

richiama alla fine del suo «ragionamento della lingua» (Ibidem, 92r): «si come il danaio ha dal conio una pubblica stampa; per la quale si conosce dove sia fabricato, così la lingua dee haver la forma, che dimostri a qualche segno l’origine di colui, che parla» (ivi). Dalla «creanza» e dai costumi si costruisce per l’autore della Civil Conversatione la possibilità reale di fuggire l’«apparenza» (Ibidem, 93 sgg.), poiché proprio nella conversazione, tenendo fermo ai suoi costumi corretti, si può attuare il motto socratico: «il

procurar d’essere tale, quale egli [l’uomo] desidera di parere» (Ibidem, 93r).

Costruendo la «creanza» e il comportamento «virtuoso» nella conversazione il «collocutore» si ispira a una norma che riguarda l’eticità sostanziale: comportati come vorresti essere, il che equivale a dire costruisci un’intersoggettività etica.

La «scorza»

della retorica

Guazzo avverte il bisogno di giustificare il ricorso alla retorica, per fornire regole alla conversazione e dare un fondamento alla proposta di una retorica della conversazione. L'esigenza nasce da due ordini di ragioni che gli creano un non pretestuoso imbarazzo di cui si fanno portatori i protagonisti del dialogo. Il primo riguarda lo statuto stesso della retorica storicamente dibattuta tra sostenitori e detrattori; da molti considerata degenerazione della sua forma classica e, per certi versi, arte menzognera; a volte ci si spinge a colpire i suoi stessi presupposti con esiti stori-

ci diversi !9, La seconda è l’incompetenza presunta di un destinatario/allocutore medio, composto di eventuali locutori «ordinari»,

impossibilitato per carenza strumentale a comprendere e penetrare, ab experto, nella duplice forma di locutore e allocutore, i «meandri» del discorso retorico. Quella di Guazzo è, tuttavia, una

resistenza

«a disegno»,

rispondente

a una

99 Ibidem, 38r-v, 129-130 (pp. 85-86). Sott. mia.

precisa strategia che

100 Cfr. M. FUMAROLI, L'age de l’éloquence, cit., pp. 77 sgg.; si veda anche T. TopoRov, Théories du symbole, tr. it. cit., pp. 75 sgg.

RETORICA,

ETICA

E PRAGMATICA

l'autore della Civil Conversatione retorica dell’autocitazione.

DELLA

CONVERSAZIONE

ha predisposto

277

e «ordinato»:

Se lo scopo della conversazione, incalza il Cavaliere, è «muo-

vere» gli affetti e «persuadere» «gli animi altrui con la lingua» (Ibidem, 77r), come si potrà fare a meno della retorica, rinunciare ai suoì principi se essa è riconosciuta arte del probare, delectare, movere !0, ma al contempo non alla portata di tutti ed espone al rischio di adombrare un’arte menzognera? Non si era preoccupato Erasmo, anche nella Lingua, di elogiare la «integritas» spartana, perché «factis strenui» e «verbis parcissimi» i Lacedemoni «nullum linguae artificium reciperent, quod artificio vicina sit fraudulentia, sic existimantes oportere sermonem bonorum virorum e pectore proficisci, non ab arte» 192? Ma poco dopo lo stesso Erasmo precisava che la sua non voleva essere una critica alla retorica («Non haec eo tendunt ut dam-

101 Alla retorica ciceroniana ha dedicato un indimenticabile studio A. MicHEL, Rhétorique et philosophie chez Cicéron. Essai sur les fondements philosophiques de l’art de persuader, PUF, Parigi 1960. Si veda ora il volume collettaneo Eloquence

et rhétorique chez Cicéron,

Fondation

Hardt, Droz, Van-

doeuvres-Genève 1982. Il Cavaliere esprime una certa «diffidenza» per la retorica, tipica di una determinata fase dell’Umanesimo. Dopo la rinascita della retorica ciceroniana ne era seguita una sorta di débacle (oltre Fumaroli cfr. soprattutto R. SABBADIN, Storia del ciceronianesimo nell’età del Rinascimento, Loescher, Torino 1885; inoltre E. Garin, Discussioni sulla retorica, in Medioevo e Rinascimento, cit., pp. 117-140, e C. Vasoti, La dialettica e la retorica dell'’Umanesimo, cit.). L’aetas ciceroniana era tornata a vivere, com'è noto, dopo che vennero alla luce, nella loro versione integrale, il De oratore, l’Orator, e il Brutus sino allora

del tutto sconosciuto (il De inventione e la Rhetorica ad Herennium servivano invece da testo nelle scuole; per queste notizie e le seguenti rimando a R. SABBADINI, Le scoperte dei codici latini e greci ne’ secoli XIV e XV, Sansoni, Firen-

ze 1967, ripr. anast. delle ed. 1905 e 1914, con nuove aggiunte e correzioni dell’autore, a cura di E. Garin, I, p. 18). Mentre il De oratore e l’Orator erano co-

nosciuti durante il Medioevo per piccoli frammenti e da pochi chierici, solo nel 1421 il vescovo di Lodi, il Landriani, scopre il manoscritto completo di queste opere e anche un testo sconosciuto:

il Brutus

(Ibidem, II, p. 209, ma

anche I, p. 100). Storia critica dell’eloquenza repubblicana a Roma, il Brutus conobbe in edizioni e riedizioni una fortuna europea dopo la trascrizione dell’umanista Gasparino Barzizza. Ma ben presto l’umanesimo italiano privilegerà la ripresa di tematiche care a Quintiliano e a Tacito sulla corruzione dell’eloquenza. L’Institutio oratoria nella sua forma mutila era conosciuta tra gli altri da Petrarca,

come

abbiamo

ricordato.

Il testo integrale fu scoperto da

Nicola Poillevillain de Clémangis in Francia nel sec. XIV. Lo riscoperse Poggio nel 1416 a San Gallo (Ibidem, I, p. 78). Il Dialogus de oratoribus di Tacito venne scoperto nel 1425 da un monaco anonimo a Hersfeld (il «monacus hersfeldendis», come Poggio lo chiama: I, pp. 107-108). Lo portò a Roma Enoch da Ascoli nel 1455 (Ibidem, pp. 140-141). 102 Erasmo, Lingua..., cit., LB IV, 665 F; ASD 1V, 1 A, 40, 453-457.

278

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

nem artem, quam non gravatus est»). Aristotele, filosofo eccellente e prudente (tantus ac tam serius), l'aveva insegnata. Quello che premeva a Erasmo era che il lettore comprendesse «quam sit omnium sensui molesta futilis loquacitas, cum ars omnium fere pulcherrima, ob hujus affinitatem apud plerosque male audierit» 193, Le coordinate entro cui si muove il discorso di Annibale si possono così esplicitare: come parlare, come «usare la lingua», intentione

locutoris?

Se l’uomo, essenzialmente

«communicativo,

et conversativo», come voleva Piccolomini, è naturalmente capace di acquistar «perfettione», per questa stessa ragione si farà «homo rhetoricus». La ragione, secondo Guazzo, risiede nella configurazione della «forma di ragionare» che distingue i «moderni» dai «primitivi» e quindi la forma del loro corrispettivo linguaggio. L'esigenza dei «moderni» è di parlare nella conversazione con eloquenza, imparare a esprimere meglio il proprio pensiero, articolarlo con più chiarezza ed efficacia, regolarlo sul discorso eloquente per eccellenza, il discorso retorico che, per sua stessa definizione, va «dritto al bersaglio». Questo aspetto denota la peculiarità della retorica e non certo l’eloquenza menzognera che si sostituisce alla cosa e la maschera. A ben vedere, suggerisce Guazzo, l’eloquenza non è frutto esclusivo dell’arte, ma nel contempo della natura stessa che ha messo nell'uomo «un seme di eloquenza»: l'invito è allora di coltivare la natura, per perfezionarla con «un po’ d’arte».

Per converso,

se l’eloquenza è naturale,

ribadisce

il

Cavaliere,

tutto ciò che le si aggiunge allontana dalla verità; si

dovrebbe,

al contrario,

«dimostrare

le cose, et farle parlare con

verità» (Ibidem, 76v). Perché lo scopo delle parole è di «servire soltanto i sensi». Distolta dal suo compito, l’eloquenza può divenire non solo «superfluità» ma artificio menzognero. Annibale si vede costretto a precisare ulteriormente la sua posizione: eloquenza e retorica risultano valide per aver fornito un insieme di regole che permettono agli uomini di intendersi meglio; e l’eloquenza è naturale nel senso che è la natura stessa a consentire il farsi migliori, la categoria della perfettibilità (Ibidem, 77v). Essa aggiunge alle cose necessarie «qualche cosa di meglio» (Ibidem, TTr). Se si vuol persuadere e commuovere bisogna ricorrere alla retorica. Tertium non datur. Tuttavia Annibale precisa: suo intento non è quello di enucleare i «precetti», il repertorio retorico; entrare nella scienza della retorica, nelle «midolla dell’istitutione

103 Ivi.

RETORICA,

ETICA

E PRAGMATICA

DELLA

CONVERSAZIONE

279

dell’oratore», presumibilmente inventio e dispositio. Si fermerà alla «scorza», a quei soli precetti cioè che si riveleranno funzionali alla (retorica della) conversazione in particolare elocutio, pronunciatio e actio. E dal momento che non tutti «sono intendenti» di retorica, avrà cura di procedere come quei medici «giudiciosi» che, tenendo

conto

della povertà del malato,

non

lo curano

con

medicine «di gran prezzo»; preferiscono somministrargli semplici rimedi. Questo modo di trattare il problema non esime Guazzo, del resto, dall’esaminare la funzione del linguaggio, alla quale senza indugi rimanda. La funzione peculiare del linguaggio è l’essere «immagine del pensiero»; il suo è un valore intenzionale: la lingua «dee esser rivolta a dichiarar la [...] mente di colui che parla» (DP, 658); essa

«dà senso manifesto all’animo» (Ibidem, 522). E ancora: «...chiunque guarda la lingua, guarda l’anima sua» (CC, II, 74v); dalla lingua «comprendiamo a dentro le qualità, et dei suoi costumi» (Ibidem, 75v). Tanto più si riesce ad esprimere con la lingua il proprio pensiero, tanto più il linguaggio si mostra fedele al suo doppio. In questo, la retorica fungerebbe da guida. Terreno proprio su cui si misura la «differenza» della civiltà dalla natura, in quanto potenziamento della natura stessa e di ciò che la natura ha supposto perfettibile. Guazzo coglie acutamente l’aspetto della «superiorità» dei moderni (e quindi anche degli «antichi») sui «primitivi» nella capacità propria dell’animal rhetoricus, artificiosamente disposto ad approntare strategie comunicative e argomentative nell’ambito della conversazione pubblica e privata, di impadronirsi, in fondo, della retorica come tecnica delle idee ad uso intersoggettivo. Anche se, fa notare opportunamente Quondam, in Guazzo

si assiste ad una «sostanziale trasformazione degli statuti ordinari della retorica classica proprio per quanto riguarda l’inventio: sempre più strumentale (e più o meno ben strutturata) ricerca in

un repertorio, lavoro ancillare rispetto al crescente primato della dispositio (un lavoro di ingegneria citazionale attraverso i loci) e dell’elocutio (un investimento nell'autonomia dell’ornatus). Prevalgono insomma le categorie relative allo stile; la retorica così riformulata privilegia la piacevolezza rispetto alla persuasione» !%; ma «il giovare, et dilettare» (Ibidem, 75r) non esauriscono di fatto lo scopo dichiarato della retorica guazziana.

104 A. Quonpam, La virtù dipinta, cit., p. 279.

280

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

Come misurare la differenza tra «civiltà» e «natura»? Il punto di avvio è una concezione della natura che costituisce comunque il fondamento iniziale — e dunque da negare e da superare — della cultura: «tanto più siamo riputati; quanto più la civiltà nostra è differente dalla natura, et dai costumi de gli huomini volgari, et meccanici». La cultura viene intesa qui come «elaborazione, educazione ed emancipazione dalla natura» !95 A livello dell’analisi del linguaggio la differenza tra natura e cultura si sconta in «due cose principali»: «nella vaghezza, et nella gravità delle parole» (ivi). Se la plebe (un’altra configurazione di «naturalità») usa solo spiccioli, la lingua dei moderni conversanti, perfezionata, completata e corretta, dovrebbe usare dunque, come interpreta il Cavaliere, solo moneta d’oro. Al Cavaliere il proponimento di Annibale sembra contraddittorio rispetto alle affermazioni precedentemente esposte: adesso vuole che si parli con eloquenza e prudenza quando poco prima indicava idonee parole «piene di semplice affetto»? Il medico/filosofo pensa ancora che «ne i ragionamenti si ha a procedere semplicemente, secondo la ricerca della nuda verità», tuttavia questa consapevolezza va di pari passo con il riconoscimento che nella natura sia infuso «un certo seme di eloquenza, et di filosofia» e che «queste parti quanto più risplendono nell’huomo, tanto più lo rendono grato nelle civil conversationi». A questo scopo è opportuno aiutare, lo ricordiamo, «la natura con un poco d’arte» (Ibidem, 76r) 19.

105 L.M. BATKIN, Gli umanisti italiani, cit., p. 83.

1066 È opportuno far agire qui l’interpretazione del «geroglifico» della «lingua tenuta da una mano», proposta da Pierio Valeriano, in cui si delinea chiaramente l’eloquenza, la retorica, come frutto e segno dell’«operatione che perfettiona la lingua» (Hieroglyphica, cit., XXXIII, p. 328; Jeroglifici, Ivi, p. 424). Baltasar Graciàn porterà questa problematica del rapporto natura-arte alle estreme conseguenze nel Saggio (1646) (Ed. Paoline, Roma 1962), cap. XVIII, e nell’Oracolo (cfr. afor. 12, 39, 87, 93, 118). Sul presupposto che «nessuno nasce già fatto; di giorno in giorno si va perfezionando nella persona e negli intenti, finché giunge alla piena maturità dell’uomo avveduto, alla pienezza delle doti e dei meriti» (Oracolo, cit., afor. 6), Graciàn afferma che «non

c'è bellezza che non s’avvantaggi di qualche aiuto, né perfezione che non rischi di parer barbara ove non l’assista lo splendore dell’artificio. L’artificio offre rimedio al male e perfeziona il bene [...]. Ogni uomo senza artificio sente

di rusticume e ha bisogno di levigarsi con ogni forma di perfezione» (Ibidem, afor. 12). E ci consegna una eloquente indicazione in perfetta linea con le argomentazioni guazziane: «Tutto ciò che è opera della natura giunge alla pienezza della sua perfezione» (Ibidem, afor. 39). «L'uomo nasce barbaro, e si redime dalla bestialità coltivandosi. La cultura è quella che fa gli uomini [...] Grazie ad essa la Grecia poté definire barbaro tutto il resto dell’universo [...]

Non v'è cosa che coltivi l'ingegno più del sapere. Ma anche la stessa sapienza rimane grossolana se non è ben ordinata. E non soltanto ha da essere ordina-

RETORICA,

ETICA

E PRAGMATICA

DELLA

CONVERSAZIONE

281

Dal Cavaliere giunge la critica all’eloquenza che si aggiunge al linguaggio ordinario e allontana dalla verità; portatrice di una «superfluità di parole», mentre il «natural ufficio della lingua dee essere di servire soltanto i sensi». Suo nemico dichiarato, Guglielmo si ostina a sottolinearne il carattere negativo e chiedersi a cosa possano mai servire «tante filastroccole, tante girandole di parole, tante traslationi, tante figure, se potete dimostrare le cose,

et farle palpare con brevità, et con voci proprie, et semplici» (Ibidem, 76v). La «fittione delle parole» rivelerebbe «poca sincerità di cuore» 10. Eloquenza che parla solo di sé, come ammoniranno Montaigne e Rousseau, lascia desiderio solo di sé, camuffa e maschera il cuore, la trasparenza: è velo all’animo. Finzione e gioco di parole per ingannare: i bambini si ingannano con gli astragali, gli uomini con le parole, amava ripetere Montaigne. Parole come astragali. Consapevolezza che appartiene anche ad Annibale il quale per esorcizzare razionalmente il rischio sposta l’asse paradigmatico: «mi conviene dimandarvi quali voi crediate, che habbiano ragionato meglio, o i primi huomini del mondo, o questi del nostro secolo?» (ivi). L'accento si sposta sul linguaggio delle origini, la sua naturalità ma anche la sua insufficienza espressiva, comprovate dallo sviluppo e la diacronia della lingua. La risposta di Guglielmo non si fa attendere: «Questi per mio credere, perché è cosa agevole l’abbellire, et l’accrescere le cose dopo che sono introdotte» (ivi). Ovviamente alla sua domanda retorica Annibale fa seguire l’assenso: «in quei tempi non havevano le regole, che sono seguite dopo, né ancora non sapevano con arte usare i proe-

mij, né disporre le cose, né provarle con argomenti» (ivi) !98. Viene

to l’intendere; dev’esserlo anche il voler e più ancorail conversare. Si possono trovare uomini naturalmente ordinati nell’ornamento interiore e in quello esteriore, nei concetti e nelle parole e nel guarnimento della persona, che si può paragonare alla corteccia, e nelle doti dell'anima, che sono il frutto» (Ibidem, afor. 87). Solo l’artificio può rendere l’uomo veramente un «uomo universale» (Ibidem, afor. 93): «e poiché la natura ha fatto dell’uomo un compendio di tutto ciò che è naturale e nel più alto grado, l’artificio ne faccia un universo esercitandone e coltivandone il gusto e l’intelletto» (ivi). E ancora: «La cortesia è l’elemento principale della cultura, e quasi una sorta di incantamento che concilia il favore di tutti» (Ibidem, afor. 118)

107 Così Gracian sull’affettazione: «La gente affettata vien sempre giudicata priva della qualità che ostenta: quanto meglio si può fare una cosa, con tanta più cura si deve nascondere l’artificio, perché gli altri vedano che quella perfezione nasce naturalmente» (Oracolo..., cit., afor. 123). Arte nascosta, dunque perché, come egli stesso aveva chiarito in aforismi precedenti, la perfezione non giunge dalla natura ma dall’artificio. 108 Cfr. QUINTILIANO, inst. orat., III, 3, 1.

282

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

qui ribadito il principio che la retorica come ars bene dicendi è lo specchio dell’ars bene cogitandi: pensa bene chi parla bene. La retorica, in definitiva, è tecnica delle idee 199,

«Ma (con tutto ciò) non chiamate voi così naturale a noi questa nostra, come era loro naturale quella prima forma di ragionare?». Ecco che Guazzo introduce un ulteriore concetto. Ormai l’eloquenza è divenuta naturale all'uomo civilizzato come «la prima forma di ragionare» lo era per l’uomo delle origini; si tratta di una forma, in cui si esprime la ragione stessa che si è potenziata nei secoli. Il Cavaliere vuol comprendere meglio. Da questo punto di vista, allora, naturale è il parlare rozzo del contadino e il parlare «polito» del cittadino. Il Cavaliere ha perfettamente inteso il concetto di Annibale. Naturale è «tutto quello che la natura consente, che si faccia migliore, et acquisti perfettione» !!9. Il tema è di derivazione quintilianea. Le regole di quest'arte troveranno un accordo con la natura, senza soffocarla né alterarla. La naturalezza si

urbanizza e dirozza tramite il processo stesso della perfettibilità che fornisce al discorso di Annibale una mediazione: «...si come sarebbe

cosa

disdicevole,

et lontana

dalla natura

il discostarsi

molto con la favella dalle cose proprie, et communi [la natura presuppone e reclama una lingua fedele alla cosa], così non potrà se non essere commendato, et detto naturale il ragionamento di colui, il quale, alle cose necessarie, aggiunge qualche cosa di meglio» (Ibidem, 76v-77r): questo per la finalità stessa della retorica (e del discorrere su di essa esemplato) che è teoria della persuasione, sforzo persuasivo, ma anche teoria della comunicazione: «Et poiché tutti gli huomini naturalmente studiano ragionando di persuadere,

et di commuovere,

non vi ha dubbio, ch’una medesi-

ma sentenza riesce et più, et manco grave secondo la differenza delle persone onde ella viene, et dalle parole con che è mandata fuori».

Aver grazia nel tacere e efficacia nel parlare, insiste Guazzo. Bisogna scrupolosamente «mettere studio nel muovere gli animi», dal momento che nessuna cosa riesce a far breccia nei cuori, ovve-

ro giunge sentitamente al destinatario, se «inciampi all'ingresso»

109 Ancora così B. Lamy, La Rettorica, cit., in part. I, II. 110 Così Quintiliano: «Ma se costoro dicono esser naturale soltanto ciò che è venuto originariamente fuori dalla natura e nelle forme che precedettero la cultura, ne deriva che tutta la retorica viene completamente svuotata e distrutta [...] In verità, la più naturale di tutte le cose è quella che la natura fa RARice nel modo migliore [quod fieri natura optime patitur]» (IX, 4, 3-5,

vol.

II).

RETORICA,

ETICA

E PRAGMATICA

DELLA

CONVERSAZIONE

283

e ne offenda l’orecchie. L'efficacia del dire è proporzionale al ben servirsi dell’arte. Anche Matteo Palmieri aveva espresso convinzioni analoghe: nelle «private conversationi» «vuol essere suave et spedita la boce, et le parole ben accomodate alla materia di che si tracta. L’ornato et bel dire prima si desidera per dispositione della natura, poi s’accresce co’ precepti et arte de’ dicitori, et fassi perfecto con l’uso et exercitio di molto ben dire» !!!. Ecco che la retorica della conversazione si configura anche nella Vita civile come perfezione dell’arte nei confronti di una natura che dispone l’uomo all’eloquenza. La «dispositione della natura» viene perfezionata dall’arte della retorica. Perfezione che deriva anzi dall’arte e dall’uso reclamanti regole auree: l’imitazione dei grandi maestri.

Antropologia della voce e del gesto Il sapere, Guazzo ne è ben consapevole, esibisce uno strumentario retorico. La retorica da tecnica ornamentale o arte della persuasione diviene principio di conoscenza, razionalità problematizzante e inventiva !!2, Il sapere si configura pertanto come una sor-

ta di saggezza che conferisce alla retorica il ruolo di discorso ragionevole svolto intorno a premesse probabili; importanza dei valori del relativismo, della tolleranza e dell’impegno: la retorica insomma come una sorta di filosofia pratica. Tale saggezza nella conversazione riposa su un primo livello di valutazione di luoghi e tempi e si coniuga con il saper tacere; il secondo momento è quello del «saper parlare»: moderarsi nel discorso, proferire parole «ben considerate», avere delle «buone ragioni»; il terzo momento è quello dell'economia dell’atto locutorio, è la «spesa» — altro

11! M. PALMIERI, Vita civile, cit., 37r-v, 120 (p. 83). L'autore aveve distinto: «El parlare si considera in dua modi principali: l’uno è posto nel copioso et ornato dire; l’altro, ne’ ragionamenti communi. El dire copioso et ornato s’adopera nel cospecto de’ magistrati che hanno a rendere giudicio nel mezo de’ consigli publici et in presenzia de’ popoli et ragunate multitudini. E ragionamenti communi sono quelli che nelle private conversationi s'usano secondo richiede la varietà dell’opera humane» (Ivi). 11? La retorica è divenuta pervasiva non solo in filosofia, ma in quasi tutti gli altri saperi. Per citare alcuni contributi recenti: PLURES, Le ragioni della retorica, Mucchi, Modena

1986; PLures, L'homme

et la rhétorique, Klincksiek,

Paris 1990, sous la dir. d’A. Lampeur; PLuRES, L'arte della persuasione scientifica, Guerini e Ass., Milano

1992, a cura di M. Pera e W. Shea; G. BorTIROLI,

Retorica. L'intelligenza figurale nell'arte e nella filosofia, Bollati Boringhieri, Torino 1993.

284

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

aspetto dell'economia simbolica; è il parlare senza dire male o troppo: è pur sempre il linguaggio eloquente a porre e misurare la propria efficacia sul fine cui è destinato. L’uso

della

retorica,

il «ragionare

per arte»,

il ragionare

costruito e finalizzato alla persuasione !!3, implicherebbe che Annibale parli della retorica, si spinga cioè al «ragionar dell’arte» (ivi), alla teoria della retorica: appello non accolto; il medico/filosofo dichiara (finzione strategica) di non essere esperto di retorica, di non «saper ragionare dell’arte» e molto meno saprebbe mostrarsi retore. Dei precetti e della tecnica

retorici, inoltre, non

tutti sono

113 CICERONE, de orat., I, 1-6 (tr. it. cit., pp. 89-101). Quintiliano riferendosi alla posizione di Cicerone si esprime, com'è noto, nei termini seguenti: «Cicerone scrive in più di un passo che compito dell’oratore è ‘parlare in manie-

ra acconcia a persuadere’. Anche nei Libri di retorica, da lui in seguito indubbiamente

rinnegati

persuadere.

[de inv. I, 5, 6], egli pone

come

scopo

dell’eloquenza

il

Ma, per dire la verità, forza di persuasione hanno anche il

danaro, il favore popolare, l’autorità di chi parla, il prestigio e infine anche il solo aspetto senza parole [...] Per esempio Antonio, difendendo Manio Aquilio,

quando lacerandone le vesti mostrò ai presenti le ferite da quello riportate nel petto combattendo per la patria, non credette tanto nella sua eloquenza, quanto piuttosto fece violenza agli occhi del popolo romano, che a quanto si è pensato, fu soprattutto da un tale gesto indotto ad assolvere il reo» (instit. orat., II, 15, 5-7 [tr. it. cit., vol. I, pp. 283-285]). L’antecedente è in Cicerone, de orat. II, 28, 124 (in Opere retoriche, cit., vol. I, p. 305). Per Quintiliano, quindi,

la prerogativa della retorica non è quella di persuadere. La definizione ciceroniana della retorica come arte della persuasione non è completa: «infatti hanno capacità di persuadere con la parola e di guidare al punto prefissato anche altri, come le prostitute [in questo senso Quintiliano si è dimostrato profetico,

basti pensare a La retorica delle puttane di Ferrante Pallavicino — Fondazione P. Bembo, Guanda, Parma 1992, a cura di L. Coci — pubblicata anonima nel 1642], gli adulatori, i corruttori. Viceversa l’oratore non sempre persuade;

sicché talvolta questa definizione non è specifica, talvolta è comune anche a quelli che niente hanno a che vedere con l’oratoria» (ivi). Quintiliano predispone una sorta di storia delle interpretazioni del concetto di retorica. Tra queste: «Alcuni giudicarono che la retorica si identifichi con la ‘politica’. Cicerone la chiama

‘parte della scienza di governo’ [per Cicerone, de inv., I, 5, 6]

(ma scienza di governo è lo stesso che sapienza), altri tra i quali Isocrate, la identificano con la ‘filosofia’. A quanto la retorica sostanzialmente rappresenta, converrà, più di ogni altra, questa definizione [di Cleante; Frag. 491], esse-

re la retorica la ‘scienza del parlar bene”: infatti, in questo modo si abbraccia-

no tutte in una volta le virtù in un discorso e, insieme, la moralità dell’oratore, se è vero, com'è vero, che solo l’uomo onesto può parlare bene. Lo stesso

valore ha la definizione che ne dà Crisippo [Frag. 202 Arn.], il quale risaliva a Cleante,

di ‘scienza

del parlare

rettamente’»

(Ibidem,

II, 15, 33-34, p. 293).

Quintiliano propone la sua idea di retorica, modellata su quanto precedentemente espresso: «scienza del parlare beneb»(II, 16, 38). Tre sono infatti i compiti dell’oratore: «informare, commuovere, dilettare»

(III, 5, 1, p. 351).

RETORICA,

ETICA

E PRAGMATICA

«intendenti», e lo scopo della civil pi prioritari, è di poter parlare Guazzo aveva fatto valere per la Questa considerazione, pertanto, stare un discorso sulla «scorza»

DELLA

CONVERSAZIONE

285

conversazione, uno dei suoi scoa tutti (ragionamento analogo dimensione etica del discorso). non esime Annibale dall’impodella retorica; dal momento

che

non tutti possono penetrare i «segreti» che si trovano «dentro le midolle dell’institutioni dell’oratore, preporremo loro almeno quelle cose che sono intorno alla scorza» (Ibidem, 77v), benefiche, comunque e idonee allo scopo. La forza persuasiva della parola si configura in queste pagine finalizzata a «muovere gli animi»; le parole «rappresenteranno con la vaghezza, et co’l valore quell’oro, di che abbiamo fatto mentione, mentre si ponga un poco di studio nell’attione, o sia nel suono delle parole, il quale, se ben considerate, ha forza di far parere quel che non è, o più di quello, che vi sia» (ivi). Il linguaggio, è lecito immaginare, non rappresenta o presenta sempre un valore veritativo, ma simulativo e dissimulativo. Guazzo qui non si riferisce, com’è immediatamente riscontrabile, al contenuto linguistico, ma a quel «suono delle parole», la phone, cui annette singolare forza !!4. «La voce è il fiore della bellezza»,

114 A] fascino vocale dell’oratore allude anche Cicerone nel de orat. e soprattutto nel Brutus (9, 38; tr. it. in Opere retoriche, cit., p. 609): «Fu lui [De-

metrio Falereo] che per primo temperò il tono del discorso, rendendolo morbido e mite, e preferì sembrare dolce, com’era realmente, piuttosto che duro,

ma di quella dolcezza, che pervadeva di sé gli animi senza conquistarli violentemente, e lasciava solo il ricordo della propria armoniosità». E ancora: la voce di Antonio «era costante, ma un po’ roca per natura. Ma in lui — cosa che non capita a nessuno — questo difetto si mutava in vantaggio» (Ibidem, 38, 121, p. 671). La voce di Marco Licinio Crasso era «debole» (Ibidem, 66, 233, p. 725); quella di Lucio Licinio Crasso «armoniosa e dolce» (Ibidem, 88, 303, p. 771); l’eloquenza di Cesare, a causa della voce, dei gesti, del tono generale era

«splendida e nobile» (Ibidem, 76,261, p. 743). Del pari lo pseudo-Cicerone (Rhetorica ad Herennium, cit., III, 13, 23) — che il Rinascimento conosce anche tramite il prezioso commento del Filelfo (ora in Francesco Filelfo e il «Codice Sforza», cit., pp. 39-52) alla trascrizione che Ludovico Maria Sforza detto il Moro vergò all’età di quindici anni circa, il 27 nov. 1467 (per ulteriori notizie rinvio alla Introduzione al volume a cura di L. Firpo. Il codice è ricco di materiale iconografico e araldico, di imprese e emblemi) — invitava a studiare la modulabilità (mollitudo) della voce nella conversazione dal momento che essa dipende dalle regole della retorica. Procedeva all’articolazione di un tono di conversazione,

tono di discussione e to-

no di amplificazione, definendo la conversazione (sermo) come oratio remissa et finitima cotidianae locutioni, ovvero parlare piano con un linguaggio abituale. La conversazione presenta nella Rhetorica nova una tipologia quadripartita: dignitas, demonstratio, narratio, iocatio. Ogni tipo di conversazione ha

la sua voce e il suo tono: tono grave a bassa voce per la conversazione a carattere dignitoso; lenta senza passare, tuttavia, dall'espressione oratoria a quella

286

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

amava ricordare Montaigne !!5. Nelle orazioni di Demostene, benché piene di eloquenza e di prudenza, «manca la maggior parte di Demostene». Non se ne può udire la voce; in generale «non si può udir, quel che, si legge» (Ibidem, 78r). La.voce risulta essenziale nella trasmissione di un messaggio, a volte indipendentemente dal contenuto

stesso:

«ho

io conosciuti

molti,

i cui

ragionamenti,

quantunque vani, et di poco rilievo, riescono grati, et questi solamente per lo fiato soave, con che esprimono le loro parole, quasi con honesto inganno, s’acquistano la fama, e ’1 credito d’ottimi favellatori» (ivi). L'’«honesto inganno», in genere, riguarda i cortigiani, usi a spendere una moneta che «appare d’oro», ma è argento o di rame (ivi). Il porre attenzione al «suono delle parole» piuttosto che al loro contenuto semantico («il senso delle sentenze») induce

ovviamente

in inganno.

Per

una

corretta

valutazione

di

questa insidiosa problematica, Guazzo suggerisce di distinguere la vera eloquenza dalla falsa. Il criterio è presto delineato: non sono «veramente eloquenti» coloro che investono tutta la loro abilità «nel proferire dolcemente le parole», come i cortigiani (ivi). Procurano unicamente armonia alle orecchie senza spingere l’interlocutore a cercare «più avanti». Le sirene di Ulisse, la parola cantata, la pronuncia, fanno sopravvalutare gli uomini «più di quel che siano» (Ivi). In che consiste pertanto la virtù della retorica, normativa e precettistica che definisce le parole, il loro uso, il carattere, l’im-

tragica. La dimostrazione spiega a voce bassa la modalità con cui una cosa ha potuto o meno avvenire. Il tono di voce è più elevato, con frequenti pause,

perché le cose che si dimostrano sembrino insinuarsi ed incidersi con la pronuncia stessa nell'animo degli uditori (inserere atque insecare videamur in animis auditorum) (Ibidem, III, 14, 24). Se la conversazione presenta un carat-

tere narrativo è necessario variare la voce a che il racconto riproduca tutte le sfumature degli eventi. Si narrerà con parole rapide un'azione compiuta con prontezza; lentamente quella compiuta adagio. Di volta in volta aspra o dolce, triste o ilare, adatteremo la pronuncia alle parole. Se capiterà di riferire detti (dicta), domande (rogata), risposte (responsa), esclamazioni, lo sforzo si concentrerà a riprodurre con la voce pensieri e sentimenti dei singoli individui (ut omnium personarum sensus atque animos voce exprimamus). Se la conversazione assume un carattere scherzoso, bisogna alterare la voce dal tono serio

a un moderato motteggio. Accanto ai toni di voce, la Rhetorica analizza i movimenti del corpo (III, 15). I movimenti del corpo, i gesti, l'atteggiamento del volto accordandosi alla pronuncia, rendono più persuasive le parole dette: «Hoc scire oportet: pronunciationem bonam id perficere ut res ex animo agi videatur» (ivi) una buona pronuncia fa sì che il discorso paia scaturire dal profondo dell’anima. 115 M. DE MONTAIGNE, Essais, cit., II, XII, p. 593; tr. it. cit., p. 789.

RETORICA,

ETICA

E PRAGMATICA

DELLA

CONVERSAZIONE

287

postazione e il timbro della voce insieme all'uso corretto del gesto, di quel «geroglifico transitorio» come lo intendeva anche Bacone? «La prima parte dell’attione è posta nella voce, alla quale appartiene di misurar le forze sue». Non si offendano le orecchie «con un suono crudo», come

le corde di uno strumento

toccate a

caso. Non si deve del pari «abbassarla tanto, che difficilmente s’oda» (Ibidem, 79r). In questo modo parlano, secondo il Cavaliere, i «nuovi heretici», gli Ugonotti, «i quali pare che vi parlino con la bocca della morte». La voce va quindi modulata, né troppo alta né troppo bassa: si tratta del primo principio. Il secondo: «le parole poi s'hanno a proferire distintamente, et a spiccare le sillabe, ma in maniera che non paia, che si vogliano accoppiare, o combinare insieme tutte le lettere, come sogliono i fanciulli, che apprendono a leggere, il che arreca fastidio agli ascoltanti; onde fu detto ad uno,

che in tal modo

favellava,

o dì, o non

dir mai [...}. Ma non

bisogna anco affrettarle in maniera, che come cibo in bocca d’uno affamato, si divorino senza masticarle» (ivi) 16, Anche in questo caso bisogna adottare una «via mezana» per la quale «non restino le lettere né oppresse, né espresse fuor di misura. Ma conviene sopra tutto, che si facciano udire chiaramente l’ultime sillabe, guardandosi dal vitio d’alcuni, che le lasciano morire fra i denti»; inoltre non ispirare ripetutamente nella pronuncia; non

riempire la bocca di eccessiva aria; non rendere nel

parlare «un medesimo suono» e «una medesima misura», anzi «il variare della voce acquista grazia, et a guisa d’uno istromento di

116 Come è stato più volte sottolineato, il modello della vocalità corretta è presente anche nel de off. di Cicerone (I, 37, 139; tr. it. cit., p. 665). Parlando dei Catuli egli afferma che «la loro pronuncia era dolce, le sillabe non troppo larghe e nemmeno smozzicate, onde evitare l'oscurità e la sguaiataggine, la voce mai sforzata e nemmeno languida o tantomeno cantante». Anche per Quintiliano riveste fondamentale importanza saper «usare la voce». È necessario, infatti, «che il tono sia ora forte, ora mite, ora più, ora meno

ele-

vato e che gli intervalli siano una volta più, una volta meno lenti» (Inst. orat., XI, 3, 17; tr. it., p. 559). La condotta nel declamare deve essere «corretta, chiara, elegante, acconcia» (Ibidem, XI, 3, 30, p. 565). L'’orazione, se la pronun-

zia sarà «spedita, chiara, gradevole, cordiale, e quindi priva di qualsiasi risonanza volgare o esotica» ne risulterà «corretta». Inoltre la voce dovrà essere «da sé, per così dire, sana», non «sorda, scomposta, troppo forte, sgraziata, rozza, rauca, chioccia oppure sottile, inconsistente, stridula, fioca, fiacca, effeminata [...] La pronunzia,

invece sarà

chiara,

se usciranno

tutte insieme

dalla bocca le parole, di cui, invece, parte viene abitualmente divorata, parte

omessa, poiché i più non arrivano a pronunziare le ultime sillabe, mentre si compiacciono di far risuonare bene le prime» (Ibidem, 3, 33; tr. it. p. 565). Sulla destinazione della voce, come parola viva, nella sua dimensione epistemologica, semiotica e disciplinare cfr. PLuRES, La voix au XVII® siècle, «Littératures classiques», 12, janvier 1990.

288

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

molte corde, apporta sollevamento all'ascoltatore, et al dicitore; la qual mutazione s'ha però a fare discretamente, a tempo, et la qualità delle parole, et la diversità delle sentenze,

secondo

et

de’ ragionamenti» (Ibidem, 79v-80r).

Accanto annovera gesti»,

all’«attione»

o comportamento

della voce,

Guazzo

l'equivalente dell’actio retorica: il gesto, «l’attione dei

le loro maniere,

la loro eloquenza !!?. Su questo

punto,

come del resto per la voce — il suo uso corretto e la sua giusta impostazione, per i quali era demandata la retorica — Guazzo mostra di nuovo un lieve imbarazzo. Sull'argomento Annibale preferirebbe tacere piuttosto che «parlarne poco»: il disagio derivante da una certa difettività investe circostanze, racconto ed enume-

razione delle stesse. Ma la replica del Cavaliere («non mi pare di poca importanza il saper conservare ne’ gesti una certa dignità, che tacendo parla, et quasi comandando, costringe gli ascoltanti ad ammirarla, et riverirla» [Ibidem, p. 80r]) induce Annibale a non

circoscrivere l’argomento alla chironomia, perché ricorderà Guazzo nei Dialoghi piacevoli: «i movimenti del corpo sono la voce dell’anima» (DP, 512). «Servandus est igitur in omni motu statuque decor» 1!8, quella dignità nel comportamento, cara a Plutarco e Erasmo, ma anche a Quintiliano.

L’uomo non rappresenti, dunque, l’«immobilità delle statue»; «col poco» e «col troppo», l'instabilità delle scimmie. La prima, stereotipata immobilità, in luogo di conferire «gravità», dà adito a una noiosa «prosopopeia»; l’altra, frequenza e libertà dei gesti, in luogo di procurare grazia, «dà segno d’una biasimevole incostanza».

Ma Guazzo chiarisce subito che la sua non vuole essere una

117 Su questa problematica ripresa da Montaigne (Essais, II, XII, pp. 454455; tr. it. pp. 586-587), da J. Bulwer (Chirologia, London 1644), ma prima ancora esposta da Pierio Valeriano (Hieroglyphica, cit., II, XII) e poi riaffermata da Louis de Cressolles (Vacationes autumnales sive de perfecta oratoris actione et pronunciatione, S. Cramoisy, Paris 1620), pur con diverse articolazioni problematiche,

rimando

a M. Jousse, L’anthropologie

du geste, Gallimard,

Paris

1974; tr. it. L'’antropologia del gesto, Ed. Paoline, Roma 1979; Mc. CRITCHLEY, Silent Language, Butterwort, London 1975; tr. it. Il linguaggio del gesto, «Il pensiero scientifico» Editore, Roma 1979; M. FumaroLI, Le Corps éloquent: une somme

d'‘actio’ et ‘pronunciatio rhetorica' au XVII? siècle, «XVII

siècle»,

132 (1981), 3, pp. 237-264, ora riprodotto in Eroi e oratori, Il Mulino, Bologna 1990, pp. 249-290; A.-M. Lecoo, Nature et rhétorique: de l’actio oratoria à l’éloquence muette, «XVII siècle», cit., pp. 205-278.

po ne ENFA SiLvio PiccoLominI, Tractatus de liberorum educatione, cit., pp. -210.

RETORICA,

ETICA

E PRAGMATICA

DELLA

CONVERSAZIONE

289

precettistica, un «ammaestrare colui che parla», il doppio del Galateo. Il suo discorso non è diretto alla prescrizione di codici comportamentali quali il «tenere il capo diritto», l’astenersi «dal leccare, o dal mordere le labbra» e l’adoperarsi «d’accompagnare i gesti con le parole». «Né anco mi pare di proporre a colui, che ascolta, che si guardi dall’asprezza de gli occhi, da i torcimenti della persona, dall’intensa gravità delle ciglia, dalla tristezza del volto, dal riguardarsi attorno, dal parlare all'orecchio, dal ridere

fuori di tempo, dallo sbadigliare, dal mostrarsi doglioso, et da quelle cose, con le quali pare, o che si voglia impaurire colui, che parla, o che s’abbiano a noia i suoi ragionamenti» (Ibidem, 80r-v). Vera e propria preterizione. Subito scusata da Guazzo: il parlare di questi argomenti equivarrebbe a «recitar il Galateo insieme con le carte», dal momento che «sopra questo soggetto» hanno scritto «filosofi morali» !!9 e «maestri di retorica» 129. «Queste cose» si

119 Il repertorio G. Fontanini-A. Zeno (Biblioteca dell’eloquenza italiana, Mussi, Padova 1804) sotto la voce Filosofia, al capo IV Civile, menziona Guaz-

zo, Della Casa e Castiglione, insieme a Palmieri (t. II, pp. 385-387). Guazzo pensa qui a Della Casa, ma probabilmente a Cicerone e a Castiglione, Alessandro e Silvio Enea Piccolomini e altri. 120 Il riferimento è da intendere soprattutto a Quintiliano. Su questo specifico punto Quintiliano oltre invitare a correggere eventuali difetti di pronuncia «si che le parole riescano chiare a udirsi, e ciascuna lettera abbia il suono corretto e naturale» (inst. orat. I, 11, 4, tr. it. cit., 201) e a evitare che «il timbro naturale sia ad arte esagerato» — «che i greci chiamano katapeplasménon (innaturale)» — aveva sottolineato come il maestro di mimica dovesse «anche osservare che chi parla tenga il viso eretto, che non storca le labbra, che non spalanchi eccessivamente la bocca, che il suo sguardo non sia volto all'insù, che gli occhi non siano rivolti a terra e che il collo non si pieghi ora di qua, ora di là» (Ibidem, I, 11, 9). Bisogna imparare a gestire e a muoversi,

«cioè a tenere dritte le braccia, a non agitare le mani in modo inurbano e rozzo, a non stare scompostamente, a non camminare malamente, a non tenere testa ed occhi in contrasto con la posizione del resto del corpo» (I, 11, 16). Nessuno può smentire, insiste Quintiliano, che la pronuncia sia «intimamente legata all’eloquenza; né davvero bisogna sdegnar di apprendere quel che convenga fare, tanto più che questa chironomia, che è l’«arte del gesto» (come rivela il nome stesso) ha avuto origine fin dai tempi degli eroi...» (Ibidem, I, 11, 17). Sul linguaggio del corpo (Cicerone aveva già parlato del «corpo eloquente»), Quintiliano si sofferma a lungo. Il gesto non solo si accompagna alla voce, ma «obbedisce al sentimento dell'animo». Aggiunge: «Quanta sia la sua importanza per l’oratore, si vede chiaro anche dal fatto che fa capire la maggior parte delle cose anche senza parole. Giacché non solo le mani, ma anche i cenni esprimono la nostra volontà...» (XI, 3, 66; tr. it., p. 579). Montaigne la chiamerà «grammatica dei gesti». Importanza quindi della testa, del volto. Chiamando in causa il De oratore di Cicerone (III, 20; 27; 31), Quintiliano lega

l'oratore al filosofo morale: «sono proprie dell’oratore tutte le idee sull’equità, sulla giustizia,

sulla verità, sul bene e sui loro contrari e [...] i filosofi,

quando le difendono con le forze della parola, si servono delle armi degli ora-

290

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

apprendono più dalla conversazione che dai libri: «...quando altri parla, noi comprendiamo quel che diletta, et quel che spiace, onde sappiamo quel che fuggire, et quel che seguitare [...]. Ci basterà adunque di ricordare per hora che intorno a questa attione s’ha a comporre tutto il corpo in maniera, che non paia né tutto d’un pezzo intero, né tutto snodato» (Ibidem, 80v). La «medietà» è regola aurea anche per il corpo !?!. Le parole non sono l’unico veicolo della comunicazione intersoggettiva: «Ordinati nelle parole aremmo poco acquistato se i fatti non

rispondessino»,

commentava

Palmieri.

Non

può sfuggire

che non solo la parola, ma anche il corpo, può manifestare «inditii veri» di quello che «sente l’animo nostro»; come dire che il corpo è eloquente, a volte più eloquente della parola: «Mirabile è certo vedere quanta forza abbino le mani in significare nostre intentioni, in modo che non solo dimostrino, ma quasi parlino et siano potenti a exprimere tutti nostri concetti, secondo ne’ mutoli si vede, i quali danno con esse a intendere ogni loro volontà. Colle mani si scaccia et chiama, si ralegra et mostra dolore, si significa

tori, non delle proprie. Egli stesso, però, confessa che ormai bisogna chederle alla filosofia, certo perché gli pare che questa ne sia stata a preferenza in possesso»

(XII, 2, 5, tr. it., p. 647). Secondo

Cicerone, infatti, «il campo

dell’elo-

quenza è così vasto da abbracciare l'origine, l'essenza e l'evoluzione di tutte le cose, delle virtù e dei doveri, insomma tutto quel complesso di leggi che regolano i costumi, gli animi e la vita degli uomini. È anche compito dell’eloquenza illustrare i costumi, le leggi e il diritto, governare gli Stati, esporre con parola, ornata

e ricca

qualunque

concetto

su qualunque

argomento»

(de orat.,

III, 76-79, 20; tr. it., p. 495). E ancora: «Quest'ultimo esercizio [i ragionamenti «bilaterali» con i quali è lecito discutere pro e contro una tesi generale], che oggi è ritenuto proprio delle due scuole filosofiche delle quali ho parlato prima [l'accademia e la peripatetica, 18, 67], anticamente apparteneva a coloro che insegnavano le norme dell’eloquenza giudiziaria. Infatti sulla virtù, sul dovere, sulla giustizia, sulla bontà, sulla dignità, sull’utilità, sull’onore, sulla ignominia, sui premi, sui castighi, e su simili argomenti anche noi dobbiamo avere e la forza e l’abilità di parlare sia pro che contro» (Ibidem, III, 104-108,

27; tr. it., p. 511). Notevole è allora la posta in palio dell’eloquenza. Un passo ulteriore di Cicerone chiarisce questo concetto. L’oratore è stato deriso e motteggiato; basti pensare al Socrate del Gorgia. La retorica ridotta a «libretti» sull’arte del dire ai quali «danno il titolo di ‘Retorici’, come se quei concetti sulla giustizia, sul dovere, sul modo di fondare e governare gli Stati, su ogni scienza che abbia per oggetto la vita morale e la natura, da essi esposti, non siano di pertinenza dell’oratore. Poiché questi concetti non possiamo derivarli da altre fonti, riprendiamoli pure da coloro che ce li hanno tolti; mettiamoli però al servizio di quella scienza politica con cui sono connessi e a cui si riferiscono» (III, 123-124, 31; tr. it., 521). L'accordo tra i «filosofi morali»

e i «retori», tra le loro «carte»,

di cui

parlava Guazzo, è più marcato in Cicerone di quanto comunemente si pensi e configura un senso forte per la retorica stessa che si nutra delle cose. 121 «Mediocritas optima est» (Cic., de off., cit., I, 130).

RETORICA,

ETICA

E PRAGMATICA

DELLA

CONVERSAZIONE

291

silentio et romore, pace et zuffa, prieghi et minacce, timore et audacia, adfermasi et niegasi, dimostrasi, numerasi: le mani

ragionano, disputano et finalmente s’accomodono a qualunque intentione dello intelletto nostro. Pertanto sempre sieno adoperate con debito modo, sì che niuno strano movimento

si conosca in

quelle, ma a tutte le cose paiano convenienti et apte in modo s’advenga loro fare quello si richiede; non sieno zotiche, non dure, non cascanti et molli, né di riposo femminile, ma ritenghino atta

prontezza a quello ch’elle vogliono, se si conviene. In nello andare si de’ considerare l’età et il grado: non andare intero, né muovere i passi tardi, rari et con tanta gravità che si paia pomposo et simile alle processioni delle degnità sacerdotali» 122, La

«semiotica

corporea»,

l’actio

conversazionale

si

situa,

come è stato opportunamente sottolineato, all’interno di un contesto epistemologico che ingloba «la sociologie, la philosophie et la linguistique ainsi que la rhétorique qui fournit un répertoire codifié de signes vocaux, mimiques et gestuels à l’usage des orateurs [...] Réglée selon des préceptes moins précisément différenciés que ceux de l’art oratoire, l’éloquence du corps propre à la conversation polie constitue un problème mitoyen qui relève à la fois des bonnes manières en général et des règles de la conversation en particulier» 123,

Ma cosa sostengono quelle «carte» dei filosofi morali che Guazzo mostra di conoscere così bene (come del resto la retorica classica)? Innanzitutto che il bello deve essere anche buono. L’estetica non va disgiunta dalla morale, anche in fatto di linguaggio: le parole, allora, saranno «chiare» e «belle» !24, per il «suono»

122 M. PALMIERI,

Vita civile, cit., II, 44r, 176-176 (pp. 96-97). Le analogie

con il più noto passo di Montaigne (Essais, II, XII) sono sorprendenti. Tra l’altro l’influsso ciceroniano è evidente: «Guardiamoci anche da una troppo molle lentezza [nel] camminare, sì da assomigliare a statue portate in processione, o dall’andare eccessivamente in fretta quando abbiamo premura, ansimando,

deformando

il volto e storcendo la bocca; dal che si vede, per segno

evidente, che non ci sappiamo padroneggiare» (de off., I, 36, 131, p. 663). 123 M. ALBERT, L’éloquence corporelle. Conversation et sémiotique corporelle au siècle classique, «Germanisch-Romanische

Monatsschrift»,

39 (1989),

2, p. 156, ampliamento di Le geste et la parole dans la conversation mondaine du XVII? siècle, «Littératures classiques», cit., pp. 149-152. 124 G. DELLA

Casa,

Galatheo,

overo

de’ costumi,

gnato Vat. lat. 14825, pubblicato da Marsilio, Venezia

manoscritto

contrasse-

1991, a cura di G. Bar-

barisi, 86, 17 (d’ora in poi con la sigla GM), cui corrisponde la lezione a stampa (editio princeps, Bevilacqua, Venezia 1558) del cap. XXII (ed. moderna consultata, Tea, Torino 1991, a cura di A. Di Benedetto, p. 169, d’ora in poi con la

sigla G). Per le altre ed. moderne del Galateo, cfr. ed. crit. a cura di E. Scarpa, Panini, Modena

1990, e sempre a cura di A. Di Benedetto, Utet, Torino 19742.

292

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

(il significante) e il «significato». Appropriate a ciò che si intende dimostrare: è l'ideale erasmiano della parola come «veste» della cosa — quindi al tempo stesso parole specifiche, non generiche, comuni,

in modo

tale da sembrare

che le cose stesse si automo-

strino e si possano additare. Lo ribadirà con forza anche la Civi/ Conversatione (II, 83r) dopo il Galateo. La parola sia tanto conforme e legata alla cosa, da farsi dimenticare: «che le cose stesse si rechino in mezzo, e che le [elle] si mostrino non con le parole ma

con esso il dito» 125. Si rifuggano le parole «meno honeste». L'’«honestà» dei vocaboli consiste «o nel suono et nella voce loro, o nel significato» !26. Quest’unione assiologica e progettuale di significato e di significante (bellezza e onestà sono riaffermate a entrambi i livelli, non potendosi concepire l’una o l’altra solo nel significante o nel significato) configura un ideale di linguaggio in cui le parole e le cose non prevedano nel loro rapporto la possibilità dello scollamento, che tanto angustierà Montaigne e le sue parole di «carne» e «sangue»: scollamento del significato dal significante, della lettera dal mondo, rimpianto ed eco di una lingua originaria in cui le parole riflettono l’essenza delle cose e che propone, sempre e comunque, per raccogliere espressioni cariche di senso, un voyage

en Cratylie !? o il Lignum vitae di Bonaventura !?8. Accade anche, per un perverso gioco del linguaggio e per la possibilità a esso inerente della distorsione comunicativa, che nello spezzare il significante dal significato, nella loro cesura, si insinui l'autonomia del significante a danno della «honestà» del senso stesso. Nello spirito delle buone maniere,

allora, e per una

sorta di recupero della moralità di entrambi, si eviti di designare significati e sensi onesti con un significante che alluda a qualche disonestà !29. La moralità si insinua non

solo nella referenzialità,

ma nello spazio più generale della moralizzazione della conversazione «comune». Si eviti di parlare «in materia [...] vile, [...] frivola [...], lorda [...], abominevole» 139,

125 GM, 87, 20-21; G, 170.

126 GM, 89, 19-20; G, 172. I 127 G. GENETTE, Mimologiques. Voyage en Cratylie, Du Seuil, Paris 1976. 128 BonAvENTURA DA BagnoREGGIO, Lignum vitae, in Opuscola varia ad Theologiam mysticam, Ad Aquas Claras (Quaracchi), ex Typographia Collegii S. Bonaventurae, 1898, t. VIII, opusc. III, pp. 66-87. Per una analisi di queste tematiche si veda inoltre C.G. DuBors, Mythe et langage au seizième siècle, cit. 12° «Rinculare» è uno dei casi citati dal Casa a sintomo di scollamento morale del significato dal significante: «si sente risuonar nella voce istessa alcuna dishonestà»; insieme al verso dantesco: Inf., XXV, 2.

130 G. DELLA Casa, GM, 94, 14-15; G, XXIII, 177.

RETORICA,

ETICA

E PRAGMATICA

DELLA

CONVERSAZIONE

293

La prescrittibilità si insinua definitivamente nella scelta stessa delle parole come strumento appropriato e privilegiato della relazione culturale e sociale. Se la parola non può essere o mostrare l’essenza della cosa, se fallisce nel suo desiderio di «cra-

tilismo», si rivela tuttavia ontologicamente costitutiva della possibilità della comunità stessa e del proprio cum versari. Si rivela carica d’una istanza moralizzatrice: lingua (parola) e costumi, insisterà significatamente Guazzo. Allo stesso scopo bisogna talora, lo suggeriva il Galateo, saper scegliere «fra le parole del tuo linguaggio, le più pure et le più proprie et quelle che miglior suono et miglior significatione haranno, sanza alcuna rammeratione di cosa brutta né laida né bassa, et quelle accozzare non amassandole a caso né con iscoperto studio troppo mettendole in filza» 131, Si procuri di divider le «cose» per argomenti... Si profila con ogni evidenza la retorica della comunicazione e della conversazione. Vengono forniti qui alcuni avvertimenti operativi di una strategia conversazionale, in modo peraltro più modesto rispetto alla Civil! Conversatione. In particolare la pertinenza e l'opportunità insieme ad altri principi che si possono trovare in «quella arte» che si chiama «Rhetorica» !*2, Retorica della voce, del gesto, del corpo. Retorica del mondo in quanto teatro o scena dell’intersoggettività. Qui non è tanto invocata la trasparenza comunicativa,

come

sarà in Montaigne

o in Rousseau,

ma

la

funzione moralizzatrice del linguaggio e delle sue buone maniere. La denuncia dello scollamento tra parola e cosa non è avanzata in funzione

della

critica

della

distorsione

comunicativa,

ma

della

caduta della funzione moralizzatrice, che poi ne è la condizione. Il linguaggio «temperato» è quello che risponde allo scopo. Va evitato il «favellar pomposo», il parlar troppo lento o affannato. Si eserciti una dizione chiara e si regoli il flusso verbale, controllo sul proprio corpo e sui propri pensieri. Si eviti la «golosità del favellare», sinestesia propria di chi non controlla se stesso e il proprio eloquio. Regola di cortesia ma soprattutto regola del gioco linguistico che rispetta i turni e le alternanze, agevolando il desiderio altrui, più che impedirlo. Non si interrompa e sopravanzi l’allocutore nelle conclusioni, raccomandazione che proveniva da lontano. Non «prestare la parola», ferirebbe chi parla: simile al mercante che ha a vergogna se altri gli offrano denari per paura di esserne considerato sprovvisto. L'uomo deve dunque controllare il proprio flusso verbale. Dopo aver conosciuto se stesso, deve

131 GM, 94, 15-21; G, 177-178. 132 GM, 91, 73; G, 175.

294

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

anche padroneggiarsi. Ma deve padroneggiarsi anche riguardo la necessità di considerare tale possibilità nel suo allocutore. Deve lasciare che si regoli da sé, senza intromissioni inopportune e non richieste. Deve rispettare il suo universo linguistico e il suo immaginario; i suoi ritmi.

Va tuttavia notato il ricorrere di metafore legate alle figure della merce, del denaro e dei loro dintorni. Metafore proprie di una società mercantile che del mercato ha fatto un'etica, perché si tratta di un mercato regolato che soggiace, come la conversazione, alle regole del gioco, metafora cara anche a Erasmo !33. Il ricorrere della metafora merce/denaro/lingua percorre tutto lo spazio della trattatistica da Castiglione a Guazzo. A cominciare dal primo per il quale i vocaboli sono merci «che viaggiano da un paese all’altro» 134, Esimersi dall’intervenire a sproposito è fare buon uso della propria spesa e regola aurea della filosofia dell'opportunità. La prima ragione è sottolineata da un sottile e millenario buon senso: chi parla troppo rischia di sbagliare di più; la seconda è di ordine diremmo autoritativo. «Sembra», infatti, che colui che parla in qualche modo «soprastia» agli uditori, «a coloro che odono», come «maestro a discepoli». Viene qui sottolineata una dimensione dell’oralità quasi sapienziale: non è opportuno, per una forma di rispetto al sapere, sottrarre una parte dell’uditorio, anzi «appropriarsi maggior parte di quella maggioranza». Nel «peccato» di golosità del favellare cadono singoli individui e nazioni intere, «nationi favellatrici». Così il «soverchio dire» procura fastidio e il «soverchio tacere» odio. Tacere quando gli altri parlano a turno, «a vicenda», e rispettano le regole del gioco equivale a sottrarre la propria presenza, dal momento che «il favellar è un aprir l'animo tuo a chi t'ode» !35. La parola specchio dei pensieri: riformulazione del detto socratico ripreso prima da Erasmo, poi da Guazzo: Loquere [...] ut te videam. Il tacere, in questa ottica, viene interpretato come un voler stare sconosciuti.

133 ErAsMO, Lingua, cit., LB IV, 672 A-B; ASD VI, 1 A, 50, 802-806.

134 B. CastIgLIONE, Il libro del Cortegiano, cit., I, II. Secondo Claudia Henn-Schmélders (Ars conversationis, «Arcadia», 10 (1975), p. 20) nessun altro libro sulla conversazione si è appropriato a tal punto del metaforico paragone tra moneta e parola: «versione» linguistica di perdita e guadagno. A cura della stessa autrice si veda l’opera ontologica Die Kunst des Gespràchs. Texte zur Geschichte

der europaischen

Konversationstheorie,

Verlag, Miinchen 1979. Sull’economia degli scambi pIEU, Ce que parler veut dire, Fayard, Paris 1982. 135 G. DELLA Casa, GM, 97, 12-13; G, XXIV,

180.

Deutscher

Taschenbuch

linguistici cfr. P. Bour-

RETORICA,

ETICA

E PRAGMATICA

DELLA

CONVERSAZIONE

295

Non è sufficiente pertanto stabilire una scienza delle buone maniere e dei costumi; fissarne norme e regole; soffermarsi sul loro valore precettistico e regolativo se non la si lega all’uso, «parto et portato del tempo». Solo così il detto del vecchio idiota: il divenire tale «quale io procuro di rendere te [il giovane allocutorel», potrà valere per la comunità civilizzata e costumata, e diver-

rà propriamente oggetto della Civil! Conversatione. La lezione del Galateo, e Guazzo lo aveva ben compreso, solo un richiamo alle buone maniere per un’età di ferro. appello all’avere «misura» tra moderazione e senso comune, spazio di quella medietà in cui aristotelicamente risiede la Avere misura

nello stare, nell’andare,

non è È un nello virtù.

nel sedere, negli atti, nel

portamento, nei vestiti, nelle parole e nel silenzio: nell’operare e nel «posare» 136, Di matrice quintilianea è l’asserto che la retorica viene dal cuore: «Pectus est enim, quod disertos facit, et vis mentis» 197. Lo ripeterà Erasmo: «ex corde proficiscitur oratio». Chiunque voglia con la propria «attione» commuovere

gli altri è necessario, innan-

zitutto, che «senta prima commovere se stesso, et si cavi gli affetti dal cuore, sì che gli ascoltanti veggendogli apparire fuori de gli occhi, et della fronte di colui, che parla, si sentano commovere»

(CC, 80v-81r). E ancora da buon seguace di Quintiliano, il quale nel «commuovere gli animi» non vede il fine precipuo del retore, ma di ogni uomo che voglia comunicare con gli altri, Guazzo ribadisce che il fine «di chiunque parli» è «di muovere gli affetti altrui» (Ibidem, 81r). Il locutore deve esserne colpito, lo ricordiamo, prima lui stesso perché «non può una cosa dar ad un’altra, quello, ch’ella non ha». Chi vuol commuovere deve mostrarsi commosso, mostrare nell’«attione esterna», l’interna. Modello di vocalità e gestualità corrette è Girolamo della Rovere arcivescovo di Torino. Una voce «dolce, polita, grave», una «distinta favella»;

«per le finestre de gli occhi, et per la chiarezza della fronte, et per la candidezza de’ gesti, scuopre così a dentro i suoi grati affetti, che non meno con l’una, che con l’altra parte, egli guida i cuori altrui dovunque li piace» (ivi). Nella pragmatica intersoggettiva l’«attione esterna» deve «precedere l’interna», in modo tale che «’l

136 GM, 105, 24-28; G, XXVIII, 189. Sul Casa rinvio a Giovanni della Casa e il «Galateo». La retrazione manieristica degli opposti, il loro riconoscimento, in A. GAREFFI, Le voci dipinte, Bulzoni, Roma 1981. 137 QUINTILIANO, inst. orat, X, 7, 15; tr. it., p. 487; per Erasmo, Lingua, cit.,

LB, 719 D; ASD AI, 128, 339.

296

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

suono delle parole, et i movimenti della persona siano sospinti dall’affetto dell'animo» (Ibidem, 81v). E può così capitare che il corpo parli più della voce. Il «corpo eloquente» di ciceroniana memoria !38: il gesto più della parola; più della «copia delle parole» (ivi), preciserà Guazzo. Apuleio e Ortensio rappresentano

due

esempi emblematici in questa direzione. Il primo era giudicato «eloquentissimo, per l'aspetto, per li gesti, et per la destrezza della persona»; del secondo «non si sapeva se gli huomini corressero più volentieri a riguardarlo, che ad ascoltarlo, tanto si confaceva-

no le parole con l’aspetto, et l’aspetto con le parole». Nella prossemica della conversazione svolgono il loro gioco oralità,

vocalità

e gestualità,

perché

oltre

la voce,

lo abbiamo

visto, anche il corpo parla. Sin qui Annibale ha disquisito di actio e di pronunciatio, di gesto e parola. Ora, secondo il Cavaliere, è venuto il momento di disquisire di «qualche altra parte intorno alla lingua», per esempio «di quelle parti, che appartengono alla coltivatione, et a gli ornamenti del ragionare, delle quali possono essere capaci tutti gli huomini di mezano intendimento» (Ibidem, 81v-82r). Interlocutore privilegiato della Civil Conversatione, l’«huomo di mezano intendimento» è anche il soggetto reale della conversazione che tra le altre regole deve avere a cuore

la brevità; «spen-

dere» «parole soverchie», spesso è segno di vanità: «nella moltitudine delle parole si scuoprono molti difetti» (Ibidem, 82r) !39. Inol-

138 CICERONE, de orat., III, 59, 222; tr. it. p. 581: «Per questo conta molto

saper regolare lo sguardo: si debbono evitare i forti mutamenti

del viso per

non cadere in atteggiamenti sconvenienti o in smorfie [...]. I gesti sono, per dire così, il linguaggio del corpo [Est enim actio quasi sermo corporis], e per questo debbono aderire strettamente al nostro pensiero ...». E nell’Orator:

«Dunque l’elocuzione comprende due cose: il gestire e il modo di parlare. Il gestire, che si potrebbe definire l’eloquenza del corpo [quasi corporis quaedam eloquentia), è costituito dalla voce e dai movimenti della persona...» (17, 55; tr. it., p. 825). Quintiliano riferendosi ai testi ciceroniani: «La

maniera

di declamare è detta generalmente actio, ma il primo termine sembra prendere nome dalla voce, il secondo dal gestire. Giacché Cicerone chiama actio ora ‘una specie di linguaggio’, ora ‘una sorta di eloquenza del corpo» (XI, 3, 1-2; tr. it., pp. 553-555). Allora non interessa tanto la qualità intrinseca delle nostre composizioni, quanto in che modo le esprimiamo: perché ciascuno viene commosso nell’animo dalla maniera in cui i suoi orecchi hanno percepito». Di importanza capitale, per l'invenzione dell’oratore, è la forza di persuasione di chi espone la prova: «tutti gli effetti necessariamente languiscono, se non vengono accesi con la voce, con l’espressione del volto, con l'atteggiamento — vorrei dire — di tutto il corpo dell’oratore» (Ibidem, p. 555). 139 Si può leggere qui una delle massime conversazionali, o regole della pragmatica linguistica, la categoria griceana della quantità concernente il contenuto informativo nella misura richiesta per la discussione: né più né meno (Cfr. H.P. GRICE, Logica e conversazione, cit.).

RETORICA,

ETICA

E PRAGMATICA

DELLA

CONVERSAZIONE

297

tre, prima virtù è astenersi dal vizio: «io primieramente avvertisco chiunque della civil conversatione si diletta, a guardarsi da tutte quelle cose, che rendono

il parlar manco

dilettevole, fra le

quali è l’usare maggior brevità di quel che richiede il ragionamento, il che apporta fatica a gli ascoltanti». Non bisogna salire sopra il grande albero per coglierne i frutti. Un difetto comune «a molti» è l’uso di parlar per bocca altrui; ovvero

l’uso del «Dice»; altro uso poco accorto l’«orbene»

ad ogni inizio «di sentenza». Ancora: «Et sono alcuni, che non volendo, o non sapendo significare le cose con nomi propri, si servono in lor vece del cotale» (Ibidem, 82v) 140, Difetto questo che «sconviene» a chi ragiona ma tanto più a chi scrive. Guazzo mette qui materia di critica a quei luoghi comuni, ma più a quelle parole che, divenute appannaggio di «cotali» per capriccio personale, si sono poi affermate nell'uso di molti: «ho avvertito, che molti havendo posto amore ad una voce,

ò maniera di parlare, l’hanno sparsa in mille luoghi, et per tutti li fogli de’ loro volumi, et non si sono potuti contenere di replicare sempre quelle istesse, come se non vi fosse altra maniera di favellare, che quella sola» (ivi). Esempio di qualche interesse il caso di Bembo, i cui scritti «harebbono maggiore vaghezza, se non vi fossero per entro seminate così spesso quelle voci paventevole, fortunevole, et altre simili, le quali diedero occasione all’Illustriss. Car-

dinal Farnese di dire in atto di piacevolezza, mentre egli guardava in Bologna una casa fabricata con molte finestre. Questa casa, secondo il Bembo, è molto fenestrevole» (Ibidem, 83r). Il ragionamento, la conversazione di riflesso, dovrà astenersi da tali «vitii» linguistici. L'attenzione sarà rivolta alle «virtuose parti del parlare»: «ciascuno ponga studio d’esprimer le cose, di

140 Una casistica di «cattivo» comportamento linguistico nella conversazione, in cui vengono esemplati gli abusi, si leggerà ancora in F. DE CALLIÈRES, Des mots à la mode, à la Haye, Abraham Troyel, 1692 e in Du bon et du mauvais usage [...] Des facons de parler bourgeoises, suitte des Mots à la mode, Pa-

ris, chez Barbin 1693 (entrambi riprodotti in volume unico da Slatkine Reprints, Genève 1972). Una problematica più articolata e vasta in N. FARET, L'honnéte homme ou L'art de plaire à la cour, è Paris, par Toussainct Quinet, 1634, (Slatkine, Reprints, Genève 1970, in part. pp. 41 sgg.). Sui possibili rapporti Guazzo-Faret, cfr. P. ToLpo, Le courtisan dans la littérature francaise,

«Archiv fiir das Studium der Neueren Sprachen und Literaturen», CIV (1900), 75-121; 313-330; CV (1900), 60-85, passim. Una presa di posizione critica sulla posizione toldiana si legge in M. MacENDIE, Introduction a N. FARET, L'honnéte homme, ed. Slatkine, cit., pp. XIX-XXI. Su Faret si veda anche J.-P. DENS, L’Art de la conversation au dix-septième siècle, «Les Lettres Romanes», XXVII (1973), 3, pp. 215-224. Per la problematica dell’honnéte homme: C.A. MAYER,

L'’honnéte homme, «The Modern Language Review», XLVI (1951), pp. 196-217.

298

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

cui parla così chiaramente, che quasi le faccia vedere, et toccare, usando parole accommodate, significanti, et efficaci» (ivi). Dipingere le cose, allora, con le parole: esprimere parole con proprietà linguistica, significanza e di sicura efficacia. Renderle così chiare da

farle vedere e toccare. Dipingere le proprie parole come geroglifici «accommodati», significanti ed efficaci. Accade infatti che alcuni locutori risultino «così meravigliosi in questa parte» da indurre l’uditorio al piacere, al dolore, al riso e al pianto; lo conducono

«dove essi vogliono», risultato questo del buon retore e della sua strategia argomentativa. Tuttavia, pur sforzandosi di esser chiari, alcuni risultano oscuri, errore

causato

dall’«affettazione»

che si

deve senz'altro fuggire. Inoltre accade spesso che nella conversazione si discuta di argomenti per i quali è preferibile «negligenza o sprezzamento» (Ibidem, 83v), piuttosto che «diligenza delle parole»; l'umiltà, spesso, esalta l’argomentazione. Chi possiede «lume, et giuditio» non mostrerà «forza, et fatica» nelle «cose piane»; e viceversa, spensieratezza e dappocaggine nelle grandi; eviterà questi estremi; saprà usare «a tempo, et a luogo» parole e sentenze, più o meno impegnative a secondo di luoghi, tempi e interlocutori; manterrà questi principi anche per la scrittura. Ma soprattutto avrà riguardo più al contenuto («le sentenze») che alle parole; spesso, infatti, «attendendo alla vana pompa, si abbandona il concetto,

et il fin di quel, che si vuol dire»; si persegue una eloquenza paga di sé, che lascia solo desiderio vano: «...insomma le parole senza sentimento,

non

sono

parole,

ma

ciancie».

Si raccomanderà,

quindi,

un’«incolta prudenza», preferibile a «copioso, et stolto cicalamento». La lingua è ancora assimilata al denaro: «così come in quello non si considera principalmente la forma, et la stampa, ma il peso, et la materia, così nel ragionamento non si dee tanto mirar la vaghezza, et l’ornamento, quanto la gravità, et l’utilità» (Ibidem, 84r-v). Alcuni possiedono «ottimi» concetti, e non riescono a esprimerli con «la politezza del parlare». Per chi voglia «trovar luogo di gratia nella civil conversatione», Guazzo raccomanda — «non potendo egli apprendere da gli oratori i luoghi, onde si cava la varietà, et la copia delle parole, et le figure, et l’elocutioni, con le quali s'abbellisce, et si illustra il ragionamento» — di osservare diligentemente le parole altrui. Pur sempre si tratta di imitazione. Il modello del bel parlare non è solo l’uomo dotto. Accade che anche il «plebeo» sappia usare, «a luogo, et a tempo», «sentenze, motti, favole, allegorie, similitudini, proverbi, bisticci, et altri piacevoli detti, fuor della volgar forma

del parlare» (ivi), che costituiscono a loro modo il repertorio dell’inventio, il che equivale all’«aiutarsi con un poco d’arte» e rivestire le «nude parole» per il piacere di chi ascolta. L'ascolto si compiace di

RETORICA,

ETICA

E PRAGMATICA

DELLA

CONVERSAZIONE

299

«quella varietà, et di quelli ornamenti, che non sono comuni a tutti gli huomini» (Ibidem, 85r). Come Montaigne, Guazzo rimanda al topos rinascimentale (e senechiano) dell’ape e del miele, applicandolo però all’inventio nella scrittura e nella conversazione. La conversazione «tra molti» è assimilata al volo dell’ape che di fiore in fiore succhia e produce miele: «Non è adunque da biasimare lo studio d’alcuni, i quali imitando le api, colgono il mele da diversi fiori, et non lasciando cadere a terra o motto, o sentenza, o piacevolezza,

ch'esca di bocca altrui, ne fanno memoria ne gli scartafacci, per servirsene poi, o parlando, o scrivendo» (Ibidem, 85r-v).

La «rosa tra le spine»: l'imitazione Guazzo,

forse sulla scorta di Camillo !4, sembra

trasportare

la topica dall’inventio all’elocutio e utilizza come Delminio — anche se non ne segue la complessa articolazione interna — una topica di tipo elocutorio: «topica elocutoria» di carattere imitativo. L'inventio è per Guazzo ormai essenzialmente eloquentia: i luoghi sono quelli di una «scientia del parlare», nata su presupposti ramisti e sicuramente patriziani. Non a caso nella ricerca dei fondamenti epistemologici del punto di vista del Cavaliere (che dichiara: «Non aspettare [sic] già ch’io entri in campo per sottil disputante contra di voi, perché non appresi mai i luoghi, donde si cavano gli argomenti, et quel, ch'io dico è più per opinione, che

141 Il riferimento delminiano va al Trattato dell’imitazione e alla Topica overo dell’elocuzione (in L'Idea del Teatro e altri scritti di retorica, cit.). Nella Topica Camillo così si esprime: «Sono molte, non nego le bellezze dell’eloquentia, ma quelle ch'appartengono solamente alla selva della lingua sì che si possono cogliere con la sostanzia di quella, se ben riguardo a ciò ch'’l celeste lume fra sì folte tenebre degna mostrarci, non sono più che sette. E nel vero, a questo settenario numero giunti, gli antichi conobbero esser agli ultimi termini dell’eloquenzia pervenuti [...] La prima adunque parte della selva è lo apparecchio che ci dobbiamo fare di semplici e sciolte voci, che or proprie, or traslate, or figurate esser potranno. La seconda, di voci accompagnate, senza verbo. La terza, delle locuzion proprie. La quarta, degli epiteti. La quinta, delle perifrasi. La sesta, delle locuzion traslate. La settima, di quelle che son fi-

gurate» (p. 205). Su questa interessante problematica si è soffermato di recente M. Carpo,

Serlio e Camillo,

cit., pp. 156-157.

Camillo

ne Della Imitazione

precisa: «Et acciò ch'io sia meglio inteso, tre principali ordini possono essere della lingua accommodati a vestir ciascun nostro concetto: il proprio, lo traslato e quello a cui perfino a qui, forse per non essere stato così ben inteso e né conosciuto, non è caduto nome e che noi in tutta l'impresa nostra primi chiamiamo e chiameremo sempre topico; da ciascuno de’ quali la eloquenzia, secondo la natura della materia, vestita si vede» (pp. 170-171).

300

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

per intelligenza» (I, 7v); ma anche aggiunge di desiderare «bene di darmi cagione d’insegnarmi, più per intendere, che per contendere»), Annibale dopo aver attribuito il piacere della interazione dia-

logica a quel concetto di «humanità» che fonda sul dialogo e sulla interazione stessa il proprio statuto epistemico, dichiarerà che proprio in sintonia con l’oscuramento di una topica a uso del disputante sostenuto da Guglielmo («Io non sono di quelli ambitiosi, che per aventura ciò fanno con grande studio, et con intentione di prevalere a gli altri, anzi vi dirò semplicemente, et senza affettazione quelle cose, che mi ricorda già haver’udite da qualche virtuoso, et che mi saranno dettate da un certo spirito di ragione, rimettendomi poi al sano, et perfetto giudicio vostro») (Ibidem, 8r) — il quale preferirebbe una sorta di topica memorativa e del sano senso comune



farà ricorso «quando mi verrà acconcio»

a pro-

verbi «che s’usano fra gli artefici» e alle favole «che si raccontano presso al fuoco» (Ibidem, 8r-v) e non tanto perché «la natura mia si pasce oltremodo di questi cibi», come Annibale stesso precisa. Egli infatti si mostra «oltremodo» attento a fornire un modello di conversazione in atto, agile, fruttuosa, volta più che alla disputa, all’intesa e alla comprensione reciproca. Quei «luoghi, donde si cavano gli argomenti», la topica dell’inventio, nella conversazione intersoggettiva (qui lo scarto dalla teoria del retore, dalle «midolla» della retorica classica) si rivelerebbe presto un congegno difficile al riuso per il «collocutore» medio e, in un certo senso, comunque intralciante per la «scientia del parlare», che coinvolge nel proprio patto, a sua volta, Annibale e il Cavaliere, la cui topica al massimo è topica del ricordo e dello «spirito di ragione»; repertorio di proverbi, favole, raccontati e ricordati: inventio del dicibile nella conversazione. L’intelletto sano (Annibale) predispone l’esemplarità della conversazione sana. Una esemplarità da «imitare», laddove l’esemplarità stessa è risultato dell’imitazione. C'è di più. L’efficacia della conversazione risiede nell’imitazione della topica elocutoria. Ricordiamo: chi desidera «trovar luogo di gratia nella civil conversatione», «non potendo egli apprendere da gli oratori i luoghi onde si cava la varietà, et la copia delle parole, et le figure, et l’elocutioni, con le quali s’abbellisce, et s’illustra il ragionamento,

almeno osservi con diligenza le parole altrui, et s'imagini, che non vi è alcuno così inetto, et incolto nel favellare, che non dica talho-

ra alcuna cosa degna Si tratta ancora Guazzo esprime con re e serbare «per il

di memoria» (II, 84v). di un «riuso», della citazione opportuna, che la metafora della rosa tra le spine, da cogliesuo uso». Citazioni pronte all'uso e al riuso,

topica: topica fatta di sentenze, motti, favole, allegorie, similitudi-

RETORICA,

ETICA

E PRAGMATICA

DELLA

CONVERSAZIONE

301

ni, proverbi, bisticci, e «altri piacevoli detti» (ivi): tutte rose tra le spine, «fuori dalla volgar forma di parlare». Solo così, imitazione, memoria, idea, — nelle lettere, nell’architettura 14, nella conversazione — si intrecciano e costruiscono il loro edificio; a volte nel

caso ben riuscito, il manufatto può essere tempio. Osservava Camillo l’esistenza di «materie» che reclamano «locuzioni topiche», capaci di metterle «davanti agli occhi de’ lettori, pigliando le pitture or dalla proprietà, or dalla traslazione» 14, Tali «materie» appartengono propriamente al poeta, ma anche al retore e all’architetto !4, sono necessarie al conversante,

lasciava intendere chiaramente Guazzo. Tutti e quattro usano l'imitazione; come l’ape il cui miele è il «cornucopian text», laddove non è più però riconoscibile il fiore di provenienza del polline: superamento allora dello stesso concetto di «cornucopia»: «essa [l'ape] ce lo apparecchia e chiamasi méle e non più fiori» 145. Il trattato di Camillo Della Imitazione, scritto in polemica con il Ciceronianus di Erasmo, poneva il problema fondamentale del citazionismo cinquecentesco: «... più ragionevolmente potremo dir che abbiamo usato il medesimo che usò l’autore, che dir che abbiamo imitato lui, conciò sia cosa che la imitazione è mentre

facciamo non quello istesso, ma un simile; il perché, secondo il creder mio, la imitazione è tutta nel modello, sì che le parole o proprie o traslate che sono in uso di lei son libere, e se pur talor è stato chiamato imitar il dir quel medesimo, fu presa la imitazione nella sua larghissima significazione» 14. E il doppio registro si insinua anche nel cuore dell’imitazione: «Sia, per grazia di esempio, smarrita l’arte di far mattoni, i quali non si potessero aver se non negli edifici antichi, ne’ quali l’arte de’ mattoni fermata si fusse; e venga in desiderio ad un architetto de’ nostri tempi di fare un bello edificio di mattoni secondo il disegno che avesse fabricato nella mente. Certo, sarebbe astretto di abbatter a terra alcun edificio antico e con quelle pietre cotte far il lavoro; e se fusse architetto nobile, non dovrebbe già levar i pezzi di muro della fabrica antica per metter quelli nella sua, che sarebbono conosciuti per non suoi; ma ridur tutto il muro a quel cumulo di pietre dove l’una fusse dall’altra divisa, sì come furon mentre il primo fabricator in opera le messe. È il vero

14 Ibidem, p. 176.

143 Ibidem, p. 171. 144 Ivi. 145 Ibidem, p. 170. 146 Ibidem, p. 171.

302

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

che quando venisse alle cornici, alle colonne, o ad altra figura di marmore

che fusse in alcun nicchio, esso la doverebbe conservar

così intera, o per farne alcuna simile ad esempio di quella, o per farla in alcun prudente modo diventar come sua. E benché le parole tutte che debbiamo cogliere da gli autori non debbiamo ordinar dissipate per semplici, ché alcune ancor delle proprie nonché delle traslate vanno accompagnate e così deono esser conservate et usate, nondimeno tutte queste che non sono da esser disgiunte sono come fusser ridotte ai loro principii, mentre vanno secondo l’uso degli autori con le loro compagnie» 14. Anche Alberti richiamava l’analogia tra l’architetto e il letterato nel metodo imitativo: «...è auspicabile che l'architetto si regoli allo stesso modo di chi si dà agli studi letterari. Giacché nessuno, in questo campo, penserà di essersi adoperato a sufficienza finché non avrà letto e approfondito gli autori, e non soltanto i migliori, ma tutti quelli che su tali argomenti costituenti l’oggetto del proprio studio abbiano lasciato scritto qualcosa. Parimente l'architetto, dovunque si trovino opere universalmente stimate e ammirate, tutte le esaminerà con la massima cura, ne farà il dise-

gno, ne misurerà le proporzioni, se ne costruirà dei modelli per tenerseli appresso, e così le studierà, comprenderà l’ordinamento, la collocazione, i generi e le proporzioni delle singole parti...» 148. Alberti seguace come Camillo del neoplatonismo !4 è a suo modo teorico dell’«Idea»: «il pensare e lo stabilire in precedenza mediante il raziocinio ciò che dovrà essere compiuto e perfezionato da ogni parte dell’edificio, è opera che spetta soltanto a una mente dotata...». «Occorrerà pertanto che l’opera da cominciare sia concepita con l’ingegno, sceverata col giudizio, ordinata con il senno, resa perfetta con l’arte» 150,

Gli fa eco Camillo che ricorda il Vitruvio del Barbaro: «Sì come l’architetto non con sana mente si condurrebbe a fabricar alcuno edificio con le pietre et altri semplici, se prima nella mente non avesse con belli e dotti pensieri fatta una mental fabbrica ad imitazion di cui di fuori esercitasse le mani, così di niuno consi-

glio è da giudicare quello componitore il quale a caso si dà a mettere insieme le parole et altri ornamenti senza regger lo stile

147 Ibidem, pp. 176-177. 148 LEON BATTISTA ALBERTI,

De re aedificatoria,

cit., IX, X, tr. it. cit., pp.

854-856. 14° Cfr. E. Panorsky, /dea. Ein Beitrag zur Begriffgeschichte der dlteren Kunsttheorie, G.B. Teubner, Leipzig-Berlin 1924; tr. it. Idea. Contributo alla storia dell’estetica, La Nuova Italia, Firenze 1952, a cura di E. Cione. 150 L. BATTISTA ALBERTI, De re aedificatoria, cit., IX, X, tr. it. cit., p. 854.

RETORICA,

ETICA

E PRAGMATICA

DELLA

CONVERSAZIONE

303

secondo alcuna forma prima collocatasi nella mente» !51, Secondo l’idea. Ma l’idea come forma pensata che dà luogo all'espressione artistica si presenta come interpretazione che «contamina l’originaria concezione platonica con elementi aristotelici» !52, ed è presente in questa forma nell’Orator di Cicerone. Risultano allora alquanto pertinenti il richiamo delminiano e il riferimento contiguo all'opera ciceroniana. Bisogna aggiungere che nel Prologo Alberti aveva configurato l’attività costruttiva così profondamente radicata nell'animo umano (cura et ratio aedificandi) da spingere l’uomo spesso ad avvertire la necessità «di concepire con la mente una qualche costruzione» !53, Sempre nel Prologo prefigurava, seppur non esplicitamente, l'analogia tra discorso e architettura non solo nei metodi (le modalità della costruzione,

tra cui l'imitazione), come

realizzerà

nel cuore del De re aedificatoria, ma nei loro stessi fini in quanto capaci entrambi di conciliare, lo abbiamo anticipato, «la convenienza pratica con la gradevolezza e il decoro» !54. Ma imitazione,

memoria,

idea si rivelano strumentario

inso-

stituibile nella conversazione civile e l'imitazione in particolare si attesta come veicolo peculiare dell’elocuzione e della sua topica. È noto. L’imitazione a partire dal secondo e terzo decennio del Cinquecento diviene un vero e proprio problema pedagogico e didattico. Sulla polemica, in particolare tra Bembo e Francesco Pico della Mirandola, è stato scritto molto. Tuttavia è punto fermo che la posta in gioco diverrà non solo imitare Cicerone ma per molti teorici cinquecenteschi si tratterà di trasformare la pratica dell’imitazione letteraria in una «tecnica razionale trasmissibile». Si può con sicurezza affermare con la storiografia più recente che la nozione di metodo non è seicentesca ma cinquecentesca. Via breve, scorciatoia al sapere, per il Cinquecento italiano il metodo è divisivo (Patrizi): anche il discorso può essere diviso in parti: prefazioni, argomenti, conclusioni; formule e figure; frasi, sintagmi, parole e detti: alcune teorie cinquecentesche fondano sulla tecnica divisiva un metodo specifico per l'imitazione. Lo stile è testo e anche i testi ciceroniani non sono altro che una successio-

151 G. CAMILLO, Discorso sopra l’idee di Ermogene, cit., p. 259. 152 E. CIONE, Presentazione a E. PANOFSKI, Idea, cit., p. VII. Di Camillo bi-

sogna ricordare

anche l’Idea dell’eloquenza,

«Rinascimento»,

XXIII

(1983),

pp.140-166, a cura di L. Bolzoni; riprodotto in L. BoLzoni, If teatro..., cit., pp. 107-127. 153 L. BATTISTA ALBERTI, Prologo al De re aed., cit., p. 10.

154 Ibidem, p. 1.

304

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

ne di elementi compositivi !55. La segmentazione di un testo non è opera né banale né ingenua. Ogni opera può essere suddivisa in frammenti. Ogni frammento riutilizzato, rimontato, ricomposto tanto da farne un’arte musiva, come insegna Alberti nelle sue opere morali: Nihil dictum quin prius dictum !56. L'arte del discorso

155 Cfr. M. Carpo, Camillo e Serlio, cit., p. 9. 156 L. BATTISTA ALBERTI, Profugiorum

ab aerumna,

libri III tr. it. La tran-

quillità dell'animo, in Opere volgari, Laterza, Bari 1966 a cura di Cecil Grayson, II. Scrive l’Alberti: «Concederemo noi, Battista, qui ad Agnolo quel che e’

dice che ’l suo disputare sino a qui sia stato senza ordine? E tanta copia di varie, degnissime

e rarissime

cose accolte da lui, diremole

noi non

esposte in

luogo e porte e assettate dove bello si condicea e convenia? Molti appresso de’ nostri maggiori Latini e ancor molti presso de’ Greci, Agnolo, scrissero simile parte e luoghi di filosofia. Non però vidi in tanta frequenza alcuno di loro più che voi composto

e assettato.

E notai in ogni vostra argumentazione

e pro-

gresso del disputare esservi una incredibile brevità, iunta con una meravigliosa copia e pienezza di gravissimi e accomodatissimi detti e sentenze. E quello che a me pare da pregiare in chi scrive o come voi qui disputa e ragiona di queste dottrine dovute a virtù e atte a viver bene e beato, Agnolo, si è quello che in prima in voi mi parse bellissimo. Non so se fu Cipreste, del quale Vitruvio scrive tanta lode, o se fu altro architetto inventore di questo pingere e figurare, come oggi fanno, el pavimento. Ma costui qualunque e’ fu trovatore di cosa sì vezzosa, forse fu a quel tempio ornatissimo di [Efeso], quale tutta l'Asia construsse in anni non meno che settecento; e vide costui a tanto edificio coacervati e accresciuti e’ suoi parieti con squarci grandissimi di monti

marmorei, e videvi di qua e di là colonne altissime; e videvi sopra imposti e’ travamenti e la copertura fatta di bronzo e inaurata; e vide che dentro e fuori erano e’ grandi tavolati di porfiro e diaspro a suoi luoghi distinti e applicati, e ogni cosa gli si porgea splendido; e miravavi ogni sua parte collustrata e piena di meraviglie: solo el spazzo stava sotto e’ piedi nudo e negletto. Adunque, e per coadornare e per variare el pavimento dagli altri affacciati del tempio, tolse que’ minuti rottami rimasi da’ marmi, porfidi e diaspri di tutta la struttura, e coattatogli insieme, secondo e’ loro colori e quadre compose quella e quell’altra pittura, vestendone e onestandone tutto el pavimento. Qual opera fu grata e iocunda nulla meno che quelle maggiori al resto dello edificio. Così avviene presso de’ litterati. Gli ingegni d’Asia e massime e’ Greci, in più anni, tutti insieme furono inventori di tutte l’arte e discipline; e construssero uno quasi tempio e domicilio in suoi scritti a Pallade e a quella Pronea, dea de’ filosofi stoici, ed estesero e’ pareti colla investigazione del vero e del falso: statuironvi le colonne col discernere e annotare gli effetti e forze della natura, apposervi el tetto quale difendesse tanta opera dalle tempeste avverse; e questa fu la perizia di fuggire el male, e appetire e conseguire el bene, e odiare el vizio, chiedere e amare la virtù. Ma che interviene? Proprio el contrario da quel di sopra. Colui raccolse e’ minuti rimasugli, e composene el pavimento. Noi vero, dove io come colui e come quell'altro volli ornare un mio picciolo e privato diversorio tolsi da quel pubblico e nobilissimo edificio quel che mi parse accomodato a’ miei disegni e divisilo in più particelle e distribuendole ove a me parse. E quinci nacque come e’ dicono: Nihil dictum quin prius dictum. E veggonsi queste cose letterarie usurpate da tanti, e in tanti loro scritti adoperate e disseminate, che oggi a chi voglia ragionarne resta altro nulla che solo el raccogliere e assortirle e poi accoppiarle insieme con qualche varietà

RETORICA,

ETICA E PRAGMATICA

DELLA

CONVERSAZIONE

305

diverrà una tecnica della citazione; i testi antichi si trasformano

in un catalogo di citazioni iterabili indefinitivamente. E sono proprio i teorici dell’imitazione cinquecenteschi a fondare una nuova retorica. Il testo è un assemblaggio di parti, i discorsi degli antichi possono essere scomposti in segmenti che, ricomposti, serviranno a costruire discorsi moderni. Ed ecco che di fatto l’architetto procede come il retore, il letterato o il conversante: servirà a tutti

«un metodo razionale per trasformare l'imitazione degli antichi in una tecnica compositiva moderna». La lingua architettonica degli antichi aveva costruito teatri e doveva essere ora adattata a esigenze tipologiche e funzionali inedite: «L'immagine del sapere degli antichi come un edificio che può essere smontato e rimontato ad infinitum era un topos — ma per gli architetti rinascimentali non era una metafora. Era una pratica di cantiere. Serlio ne farà un metodo compositivo sistematico, deliberato e consapevole. Il metodo compositivo che Serlio perfeziona nel suo trattato è l'equivalente architettonico del citazionismo cinquecentesco» 157, Serlio è stato criticato perché la sua non è un’opera di teoria architettonica. Il suo metodo è per «ogni mediocre» — ulteriore assonanza con Guazzo — per il «mediocre architetto». Anche qui nel cuore della medietà e della mediocrità Guazzo si trova a proprio agio. Il trattato serliano, come il suo, si rivolge a una classe intermedia. Come Serlio, trasforma l’invenzione nell’assemblaggio di un mosaico di citazioni per rendere l’arte del conversare alla portata di tutti. Come Serlio che voleva «rendere l’architettura facile a ognuno». Ma è anche un prezzo da pagare come fa notare Carpo. Si può programmare

e trasmettere il sapere, non il genio.

«Al contrasto fra la miseria di molti, e la grandezza di pochi, Serlio antepone l’uniformità ripetitiva e un po’ noiosa di un universo di ‘mediocri’ operosi» !58 — progetto ideologico ma anche sociale. «Evoca categorie ben note della modernità» protestante e borghe-

dagli altri e adattezza dell’opera sua, quasi come suo instituto sia a imitare in questo chi altrove fece el pavimento» [...] E noi, Agnolo, che vediamo raccolto

da voi ciò che presso di tutti gli altri scrittori era disseminato e trito, e sentiamo tante cose tante varie poste in uno e coattate e insite e ammarginate insieme, tutte corrispondere a un tuono, tutte aguagliarsi a un piano, tutte estendersi a una linea, tutte conformarsi a un disegno, non solo più nulla qui desideriamo, né solo ve ne approviamo e lodiamo, ma e molto ve ne abbiamo grazia e merito» (Ibidem, pp. 160-162). Per un commento analitico di questi temi rinvio a R. CARDINI, Mosaici. Il «nemico» dell’Alberti, Bulzoni, Roma 1990. 157 M. Carpo, Serlio e Camillo, cit., p. 10.

158 Ibidem, p. 11.

306

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

se. Gli esempi del passato restano sempre alla base del sapere architettonico. Come ricorderà più tardi Camillo nella topica l’architetto si regoli come chi si dà agli studi letterari. Il metodo compositivo architettonico serliano è l'equivalente del «citazionismo cinquecentesco». Camillo, uno dei suoi massimi teorici, aveva un certo interesse per l'architettura — come testimoniano L'idea del Teatro, la Topica, l’Imitazione, Sopra l'idee di Ermogene — ed era amico di Serlio. In Alberti, è stato notato, assistiamo a un’anticipazione isola-

ta ma pertinente del metodo citazionistico cinquecentesco. Nella Tranquillità dell'animo Alberti afferma che il letterato deve procedere come il costruttore di un mosaico, operando una variante sull'ipotesi petrarchesca contenuta nelle Familiares !59: chi imita deve evitare che il suo testo sia identico o troppo somigliante al modello. La somiglianza deve essere come quella del figlio al padre...: appena si vede il figlio si pensa al padre, ma il confronto tra i due mostrerà tutta la loro differenza, mentre continua ad esi-

stere un misterioso «non so che in comune». Il ricorso delminiano alla metafora dell’ape (o allo stomaco, in altri autori) vuol rimuovere la concezione dell’imitazione secondo l’archetipo della scimmia ridicolizzata nel Ciceroniano di Erasmo. Si vuol proporre un’imitazione creatrice (emulazione). L’imitatore deve innanzitutto reperire, isolare l’espressione esemplare, la «rosa tra le spine»: «L'inclinazione degli umanisti per le forme di discorso inferenziale corrobora la pratica (antisistematica), intuitiva dell’imitazione creatrice» !99, L'esempio che corre di testo in testo per esemplare il problema dell’imitazione è il topos di Zeusi, centrale per la concezione estetica rinascimentale, problema sui fondamenti epistemologici dell’imitazione che Cicerone nel De inventione poneva con notevole acutezza !6!. Erasmo nel redigere gli Adagia e il De duplice copia sembra avere punti di riferimento mutati. Nel primo egli mette a punto un vero e proprio repertorio di invenzione

retorica; nel secondo l’entusiasmo per la prassi della citazione sembra raffreddarsi !62. La critica è rivolta contro la retorica fon-

15° PetRARcA,

Familiares, cit., XXIII,

19, t. III, pp. 293-241

(oppure: ed.

nazionale, cit., IV, XXIII, 19, pp. 205-207). 160 M. Carpo, Serlio e Camillo, cit., p. 55. 161 Per Cicerone, de inven., II, 1-5. Per i riferimenti rinascimentali cfr. almeno Francesco Pico della Mirandola a Bembo (ed. cit., 75, 80) e Camillo, Del-

la Imit., cit., p. 184 e Idea dell’eloquenza (1983), cit., pp. 152 sgg., e (1984) pp. 115 sgg., e le diverse occorrenze in Erasmo.

162 Compagnon che scrive un bel libro sulla pratica della citazione non sembra di questo avviso: cfr. La seconde main ou le travail de la citation, du

RETORICA,

ETICA

E PRAGMATICA

DELLA

CONVERSAZIONE

307

data su repertori pronti all’uso, quella di Enea Silvio Piccolomini, per es. guarda piuttosto a forme generative. I loci assumono una duplice funzione; quella di repertorio e di matrice dell’inventione retorica. Nel Ciceroniano, si fa osservare, Nosopomo

si vanterà di

aver redatto in sette anni di lavoro uno strumento lessicografico in tre volumi: dizionario e indice ciceroniano universale. Il primo volume è una sorta di lemmatizzazione integrale del corpus ciceronianum in cui viene ricostruito un index locorum di tutti i vocaboli usati da Cicerone.

Il secondo volume

è un regesto di locuzioni,

tropi, figure, motti, arguzie ciceroniani. Tuttavia Nosopomo non è una caricatura: è la descrizione del metodo citazionistico rinasci-

mentale. Questo tipo di imitazione è inventio: sapere per citazioni e repertoriabile; per Guazzo senz'altro da perseguire in quanto mette in atto una sorta di economia della conoscenza: «con poca spe-

sa» ci si arricchisce più di quanto altri ha perseguito «con lungo, et faticoso lavoro». Bisogna farsi un «abito» citazionista ma al contempo evitare il rischio cui espone: il «ragionar prontamente, et bene» di ogni argomento non è indice sicuro della «digestione»

di quel miele ché gli proviene dall’esterno. Le parole «mangiate», che non

si formano

dentro la propria anima,

possono

costituire

«diversità di dottrina», varietà simile a quella dei fiori «in primavera», dietro le quali, tuttavia, si cela la superficialità lontana dai

frutti autunnali e maturi delle scienze (Ibidem, 86v). Il «ragionar d’ogni cosa è impossibile», dato che tutto il sapere richiede «studio di lungo tempo» per produrre frutti maturi. A questo genere di persone, che amano la via corta, il paradosso della facilità, l’en-

timema incontrollato, sarebbe più consono il nome di «avventurati», in luogo di «letterati»: «ho conosciuti io alcuni giovani tanto ingordi di sapere, che si sono posti a divorar ogni sorta di libri senza masticarli, et secondo la natura de gli stomachi freddi, che più appetiscono, che non digeriscono, hanno fatto una cornucopia di crudità senza nutrimento» (Ibidem, 85v) — bagnate magari di

miele e ambrosia; si consumano mento alla mente.

senza apportare il dovuto nutri-

Seuil, Paris 1979. Per il topos cinquecentesco

della cornucopia, che Guazzo

usa a rovescio, cfr. T. Cave, The Cornucopian Text. Problems of Writing in the French Renaissance, Oxford at the Clarendon Press, Oxford 1979. La cornuco-

pia simbolizza un repertorio ideale di testi antichi, fonti universali di infiniti discorsi e infiniti riusi. Ogni scrittura è una riscrittura. Questo gioco di scambi si chiama adesso intertestualità (cfr. CarPo, op. cit., pp. 76-77). Si veda anche PLuRES, Scritture di scritture. Testi, generi, modelli del Rinascimento, zoni, Roma 1987, a cura di G. Mazzacurati e M. Plaisance.

Bul-

308

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

Si assiste in queste pagine guazziane a sinestesie e metafore

di forte incisività. La mente come lo stomaco, i concetti come gli alimenti, la vivificazione esaltante del pensare e l'apporto nutritivo al corpo. Ma la festa della metafora non conosce soste. Guazzo incalza nella sua vena metaforica. Nonostante che individui simili riescano, per qualche alchimia psicologico-sociale, piacevoli nella conversazione, in se stessi si trovano veramente

«confusi, et senza

alcun ordine non altrimente, che i grembiali de pittori, che si veggono tinti a caso d’ogni sorte di colori» (Ibidem, 85v). La metafora pittorica continua ad agire ulteriormente nella pagina guazziana con effetti sorprendenti. Prima l’alfabeto ideogrammatico dei geroglifici, come modello delle parole che devono dipingere se stesse; ora, per descrivere la mente e la dottrina «varia» del giovane «ingordo», si serve della metafora erasmiana del «grembiale» del pittore, macchiato a caso,

senza erdine: di questo tipo è la varietà così ostentata. Unica eccezione plausibile a un simile status di tuttologia e onniscenza da dilettanti, potrebbe essere costituita dalla posizione eccezionale del Principe «al quale forse meglio convenga l’haver superficial contezza di diverse lingue, et scienze, che l’haverla isquisita d’una sola»

(Ibidem, 86r). In questo caso, la «mezana cognittione» funge da bussola nelle trattative del principe con persone, paesi, professioni differenti. Per ciò che concerne le «persone private», nel campo specifico del sapere, l’unica strada perseguibile è quella di «discendere alla radice di una sola, che cogliere i frutti di molte scienze». Un duro e costante lavoro può essere applicato a vantaggio di una sola fruttuosa ricerca. L’ultima parte del libro II, riguardante le analisi guazziane sul problema linguistico, è dedicata alla «questione della lingua» !9. Quale idioma adottare nella conversazione, il proprio o il toscano? La risposta non si lascia attendere: si adotti la «favella

163 Secondo G. Presa le pagine dedicate alla «questione della lingua» risultano le più importanti e le più originali entro l’impegno linguistico della CC (La «civil conversatione» di Stefano Guazzo e la teoria dello «scrivere come si dee» e del «parlare come

si suole», «Libri

e documenti»,

II (1976), 1, pp. 8-

16). Si veda anche G. RecgIo, Stefano Guazzo e la questione della lingua. Le opinioni di uno scrittore monferrino quasi dimenticato, «Studi piemontesi», IX (1980), pp. 46-51. Anche nella recentissima Storia della lingua italiana I (Einaudi, Torino 1993) la proposta di Guazzo viene definita «realistica e intelligente», «una proposta avanzata» (p. 278: C. MARAZZINI, Le teorie. 4. La teoria linguistica nel Rinascimento).

RETORICA,

ETICA

E PRAGMATICA

DELLA

CONVERSAZIONE

309

della patria». La differenza va esaltata anche in questo contesto. Dopo la Babele delle lingue (la «prima confusione delle lingue») furono appunto la differenza e l’eterogeneità delle stesse a produrre

la conoscenza

di nazioni,

province,

città

e borghi,

«(e quel ch'è più) di una contrada dall’altra». Elogio della differenza e della specificità. La stessa lingua «toscana», così «polita», ha accolto

in sé la differenza:

voci

francesi

e provenzali,

appropriate a tal punto da farle credere toscane. La lingua toscana servirà «allo scrivere felicemente». «Tutti gli huomini communemente si dilettano di scrivere come si dee, et di parlar come si suole. Et con tutto, che si riservino per loro la scienza dello scrivere, si contentano però di seguir l’uso commune nel ragionare» (Ibidem, 87v). Se si apprende molto più dalla viva voce che dai libri, si comprende perché Guazzo guardi a un linguaggio «mezano» a uso della conversazione, che rispetti l’uso comune dei parlanti, atto a essere subito compreso per la sua efficacia e la sua capacità di salvaguardare voci cortesi e civili. Il linguaggio pittorico e cromatico di Guazzo ricorre a esempi altrettanto cromatici, da studioso della moda e del costume. Come le fogge dei vestiti, anzi come i loro colori; dal

monocromatismo

al cromatismo

vario

cromatismo assoluto, in cui i colori sono et mescolati insieme, che occupando la discernere l’uno dall’altro», una sorta di 89r), così queste differenze si riscontrano Alcuni

hanno

un

parlare

schietto,

e distinto

a un

così ben «incorporati vista non si lasciano trompe-l’oeil (Ibidem, anche «nel favellare».

monocromatico;

altri

«sfog-

giato», policromatico, altri ancora «misto» (la varietà dei colori non si lascia discernere e ne risulta un colore «confuso»). Il parlare «misto» deve essere permesso «alla maggior parte degli huomini, lo schietto a pochi, lo sfoggiato a nessuno» (ivi). Erra chi usa «hora voci in tutto vitiose, hora in tutto polite». Ha errato lo stesso Dante che ha finito «quel verso [non credo che per terra andasse anchoi] toscano stomacosa [...]» (Ibidem, 89r).

con

una

voce

lombarda,

et

Continuando con la «similitudine» del denaro che ha inaugurato il discorso guazziano sulla lingua, l’autore della Civil Conversatione ritiene che come il denaro «ha dal conio una pubblica stampa, per la quale si conosce dove sia fabbricato», ugualmente la lingua, la parola, deve possedere «la forma, che dimostri a qualche segno l’origine, di colui che parla». Una sorta di marchio originale, di moneta di scambio pronta all'uso che connoti linguisticamente la provenienza del locutore. Lontani sembrano gli echi speroniani del Dialogo delle lin-

310

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

gue !64 e la loro appassionata difesa del volgare, quando Speroni, allievo di Pomponazzi (Peretto) si proponeva il compito di mostrare come la lingua volgare non fosse per nulla «lingua inumana» «priva al tutto del discorso dell’intelletto» !95. La sua difesa era a tal punto appassionata, «in questi tempi moderni, ne’ quali si studia non ad esser ma a parere savio», che si spingeva a polemizzare contro chi intendesse «lingua greca e latina» sinonimo di «lingua divina» e possedesse quella «sciocca oppenione» che portava a credere che per farsi filosofi fosse sufficiente «sapere scrivere e leggere greco senza più, non altramente che se lo spirito d’Aristotile, a guisa di folletto in cristallo, stesse rinchiuso nell’alfabeto di Grecia, e con lui insieme fosse

costretto d’entrar loro nell’intelletto a fargli profeti» !96. Ormai con Guazzo, quella «piccola e sottile verga» !97 della lingua moderna, conformemente all'idea generativa della lingua, è divenuta una nobile pianta.

164 S. SPERONI, Dialogo delle lingue, in Opera, Domenico Occhi, Venezia 1740; ed. consul. in Trattatisti del Cinquecento, a cura di M. Pozzi, Ricciar-

di, Napoli 1978, t. I, pp. 585, e anche in Discussioni linguistiche del Cinquecento, Utet, Torino

1988, pp. 286-355.

165 Ibidem, p. 330 (ed. Utet). 166 Ibidem, pp. 330-331. Su questo aspetto oltre Apel (L’idea cit., pp. 273 sgg., dove tra l’altro riprende un giudizio di G. espresso ne I! Cinquecento, Vallardi, Milano 19544, secondo cui Speroni, per il concetto umanistico di lingua che esprime, «forse brevità

è la [...] più rappresentativa

del secolo»),

si sofferma

di lingua, Toffanin, l’opera di nella sua

E. Garin,

La

cultura del Rinascimento, Saggiatore, Milano 1988 (ed. rivista), p. 56 e L’Umanesimo italiano, cit., passim. Il problema della lingua in consonanza con l'affermazione dell’«eccellenza dello spirito umano» si configura paradossalmente come uno dei mezzi per «liberarsi dagli antichi»: «alla scuola degli antichi, studiando

le arti liberali secondo

nuovi metodi, gli uomini

liberati anche dall’autorità degli antichi, e l’Umanesimo i suoi limiti retorici».

si erano

tendeva a superare

167 S. SPERONI, Dialogo delle lingue, cit., p. 309: «...io vi dico questa lin-

gua moderna, tutto che sia attempatetta che no, esser però ancora assai picciola e sottile verga, la quale non ha appieno fiorito, non che frutti produtti che ella può fare: certo non per difetto della natura di lei, essendo così atta a generar come le altre, ma per colpa di loro che l’ebbero in guardia, che non la coltivorno abbastanza, ma a guisa di pianta selvaggia, in quel medesimo deserto ove per sé a nascere cominciò, senza mai né adacquarla né portarla né difenderla dai pruni che le fanno ombra, l’hanno lasciata invecchiare e quasi morire». Per il Dialogo della retorica di Speroni si veda in Trattatisti del Cinquecento, cit., pp. 637-682. Nella stessa raccolta è contenuta l’Apologia dei dialoghi, pp. 683-724, in cui si assiste all’analogia del dialogo con la coma (p. 684 e passim) e con il «sentiero» (p. 694) o «giardino dilettevole» p. 695).

RETORICA,

ETICA

E PRAGMATICA

DELLA

CONVERSAZIONE

311

Fare cose (virtuose) con le parole La «politezza» della lingua non è tuttavia bastevole a connotare la civil conversazione. L'altro aspetto che Guazzo intende indagare riguarda la «creanza» e i «costumi», le cui analisi abbiamo largamente anticipato, sottraendole di proposito alla topica guazziana. La raccomandazione ora investe questioni di merito: i matematici, stigmatizzati da Diogene, «mirano il cielo, et le stelle, et

non veggono quelle cose, che hanno avanti i piedi». Gli oratori, aggiunge Annibale, studiano di dir bene e non lo fanno (il bene). Non fanno cose buone con le loro parole; l’ars bene dicendi non è affiancata dalla vita virtuosa, l’oblio cade sui costumi, la politezza della lingua per se stessa non ha senso. Senza la moralità concreta essa diviene pura maschera da cui ogni debere più o meno implicito è bandito. Solo conformando l’animo e gli affetti alle parole ci si impegna a divenire migliori. Una società che esige il parlare polito in privato e in pubblico non può sottovalutare o negare la dimensione etica dei costumi. Nei costumi deve avere la sua fisica e la sua metafisica, per parafrasare un passo celebre degli Essais, riferito, tuttavia, ad altro argomento e contesto. Anzi, nel momento in cui qualcuno difetti del «parlar colto, et leggiadro», gli si impone eticamente di «supplire con la candidezza dei costumi». La società buona tollera la buona condotta anche se non accompagnata da un buon eloquio; ma non può valere il contrario: il «vuoto essenziale», il «velo perfido della cortesia» di un linguaggio-formulario, disimpegno etico della raillerie quotidiana e del divertissement forzato, non aiutano certo nemmeno

un seco-

lo di ferro a «polirsi» dai metalli inquinanti, a ripulire roussoianamente la propria aria. L’etichetta davvero, più che etica della quotidianità, diviene la sua parodia. Tutto lo sforzo guazziano dispiegato nella Civil Conversatione investe la ripresa dell’asserto socratico di «procurar d’esser tale, quale egli [l’uomo] desidera di parere» (Ibidem, 93r). E la volontà, lo abbiamo visto, gioca qui un ruo-

lo di prim’ordine. Si tratta pur sempre di una volontà buona, desiderosa di apprendistato etico, di uno sforzo che è disciplinamento in regole intersoggettive presupponenti la comunicazione e la conversazione come scambio e occasione di perfezionamento morale.

Volontà buona, è bene precisare perché il discorso sulla volontà, e il Cavaliere lo fa notare, potrebbe portare a esiti esattamente opposti a quelli indicati: «... io per infrascar la mia ignoranza, mi sforzo di parer quel, che non sono» (ivi). Se l’esser dotto — il discorso vale anche per la bontà — dipendesse dalla volontà, insinua ancora Guglielmo «io sarei per aventura più dotto, di quel che vi paio, perché vorrei esserlo, più che parere». Nel primo caso

312

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

si tratta di un comportamento sconveniente, nell’ambito dell’«odiosa apparenza»; nell'altro, «essere più che parere», si rientra nella sfera della riabilitazione soggettiva di un individuo che agisce sì moralmente per sé, ma non ne dà prova esterna, che quindi, non appare e non può divenire oggetto di osservazione da parte di un giudice esterno (la comunità). Ma i due livelli sono eterogenei come emerge immediatamente e l'apparenza nella seconda proposizione va intesa come la manifestazione di uno status manifestabile, fenomenico. La volontà, ribadisce Annibale, «non si dimostra, né si esseguisce per se stessa, et si scuopre con l’opere

seguenti». La risposta suona come una condanna implicita ai due atteggiamenti votati, rispettivamente, ad un apparire menzognero e a un essere che non vuol apparire. Solo la posizione socratica,

del farsi come si desidera apparire, risponde a una piena esigenza etica per un uomo che vive in comunità, per il quale l’intus e il foris dovrebbero tendere a coincidere. Queste metafore spaziali, assi immaginari, come recentemente sono state definite, del linguaggio morale forniscono non solo i criteri interpretativi per l’inelubile tragicità dell’esistenza, quella dell’homo viator!8 e la sua complessa pedagogia del vivere — grande tema simbolico della cultura del tempo — ma interpretano anche quell’oscurità che pervade i rapporti umani «di cui si avvolge il potere e che regola l’arte difficile e solo in apparenza innocente della ‘civil conversazione’» 199,

E quell’essere che non vuole apparire è forse una configurazione dell’arrière-boutique, protetta, velata e segreta in cui la volontà può concrescere a dismisura e su cui la regola morale può innestarsi e oggettivarsi in un invito all’individuo a uscire fuori di sé alla ricerca di norme etiche e di felicità? L'invito morale più urgente sembra a Guazzo quello di fuggire nella conversazione intersoggettiva la «pomposa, et vana apparenza», quel parere che inganna non solo gli altri ma se medesimi, che non è la risposta del proprio specchio interiore, ma un’emissione linguistica che precede l’animo, il petto, la ragionevolezza, senza premeditazione; filtro razionale o incontrollata emissione,

impedisce la competenza argomentativa e la pertinenza tematica («Altra cosa, o Re è lo scettro, altra il plettro»; «Basti al noc-

168 Sull’romo viator come tematica dell’esistenza cfr. L. VAN DELFT, Le moraliste classique. Essai de définition et de typologie, Droz, Genève 1982, in part. pp. 174-190. 169 B. PapasoGLI, I! «fondo del cuore». Figure dello spazio interiore nel Seicento francese, Goliardica, Pisa 1991, p. 11.

RETORICA,

ETICA

E PRAGMATICA

DELLA

CONVERSAZIONE

313

chier ragionar de’ venti / Al bifolco de’ tori, et le sue piaghe / Conti un guerrier, cont’il pastor gli armenti»). Suoni incontrollati, parole vane si frappongono all’etica del discorso che è frutto di «premeditazione», di «parole ragionevoli», sensate, mirate (oltre dunque la «parola dipinta»), in chi coinvolto nel patto della conversazione — secondo Guazzo il «compagno» — non interrompe il locutore momentaneo «avanti tempo», «togliendo la parola di bocca», mostrando un’incauta presunzione di sé: mancanza di disciplinamento ed eccesso di autostima, ma anche «impazienza dell’ascoltare». Il voler dire tutto senza ascoltare nulla è «una specie di tirannia» che rompe il patto della conversazione, poiché tra «chi dice»

e «chi

ascolta»

deve

«intervenire

[...] una

corrispondenza

come nel giuoco di palla; oltre che l’huomo avezzo a star patiente, et temperarsi nell’udire, fa conoscere a tutti quanto egli sia affettionato alla verità, et quanto nemico del parlare inconsiderato, et contentioso» (Ibidem, 95r). Ma il mezzo più sicuro per vincere l'apparenza della conversazione, il sembrare quello che non si è, è il «tacere in tempo», più efficace del «ben parlare» (Ibidem, 95v). Concetto ribadito in altri luoghi della Civil Conversatione, anche quando Guazzo affronta la tematica del comportamento della donna (III, 159v). E se afferma che il silenzio è ornamento muliebre, precisa che non si tratta di afasia o di silenzio assoluto, ma di «quell’altra armonia» che si oppone all’abitudine della parola. Armonia che ha la sua retorica, un potere comunicativo, come li possiedono la lingua, il riso (Castiglione docet) !?, lo sguardo — la loro ermeneutica. «Altezza» delle parole e soavità della voce si devono «accordare» a tal punto che la donna parlando taccia, così come tacendo parli: ermeneutica dell’altra armonia. Armonia significante. L'immagine che è al centro dell’impostazione critica guazziana è la figura della veridicità del locutore; chi parla deve evitare di alterare, per qualsiasi effetto di occultamento, la «virginità» della verità. Problematica della trasparenza, ma più ancora problematica dell’«essere verace» che investe azioni e parole. L’interno va verso

l’esterno.

Stima

e onore

da sempre

costituiscono

il

limen di ogni desiderio: ma l’onore è più nell’onorato o nell’onorante? E dato che la filosofia si è già espressa su questo punto !7!,

170 Cfr. B. CasTIGLIONE, I! libro del Cortegiano, cit., II, passim. 171 Guazzo poteva trovare lo status questionis sull'argomento nel libro di M. Giovan Battista Possevino, Dialogo dell’honore, Gabriel Giolito de’ Ferrari,

Venezia 1556. Sull’onore cfr. Dialoghi piacevoli, pp. 270-433 e A. PICCOLOMINI,

314

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

chi parla di sé per ricevere onore si accorgerà ben presto che non è in sua facoltà onorarsi da sé. Chiunque desideri essere stimato e onorato per qualche qualità (prudenza, giustizia, fortezza, temperanza) «dee prima ricercar bene nel vaso della sua coscienza se vi è dentro alcuna di queste virtù, et poi farla conoscere a gli altri per indurli a rendergli debito honore, altrimente non potrà sortire il suo desiderio» (Ibidem, 97v). L’interiorità, l'essere, deve esteriorizzarsi. È pur sempre l'interno che deve procedere verso l’esterno; essere e parere, in questo caso devono coincidere per venir «misurati» e riconosciuti da un «esterno» che è in grado di riconoscere l’interno/esterno del suo «collocutore». Solo a questo patto, che il «vaso interiore», il «fondo del cuore», si esibisca e si porga,

è riconoscibile la validità dell'altro motto socratico: parla perché io ti veda. Erasmo si era soffermato a lungo su questo presupposto e aveva chiarito: come nelle cose divine è il padre a generare da sé il figlio, così in noi è la ragione la fonte dei pensieri e del discorso; il figlio nasce dal padre, il discorso dall’animo: «Filius dictus

est

imago

Patris,

adeo

similis,

ut qui alterutrum

norit,

utrumque norit; et in nobis animi speculum est oratio, unde celebratur illud a Socrate dictum: ‘Loquere ut te videam'» !?2, Lo pensava,

lontano

nel tempo,

anche

Baltasar

GraciAn.

Nell’aforisma

Posseder l’arte di conversare si esprimeva nel modo seguente: «La gente esperta sa tastare il polso all’animo attraverso la parola, e proprio per questo un saggio disse: ‘Parla, se vuoi ch’io ti conoscalo Do.

Della Institution morale, cit., VI, IX, pp. 266-277, che riprende celebri temati-

che aristoteliche.

172 Erasmo, Lingua, cit., LB, IV, 698 B-C; ASD, IV, I A, 93, 218-220. 173 B. GRACIAN, Oracolo manuale, cit., afor. 148, p. 99. Egli si sofferma sul «modo»: «la sostanza non basta; si richiede anche la circostanza adatta. I mali modi sciupano tutto; persino la giustizia e la ragione [...] Il ‘come’ ha un

gran peso in tutto [...] Un ‘bel portarsi’ è il miglior ornamento della vita...» (Oracolo, cit., afor. 14). E nell’aforisma 267: «Se gli strali trafiggono il corpo, le cattive parole trapassano l’anima [...]. La maggior parte delle cose si può pagar con parole, e le parole bastano a liberarci da situazioni che parevano impossibili. Si discute con vento nel vento, e un alito superiore giova assai ad animare» (Ivi). Sull’origine del concetto di «maniera» rimando a G. WeIsE, La doppia origine del concetto di manierismo, in Studi vasariani, «Atti del Convegno internaz. per il IV cent. della prima ed. delle ‘Vite’ del Vasari», Sansoni, Firenze

1952, pp. 181-185, che lega il concetto estetico di «maniera» alla letteratura comportamentista (dalle origini medievali a Castiglione). La tesi della «doppia origine» è sostenuta anche da A. BLUNT, Artistic Theory in Italy 1450-1600, Clarendon Press, Oxford 1956? (prima ed. 1940); tr. it. Le teorie artistiche in Italia. Dal Rinascimento al Manierismo,

Einaudi, Torino

1966, in particolare nel

cap. su Vasari: «Il Vasari fu il primo scrittore a elaborare la teoria della gra-

RETORICA,

ETICA E PRAGMATICA

DELLA

CONVERSAZIONE

— 315

Benché «quod latet in hominis corde solus Deus perspicit», per il resto la lingua è stata data agli uomini perché tramite la conversazione essi conoscano reciprocamente la loro mente e i loro animi !7*. Ma se l’«imago» risponde all’«archetypo» e il Figlio ha fatto conoscere, venendo sulla terra, la mente del Padre in quanto «Sermo patris», parola del padre, ne discende al tempo stesso che oltre parola è verità 175, quindi è da considerare «turpissima» la non adaequatio della lingua con l’animo. Ma, si chiede Erasmo, in questo momento «Ubi veritas?» !7. Che ne è del potere veritativo del linguaggio divino e del linguaggio umano un tempo esemplato su quello? I bravi medici dalla lingua «colligunt signa morbi» !77, non dal viso. «Certissima vero signa animi sani, aut aegri, sunt in lingua,

quae mentis est facies» !78. Dal linguaggio si possono capire non solo la salute, ma anche le malattie dell'anima, i suoi vizi, i suoi abusi: menzogna, camuffamento, adulazione, simulazione, ecc. Benché «Veritas lux est, mendacium tenebrae sunt» 179, il rischio più difficile da evitare è l’assuefazione alla menzogna. La lingua è ’

zia in rapporto alla pittura, ma in realtà non si trattò di una innovazione, perché egli si limitò ad applicare alle arti il concetto di grazia, come un aspetto indispensabile del comportamento, che era già stato elaborato dagli autori di scritti sulle buone maniere, specialmente da quelli appartenenti alla scuola neoplatonica, come il Castiglione». Blunt conclude che la descrizione della «grazia» contenuta nel Cortegiano presenta affinità così evidenti con il punto di vista del Vasari riguardo all’estetica, da dedurne che quest’ultimo si ispirò direttamente a tale modello (Ibidem, p. 108). Lo stesso concetto di «sprezzatura», originante la grazia, troverebbe precisi riscontri in Vasari. Inoltre il parallelo verrebbe sancito ante festum «dal paragone che il Castiglione fa tra la grazia da lui raccomandata e i metodi degli antichi pittori»: la troppa diligenza è nociva; Protogene fu biasimato da Apelle «che non sapea levar le mani da tavola» (Il libro del Cortegiano., cit., I, XXVIII). «Il fatto che il concetto di gra-

zia del Vasari derivi dal galateo di corte indica quale ne sia l’effettivo significato nelle sue opere. Con gli umanisti del Quattrocento la pittura aveva raggiunto la stadio di arte erudita; con il Vasari essa acquistava le buone maniere» (A. BLUNT, op. cit., p. 109). A. Pinelli nel capitolo dedicato a Maniera e buone maniere, pp. 110-114 (in La bella maniera, Einaudi, Torino 1993) ritorna con lo stesso taglio alla problematica e all’insistenza vasariane su concetti del lessico storico-artistico, tutti connotabili e repertoriabili nell'accezione «cortigiana» di codice del comportamento sociale. E tra la letteratura comportamentista modello, Pinelli indica anche la Civil Conversatione (classificata, però, con un po’ di stravaganza, tra i «volumetti» [sic] del genere). Oltre le convergenze, l’autore, tuttavia, esplora anche le assonanze.

174 Ibidem, LB, IV, 691 B; ASD, IV, 1A, 82, 847. 175 Ibidem, LB, IV, 691 B-C; ASD, IV, 1A, 82, 852-853.

176 177 178 179

Ibidem, LB, IV, 696 F; ASD, IV, 1A, 91, 147. Ibidem, LB, IV, 698 C; ASD, IV, 1A, 93, 223-224. Ivi. Ibidem, LB, IV, 698 D-E; ASD, IV, 1A, 94, 233-234.

316

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

e rimane comunque la faccia della mente. Sono derise quelle donnicciole (mulierculae) che si dipingono con belletti il viso, ma sono maggiormente derisi gli uomini che assumono, di volta in volta, per così dire diverse parti, («nunc senes, nunc iuvenes, nunc rubi-

cundi, nunc pallidi, nunc obesi, nunc graciles»), e con questa mutevolezza si presentano in foro. Sono perfettamente simili a chi «oratio dissidet ab animo» !8°, Da questo momento in poi l’interesse di Guazzo si concentrerà sulle virtù che la conversazione produce, ma che anche presuppone, appunto come còlte e manifestate in e dal fondo del cuore; virtù tutte, come abbiamo avuto modo

di evidenziare, di una interiorità per così dire socializzata: benevolenza, «vero legame della conversatione» (Ibidem, 98v), «fine della conversatione» (Ibidem, 72v), «frutto della conversatione»

(Ibidem, 108r), per conseguirla appieno necessita di apprendistato; affabilità, qualità propria della natura; amorevolezza, auspicabile ma in un certo senso moderata (amore di sé e amore degli altri), ecc. L’essere veritiero non riguarda solo la forma della conversazione, che suggerisce norme di modestia come l’elezione del silenzio nell’ambito di discorsi di cui non si possieda la competenza richiesta o quando non si richieda il proprio intervento esplicitamente — bisognerebbe non parlare o parlare poco anche di quelle cose di cui si è ben informati ma che esulano dalla propria professione: il Cavaliere confessa di aver compiuto a causa delle sue «continuose, et diverse indispositioni» qualche «mezano studio delle opere di Galeno», ma non per questo reputa opportuno fare il medico

tra i medici.

Il suo

vero

obiettivo

è la «lealtà»,

necessaria precisa Guazzo, «nell’opere» e «nelle parole» (Ibidem, 96v). Adombrare la verità produce menzogna e artificio, in definitiva perdita di credito. La verità va riverita «interamente», non occultata, né violata nella sua verginità o alterata «in qualche parte». Il credito impone, a volte, che non la si lasci nemmeno nel «suo stato»: è il caso del racconto di cose vere «ma alquanto lontane dalla comune credenza». Ecco che lealtà e veridicità devono essere, a tratti, accompagnate dalla sobrietà «nel ragionar di cose, che hanno difficil credenza» (Ibidem, 97v). Tuttavia l’««essere

verace»,

l’uomo

«veritiero»,

deve

comunque

astenersi

dal parlare di sé, delle proprie cose, salvo in caso di necessità. Qualche sospetto di vanità rimarrebbe nel suo interlocutore benché egli parli con verità e modestia: parlare di sé con lode è atto

180 Ibidem, LB, IV, 698 C; ASD, IV, 1A, 94, 228.

RETORICA,

ETICA

E PRAGMATICA

DELLA

CONVERSAZIONE

Sd

di arroganza, parlarne con biasimo è da sciocchi. Nemici di se stessi sono coloro che non cumulano il «tesoro» della benevolenza 181 e dell’affabilità !82: «Io conosco alcuni tanto rigidi, contegnosi, incivili...».

Incivile

semantizza

qui non

cortese,

inurbano.

I

«costumi alteri» non sono adatti alla conversazione. Invece «il parlar benigno, et piacevole» è la «calamita» tramite la quale «si traggono gli huomini dalla moltitudine». Calamita/virtù consona a tutti gli uomini; risplende in modo particolare in quelli che «o per potenza, o per dignità ci sono superiori, quando trahete da loro risposte gratiose, et tali, che non meno dal suono delle parole, che dalla vivacità de gli occhi, et dalla serenità della fronte comprendete a dentro gli intimi affetti loro, ai quali piegate la

volontà, et l’affettione» (Ibidem, 99r). Questo è il terreno già definito da Alessandro

Piccolomini, sulla scorta di Aristotele, «della virtù dell’eutrapelia, ovvero urbanità...» 183. Non solo terreno della «ricreationi d'animo», ma anche

181 La benevolenza altrui come

risultato di «piacevoli modi, et gentili»

nella conversazione («[in] communicando») era indicata dal Casa, già nell’esor-

dio del Galateo, a fine principale dell’atto communicativo (Galatheo, ... cit., p. 44. La presenza della parentesi quadra rinvia al testo manoscritto nella ed. Marsilio, cui del resto la pagina rimanda). 182 La «virtù dell’affabilità» è oggetto del libro VI, XII, della Istitution morale di Alessandro Piccolomini, cit., pp. 277-279, il cui debito verso l’Etica

Nicomachea è evidente sin nella ripartizione argomentativa (per il rapporto Aristotele-Piccolomini si veda il saggio di M. Celse-Blanc, Alessandro Piccolomini disciple d’Aristote ou le détour de la réécriture, in PLuRES, Scritture di scritture, cit., pp. 109-145, che tuttavia non richiama tematicamente la Istitu-

tion morale). Virtù mediana (che non «havendo proprio nome, possiamo domandare affabilità») atta a distinguere «i gradi, et le qualità delle persone, et de’ luoghi, et de’ tempi» (p. 278) e foriera di benevolenza nella «difficilissima» arte della conversazione. Il presupposto piccolominiano è noto, ma l’autore lo richiama anche nell’esordio del capitolo in questione: «Perché l’huomo (come nel primo Libro habbiamo dichiarato) è animal per sua natura civile, et conversativo; et molte volte occorre di conversare, per diversissime occasioni, con diverse maniere d’huomini, difficilissima cosa sarà, secondo il grado, et il

decoro di tutti, sapere in modo vivere, et conversare, che insiememente appresso d’ogniuno si mantenga la propria dignità, et la gratia; et la benevolentia di tutti communemente s’acquisti» (p. 277). In questa ricerca della benevolenza tra il troppo o il poco spesso l’uomo smarrisce «il mezo». La virtù dell’affabilità permette di assumere l’atteggiamento giusto: «Conciosia che non in un medesimo

modo fa di mestieri di conversare

con amici, con forestieri,

con nobili, con volgari, con principi, con privati, con signori, con gentildonne; e ’1 simile dico di tutte le altre maniere

di persone,

con chi occorra

diversa-

mente di ritrovarsi; dove sempre inanzi ad ogni cosa si dee considerar la qualità del luogo, del tempo, delle persone, della natura di tai persone, et finalmente

d'ogni altra diversità; accioché ad ogni cosa accomodandosi,

non si di-

ca parola, che non sia ben detta» (p. 278). 183 Ibidem, p. 283: Della virtù dell'urbanità (il «garbo» aristotelico).

318

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

della loro regolamentazione. Negli uomini ormai «urbani», «i movimenti, i gesti, et le parole soglion far sempre chiara testimonianza della qualità dell'animo» !84 e non possiede «bello animo» chi «faccia mai atto, o parola,

o scherzando,

o come

si voglia, in

cui non riluca, in un certo modo il valor della più nobile parte di dentro». Ecco che l’urbanità, il fuori, rimanda alla veridicità del

fondo.Virtù

«eccellentissima,

quanto qual si voglia altra, degna

dell’huomo civile», la veridicità nemica della dissimulazione e del-

la menzogna, di questa «distruggitrice dell’'humana conversatione» !85, dal momento che le parole «son quelle», presentano un loro valore ontologico, se legano «la conversation de gli huomini, con discoprire scambievolmente,

l’uno all’altro i concetti loro, ne

segue che, ogni volta che le parole non saranno conformi a concetti, sarà di mestieri

che, sempre

sia vana

cosa

l’udirle,

si come

indarno, et senza impressione s’ascoltano le favole, che si sogliono dire a’ fanciulli !86. La «fulgentissima» virtù della verità è quella che permette che «gli huomini si conservano huomini, servendosi della favella a quello, a che fu loro data dalla natura. Eglino conformando in verità

insieme i concetti, i gesti, le attioni, et le parole, quali se

stessi

conoscono,

tali altrui

si dimostrano»

!87. Per

questo Socrate, ricorda Guazzo, non si contentò di guardare negli occhi il suo giovane interlocutore e gli disse: «Parla accio ch'io ti conosca»

(Ibidem,

III, 29v). Quello che Socrate

desiderava

cono-

scere era «il discorso, et ’1l sapere, il quale si manifesta con la lingua», la dottrina, l’eloquenza e la prudenza (ivi). È innegabile che qui Guazzo abbia presenti le pagine della Institution morale. L'impressione è confermata anche dalle successive argomentazioni guazziane sulla modalità della «ricreatione», motteggio e riso, appartenenti alla piacevolezza, altra «virtù conversativa».

Piccolomini a sua volta rimandava !88 al suo maestro Vincenzo Maggi, filosofo e commentatore di Aristotele, amico di Erasmo, interlocutore di Telesio, autore tra l’altro del De ridiculis !89; com-

ASSE 185 Ibidem, p. 282: Della virtù della verità, sott. mia.

186 Ibidem, p. 280. 187 Ibidem, p. 281. 188 Ibidem, p. 284. 182 V. Macci,

De

ridiculis,

Valgrisi, Venezia 1550, pp. poetica del ‘500, cit., II, pp. di Aristotele, Maggi scinde sviluppa le idee contenute

in Aristotelis

301-327; ora 93-125. Come il «ridicolo» nel secondo

librum

de Poetica...,

Vincenzo

riprodotto in Trattati di retorica e di informa la nota filologica, sulla scia da quello dell’arte della commedia e libro del De oratore di Cicerone, cui

RETORICA,

ETICA

E PRAGMATICA

DELLA

CONVERSAZIONE

319

pagno e in parte maestro di Varchi. Arguzia e piacevolezza rendo-

no «testimonianza dell’ingegno»; virtù attiva e passiva quella del motteggiatore, che deve anche in questo caso scegliere, per risultare grato, la «virtù mezana». Filosofi e retori si sono impegnati a dimostrarne l’efficacia nel sollevare gli spiriti oppressi da malinconia: non solo dunque «grata» nel conversare, ma «utile al mantenimento della vita». In questo la natura ha il meglio sull’arte: esistono molti «plebei» che con la loro arguzia e piacevolezza «muoverebbero il riso a Heraclito» (Ibidem, 101r). Nella trattatistica rinascimentale,

com’è noto, conformemente

alla tradizione,

Eraclito non ride mai !%, anzi piange. La tesi è che non si può generare il riso «senza una vivacità naturale di spirito; anzi di rado aviene, che l’uomo faceto non sia

ingegnoso, et accorto» (Ibidem, 101r). Nella conversazione risultano piacevoli il Proteo e colui che riesce a motteggiare e a essere motteggiato. Bisogna, tuttavia, evitare la duplicità: errore cui con-

quest’ultimo aveva affidato una lunga sezione dedicata al comico. Il De ridiculis deve essere considerato dunque un ampliamento delle idee ciceroniane sul comico (Ibidem, p. 658). Il testo è stato riprodotto anche in Il riso nelle poetiche rinascimentali, Cappelli, Bologna 1985, a cura di E. Musacchio e S. Cordeschi, pp. 35-77. 190 L'attenzione per l’Eraclitus flens affiancato al Democritus ridens, per il cosiddetto «romanzo di Ippocrate», non sembra incuriosire la Civil! Conversatione che affronta l’anedotto antico quasi di sfuggita, in un contesto diverso e con altre motivazioni da quelle richiamate nel Rinascimento — generalmente il tema della malinconia e la sua connessione con la saggezza filosofica. Il «romanzo di Ippocrate», insieme al De partibus animalium (III. 10, 673a 5-10), in cui Aristotele afferma che l’uomo solo, tra tutti gli esseri viventi, conosce il riso, costituiscono la fonte indiscussa, come da tempo ha dimostrato M. Ba-

chtin (L’opera di Rabelais e la cultura popolare, Einaudi, Torino 1973, pp. 76 sgg.). Nei Dialoghi piacevoli Guazzo ripeterà che l’uomo «è animale risibile» (p. 8), come del resto avevano sostenuto anche Castiglione (II, XLV) e Luciano (Dialoghi, I, X, XXII). Una maggior attenzione verso il topos dimostra Guazzo sempre nei Dialoghi piacevoli. Qui Eraclito e Democrito sono, come la tradizione aneddotica li ha restituiti, «cervelli contrapposti», l’uno piange delle disgrazie umane, l’altro ride (DP, 601). Conformemente alla tradizione Democrito è il filosofo che «ride d’ogni cosa». Ha avuto ragione Ippocrate (il riferimento va alle Lettere pseudo-ippocratiche, cit.), il quale se in un primo momento lo aveva giudicato «troppo frettolosamente» stolto, folle, secondo il giudizio degli abderiti, non appena Democrito cominciò a parlare egli comprese che era uomo «d'’isquisita, et profonda sapientia». Il riso allora racchiude un profondo significato di visione del mondo, è una delle forme in cui si esprime la verità sul mondo. È l’altro punto di vista sull'uomo e sulla storia. Il romanzo è evidentemente metaforico. Una raffinata analisi del «romanzo ippocratico» ci offre J. Starobinski, Democrito parla, premesso a R. Burton, Anatomia della malinconia. Introduzione, cit., in part. pp. 18 sgg. Nell’antichità si occupa di Democrito, orat., cit., II, 58.

oltre Orazio,

Seneca

e Giovenale,

anche

Cicerone,

de

320

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

duce spesso l’«amore di se stesso» e fa «censori» dei comportamenti altrui. «Contravvenendo» alla sentenza di Socrate «ci dilettiamo più d’apparere, che d’essere». Coloro che vogliono, al contrario, farsi allievi di Socrate vogliono, cioè, «d'esser tali, quali desiderano d’apparere», saranno «rigorosi censori di lor medesimi, et useranno più volentieri gli occhiali ne’ propri difetti, che ne gli altrui» (Ibidem, 103r). Nessun segno (parola o atti) dovrà essere adoperato per farsi beffe di «maggiori», «eguali» o «inferiori». Lo sforzo individuale e collettivo deve essere teso a «rendere tutti gli huomini favorevoli» (Ibidem 104r). Anche qui entra in scena l’«honesto inganno». Mescolando «l'amarezza della riprensione con la dolcezza di qualche lode, o col mostrare d’incolpare alcun altro di quei difetti, che sono in colui, che desideriamo di correggere, o col metterci noi stessi nella riprensione» (Ibidem, 104v-105r). Un sottile meccanismo psicologico sostiene la complessa impalcatura dei rapporti umani. Gioco di attribuzioni e di alterità di soggetti, interscambiabilità e comunanza di passioni e di sentimenti, la presenza degli altri in noi, di «honesti inganni» sapientemente orchestrati. Guazzo detta anche la sua grammatica della concordia sociale: chi voglia seguire la sentenza socratica e intenda «più essere, che apparere», eviterà in ogni buon conto soprattutto le «contese» e l’attuerà seguendo la regola del «cedere al maggiore, persuadere con modestia il minore, et consentire all’eguale» (Ibidem, 105v). Così strutturata, la grammatica del comportamento (parole e atti, lingua e costumi, dignità e contegno convenienti «all’esser suo», dinamiche psicologiche sottese) !9 assicura la grammatica sociale, i suoi tempi, i suoi luoghi, le sue scansioni

in cui il travaglio antropologico dell’individuo, costruisce lo spazio concreto della sua vita esteriore. Roland Barthes e Frédéric Berthet sostenevano che «il y a dans la parole un tact caché» !°. Parlare equivale a indirizzarsi ad

191 Cfr. il saggio di Cl. Haroche che intende evidenziare i fondamenti antropologici e le origini storiche del contegno («retenue») che si traduce nel corpo di ciascuno e nel corpo sociale, come indica la stessa autrice: «repérer ainsi des éléments visant à éclairer les rapports entre dispositions psychologiques, qualités morales, liens sociaux et comportements politiques» (Se gouverner, gouverner les autres. Eléments d'une anthropologie politique des moeurs et des manières (XVI*-XVII* siècle), «Communications», 56 (1993), pp. 51-63 (la cit. è tratta da p. 63). 192 R. BarTHES-F. BERTHET, Présentation al fascicolo monografico dedicato a Conversation,

«Communications»,

30 (1979), p. 3. Si veda anche

J. Co-

RETORICA,

ETICA

E PRAGMATICA

DELLA

CONVERSAZIONE

321

altri corpi e al tempo stesso decidere che farne: avvicinarli, evitarli. Lo stesso vale per il gioco degli sguardi. Gestualità e prossemica sono da considerare parti essenziali del «linguaggio in atto» (la pragmatica). Questo è il motivo che spinge Guazzo a classificare la conversazione (dopo averne fornito le regole: principio di cooperazione, pertinenza, turno, ecc.): secondo il numero dei partecipanti e delle performances, delle traslazioni dei soggetti, i passaggi di leadership, i piaceri e le malattie, infine il ruolo sociale dello scambio linguistico e della varietà degli scambi ineguali, pur sempre destinati ad affinare i costumi, smorzare i conflitti, arricchire

reciprocamente i partecipanti, salvaguardando l’equilibrio sociale. Non è un caso che i veri maestri della conversazione civile siano, per Guazzo, proprio i «virtuosi».

La cerimonia: sacro e profano nella conversazione Le cerimonie

convengono

alla conversazione?

Riconosciamo

in questa domanda l’istanza tematica che occupava lunghe pagine del Galateo !9. Dal sacro al profano per «istratio» o per una motivazione più intrinseca? Anche Guazzo si riconosce nel quesito. Se si deve socraticamente perseguire di «parere qual si vuol essere», che senso può assumere la cerimonia, alter ego della «vana pompa», negazione di ogni autentico «affetto d’animo»? Contigua all’artifizio menzognero, più viene praticata tanto più dà adito alla simulazione, catastrofe ontologica per la comunicazione trasparente. L’interlocuzione riconosce nei gesti e nelle parole «semplici», «senza cerimonia», l’indice più sicuro della lealtà intersoggettiva: il «meno honore» si presenta coniugabile con il «più amore». La cerimonia, per la sacralità che la contraddistingue storicamente, «disdice» nelle cose mondane e conviene a quelle «sacre, et divine». Sin qui lo scambio semantico tra caerimoniae, nel significato religioso, e lo spagnolo ceremonia in quello di «convenevoli», «vocabolo forestiero» cui il Casa allude. Assistiamo allora ad una ridefinizione del concetto che fa appello ad una sorta di psicologia del profondo, arrière-pensée di molte riflessioni guazziane. La cerimonia in realtà, in modo inconfessato, è gradita anche a coloro che in pubblico la rifiutano: «sono nemici» di essa «in palese, et amici in segreto» (Ibidem, 106 r). Se la cerimonia è segno d’ono-

SNIER, Gestes et stratégie conversationnelle, Presses Universitaires de Lyon, Lyon 1978.

in PLURES, Stratégies discoursives,

19 G. DELLA Casa, Galatheo..., cit., pp. 67 sgg.

322

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

re, non dispiace a nessuno, perché a nessuno spiace essere onora-

ti. Nell’analisi della psicologia dell'onore Guazzo/Annibale si spinge più oltre: in fondo, a esaminare con attenzione il processo che lega l’onorante e l’onorato, si può costatare-che esso si gioca tutto

sul principio della reversibilità dinamica: a tutti piace onorare per un meccanismo sottile di riflessione che l’atto/sentimento produce «poscia che quei raggi d’honore, ch'egli spiega verso di loro, gli rendono, per una certa riflessione, gran parte di quell’honore» (ivi). E se è vero che l’esercizio della cerimonia può dare adito a sospetti di simulazione, l'atteggiamento contrario «può dare odore, o di rustico, et incivile, o sprezzatore» (ivi). C'è di più. Chi rifiuta nei propri confronti la cerimonia e invita a sospenderla, compie un ulteriore atto cerimonioso, un atto che si iscrive in pieno nella pratica cerimoniale e nella sua tattica. Nella riformulazione della problematica, la cerimonia diviene la sacralizzazione della vita quotidiana, del suo rituale. Il confine tra sacro e profano, nei suoi effetti, perde ogni significativa distinzione: «Et si come le sacre cerimonie hanno forza nel cospetto di Dio, et eccitano

gli animi

nostri alla divotione,

così le mondane

acquistano la benivolenza de gli amici, et Signori, a cui sono dirizzate, et ci fanno conoscere per huomini civili, et differenti da con-

tadini» (Ibidem, 106v). La sacralizzazione della vita quotidiana, come hanno dimostrato Courtine e Haroche, risponde all'esigenza di trasferire il pathos del cristiano nella mondanità della vita !9, Dalla vita religiosa la cerimonia, finalizzata alla benevolenza divina, si rende profana.

La discussione sulle cerimonie deve essere considerata l’ultimo atto del capitolo sulla veridicità. Il riferimento alla «discretezza», in questo ambito, non è senza ragione, come precedentemente

lo era stato per la «grazia» (Ibidem, 99v), in quanto espressione della trasparenza comunicativa !95. La cerimonia rivela la sua forza a patto che risponda a una esigenza interna e intima: l’«honore esterno»

deve essere

il risultato,

lo «scoprimento»,

dell’«affetto

dell'animo» e dell’«amore interno». La cerimonia diviene quindi una pratica di svelamento che, in luogo di «un cuore simulato»,

194 J.-J. COURTINE-CL. HaROCHE, Histoire du visage, cit., p. 187. Ma si veda anche per ulteriori sviluppi storici, M. DE CERTEAU, L'écriture de l’histoire, Gallimard, Paris 1975, in particolare La formalité des pratiques, pp. 153 sgg. Rinvio inoltre a PLURES, Rituale cerimoniale etichetta, cit. 195 Cfr. M. PERNIOLA, L’énigme de la transparence, Pubb. Centro intern. di Semiotica e di Linguistica, Urbino 204 (1991), serie A. Dello stesso autore si veda anche Del sentire Einaudi, Torino 1991.

RETORICA,

ETICA

E PRAGMATICA

DELLA

CONVERSAZIONE

323

avente di mira solo l’onore esterno, lascia «trasparere il [suo] cuo-

re candido, et puro, et senza alcun velo di fittione» (Ibidem, 106v). «Amore, et gratia» ne sono il risultato/presupposto contro l’opacità di un’apparenza/velo. La comunicazione trasparente presuppone un cuore trasparente, il cui «fondo» riesce a salire alla superficie e negare la propria invisibilità, se si vuol «altrettanto essere quanto apparere» (ivi); riesce a farsi sentire. Ci si può sbarazzare delle cerimonie

tra amici; la vera amicizia

«è nemica

non meno

delle parole, che di tutti gli atti pieni di pompa, et d’affettatione». Ma il Cavaliere con questa interlocuzione dimostra di avere solo a metà colto il problema rimanendo attestato al concetto che Annibale intendeva esorcizzare, tutto teso a non far emergere l’interiorità in pratiche esterne. Certamente l’esito comunicativo trasparente, per forza propria o per «perfetto legame», indurrebbe a sbarazzarsi della cerimonia che qui produrrebbe un effetto ridondante, una corposità inutile e forse dannosa, un intralcio alla pre-

supposta «emozione» veritativa dei colloquianti/amici, per i quali la trasparenza è beneficio comune e da sempre allo «scoperto». Si rende,

tuttavia,

a maggior

ragione,

necessaria

in una

situa-

zione compromessa (in un «secolo di ferro»: ubi amicitia?), per la sua finalità intrinseca che è quella di far coincidere essere e apparire.

A ben vedere, un meccanismo sottile lega anche qui il sacro e il profano sconvolgendo la linearità del discorso sinora argomentato: nel presupposto del cerimoniale sacro c’è la sincerità e la genuinità degli atti che presiedono allo svolgimento del dramma (sacro). Si adotta il rituale o cerimoniale sacro per mettere a nudo, all’altezza dell’Interlocutore — che pur sa leggere nei cuori, senza l’intervento del cerimoniante — il proprio specchio interiore, la propria anima, il cuore che almeno in quel momento non finge, pena il peccato, l’opacità peccaminosa. Lo stesso Annibale, propenso a che nell'amicizia «si tolgano le cerimonie», con amarezza pone l’interrogativo: «Ma dove sono hoggidì i veri amici?» (Ibidem, 107r). La stessa definizione filosofica dell’amicizia esclude la pluralità: «Non sapete, che secondo il filosofo, l’amicitia non si stende verso molte persone, ma si ristringe all'amore d’un solo?» !9%. Dove cercare il «perfetto amico», con il quale esercitare

19 Il probabile riferimento è ad Aristotele, Etica Nicomachea, IX, 1171a 15: «non si diventa amici in molti [...] e le amicizie cantate dai poeti sono ami-

cizie tra due persone», dine. Bisogna tuttavia questo proposito, pur fa agire il De amicitia

ma anche l'opuscolo plutarcheo, De amicorum multituricordare Della Istitution morale di Piccolomini che a seguendo, come in altre occasioni, l’Etica Nicomachea, di Cicerone e il Liside, le Leggi e il Convito di Platone.

324

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

quella «nuda, semplice, et franca libertà?». C'è di più: «Et se ben voi, per segno di vero amore, chiamerete un vostro eguale per fratello, egli per haventura non avrà spirito, che l’inviti a dirlo a voi,

et per escludervi dal pensiero, et dall’uso di questa fratellanza, vi chiamerà Signore» (Ibidem, 107v).

Per un approfondimento di questa tematica rinvio a L. PizzoLato, L’idea di amicizia nel mondo classico e cristiano, Einaudi, Torino 1993 e ai relativi riferimenti bibliografici.

6. TIPOLOGIE DI CONVERSAZIONE, FIGURE RETORICHE E TIPI DI DISCORSO «Certissima

vero

indicia sunt in lingua [...]

Illa, inquam, futilis garrula praeceps mendax

amarulenta

rixatrix

conviciatrix

dela-

trix obtrectatrix impudica peieratrix malesuada impia ac blasphema? [...] Legimus in sacris literis varias linguas, linguam serpen-

tis

ac

Diaboli,

linguam

canum,

linguam

hominum et angelorum, linguam terrenam ac coelestem, linguam parvulorum ac linguam Dei»

(Erasmo, Lingua LB, IV, 748 A-B)

Il «vasetto» di Pandora

Erasmo aveva avvisato il lettore. Parlare del linguaggio e della sua

funzione

non

sarebbe

stato

come

parlare

dell’«asini

[...]

umbra» !. Invitava a prestare quell’attenzione che di solito si pone nell’ascoltare cose grandi e pericolose (anzi egli usava il superlativo: gravissimae maximaeque). Si tratta qui, avverte, di ciò che attiene alla vita umana, alla sua felicità, alla sua rovina 2. E prose-

guiva: se a qualcuno venisse consegnato un veleno pestifero che al solo contatto procuri la morte; chiuso in un vaso dal quale non possa fuoriuscire, non porrebbe egli massima cura per evitare che

1 Erasmo, Lingua..., cit., LB, IV 657 C; ASD IV, I A, 25, 1. Per questa espressione, presente anche in PLATONE, Fedro, 260c, cfr. nota 25, 2 a ASD, IV, IA, cit.

2 Ivi.

326

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

per imprudenza o per poca attenzione procuri danno a se stesso 0

a persone care? Con quanta cura custodirebbe quel vasetto (pyxidem) per non far esalare lo spirito letale o per non farvi accedere? Oppure, se qualcuno fosse in possesso di un farmaco capace di guarire ogni specie di morbo, far ritornare la giovinezza, allontanare la morte, non sarebbe altrettanto sollecito nella salvaguardia

di quella cosa così preziosa che se ben dispensata apporterebbe tanti beni non solo per sé ma per chiunque voglia far partecipe (vellet communicare)? Per quanto sciocco, non sarà tanto imprevidente e sprovveduto (incogitans). Non così per la lingua. «Qui fit igitur, ut mortalibus nullius rei minor cura sit quam linguae, cum in hac circunferamus

utrumque,

et letale venenum,

et saluberri-

mum pharmacum?» 3. È questa infatti la sua natura di «membrum anceps» 4: «Nihil enim inter homines mala lingua nocentius, nihil eadem salubrius, si quis ut oportet utatur» 5. Erasmo che si muove nel solco della distinzione tra eloquentia e loquentia (loquacitas) allude al tempo in cui la saggezza (loquax sapientia) non era ancora insegnata dall’opera di Platone, Carneade e Crisippo, ma tramandata «brevibus dictis, velut oraculis» o significata symbolis aphonis, dai geroglifici. A quel tempo Amasi, re dell’Egitto, inviò a Pittaco, uno dei sette sapienti, una bestia sacrificale con la preghiera di rendergli la parte a suo giu-

dizio peggiore e la migliore 6, certo di riavere due parti molto diverse tra loro. Ma Pittaco fece recapitare ad Amasi «exectam linguam», «significans in homine nihil esse melius bona lingua, mala nihil nocentius; nam in caeteris animantibus nec pessima pars est lingua, nec optima» 7. Ed è a questo punto che Erasmo introduce il celebre paragone con la «pyxis Pandorae» 8. Di nuovo

3 4 5 6

Ibidem, IV, 657 E; ASD IV,IA, 25, 20-11. Ibidem, IV, 722 F; ASDIV,IA, 133, 509. Ibidem, IV, 657 E; ASDIV,I A, 25, 22-23. L’aneddoto è famosissimo. Cfr. PLUTARCO, De garrulitate, cit., 8, 506 C e anche De recta ratione audiendi, 2, 38 B, dove però Pittaco diviene Biante di Priene. Ma anche Sept. Sap. convivium, cit., 2, 146 F. 7 Erasmo, Lingua, cit., LB IV, 657 E-F; ASDIV,IA,

26, 32-35.

8 Come informa la nota esplicativa dell’ed. critica della Lingua, il Pithos originario esiodeo in Erasmo è divenuto pyxis. Cfr. Adag., XXXI (Malo accepto stultus sapit), LB II, 38 E-39 E e Adag., CCXXXIII

(Hostium

munera), LB, II, 125 A-126 A. Per la storia del «vaso»

di Pandora,

munera,

non

con riferi-

mento alla sostituzione del termine pisside a pithos o dolium (enorme giara inamovibile) in Erasmo, cfr. D. e E. PANOFSKI, Pandora's Box. The Changing Aspects of a Mythical Symbol, Princeton 19783, pp. 14-18 (Bollingen Foundation, New York

1962); tr. it. Il vaso di Pandora, Einaudi, Torino

1992, pp. 16-

28 (Origine del «vasetto»: Erasmo da Rotterdam). Lelio Giraldi Cinthio riprende la tradizione erasmiana (De deis Gentium..., cit.)

TIPOLOGIE

DI

CONVERSAZIONE,

FIGURE

RETORICHE

E TIPI

DI

DISCORSO

327

un invito a pensare a un possesso eccezionale, al «vasetto» di Pandora nel quale siano racchiusi ancora più mali di quanto il mito ammonisca, mali per il corpo e per l’anima ma anche «totidem commoda quot incommoda». Il rischio (discrimen) consiste interamente nel suo cattivo uso: l'apertura al momento sbagliato o l’insufficiente controllo del contenuto. Chi non si darebbe pena di imparare ad amministrare un così pericoloso tesoro, specialmente se con sicurezza si presentasse il rischio di contagio per il suo dispensiere (ad promum condum)? ° Infatti la mala lingua produce effetti perversi: giova a chi intende offendere e colpisce il suo possessore; soprattutto la sua «bonam mentem», la sua integrità e salute psichica. Chi, in possesso di una tale pisside, non se ne disfarrebbe? Invece «linguae thesaurum velimus nolimus, nobiscum circumferimus» !9. La lingua umana è della stessa natura del vaso di Pandora; da essa provengono i più grandi beni e i più grandi mali: «saluberrimum pharmacum» e «letale venenum»; e poi «plectrum»!! e «gladium veneno tinctum» !?, «panacea» e «venenum aspidis» !3 «virus immedicabile» !4 di cui non possiamo disfarci !5. L’«intemperantia linguae» rimanda a veri e propri vizi linguistici, tanto è il potere di questo organo minuscolo e molliccio !6. I latini designavano i loro possessori con lemmi significativi: linguaces, locutulejos, garrulos, verbosos, vaniloquos, nugones, blaterones ac

9 Come precisa J.H. Waszink la coppia in asindeto condus promus risponde a due funzioni esercitate dallo stesso domestico: condus è colui che stipa (condit) le provviste nella dispensa, promus chi le prende (promit). 10 !! 12 13 14 S

Lingua, LB, IV, 658 C, ASD, IV IA, 26, 47-48. Ibidem, LB, IV, 661 B. Ibidem, IV, 708 B; ASDIV, 1A, 109, 742. Ibidem, 723 A, ASD IV, A 1, 133, 523. Ibidem, IV, 695 B; ASD IV, 1 A, 88, 63. Nella tradizione esiodea il «vaso», come accennavamo,

era in realtà

una giara inamovibile. La presenza dell’inamovibilità della tradizione avrebbe conferito un rafforzo al paragone erasmiano della lingua con il «vaso». Non ci si può disfare del linguaggio come della giara di Pandora. Il paragone avrebbe creato un epilogo estremamente coerente. Qui invece si fa ricorso alla pyxis e alla fine il paragone è dissolto per antitesi: del vaso ci si può disfare, del linguaggio no. D. e E. Panofski, indipendentemente dalla Lingua che peraltro non citano, riferendosi agli Adagia (cit., I CCXXXIII; I, XXXI) si sono chiesti in che modo un esperto linguista come Erasmo possa essere caduto in questo fraintendimento filologico, pur avendo correttamente reso pithos con dolium nelle sue traduzioni delle opere di Origene. Secondo la loro opinione Erasmo avrebbe «fuso o confuso» l'episodio della vita di Pandora con il suo corrispondente nella letteratura latina, l’episodio finale della vita di Psiche in Apuleio; abbia cioè rimodellato l’immagine di Pandora su quella di Psiche che porta con sé un vasetto (Il vaso di Pandora, cit., p. 19). 16 Lingua, LB IV, 696 C; ASD IV, 1 A, 90-110.

328

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

rabulas appellantes; «nec loqui dicuntur, sed nugari, garrire, blaterare, loquitari, rudere, gannire, obstrepere, obtundere, obturbare, coaxare,

rugire, latrare, mugire, grunnire, cornicari, crepitare,

AL, tinnire» !7. Nella proteiforme varietà della lingua (lingua serpentis e diaboli, lingua canum, lingua hominum e angelorum, lingua terrena e

coelestis, lingua parvulorum e lingua Dei !8) Erasmo ha privilegiato il linguaggio

intersoggettivo.

Ma

proprio

in questa

funzione

essa diviene, per lo più, «futilis garrula praeceps mendax amarulenta rixatrix conviciatrix delatrix obtrectatrix impudica peieratrix malesuada impia ac blasfema» !9. Lo scopo invece è di renderla, anzi più precisamente di farla ritornare ad essere, «sobria parca modesta pudica circumspecta veridica mansueta pacifica benedica simplex obsecratrix consolatrix exhortatrix confitens et gratiarum actrix» 29. Una lingua nova. Ovviamente anche per Erasmo ipocrisia, menzogna, maldicenza, adulazione, blasfemia, calunnia, delazione, abusi della lingua, possono riassumersi nel «vestitus mendax», nascosto anche

«sub pallio philosophico, sub veste sacrosancta» ?!: «ostentant se veste candida, et in lingua deferunt succum loliginis ac sepiae» 22. La mala lingua (noxia lingua) è paragonata al millepiedi (seps), «animalculum», il cui veleno però è potentissimo 23. Così quello dell’adulatore e del delatore. Spargono ovunque il loro veleno. La «virulenta lingua» 24 supera ogni arte; e se ciascun veleno ha il suo antidoto «unius linguae virus immedicabile est»; «sola lingua malum habet insuperabile» 25. Le fonti anche le più limpide nascondono insidie. Lo stesso miele può essere tossico. La lingua come il camaleonte è tanto più pericolosa moralmente quanto più variano il suo colore e la sua forma: «Sunt quae praeter virus celeritate valent: at noxia lingua quid blandius? In quas species non sese transformat?» 26. Lo scorpione non aggredisce il suo simile, così la vipera è innocua alla vipera: «homo solus in hominem venenum habet» 27. La mala lingua da sola rappresenta una

!7 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27

Ibidem, Ibidem, LB, ivi; LB, ivi; Ibidem, Ibidem, Ibidem, Ibidem, Ibidem, Ibidem, Ibidem,

LB, 664 LB, IV, ASDIV, ASD IV, LB, IV, LB, IV, LB, IV, LB, IV, LB, IV, LB, IV, LB, IV,

E-F; ASD IV, 1 A, 38, 394-397. 748 B; ASDIV, 1 A, 171, 832-834. 1 A, 171, 826-828. 1 A, 171, 830-832. 692; ASD IV, 1 A, 83, 886. 718 B; ASDIV, 1 A, 126, 285-286. 693 E; ASDIV, 1 A, 86, 978-980. 695 B; ASD IV, 1 A, 88, 56. 695 C; ASD IV, 1 A, 88, 72. 695 E; ASD IV, 1 A, 89, 88. 695 E-F; ASD IV, 1 A, 89, 93-94.

TIPOLOGIE

DI

CONVERSAZIONE,

FIGURE

RETORICHE

E TIPI

DI

DISCORSO

329

catastrofe ontologica e la degenerazione morale: «Et ars est quae facillime discitur, difficillime dediscitur» 8. È un’arte che raggiunge le riunioni sacre, le concioni evangeliche, il segreto del confessionale. Ovunque si fugga, il suo veleno ci raggiunge 29. Erasmo insiste. Il suo non è solo un tentativo di distinguere lingua e linguaggio, discorso e menzogna, vero e falso. Egli ci fa intendere che la lingua può ritornare alla sua origine divina ma che i suoi effetti perversi sorpassano la dimensione individuale per cogliere l’intersoggettività. In genere i mali corporali presentano una configurazione definita, i suoi vizi, per così dire; colpiscono persone e membra particolari. Solo le «pestes animorum», le malattie dell’animo, procurate in questo caso dal cattivo uso della lingua (in senso soggettivo e oggettivo) «nec ordini nec sexui nec aetati parcunt ulli nec ullis se limitibus continent; incredibili celeritate pervagantur orbem, nec invicem sibi cedunt, quemadmodum vicissitudine saeviunt nunc pestilentiae, nunc anginae, nunc tusses, sed morbum morbus velut ansam ansa trahit, nec facile cedunt ubi

semel incubuere» 39. Come precisa Schalk, Erasmo era legato a Cicerone, Plutarco, Luciano che si erano occupati dell’eticità del linguaggio, non solo per gli esempi che aveva fatto propri, ma anche per «une disposition d’esprit esthétique et morale qu'il a qualifiée de base et critère de tous les jugements sur le vrai et le faux» 3!. Utilizzando l’Epistola di Giacomo (III, 5-12) che richiama direttamente, Erasmo riformula un concetto fondamentale per la condotta e i costumi della lingua: «Si quis [...] verbo non offendit, hic perfectus est vir» 32. La motivazione della perfezione è addotta subito dopo: «Potest etiam freno circumducere totum corpus» 3. Mettendo il morso in bocca ai cavalli li rendiamo ubbidienti e guidiamo tutto il loro corpo. Le stesse navi, benché grandi e spinte da venti impetuosi, «circumferuntur modico guberbaculo». Tra vituperatio e laudatio 34, la seconda parte della Lingua si situa come vero e proprio problema morale e va a prefigurare il capitolo finale sulla riconciliazione linguistica in senso etico e religioso. La lingua riconquistata emula il verbo di Cristo che fa ammutolire ogni altra. Questa nuova lingua riconquistata sarà allora modesta,

28 Ibidem, LB, IV, 716 A; ASD IV, 1 A, 122, 150-151. 29 Ibidem, LB, IV, 695 C; ASD IV, 1 A, 88, 69-70. 30 Lettera, cit., LB, IV, post 5 657; ASD, VI, 1 A, 21, 70-75.

31 32 33 34

F. SCHALK, Introduction, a ASD IV, 1, p. 228. ErasMO, Lingua, cit., LB, IV, 723 D; ASD, IV, 1 A, 134, 547. Ivi. Cfr. J.H. WASZINK, Introduction a ASD, IV, 1 A, p. 12.

330

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

medica, conciliatrix: «nemo Christi linguam imitari posset nisi Christi spiritum hauserit». La parte centrale che riguardava le forme della loquacitas, le sue pestes o i suoi abusi, è collocata da Erasmo tra i capitoli introduttivi relativi alla costruzione della lingua, «dans lesquels le dessein d’Erasme était la physis» 3, e la parte conclusiva in cui la lingua di Cristo si pone come forza dinamica di un rimedio. Della retorica antica Erasmo coglie l’aspetto etico e la sua influenza estetica 36: «Si les forces libérées du faux discours se cristallisent pour former une structure et un ordre conscients, que les formes du discours se répartissent en cercles,

qui se mettent l’un dans l’autre concentriquement, l’eloquentia prend alors ce son véritable qui la distingue de la declamatio, de la garrulitas» 37. Eliminando l’immagine deformata della loquacitas, l’uomo potrà guardare alla vera saggezza: a Pitagora, Solone, Licurgo, Socrate e Platone, alla Prisca philosophia. La seconda parte della Lingua allora riguarderà la fenomenologia del discorso menzognero, le sue forme particolari in rapporto ai vizi (ma anche alle virtù). Ad essa Guazzo sembra ispirarsi per la sua tipologia della conversazione. Il messaggio di Erasmo è chiaro: le sue spiegazioni, le sue analisi, le sue «querelae» indicano l’essere divino che, come suggerisce efficacemente Schalk, sonnecchia nella lingua per il contrasto delle forme di deformazione menzognera. La lingua nova sarà senz’altro dominante e divina, questa la persuasione erasmiana: vera lingua umana sul piano fisico, morale, estetico e religioso. Maldicenti «retorici» e «poetici»: preterizione e antitesi

Le peculiarità concettuali e denotative della guazziana «civil conversatione», nella loro complessità pragmatica e tassonomica,

35 F. SCHALK, Introduction, cit., p. 228.

36 Ibidem, p. 229. 37 Ivi. Sulla Lingua erasmiana oltre i saggi a carattere introduttivo di F. Schalk e J.H. Waszink (premessi rispettivamente a ASD, IV, 1, pp. 223-230 e a ASD IV, 1 A, pp. 9-17 e quello di E. Fantham, premesso a CWE, 29, pp. 250256) segnalo: M. BATAILLON, La situation présente du message érasmien, in Colloquium erasmianum, Centre universitaire de l’Etat, Mons 1968, pp. 3-16; le recensioni alla Lingua di J.-P. Massaut, «Archiv fiir Reformationsgeschichte», cit., pp. 313-316; e di J. IseWyN, «Humanistica lovaniensa», XXXI (1982), pp. 211-216;

M. Mann

PxÒÙirups, Erasmus

on the Tongue,

«Erasmus

of Rotterdam

Society», Yearbook One (1981), pp. 113-125; L. CARRINGTON, Erasmus’ Lingua: the Double-Edged Tongue, «Erasmus of Rotterdam Society», Yearbook Nine (1989), pp. 106-118; S.F. RyLE, Language and Silence in Erasmus, «Res Publica Litterarum», XIV (1991) pp. 203-208.

TIPOLOGIE

DI

CONVERSAZIONE,

FIGURE

RETORICHE

E TIPI

DI

DISCORSO

331

erano emerse già nel libro primo, in un certo senso, via negationis — solo nel libro secondo, infatti, esse diverranno completamente intelligibili: «così noi desiderosi d’intendere a pieno qual sia la

civil conversatione, per seguitarla, dobbiamo principalmente conoscere quali siano le incivili, et biasimevoli per fuggirle» (I, 30v); simili ai marinai che conoscendo i «segni» dei venti, delle tempeste, degli scogli, di ciò che è sfavorevole alla navigazione, fuggono i pericoli ed eleggono «i tempi, et i luoghi atti al prospero viaggio». Da buon marinaio, Guazzo per orientarsi nello «spatioso campo» della conversazione sceglie di procedere metodologica-

mente nella stessa direzione della nautica perché ne risulti più completa e adeguata la comprensione della natura umana nella conversazione

intersoggettiva.

Tuttavia

egli si concede

una

pre-

messa che è già una prima tipologizzazione (inconsueta distinzione, preciserà), più generale e non completamente nella «negativa». Riguardo alla conversazione esistono «tre specie d’uomini», «ai quali daremo per hora questi nomi buoni, cattivi, et mezani» (Ibidem, 31r). Un linguaggio e una definizione ancora approssimativi, tracce, un «pressapoco» che prelude a una intenzione sistematica: voci non ritenute appropriate, mantenute «infin che troviamo loro più proprij, et più significanti vocaboli» (ivi). L'esigenza della proprietà e del perfezionamento linguistici risponde alla volontà di proprietà e di affinamento concettuali. La precisione terminologica è pur sempre il risultato del ragionamento e delle sue forme: «Forse che ragionando ci verranno in mente più accommodati nomi» (Ibidem, 31v). La ragione dell’inadeguatezza terminologica risiede in una difficoltà extralinguistica ma anche extraconcettuale, individuabile in questo caso, in difetto o mancanza di un tipo reale, rispondente appieno al concetto stesso e al suo segno linguistico: «Perché i due nomi buono, et mezano, non convengono ad isprimer interamente

quella sorte d’huomini,

ch'io intendo; et per meglio

dichiararmi, vi darò l’essempio de gli huomini sani, i quali sono propriamente quei soli, c'hanno così fattamente temperati in se stessi i quattro humori, et le parti semplici da quelli prodotte, et di più così ben proportionate l’altre parti da noi dette composte, o istrumentali (che sono i membri istessi) che l’una cosa non ecceda l’altra nella sua debita misura, laqual sanità è concessa o non mai, o di rado, et a pochissime persone» (Ibidem, 31r). Tale il concetto galenico di sanità o buona complessione. Non per questo tuttavia si cessa «communemente di chiamar sani quegli ancora, che se ben patiscono qualche intemperie, o disproportione ne’ corpi loro, non restano però di vivere, et d’operare la maggior parte del tempo senza medicina, et tengono in somma più del sano, che del-

332

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

l’infermo» (ivi). Il ragionamento cui porta il discorso di Annibale è la messa in crisi del concetto di sanità perfetta, del suo «tipo ideale», rara avis e, al contempo, la destituzione del concetto di bontà perfetta. Parlando di «buoni» non si intenderà «quella eccellenza di bontà, che non patisce alcuna sorte di difetto, et che è quasi più rara in terra che le fenici; ma comprendo in questo numero tutti quelli, i quali al mondo hanno acquistato buon nome, et che s’accostano, il più che possono alla già detta eccellenza». L’approssimazione, sempre più aderente al modello di bontà, funge da parametro pragmatico che tollera il difetto, lo scarto, e fa considerare «buoni» coloro i quali, nonostante tutto, si piegano più «al bene, che al male». Ancora un «perlopiù». La nuova semantizzazione tipologica riguarda i «buoni desiderabili», i «cattivi insopportabili», e i «mezani sopportabili». »Come corteggiano» non ci si può esimere dal frequentare questi tipi di persone: per «l'abuso del mondo» non li si considera «vitiosi»; così l’abuso diviene «uso», «prattica»: «la fama nostra dipende dalle universali opinioni, le quali hanno così gran forza, che contra d’esse la ragione non ha luogo» (Ibidem, 33r). Il cortigiano deve uscire comunque dalla conversazione tra uguali. L’elogio della differenza, assume qui altre tinte. Il commercio con gli «insopportabili» va fuggito, ma non del tutto. Bisogna anche in questo caso regolamentarlo. Poi i «sopportabili», coloro i quali con la loro astuzia camuffano la loro intrinseca malvagità: «... se bene è offesa la coscienza vostra nel pratticar con essi, non è però offesa l'opinione del mondo, poi che non hanno fama di tristi; et bisogna in ciò sodisfare più a gli altri, che a se stesso, et conceder qualche luogo all'uso commune» (Ibidem, 34r). In questo senso l’uso è tiranno. Ma l’uso è ormai cambiato; usi e costumi in molti

paesi definiscono una nuova geografia culturale e una «nuova forma di vivere»: «l’uso commune

del paese [...] è hoggimai invecchia-

to»; non si può negare la «prattica» di chi segue una nuova forma di vivere. La differenza è veramente «sopportabile». Guazzo indaga le forme del «relativismo culturale»: «Bisogna Sig. Cavaliere, che vi risolviate d’amar tali persone col loro difetto, et che vi diate giudiciosamente

a pensare,

che a ciascuna

natione,

a ciascun

paese, et a ciascuna terra sono date, et infuse per la natura del luogo, per lo clima del cielo, et per l’influsso delle stelle certe virtù, et certi vitij, che sono loro propri, innati, et perpetui [...] Vi dico, che non è solamente disdicevole, ma è necessario il seguitar

le diversità de’ paesi, et delle usanze loro...» (Ibidem, 35r e 36r). Tra i «sopportabili» Guazzo annovera le «male lingue», i maldicenti — verso cui Erasmo

si era mostrato ben più severo — tra

cui il noto Lorenzo Valla, di cui egli ricorda l’epitaffio in morte:

TIPOLOGIE

DI CONVERSAZIONE,

FIGURE

RETORICHE

E TIPI DI DISCORSO

333

«Il Valla, che facea vivendo guerra / A tutti col mal dir, qui giace, et tace / Anzi qui morto, ancor morde la terra» (Ibidem, 36v). Nella fenomenologia psicologica dell'origine della maldicenza, invidia e ambizione inducono un effetto perverso che si ritorce su chi tali passioni coltiva. Lo aveva sottolineato anche Erasmo. Invece di Catoni si diventa Momi. Ancora con «inusitate distinzioni» Annibale differenzia i maldicenti: «alcuni io li chiamo mascherati, alcuni retorici, alcuni poetici, alcuni hippocriti, alcuni scorpioni, alcuni traditori, alcuni falsarij, alcuni mordaci, alcuni bef-

fatori, et alcuni incogniti» (Ibidem, 37v). I mascherati sono coloro i quali pur andando «nel tempo del carnesciale» in giro con la maschera, desiderano esser riconosciuti: parlando male di qualcuno asseriscono di non volerne pronunciare il nome, ma al contempo forniscono quella dovizia di parti-

colari che lo fa riconoscere da chi ascolta. I «maldicenti retorici» sono quei «tristarelli» che mostrano di non voler dir male ma lo dicono, «male et peggio». La loro figura preferita è quindi la preterizione. Poi i maldicenti poetici, che procedono con la figura dell’«antitesi»: definiscono bella una donna deforme. I maldicenti traditori sono invece peculiari delle corti, ecc.. Per evitare spiacevoli situazioni «ognuno sia secretario di se stesso» (Ibidem, 40r). È «pazzo» colui che scopre il suo intimo pensiero; in questo caso «servo d’altrui si fa». Segretari di se stessi: che ne è allora della trasparenza comunicativa? Con questa tipologia di conversanti va salvaguardato il cuore e il recesso, il segreto. Il «dito di Arpocrate» posto sulla bocca, il signum harpocraticum 38 è la migliore salvaguardia contro i cattivi interlocutori.

Adulazione/Iperbole Non diversamente da Erasmo, Guazzo suggerisce di adottare una pratica per potersi «conservare intatto dal [...] veleno» dei maldicenti (Ibidem, 41r-42v). E si mostra in un certo senso ottimista sulla diagnosi: «come da serpenti velenosi si trahe qualche rimedio, così da maldicenti si cava utilità mentre ci guardiamo di commettere ciò che dicono di noi, et ci dobbiamo risolvere d’esser

38 Sul segreto e sul segretario cfr. SALvATORE S. Nigro, Il segretario, in PLuRES, L'uomo barocco, Laterza, Bari 1991, pp. 91-107; In., L'equivoco epistolare, Introduzione a T. Costo-M. BENVENGA, I! segretario di lettere, Sellerio, Palerno 1991, pp. 9-23.

334

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

noi signori delle nostre orecchie, come essi della lor lingua» (Ibidem, 42v). Ex captivitate salus; de capienda ex inimicis utilitate. La lezione plutarchiana è appresa. Sulla strada della tipologizzazione Guazzo indica anche l’adulatore, erasmiana

«noxia bestia», ma bestia «domestica»

(Ibidem,

43r). Adulatori palesi, altri segreti. Persone di valore e di «acutissimo ingegno» si compiacciono «estrememente non men d’adulare, che d’esser adulate» (Ibidem, 44r). Gnatoni o pubblici adulatori. Le dichiarazioni del Cavaliere risultano amare: «Questa, signor Annibale, questa è la via da procurarsi de gli amici, et de gli honori, et hormai son chiaro, che chi non sa adulare, non sa conversa-

re» (Ibidem, 45r). Anche qui si mette in atto un meccanismo psicologico: «si come il biasimo è principio d’inimicitia, così la lode è principio d’amicitia» (ivi). Anzi, se l’adulazione è diretta a chi è «degnamente lodato», «gli si accresce l'animo»; così a colui che «s’avvede d'essere lodato a torto, gli si rimorde, et si accorge quali egli debba essere; in modo che ’1 sentirsi adulato gli arreca giovamento; et se l’adulatione fosse vitio, non l’userebboro i discreti

padri, né i giudiciosi maestri verso i fanciulli...» (ivi). Qualche rigo più avanti il Cavaliere insiste: «Il mondo per finirla, è pieno d’adulatione, et con l’adulatione si conserva, et è hoggimai più in uso questo esercitio, che le barbe in punta. Et vedete che tutte le persone per stare in pace, et mantenersi in conversatione, si adulano scambievolmente, non che ragionando, ma tacendo» (Ibidem, 45v). La prassi è sempre la stessa: «se ben veggono polite le vesti

del patrone, o dell'amico, non lasciano però di scuoterlo con un lembo della cappa, come se fossero macchiate di polvere, o di fango; et sono molti che mentre altri parla quantunque non l’ascoltino, fanno però cenno col capo, et inarcano le ciglia, et vogliono in ogni modo, con qualche atto compiacere, et satisfare all'amico, il

che non

è altro che adulatione».

«cavillosi»

Si è generalmente

e dei «sofisti», i quali contraddicono

nemici

dei

il locutore, e si

porta «affettione» a quelli che assentono o a parole o con atti, li giudichiamo «amici» e «secondo il nostro cuore [...] portiamo loro affettione [...] et riceviamo l’adulatione in luogo d’humiltà, et di benevolenza in si fatta maniera, che chi non ci adula, lo stimiamo

o invidioso, o superbo». Il Cavaliere persiste nelle sue persuasioni e si avvia, con un argomento giudicato risolutivo, a coinvolgere anche Annibale: «Crediate pure, che si come la verità partorisce odio, così l’adulatore genera amore, et fa buon sangue [...] Chi levasse l’adulatione dal mondo, leverebbe la creanza» (Ibidem,

46r). Bisogna, a imitazione di chi ci adula, «volpeggiar con le volpi, et beffar l’arte con l’arte istessa» (ivi). La figura preferita dall’a-

TIPOLOGIE

DI

CONVERSAZIONE,

FIGURE

RETORICHE

E TIPI

DI

DISCORSO

335

dulatore, come fa notare anche Starobinski, è l’iperbole 3°. Annibale che ovviamente non condivide le posizioni espresse, porta alle estreme conseguenze il discorso sull’adulazione come beffa dell’arte con l’arte stessa: «gli huomini per la maggior parte sono adulatori di loro medesimi, col darsi a creder quei, che non sono» (Ibidem, 46v). In fondo gli adulatori sono polipi cangianti — adattano il discorso all'ascoltatore — e amici-nemici — come il lupo è simile al cane, così l’adulatore all'amico. L’adulazione è concessa

solo ai poveri che chiedono l’elemosina con false lodi: «la necessità non ha legge, et se per liberarsi dalla fame, è concesso il rubbare, è maggiormente concesso l’adulare; oltre che io non stimo questa propriamente adulatione, perché l’adulatione non suole esprimere manifestamente il suo bisogno, ma cerca con artificio nascosto di far che altri si muova ad usargli cortesia» (Ibidem, 49r). La natura dell’adulatore è «velenosa, et pessima». I Principi, la corte, sono «assediati» da questi «malvagi spiriti», le cui adulazioni continue li «fanno uscire di loro medesimi» (Ibidem, 51r). Anch’essi, come

i maldicenti, tuttavia, vanno

messi «su la banca

de sopportabili» (Ibidem, 51v). Qual è, allora, il modo corretto di procedere con gli adulatori? Pregarli «per cortesia» di lasciarvi «a terra, dicendo loro, che se havrete bisogno di lode, vi loderete da

voi stessi» (Ibidem, 52r). La categoria dell’adulazione, come pratica intersoggettiva nella negativa, viene analizzata da Guazzo nel suo significato più intimo. Egli esprime la persuasione che è proprio la «conversatione disuguale»

a generare

con più forza, e in un certo senso con

più efficacia, l’irrompere pervasivo dell’atteggiamento adulatorio dell'animale domestico. Il principio di reciprocità, da un lato, viene infranto, ma su un altro versante resiste: non più stima per stima, merito per merito, ma parole contro favori, come è stato sug-

gerito. La simmetria dello scambio subisce un décalage, ma rimane pur sempre uno scambio di contenuto ineguale: parole contro favori, ma probabilmente non negli effetti. La bocca dell’adulatore assurge metaforicamente a luogo propizio per l’ineguaglianza nello scambio: parole e cibo, contro favori. La rottura della simmetria distributiva presuppone la speranza di un tornaconto. Guazzo mette in relazione la psicologia dell’adulazione con quella dell’amor proprio: il meccanismo che li comporta è di natura psicologica, ma in stretta relazione con i meccanismi di distribuzione del potere e delle ricchezze. L’adulazione in tal modo funziona su

39 J. STAROBINSKI, Sull’adulazione, in Il rimedio del male, cit., p. 61.

336

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

un duplice piano, quello della psicologia vs le relazioni sociali, ma anche

nel suo contrario,

ovvero

delle relazioni

sociali

vs la vita

psicologica. È così che, come osserva con la consueta finezza Sta-

robinski, l'’adulazione definisce congiuntamente un tipo di discorso e un modo di circolazione delle ricchezze. La coppia del ricco e del parassita sin dall'antichità diventa indissolubile. L'adulatore dà libero sfogo alla sua figura preferita: l'’Iperbole, come per il maldicente è l’Antifrasi. (Ibidem, 38r) Ecco che gli abusi linguistici, e i vizi morali ad essi connessi, funzionano come tipi di discorso. Altri tipi di discorso che descrivono in negativo una «cartografia morale» sono la contenziosità, la menzogna e l'ambizione. Come i maldicenti «mascherati», le cui parole «hanno una coperta di lode, et sono di dentro foderate d'un sentimento di biasimo, et

di beffa» (Ivi); i maldicenti retorici, la cui figura del discorso preferita è la preterizione («...non voglio raccontar l'inganno [...] tuttavia le diede il nome

[...] ma

non voglio parlarne...» [ivi]); i maldi-

centi poetici, che preferiscono l’antifrasi («daranno il titolo di bella a una deforme»); le «fiere domestiche», gli adulatori che si votano all’iperbole, così contenziosi, bugiardi e ambiziosi hanno la loro pragmatica linguistica. Tutta l’attenzione di Guazzo è catturata in questo momento dai simulatori.

Segretezza, simulazione, dissimulazione

Nelle caleidoscopiche tassonomie, quasi «raggelate» dall’analitica guazziana, si fa largo una figura tipica della scena universale +: la simulazione. «Parentela» dichiarata con l’adulazione, ma

+ Ben noti sono gli sviluppì di queste problematiche in autori come Baltasar Gracian, in particolare negli aforismi dell’Oraculo Manual («epitome di scienza di vita», sentenziosa e concisa: oracolare, appunto, tr. it. cit., p.33, Al lettore) e nei «pregi» de E/ Héroe, con i quali Graciàn intendeva «forgiare con un libro nano un uomo gigante», tramite «questo specchio portatile fatto di cristalli altrui [l'imitazione] e errori miei» (E/ Héroe e E! Discreto [1637], tr. it.

L'eroe. Il saggio a cura di G. Gasparetti, Guanda, Parma 1987?, p. 31, Al lettore). Su Graciàn restano fondamentali le pagine di Croce consegnate ne / trattati italiani del concettismo e Baltasar Gracian, Napoli 1889, riprodotto in Saggi filosofici I, Laterza, Bari 1910. Si veda anche G. DIOGUARDI, Viaggio nella mente barocca. Baltasar Gracidn ovvero le astuzie dell’astuzia, Sellerio, Paler-

mo 1986. Numerosi riferimenti a Graciàn in D. Bosco, Morale della politica e individualismo del Grand Siècle. Da Machiavelli a Bayle, CUSL, Milano 1984, in A. CroranEscu, Le masque et le visage, Droz, Genève 1983, in particolare pp. 245-252 e in F. SEMERARI, La fine della virtà, Dedalo, Bari 1993, in part. pp. 39-

TIPOLOGIE

DI

CONVERSAZIONE,

FIGURE

RETORICHE

E TIPI

DI

DISCORSO

337

parentela atipica, non necessariamente reciproca: chi adula simula, ma non sempre vale il contrario (Ibidem, 50r). Cautela di un certo rilievo premessa al discorso sui modi dell’apparire per giungere a una significativa indicazione: «fingere tal’hora è lecito» (ivi). Specialmente «lecita» è quella forma di simulazione che non reca danno morale, anzi in certi casi si caratterizza come simula-

zione nella positiva, frutto di una strategia complessivamente lecita e adeguatamente produttiva: in guerra come nei rapporti interpersonali. Il paragone guazziano, indirettamente, suggerisce ana-

logie di scene anche quando non ci siano nemici da vincere ma «conoscenti»

da trattare

con

«maniera».

L’analogia

suggerisce

comunque l’idea di una simulazione lecita vincente su due campi minati: quello di battaglia e quello delle relazioni sociali, a loro volta omologati dall’analogia stessa. Analogia di una guerra aperta o strisciante,

il cui esito viene neutralizzato

dalla simulazione

«polita».

Guazzo nell’indagare le forme della simulazione ha bene in vista la proliferazione semantica del termine e gli usi e «riusi» sociali connessi, leciti e non. Per la sua ampiezza semantica la simulazione sta all’adulazione «come il genere alla specie»; è termine polisemico che produce diversi «effetti di verità» ed è rivolto a finalità eterogenee, a volte eteroclite. La rappresentazione della simulazione riproduce, nella sua complessità, la bipolarizzazione mai negata della società stessa, che Bacone avrà cura di analizzare «nella positiva» e «nella negativa», in un senso diverso da quello da me usato. Se non è mai lecito «simulare adulando»,

comunque agire «nocivo» nei confronti dell’alterità, è lecito simulare «senza alcun interesse o intenzione di offendere». Il simulatore non risarcisce mai chi danneggia: è peggio del fabbricatore di monete false. Il suo inganno è la moneta fuori corso e al tempo

93. Riferimenti stimolanti anche in B. PapasogLI, Il «fondo del cuore», cit., passim. Sul «teatro della dissimulazione» rinvio inoltre alle raffinate analisi di G. Macchia, premesse al Breviario dei politici secondo il Cardinal Mazzarino, Rizzoli, Milano 1981. Dello stesso autore L'ordine apparente: la scuola della dissimulazione (1940), riprodotto in Il paradiso della ragione, con prefaz. di E. Montale e un saggio di J. Risset, Einaudi, Torino 19822, pp. 153-167 e I moralisti classici, Adelphi, Milano 1988 (prima ed. Garzanti, Milano 1961). Per i riferimenti a Guazzo cfr. pp. 17, 20-21. Da p. 101 a p. 121 sono riportati brani dal libro I della CC. Riferendosi ai suoi aforismi inoltre Gracian li configura come una topica di saggezza: «E questo serva di memoriale alla Ragione quando si assiderà a banchetto con i suoi Savi, per trascrivervi i piatti di saggezza che si andranno servendo loro nelle opere successive, in modo da distribuire il piacere del cibo in modo adeguato» (op. cit., p. 33). Una topica per il ricordo e l'utilizzo al convito solenne, che riecheggia tematiche care al Rinascimento.

338

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

stesso sempre spendibile: ossimoro «vivente», ne, miele e rasoio, coppe e bastoni, pane e parole, et in apparenza» mostra una sorta di «nel suo cuore» cova il male del «sepolchro «rame dorato». Coincidentia oppositorum.

colomba e scorpiopietra (II, 85r). «In volontà buona, ma imbianchito» e del

È nella terza edizione dei Saggi (1625) di Bacone che compare Of Simulation and Dissimulation. Il tema esposto, come facilmente intuibile, è in stretta relazione con il saggio di ouverture (Of Truth) della raccolta, presente anch'esso nella terza edizione dell’opera. Testimonianza del «tono» di tutto il libro: contiguità di vita politica e vita sociale, loro moralità, ma anche comportamento dell’uomo di mondo che voglia, secondo norme, vivere nella e

della vita del mondo. Non è un caso che proprio nel saggio di ouverture Bacone citi Montaigne il quale comunque riteneva l’accusa di menzogna come la più ingiuriante — vera «catastrofe ontologica» — e restituiva così il suo pensiero: il menzognero è audace verso Dio e vile verso gli uomini #. Mentire o dire la verità? Ma

«che

cos'è

la verità?» 4. Pilato,

secondo

Bacone,

non

si

aspettava una risposta: molti si dilettano della vertigine della menzogna # e coltivano un «naturale sebbene malsano amore» nei suoi confronti: amore non dal piacere o dal profitto, ma dalla menzogna stessa, che si mescola al piacere accrescendoli. La menzogna riempie la mente con il «vino dei demoni»; anzi, precisa Bacone, non è la menzogna che passa attraverso la mente, bensì la mente che vi si affonda e vi si stabilisce: è il suo desiderio di menzogna, di vane opinioni, lusinghiere speranze, false valutazioni che impedisce alla mente di inaridirsi, immalinconirsi e divenire flebile. Ma solo la ricerca e il possesso della verità, corteggiamento o amore consumato — Bacone ricorre qui il linguaggio dell’eros — «possesso

gioioso»

o sua

conoscenza,

conducono

gli uomini

al

bene supremo. L’erotizzazione della ricerca e del desiderio della verità ci fa intravvedere una strada non difficile da percorrere: la

4

M. DE MONTAIGNE,

Essais, cit., II, 18, p. 666, tr. it. cit., p. 891. Montai-

gne ricorre anche a Plutarco: il menzognero disprezza Dio e teme gli uomini. 4

F. Bacon,

Of Truth, in Essays,

Works, VI ed. Spedding,

377-379; tr. it. Saggi, cit., pp. 303-306 (la cit. è a p. 304).

1861

cit., pp.

4 Per questa circostanza cfr. G. DELLA Casa, Galatheo, cit., p. 64: la bugia piace in sé. Ma Bacone aggiungeva significativamente: «Ma io non posso

dire: questa verità è una pura e chiara luce diurna, che non mette in mostra

— come le luci di candela — le maschere, le mascherate e i trionfi del mondo, in parte così maestosi e squisiti. La verità può forse giungere al valore di una perla, che splende di più di giorno; ma non salire al valore di un diamante o di un rubino, che splende di più sotto varie luci» (Della verità, cit., p. 304).

TIPOLOGIE

DI CONVERSAZIONE,

FIGURE

RETORICHE

E TIPI DI DISCORSO

339

prima creatura di Dio, nella creazione, fu la «luce del senso»; l’ul-

tima, fu la «luce della ragione». Ma non è piacere comparabile a quello di stare all’«altezza della verità», se con Lucrezio si condivide il piacere di stare sulla spiaggia e vedere le navi in balìa del mare; stare alla finestra di un castello e vedere lo svolgersi di una battaglia: essere in definitiva lo spettatore del naufragio. Solo il portarsi all'altezza della verità permette di vedere errori, divagamenti, le nebbie della valle sottostante. Certamente la ricerca del-

la verità sfugge all’indeterminatezza nel pensare e nell’agire, cara a chi stima «schiavitù fissare una credenza». Ora anche l’ambito degli affari civili ricerca la sua verità: è proprio, continua Bacone,

un chiaro e retto modo di agire e rendere onore alla natura umana — lo ricordava anche Platone 44 —, mentre la falsità è come una lega nel conio dell’oro, che può far lavorare meglio il metallo, ma lo svilisce intrinsecamente. Il simulatore, il menzognero viene allora paragonato al serpente che non cammina, ma striscia sul ventre. La simulazione è annoverata da Bacone alla stregua del peggiore dei vizi: affronta Dio e indietreggia davanti agli uomini —

anche per Bacone, come

per Plutarco, Erasmo,

vera catastrofe ontologica. Il messaggio che Bacone consegna circa il valore ermeneutico

tù tutte al tempo na verso gna non

Montaigne,

ecc.

a questo saggio è quello

della veridicità, sincerità e lealtà, vir-

celebrate nell’Etica Nicomachea per l’uomo virtuoso, ma stesso l’avvertenza di non sottovalutare la tendenza umala menzogna. Al «che cos'è la verità?», Bacone accompasolo la possibilità della torsione comunicativa e il rischio

della simulazione,

ma

la formulazione

di un’altra domanda,

rie-

cheggiamento di topoi fondatori della scena del mondo: è poi opportuno dire sempre e comunque la verità in un mondo che elegge la menzogna ad «arte di vita»? Converrà, allora, come ricordava a questo proposito anche Guazzo, andar calzato tra le spine, fare uso non tanto della simulazione ma della dissimulazione che si configura come la via più sicura e più cauta nel valutare quando e come dire la verità. E se la dissimulazione viene considerata, in un primo tempo, da Bacone «una specie lodevole di politica, o di saggezza; perché ci vuole uno spirito forte e un forte

44 Così Platone: «...mi rallegro enormemente, contemplando la convenienza e l’accordo tra colui che parla e le cose che dice. Un uomo simile mi sembra proprio un musico, che componga un'armonia bellissima non con una lira né con strumenti di gioco, ma egli stesso realmente con la propria vita nell'accordo tra le parole e le azioni, proprio nel mondo dorico, non in quello ionico e neppure, credo, nel frigio e nel lidio, ma in quell’armonia che sola è ellenica» (Lachete, 188 d-e).

340

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

cuore, per sapere quando dire la verità, e dirla» #, subito ammette che per chi non possieda tale penetrazione di giudizio e capaci-

tà di discernimento su quel che dire o tacere, resta come «regola generale» l’esser riservato e dissimulatore.» Bacone, com'è noto, annovera

dersi. chi si l’uomo to del

tre gradi del celarsi o nascon-

Primo discrezione, riservatezza, segretezza: situazione di sottrae al manifestarsi quali si è; è questo il dominio delsegreto, cui ci si apre con facilità. È il tipico atteggiamenconfessore: la segretezza è l'aspetto mondano della pratica

del confessionale;

suo

tramite,

paradossalmente,

la conoscenza

può divenire a largo spettro; è il segreto della copiosità e interrelazione delle informazioni. La nudità è comunque sconveniente allo spirito come al corpo e buona norma è non essere completamente aperti 4. Ne gioveranno le maniere, i modi, il rispetto che ne consegue. Infatti i chiacchieroni non sono creduti perché «chi racconta quel che sa, racconterà anche quel che non sa». L'abito della segretezza «è insieme politico e morale: e, conseguentemente è bene che la faccia lasci alla lingua l'ufficio di parlare; perché scoprirsi coi tratti dell'espressione è grande debolezza, ed è un tradirsi; tanto più che ciò è molte volte più notato e creduto delle

parole» #7. Se ne ricordava Baltasar GraciAn: «La compostezza del-

45 F. Bacone, Of Simulation and Dissimulation, in Essays, cit., p. 387; tr. it., Della simulazione e dissimulazione, in Saggi, cit., p. 319.

46 Toni analoghi in Baltasar Graciàn. Il cuore viene configurato come (afor. 178 dell’Oracolo [...], cit.) «Alcuni hanno un cuore lealissimo, ed è questo un vantaggio dei caratteri superiori». Ma, ribadisce nell’aforisma 179, un cuore senza riservatezza è come una lettera aperta. «Dove c'è profondità possono rimanere nel profondo i segreti, perché esistono vasti spazi e insenature capaci dove le cose realmente importanti rimangono sprofondate [...]. Si paga tributo a tutti coloro ai quali si apre il proprio cuore». Non c’è cosa, infatti, che richieda più cautela della verità: «dirla è come «oracolo casalingo»

farsi un salasso al cuore. Occorre tanta abilità nel saperla dire, quanta se ne

richiede per saperla tacere» (afor. 181). Anche l’aforisma 222 è estremamente significativo: «La lingua è una belva che, se una volta si scioglie, è poi difficilissimo che si possa rimettere in catene. È come il polso dell'anima, e per suo mezzo l’uomo saggio riesce a penetrarne i segreti; dalle parole l’uomo accorto avverte i moti del cuore [...] Avrebbe fatto meglio Momo, se invece di desidera-

re che l’uomo avesse un finestrino nel petto, gli avesse augurato d'aver gli occhi nelle mani», emblema delle certezza delle cose. Momo rimproverò una volta a Vulcano, che aveva costruito l’uomo, di non avergli fatto nel petto uno sportellino che permettesse di leggergli nel cuore. La «mano occhiuta», compare in uno degli emblemi di Alciati (Emblema XVI, ed. cit., pp. 82-86). Dall'assunto: «Chi non mente mai è disposto a credere a qualunque cosa» (afor. 243), Graciàn invita l’uomo accorto ad essere «una giusta mescolanza di colomba e serpente: e non sarà un mostro ma un prodigio» (ivi). 47 F. Bacone, Of Simulation and Dissimulation, cit., p. 388; tr. it. cit., p. SPAL

TIPOLOGIE

DI

CONVERSAZIONE,

FIGURE

RETORICHE

E TIPI

DI

DISCORSO

341

l’uomo è come la facciata della sua anima» #. Per questo nell’indirizzo al lettore ne E! Héroe indicava l’opera come utile per formarsi una «Ragion di Stato di te medesimo», «una bussola per navigare verso l’eccellenza», sul presupposto che quando le nostre azioni piacciono a tutti «bisognerà preoccuparsi, perché sarà indi-

ce che non sono buone: la perfezione, infatti, può piacer a pochi» 49. Il secondo grado viene definito da Bacone «dissimulazione nella negativa»: quando l’individuo lascia segni o prove che egli non è quel che è. La dissimulazione «orlo» o «strascico» della segretezza, segue quest’ultima a volte per necessità. L'uomo segreto è comunque dissimulatore in qualche cosa, specialmente quando viene incalzato a tal punto che il suo silenzio funzionerebbe come parola. Il terzo momento è la simulazione nell’affermativa: quando intenzionalmente si finge e si sostiene di essere quel che non si è. Bacone definisce il momento della simulazione come «professione di falso», in qualche modo più colpevole della dissimulazione e meno politica. Secondo Bacone un generale costume simulativo è vizio che nasce da naturale falsità e da spirito che presenta gravi difetti; l'individuo costretto a mascherarli pratica la simulazione «nelle altre cose per paura che la mano perda l'esercizio». Ma simulazione e dissimulazione presentano i loro «vantaggi». Uno di questi è la possibilità di «mettere a dormire l'opposizione» e quindi sorprendere: quando le intenzioni sono manifestate interamente è come chiamare a raccolta i nemici; l’al-

tro consiste nella possibilità di serbarsi un’onesta ritirata, dato che se ci si impegna con una dichiarazione manifesta, si deve necessariamente vincere o soccombere. L'ultimo vantaggio è che entrambe permettono di scoprire, paradossalmente, meglio l’animo altrui (ammesso che questi non simuli o dissimuli a sua volta: se tutti mentono!): a chi si apre, infatti, difficilmente gli uomini si mostreranno ostili, ma «lasceranno che vada avanti e volgeranno la loro libertà di parola in propria libertà di pensiero; perciò è un ben astuto proverbio spagnolo: ‘Dite una bugia e trovate la verità’; quasi non ci fosse modo di scoprir la verità se non con la simulaZione»!S8, Tuttavia

dissimulazione

gli svantaggi

portano

pareggiano

i vantaggi.

Simulazione

e

con sé la tiepidezza che, qualche volta,

48 B. GRACIAN, El Héroe, tr. it. cit., p. 31. 49 B. Gracian, Oraculo Manual, tr. it. cit., afor., 245. 50 F. Bacone, Of Simulation and Dissimulation, cit., p. 399, tr. it. cit.,

p.322:

342

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

«toglie le ali per volare diritto alla meta». Rendono inoltre perplesso il pensiero di molti che altrimenti coopererebbero. Da ultimo privano l’uomo della fiducia e del credito. Bacone raccomanda un uso opportuno di entrambe. Guazzo stigmatizza i simulatori senza mezzi termini: «Io non

posso patire la conversatione di quegli altri bugiardi, che fanno professione di non dire mai il vero, quantunque non sia in danno altrui» (CC, I, 56v). Annibale concorda con il Cavaliere, autore del-

la precedente affermazione: «perché si come il dire apertamente il vero, è inditio d’'huomo dabbene, et honorato, così il mentire è atto servile, et lascia odore d’una disleale, et mal composta mente,

et è spetie d’ingiustitia» (Ivi). Tuttavia Guazzo non si riconosce pienamente in questo assunto, lo ribadiamo, e non lo assolutizza: esistono «luoghi» e «tempi» in cui « dir bugia non solamente non è ascritto a vanità, né a vitio,

ma è stimato (presso al mondo) per discreta et lodevole accortezza, mentre sia dirizzata a qualche honesto fine» (Ibidem, 57v). Guazzo indica una vera e propria pragmatica della dissimulazione, confinante con il pragmatismo («presso al mondo»). Nella conversazione, ribadisce, «non si dee rifiutar la compagnia d’alcu-

no mentre egli habbi qualche apparenza di virtù, et di bontà, anzi per trovar luogo di gratia nel conversare, bisogna quasi spogliarsi de propri costumi, et mostrare di vestire gli altrui, et imitarli in quanto sarà concesso dalla ragione; et insomma intorno allo studio dell’honestà esser sempre il medesimo, ma intorno alla diversità delle persone, con le quali si pratticherà esser un altro, et seguitar quell’antico detto: il cuore in tutto dissimile, et la fronte in tutto simile al popolo» (Ibidem, 62v), che è poi la traduzione del foris ut moris, intus ut libet. Si è chiesto a proposito di queste pagine che ne è del sensus communis, e aggiungiamo, della trasparenza e veridicità tanto invocate. Nella conversazione, afferma Guazzo, per incontrare il favore degli altri (dato che chi «si somiglia, si raduna» e «ogni simile desidera il suo simile») bisogna adottare il mos altrui, quindi adottare la pragmatica della dissimulazione. La risposta a questo ipotetico paradosso la fornisce Patrizi che indica in tale atteggiamento la posizione dell’interlocutore «debole», non avvezzo alla conversazione civile e che deve apprendere attraverso la disciplina del controllo e della dissimulazione, in definitiva della «misura». Si tratta qui di un interlocutore «senza misura» 51, Si

5! G. PATRIZI, Una retorica del molteplice, cit., p. 49.

TIPOLOGIE

DI

CONVERSAZIONE,

FIGURE

RETORICHE

E TIPI

DI

DISCORSO

343

comprende allora come la trasparenza dei rapporti intersoggettivi sia realtà normativa più che costitutiva degli stessi — per prendere a prestito la terminologia kantiana. Si tratta di una tappa da raggiungere, di uno stato di cose da «istaurare», lungo un cammino che spinge l’individuo ad apparire come desidera essere. L’indicazione guazziana suona come una massima: «sforzati di essere quel che vuoi apparire». Qui entra in gioco, e Patrizi sulla scorta di Apel lo chiarisce bene, il concetto stesso di «verità» che l’Umanesimo possiede e che acquisterà una forma espressiva esemplare nel saggio omonimo di Bacone. Se è pienamente sostenibile, come viene ribadito, che elocuzione, costume e comportamento definiscono una figura etica che nella mediocritas stilistica e filosofica e nel controllo di sé ricerca la benevolenza dell’interlocutore, la stessa valorizzazio-

ne delle tecniche retoriche ad opera del Rinascimento maturo accredita «in stretta adesione all’evenemenzialità quotidiana, l’omologia elocutio-comportamento» 52. E allora «il mos che così si disegna definisce la globalità etico-culturale dell’individuo ma al tempo stesso fissa un criterio di competenza linguistico-retorica, un parametro di ‘convenienza’ capace di mettere ordine e porre limiti alla produttività del discorso» 53. Ed è proprio all’interno di questo modello,

insiste Patrizi, che tutta la cultura umanistica

e

rinascimentale si pone il problema della «verità» 54. Il ricorso ad Apel ci sembra opportuno. Secondo il filosofo l’Umanesimo fu incapace di pensare una problematica della verità al di fuori della giustezzae del giudizio «sulle cose»: «i Salutati, Bruni, Valla, Poliziano, Guazzo

ecc., promuoveranno

in vari modi la conservazione

storiografica della comprensione della realtà nella retta intelligenza delle parole, la superiorità pedagogica della formazione retorico-grammaticale, la memoria e la virtù immaginativa» 55. E non finiranno mai di insistere sull'importanza umano-sociale dell’eloquenza e di proporre impostazioni programmatiche di logica retorica 5. Sulla superiorità della cultura retorica su quella logica per cui, «guidati dall’idea ciceroniana della retorica, e in particolare della topica, mettono in questione il senso della logica astratta, formale,

e affermano

l’esigenza

di una

grammatico-filologica della vita reale» 57.

52 Ibidem, p. 56. 53 Ivi. 54 Ivi. 55 K. ApEL, L'idea di lingua..., cit., pp. 198-199.

56 Ivi. 57 Ibidem, p. 198.

dialettica

retorica

o

344

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

Gli «occhi di Ulisse»: lux sicca, anima sapientissima L’«honesto come

inganno»

dissimulazione

configurato

nella Civil

onesta, le sue occorrenze

Conversatione

in regioni temati-

che per così dire strategiche, lasciano verosimilmente supporre una sua, seppure inconsapevole, parentela non solo con l’ispirazione e lo specifico del saggio baconiano su simulazione e dissimulazione e con il tono e, conseguentemente, la topica degli Essais di Montaigne (sui quali Guazzo agisce per un influsso incrociato), ma anche con l’area semantica dell’opera di Torquato Accetto 58 — nonostante che questa risulti argomentativa di un più largo spettro e si inquadri in una nuova interpretazione dei modelli dell’azione politica del XVII secolo: legittimazione della dissimulazione anche quando essa diviene tecnica di opposizione politica. Guazzo l’ha eletta, insieme a Castiglione e ai teorici del comportamento (ars est celare artem), a regola aurea dell’uomo engagé, anche se ovviamente non la spinge a esiti estremi. Accetto, come del resto Bacone, si mostra forse più di Guazzo sensibile al suo statuto epistemico. Per procedere in questa direzione, per misurarne le implicazioni dell'effetto di realtà, egli segue il tracciato segnato dalla storia della cultura che ha associato dissimulazione

e simulazione

per

distinguerne

poi i registri

epistemici.

Simulazione e dissimulazione vengono distinti come il positivo e il negativo. La simulazione viene tradizionalmente intesa come simulatio rei absentis: la dissimulazione come dissimulatio rei praesentis. Si simula quel che non è; si dissimula quello che è 59. La simulazione è una forma di attacco. Arte del fingere: aggiunge «il falso delle operazioni dove l’essere quasi non è» 90. La dissimulazione è «un'industria di non far vedere le cose come sono» 6; è quindi una difesa: si deve por freno talvolta al parlare libero, quando è già corrotto il viver libero. Nel suo «sin-

58 Pubblicata per la prima volta nel 1641, la Dissimulazione onesta (Egidio Longo, Napoli) merita attenzione anche per la sua vicenda editoriale. Il testo, infatti, venne ripubblicato nel 1928 da Croce per i tipi di Laterza, in trecento esemplari, numerati e fuori commercio in ricorrenza della morte di Luigi Laterza. Fu ristampata nel 1930 a cura dello stesso Croce e di Santino Caramella (Politici e moralisti del Seicento, Bari). Goffredo Bellonci lo ripubblica per Le Monnier, Firenze 1943. Ora si può leggere in ed. critica a cura di Salvatore S. Nigro, Costa e Nolan, Genova 19903.

5° Ed. Bellonci, VIII, p. 71; ed. critica, pp. 50-51 (la duplice numerazione seguirà quest'ordine). 60 Ibidem, IV, 60; 42. 6! Ibidem, VIII, 71; 50.

TIPOLOGIE

DI CONVERSAZIONE,

FIGURE

RETORICHE

E TIPI DI DISCORSO

345

cero significato», il dissimulare è «un velo composto di tenebre oneste e di rispetti violenti, da che non si forma il falso ma si dà qualche riposo al vero, per dimostrarlo a tempo» €. Invito, allora, a nascondere, a dissimulare i propri sentimenti e i propri pensieri, «in attesa di conservarli accesi al fuoco della [...] coscienza eti-

ca» 63. Dissimulare «con l’onesto fine» 64. Avvertimento dello scrittore al lettore: è conforme alla ragione, regola di vita, il procedere manifesto o nascosto a seconda dell’occorrenza. Alla simulazione difficilmente si accompagna quel «senso onesto» che inerisce alla dissimulazione, a volte necessaria non per uno scopo effettuale e fattuale, quanto per «non patir danno» 6. La dissimulazione non si configurerà

mai

alla stregua

della frode;

se ne

deve

evitare,

però, l’uso iterato: essa è una professione di cui «non si può far professione se non nella scola del proprio pensiero». Chi porta la maschera ogni giorno diverrebbe oggetto di continua curiosità. Dei veri dissimulatori non si conosce il nome, anche se in tutti esi-

ste una disposizione naturale a dissimulare. Il più abile in questo genere di esercizio è il dissimulatore temperato. In tale «effetto di prudenza» consiste l’abilità: «l’esser d’assai e talora parer da poco» $, pratica che richiede temperanza di umori, conoscenza di sé e degli altri, piena autorità di se stessi nel saper tacere a tempo, «cultura della mente» e quella esperienza del mondo che si acquista viaggiando 9. E poi signoria dei propri affetti. Si dissimula per nascondere l’animo e le idee a una società corrotta: cose nostre e di altri. La dissimulazione viene inserita di diritto nelle norme di «buona creanza». Ma essa è una semplicità solo apparentemente disarmata: «dando a vedere di non vedere quanto più si vede», con gli occhi «che paion chiusi e stanno in se stessi aperti»; «il viver cauto s’accompagna con la purità dell'animo» 8; chi ama la pace dissimula

con

l’«onesto

fine

[...] tollerando,

tacendo,

aspettan-

do» 69. Anche Accetto scrivendo un libro sulla dissimulazione ha dovuto, per sua stessa ammissione,

in un certo senso dissimulare:

6 Ibidem, VIII, 60; 53. 63 G. BELLONCI, Prefazione a Della diss. onesta, cit., p 28.

64 65 66 67 68

Della diss. onesta. L’autor a chi legge, 46; 30. Ibidem, V, 61; 44. Ibidem, VII, 68; 48. Ibidem, VII, 69; 49. L’autor a chi legge, 46; 30.

69 Ibidem, 45-46; 30.

346

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

«dirò in poche parole molte cose». Ab imis: diligenza del nascondersi 79. «Cicatrice» intima. L'unica età che rendeva inutile, anzi oltraggiosa, la dissimulazione era il «secol d’oro», il secolo del cuore, dei suoi scandagli e

recessi: la verità «con dolcissima armonia mettea tutte le parole sotto le note de’ cuori, poi che noti, e quasi fuor de’ petti, in ogni discorso si sentivano impressi» 7!. Tutte le prerogative attribuite da sempre all’età edenica sarebbero state vanificate se la verità non «fosse andata per le bocche» di tutti, scritta nel loro cuore: non era necessario che il sì e il no avessero testimoni. E viene ripreso qui un tema cui Guazzo aveva dato largo spazio nella sua Civil Conversatione.

La verità, che non si deve abbandonare

mai,

assume con prepotenza un tono morale, perché è solo la verità morale che permette all'uomo di mostrarsi «qual è» ?2. Ma a volte, Guazzo e con lui i filosofi morali, ammettono che sia necessario dissimulare. La dissimulazione, secondo Accetto,

ha del secco ?3. Per prudenza e astuzia Ulisse frenava le lacrime quando era tempo di nasconderle, «perché si ritiene nel proprio termine». La suggestione è aristotelica 74 e si basa su un frammento eracliteo 75. Lo ripeterà anche Erasmo 6. Dalla dissimulazione possono derivare anche «bene» e «diletto» e bisogna riconoscere, insiste Accetto, che «tutto il bello non è altro che una gentil dissimulazione» 77. Dissimulazione come estetica e estetica come dissimulazione. L'immagine è pur sempre platonicamente il «diverso» rispetto all'originale, il suo duplicato,

dissimulazione di quel che è, sua riproducibilità in immagine. L’utile «nei termini morali», dal punto di vista etico che deriva dalla dissimulazione, si prova soprattutto nell’«arte della buona creanza la quale si riduce nella destrezza di questa medesima

70 71 72 73

Ibidem, Ibidem, Ibidem, Ibidem,

I, 49; 34. II, 53; 37. II, 54; 37. VIII, 74; DIE

Così Aristotele: «E umido ciò che non può essere contenuto nei suoi

termini, ma facilmente in termini non suoi: secco, ciò che facilmente resta nei

cuori, ma difficilmente si allarga fuori dei propri limiti» (De generatione et corruptione, II. 2, 329b 30-34). ._ ? Eractito, Frammenti, 118: «Secco splendore è l’anima più saggia e migliore, o piuttosto l’anima secca è la più saggia e la migliore». 76 Erasmo, Lingua, cit., LB, IV, 684 F-685 A; ASD, IV A 1, 72, 505-515. Erasmo cita Odissea, XIX, 210-215. dA T. Accetto, Della diss., cit., IX, 76; 54. Per i problemi che solleva que-

sta tesi cfr. J. JacouIoT, Le langage de l'art [...]à la Renaissance est-il toujours

vérité? in Langage et vérité, Etudes offertes à J.-Cl. Margolin, Droz, Genève 1993, pp. 293-305.

TIPOLOGIE

DI CONVERSAZIONE,

FIGURE

RETORICHE

E TIPI DI DISCORSO

347

diligenza». Utilissima nella conversazione, la dissimulazione permette di «mostrare di non veder gli errori altrui acciò che la conversazione riesca di buon gusto» ?8. In questo caso si vince se stessì ?? e la dissimulazione si configura come la vittoria della ragione sul sentimento e come piacere «d’aver usato sobrietà di parole e fatti». Senz'altro è d'obbligo dissimulare con i simulatori: ma come riconoscerli? È infatti più semplice preparare la difesa contro lupi e leoni, contro violenti dichiarati, che contro le volpi, non

sempre riconoscibili; una volta conosciute poi diviene difficile usare l’arte contro l’arte: sarà quindi saggio chi terrà apparenza di sciocco, mostrando di credere a chi voglia ingannarci; così è il gioco: segno di intelligenza il finger di «non vedere quanto più si vede». Ma la capacità di dissimulare deve riguardare innanzitutto se stessi, nel senso che a volte è opportuno dissimulare con sé, ma nel farlo si richiede una particolare prudenza. Quando l’individuo vuole celarsi a se stesso «questo [deve avvenire] non più che per qualche picciolo intervallo e con licenza del nosce te ipsum, per pigliar una certa ricreazione passeggiando quasi fuor di se stesso» 89. L'individuo procuri innanzitutto di conoscersi a fondo («aver piena notizia di sé») e abitare non alla superficie delle opinioni altrui, ma nella profondità del suo essere; «avere la misura del suo talento e la vera deffinizione di ciò ch'egli vale». Molti conoscono il prezzo della «robba» che possiedono; nessuno conosce il proprio valore. Questo tipo di «come se» è una sorta di «moderata oblivione»: del proprio stato, per esempio, e quindi riposo alle proprie miserie. Sarà come un «sonno de’ pensieri stanchi» che non dovrà tuttavia mutarsi mai nel letargo della negligenza. Ecco dunque ancora un decalogo del saper vivere: «astenersi dalla pompa nella prosperità e dalle lacrime e da’ sospiri nella miseria; e non solo dico del nasconder i beni esterni, ma que’ dell’animo; onde la virtù, che si nasconde a tempo, vince se stessa, assicurando le sue ricchezze, poiché il tesoro della men-

te non ha men bisogno talora di star sepolto che il tesoro delle cose mortali» 81. E ancora: «Il capo che porta non meritate corone, ha sospetto d’ogni capo, dove abita la sapienzia». È virtù sopra ogni virtù «il saper simulare la virtù», per non manifestarsi nella propria interezza e per non esporsi all’invidia e al timore altrui.

IDRA cceTTO, Dellatdissicit.s IX, 49;155 79 Ibidem, X, 81; 56.

80 Ibidem, XII, 85; 60. 81 Ibidem, 111; 75.

348

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

La fatica più dura consiste tuttavia nel «pigliar abito allegro nella presenza de’ tiranni, che soglion mettere in nota gli altrui sospiri [...] Sì che non è permesso di sospirare quando il tiranno non lascia respirare, e non è lecito di mostrarsi.pallido mentre il ferro va facendo vermiglia la terra con sangue innocente». Ci si neghi alle lacrime, dote dei miseri che con la propria onda alleggeriscono il cuore oppresso. Avere sempre e comunque la misura.

A conclusione del trattato Accetto invita ancora una volta a non essere trasparenti e dichiara che significherebbe trasgredire le leggi della dissimulazione «non dissimulando quanto per ragione ho dissimulato» 82. Come

non

dissimulare,

si chiede

ancora

Accetto, quando chi dovrebbe morire di fame ha la fortuna di portare cibo a molti, quando un ignorante è reputato dotto da chi ne sa meno di lui, quando un indegno ha qualche dignità e l’ignobile viene reputato nobile: come si potrebbe vivere se non si accordassero «i sensi a così duri oggetti»? Accomunando arroganza e simulazione come nemiche della veridicità o veracità — anche se in qualche modo apparentate ad essa (la prima si innalza «sopra il vero», la seconda si abbassa «infra il vero» 83) — Emanuele Tesauro, con metafore o «geroglifici» forti, caratterizzerà rispettivamente l’arroganza con il pavone e la simulazione con il gufo. Riguardo al sapere, l’arrogante «benché non sappia nulla» vanta di sapere tutto; il simulatore «benché sappia assai finge di sapere poco». Lo stesso atteggiamento manifesteranno nei confronti delle ricchezze: l’uno, pur di apparire, si orna di gemme

false; il secondo, pur di nascondersi, indossa vesti

neglette. Circa il valore, il primo è il soldato fanfarone di Plauto, il secondo lascia agli altri l’onore. Nei confronti della civil conversazione,

insiste

la Filosofia

morale,

entrambi

sono

conversatori

inetti, l’uno privilegia l’iperbole (avvicinandosi all’adulatore), l’altro «opprime» la verità. Chi parla troppo, chi poco — aperti o cupi, facondi o taciturni — l’uno e l’altro privano i «compagni» del piacere che «si sente nel conoscere il vero de’ fatti altrui: poiché a quello che dice troppo, non si crede nulla a questo che nulla dice, non si sa qual cosa credere». L’arrogante sarà senz'altro «più conversevole» del simulatore, perché più aperto. Ma il simulatore «da’ Serii è temuto, da’ Gioviali odiato perché non communica i suoi pensieri» 84. E soprattutto l’arrogante ama la conversa-

82 Ibidem, XXV,

131; 88.

83 E. TEsauRO, Filosofia morale, cit., XII, V, 302.

84 Ibidem, p. 303.

TIPOLOGIE

DI

CONVERSAZIONE,

FIGURE

RETORICHE

E

TIPI

DI

DISCORSO

349

zione «per ispedir le sue merci; e il Simulatore non sapendo con cui conversare,

sol con

se stesso conversa» 85. In entrambi

i casi

concorre una certa «debolezza dell’intelletto». La «corrotta opinione, tanto del più, quanto del meno è una vena di pazzia», al punto che il «Vitio Morale» può divenire «Pazzia formale» 86. C'è tuttavia una forma di simulazione che non è esecrabile, anzi si tratta non proprio di una forma di simulazione e quindi va distinta da quest’ultima. Si tratta della «Dissimulazione virtuosa» 87, proprio quella che altri ha già chiamato «Dissimulazione onesta» o «honesto inganno».

Contesa, disputa, ambizione: contraddizione e paradosso

Vizi morali. Ma anche forme contigue alla «verità». L’esempio del contenzioso chiarisce a ventaglio questo concetto. All’adulatore, che non conosce la «morale modestia», Guazzo

contrappone il contenzioso, la cui natura più di quella delle altre figure risulta atipica e, al tempo stesso, complessa. Accanto ai contenziosi per così dire «puri» o forti che «con animo ritroso, et bestiale s’attraversano alle opinioni altrui, et vogliono in tutti i luoghi, et in tutti i tempi, sopratutti i ragionamenti, et con tutte le persone litigare (Ibidem, 53r) — che comunque come l’«olio» vogliono sovrastare nella conversazione — bisogna riconoscere un’altra figura della stessa specie, di una contenziosità «debole» o piuttosto dolce, la cui specificità consiste nel sostenere «singulari opinioni contro le comuni». Maestria della contraddizione e del paradosso: «veggo, che voi altri filosofi, commenta il Cavaliere, vi conducete ne’ circoli delle dispute, dove facendo contrasto a gli assalti di diversi argomentatori, sostenete molte volte conclusioni singulari, et lontane dal vero» (Ibidem, 53v). Ma questo tipo di persone non merita il nome di contenziosi, ammonisce il medicofilosofo Annibale, la cui pratica suasoria va di pari passo con la capacità di individuare i mezzi per la guarigione del suo interlocutore. Anzi a suo avviso i filosofi che fanno uso della contraddizione sono da collocare nell’ambito topico «de’ desiderabili, et virtuosi»: se si allontanano dalla verità, non si allontanano però dalla «ragione apparente» e «quel che lodano con la lingua non l’approvano co’l cuore, et questo loro officio non cammina ad altro

85 Ivi. 86 Ibidem, 304. 87 Ibidem, 308.

350

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

fine, che a dimostrar la sottigliezza, et vivacità de gli intelletti» (ivi. Mai vuoto esercizio, mera astratta dialettica delle forme. Sembra delinearsi qui il valore paradigmatico ed epistemologico della scienza morale e della gnoseologia guazziane. Lo scienziato, come il filosofo, è colui che è capace di produrre concetti controfattuali, paradigmi nuovi la cui singolarità spesso conduce a vere e proprie scoperte. All’esordio del libro primo, è opportuno ricordarlo, Guazzo aveva individuato proprio nella disputa il cribro della verità. I contenziosi sono invece «comunemente di rozzo ingegno [...] si oppongono alla verità o per ignoranza, o per ostinazione» (Ibidem, 54r). E che la disputa eminentemente sia il cribro della verità viene ribadito, in questo contesto, e dilatato come lo era già all’inizio nel libro primo, all’rumanitas, arricchendone tuttavia il concetto:

«A quel che voi dite de’ filosofi, vi rispondo, che non solamente a loro, ma a tutti gli altri huomini, quando s’accozzano insieme per disputare, è lecito, et convenevole il contrasto, et è più degno d’honore quel, che difende la più difficil parte» (Ivi). Anch’essa richiede ovviamente buone maniere che vanno ben al di là del mero codice di comportamento «se ben sono discordanti nelle parole, non discordano però nell’amore, et nella scambievole benivolenza, anzi vanno d'accordo cercando la verità, a

guisa di quelli, che fanno le corde, de quali se bene uno torce al contrario dell’altro, s'accordano però intorno all’intentione, et al fine dell’opera». Esiste tuttavia un rischio per il contendere, fatto già agire da Guazzo, che viene ribadito: «et si come col troppo assottigliare si scavezzano le cose, così col troppo contendere si smarrisce la verità» (Ibidem, 54v). Nel codice pragmatico quotidiano certamente questo genere di persone «è da comportare». Se l’idea della conversazione ideale implica interlocutori «morali», la pratica quotidiana registra interlocutori «sopportabili». In tal modo, per esempio i curiosi «non sanno né a cercare, né a fuggire»; lo stesso comportamento bisogna tenere con gli ambiziosi. L'ambizione è la croce degli ambiziosi. Alla stessa stregua sono da considerare i superbi e gli alteri la cui conversazione è «fuori dal mondo odiosa, et nemica alla natura nostra, di cui è propria l’humanità» (Ibidem, 60r). Sono simili ai tiranni che non si curano di essere odiati, ma solo di essere temuti. Gli italiani, più degli altri popoli, sanno esprimere, in positivo, un tipo di gravità che non è alterigia, per cui il loro comportamento rimanda ad «una humanità grave, et una gravità humana» (ivi).

La conclusione cui Annibale vuol approdare è un principio economico intrinseco: «s’hanno a restringere le cose odiose, et

TIPOLOGIE

DI

CONVERSAZIONE,

FIGURE

RETORICHE

E TIPI

DI

DISCORSO

bio

ampliar le favorevoli», questo suggerisce l’etica intersoggettiva privilegiando la conversazione. Ed ecco che il «gran mare» della conversazione sembra ridurre le proprie proporzioni, insidie, tentacolarità: «...ella è ristretta, anzi che no, perché se ben vi concedo, cioè, né a cercar, né a fuggir i già detti, che sono infiniti, non vi ho però conceduto,

che habbiate

a cercar altri, che i buoni, i

quali sono pochi; et chi osserverà a questo stile, potrà ben conversare con molti a caso, ma converserà con pochi per elettione» (Ibidem,

61r). La

conversazione

«volontaria

che

s'ha

a cercare,

si

sostiene in pochi» (ivi); è solo la casuale che allarga il numero degli interlocutori. Annibale ha pressoché esaurito la formulazione della risposta alla domanda apparentemente semplice del Cavaliere: conversare con chi? A chiusa delle sue argomentazioni compie un ulteriore distinguo, un’ulteriore divisione, un ulteriore esercizio di metodo

diairetico. La distinzione riguarda ora privato e pubblico e lo porta ad affermare che «talhora un insopportabile è sopportabile, non rispetto a lui, ma rispetto alla cagione, che l’induce a conversare». La conclusione ultima cui perviene Guazzo è in stretta relazione con quel concetto di «bontà» o «perfezione» non assolute, da cui egli si era mosso, garantendo quel punto di arrivo. Sono talmente rari al mondo gli uomini perfetti o interamente buoni, che spesso è necessario «amar l’amico col suo difetto», in mancanza di individui «compiutamente virtuosi, con cui possiamo con nostra piena soddisfattione vivere, et conversare» (Ibidem, 62v). La conversazione tra disuguali ispirerà a Guazzo una sorta di realismo disincantato che sin dal primo libro radica profondamente. I vizi morali sono figure sociali diffuse, a volte reclamate e salvaguardate. E proprio sulla disarmonia, relativa a una fenomenologia di teatralizzazione di parti, Guazzo intesse pragmaticamente una fenomenologia di scambi e interrelazioni, retta però da un codice di misura privata e sociale, che fornisce significati e forme omologanti. Certo Guazzo non si sottrae al progetto umani-

stico, definito da Garin della formazione del «cittadino integrale» 88 (il guazziano «puro cittadino») (II, 67r), ma sembra aggiungervi una coscienza pragmatica, una relativizzazione dell’«io», pronto all’imitazione di un mos costruito, all'occorrenza per le relazioni interpersonali, non perdendo però mai di vista l’eticità e moralità concrete. Lo «spogliarsi dei propri costumi» per

88 E. GARIN, Introduzione a L'educazione in Europa, cit., p. 2.

352

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

vestirne altri a volte risulta l’unica possibilità razionale, che la ragione quindi accetta e concede, per la costruzione di una strategia suasoria dei rapporti umani che non mettano mai tra parentesi lo «studio dell’honestà». Chi nom riuscirà a capire tutto questo avrà solo un’alternativa: risultare odioso nella conversatione o starne fuori (Ibidem, 61r). La strategia della vita suggerisce che «s’habbia a comportare la conversatione di tutti quelli, che nel rimanente dell’opere, et delle attioni loro caminano a diritto

fine; et è anco

lecito

il mostrare

talhora

di non

vedere

questi errori, e d’'haver buona opinione d’essi» (Ibidem, 63r). Il criterio da seguire nella recezione del pensiero della comunità nei nostri confronti è quello di non darsi troppa pena per quel che ne dicono «i molti», ma unicamente per quel che esprime chi «ha sano, et giusto intendimento». Solo questi può configurarsi come «giudice» della comunità e del suo agire: il bene si persegue non per timore del biasimo, massima kantianamente eteronoma, ma per «amor della virtù». L'autonomia, per restare nel gergo kantiano, della morale si pone a massima della moralità e pragmaticità della condotta comune e fa da sfondo alle stesse indicazioni pragmatiche e strategiche che non vogliono dimenticare la loro ragione d’essere. La ricapitolazione che Annibale si accinge a compiere alla fine del primo libro ne scandisce, con un linguaggio quotidiano, i ritmi ‘sincronici’ e si iscrive in questo registro retorico-dialettico: «...la conversazione è utile, et necessaria [...] gli huomini di pessima vita s’hanno a fuggire, [...] quei, che piegano più al bene, che al male, s’hanno a sopportare, et [...]i buoni, et i virtuosi s’hanno a cercare» (Ibidem, 65v).

Sin qui Guazzo ha indagato le condizioni della conversazione e la tipologia dei conversanti, senza giungere epistemologicamente alla fondamentale distinzione tra conversazione pubblica e privata (che in parte però presuppone);

senza,

tuttavia,

sottrar-

re la tipologizzazione al bipolarismo che sarà oggetto del libro secondo. Ma l’ultima parte del libro primo riguardando la tipologia degli uomini più che le «buone maniere» voleva essere la risposta non tanto al come conversare, ma al suo presupposto antropologico: conversare con chi? «Al domani»,

infatti, Annibale

rimanda

«di discorrere

delle

civili, et virtuose maniere del conversare, secondo il nostro principal proponimento».

Proponimento

che riguarderà

pur

sempre

«il maggior numero di persone», «ciascuna sorte di persone», «ogni altra sorte di persone dovunque si trovino, et di quale stato si siano» (Ibidem, 29r-30r), perché quella di Guazzo è vera e pro-

TIPOLOGIE

DI

CONVERSAZIONE,

FIGURE

RETORICHE

pria «enciclopedia della comunicazione efficacemente definita 89.

E TIPI

DI

sociale»,

DISCORSO

come

353

è stata

Elogio della differenza La conversazione tra nobile e ignobile presenta altresì una dinamica che Guazzo spiega in termini psicologici, normativi e di costume:

«... il nobile conversando

con ignobili, da, et riceve sin-

gular piacere; percioché gli ignobili si godono estremamente, veggendo, che ’1 nobile, non ostante la disugualianza loro, venga con una certa habilitatione a dispensarli, et farli come suoi eguali, dal che s’accendono ad amarlo, et fargli ogni honore o servigio, et essi per questa vita acquistano

anco credito, et sono più stimati dai

loro uguali» (Ibidem, 126v). Nonostante la disuguaglianza presupposta la conversazione rende gli interlocutori uguali, ugualmente partecipanti al discorso. Ma l’uguaglianza, sin qui diritto di parola a tutti, è regolata da un codice che tuttavia ripristina, mutatis mutandis, il dicibile e il non dicibile, a seconda dello status, dei tempi e dei luoghi. Meta-

codice o sottocodice di tutti i discorsi possibili. Il meccanismo psicologico dell’accoglimento tra uguali realizza il metacodice della parola e del silenzio in un sottocodice che dice e tace non solo riguardo alla sua opportunità in generale, ma all’opportunità di secondo grado del codice tra disuguali. Illusione dell'uguaglianza, dunque, per il non nobile. Il nobile del resto ricava anche «beneficio» dalla conversazione con gli ignobili. Fin tanto che conversa con i suoi uguali «è costretto a conformarsi

con i costumi,

et la

volontà loro», a rispettare un rigido codice di comportamento paritario, per il quale «ognuno tiene il suo grado». Nella conversazione con «ignobili» o «inferiori», il nobile «rimanda con vantaggio e con autorità sopra di loro, da i quali gli è prestata una certa osservanza non facile a trovarsi fra gli eguali» (ivi). La conversazione «disuguale» dal punto di vista del nobile esalta il suo status, ma non sembra essere questa precisazione a interessare Guazzo — non interessa né Annibale che la proferisce, né il Cavaliere che avanza un ulteriore decisivo motivo intorno al quale ruota il senso dell’argomentazione

finale, ma

anche iniziale, della Civil Conver-

satione; un’ulteriore e decisiva acquisizione quella che contrappo-

89 Cfr. A. CH. Fiorato, Supérieurs et inférieurs dans quelques traités de comportements

p. 103.

italiens du XVI° siècle, in Traités de savoir-vivre italiens, cit.,

354

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

ne come caratterizzanti le «due conversationi», l’uguale e la disui guale: servitù e libertà. Si profila, al termine di queste battute, il tema caro al Cavaliere che voleva abbandonare la corte per ritirarsi nelle proprie stanze; quasi sinonimo e toponimo di libertà, di contro alla catena d'oro della corte, sinonimo e toponimo di servitù: «con l’eguale mi bisogna per cerimonia, et per creanza negar la volontà mia, et mostrar d’haver a caro quel, che non mi piace; lasciandomi tirar con le gambe, dove non vado volentieri col cuore; ma, s’egli è uno inferiore, lo tiro dove voglio, et lo faccio fare a mio modo, onde io

provo, che quella è servitù, et questa libertà» (ivi). Negazione pulsionale, stretto cerimoniale, forma di servitù. La progressione delle indicazioni guazziane non lascia dubbi: la libertà abita nella conversazione tra disuguali, nella pratica del mondo, e la servitù rimane nella pratica cortigiana come a casa propria. Nella pratica curiale si diviene come estranei a se stessi e ci si può ritrovare solo dove porta la volontà dell’altro. Stranieri a se stessi. Stranieri al proprio essere. Il nobile nella conversazione tra uguali è individuo estraniato, fuori di sé e celebra nell’adaequatio all’altro l’idea di sé e della nobiltà; ossequia, in quanto nell’altro risiede l’idea stessa della nobiltà ed egli in quanto nobile non può che osservare le regole imposte dal gioco; come se la nobiltà che risiede in lui per realizzarsi e dispiegarsi, dirsi e esprimersi, dovesse essere riconosciuta e celebrata nell’altro, nel ritua-

le della sacralizzazione del sé nell’altro: la tua volontà è (!) la mia: se il nobile si nega e si estranea per affermarsi nell’altro, il suo uguale procede allo stesso modo nella ricerca del proprio inveramento. L’estraneamento/affermazione rischia di non potersi esibire per il movimento bidirezionale delle componenti. Il vero riconoscimento, allora, non può avvenire tra nobili, l'uguaglianza presupposta riconosce solo l’assenza dell’uguale che non si trova laddove si cerca, perché anch'esso mosso dalla ricerca del riconoscimento. La reciprocità riconosce solo l’assenza del risultato (il riconoscimento), diviene solo uno pseudo presupposto (io riconosco me) e lo scambio della legittimazione del proprio ruolo nobiliare non trova il suo fondamento nell’identità, ma in una figura diversa dall’eguale, in una figura che vive uno status diverso, l’«inferiorità», nei confronti della quale il nobile fa valere la sua superiorità, alias autorità.

La propria nobiltà riconosciuta solo a patto che la si riconosca e rispetti secondo il codice dell’io/altro. Il massimo dello straniamento si vede vivere nell’altro e rispetta nell'altro la propria nobiltà, che in fondo solo l’altro, in quanto riconosciuto, realizza a seguito di uno svuotamento dell’uguale e una conseguente mate-

TIPOLOGIE

DI

CONVERSAZIONE,

FIGURE

RETORICHE

E TIPI

DI DISCORSO

355

rializzazione dell’assenso all’altro: l’iterazione del sì. Con l’espropriazione della propria volontà — riconoscere e assentire a un piacere mai avvertito come tale — si concentra nell’altro, l’uguale che è il proprio doppio, l'espropriazione consensuale del sé. L’etichetta tra eguali conduce ad una forma di alienazione del sé, a uno spossessamento. Ciò è reso possibile dal presupposto dell’uguaglianza nella nobiltà che induce a celebrarsi nell'altro per non negarsi come sé. Ma la negazione di sé nell’altro è affermazione di sé nell'altro e dell’altro in quanto sé: unico modo per esistere è estraniarsi in un doppio che fa vivere il sé, l’ipseità. Pertanto la vita nel proprio doppio è vivere come il doppio vuole. Si identifica come la propria servitù, con il proprio vivere la servitù nel soggetto estraniante/estraniato: perché vale il reciproco. Il vantaggio/ svantaggio di questo tipo di uguaglianza è infatti il principio della reciprocità che esso stesso reclama, e che si configura come reversibilità, cambio delle parti in uno stesso ruolo: chassé-croisé. Proprio qui si insinua il paradosso della nobiltà e dello status nobiliare. Il vero riconoscimento non avviene tra nobili; l'uguaglianza presupposta riconosce solo l'uguaglianza, stereotipi reciproci comportamentali. Lo scambio della legittimazione di un unico ruolo non trova il suo fondamento nell’identità, ma in una figura diversa dalla propria. In una figura ‘inferiore’, verso cui il nobile può far valere la propria nobiltà: va dove vuole, sceglie ciò che gli piace... La figura nobiliare è figura contraddittoria, autonegantesi in un cattivo estraneamento,

assoluto per l’assenza dell’altro, per-

ché l’altro nobile cerca anch'egli di inverarsi nell’altro sé, suo eguale/nobile. Guazzo comprende bene l’impasse consustanziale a questa figura, la sua crisi epistemica, prigioniera del suo stesso concetto. La libertà per il nobile, allora, la legittimazione-riconoscimento del suo stato — i due concetti diventano sovrapponibili — passano paradossalmente attraverso la negazione di sé, la legittimazione e il proprio riconoscimento attraverso la conversazione tra disuguali: «Havete ragione, et vedete bene che sta più volentieri un nobile a quella villa, o castello, che è sottoposto alla sua giurisdittione, dove gli pare d’esser Re, poi che è ubbidito, et si compiace di tutto ciò, ch'egli vuole, il che non gli avviene alla città, dove non è niente più di quel, che siano gli altri cittadini, et è assai manco honora-

to» (Ibidem, 126v-127v). Inoltre il rapporto uguaglianza/disuguaglianza sembra spostarsi dalla conversazione tra nobili o tra «superiori» e «inferiori», al rapporto sociale città-campagna. Il nobile ha nei disuguali, che gli riconoscono la sua superiorità, la propria affermazione, in campagna,

in villa, o castello. La città, invece, realizzerebbe quel-

356

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

la condizione di uguaglianza in diritto negatrice della nobiltà, per cui tutti sono cittadini, quindi, da questo angolo, uguali. Il concetto di uguaglianza, profilatosi nella civil conversazione in un contesto di privilegio, finisce per semantizzare una realtà di non privilegio, comune, di molti individui in quanto cittadini. Da un livello verticale si passa a un livello orizzontale. Il concetto di uguaglianza smarrisce

il terreno originario dove risultava contraddittoria,

per portarsi su un altro piano che vede cambiamenti di prospettive. L’essere cittadino realizza l'uguaglianza come forma della vita associata: la politica. Lo ricordava anche Bodin. La conversazione tra disuguali è imposta dalle cose stesse: «Quando la necessità de’ negotij lo porti, non si disdice [al nobile]

il conversare con ogni sorte di persone» (Ibidem, 127r), anche se sarebbe preferibile conversare con chi possiede «civiltà nei costumi» e «altezza di intelletto». Il nobile non deve comunque mai dimenticare che la sua nobiltà ha avuto un’origine, e che quindi proviene «da un ignobile»: se disprezza l’ignobile disprezza «i suoi maggiori, et conseguentemente dispregia sé medesimo». La vera nobiltà deve manifestarsi nelle azioni, nelle parole, nel silenzio: il comportamento deve essere «humano [...] gratioso [...] civile». Occhi, lingua, corpo devono essere testimoni della nobiltà dell’in-

dividuo. Il sapersi comportare svolge il suo ruolo e configura una finalità di prim'ordine: far conoscere se stessi, la propria anima tramite la parola, il gesto, il corpo. Nessuno potrà accontentarsi di essere nobile presso di sé. Certamente Guazzo non induce a pensare che gli «ignobili», da lui certamente considerati sotto una precisa ottica, siano immuni da difetti e cattive pretese. Una di questi è l'emulazione e imitazione di parole e abiti propri della realtà nobiliare, che li confina nell’arroganza, in una sorta di «pazzo humore», che maschera

nome e professione, e li spinge ad adottare la maschera da nobile: parvenus o per dirla con Guazzo «ignobili ricchi» che incoraggiano la confusione dei ruoli, con abusi e inautenticità. Gli ignobili si comportino senza «artificiosa alterezza» (Ibidem, 130r). Mostrino umiltà nei costumi e nelle parole: vera e propria sacralizzazione della vita quotidiana. Tutte le virtù che inerivano al cristiano nella sua pratica religiosa ora inerisconono all’uomo «dabbene» nella pratica quotidiana.

Rassegnazione

cristiana e spirito terapeutico

della rassegnazione si intrecciano e a volta si confondono. La conversazione ha le sue regole che insegnano la pratica dell’osservanza e del loro rispetto, la pratica della rassegnazione che permette al meccanismo di riprodursi come un tutto autoregolantesi. La civil conversazione tra nobili e ignobili fa parte delle regole del gioco ed entro queste regole è veramente possibile. La nobiltà non

TIPOLOGIE

DI

CONVERSAZIONE,

FIGURE

RETORICHE

E TIPI

DI

DISCORSO

357

è solo uno status sociale, è soprattutto territorio e dominio dell’anima. Ma proprio per questo lo scambio del ruolo qui non è possibile (come nella conversazione tra uguali). Perché la nobiltà d’animo non è l’unica marca che contraddistingue la nobiltà, nella cui definizione convergono anche ricchezza e sangue — la dimenticanza, in definitiva, che ogni nobiltà ha un’origine.

Apollo tra le muse: l'emblema della conversazione

Il convito emblematizza, pur sempre, la conversazione civile. Guazzo guarda ai conviti «non già sontuosi, ma facili, et familiari» (II, 165r), gli unici a garantire la «piacevolezza» e a fuggire gli «strepiti» e la «confusione». La suggestione classica è evidente: riecheggia Orazio, ma anche Petrarca che a Orazio si ispira. Ma riecheggiano anche Plutarco delle Questiones convivales, e Macrobio dei Saturnales,

Cicerone

e ovviamente

Platone.

Solo i conviti

«privati» risultano animati da «amore» e «quiete» e rivolti alla «consolatione dell'animo». Di «questa sorte di trattenimenti» è opportuno

ricercare

«leggi»

e «costumi».

L'impresa

si presenta

agevolata: «alcuni valorosi scrittori» da tempo non hanno mancato di occuparsene ed hanno sapientemente tracciato le «utili maniere appartenenti alla conversatione de’ conviti». Guazzo riassume gli elementi fondamentali di questa cartografia simposiaca. «’1 convito dee cominciare dalle Grazie, et finire nelle Muse, cioè che ‘1 numero de’ convitati non sia minore di tre, né maggiore di nove; che i convitati non mostrino né copia, né inopia di parole, perciocché si suol dire che l’eloquenza è da piazza, et ’l silenzio da camera» (Ibidem, 165). Questo genere di convito riguarda sempre una compagnia «studiosamente [...] invitata», alla stregua del prototipo di conversazione tra uguali, sul modello del Cortegiano, che Guazzo teatralizza nel libro IV, laddove Vespasiano si aggiunge al numero (nove) degli invitati, per tenere «il luogo di Apollo» e dare «forma, et leggi alla conversatione», sotto il cui «governo» la «perfetta compagnia» metterà in scena il proprio io e la propria ludicità. Tra parola e silenzio, i colloquianti metteranno in pratica tutte le regole della conversazione nello spazio ludico del «gioco piacevole» 9, rispondente all’antropologia del soggetto. Tutte le regole,

90 È questo il titolo che Ascanio de’ Mori conferisce alla sua prima opera, pubblicata a Mantova, presso Ruffinelli nel 1575 (ora a cura di M. G. Sanjust, Bulzoni, Roma 1988). Per la trattatistica sui giochi si vedano almeno: G.

358

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

fornite da Guazzo nei libri precedenti, trovano qui la loro ricapitolazione esemplare: il mosaico è ormai completato insieme alla polisemia del concetto di conversazione civile, concetto filosofico,

maieutico e socratico, degno della più alta filosofia morale ma al tempo stesso momento di decodificazione e interpretazione dei segni e significati di una società che parla, agisce per la capacità sua propria di offrire «piena contezza» argomentativa, per «cono-

scenza» ed «esperienza» forma di sanità individuale e sociale (possiede «piena contezza delle cose colui, che per scienza le intende, et per prova se ne assicura» (IV, 254v); «Per scienza, et per isperienza avete conseguito il frutto della conversatione» [Ibidem, 255r], la salute). Salute dell’individuo e salute della società nel suo

complesso. Come l’individuo, una società che parla bene, pensa bene, regola la propria parola e ne fa il cardine della sua eticità sostanziale. Il primo risultato della conversazione di primo grado, per così dire (il dialogo tra Annibale e il Cavaliere) è quello di aver condotto l’interlocutore (il Cavaliere) a comprendere appieno il percorso intellettuale, morale, retorico e semantico

che Annibale

andava di volta in volta predisponendo e da cui Guglielmo stesso non era rimasto del tutto estraneo. Il cammino retorico della persuasione era coincidente con la comprensione piena della ragione della filosofia. L’esorcizzazione della malinconia e degli «humori della solitudine» per questo dovrebbe porsi come irrevocabile. L’interlocutore ha appreso la strategia argomentativa, l’ha condivisa, ha partecipato alla sua elaborazione: il metodo che ha conquistato è divenuto presenza costantemente

suasoria per la pecu-

liarità delle ragioni di cui ora può vantare il possesso e che non esigono più la presenza fisica del suo elaboratore principale (Annibale), la cui medicina è arma di Achille. Da questo momento in poi il desiderio del risanato si rivolgerà alla conversazione con gli altri. La «conversazione

altrui»

(IV, 255v) si porrà

come

ristoro

quotidiano, evocazione del dialogo terapeutico con Annibale. Sorta di suo supplemento e sublimazione: «quantunque voleste non potrete, et quantunque poteste non vorrete fuggir la conversazione» (ivi). Il chiasmo semantizza una specie di malia del conversare — del «conoscere, et praticare» individui capaci di recare consola-

BargagLI, Dialogo de’ giochi, L. Bonetti, Siena 1572 (ora Accademia Senese degli Infiammati, Siena 1982, a cura di P. D’Incalci Ermini e intr. di R. Bruscagli) e S. BargagLI, / Trattenimenti, B. Giunti, Venezia 1587 (ora a cura di L.

Riccò per la casa ed. Salerno, Roma 1989).

TIPOLOGIE

DI

CONVERSAZIONE,

FIGURE

RETORICHE

E TIPI

DI

DISCORSO

359

zione — che si impadronisce di chi guardava alla solitudine come «prima forma del vivere» e cercava la consolazione nel ritiro dalla vita. Ormai quasi sazio della conversazione con Annibale, Guglielmo dichiara di non voler spendere più «parole». Ha chiesto molto, interrogato, obiettato. Oscillato tra malattia e salute. Ma ha avuto molte risposte: effluvi di parole, opportunamente sgelate, vivificatrici, persuasive, medicina per la sua anima. Ora è pronto per usa-

re il linguaggio del silenzio, il più sofisticato, quello che richiede maggior maturità interiore, cui non servono più parole domande risposte. Ormai egli è pronto a conversare «più con le orecchie, che con la lingua», pronto ad ascoltare, ormai definitivamente convinto della sua bontà, la descrizione del «convito» esemplare,

«forma della civil conversatione» sul modello dell’Architesto, per il luogo, il tempo, il numero delle persone partecipanti: conversazione tra «uguali» — tanto che Vespasiano prega la compagnia di considerarlo «homo privato, come gli altri» (Ibidem, 258r), pur sempre nel contesto di un teatro per nobili — intessuta di discorsi e giochi che «si fecero una notte del verno passato in casa della signora Caterina Sacca dal Ponte» (Ibidem, 256v). Condizione ideale se all'occorrenza converrà «gelare» le parole per qualche futuro interlocutore. Ma qui in realtà la comunicabilità è pienamente realizzata; la compagnia «studiosamente» selezionata, le parole sono nella condizione ideale — stavolta sì — di appartenere per metà a chi parla e per metà a chi ascolta, di rispettare l’alternanza dei locutori, il turno, la pertinenza, l’economicità, ecc. Si sceglie comunque una guida «prudente» che assicuri alla forma della conversazione di poter seguire sempre e comunque le proprie regole, ma soprattutto di conservarsi al massimo della sua esemplarità e finalità; e della sua «politicità». In luogo del «gioco del cortegiano», come avveniva in Castiglione, la nostra compagnia eleggerà, non a caso, il «gioco della solitudine» e il «gioco della conversatione» 9! — temi con ogni evidenza legati all'avvio stesso del libro, avvio biografico e fondativo del conclamato elogio guazziano delle forme della conversazione. Come nel Cortegiano la disposizione è in cerchio (Ibidem, 259v), esemplarità dell’assoluta uguaglianza dei partecipanti e dei loro scambi linguistici intesi a definire un ritratto della vita solitaria e della vita associata. Guazzo ripropone ora le tematiche inaugurali nella forma del gioco di corte e affida ad esso la solu-

9 Su questo aspetto cfr. E. SPECIALE, I! gioco della conversazione, in PLuRES, Passare il tempo, cit., pp. 706-719.

360

LA VIRTÙ

ELOQUENTE

zione definitiva, anche se su un terreno non del tutto neutro. Con

un sottile procedimento, gioco di tracce, risultato dei libri precedenti (la vita solitaria è ormai una forma della vita, non la forma della vita), Guazzo fa sì che il destino di ciò cheall’inizio si opponeva come topos alla conversazione (la vita solitaria) e quindi rivendicava a sé pari dignità rispetto alla sua opposizione, venga deciso («giocato» quasi) proprio dalla forma della conversazione, divenendo materia prescelta di un modello di conversazione esemplare. La conversazione ideale (la civil conversazione) pone a suo oggetto ludico proprio la solitudine che precedentemente le disputava il rango di forma, per eccellenza, della vita e sancisce così la propria superiorità.

L’imago nigra della solitudine, la malinconia, spaventa Guazzo. Anche ora nel cuore del simposio egli non può far a meno di ricordare che la malinconia «è contraria alla vita» (Ibidem, 284v). La «tristezza dell'animo» ha qualcosa «in comune con la pazzia»; il segreto per superarla è di accontentarsi della propria sorte: «Se tu vuoi vivere secondo natura, non sarai mai povero, se vuoi vive-

re secondo l’opinione, non sarai mai ricco. Insomma dal soverchio appetito nasce la malinconia» (Ibidem, 286r). Guazzo ha abbandonato la causa fisiologica della malattia, la teoria dell’atra bilis di cui si era occupato nell’avvio del libro primo, abbandona la teoria degli umori e si rivolge presuasivamente ad una ricerca psicologica delle cause che generano la patologia: una ricerca assillante e iterata «delle cose che mancano» procura ansietà (Ibidem, 285v); ciò che si è appena acquistato diviene motore e principio di nuovi desideri. La dialettica del desiderio non conosce «nessun termine», concresce, si autoalimenta, diventa malinconia», per il senso di privazione.

mostruosa,

«mortal

Qui Guazzo chiarisce che il meccanismo perverso si impadronisce non solo del solitario, ma di altre figure sociali e interessa,

quindi, anche la conversazione. Dalla malinconia non saranno mai esenti, avari, ambiziosi e oziosi: cuori mai tranquilli, divorati dal-

l’ansia di acquistare, guadagnare e mai perdere; cuori affetti da «mal sottile», «veleno segreto» che illusoriamente costruisce tantaliche salite, cui corrispondono in realtà altrettante discese; cuori che temono la morte nella prosperità per bramarla nelle avversità (Ibidem, 287v). Per tutti una terapia: «mortificare, et congelare in se stesso il mercurio, dico il tranquillar la [...] mente, et non

lasciarla scotere

da alcuna passione».

Controllo costruito

di se

stessi, autoanalisi, autodifesa. Guazzo fornisce ancora il suo decalogo in cui sociologia e psicologia si intrecciano sottilmente: «per

fuggire la malinconia, bisogna fuggire il soverchio appetito; per fuggire il soverchio appetito, bisogna fuggire la falsa comparatio-

TIPOLOGIE

DI

CONVERSAZIONE,

FIGURE

RETORICHE

E TIPI

DI

DISCORSO

361

ne; et per fuggire la falsa comparatione, bisogna contentarsi del suo grado, il che facendosi s’acquista l’allegrezza [...] et per conservarla non vi è il miglior mezo di questa virtuosa conversatione» (Ibidem, 286v). La virtuosa conversazione (il convito e la sua pragmatica) non solo ha esibito la vera forma della conversazione (Ibidem, 316r), «suggello dei vostri passati discorsi» (ivi), ha condotto il Cavaliere a spogliarsi dell’«oscuro manto della solitudine» e a «pigliar la candida veste della conversatione» (ivi): ad essere pronto per il banchetto delle Muse. Ma ora è Annibale a dichiarare che la partenza del Cavaliere lo lascerà «in solitudine». Guglielmo, tuttavia, ha premurosamente concepito una sorta di supplemento della sua presenza, consegnando questo ufficio alle lettere, comunque «carte messaggiere» 9, come le parole, «accomodate, significanti, et efficaci», che «vi porteranno avanti il ritratto del Cavalier Guazzo tutto vostro».

L’Ut pictura poesis realizzerà tramite la lettera una piena civil conversazione. Anzi, è arrivato il momento di riconoscere che questa conversazione tra Annibale e il Cavaliere è divenuta amicizia e donazione completa al punto da suggerire un presupposto classico, fatto proprio anche da Montaigne: l’amicizia è più forte quando l’amico è lontano. E la «lontananza» di Etienne de la Boétie è senza appello, ma per sempre tra Apollo e le Muse.

92 Su retorica e modelli rinvio

a PLuRES,

Quondam.

Le

«carte

di comunicazione

messaggiere»,

Bulzoni,

epistolare nel Cinquecento Roma

1981,

a cura

CIAO

ol

“ba

picaIOTRI AROMI i

eta OI hot “he

4e Sf. e

cttab'isdAt n_D ;t%cy

nun (9 Vifent (Re due Èpena

BIT TRABIIY

SUI RESTA

rolla PES ti ta

A

Vretio, ois ANESSO

Mag Èo ",

LUG , TEOpri

513633 n 5 haPe

ill OE

»

etedd96 "REGA Las cana trai rariced iuilris teBi, puettpi ocilsi và ANT gui Mannilyi

simpoall 75 %a #1 I

dipana Je He

ife la “Ant di e

nedr'etul balo” nSISSI

TÒna

bibig nr” iL (4 Fatal

109° fe

o Ud

SO 0h car 1

Ars

de OrteAviraz SU

di fr

VIDE, tec

sunto AR, "ii Sasa

Muitie

î

ortiLOR LR NSTÙ\ SITU

1101 nia”5)Riki Attimi “afgano 6h al

ja

i SD * "NASA

16 n

sei MiD}:ÈSR Ho Il

40

ope

i

\zera Deietà ltbiden 28

Wa

inista)

Haysene

it

‘ssrerto)

ulimenta I

FO

ce

{

dr

dit 1

i

>

i

|

ace A



principio diqu

cossprece

vento

vOSTY LITI tentò

INNALFIRONI,: simurtal

«PILOT

migocaulemo persertional impadiib! *

e vi nrisrene,

0%; ne

fon

altre finoesoriai «im

bp

balli malinconia pen sano

L: piuarp nni cranquilii, Aiicentti

® cai pesata, è setti att

bro

i

ce

u lareiie

cutrtare

free Priipralona fm gusti eliminate perg i Lia inepenc der tuimatio celle4 trilli Lao derm

ni

urio, letra

apia;

vamente

Mica,

tr

carino

Cautitim torsi

slocié

MISE

simattibenre

«L

dis dl aranqpulitao 26 L'auto,

2"

i

costruito dosi

ancore

(i sus de 19

st Intasocianoa »mttilmienze »

logos" ilUaco er: Pitti pro Pa Tapiro in ASSEDeco

pio,

Ei

spitpd

i

INDICI DEI NOMI

IMov faa 15tavi

i ni 0

FONTI, AUTORI E PERSONAGGI

Accetto, Torquato 344-348 Della diss., 344-348

Achille 45, 122, 159-161, 211, 241, 358 Adeodato 88 Adone 72, 209, 213, 217

Agostino di Ippona 88 Conf., 87-88 De Mag., 88 De Trin., 88

Agricola, Rudolph 57 De inv. dial., 57

Agrippa

von

Nettesheim,

Cornelius 46 Alberti, Leon Battista

Heinrich 30-31,

129,

Aquilio, Manio 284 Archelao 50 Archita 166, 221 Arianna 226 Aristone 272

Aristotele XXVII, XLVII, 10, 14-17, 23, 25-26, 40, 44-45, 56, 58, 63, 67, 78, 89-90, 92, 96, 104-105, 107-108, 116-117, 119, 129, 151, 180, 185iS 6121521700233 2549 522/68) 278, 310, 317-319, 323, 346 De anim., 15, 117, 216-217 De gener. et corr., 346 De interpr., 44, 125, 215

141-144, 257, 302-304, 306

De mem., 89, 90, 104, 106

De re aed., 30-31, 302-303

De part. anim., 45, 319 De sensu, 96

Lib. fam., 257 Mom.,

129

Prof. ab aer., 304, 306

Alberto Magno 105 Alciati, Andrea 110-111, 141, 340 Embl., 141, 340 Alcibiade 37-38, 204 Alcina 45 Aleandro, Girolamo 257 Amasi 326 Ammirato, JE]

Scipione

6, 113, 117, 119-

Rota, 6,113, 117, 119-122 Anassagora 50 Andromaca 34 Anfione 194 Angerona: v. Arpocrate Antifane 11 Antonio, Marco 284-285

Apelle 203, 207, 218, 254, 273, 315 Apollo XXIX, XLIV, 26, 37, 87, 357, 361 Apollonio di Tiana, 37, 46 Apuleio 296, 327

Eth. Eud., XXVII Eth. Nic., 16, 67, 234, 317, 323, 339 Gen. anim., 268 Hist. anim., 15, 45, 268

Metaph., 119 Poet., 24

Pol., 15-16, 233 Rhet., XLII, XLVII, 10, 35, 56, 92, 133, 151, 185-186, 192 P (72). Aristotele De col., 190

De phys., 190 Oecon., 185

Probl. XXX, 129 Rhet. Al., 14 Arpocrate 4, 333 Ate 33

Atlantide 22 Bacco 139 Bacon, Francis XXXVI-XLIV, 13, 22, 75, 102, 122-125, 287, 337-344

366

INDICI

DEI NOMI

Adv. (De aug.), XXXVI-XL,

XLII-

De reb. aegyp., 4 Descr. sil., 4,12, 86, 260-261 .

XLIV, 122, 124-125 COMExJe

Callières, Frangois de 297 Du bon..., 297 Des mots..., 297 Camaleonte 67 Camillo Delminio, Giulio 6-7, 20, 29, 31577 63) 46, 86:38, 10271067115; 115, 299-303, 306 De imit., 30, 86, 299, 301-302, 306 TAN de lBthPa 02960313: 306 Id. dell’eloq., 30, 303 Id. di Erm., 29, 303, 306 Top., 30, 299, 306

Comm. sol., XL De sap. vet., 13 Inst. mag., XLI, 123 New Atl., XLIV

Of Cer., XXXVII

Of Cust., XXXVIII Of Disc., XXXVI, XL, XLVI Of Disp., XXXVIII

Of Hon., XXXVIII Of Sim., 338, 340-341 Of Tr., 338 Short Not., XXXVI,

XLIV, 75

Balaam, 45

Carazan XXXI, 222

Baldo degli Ubaldi 233-244

Cardano, Girolamo 46

Barbaro, Daniele 6-7, 26-31, 165, 302 Comm. Vitr. de Arch., 26-31

Carete XLVII

Barbaro, Ermolao 33-34, 39, 65

26

Bargagli, Scipione 358 Bartolo da Sassoferrato 233

Carneade 326 Cartari, Vincenzo 4, 13-14, 21-23, 73

Imag., 13-14, 21-23, 73

Tract. de dign., 234 Barzizza, Gasparino 277 Beato 235-236

Casaubon, Isaac 119 Castalio, Sebastianus 21 Castiglione, Baldassar XV-XVI, XXV,

Bellerofonte 132 Bembo, Pietro 34, 297, 303

XXVII,

Ep. de imit., 34 Benvenga, Michele 333

COM

Boezio, Severino 24

Bonaventura da Bagnoreggio 292 Lign. vit., 292 Bonifacio 236 Botticelli, Sandro 81 Bracciolini, Poggio 233, 257, 277 De nob., 233 Brandioni, Giacomo 130, 132 Bruni, Leonardo 343 Bruno, Giordano 88, 113, 115 Bulwer, John 288 Chir., 288 Buonaccorso da Montemagno 233 Buondelmonti, Cristoforo de’ 12 Burnet, Thomas 49 Burton, Robert 129, 139, 319 Anat., 129, 139, 319

260-261

Apol., 11

4,

10,

XXXVI,

XL, 8, 10, 49, 76,

149, 156, 176, 182, 208-210, 232, 250, 271, 289, 294, 311, 314-315, 319, 344, 359

Berruguete, Pedro de 141 Biante di Priene 326 Bocchi, Achille 4 Bodin, Jean 356

Calandrino 150 Calcagnini, Celio

Carlo IX 127

Carlo Emanuele, granduca di Savoia

Dell’elog., 165

12,

86-87,

MXXXXIEEXI

AO

0120)

146-148, 154-157, 176, 205, 209202119223782 3:172328250082:94: 331581938 578359 Catuli 287 Catone 39, 68, 139, 180, 237, 333 Ceppo, Cesare 130 Cesare, Caio Giulio 285 Cesare, duca di Nemours

112 Cicerone XXVII, XXXVIII, XL-XLII, 14, 16-18, 22, 26, 30, 34, 37, 39-40, 46, 56, 58, 64, 66, 75, 78, 87, 97,99, 101, 105, 107-108, 122, 141, 143-145, ai 26, 222 DS DI 283-285, 287, 289, 290, 296, 303, 306-307, 318-319, 323, 329, 357 BIMS24285 De am., 323

De fin., XLII De inv., 14-15, 100, 105, 277, 284, 306 De off., 16, 26, 30, 75, 141, 143, 145, 171, 252-254, 268, 287, 290-291 Deroratil5 8101915 1N2:1608222) 2523 255972604, A2ITEM2 33252892 290, 296, 318-319

INDICI Orat., Resp., Somn. Tusc.

64, 97, 277, 296, 303 171 Scip., 222 disp., 101

DEI NOMI

Diogene 234, 243, 247, 271,310

Dodona 45 Dolce, Ludovico 112 Domenichi, Ludovico 83, 113-114, 260

Ps. Cicerone

Ducas, Demetrio 257

Rhet. ad Her., 7, 12, 96-100, 105106, 277, 285-286 Cipreste 304 Circe 140 Citolini, Alessandro 102-103, 122 Tip., 102-103, 122 Cleante 284 Clémangis, Nicolas Poillevillain de DITA Cleone XLI Clericus, Joannes 7 Colet, John 256 Colonna, Francesco 117 Hypn. Poliph., 117 Conti, Natale 4, 13, 23

Du Saix, Anthoyne 263

Mvyth., 13 Corbilelli, Angelo 257 Cosimo dei Medici 14 Cosimo I dei Medici, 112 Costo, Tomaso 333 Crasso, Lucio Licinio 285 Crasso, Marco Licinio 285

Eco XXVII

Elena 63 Enoch da Ascoli 277 Epicuro, Antonio 119-120 Eraclito XXXII, 38, 319, 346 Fram., 346 Erasmo da Rotterdam

XXXIX,

4, 6,

8-10, 22, 33-35, 37, 47-48, 73, 81, 235-236, 245, 256-259, 261, 263, 273, 277-278, 288, 294-295, 301, 306, 314-315, 318, 325-330, 332-333, 339, 346 Adag., 9-10, 37, 81, 306, 326-327 Cic., 34-35, 47-48, 301, 306-307 De civil., XX, 233, 257-259 De dupl. cop., 48, 81, 256, 306 De puer., 82, 256-259 Divers., 259

Lingua, 5-6, 8-9, 22, 33,73, 167, 245, 260-261, 273, 277-278, 294-295, 314316, 325-330, 346

Cressolles, Louis de 288 Vac. aut., 288 Crisippo, XLI, 268, 284, 326 Curione, Celio Agostino 12, 32-33, 73

Hier., 32-33 Curione, Celio Secondo, 32 Dante 205 Davanzati, Bartolomeo Decimo 98

367

150

Dedalo 226 Degli Alessandri, Alessandro 197 Della Casa, Giovanni XV, 19, 180, 250, 289, 291-292, 294-295, 317, 321, 338 Galat5t DGXITME 1500250, 14289 291-295, 317, 321, 338 Prose, 19

Res et ver., 235-236 Ercole 10 (Ercole Gallico), 87, 224 Erinni, 33 Eris, 33 Ermete Trismegisto, 13, 15, 46, 116117,119, 186 Ascl., 13-14, 119 Corpus Herm., 12-15, 119 Kore Kosmu, 13 Pim., 13-15, 47

Ermogene 56 Eschilo 22 Prom. 22 Esiodo 22, 86

Theog., 106 Esopo 11

Della Porta, Giovan Battista 35, 88

Euripide 159

Ars rem., 89

Phys., 89, 106 Della Rovere, Girolamo 295 Della Valle, Antonio 119 Democrito 129, 319 Demostene 46, 286 Des Périers, Bonaventure, 242

Cymb. mun., 242 Dinouart,

Joseph

Antoine

abbé de 261 Art de se taire, 261

Toussaint,

Falereo, Demetrio 285 Faret, Nicolas 297 L’homme, 297 Farnese, Alessandro card. 297

Fasanini, Filippo 12 Federico da Montefeltro 141 Fedro 64 Ficino, Marsilio,

130, 240

14, 67, 83, 106, 119,

368

INDICI DEI NOMI

Cons. contr. pest., 240 De vita, 106, 129-130 Figliuccio da Siena, padre 13 Filelfo, Francesco 14-15, 91-92, 285 In Rhet. ad Her. comm., 285

Ep., 15, 91-92

Filiberto I, duca di Savoia 15, 91

Filippo d'Austria, 6 Fludd, Robert 46 Fontanini, Giusto 24, 289

Fortuna Primigenia 4 Fournival, Richard de 12 Frascati, Gabriello 77-78, 209, 222 Galeno, 129, 316

Quod opt. med., 129 Ganimede 259 Gesù Cristo 242, 329, 330 Giacobbe 145 Giacomo 261, 329

Ep., 261, 329

Giamblico 119 Giambullari, Bernardo

150

Giano XLIII, 135, 137, 199 Giove 22, 51, 60-61, 130, 145, 205, 217

Giovenale 319

Dial. impr., 112-116 AES

Giraldi Cinthio, Giovan Battista 73-74 L’uom. di cor., 74 Giraldi, Lilio Gregorio 4, 21, 73, 326 De deis, 21, 73, 326

Glauco 6, 23, 121 Glaucone 39 Gnatone 275, 334

Goethe, Johann Wolfgang XXXII Das Màrchen, XXXII

Gonzaga, Cesare 219 Gonzaga, Ludovico, duca 77,83, 94, 127 Gonzaga, Vespasiano PI SIBSIMSO.

Graciàn,

Baltasar

di Nevers

3, 26, 30, 77-78,

8,

280-281,

314,

336-337, 340 Héroe, 336, 341

Oraculo, 340-341

8, 280-281,

19, 26-27, 72-79, 82-86, 94, 107-109,

131-135, 138-141, 146-148, 151-155, 157-158, 160-171, 175-176, 184-185, 192-194, 196-199, 203, 206-209, 211-

Giovio, Paolo 109, 111-116 ras,

206, 211, 223-228, 230-231, 233-234, 238-239, 241-243, 260, 277-282, 2872887 8296,299-800, 8811, S16,83237 332, 334, 349, 351, 353-354, 358359, 361. Guazzo, Stefano XV-XVI, XIX. XXV, XXVII-XIX, XXIV-XXXVI, XXXVIII, XL, XLII, 3-4, 5-6, 16, l'8 2082627, 02953032 576.165) 71-74, 76-79, 82-89, 93-94, 102, 104, 106-115, 125, 128, 130-132, 134, 136, 138-141, 144-151, 154, 156=157/# 159-161) (165-170) 21735 176, 179, 182, 184-186, 192-196, 198-199, 203, 205-209, 211, 216-229, 231-235, 237-239; 242; 244-247, 250-251, 254, 259, 264, 266-268 08 021182: 2:7 AM) 278-279, 282-283, 285-286, 288-289, 291, 293-295, 297-299, 301-305, 308-309, 31131397 #3 10088813; 3203224033033 410836-337401339! 342-344, 346, 349-354, 356-361 CCRXVXVIERISSIDST MON XXIX-XXXV, XXXVII, 3, 6, 16-17,

314, 336-337,

Discreto, 280

Grasso legnaiuolo: v. Matteo Grazie XXIX, XXXII, 81, 273, 357 Guazza, Francesca 128 Guazzo, Antonio 93

212, 217-220, 222-224, 226-235, 237-

239, 242-247, 250, 260-262, 266-268, 273-274, 276-282, 285-289, 292-293, 295-298, 300, 307-309, 311, 313, 3i5=3117A73:103 22882414083 15334! 336-337, 342, 344, 346, 349-361 DP, 4, 20, 72, 82-85, 87,94, 103, 106114, 128, 145, 147, 159, 203-204, 262-263, 266, 288, 313-314, 319-320 L, 77, 94-95, 130-132 Guicciardino, Luigi 197

Hegel, Georg Wilhelm XLV-XLVII, 191-192 Aest., 191

Vorl. Gesch. Phil., XLV-XLVII Henri de Bourgogne 259 Hermes: v. Mercurio Horapollo 12, 110, 114, 122

Hier., 12,114 Horo Apolline: v. Horapollo Horo Niliaco: v. Horapollo Hume, David XVI

Guazzo, Guglielmo (il Cavaliere) XXI, 127-128, 130, 133-134, 139-140, 145146, 148-164, 168-169, 195-196, 205-

Friedrich

Ificrate XLVII Ignazio di Loyola 83

INDICI DEI NOMI Ippocrate 319 Ps. Ippocrate EPERDI1O9 Isocrate 8, 18, 23-25, 255

369

Magnocavalli,

Annibale XXI, 6, 83, 109, 128, 132-134, 140-141, 145-146, 152-163, 168-169, 195-196, 205-206, 211, 224-229, 231-233, 237-239, 241243, 260, 278-282, 285, 288, 296, 300, 311-312, 322-323, 334-335, 349352, 358-359, 361 Magnocavalli, Ottavio 83

Nicocles, 8, 23-24

Ant., 24 Joabin XLV

Manetti, Antonio 150 Kant,

Immanuel

XVI,

XXII-XXXVI,

5, 75-76, 158, 164, 209, 219-222 Anthr., XXIII, XXV-XXXII, XXXVI, XLI, 5, 76 Beobach., XXXI-XXXIII, 221-222 K. prakt. Vern., 219-220 K. Urt., XXXIV-XXXV, 164, 219DID) Metaph., XXIV, 75-76 Proleg., 220 Reflex., 164

Vorl. Eth., XXVI La Boétie, Etienne de 361 Lamy, Bernard 223, 282 Rhét., 223, 282 Landino, Cristoforo 113, 141-142 Disp. Cam., 141-143 Landriani, Gerardo 277 Latini, Brunetto 15 Laktretss Latona 86 Lattanzio 38, 171

Div. Inst., 171 Lauterbach, Antonio 81 Lavater, Johann Caspar 36 Le Brun, Charles 16

Leopardi, Giacomo XV-XIX Discorso, XVI-XVIII

Lia 142, 145 Lichtenberg, Georg Christoph 36 Licurgo 330 Lisia 272 Lomazzo, Gian Paolo 6-7, 26

Id. del Temp., 6-7 Mratt:0,20

Lorenzo il Magnifico 141-144 Luciano di Samosata

10, 319, 329

Dial., 319

Lucrezio 39, 339 Ludovico Maria Sforza, detto il Moro 285 Lutero, Martin 81-82

Macrobio 357 Maggi, Vincenzo 318 De ridic., 318-319

Maranta, Bartolomeo

119, 122

Maria 142-144

Marliani, Giovan Battista 94 Marsia 37

Marta 142-144 Massa, Antonio Matteo 150-151

159, 263

Medici, Francesco 24 Melanzio 271 Mercurio XLIII, 9-11, 13, 19-23, 32-34, 73, 86-87, 194, 273 Mercurio Trismegisto: v. Ermete Trismegisto Mnemosine

71, 87, 106-107

Momo 333, 340 Montaigne, Michel XXXIV,

XXVII,

XXXIX-XL,

XIX,

XXI-

XXXV-XXXVI,

21, 34, 38, 82, 84-85,

0210421292132

173, DD 281, 339,

de

157,2eL60/21687

196, 204-205, 209-210, 216-217, 2253, DI QI, DA VIA EMI), 286, 288, 291-293, 299, 338344, 361

Essais, XXII-XXIII, XXVI, 21, 38, 1321 5728195820 4282;10002212.57

286, 288, 291, 311, 338, 344 Mori, Ascanio de’ 357 Moro, Tommaso 183 Muse XXIX, XLIV, 37-38, 71, 82, 87, 1064121512222 1692554885783 Narciso XXVII

Nietzsche, Friedrich Wilhelm XXXVI Niobe 34 Nosopomo 307 Omero 73, 101, 234, 261, 271

Od., 234, 346 Orapollo: v. Horapollo Orazio 22, 134-135, 319, 357 Carm., 22

Od., 22 Sat., 134-135 Orfeo 109, 194 Origene 327 Ortensio 296 Ovidio 122, 137 Met., 122

370

INDICI

DEI NOMI

Paceus, Richardus 260 Pallade 304 Pallavicino, Ferrante 284 Ret. putt., 284 Palmieri, Matteo 19, 171-175, 197-203, 274, 283, 290-291 Vit. civ., 19, 171-175, 197-203, 275, 283, 291

Pandolfini, Agnolo 197, 304-305 Pandora 325-327 Panfilo 175 Paolo 33 Francesco

40,

42-50,

53-66,

303 Am. fil., 54 Ret., 40-52, 55-66 Pasquier, Estienne 263 Peretto: v. Pomponazzi Pericle 38 Peschiera, Claudio 86

Enn., 114

De vit. sol., 134-138 Fam., 67-68, 306 Post. a Quint., 67-70 Rime, 195

Alessandro

19,

157,

166-167, 278, 289, 312, 317-318 Inst* «Mor. 317-318

19,

1571661314,

Piccolomini, Enea Silvio 32, 145, 167,

257, 263, 268, 288-289, 307 De lib. ed., 32, 145, 164, 263, 268, 288 Pico della Mirandola, Giovanni XLI, 33-40, 65-67, 83, 113, 119 De hom. dig., 34, 67,119 Ep., 33-40 Pico della Mirandola, Giovan Francesco 21, 34, 303 Ep. de Imit., 34, 306

Pietro da Ravenna 88 Pilato, 338

Pindaro 194 Pitagora 35, 109, 230-231, 243, 330 Pittaco 326

Platone XL, 11, 13, 39, 48, 50, 63-64, TE SIDE NO OSSEO IR75 SO. 193, 204, 209-216, 237, 264, 266, 268, 323, 326, 330, 339, 357 Charm., 263 Crat339839 Criti., 106 EPAVIIRZAZZABNZIE

Euthyd., 106

Symp., 38, 212, 323 Theaet., 106-107, 119, 256 Tim., 106 Plauto 348 Plinio il Vecchio 4, 122 Hist. nat., 4 Plotino 114

Petrarca, Francesco 66-70, 133-135, 137-138, *160}#195} 277) 3067357

Piccolomini,

TyST4323 Phaed., 50 Phaedr., XLI, 13, 95, 193, 209-213, 215-217, 325 Protag., 120, 209-210, 266 Resp., 6, 87

Pan 32-33, 120

Patrizi,

Gorg., XL, 104, 290 Lach., 339 leg P2N59323

Plutarco 4-6, 8, 10-12, 85, 110} 159, 257-258, 260, 264-266, 268-274, 288, 326, 329, 338-339 De ad. et am., 158 De am. mult., 323 De aud., 159, 251, 260, 269-273, 326 De cap. ex in. ut., 263 De garr., 5, 10, 260, 264-266, 326 De Is. et Os.,4

De -nob., 233 De prof., 11 Quest. conv., 271, 357

Sep. sap. conv., 271 P v . Plutarco De lib. ed., 8, 158, 257-258, 263 Pro nob., 233 Plutone 51 Poillevillain N. de: v. Clémangis Poliziano, Agnolo XLI, 4, 70-71, 113, 343 Orat., 71 Pomponazzi, Pietro 67, 310 Pontano, Giovanni 15-16 De serm., 15-16 Possevino, Antonio 32, 34

Biblioth. selec., 32 Possevino, Giovan Battista 312

Dell’honor., 312 Proclo 47 Prometeo 22-23, 60 Pronea 304

Properzio 274 Proteo 67, 319 Protogene 315 Psiche 327 Pugiella, Francesco 107

INDICI DEI NOMI Quintiliano XXVII, 22, 56, 67-70, 97, 101, 151, 2160 255,0 277;x281-282; 284, 287-289, 295-296 Inst. orat., 68-69, 97, 101, 151, 216, 255, 257, 271, 281-282 284x287; 289-290, 295-296 Rachele 142, 145 Ramée, Pierre de la 41, 63 Ramo, Pietro: v. Ramée Pierre de la

Reusner, Elias 3 Richelieu, Armand-Jean cardinal de XXII

de

Plessis,

Ripa, Cesare 73, 109, 183-192, 205

Icon., 73, 109, 183-191, 205 Rota, Berardino, 6, 118, 120 Rousseau,

Jean-Jacques

XXXIX,

170,

243, 281, 293 Disc. sur les scien., 170, 243 Préf. Narc., 243 Ruscelli, Girolamo 109, 111-113, 116-117 Disc. inv. impr., 113, 116-117

Sacca, Caterina 359 Sacchetti, Franco 197

371

Stobeo 256 Sent., 256

Strozzi, Giulio 42-44

Szydlowiecki, Krzisztof 9 Tacito 277 Tasso, Torquato 129, 132

Telefo 122, 159 Telesio 318 Temistio 40

Temistocle 87 Terenzio 175-176 And., 176

Tesauro, Emanuele 166, 173, 176-183, 348 Fil. Mor., 176-183, 348, 349 Theuth: v. Thoth Thoth 13, 95, 210

Tianeo mago: v. Apollonio di Tiana Tiraqueaux, André (Tiraquello) 233 Comm. de nob., 233 Tolomeo 273 Tomitano, Bernardino 19, 67 Ragion., 19 Tommaso d'Aquino 104-105, 108 Comm.

(De sen.; De mem.), 105

Sum. th., 104

Salmaccia, Alessandro 131 Salomone 8, 64 Salutati, Coluccio 343 Samsa, Gregor 158 Sancho Panza 191

Tory, Geofroy 10 Cham. Fleur., 10 Toscanella, Orazio 57 Trasone 236

Trebazio, Bernardino 12

Sangiorgio, Lelia 131

Trevi, Matteo 91-92

Saturno 51, 128-130, 145, 194, 199

Scaligero, Giulio Cesare XLI Scamozzi, Vincenzo 76 Seneca 24, 185, 237, 243, 319

De ben., 24 Ep., 185 Serlio, Sebastiano 31, USHi 305-306 Reg., 76-17 Sigalione: v. Arpocrate Simonide di Ceo 87, 97, 101, 216 Sione 35 Smith, Adam Socrate

Ulisse 247, 286, 344, 346 Valeriano,

SI,

169

XXXVII,

XLI,

XLVI-XLVII,

35-36, 38-39, 78, 109, 120, 194, 204, 206, 209-211, 222, 237, 264, 266, 268, 290, 314, 318, 320, 330 Solone 11, 330 Sorel, Charles 249

Bibl. Speroni, Apol. Dial. Dial.

frane., 249 Sperone 310 dei dial., 309-310 delle ling., 309-310 della ret., 310

Pierio

4, 10, 12-14,

19-21,

32-33, 73, 79, 86-87, 110, 184-185, 280, 288. Hier., 10, 12-14, 19-21, 32-34, 73, 79, 87, 184-185, 280, 288 Valla, Lorenzo 8, 34, 64, 113, 332-333, 343 De ver. bon., 220 Elegan., 8, 64 Varchi, Benedetto 19, 24-25, 319 Erc., 19, 24-25 Vasari, Giorgio 314-315 Vasolli, Pietro 12 Venere 139 Veneto, Francesco Giorgio 83 Veronese, Guarino 257 Verre, Gaio 102 Vida, Gerolamo 160

Virgilio 21

372.

INDICI DEI NOMI

Vitruvio 6-7, 20, 26-31, 302, 304 De Archit., 26-30 Vittorino da Feltre 257 Voltaire (Arouet Frangois Marie) XVI Vulcano 60, 340

Zaratino Castellini, Giovanni 73 Zeno, Apostolo 24, 289 Zenone di Cizio XLII Zeusi 63, 306 Zoroastro 47»

LETTERATURA

Accame Lancillotta, Maria 67-68 Albert, Mechtild 291 Amoroso, Leonardo 219

CRITICA

Bo, Domenico

22

Angelino, Carlo 129

Bobbio, Norberto 5 Boccassini, Daniela 21 Bodei, Remo 129

Antonaci, Antonio 40

Boffito, Giuseppe 4

Apel, Karl Otto 5, 219, 310, 343 Arbizzoni, Guido 111 Arendt, Hannah 164, 221-222

Bologna, Corrado 83, 242 Bolzoni, Lina 5, 29, 40, 57, 83, 88, 303

Bolland, Gerardus J.P.J. XLV

Aricò, Denise 147, 176

Bonfatti, Emilio XV, XXIX, 168, 230 Bonneau, Alcide 258 Bouillier, Victor XXIV

Ariès, Philippe 140 Arnheim, Rudolf 110 Artese, Luciano 40 Assunto, Rosario XXXI Auernheimer, Richard 223 Austin, John L. 251

Bosco, Domenico

Bottari, Giovanni 24

Bottiroli, Giovanni 283 Bourciez, Edouard XX Bourdieu, Pierre 294

Braghina, Lydia M. 198 Branca, Vittore 5 Breen, Quirinus 4

Brega, Gian Piero 235

Barthes, Roland 83, 320

Brocher, Henri XX

Bartocci, Giovanni 246 Bataillon, Marcel 330 Leonid

M.

72,

127-128,

280 Battaglia, Salvatore 210 Battistini, Andrea 74 Beetz, Manfred XVI Bellonci, Goffredo 344-345 Belloni, Gino 19 Benveniste, Emile XX Berchem, Theodor 10 Bernardakis, Gregorius N. 233

Bertelli, Sergio XIX-XXI Berthet, Frédéric 320 Besta, Enrico 234

Beugnot, Bernard 251 Biondi, Albano 106 Blunt, Anthony 314-315

336

Bosco, Umberto 67

Bachtin, Michail 319 Badaloni, Nicola 88 Balavoine, Claudie 88 Baldini, Massimo 242 Barbarisi, Gennaro 291

Batkin,

147-148,

161,

Bruehl, Clemens 7 Bruscagli, Riccardo 358

Bufano, Antonietta 134 Burke, Peter 149 Bury, Emmanuel

8

Cabria, Marina 129 Caiazza, Antonio 22, 88 Calvi, Giulia XXI

Cancelli, Filippo 96 Cantimori, Delio 82 Caramella, Santino 344 Carbone, Mauro 242 Cardini, Roberto 304 Carena, Carlo 88 Carnazzi, Giulio 210 Carpo, Mario 29-30, 299, 304-307

374

INDICI

DEI NOMI

Carrington, Laurel 330 Carroy, Jacqueline 251 Casella, Maria Teresa 117

Duchemin, Jacqueline 22

Cassirer, Ernst 5, 13, 110 Cave, Terence 307 Céard, Jean 140

Eco, Umberto 36 Elias, Norbert XIX, XXI, 258

Celse-Blanc, Mireille 317

Fantham, Elaine 7, 330 Faranda, Rino 68 Fasolo, Furio 4 Febvre, Lucien XX

Ducrot, Oswald 251

Cerri, Giovanni 210, 212, 214-215

Chartier, Roger 76 Chastel, André 31 Chomarat, Jacques 256 Cian, Vittorio 210

Ferrari, Jean XXIII

Ciapponi, Lucia 107 Ciliberto, Michele 88 Cione, Edmondo 302-303 Cioranescu, Alexandre 336 Clements, Robert J. 112 Cochetti, Maria 12 Coci, Laura 284

Codignola, Ernesto XLV Cohen, Gustave 10 Colamarino, Tito 22

Colli, Giorgio XXXVI Compagnon, Antoine XXII, 306 Conte, Gian Biagio 4 Conso, Rino 129 Corsi, Pietro 83, 88

Cosnier, Jacques 321 Jean-Jacques

167, 247, 261,

267, 322 Crane, Thomas F. XX Craveri, Benedetta XXII Crifò, Giuliano XIX, XX XXII,

Fiorato, Adeline 76, 230, 353 Finzi, Claudio 171, 175 Firpo, Luigi 3, 14-15, 285 Fornaca, Remo 256

Fracassetti, Giuseppe 67 Franklin, Alfred XX Fubini, Mario 233 Fumaroli, Marc 5, 16-18, 34, 186, 252, 255-256, 276-277, 288

Garavini, Fausta XXII

Gareffi, Andrea 111, 295 Garin, Eugenio 5, 8, 10, 14-15, 18, 24, 32-34, 46, 49, 63, 65-67,

Critchley, Macdonald 288 Croce, Benedetto 344

Festugière, André-Jean 13-14 Filoramo, Giovanni 14

Gadamer, Hans Georg XVI, 211 Gaiser, Konrad 211 Gambaro, Angiolo 34, 256

Cordeschi, Sandro 319

Courtine,

Ferrero, Leonardo 16 Ferroni, Giulio 128

10, 111, 336,

Garin, Maria 170

Garofalo, Ivan 129 Garroni, Emilio 219

D'Angelo, Paolo 151, 192 Damisch, Hubert 28, 31, 36 De Certeau, Michel 322

Gasparetti, Antonio 8, 336 Genette, Gérard 292 Gentile, Giovanni 88

Dalla Vigna, Pierre 13

Gentile, Sebastiano 14 Gerl, Barbara 220 Getrevi, Paolo 36, 89

De Mas, Enrico XXXVI, Dens, Jean Pierre 297

6

De Rosa, Guido 88

Derrida, Jacques 210 Detienne, Marcel 22, 211 Di Benedetto, Arnaldo 19, 291 Di Grado, Antonio 129

D’Incalci Ermini, Patrizia 358

Dioguardi, Gianfranco 336 Dionisotti, Carlo 246 Doglio, Maria Luisa 112, 115 Donati, Corrado 233 Dubois, Claude-Gilbert 5, 292

Duby, Georges 244

71-72,

88,

116, 127, 129, 141-142, 150, 183, 11927 2337 256-257, 602.6108280) 351

Giacalone, Giuseppe 258 Giannantoni, Gabriele 266 Giehlow, Karl 12 Gilson, Etienne 17-18 Ginzburg, Carlo 4 Glockner, Hermann XLV Gombrich, Ernst 110, 191-192 Gordon, Donald J. 183 Grassi, Ernesto 5, 35

Grayson, Cecil 304 Grice, Herbert Paul 250-251, 296 Grimal, Pierre 134

INDICI DEI NOMI Guaita, Ovidio 3, 76

Gualdo Rosa, Lucia 8, 23 Guerra, Augusto XXIII, XXVI

Guidi, José 267 Guillaume, Jean 31 Guiton, Jean 11 Gullini, Giorgio 4 Gurisatti, Giovanni 36

XXXVI, 267, 297 Maier, Bruno 210 Malingrey, Anne-Marie

Halkin, Léon E. 7

Halliday, Michael 251 Hampshire Nurse, P.: v. Nurse Havelock, Eric A. 209 Haroche, Claudine 167, 247, 261, 267,

320, 322 Heller, Agnes 76 Henn-Schmélders, Claudia 294 Hersant, Yves 129

Hogrebe, Wolfram 219 Ijsewijn, Jozef 330 Innocenti, Giancarlo 111

Isnardi Parente, Margherita 211 Jacquiot, Josèphe 346

18

Manganaro, Paolo XXIV Mann-Phillips, Margaret 256, 330 Marazzini, Claudio 308 Marcucci, Silvestro 219 Margolin, Jean-Claude

76,

82,

256, 258, 346 Marzi, Mario 8 Massaut, Jean-Pierre 7, 330 Mazzacurati, Giancarlo 307

Mazzoni, Stefano 3, 76 Mayer, Claude Albert 297 Ménager, Daniel 193 Menzer, Paul XXVI Merker, Nicolao XXIV, 191 Merleau-Ponty, Maurice 242 Michel, Alain 112, 277

Michelet, Karl Ludwig XLV Miedema, Hessel 111 Modica, Massimo 219 Moncagatta, Maurizio XV Mommsen, Katharina XXXII

Klein, Robert 6-7, 110, 114 Klibanski, Raymond 128 Konstantinovic, Isabelle 257 Kowalewski, Arnold XXIII

Montale, Eugenio 337 Montandon, Alain XIX Montani, Pietro 219 Montinari, Mazzino XXXVI

Koyré, Alexandre 214

Moraglia, Giampaolo 240

Kramer, Hans Joachim 212 Kristeller, Paul Oskar 14, 24 Kristeva, Julia 129, 149 Kruft, Hanno-Walter 3

Moretti, Walter 74 Morresi, Manuela 7 Mozzarelli, Cesare 169 Muccillo, Maria 40 Mihlmann, Heiner 30-31 Musacchio, Enrico 240, 319

Lampeur, Alain 283 Laterza, Luigi 344 Lecog, Anne-Marie 288

Negri, Antonio XIX

Lee, Rensselaer W. 28

Nelson, John Charles 54 Nelson, Stanislaus Joel 32 Niccoli, Sandra 14

Jacques XIX

Leicht, Pier Silverio 234

Lepschy, Giulio C. 44 Lewis, Arthur O. 40 Lievsay, John Leon

XX-XXI,

Meylan, Henry 256

Javitch, Daniel 146 Jeanneret, Michel 11 Jehasse, Jean 129 Jousse, Marcel 288 Jung, Marc-René 10

Le Goff,

Lugli, Giuseppe 4 Lupi, Sergio 15 Luporini, Cesare XIX Lynch, James B. jr. 7 Macchia, Giovanni 337 Magendie, Maurice XV,

Hagège, Claude 17

375

Nigro, Radiana 250 XV,

XXXVII,

111, 147, 230 Locatelli, Giuseppe Giuliano 96 Lohe, Peter 141

Longo, Nicola 210 Losurdo, Domenico XXIV Luhmann, Niklas XX

Nigro, Salvatore S. 4, 333, 344

Nock, Arthur Darby 13 Nora, Pierre 16

Norcio, Giuseppe 15 Nurse, Peter Hampshire 242

Olbrechts-Tyteca, Lucie 5

140,

376

INDICI

DEI NOMI Roccatagliata, Giuseppe 129

Olivato, Loredana 29 Ong, Walter J. 209

Rodler, Lucia 36

Ossola, Carlo XVI, 6-7, 157, 230

Romagnoli, Daniela XIX

Ostrowski-Sachs, Margret 22

Rosci, Marco 7

Panofski, Dora 326-327 Panofski, Erwin 128, 184, 302-303, 326-327 Papasogli, Benedetta 312, 337

Parigi, Silvia 46 Parret, Herman 219 Patrizi, Giorgio XVI,

Rossi, Paolo XXXVII, XLIV, 5, 22, 46, 88, 91, 105, 113, 122, 125, 170 Rossi, Pietro 88 Rossi, Vittorio 67 Rousseau, Hervé 22

Rovatti, Pier Aldo 242

Ryle, Gilbert 214 133,

230,

342-

343 Pecchiura, Piero 68 Pellegrini, Giuliano 110 Pera, Marcello 283 Perelman, Chaîm 5 Perini, Leandro 82 Perniola, Mario 322 Pettine, Emidio 5 Piana, Ernesto 4

Pigeaud, Jackie 129 Pinelli, Antonio 315 Pirillo, Nestore XXIV, XXXVI, 75 Pisani, Giuliano 5, 106, 257, 260, 263, 268 Pizzolato, Luigi 324 Placanica, Augusto XV

Plaisance, Michel 307 Pons, Alain 8, 230

Portoghesi, Paolo 30 Pozzi, Giovanni 117, 310 Praz, Mario 110, 113-114 Presa, Giovanni 308 Prieto Mus .JN25i

Prosperi, Adriano XVI Puliafito, Anna Laura 40

Pupi, Angela XXXI Puppini, Patrizia 271

Ryle, Stephan F. 330

Sabbadini, Remigio 24, 277

Saccaro del Buffa, Giuseppa 40 Saccone, Eduardo XVI Salvaneschi, Enrica 129 Salvucci, Pasquale XXV, 26, 169, 219 Sanna, Giovanni XLV

Sanjust, Maria Giovanna 357 Santangelo, Giorgio 34 Santi, Giorgio 88 Saulnier, Verdun-Léon 242 Savarese, Gennaro Saxl, Fritz 128

111

Sbisà, Marina 251 Sbordone, Francesco 12

Scaravelli, Luigi 219 Scarpa, Emanuela 291 Scarpi, Paolo 13 Schalk, Fritz 7, 329, 330 Schaller, Jean-Pierre 129 Schmidt, Anne-Marie 117 Screech, Michael A. 242 Searle, John R. 251 Seebacher, Jacques XXII Segre, Cesare 15, 129, 150

Seidel Menchi, Silvana 37 Semerari, Furio 336

Raggio, Olga 22

Semprini, Giovanni 33 Serrai, Alfredo 12-14, 93 Seubert, Sabine 251 Severino, Emanuele XIX Sevry, Stéphane 258

Raimondi, Ezio 74 Reale, Giovanni 212

Seznec, Jean 23 Shea, William R. 283

Rebhorn, Waine, A. 256

Sichirollo, Livio XIX, 211 Simon, Robert 139

Quondam,

Amedeo

XVI, 78, 111, 207,

210, 220, 236, 279

Reedijk, Cornelis 7 Reggio, Giovanni 308 Reichenberger, Kurt 10 Reicke, Rudolph XXIV Riccò, Laura 358

Ricoeur, Paul 219 Ripanti, Graziano 88

Risset, Jacqueline 337 Risicato, Antonio

15

Simone, Franco 5

Sini, Carlo 88, 210, 242 Sircana, Francesco 211, 216

Soletti, Elisabetta 11 Speciale, Emilio 359 Starke, Fr. Ch. (pseudonimo di Johann Adam Bergk) XXIII Starobinski, Jean XX, XLVII, XLIX,

INDICI DEI NOMI 12, 129, 134-135, 139, 319, 335-336 Stati, Sorin 128 Strosetzski, Christoph 251 Sturlese, Rita 88 Szlezàk, Thomas A. 210

157,

159,

Vattimo, Gianni XVI, 242 Veca, Salvatore XV Vegetti, Venditti, Venturi, Venturi Verdino,

Tafuri, Manfredo 7, 26 Tanfani, Gustavo 129 Tassin, Etienne 221-222 Tateo, Francesco 16, 128, a

Mario 128, 212 Pasquale 219 Gianni 169 Ferriolo, Massimo 211 Stefano 129

Vernant, Jean-Pierre 22, 87 Verra, Valerio XXXIV Villani, Tiziana 13 Villey, Pierre XXXVI, 157

Tellini Perina, Chiara 3 Tetel, Marcel 147

Vitale, Maurizio 19 Viti, Paolo 14

Todorov, Tzvetan 35, 88, 276 Toffanin, Giuseppe 246, 310

Tognon, Giuseppe 33 Toldo, Pietro 297 Tondelli, Carlo 13 Tordini Portogalli, Bianca Maria 14 Traverso Orlandini, Edilia 256 Trinquet, Roger 256 Trione, Aldo 22 Trousson, Raymond 22

Tulli, Mauro 211

Warda, Arthur XXIV Waszink, Jan H. 7, 327, 329-330 Weil, Eric 219 Weinberg, Bernard 165 Weise, Georg 314 Wind, Edgar 5, 110 Wittkower, Margot 128 Wittkower, Rudolf 13, 128

Yates, Francis 83, 88, 99, 102, 105, 125

Untersteiner, Mario 211

Vaccaro, Nicola 191 Valesio, Paolo 242 Van Delft, Louis 312 Vasoli, Cesare 5, 7, 31, 5759832741

377

40-42,

53,

Zambon, Francesco 12 Zanini, Adelino 169 Zappella, Giuseppina 116 Zorzetti, Nevio 16 Zucal, Silvano 242 Zumthor, Paul 93

vi

Pe

Enecnet II “DAI

eV

er î MM

innsio omitteV

RARI:

ba

VX marsvisà .&09V pe

sd È

È LISH GixN0,in C£ognV la PIC sleepi itibos Vv nie Marcnl®£ se

Mi csrieagti

Col inni juustosY

polotrnist insasV

95 pe

CupnibaoV

Ca Le svasi nssl inentsV UT Krobrsbe 7 emo d Li panixli inelliV vel

VUAKX risi, "etti

vat! ofsirueli

alasi/

dI

PRLMSERSE TH aa AninzaW °

CIC stili dio

ez) baertsii prodaistW”

PIE gione) d2isd

OTi-2 nah «brdW Rai dograli cwodiiW

EGUZI Hola ii

si

;

-

a

to REA, “ord

Rossi, PietraBE

Rassi, Vittorio Ronasesa: Hervé Rovutti, Piet A Rie,

Ali

È

;

FEs

rmvotinigi

Pandev

Lia=

D/ $

29sd [Ran nio bet

ti

hi

Penrta È resché,

tin

sica

SER kf

'

Prin VE:

Da

Semuingelo, cdarga È

Sandi,

Giowgli n

5 non

“mitner, Veg

ll Sa\varcee, Gemaro 01) \ ASTRI

Ti

fail

Rote Stephan

BI olost ii - Ridi aTsbi visrtA strie Wi es se sc

-

à

Rossi, pato

Prits

sura

128

Màs

3

sil oftalà sai

gagsorasi node Sburdane Fraticcegon 1 = N ofilobA runs SLaraye Mir, Lante? DI f9I alosili . to Ugastulo sult59gaS -£ seta Lo MITmrattuese 285 olos9 a È di ovali hiastoS Panno 43, (ELE der

de

_

6; mivii2 1a0uS “20 IA39, Sorta | 29 1054 vodimus Fasi» prc IRDeE 8 Cda. Sett.

Arusò daro 417

So rest

ie

Seu ba, doo i 351

4,30

UE :

tarlaac Petr Jacrsec XX

x

TM

segno, Cesare Wadel

[129,150

Mencig, Btivanm dà

semerati,

Furia 328

Semprini,

Cievanti 33



pai, Alfredo. 12-14, 93 5pqlk vg Sabine 351. è

Pea

Severino, Emanuele MIX Savi

VW. Sterheaie

Pit:

A

rosi.

,

Sesta, deun 23 Reza. Wi Han RR DEI inSirpilo,

Laybo-XIS, 379

Gion,

Reburt J00

MISVTUTEAT

Frafizo 5

east

age gr Lo RA, 310-242 Sinai, Franceocy 233: 218 solari

Klinnbetss +

apra ingr Stafke

taxi

taliano

—Stecobinski,

>

Ì

È

A

oa

; mi ca VILI

%

l

Finito di stampare nel mese di gennaio 1994 dalla TIBERGRAPH s.r.l. - Città di Castello (PG) per conto di Editrice Montefeltro - Urbino

IE Ss

SP

IRE

ARE

pata 7a

Sd Aki

DI

'}

ERI

otennsg th one

(Of) adistn) T dpi

bo

ih City rnticioli

sigma

ib ona

Lia Incagoriznii albib 1%]

vrlala:nabé

cletit 7

de

N

:

1

I

: I i d di i| de

iti

n N

TO di

Le

miun niA

()

PAG TA

n " DE

IENA LITE

saliti

Hi

Wi I

I 5)

USSSTLE

dI IL,

Me hi

ji

arti

di

.

MI iI

in

i TRN i Uil

n dh

È

Ù

SAMIR,

|

do a

I, ava

e

i

li

di I

u”

Nono AGIRR

5;

NU

Di

MII all

n° fe Ji

i

e

Ò

Ù -

o

ee

:

_

2

a nsi

6

5

i

i o

n sa

IRINA:

niPi È Na x

(II

STRONA

Y

LIFT if HI PRAL'RGAT

INNO

RNA

ihdhDi i

ei

Mn ILTUE hiMini

MARTA DI ih ]

4

Hegel nelle Lezioni di storia della filosofia guarda a Socrate e ai suoi interlocutori come a «figure plastiche della conversazione». Parole in azione-negazione della «melanconica morale». Coincidenza di conversazione e filosofia. Hal Come ribadiscono i suoi teorici, la «civil conversatione» è essenzialmente «lingua» e «costumi» e ridefinisce,

allora, il soggetto come linguaggio e come essere morale, armonia e corrispondenza etica e estetica di parole e azioni (Guazzo, Della Casa, Castiglione). Invero, se la «civilitas», la «buona creanza», lamenta-

va Erasmo, è regione trascurata della filosofia, regione «umile» di una virtù eloquente, postula del pari la coincidenza di buone qualità e belle maniere: «abito della virtù». Se ne ricorderà Kant. Progetto anche ideologico che congiunge nella «digni-

la de L’ar Magr RENÉ cope In 1950 conv .

tà del moderno» ideali educativi, architettonici, linguistici ed estetici (i Piccolomini, Palmieri, Patrizi, Ripa, tra i

maggiori). A volte il valore estetico e morale della conversazione risiede nella configurazione di «pochi concetti in poche parole» (Plutarco), «frasi brevi e stringate» (Platone), nella parola «sostanziale», dirà Montaigne: Erasmo rincorre Plutarco che a sua volta richiama Platone e il suo arciere o lanciatore di giavellotto, modello del locuto-

re ideale. La retorica della conversazione

diviene così retorica

della ragion pratica, tra natura, arte e storia.

Nicola Panichi insegna Storia della storiografia filosofica all’Università di Urbino. Ha pubblicato: Antonio Gramsci. Storia della filosofia e filosofia, Pubbl. dell’Università di Urbino, 1985; A. de Montchrétien. Il circolo dello Stato, Guerini e associati, Milano 1989.

ISBN

88-85363-21-0

L. 55.000

L