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Extra Artdigiland, nuova nata, è particolarmente lieta di presentare come sua prima pubblicazione un libro intervista che “illumina” aspetti non noti delle migliori opere cinematografiche italiane degli ultimi trent’anni. La narrazione di Luca Bigazzi - direttore della fotografia e insieme operatore di macchina - raccoglie con coerenza caratteri tecnici, artistici ed etici del lavoro sul set. Bigazzi racconta la genesi del suo modo di lavorare libero da regole codificate, i motivi delle sue scelte professionali, il tipo di luce che ama, le ragioni della sua passione per lo stare in macchina. «Morte di un matematico napoletano, esordio al cinema di Mario Martone, è stato anche il mio esordio come attore cinematografico. Su quel set Luca Bigazzi era il complice perfetto del mio primo rapporto con quel nuovo mondo. Eravamo ragazzi di una avventura: ricordo con tenerezza quando, il primo giorno di lavorazione, per rompere il ghiaccio, Mario chiese a Luca, di fronte a me e a Carlo Cecchi, quale fosse l’ordine giusto dei termini: “azione”, “motore”, “ciak”. Scoppiammo tutti in una gran risata». Toni Servillo «Luca Bigazzi è l’uomo che ti sorregge un attimo prima che tu cada, che non impone le sue idee ma crede fermamente nelle tue, una volta che ti ha scelto. È un intellettuale che tiene a bada la propria filosofia nel momento in cui imbraccia la macchina a mano: allora diventa un operaio che non sente la fatica e cerca di farla scordare anche agli altri. Abbiamo fatto insieme quattro film e non sono “bei ricordi”, come si usa dire, ma molto di più...» Gianni Amelio Alberto Spadafora (1977) è saggista cinematografico e fotografo. Ha collaborato negli anni con la casa editrice Lindau, con ilMuseo Nazionale del Cinema di Torino, con l’agenziaMagnum Photos di Parigi. Ha scritto per le riviste «Fellini Amarcord. Rivista di studi felliniani» (Rimini), «The Scenographer» (Londra), «Moviement» (Taranto). Nell’autunno 2011 alcuni suoi lavori fotografici vengono esposti a Londra, in occasione della prima edizione di The Kicking Boot. The Contemporary Affordable Italian Art Fair. È autore del volume In cielo, in terra. Terrence Malick e Steven Spielberg (Ed. Bietti, 2012).
Alberto Spadafora
LA LUCE NECESSARIA Conversazione con Luca Bigazzi
Artdigiland.com Ltd direttore editoriale: Silvia Tarquini 23, Griffith Downs - The Crescent Drumcondra Dublin D9 Rep. of Ireland www.artdigiland.com [email protected]
Alberto Spadafora La luce necessaria. Conversazione con Luca Bigazzi L’intervista a Luca Bigazzi è disponibile nella sua versione originale in video HD e in solo audio sul sito: artdigiland.com in copertina: Luca Bigazzi sul set de Lo spazio bianco di Francesca Comencini (2009) Foto di Chico De Luigi (© Chico De Luigi) progetto grafico e impaginazione: Alberto Guerri editing e redazione: Emanuela Andriolo, Letizia Rossi crediti fotografici: Cesare Accetta (Morte di un matematico napoletano, L’amore molesto), Philippe Antonello (Un’anima divisa in due, Le acrobate, Totò che visse due volte, Pane e tulipani, Brucio nel vento, A casa nostra, Lascia perdere, Johnny!, Il primo lavoro [titolo provvisorio]), Irene Bufo (fotogrammi dal backstage di Copia conforme), Sergio Ciprì (Lo zio di Brooklyn), Chico De Luigi (Lo spazio bianco, La passione), Gianni Fiorito (Il divo), Claudio Iannone (Lamerica, Così ridevano, Le chiavi di casa, La stella che non c’è), Alberto Spadafora (foto a pagina 26), Laurent Thurin Nal (Copia conforme), Sergio Varriale (Le conseguenze dell’amore, L’amico di famiglia, La guerra di Mario), Chuck
Zlotnick (This Must Be the Place) © 2012 Artdigiland.com one frame one spirit one stream
L’autore e l’editore ringraziano le molte persone che hanno offerto sostegno e dimostrato partecipazione a questo progetto. In particolare si ringraziano per i loro contributi Gianni Amelio, Philippe Antonello, Gianluca Arcopinto, Fabrizio Bentivoglio, Anna Bonaiuto, Margherita Buy, Antonio Capuano, Francesca Comencini, Angelo Curti, Nicola Giuliano, Valeria Golino, Abbas Kiarostami, Franco Maresco, Mario Martone, Carlo Mazzacurati, Giuseppe Piccioni, Alessandro Saulini, Andrea Segre, Daniele Segre, Toni Servillo, Silvio Soldini, Paolo Sorrentino. Uguale gratitudine va ai fotografi di scena Cesare Accetta, Philippe Antonello, Sergio Ciprì, Chico De Luigi, Gianni Fiorito, Claudio Iannone, Laurent Thurin Nal, Sergio Varriale, Chuck Zlotnick che hanno messo a disposizione i loro scatti di backstage. Si ringraziano per il loro aiuto Maurizio Bassi, Irene Bufo, Francesco Carini, Angelo Curti, Ester Carla de Miro d’Ajeta, Chiara Lenzi, Lara Lucchetta, Delia Parodo, Emanuele Segre, Adriana Vianello. Si ringraziano per la loro preziosa rilettura del testo Fabrizio Crisafulli e Nidia Natalini. Un ringraziamento particolare va a Valentina Belli e a Pasquale Marino, per aver reso possibile la registrazione video dell’intervista. Si ringrazia Luca Bigazzi per la continua collaborazione e per la puntuale verifica dei dati.
a mia madre, e alla madre di mia madre A.S.
Prefazione
Pieno di merito, eppure poeticamente, l’uomo abita la terra Mi è venuto in mente questo verso di Hölderlin quando ho conosciuto Luca Bigazzi, a cui è dedicato il primo testo di Artdigiland. Artdigiland è un progetto internazionale che unisce una piattaforma web all’attività editoriale, proponendo – attraverso l’editoria digitale e il broadcasting – videointerviste ad artisti; considero il libro augurale ed emblematico, perché Bigazzi racconta un approccio non convenzionale alla direzione della fotografia cinematografica, un approccio insofferente di regole che spesso non hanno ragione di esistere. Uno dei momenti che mi ha colpito di più – nei giorni dell’intervista che, con Alberto Spadafora, abbiamo trascritto nel libro – è stato quello in cui Bigazzi parla del suo amore per l’Italia e per il cinema italiano: «Mi capita spesso di essere contattato dagli americani, ma rinuncio sempre. Per una serie di motivi. Vivo in Italia, la mia casa è in Italia, la mia troupe è in Italia, le mie radici sono in Italia e conosco l’Italia. Non mi interessa lavorare all’estero. Penso che ognuno abbia il dovere di fare quello che può nel luogo dove ha scelto di vivere. Sarò presuntuoso e provocatorio, ma con la mia professione di direttore della fotografia nel cinema italiano vorrei dare un contributo a questo nostro disastrato Paese». Una vita e una professione con fondamento etico. Di Bigazzi colpisce l’autonomia di pensiero, sul piano politico come su quello estetico. La sua è stata ed è una visione nuova della direzione della fotografia, che ha saputo fondarsi su nuovi strumenti, utilizzare la pellicola e gli obiettivi in modi inconsueti, sempre alimentata da una libertà di approccio, dal coraggio e dal saper legare le proprie scelte a ragioni che vanno oltre l’ambito dell’“immagine”. Sensibile ai luoghi, alla geografia, alla luce, alle atmosfere, Bigazzi avverte il set come campo energetico, quasi “teatralmente”. Fa le sue scelte da operatore alla macchina in base alle relazioni sottili che stabilisce con gli attori. Per questo ha bisogno di libertà di movimento, per questo detesta gli ingombri tecnici. Quella che in lui potrebbe sembrare solo un’istintiva e “affettiva” preferenza per il lavoro alla macchina rispetto al lavoro con le luci si rivela una presa di posizione precisa a favore della naturalezza e del senso umano dello “sguardo” di contro agli artifici illuminotecnici, come confermano alcuni dei registi che hanno lavorato con lui e che hanno contribuito al libro. Se la macchina si sposta, nell’arco della stessa sequenza, in un ambiente meno luminoso, Bigazzi non interviene in quest’ultimo con luci aggiuntive, ma preferisce aprire gradualmente il diaframma, in corsa, conferendo alla macchina la qualità di un occhio che si
adatta al buio. Sono tanti i possibili esempi del suo approccio poco ortodosso. Contro ogni consuetudine da manuale è solito mantenere la stessa luce, in un ambiente già “illuminato” per una precedente inquadratura, pur variando l’asse di ripresa. Invece di cambiare illuminazione preferisce essere lui stesso – operatore alla macchina – a cercare, con i propri spostamenti, l’angolo e la luce giusti. Facendosi, anche qui, sguardo che si ambienta nel luogo. Di giorno e di notte, Bigazzi ama e vuole rispettare il più possibile la luce esistente. Non cerca una propria riconoscibilità stilistica ma vuole “servire” la sceneggiatura e il regista. Se però l’artificio appartiene ad una “natura” altra – non l’ambiente ma il mondo immaginario dell’autore – allora ben venga l’artificio, come spesso è avvenuto nella collaborazione con Paolo Sorrentino. Ci era nota la sua levatura professionale, ma durante la realizzazione del libro ci hanno stupito la sua totale assenza di retorica, la schiettezza, la cura, la precisione, la partecipazione, il modo di individuare e raccontare le questioni, la semplicità con la quale svela gradualmente la filosofia del suo lavoro, frutto di grande consapevolezza. Il suo arrivare in profondità attraverso la superficie. La generosità, fin dal primo momento. Abbiamo potuto scoprire direttamente quell’attitudine alla collaborazione e allo scambio che ci racconta nell’intervista. Silvia Tarquini direttore editoriale Artdigiland
Luca Bigazzi e la fotografia cinematografica
di Alberto Spadafora La prima volta: coincidenze Se ci fosse stata un’altra persona al posto mio, per lei sarebbe stata la stessa cosa? Fuori dal mondo (Giuseppe Piccioni, 1999) La sera del 14 ottobre 2011 l’atteso This Must Be the Place di Paolo Sorrentino debutta sugli schermi italiani, dopo la proiezione in anteprima mondiale al Festival di Cannes la primavera precedente. La stessa sera – coincidenza – Luca Bigazzi, dopo aver ricevuto la proposta dall’editore, mi telefona a casa: “Alberto, sei sicuro che sia una buona idea?”. “Sì” – gli rispondo – “non ho alcun dubbio”. “Ma a chi vuoi che possa interessare?”. La mattina del 9 dicembre 2011 – giorno del suo compleanno, altra coincidenza – Luca mi accoglie nel suo appartamento romano per dare inizio all’intervista che si sarebbe protratta per i successivi quattro giorni. Al mio fianco la direttrice editoriale di Artdigiland Silvia Tarquini, il regista Pasquale Marino, il direttore della fotografia Valentina Belli – questi ultimi entrambi ex allievi del Centro Sperimentale di Cinematografia – per l’occasione operatori e fonici che registrano l’intervista in video. Il 4 maggio 2012, giorno in cui chiudiamo il libro, Luca vince il suo sesto David di Donatello per la miglior fotografia, con This Must Be the Place. Quell’iniziale battuta telefonica – scettica e scherzosa insieme, su chi potesse essere interessato a un libro intervista su di lui – era la manifestazione dell’imbarazzo di avere le luci puntate su di sé, ma Luca si è subito dimostrato disponibile e generoso. Il progetto ha così preso vita, è divenuto incontro, occasione di dialogo e conversazione, poi intervista filmata e testimonianza scritta. Seduto sulla sua poltrona preferita, cimelio cinese dell’epoca della rivoluzione culturale, era pronto a raccontarsi.
La bussola: coordinate biografiche Non sapersi orientare in una città non vuol dir molto. Ma smarrirsi in essa come ci si smarrisce in una foresta è una cosa tutta da imparare.
Walter Benjamin, Infanzia berlinese (1930) Luca Bigazzi (Milano, 1958) è tra i più ammirati e riconosciuti direttori della fotografia italiani degli ultimi trent’anni. Nel corso della sua carriera ha contribuito al nostro miglior cinema, protagonista dietro la macchina da presa al fianco dei maggiori registi italiani contemporanei, a volte fin dai loro esordi: Silvio Soldini, Daniele Segre, Mario Martone, Gianni Amelio, Carlo Mazzacurati, Paolo Sorrentino, Giuseppe Piccioni, Franco Maresco e Daniele Ciprì, Pappi Corsicato, Mimmo Calopresti, Michele Placido, Francesca Comencini, Antonio Capuano, Francesca Archibugi, Ivan Cotroneo, Andrea Segre. Unica eccezione internazionale, finora, l’iraniano Abbas Kiarostami. Fin dall’inizio Bigazzi presta la sua opera laddove il cinema italiano vive istanze di indipendenza e rinnovamento. Lontano da Roma, dove ci siano movimenti di autonomia produttiva e slancio artistico. Il suo viaggio in Italia inizia a Milano e a Torino negli anni ’80, prosegue a Napoli e a Palermo negli anni ’90, passa per la Toscana e risale a Chioggia nel 2010, mentre Roma rimane una città di passaggio. Si considera un fortunato dilettante. Espressione curiosa e rivelatrice: l’assenza di formazione tecnica, tantomeno presso una qualsiasi scuola di cinema, non gli impedisce di fare della passione una professione: nell’inverno del 1982 si improvvisa direttore della fotografia quando Silvio Soldini, suo compagno di liceo, esordisce come regista. Sono entrambi inesperti ma cinefili appassionati, spaventati ma entusiasti e determinati, e porteranno Paesaggio con figure in concorso al Festival di Locarno nel 1983. Trent’anni dopo, nonostante l’estremo professionismo, Bigazzi continua a sentirsi un dilettante ogni volta che si affaccia su un nuovo set, ma con al fianco la fortuna, da sempre, dice, sua compagna di viaggio gradita e fidata. Le origini milanesi di Bigazzi contribuiscono forse alla formazione del suo atteggiamento critico e professionale. Fosse nato romano, sostiene, probabilmente avrebbe vissuto – subìto – influenze, resistenze e atmosfere omologate, e una dilatazione dei tempi nella carriera. Essere adolescente nei primi anni ’80 nella città della pubblicità, della televisione, dell’immagine tout court significa vivere condizioni di partenza diverse da quelle offerte da Roma, città del cinema più conservatrice. Milano gli concede da subito l’occasione di agire, filmare, illuminare, libero da imposizioni e restrizioni. Ma è Napoli a diventare la sua città. A Napoli lavora negli anni ’90 a due film di Mario Martone che si rivelano paradigmatici. In questa conversazione spesso regala al capoluogo campano il primato del suo affetto, come città dove vivere e come location dove filmare. In generale, insiste molto sulle connotazioni geografiche: prima sentimento di spazio, poi condizione di esperienza, infine scelta. Ha un
accentuato senso dell’orientamento e la percezione spontanea, ovunque si trovi, del Nord geografico. Una bussola umana, capace di orientarsi e di scegliere le vie da percorrere.
Luci di bottega: artista e artigiano Si può apprendere un’arte solo nelle botteghe di coloro che con quella si guadagnano la vita Samuel Butler, Così muore la carne (1903) Il mondo di Bigazzi è tutto italiano, per scelta. Nel suo lavoro si alternano i toni epici più riusciti del nostro cinema contemporaneo – penso al “realismo storico” di Lamerica e Così ridevano di Gianni Amelio – e atmosfere molto rarefatte – come nel recente Io sono Li di Andrea Segre. Le scelte ardite cominciano a inizi anni ’90, con Manila Paloma Blanca di Daniele Segre, girato tutto con camera a mano e senza luci, e Morte di un matematico napoletano di Martone, film in cui Bigazzi “invecchia” le immagini grazie all’utilizzo poco ortodosso del filtro giallo per pellicole in bianco e nero – nonostante il film sia a colori – senza ricorrere alla via facile della post-produzione. Le luci gelide e metafisiche de Le conseguenze dell’amore costruiscono la gabbia mentale del personaggio di Toni Servillo, mentre la storia romantica di Pane e tulipani esplode in una festa di colori. Bigazzi crea quello che è forse uno tra i suoi migliori risultati con le atmosfere buie de Il divo. In questo film, sotto la direzione di Paolo Sorrentino, fonde in maniera iperrealistica studio cromatico e invenzione di movimenti di camera. D’altra parte, ne Lo spazio bianco di Francesca Comencini si confronta con il bianco, la sfida più complessa per un artigiano della luce. Per Fuori dal mondo di Giuseppe Piccioni (1999) ricorre a pennellate di vaselina, stesa sulle lenti per sfocare i bordi, isolare quadri fissi e ottenere fotografie sociali e di gruppo, un genere di foto che Bigazzi ama e colleziona nella vita privata. Nel 2010, accanto a Kiarostami, realizza un piano sequenza di quasi cinque minuti con la camera fissa posizionata sul cofano di un’automobile, in cui i volti di Juliette Binoche e William Shimell, all’interno dell’auto, si fondono sul parabrezza con il riflesso del paesaggio fuori campo. Che si tratti dell’intero impianto illuministico dell’opera o delle singole inquadrature, ciò che emerge dalla sua filmografia è la varietà di suggestioni visive, con la luce e la macchina da presa al servizio del film, e non certo viceversa. L’etica rimane, invece, il criterio costante di scelta. Orfano libero e fiero di qualunque scuola, formazione o indirizzo, ma figlio di influenze e
suggestioni continue, si tiene lontano dal corporativismo: non è membro dell’AIC (ex Associazione Italiana Cineoperatori, ora Associazione Italiana Autori della Fotografia Cinematografica), convinto che le associazioni corporative finiscano sempre per essere conservatrici e di ostacolo al libero impiego del talento. Se c’è da difendere le ragioni artistiche del regista e del film litiga in prima persona con le produzioni. Un artigiano, un operaio della luce e della camera che ha fatto del suo pensiero critico la sua marca, ma che, dopo trent’anni di carriera, ha ancora gli incubi il giorno prima di effettuare una ripresa. Lontano da ogni prosopopea o vanagloria, Bigazzi si spoglia dell’aura che nella storia del cinema circonda la figura del direttore della fotografia, rinunciando alla tentazione di rendere riconoscibile il proprio stile. La sua è una fotografia sempre nuova, spesso azzardata, a volte agitata, a volte morbida, mai artefatta, mai gratuita. Valorizza le fonti di luce naturale, senza porre sul set ingombranti luci artificiali, soprattutto negli interni notte quando lascia il governo dell’illuminazione alle luci già esistenti nella realtà, ossia lampadine e neon. Gli inizi poveri della sua carriera gli donano una attitudine inventiva che si traduce poi in duttilità e velocità in rapporto ai mezzi produttivi. Ha anticipato l’invenzione di strumenti come i Kino Flo, bank di neon coperti da griglie, e le “Chimera”, lampade avvolte da sfere di stoffa, leggere e poco ingombranti. Soluzioni tecniche semplici che diventano strumenti essenziali della sua valigia degli attrezzi. Detesta la steadycam così come la camera digitale, nonostante non ne rifiuti l’utilizzo, perché non ama la loro resa sul piano espressivo. Preferisce la macchina a mano e appoggiare l’occhio sull’oculare. Autodidatta, come si è detto, mai stato su altri set che non i suoi, esplora le prerogative di tutte le sorgenti di luce, anche quelle d’uso quotidiano, anche quella di una semplice lampadina domestica, la cui luce può essere diffusa, schermata, fatta rimbalzare ed è fonte di ombre di cui tenere conto. Giunto a Roma, dopo le esperienze con Soldini, Daniele Segre e Martone, crea sconcerto tra gli addetti ai lavori per l’utilizzo della pellicola a 500 ASA al posto della più comune 100 ASA; in realtà anticipa un bisogno che porterà all’introduzione sul mercato di pellicole più sensibili. Secondo una consapevole concezione umanistica, Bigazzi non conosce – suggerisce Carlo Mazzacurati – la distinzione tra arte e artigianato. Gli esordi artigianali influenzano la sua arte negli anni successivi: dietro la macchina da presa mantiene cinefilia, autonomia, capacità di improvvisazione. Crea una vera e propria bottega di artisti artigiani, una squadra di tecnici e collaboratori fidati, senza i quali non accetta di lavorare. La pratica di filmare con la luce esistente, naturale o artificiale che sia, anche in
circostanze di semioscurità e quasi rischio di sottoesposizione ricorda i lavori di Christopher Doyle, australiano naturalizzato cinese e collaboratore di Wong Karwai. L’istintiva attrazione di Luca per la luce naturale fa pensare a Henri CartierBresson, che ammoniva il fotografo a temere le luci artefatte.
L’occhio commosso: lo sguardo sui volti Due persone che si guardano negli occhi non vedono i loro occhi, ma i loro sguardi. Robert Bresson, Note sul cinematografo (1975) Luca Bigazzi – tiene a precisare – è prima operatore alla macchina e poi direttore della fotografia. Preferirebbe essere accreditato nei titoli come operatore piuttosto che come direttore. Fosse per lui, inoltre, girerebbe tutti i film con la camera a mano, esigenze di copione permettendo. Da operatore alla macchina vive con grande sensibilità il contatto ravvicinato con gli attori, convinto che il loro lavoro costituisca il cuore del film. Ha lavorato con grandi attori italiani come Giuseppe Battiston, Fabrizio Bentivoglio, Anna Bonaiuto, Margherita Buy, Sergio Castellitto, Valeria Golino, Enrico Lo Verso, Licia Maglietta, Silvio Orlando, Michele Placido, Kim Rossi Stuart, Toni Servillo e la recitazione rappresenta per lui, oggi, il cuore del film, come se, oltre al primo piano e al montaggio, ci fosse un ulteriore, terzo specifico filmico apportato dagli interpreti. La testimonianza dell’operatore diviene partecipazione e spesso non è esente dalla commozione. Altri operatori hanno raccontato l’“appannarsi della lente” dovuto alla commozione davanti ad una scena, come Matthew Libatique per il monologo di Ellen Burstyn in Requiem for a Dream di Darren Aronofsky (2000) o Néstor Almendros davanti ai persistenti primi piani su Meryl Streep che rievoca i campi di concentramento ne La scelta di Sophie di Alan J. Pakula (Sophie Choice, 1982). Bigazzi racconta di non aver trattenuto le lacrime nel riprendere Margherita Buy quando, vestita con il camice verde nella bianca sala delle incubatrici, assisteva la figlia nata prematura nella lotta per la sopravvivenza ne Lo spazio bianco di Francesca Comencini. E ricorda l’emozione provata, in quella che definisce la ripresa più complessa della sua intera carriera, nel trovarsi, da solo e con la camera a mano, stretto al fianco di Toni Servillo nell’angusto ascensore che portava Titta Di Girolamo al cospetto del capo mafia ne Le conseguenze dell’amore di Paolo Sorrentino. Bigazzi si pone al servizio degli attori con rispetto e umiltà, li segue, li
accompagna, stabilendo con loro un rapporto di fiducia, di comunicazione non verbale, di empatia. Racconta di aver maturato nel tempo la consapevolezza della nobiltà del lavoro dell’attore, grazie al contatto prolungato con la fatica, il sacrificio, la concentrazione degli interpreti. Come ricordano Piccioni e Buy, all’epoca di Fuori dal mondo (1999) Bigazzi era celebre per posizionare le luci al fine di illuminare gli ambienti piuttosto che i volti. Oggi invece pare che la sua attenzione sia innanzitutto al servizio delle emozioni trasmesse dall’attore.
La politica culturale: la fotografia civile nel cinema In un’opera d’arte la forma non può essere disgiunta dal contenuto: per quanto incantevole come spettacolo, dev’essere intesa come portatrice di un significato che va al di là del valore visivo Erwin Panofsky, Il significato delle arti visive (1955) Diceva Johan Huizinga per contestualizzare Jan Vermeer nell’Olanda del 1600: «Uno dei più forti impulsi del Seicento è quello di conformarsi alle norme stabilite, dottrinarie o politiche. Dominano la posa teatrale, la regola rigorosa e la dottrina chiusa; l’ideale è il deferente rispetto per la Chiesa e per lo Stato. Tutto questo non vale per l’Olanda di Jan Vermeer». Tutto questo non vale neanche per l’Italia di Luca Bigazzi, anche lui amante della luce naturale. La libertà di poter scegliere, anche quando le contingenze produttive e le gratificazioni economiche sono inconsistenti, è il metro con cui Luca Bigazzi conduce la sua vita artistica e professionale. Militante e cinefilo passionale: tratti giovanili che ancora oggi contraddistinguono le sue dichiarazioni. L’idea di cinema che Bigazzi sposa, ogni volta che aderisce a un progetto, è quella di un cinema politico, inteso come strumento per rivelare, attraverso le storie, aspetti nascosti, isolati, schiacciati della società. Molti registi con i quali ha lavorato sottolineano l’intento civile con cui Luca affronta il lavoro sul set. Bigazzi crede nelle potenzialità del cinema italiano. Respinge spesso proposte di lavoro dall’estero, soprattutto dagli States, per il semplice motivo che, essendo italiano e vivendo e lavorando in Italia, spera di dare un contributo a “questo nostro disastrato Paese”, senza alcuna accezione di sacrificio né scoramento. In un passaggio della nostra conversazione, dichiara: “Sono nella condizione di fare i film che voglio nel mio Paese, perché mai dovrei fare dei film che non voglio in un altro Paese?”. Contattato dalla produzione britannica di The Iron Lady, agli
inizi del 2010, rifiuta senza alcun rimpianto l’occasione di illuminare Meryl Streep nell’interpretazione di Margareth Thatcher e prosegue a lavorare a Chioggia, sul set dell’esordiente Andrea Segre in Io sono Li. Spiega: “Scegliere di lavorare in Italia per un film di un giovane regista italiano, cercando di illuminarlo come richiede una storia di immigrazione e di rapporti umani possibili in una nazione come la nostra, devastata culturalmente ed economicamente, con un budget praticamente inesistente e con mezzi tecnici pressoché minimi... ecco, tutto questo è molto più interessante che girare un film con cinque gruppi elettrogeni e superstar americane”. Gianni Amelio ci racconta che si interroga su come Bigazzi sia riuscito a sopravvivere nel sistema-cinema italiano. Con la sua carriera e con il suo evidente atteggiamento nei confronti del cinema, Bigazzi confuta ciò che Marco Ferreri dichiarava nel 1969: “la rivoluzione si fa facendo la rivoluzione, non facendo i film”.
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* Sono esclusi volontariamente saggi, articoli, analisi, recensioni e volumi
critici inerenti i singoli titoli della filmografia di Luca Bigazzi. Si propone piuttosto una serie di titoli preparatori all’intervista e suggestioni emerse nella conversazione.
Ritratto di Luca Bigazzi fotografo Cinema e fotografia: tra gli addetti ai lavori circola la leggenda secondo cui un buon fotografo non è un buon direttore della fotografia e che, viceversa, un buon direttore della fotografia non è un buon fotografo. Anche Luca Bigazzi racconta di avvertire un po’ di disagio, a volte, nel tornare allamacchina fotografica dopo aver lavorato per anni con lamacchina da presa. Eppure, dice, nella sua vita crea immagini tout court, e il fatto che siano fotografie still o fotografie in movimento poco cambia: il suo occhio si nutre di inquadrature. È appassionato e competente sia di fotografia sia di cinema. Nella sua cultura fotografica convivono amore per la forma e amore per il documentarismo: un’ammirazione uguale per Ansel Adams, con i reportage paesaggistici in bianco e nero, e per Walker Evans, con i ritratti dei volti solcati dalla depressione economica. Da un lato la sostanza formale degli ambienti, dall’altro la rilevanza sociale degli sguardi. Ho voluto giocare a ritrarlo attraverso la lente della sua camera fotografica Hassenblad degli anni ’70, conservata nel suo appartamento romano su una mensola allineata al vicino orizzonte del Colosseo.
Conversazione con Luca Bigazzi
a cura di Alberto Spadafora
Indipendenza Luca, sei uno dei più ammirati direttori della fotografia del cinema italiano contemporaneo. Beh, ammirato non saprei (ride) ... No, ammirato no. Tra i più importanti... Non so, mi sembra che tutto questo sia avvenuto per caso. Tutta la mia storia è piuttosto anomala, forse perché sono nato a Milano, forse perché un certo tipo di cinema non mi è mai appartenuto, forse perché ho saltato delle tappe e ho fatto delle scelte strane. Cosa intendi? Da giovane ho fatto molta politica. Pensavo, e lo penso tuttora, che fosse assolutamente necessario cambiare il mondo. Erano gli anni ’70, facevo parte di movimenti e condividevo speranze che poi si sono scontrati con la realtà. Finita questa fase di attivismo, ho provato a fare l’università. Volevo diventare uno storico, e mettere al servizio della Storia quelle che speravo fossero le mie capacità. In realtà la cosa non andò avanti perché vivevo da solo e dovevo lavorare. Trovai impiego come segretario di edizione nella pubblicità: facevo l’aiuto regista, il peggior aiuto regista pubblicitario che si sia mai visto in Italia, ero veramente pietoso (ride). Vivevo a Milano, e a Milano c’era la pubblicità, non il cinema. E così lavoravo con scarso interesse, in quel campo. Niente cinema dunque? Tutt’altro. Da quando avevo 14 anni sono andato ossessivamente al cinema. A Milano c’erano due realtà molto interessanti, il cineclub Obraz Cine Studio di Enrico Livraghi–che ora non esiste più, al suo posto c’è un negozio di occhiali – e la Cineteca, che aveva una buona programmazione. Questa passione cinefila seguiva di pari passo le scelte politiche, per cui mi rivolgevo al cinema indipendente americano e al documentario, per quel poco che arrivava in Italia. Era una passione con un risvolto sociale. Contemporaneamente mi occupavo di fotografia, avevo una camera oscura, facevo scatti in bianco e nero. In maniera abbastanza dilettantistica.
Da spettatore a operatore sui set: come è avvenuto il passaggio? Andavo al liceo con Silvio Soldini, nella stessa classe. Lui non si interessava di politica, quindi, come succede tra ragazzi, non gli parlavo, era come se per me lui non esistesse. Poi Silvio si iscrisse a una università di cinema, la New York University. Dopo tre anni tornò in Italia con il desiderio di fare il regista, e io ero l’unica persona che conoscesse ad aver almeno visto una macchina da presa. Sapeva anche che scattavo fotografie e che quindi, in qualche modo, conoscevo luci e macchine. Ci siamo detti: “Facciamo un film insieme!”. Il film doveva essere in Super8, ma poi gli intenti si fecero più impegnativi e decidemmo per il 16mm in bianco e nero. Fu così che nacque Paesaggio con figure? Esatto. Paesaggio con figure, che miracolosamente andò al Festival di Locarno, in concorso. La fortuna è stata che Silvio fosse un regista bravo, preparato e intelligente, quindi in qualche modo non si trattò solo di un esercizio dilettantistico. In ogni caso, per me, fare il primo film senza avere nessuna preparazione alle spalle è stata un’esperienza entusiasmante ma anche terribile, vissuta con angoscia. La mia preoccupazione principale era: “Sarò in grado? Visto che non ho mai fatto nessuna scuola, che non ho mai frequentato nessun corso?”. Avevo visto lavorare solo direttori della fotografia in pubblicità, che tra l’altro, a mio parere, facevano delle cose ripugnanti. Illuminavano per abbellire prodotti o facce e non per raccontare storie. Mi chiedevo: “Sarò in grado di superare tutti gli scogli tecnici, i problemi che non conosco?”. Se ce l’ho fatta è stato perché il mio esordio, negli anni ’80, è avvenuto in un momento in cui si stavano verificando notevoli evoluzioni tecniche. Si iniziava a produrre pellicole sensibili e macchine da presa sempre più leggere. Quindi c’era la possibilità, per chi come me cominciava ad affacciarsi al cinema, di lavorare senza quell’apparato tecnico – fotografico e illuministico – che era normalmente necessario negli anni ’70. Non c’era più la pellicola a 60 ASA, ma le prime pellicole sensibili a colori a 320 ASA. La pellicola in bianco e nero era invece a 200 ASA e io e Silvio decidemmo di forzarla di uno stop e di usarla a 400 ASA, riuscendo a girare con la luce delle lampadine, dei tubi di neon, insomma con le cose che si trovavano normalmente nelle case. Le questioni tecniche diventavano questioni artistiche, diventavano delle scelte. Non era più necessario usare grandi, enormi, quantità di luci, non era più necessario usare gruppi elettrogeni e troupe mastodontiche. Si poteva invece fare un film con gli amici e con pochi mezzi.
Hai proseguito la collaborazione con l’amico e compagno di liceo Silvio Soldini anche nei suoi film successivi... Sì. È stato possibile grazie a due condizioni. Prima di tutto grazie a queste evoluzioni tecniche. E poi grazie al lavoro di gruppo. Intorno a Silvio e me si era creato un gruppo di amici e collaboratori. Avevamo fondato una piccola società di produzione. Si chiamava Bilico Film – “Bilico” perché senza mezzi tutto poteva cadere, tutto poteva crollare – ed era legata a un più ampio movimento milanese di filmmaker, “Indigena”, intorno al quale negli anni ’80 gravitava un nucleo di appassionati dilettanti. Penso di essere stato anch’io un fortunato dilettante: fortunato perché i tempi erano maturi e perché l’inizio è stato con Silvio, non con altri, ossia con una persona preparata, che aveva la mia stessa passione e con cui condividevo gli stessi gusti cinematografici. È stata l’autonomia produttiva, fino ad allora impensabile, a permetterci di cominciare. Abbiamo fatto esattamente i film che volevamo fare. Hai parlato di tempi maturi in Italia solo negli anni ’80. Non prima... In Italia siamo stati molto lenti nell’accogliere le innovazioni tecniche. Ad esempio già negli anni ’70 Raoul Coutard, con Godard, girava usando pellicole fotografiche per filmare di notte senza le luci, cosa che in Italia non era neanche lontanamente pensabile. In Italia c’è stata sempre, concentrata a Roma, una “casta” di direttori della fotografia, una corporazione molto protetta che ha rappresentato un grosso freno sia all’ingresso nel lavoro dei giovani sia all’innovazione formale. Sto parlando di un modo di concepire il lavoro della direzione della fotografia e la relativa formazione secondo cui per cinque anni devi caricare gli chassis, per dieci anni devi fare i fuochi, per dieci anni devi fare l’operatore di macchina. Si tratta di un’impostazione che ti consente, se va bene, di fare, a cinquant’anni, il “giovane” direttore della fotografia, incapace ormai di seguire le innovazioni tecniche e probabilmente ormai lontano dagli sviluppi dell’estetica cinematografica. E lontano soprattutto dalle storie che i registi vogliono raccontare. A ben vedere, nel cinema italiano degli anni ’70 i registi cercavano di fare film aggiornati nei contenuti ma restavano legati a una forma preistorica.
A quali titoli o registi alludi? Mi vengono in mente ad esempio alcuni lavori del gruppo Italnoleggio, film avanzati dal punto di vista dei temi, pur con i difetti intellettualistici tipici degli anni ’70, ma con una forma cinematografica, per l’appunto, preistorica. Questo problema, così propriamente italiano, è dovuto, secondo me, a un’attenzione molto sbilanciata verso il realismo. In che senso? Si tratta secondo me di un vizio di origine antica. Il cinema neorealista italiano era modernissimo narrativamente, ma formalmente non lo era affatto. Nei film di Pasolini, per esempio, la fotografia non è realistica, è tutt’altro che realistica. Lo
spettatore sente un artificio tecnico luministico in controtendenza rispetto alla modernità del racconto. In esterni si continuavano a posizionare le luci come si usava negli anni ’30, nonostante la luce naturale fosse sufficiente per impressionare la pellicola. Dopo decenni di stallo, finalmente – pur nella miseria finanziaria degli anni ’80, che ha fatto precipitare il cinema italiano dal punto di vista produttivo – una nuova leva di giovani filmmaker, non solo milanesi, ma anche romani, torinesi, napoletani, ha contribuito a un rinnovamento formale e stilistico del cinema italiano. L’avanguardia italiana degli anni ’80 è stata influenzata dal mondo pubblicitario, di cui tu stesso sei stato testimone diretto e professionista? No, la pubblicità non c’entrava nulla. Anche la pubblicità in Italia era “antica” dal punto di vista della forma. Quando lavoravo in pubblicità a Milano, l’arrivo dei direttori della fotografia inglesi provocò uno sconcerto generale, perché loro mettevano delle luci indirette, morbide e diffuse, creando luminosità molto belle e nello stesso tempo realistiche. Credo che l’enorme ritardo italiano rispetto al rinnovamento tecnico sia stato causato da vari fattori: la tradizione corporativistica italiana – romana – del sistema cinema; la trasmissione del sapere o familiare o delegata unicamente alla scuola, dove gli insegnanti spesso erano arzilli pensionati del cinema; l’elevata età degli operatori della fotografia, dei quali erano costretti a circondarsi anche i giovani registi. Da tutto ciò è derivata una trasmissione del sapere troppo lenta.
Tu invece ti riconoscevi già nei tecnici inglesi? Sì, in qualche modo “ideologicamente”. Anche io concepivo il lavoro senza molte luci artificiali, utilizzavo luci naturali o perlomeno fonti di luce artificiale semplici, anche di notte, come lampadine e neon. Per molti anni per questo motivo sono stato considerato bizzarro. Ricordo ancora lo sconcerto che provocai, una volta arrivato a Roma, con il mio utilizzo, continuo, anche di giorno, della pellicola a 500 ASA e non a 100 ASA. Ora tutti utilizzano la pellicola a 500 ASA, ma ai miei esordi era ritenuto un’offesa alle regole tradizionali del buon gusto cinematografico. Alla luce di questi nuovi accorgimenti tecnici, che tipo di cinema ti proponevi di fare, in veste di “dilettante” cinefilo? Il discorso che facevo prima, sulla mia formazione politica, credo spieghi molte cose. Avevo un’idea di cinema come strumento necessario e potente non solo per raccontare storie ma anche per rivelare aspetti nascosti della società. Viviamo in un mondo in cui un manto ideologico copre la struttura reale della società. Così come scava nelle storie individuali, il cinema può scavare nella dimensione
sociale. Le storie – ammesso che si abbia interesse a raccontarle – non devono essere soffocate o rese innaturali dall’artificio fotografico. Dobbiamo pretendere che le luci usate per raccontare una storia vera abbiano una plausibilità, una credibilità. Non sto parlando del realismo delle storie. Anche la luce di un film di fantascienza può essere plausibile, ossia avere una sua natura nascosta; anche in quel caso si può e si deve evitare che lo spettatore la percepisca come artificio fotografico. Lo spettatore deve sentire naturale ciò che sta guardando. Se si ritiene che il cinema possa essere uno strumento di lotta per la trasformazione della società, e io lo credo, si deve fare in modo che le luci abbiano un’adeguatezza al soggetto inquadrato e una plausibilità per lo spettatore. Fare un film senza fonti di luce aggiuntive, scoprire che è possibile fotografare senza artifici illuministici è stato per me una grande conquista, personale e artistica, se non anche politica. Si tratta di una libertà, di un patrimonio che mi porto dentro e che mi consente elasticità e flessibilità di fronte alle esigenze dei registi e delle storie; in contrasto con la rigidità che di sicuro avrei maggiormente acquisito se avessi frequentato una qualsiasi scuola. Senti di essere stato un avanguardista nel panorama cinematografico italiano negli anni ’80? Un avanguardista no... (ride). Sarebbe presuntuoso, ma sicuramente sono stato una figura anomala. Non ero mai stato su un set prima del mio primo film, non avevo mai visto allestire l’illuminazione di un set cinematografico, non avevo mai osservato nessuno lavorare alle luci se non all’interno del mondo della pubblicità (la cui estetica era quanto di più lontano da quello che speravo di proporre nel cinema). Tutto quello che ho fatto sui set di Silvio Soldini l’ho realizzato da autodidatta, probabilmente con tutti i difetti che ne conseguono. Ho cominciato con una lampadina, pensando fosse l’equivalente di un piccolo proiettore: la luce di una lampadina può essere diffusa, schermata, fatta rimbalzare e si deve tenere presente che è fonte di ombre. Si è trattato semplicemente di applicare su grande scala quello che mi suggeriva una lampadina. Tutto questo era d’altronde adeguato alle storie che con Silvio cercavamo di raccontare, storie realistiche. Silvio – molto consapevole della necessità di avere mezzi adeguati ai fini – metteva in scena delle storie possibili, e io mi sforzavo di usare mezzi possibili per luci plausibili. La cosa veramente innovativa forse è stata proprio il non avere avuto né maestri né esempi da seguire: è stato terribile come ho già detto, a volte addirittura angosciante, ma d’altra parte è stato importante perché mi ha permesso di pensare che si può fare qualunque cosa – lo penso tuttora –, senza avere remore o pregiudizi di fronte ad
alcun mezzo o possibilità tecnica. Essere costretto dalla scarsità di mezzi all’invenzione continua mi ha fatto capire, soprattutto agli inizi della mia carriera, che tutto è possibile. Detto questo, possiamo oggi applicare al tuo caso ciò che Federico Fellini diceva a proposito degli autori, che diventano tali quando diventano “aggettivi”? Voglio dire, esiste uno stile bigazziano? Interessante... (sorride). Io però detesterei pensare che il mio stile sia riconoscibile. Vorrei che ogni volta si riconoscesse piuttosto un tentativo di costruire la luce e l’inquadratura adeguate al film in questione. Sempre diverso dal film precedente. Se nel mio lavoro ci fossero delle soluzioni visive costanti lo vivrei come un grave problema. Quanto dici corrisponde alla mia sensazione di spettatore. Infatti quando mi trovo di fronte a un film di cui sei direttore della fotografia mi aspetto una sorpresa visiva. Forse è questa l’unicità dello stile bigazziano: l’incognita, la sorpresa visiva. Questo è il mio sogno. Cerco di capire quello che il regista vuole per il suo film, e dunque di dare in modo sempre nuovo e unico il mio contributo. Non impongo gusti fotografici, io non ho preferenze, tranne credere fermamente che la luce non si debba sentire, o si debba sentire il meno possibile. Puoi fare un esempio di “luce che non si sente”? Semplificando, se siamo di giorno è importante che non ci siano cinque ombre, ma una sola, dovuta alla luce del sole. Se siamo in un interno notte è importante che la fonte di luce inquadrata sia riprodotta e amplificata da una fonte di luce che venga dalla stessa direzione. Torna di nuovo il concetto di “plausibilità”, per non ricorrere al termine abusato di realismo. Hai già ribadito più volte di non aver avuto nessuna influenza da parte di maestri della fotografia del passato. Un orfano fiero, quindi? Sì, anche se in realtà le influenze sono continue, e non sono solo di derivazione cinematografica. Sono influenzato dai libri che leggo, dalla musica che ascolto, dai viaggi che faccio, dalle persone che incontro. Continuo ad essere influenzato da ciò che vivo tutti i giorni, sono una persona curiosa. Sono affezionato a tutto il cinema del passato, anche quando è lontano dal mio gusto fotografico. Ho
amato i film di Welles o di Cocteau, anche se non erano né “plausibili” né realistici come illuminazione. Nel cinema italiano, invece, amo molto l’esempio, clamoroso, di un direttore della fotografia che è entrato in contraddizione con tutto il classicismo precedente. È l’iniziatore che ha indubbiamente segnato la mia meraviglia e la mia riconoscenza: Gianni Di Venanzo. Pur essendo a conoscenza dei canoni della fotografia classica, Di Venanzo ha avuto il coraggio di illuminare, o meglio di non illuminare, il Consiglio Comunale di Napoli ne Le mani sulla città di Francesco Rosi con una luce sporca e documentaristica, inserendola in un film per altri versi molto elegante. Si è trattato, nel 1963, di un atto coraggioso e sovversivo rispetto alla forma “cementata” del cinema italiano del periodo. Dal punto di vista fotografico considero quel film un cardine, un punto di svolta nel cinema mondiale. Nessuno aveva mai compiuto una simile scelta: girare un interno così com’era, in quel caso l’interno del Consiglio Comunale. Forse non ha potuto illuminarlo, forse non glielo hanno permesso, e allora, a maggior ragione, ha avuto il coraggio di mantenere quella condizione fotografica e non ha accampato scuse o tecnicismi per convincere Rosi a non filmare. E così ha reso il Consiglio con tutte le imperfezioni, i grigiori, le piattezze rifiutate con tanto disgusto dal cinema di quegli anni.
Ammiravi anche il Gianni Di Venanzo di Fellini e di Antonioni? Certamente. In fondo, nella sua elegante complessità e nella sua elaborata forma, Gianni Di Venanzo ha avuto anche con Fellini e Antonioni una capacità di intervento paragonabile a quella che gli ha fatto decidere di non inserire nessuna luce aggiuntiva all’interno del Consiglio con Rosi. Gianni Di Venanzo è stato improvvisamente l’antidoto alla forma standardizzata del cinema italiano, ma per anni non si sono voluti riconoscere il suo contributo e la novità di cui è stato portavoce. Eri consapevole – intendo sul piano razionale – di questa ammirazione per Gianni Di Venanzo quando hai iniziato la carriera di direttore della fotografia? Come spettatore sì, sentivo che avevo davanti agli occhi una “differenza” formale. Ma come “addetto ai lavori” no, non capivo ancora quanto fosse stato importante il suo contributo tecnico. Ho capito con il tempo che quel risultato – che tanto mi piaceva – si poteva ottenere con la semplicità dei mezzi. Semplicità che allora non era accettata dal cinema italiano, anche, e soprattutto, per ragioni sindacali. Le produzioni piccole ti pressano per essere veloce e spendere poco, mentre il sindacato ti impone di avere una troupe pesante. Difficile districarsi in questa situazione. Comunque credo fermamente che siano i contenuti a indicare quale sia la giusta forma. Una “bella fotografia” è sbagliata se non è al servizio del film. Con “essere al servizio del film” intendi essere al servizio della sceneggiatura? Selezioni sempre il film a cui lavorare in base alla sceneggiatura? Certo. Sono arrivato al punto di poter scegliere. Faccio soltanto i film che voglio fare. La dignità morale della sceneggiatura è ciò che mi spinge ad accettare una collaborazione. “Dignità morale” secondo i miei criteri, ovviamente. Accetto se una sceneggiatura è valida da un punto di vista politico, morale, cinematografico. Non desiderando yacht né auto di lusso, ho guadagnato abbastanza nella vita da poter dire “questo film lo faccio, questo film non lo faccio”, anche a costo di farlo gratuitamente. È una questione di libertà. Oggi in Italia esistono registi molto dotati, ma ci sono condizioni produttive disastrosamente castranti. Il pubblico è diseducato all’etica, manca una generazione di cinefili e di spettatori attenti ai contenuti; i registi che vogliono raccontare qualcosa di personale e, ancor più, qualcosa dal significato politico
incontrano sempre maggiori difficoltà. Per queste ragioni gli unici film che io sento veramente di voler fare sono generalmente film poveri, miserandi, dal punto di vista produttivo. Film “miserandi” che diventano sfide tecniche e artistiche... Proprio questo mi interessa. Le sfide dei film poveri sono le sfide più complesse: mi riportano agli inizi della mia carriera, ma non mi spaventano perché mi consentono di fare di nuovo cose che, dal punto di vista tecnico, facevo agli esordi. Sono sfide che affronto con una tranquillità frutto di analoghe esperienze passate. Quando mi viene chiesto, o io stesso mi impongo, di non mettere neanche una luce, sono contento: è una ginnastica mentale, depurante per il mio stesso occhio; è una situazione molto più stimolante, più interessante. C’è qualcuno che ancora crede che sia impossibile fare un film senza luci, mentre tutto questo è possibile. E, costando di meno, anche il mio contributo è maggiormente compatibile con l’auspicata libertà dei registi. Mi viene in mente a questo proposito, un film veramente coraggioso che abbiamo fatto con Daniele Segre nel 1992, Manila Paloma Blanca. Abbiamo girato senza luci, solo lampadine, senza gruppo elettrogeno, un solo elettricista, 16mm, utilizzando volutamente pellicola Fuij scaduta, tutto con macchina a mano. Volevamo un’immagine sporca, documentaristica, reale. La macchina da presa si muoveva a tutto campo. Ricordo una scena in cui era rimasto solo lo spazio per me e gli attori, Carlo Colnaghi e Lou Castel. Daniele era dovuto rimanere fuori dalla piccola stanza in cui giravamo e fidarsi di noi, senza controllo video... Tre anni dopo, nel 1995, grazie a Lars von Trier girare così era diventato possibile. Non hai collaborato agli ultimi quattro film di Silvio Soldini – Agata e la tempesta, Giorni e nuvole, Cosa voglio di più e quello attualmente in postproduzione. Si è rotta l’amicizia liceale? Niente affatto (sorride). Semplicemente credo si debba porre fine alle collaborazioni di lunga data. Il rapporto tra regista e operatore, pur intenso, come quello che c’è stato tra Silvio e me, deve finire prima o poi, altrimenti rischia di diventare una pericolosa simbiosi. Esattamente come in un rapporto amoroso dopo molti anni vengono a mancare gli stimoli, lo stupore, la curiosità reciproca. È del tutto normale interrompere, necessario e salutare. Ad esempio, il rapporto tra Godard e Raoul Coutard, durato decine e decine di anni, è stato, a mio parere, deleterio. Se le storie sono diverse ma la forma è sempre la stessa, c’è qualcosa che non va. Non è nelle mie corde riprodurre uno standard consolidato e
comodo. Non penso affatto di dover lavorare sempre con gli stessi registi, ma che sia giusto trovarsi, perdersi, ritrovarsi. Quindi non escludi di tornare a lavorare con Soldini? Certo che non lo escludo. Non smetterò mai di dire che se faccio questo lavoro lo devo a Silvio Soldini, con lui ho iniziato e da lui, in quegli inizi, ho imparato, tutto.
La luce, il tempo, la camera Abbiamo discusso dei tuoi esordi e dei tuoi lavori nell’arco degli anni ’80. Nel decennio successivo avvengono molti cambiamenti: riguardo la tua notorietà, la qualità dei film a cui prendi parte, il loro successo critico. Si apre una stagione felice in cui alterni collaborazioni con Soldini, Martone, Mazzacurati, Amelio, Ciprì e Maresco, Piccioni. La produzione degli anni ’90 è stata conseguenza diretta dei miei lavori nel decennio precedente. Ho avuto la fortuna di iniziare con prodotti dignitosi, spesso di nicchia e magari poco remunerativi da un punto di vista economico ma certamente “radicali” dal punto di vista formale. Sono stato determinato nel proseguire su quella strada. Sono pochi i titoli commerciali nella mia filmografia. Ed è il frutto di una scelta, non del caso. Le scelte fatte nella vita ci accompagnano sempre. Se si inizia con Soldini e si prosegue con Martone si può arrivare miracolosamente ad Amelio. Le mie scelte hanno comportato delle rinunce. I compensi a volte sono stati minimi. Quando ho girato Lamerica, per esempio, la mia paga è stata quasi quella di un macchinista, ma questo non mi ha impedito di accettare con entusiasmo di fare il film. La coerenza nelle scelte artistiche e politiche comporta una vita morigerata. Le scelte che ho compiuto e compio tuttora a volte si ripercuotono sulla mia vita privata, per esempio non ho avuto dei figli. Sapevo che meno responsabilità private avrei avuto e più sarei stato libero nelle scelte professionali. È dura da sostenere, ma è la realtà. Il mio lavoro comporta continui spostamenti, non solo fisici ma anche emotivi. Mi assento per mesi, abbandono la mia vita normale, mi calo interamente nel lavoro, di film in film. Non potrei far fronte a responsabilità verso dei figli. Sei pienamente soddisfatto della tua vita? Sono felicissimo (sorride), mi considero una delle persone più fortunate del pianeta da ogni punto di vista, rifarei tutto quello che ho fatto. Il mio lavoro continua a piacermi e a divertirmi, forse perché non ho ancora smesso di scoprire e capire delle cose. Non c’è film in cui non impari qualcosa di nuovo, probabilmente perché, essendo partito da zero, non ho ancora cognizioni complete. Intendi cognizioni tecniche?
Sì, in parte. Mi spiego meglio: le questioni tecniche del mio lavoro si potrebbero riassumere in tre ore, sarebbe come leggere un qualsiasi manualetto di cento pagine. Il problema è come applicare la tecnica, come ottenere i risultati concreti. Se pensi che non sono mai stato sul set di un film di cui non fossi il direttore della fotografia, puoi capire che ogni luce che accendo, in fondo, è ancora oggi un’esplorazione di qualcosa che non conosco bene. Non sei mai stato su altri set cinematografici? No, mai. Non so come lavorano gli altri direttori della fotografia. Non ho fatto quell’apprendistato canonico di cui abbiamo parlato, che prevede un lungo periodo da aiuto, poi un periodo da assistente e poi da operatore. Mi sono ritrovato a 23 anni a illuminare un film senza sapere come funzionasse un set cinematografico. Ero stato sui set pubblicitari, ma quell’esperienza non mi è stata affatto utile. Potrei sembrare presuntuoso, ma credo di aver anticipato l’invenzione di alcuni strumenti. Strumenti che avrei dovuto provvedere a brevettare; ho sbagliato a non farlo... Quali strumenti hai inventato? Si tratta di piccole scoperte o di modifiche, più che di invenzioni. Fin dai primi film mi sono reso conto che i neon sono uno strumento interessante e utile. Ma allora – parliamo del 1983 – non esistevano i Kino Flo, non li avevano ancora progettati. Mi ricordo che, insieme ad Alessandro Saulini, il mio capo elettricista – lavoro ancora con lui, dopo ventisei anni – costruii una sorta di bank di neon, fatto di compensato incollato. A un certo punto, scaldandosi, la colla si scioglieva, e il bank si distruggeva. La struttura però era davvero uguale ai Kino Flo e ai Kobold che esistono oggi. Queste sperimentazioni nascevano dal fatto che non avevamo soldi. Il neon, infatti, è una fonte economica, facilmente reperibile, produce una luce morbida. Il problema dei neon è che la luce si disperde, per cui bisogna riuscire a concentrarla, a orientarla. Mi ricordo che un giorno mi trovavo in un ascensore illuminato con dei neon. Notai che le pareti erano particolarmente al buio, e non ne capivo il perché. Guardai in alto e vidi i neon coperti da una piccola griglia che orientava la direzione della luce. Adottai quella soluzione nel lavoro: comprammo delle semplici ed economiche griglie di plastica e facemmo delle “bandiere” per non far disperdere la luce dei neon. Avrei dovuto brevettare anche queste bandiere! Vedere, a distanza di anni, i Kino Flo sul mercato, disponibili per i professionisti, è stata una sorpresa. Resta il fatto che i nostri strumenti, ovviamente, crollavano a pezzi. Erano fatti a mano...
Ricordo anche di aver utilizzato le “palle cinesi”, quelle di carta, che allora costavano al massimo 4.000 lire nei peggiori negozi di bigiotteria: ebbene, le palle cinesi non avevano nulla di diverso dalle “Chimera”, lampade che si usano oggi in fotografia e nel cinema e che sono state brevettate. In fondo non si tratta di altro che di sfere di stoffa con dentro una lampadina, niente di più. Che effetto si ottiene utilizzando queste palle cinesi? Fanno una luce morbida, molto concentrata. Sono leggere, non hanno nessun ingombro, si possono posizionare ovunque, anche per terra. Quando sono passato dalla mia indipendenza artistica milanese alla realtà del cinema romano, la palla cinese di carta appoggiata per terra ha gettato nello sconcerto sia gli elettricisti che le produzioni. Così come hanno suscitato un certo scherno quei primitivi tubi di neon assemblati dentro una specie di bank (che all’inizio
facevamo di legno, poi di metallo). Io invece considero questi strumenti il mio piccolo patrimonio tecnico, nato dall’osservazione della realtà e delle fonti di luci esistenti e utilizzabili. I neon e le palle cinesi erano oggetti presenti nella vita quotidiana: l’“invenzione” consisteva solo nel pensare di utilizzarli nell’ambito dell’illuminazione cinematografica. Faccio un altro esempio. L’imbarazzo che ho sempre avuto nell’illuminare gli esterni notte nasce dal fatto che la qualità della luce delle lampade stradali non è riproducibile con le luci cinematografiche, perché le prime sono spesso sbilanciate nei toni del verde e dell’arancio oppure del blu e del verde. Sono lampade al sodio o al mercurio. Ogni volta che in un esterno notte sono presenti dei lampioni e si inserisce una luce canonica, secondo la prassi cinematografica, si crea inevitabilmente uno squilibrio cromatico, si dichiara la presenza di una luce estranea. Io mi trovo ad un bivio in queste situazioni: o ricreare la prospettiva di una strada di notte, ma questo comporta mezzi, soldi e tempo, oppure intervenire con luci che abbiano una qualità simile a quelle già esistenti. Per ovviare a questo problema ci siamo costruiti dei supporti per utilizzare le stesse luci che sono presenti nelle strade delle città. Ho una dotazione di luci al sodio e al mercurio che utilizzo per gli esterni notte. Illuminano poco, perché si tratta di lampadine, ma se ne possono usare numerosissime, con poca spesa. Cerco di non distruggere, e neanche solo alterare, la natura delle luci presenti nella realtà. Cerco di intervenire, ma con cautela e rispetto. Su quali set notturni hai utilizzato queste lampade al sodio e al mercurio? Per esempio sul set di Così ridevano... Per riprodurre l’effetto dei famosi lampioni torinesi... Il film è ambientato negli anni ’50 ma quei lampioni con dentro delle semplici e fioche lampadine a incandescenza non esistevano più, purtroppo. Erano stati sostituiti dalle più economiche lampade al sodio. E allora, anche in quel caso, mi sono trovato di fronte a un bivio: sostituire tutte le lampade stradali che incontravo – e potete immaginare non solo il costo ma anche le limitazioni alla creatività e all’improvvisazione che questo avrebbe comportato – oppure adattarmi e utilizzare quelle presenti oggi, amplificandole con altre della stessa natura. Poi, in fase di stampa, rimediare allo sbilanciamento cromatico dovuto alla scarsa qualità delle lampade al sodio. Chiesi al Comune di Torino di fornirci i reattori, gli starter e le stesse lampade che stavano utilizzando per illuminare la città in quel momento, e con quelle, solo con quelle, ho girato le notti torinesi di
Così ridevano. In fase di stampa poi ho decolorato e tolto il verde in eccesso. Semplice, economico e soprattutto veloce. Quelle lampade le ho ancora con me. E le ho perfezionate. Sono contento di non avere preconcetti: nelle scuole di fotografia e di cinema nessuno ti parla delle lampade stradali come possibili fonti di illuminazione, usarle è considerato un’eresia o, peggio, un madornale errore. Hai citato le scuole di cinema e di fotografia... L’attitudine a utilizzare fonti non convenzionali per illuminare un set nasce in qualche modo dal non aver mai frequentato una scuola, dalla mancanza di una formazione tecnica. Sono sicuro che se non fosse andata così avrei avuto dei timori o delle resistenze maggiori. Anche gli inizi “poveri” del mio lavoro, come ho già detto, sono stati determinanti: utilizzavo tutto quello che trovavo a portata di mano e che si rivelava utile per illuminare una scena, per lavorare in maniera più adeguata e più veloce in rapporto a mezzi produttivi esigui. Quindi lavorare in maniera adeguata al film vuol dire anche rispettare i tempi di produzione? Sì, è questo il mio obiettivo. Cerco sempre di adottare delle soluzioni molto lineari, elementari. Faccio sempre la cosa più semplice che mi viene in mente, perché penso che ogni minuto che il mio lavoro sottrae agli attori è un minuto perso per il film. Sono convinto che l’operatore e il direttore della fotografia abbiano il dovere di lavorare nel modo più veloce possibile. Non sopporto di far posizionare una luce e di trovarmi poi a dover chiedere di spostarla solo perché mi sono reso conto di aver commesso un errore di valutazione. Ho il massimo rispetto per il lavoro dei miei collaboratori. Per non parlare dell’imbarazzo che provo nel chiedere a qualcuno di spostare luci e proiettori pesantissimi da una parte all’altra solo perché mi sono accorto tardivamente che non funzionano. Tutto il tempo che spreco sul set è tempo sottratto al film, al regista, alla possibilità di fare più inquadrature e più riprese con gli attori. Sento il dovere di fare delle cose semplici. Per altro, le soluzioni semplici funzionano molto bene e sono quasi sempre le più adeguate. In fondo... (si interrompe, pensieroso) che cosa mi viene richiesto? Mi viene chiesto di illuminare dei volti e degli ambienti e di farlo nella maniera più veloce possibile. Il protagonista non sono io, direttore della fotografia. Io sono solo il responsabile della resa visiva dell’opera, della coerenza visiva del film. Non è a me che si chiede di fare cose complesse: quelle spettano agli attori. Io devo solo cercare di fare una buona fotografia nel
minor tempo possibile. Credo che sia questo il cuore del mio lavoro. Alcune tue espressioni mi confondono. Non capisco come tutto il tuo lavoro possa essere – secondo il tuo pensiero – frutto di un’operazione semplificata e subordinata. Sei un protagonista della scena cinematografica italiana degli ultimitrent’anni. Hai creato dei veri e propri quadri che rimangono nella memoria visiva degli spettatori cinefili...
Ammesso che sia vero, probabilmente è avvenuto perché ho saputo intercettare quello di cui il film aveva bisogno. Questa è l’unica cosa che spero mi venga riconosciuta: la capacità di capire le richieste del film, un qualcosa che mi auguro derivi da una più generale idea della vita, e non solo del cinema. Mi spiego meglio. Se mi trovo ad affrontare un film sulla vita di Andreotti, faccio
ricorso non solo ai suggerimenti visivi della sceneggiatura, che pure sono molti, ma anche alla mia esperienza personale di quegli anni, al mio ricordo, a quello che ho conosciuto direttamente, all’interpretazione politica di quel periodo. Cerco di calarne la mia percezione sensibile nell’immagine cinematografica che mi viene richiesta. Gli anni di Andreotti mi viene da dire, molto banalmente, erano tremendamente bui, e qualcosa di mostruoso e di misterioso si celava dietro alcuni personaggi, tuttora non sappiamo cosa. Ecco quindi spiegata, per Il divo, la scelta fotografica, semplice ma efficace spero, di inserire il personaggio in ambienti scuri e minacciosi. A cominciare dall’abitazione privata di Andreotti... Esatto. Questa scelta rese le cose molto più semplici, perché dovevo inserire meno luce, non “più luce”. Dovevo solo capire come metterla e dove metterla, quella “poca luce”. Così era tutto semplificato e molto veloce, al servizio del modesto budget del film, un budget per nulla degno di un’opera di tale importanza e qualità. D’altra parte l’illuminazione semplice era in accordo con le esigenze della sceneggiatura e questo consentiva al regista di effettuare tutte le inquadrature che desiderava, in velocità e piena libertà. Non mi assumo altri meriti, anche perché le scelte fondanti sono del regista. Sorrentino, per esempio, ha le idee chiarissime anche dal punto di vista fotografico. Un altro esempio da Il divo: lo studio di Andreotti, nelle scene diurne, doveva avere le persiane chiuse e le luci artificiali interne accese. Era un’idea di Paolo e ha orientato la mia illuminazione. Gli era venuta da un incontro che ha avuto con Andreotti nel suo studio, cupo e avvolto dalle tenebre anche di giorno. La realtà delle cose, dei luoghi, dei volti è e deve essere fonte di continua ispirazione per chi cerca di fare, con attenzione e passione, il nostro lavoro. L’osservazione della realtà regala suggerimenti che nemmeno la più fervida immaginazione potrebbe offrire.
Sembra che tu senta una sorta di responsabilità civile e culturale nei confronti del tuo lavoro e di conseguenza dell’illuminazione di un film... La comprensione del film dal punto di vista fotografico viene innanzitutto dal rapporto e dal confronto con il regista, ma viene anche dalla mia competenza culturale: il mio vissuto, le mie conoscenze artistiche e musicali. Faccio tesoro di tutto quello che vivo, non potrei affrontare la vita con indifferenza o distrazione. Devo capire qual è il “segno”, visivo e fotografico, dei tempi che sto attraversando. Se non avessi vissuto gli anni di Andreotti in prima persona non avrei saputo illuminare un film come Il divo. Quando mi sono ritrovato a lavorare con Amelio in La stella che non c’è ho dovuto affrontare un grande imbarazzo personale e quindi professionale, perché dovevo illuminare l’interno di una casa proletaria cinese, un posto in cui non ero mai entrato, che non conoscevo, né dal punto di vista fotografico, né da quello umano. Non sapevo se le case fossero sovrailluminate o buie, se fossero illuminate con neon o con lampadine, o se, per paradosso, i cinesi usassero ancora le candele. Mi genera grande imbarazzo illuminare qualcosa che non conosco. Come sarei in imbarazzo nell’illuminare un film in costume, ambientato nell’800, periodo di cui ho una conoscenza soltanto mediata da quadri e letture. I film in costume
sono illuminati quasi sempre in maniera fuorviante, non realistica. Tu però hai fatto film in costume. Penso a Morte di un matematico napoletano, aa Così ridevano...
Attenzione, per film in costume intendo film ambientati in epoche in cui ancora non esisteva la luce artificiale, la luce elettrica. I film che hai citato non li considero in costume, nonostante richiedessero un tipo di illuminazione diversa da quella odierna. Tra tutti i film a cui ho lavorato, solo Un viaggio chiamato amore di Michele Placido è prettamente in costume. C’erano scene in ambienti illuminati solo con candele. Se parliamo di candele, non possiamo non ricordare il contributo di John Alcott sul set di Barry Lyndon di Kubrick. Cosa pensi della soluzione filologica che ha portato a illuminare le scene solo con le candele? Penso che fu così solo in parte. Credo ci sia un po’ di mitologia riguardo a quel film. Le scene illuminate con le candele sono solo alcune, e cioè quelle in cui si poteva effettivamente farlo, ossia negli ambienti piccoli. Sono convinto che, dove gli ambienti erano più grandi, Alcott e Kubrick abbiano usato anche altre fonti di illuminazione, a supporto. Non bisogna essere rigidi nella ricerca della luce naturale, non penso affatto che le soluzioni tecniche artificiali siano
sbagliate. Anzi, possono essere interessanti e creative. Io stesso so di compiere delle forzature in certe occasioni, ma resto sempre attento alla plausibilità delle luci. Sono ossessionato dall’idea che lo spettatore possa sentire l’artificio fotografico, non dico l’intervento, ma l’artificio. Spero che lo spettatore non capisca dove e come sono state posizionate le luci, e che resti concentrato sul racconto cinematografico e la recitazione. Sembri quasi severo di fronte a certe tue prestazioni illuministiche... Lo sono... Mi interrogo molto sulla questione delle luci. Cerco sempre di scegliere una luce unica per l’ambiente. Mi dicono che alcuni miei colleghi posizionano le luci per un’inquadratura e poi le spostano per l’inquadratura successiva, pur rimanendo sempre all’interno dello stesso ambiente. Questo metodo non mi è chiaro. Io cerco di creare per ogni ambiente una luce unica, che tendenzialmente non sposto mai tra un’inquadratura e l’altra. In altri termini, tra un campo e un controcampo sposto la macchina da presa, non le luci (sorride). Questo modo di operare va oltre la questione del realismo, per me è quasi un comandamento, un fatto etico. Oltretutto, spostando le luci rischierei di compromettere la continuità fotografica della scena... Detesto che ci siano degli stativi in giro, i movimenti della camera e degli attori devono essere liberi. La macchina da presa ha il diritto di muoversi, e gli attori con essa, a 360 gradi. Cerco di appendere il più possibile le luci al soffitto, di giorno metto le luci fuori dalle finestre per non avere ingombro sul set. È il movimento della camera a “cambiare” la luce: un controluce è tale in rapporto ad una determinata posizione della macchina da presa, ma se muovo la macchina di 180 gradi quel controluce diventa una luce frontale piatta. Il risultato al quale voglio arrivare non è sempre facile dal punto di vista tecnico. Ed è ovvio che le esigenze stesse del film possano richiedere dei compromessi con questo principio. Queste tue soluzioni sono accettate e condivise dai registi con cui collabori? Credo di sì, anche perché qualunque regista richiede al suo operatore di essere veloce, rapido ed efficace. Non mi è mai successo di lavorare con un regista che mi chiedesse di impiegare più tempo di quello che avevo impiegato (sorride), quindi penso di sì. È ovvio che il risultato deve essere buono. È un’equazione complessa questa tra la velocità e l’adeguatezza delle luci al racconto. Improvvisi sul set le inquadrature e le luci oppure le programmi e le studi in
anticipo, la notte prima? Ecco: all’inizio mi capitava spesso di pensare il giorno prima, o il mese prima, a ciò che avrei fatto il giorno dopo, o il mese dopo. Oggi vado sul set totalmente impreparato: una volta compreso il tono del film, mi rifiuto di pensare a ciò che farò il giorno dopo. Preferisco che una variazione minima di ogni giornata influenzi il lavoro del giorno successivo. I film sono in continua evoluzione, si ribellano alle nostre previsioni e alle nostre considerazioni iniziali, i film hanno uno sviluppo sia riguardo alla fotografia che alle inquadrature a cui non possono essere preparati né il direttore della fotografia né il regista. Questa evoluzione “naturale” del film va assecondata, non contrastata. Se si pensa troppo rigidamente a ciò che si farà, si castra l’anima del film, si rischia di provocare uno scontro frontale con quelle che sono le sue mutevoli esigenze. Per non parlare degli imprevisti che ogni giorno accadono sul set e di cui si deve tener conto...
Ad esempio, banalmente, i cambiamenti meteorologici? Certo, imprevisti meteorologici, ma a volte anche imprevisti tecnici, problemi degli attori o umori del regista. Bisogna essere elastici. Si deve rispettare la natura mutevole di un film, il suo farsi. L’importante è essersi dati delle coordinate generali. Avere un’idea di dove posizionare le luci già dal giorno prima porta a una rigidità e a una disattenzione verso l’imprevisto. E lo stimolo creativo ne risente. D’altro canto, penso e preparo in anticipo quello che dovrò fare se ho delle esigenze particolari o complesse. Se devo posizionare luci ingombranti oppure ho bisogno di adottare un tempo di illuminazione particolarmente lungo è chiaro che devo prevederlo sin dal giorno prima. Naturalmente è anche vero che agli inizi della mia carriera mi preparavo molto, per timore, prima di arrivare sul set... Questo fino a quando? Per i primi dieci film... (ride). Poi a un certo punto ho cominciato ad avere fiducia che qualcosa sarebbe comunque venuto fuori. Ho iniziato ad affidarmi all’improvvisazione. E poi, diciamolo, se qualcosa viene male – a meno che non ci sia un errore tecnico come una sfocatura o magari una sottoesposizione – nessuno mai potrà dirti che la luce è sbagliata: può non essere particolarmente in linea con il resto del film – quello della “adeguatezza al film” è il mio credo professionale, come dicevo prima – ma se è a fuoco ed è esposta correttamente, nessuna luce è “sbagliata”. Quindi non ti sei mai pentito, a posteriori, di nessuna scelta illuministica o di nessuna inquadratura... In realtà penso continuamente di aver sbagliato. Non sono mai soddisfatto di quello che faccio. È lo stop del regista che in qualche modo sancisce la mia condanna... Temo di non seguirti. Hai ragione (ride). Mi spiego: credo in qualcosa di mistico. Una volta che ho detto a qualcuno di posizionare le luci, non chiedo più di spostarle: a quel punto entrano in campo dei “grandi desideri” che fanno sì che funzionino anche quelle luci che non avrebbero funzionato. Un minimo spostamento della macchina, un minimo spostamento degli attori, un minimo spostamento di elementi della scenografia, oppure anche solo l’enorme desiderio che una luce funzioni fanno sì
che quella luce alla fine funzioni davvero. Vivo una scissione, una contraddizione, quasi una schizofrenia dentro di me, dal momento che da sempre sono contemporaneamente direttore della fotografia e operatore alla macchina. Occupo una parte della mia giornata a fare, freneticamente, il direttore della fotografia e l’altra parte a fare l’operatore alla macchina, dimenticando il lavoro svolto sin lì come direttore della fotografia. Come operatore a volte mi rendo conto che il direttore della fotografia dovrebbe apportare delle modifiche. Compio allora dei piccoli interventi per aiutare il direttore della fotografia che è in me, e quindi sposto di pochi centimetri la macchina, o chiedo all’attore di fare un passo avanti o indietro. In qualche modo le luci ormai posizionate trovano degli aggiustamenti in maniera naturale nel corso della ripresa. Il desiderio produce sempre dei piccoli miracoli e, alla fine, il risultato è quasi sempre quello che vorrei. C’è una sorta di misticismo agnostico che mi accompagna nella vita.
Il direttore della fotografia e l’operatore alla macchina si aiutano sempre a vicenda o a volte litigano? Diciamo che si tollerano. Anche se è preponderante e molto più incisivo l’operatore di macchina che è in me piuttosto che il direttore della fotografia. Stare alla macchina da presa è la cosa a cui dedico più tempo; per il 20% della giornata studio e posiziono le luci e per l’80% faccio l’operatore. Il mio ruolo
alla macchina da presa è molto più coinvolgente. Quali motivi ti hanno spinto fin dall’inizio ad assumere anche il ruolo di operatore? Sono operatore perché non potrei mai immaginarmi solo direttore della fotografia. Credo che l’80% delle questioni fotografiche siano legate alla scelta delle ottiche e alla scelta delle inquadrature, e non al posizionamento delle luci. Dal punto di vista della percezione dello spettatore conta molto di più una bella inquadratura piuttosto che una bella luce. Inoltre, sono operatore perché il rapporto non verbale che si crea sul set con gli attori passa molto di più attraverso il mio ruolo alla macchina che non attraverso quello di direttore della fotografia. Una volta che il regista ha dato le indicazioni, chi rimane di fronte all’attore è l’operatore. Forse anche in questo c’è un aspetto in parte mistico del mio lavoro. La possibilità di comunicare non verbalmente con gli attori, di mandare loro dei segnali, delle sensazioni, è una preziosa esclusiva dell’operatore alla macchina. Sento che gli attori mi capiscono, che capiscono le mie intenzioni dietro la macchina da presa, senza che debba esplicitarle verbalmente. E quando questo non accade, magari con attori un po’ refrattari, me ne faccio una grande colpa e provo un profondo dispiacere. L’empatia che viviamo con le persone è di natura quotidiana, ma nel cinema è determinante. Una delle doti di chi fa questo lavoro, davanti e dietro la macchina da presa, dovrebbe essere un’immediata e complice empatia, fatta di intuizioni veloci, contro il tempo. Con le parole non basterebbero mesi. Mi pongo l’obbligo di essere il più empatico possibile. Devo essere in grado di capire quello che il regista, gli attori e la troupe tutta mi richiedono. Così il mio sapere tecnico approda e si perde in una dimensione sensibile, e mistica (ride). Mi fido delle mie sensazioni, dei miei umori, delle mie impressioni. Ad esempio, come ho già detto, la scelta di collaborare con certi registi, o a certe sceneggiature, e non con altri è determinata dal fatto che scatti o meno un’intesa fatta di sguardi, percezioni fisiche e complicità di idee. Ho detto no ad alcuni film semplicemente sulla base di un’impressione (con la quale non riuscivo a scendere a compromessi). Può anche capitare che tra me e registi che ammiro, e di cui ammiro le opere, si crei una sorta di muro, per cui non ci si capisce e si arriva a rinunciare alla collaborazione. E che rapporto hai con la camera a mano? Fosse per me io girerei sempre e solo con la macchina a mano. Esigenze del
copione permettendo. Certo, la camera a mano dichiara la sua presenza, esplicita un punto di vista, svela l’artificio della messa in scena, per questo il suo utilizzo deve essere misurato e sensato. Quando non è fine a se stessa, come in certi film di Lars von Trier, ma è al servizio della posizione e dei movimenti degli attori, liberandoli dai segni sul pavimento e dalla rigidità, ecco che la camera a mano diventa uno strumento meraviglioso di creatività, invenzione, apertura all’imprevisto. Di fronte alla camera a mano l’attore si sente più libero, facilitato nel recitare, nel muoversi, nel restituire emozioni. Ho notato anche che, di fronte alla fatica fisica dell’operatore, gli attori danno il meglio di sé. Scatta la solidarietà umana... Un esempio di sequenza in cui hai utilizzato la camera a mano? Ricordo la ripresa, la più complessa della mia carriera, che accompagna Toni Servillo all’interrogatorio, nel sottofinale de Le conseguenze dell’amore. Un piano sequenza a mano di 8 minuti: la macchina da presa partiva dalla stanza di Titta, percorreva il corridoio all’indietro, entrava in un ascensore piccolissimo, dove c’era spazio solo per me e Toni Servillo (il mio assistente prendeva l’ascensore adiacente), arrivava al piano terra, abbandonava con una leggera panoramica Servillo per dar vita a una soggettiva – da quel momento tutte le comparse guardavano in macchina come se stessero guardando Servillo –, scendeva quattro gradini, attraversava un altro corridoio, girava di 180 gradi, superava una porta, entrava in una grande sala dove era allestito un congresso di urologia, e, dopo un’altra piroetta di 180 gradi, si fermava. Da lì partiva l’interrogatorio: la macchina era ancora a mano, ma io nel frattempo mi ero finalmente seduto su un cubo. All’inizio di quest’ultima parte della ripresa in piano sequenza si può notare nel film un leggero tremolìo, dovuto alla mia fatica e al mio affanno. Girammo la scena solo quattro volte. Venne montata la seconda. Non sempre l’ultima è la migliore. La cosa più difficile è stata sostenere il peso della camera per tutto quel tempo: solitamente si gira con un caricatore di pellicola da 120 metri, che è più leggero ma dura meno, all’incirca tre minuti e mezzo. In quel caso, dovendo filmare quasi 8 minuti, usammo un caricatore da 300 metri montato su una vecchia macchina da presa 535, molto pesante. La tara complessiva era veramente terribile. Perché non utilizzasti la steadycam invece della camera a mano? Io detesto la steadycam, a prescindere dal fatto che non so usarla. Dà una sensazione di finta stabilità, produce un effetto di galleggiamento che porta lo
spettatore a sentirsi in un acquario. Secondo me l’oscillazione che rende “imperfetta” la macchina a mano è molto più naturale della presunta stabilità offerta da una steadycam. Quando la macchina a mano riesce a prendere lo stesso ritmo del passo dell’attore che stiamo riprendendo, l’effetto assomiglia a un carrello, con delle oscillazioni realistiche e naturali, quasi impercettibili, simili al movimento umano. La steadycam poi è molto ingombrante e imprecisa. La macchina da presa è fatta per guardarci dentro con l’occhio, attraverso l’oculare, mentre l’operatore steady guarda inevitabilmente attraverso un monitor, cosa che gli impedisce, per esempio, di mantenere il controllo del fuoco, uno dei fattori determinanti del lavoro di un operatore. Come strumento in sé mi ripugna. Ovvio che se dovessi affrontare una scalinata – e non soltanto quei quattro gradini nella sequenza con Servillo che ho raccontato – vorrei approfittare della comodità della steadycam. A volte abbiamo scelto di usarla: Il divo, This Must Be the Place e Romanzo criminale sono pieni di sequenze girate con quella camera. La utilizzo quando penso che sia la soluzione visiva migliore, o l’unica possibile. La sequenza della festa da ballo a casa di Cirino Pomicino ne Il divo è un piano sequenza girato con la steadycam. In quel caso l’operatore Alex Brambilla ha fatto un lavoro perfetto, non si avverte l’effetto “acquario”. Paolo voleva un’inquadratura dall’alto e costruimmo una pedana di legno su cui l’operatore steady saliva e poi scendeva, a imitare un dolly. Come vedi non rinnego la steadycam, ma in linea di principio preferisco governare la macchina a mano, direttamente, e lavorare con l’occhio appoggiato sull’oculare, come un vecchio conservatore...
Napoli Nei film a cui hai lavorato, la città assume un peso rilevante all’interno della narrazione e non solo dell’ambientazione. Sicuramente grazie anche al tuo contributo. C’è una città in particolare, Napoli, che vorrei ripercorressimo insieme. La Napoli di Morte di un matematico napoletano, de L’amore molesto, de Lo spazio bianco. In questi film ci sono immagini che sono vere e proprie emozioni visive impresse nella mia memoria, come per esempio Anna Bonaiuto vestita di rosso sotto la pioggia per le vie partenopee... Napoli è una città che cambia sempre. La Napoli di Morte di un matematico napoletano è una città completamente diversa dalla Napoli de L’amore molesto. Questi due film sono stati girati a distanza di tre anni l’uno dall’altro, eppure sono sideralmente lontani dal punto di vista visivo. Il primo era un film ambientato in un’epoca passata, il secondo in epoca contemporanea, e già questo crea uno stacco. Anche le condizioni produttive dei due film erano diverse. Morte di un matematico napoletano era un film molto povero, nonostante fosse in costume. Non potendo intervenire sulla scenografia in modo incisivo, io e Mario pensammo di stendere un tono giallastro, molto evidente, su tutto il film. Nel caso de L’amore molesto, invece, volendo rendere il caos della Napoli contemporanea abbiamo scelto una desaturazione che accentuasse il carattere grigio e soffocante della metropoli.
Parli di desaturazione, eppure l’immagine di Anna Bonaiuto con l’abito rosso, per strada, sotto la pioggia rappresenta uno shock visivo, indelebile... Quella è stata una scelta della costumista Metella Raboni, se non, ancor prima, di Elena Ferrante, l’autrice del romanzo. La collaborazione con il costumista o con lo scenografo può essere fonte di suggerimenti preziosi per il direttore della fotografia. Molto spesso sono gli stessi ambienti e i luoghi a suggerirmi un’idea fotografica. Ecco perché nelle scene notturne di un qualunque film parto sempre dalle luci già esistenti nell’ambiente reale o messo in scena: un’abat-jour, un lampione. La sequenza notturna del falò sulla spiaggia, con Angela Luce, l’hai ripresa con la luce di quelle fiamme? In linea di massima le luci date dalle fiamme cerco di lasciarle e di utilizzarle come tali. Se ho bisogno di amplificarle o di evitare che le fiamme vengano sovraesposte, come in quel caso, uso delle luci aggiuntive che ne rispettino la direzione e non ne violentino la natura. Per quella scena ricordo che avevamo seppellito nella sabbia un piccolo proiettore che illuminava l’attrice in
controluce, un sistema semplice e veloce dato che si trattava solo di scavare nella sabbia e non nel cemento... Invece, nella scena in cui Anna Bonaiuto scende nella cantina e per farsi luce accende un fiammifero, ho utilizzato una palla cinese appesa ad una cantinella come supporto all’illuminazione del volto dell’attrice. La sola luce del fiammifero avrebbe creato un “buco” nella lente, invece con la palla cinese ho ammorbidito e amplificato la luce nel quadro senza rovinarne l’oscurità. Con un piccolo dimmer, poi, ne variavamo l’intensità luminosa, ottenendo l’effetto di una vera e propria fiammella. Essendo la luce trasportabile, poi, poteva seguire l’attrice nei suoi movimenti. C’è una sequenza di L’amore molesto di cui sei particolarmente soddisfatto? Beh, quella che citavi tu, per strada sotto la pioggia. È molto difficile gestire la pioggia, illuminare la pioggia di giorno. Era pioggia naturale? No, era pioggia artificiale. La difficoltà era utilizzarla alla luce del giorno, in giornate di sole pieno. Bisognava calcolare il momento della giornata in cui certi spazi fossero rimasti in ombra, per meglio rendere la “nuvolosità”. C’era il problema di illuminare la pioggia in controluce, o meglio di illuminare la pioggia senza illuminare gli attori, perché la pioggia senza un adeguato controluce non è percepibile sullo schermo. La ricordo come una sequenza articolata e complessa, filmata in giornate particolarmente assolate. Un piccolo incubo, insomma. Quella di adottare il tono giallastro per Morte di un matematico napoletano fu una scelta coraggiosa. Si trattava tra l’altro dell’esordio di Martone come regista cinematografico... Ed era anche per me uno dei primi film. Il laboratorio suggeriva di conferite quel tono in fase di stampa, cioè in postproduzione. Mi sono opposto a questa soluzione, perché ho sempre pensato che gli interventi fatti in post-produzione siano in qualche modo troppo artificiosi nei neri e molto pericolosi. Nonostante il film fosse a colori, decisi di utilizzare un filtro giallo adatto al bianco e nero. Nel laboratorio romano dove, nel 1991, ancora nessuno mi conosceva, questa mia scelta suscitò un’ostilità a dir poco furibonda. Ricevevo addirittura telefonate dai responsabili del labora torio in cui mi si diceva che era inconcepibile adottare un filtro giallo del bianco e nero su una pellicola a colori.
Tutto questo perché, come hai raccontato, nell’Italia del 1991 si era ancora arretrati di fronte alle innovazioni o comunque poco aperti? Non si trattava di una vera innovazione. Quello che volevo fare era piuttosto un esperimento, che contravveniva però alle regole elementari della fotografia, in base alle quali un filtro giallo del bianco e nero serve solo per la pellicola in bianco e nero e non per il colore. Il responsabile del laboratorio era un tecnico riconosciuto, che aveva stampato le pellicole di Vittorio Storaro, per esempio, per cui dovetti scontrarmi con lui con coraggio e determinazione. In questa sfida eri supportato da Mario Martone? Sì, certo. Non mi sono mai permesso e mai mi permetterò di fare una scelta fotografica così radicale se non viene appoggiata dal regista. Io posso intervenire in prima persona sul set, in alcune decisioni da prendere durante le riprese di una singola scena, ma mai a monte, quando il regista concepisce l’impianto visivo del film. Sapevi di compiere un azzardo utilizzando quel filtro giallo? Non sapevo niente, era uno dei miei primi film... Mi comportavo come un suicida, uno sprovveduto coraggioso. Ancora adesso non so niente. Quando giro una scena notturna in una maniera per qualche verso ardita, resto insonne nel letto a sperare che non sia venuta sottoesposta e troppo buia. Chi lavora con me non se ne accorge, sul set ha la sensazione che io sia una persona con il controllo della situazione, ma non sa che la notte dormo male per la paura che le riprese non siano venute bene. Quindi hai ansie da prestazione? Ho ansie continue, non dormo la notte, le angosce non finiscono mai; ma, d’altro canto, credo che in questo lavoro convivere con la preoccupazione sia necessario. Se si è troppo sicuri di sé o se non si accetta di correre dei rischi, il gioco perde interesse. Prima di girare, mentre giro e dopo aver girato, non faccio altro che pensare a come sarà il risultato. Spesso di notte sogno di filmare sequenze impossibili, campi e controcampi con luce mutevole e quindi senza possibilità di continuità. Sogni a occhi chiusi, non solo a occhi aperti...
Esatto... (ride). Ho un incubo notturno ricorrente: inizio a girare una sequenza, poi mi accorgo che la luce sta gradualmente andando via, e continuo a filmare, fino alla più totale oscurità, senza avere la possibilità di mettere le luci... C’è chi sogna di essere inseguito per strada o di correre in un corridoio del liceo senza fine. A ciascuno i suoi incubi. Questa tua ansia è legata al puro senso di responsabilità rispetto al risultato finale oppure è anche condizionata dalle aspettative su di te di critica e pubblico? Di quello che la critica pensa del mio lavoro non me ne importa assolutamente nulla, lo dico con grande franchezza.
Credo che anche quando tessono grandi elogi i critici non sappiano bene di cosa stanno parlando. La responsabilità che sento è nei confronti del regista. Poi nei confronti degli attori. E di tutte le persone che lavorano al film. E infine della produzione. Affronto anche durissimi scontri con le produzioni, come ho accennato prima, ma ciò che mi concedono voglio restituirlo nei risultati. Ritorniamo a Napoli, a Morte di un matematico napoletano. Fu presentato al Festival di Venezia nel 1991 e ricevette reazioni entusiastiche. Si cominciò a parlare di Mario Martone ma anche di te, del direttore della fotografia che aveva dato un contributo così rilevante al film. Vuoi ricordarne una sequenza in particolare? Mi ricordo una sequenza che è il segno della follia che da allora mi porto dietro. Dovevamo filmare la scena di una riunione del Consiglio di Facoltà. C’erano Cecchi e altri otto attori intorno a un tavolo. Mi ricordo un sole meraviglioso che entrava dalle finestre di quell’aula. Per filmare quei fasci di luce che inondavano l’interno avrei avuto bisogno di una macchina per il fumo, che però non avevamo. Allora chiesi a tutti di fumare tantissimo, e cominciai io, che all’epoca fumavo ancora. Mi ricordo persone con due-tre sigarette in bocca. Riuscimmo a saturare la stanza di fumo di sigaretta. Quella sequenza riuscì molto bene, anche se a spese dei nostri polmoni. Più in generale quello che ricordo di quel film è soprattutto la sensazione che avevo sul set: sapevo di collaborare, forse per la prima volta, a un film molto importante, a un prodotto nobile, con un gruppo di attori straordinari; questo sebbene la troupe fosse composta solo da un macchinista, da un elettricista, da un operatore di macchina e un direttore della fotografia – io, nel doppio ruolo – e da un assistente alla fotografia. A fronte dei risultati che man mano ottenevamo sul set, mi rendevo conto che i costi realmente bassi della produzione non impedivano la qualità del lavoro, un lavoro non tradizionale, creativo. Il successo del film è stato una grande ricompensa... Sì. Sono molto legato a quel film con Mario. In generale io sono più affezionato ai film dove il rapporto tra quello che è stato speso e quello che è stato realizzato è inversamente proporzionale, ossia quando il risultato finale, in rapporto ai costi, è stato più alto. I migliori risultati artistici si ottengono quando ci sono pochi mezzi a disposizione. Ancora adesso scelgo spesso di fare film con registi che sono alla loro opera prima, dove i soldi sono pochi ma le passioni sono vive. Sono situazioni che mi consentono di non adagiarmi, di sperimentare la mia
creatività di fronte ai limiti produttivi. I film più poveri poi sono anche i film in cui la fortuna mi aiuta di più. Durante la lavorazione di un film ti tieni informato sulle previsioni meteorologiche? Abbastanza, ma non ci conto affatto. Credo più nelle capacità della mia concentrazione che nelle previsioni. Se lo desidero fortemente, sono anche capace di far arrivare le nuvole (ride). Lo so che è imbarazzante da affermare, ma non rimango quasi mai deluso. Conoscevi Napoli prima di girare Morte di un matematico napoletano? No, non la conoscevo bene. Ma tanto povero di mezzi è stato il film, tanto più ricca e meticolosa è stata la fase di preparazione. Ricordo di essermi preparato molto bene, con sopralluoghi, studi, riflessioni. Non solo era uno dei miei primi film, ma sentivo anche la grande importanza di quello che andavo a fare. Avevo quindi l’esigenza di fare ricerche iconografiche su Napoli e passai molto tempo a documentarmi su libri fotografici. Proprio da uno di questi libri mi venne l’intuizione del filtro giallo. Che impressione hai di Napoli? Si presta ad essere una location cinematografica? Ancora oggi Napoli è la città dove vorrei vivere. È la città più bella al mondo. L’impressione più forte che ne conservo non è tanto relativa al cinema. È di ordine sociale. Napoli è la sola città in Europa il cui centro storico è abitato da gente comune, il cui centro non è stato invaso dai ricchi ma è ancora patrimonio delle classi popolari. Questo la rende una città unica, viva, pur con tutti i suoi problemi. Come location per i set Napoli è una città difficile, per i rumori, le possibili interferenze, la confusione. Ma è anche ottimale per la versatilità dei suoi spazi, per la fusione di storia e modernità. Molti film di Paolo Sorrentino li abbiamo girati a Napoli pur non essendo ambientati in quella città. Molte sequenze de Il divo le abbiamo filmate a Napoli ma rappresentano Roma. Sul set di Morte di un matematico napoletano, poi, le caratterische di Napoli ci hanno salvato. Il nostro era un film d’epoca senza un budget adeguato, ma Napoli è una città di vicoli ed era plausibile che nel film comparisse un’unica auto d’epoca, il taxi su cui sale Anna Bonaiuto.
Come mai con Sorrentino avete girato a Napoli invece che a Roma? Per comodità, perché la produzione e alcuni membri della troupe erano napoletani, perché era più economico. Quali sequenze de Il divo avete girato a Napoli? Tra le tante, la parte americana di Sindona, il covo delle BR dove è prigioniero Aldo Moro, l’omicidio di Pecorelli. Anche il suicidio di Gardini è girato a Napoli e non a Milano. La storia si svolge a Roma, ma il 90% delle sequenze è girato a Torino... A Roma abbiamo girato pochissime scene: il Parlamento, qualche esterno nelle vicinanze di Fiumicino, qualche vicolo, una scena in cui piove... poco insomma. Le stanze del potere sono state ricreate a Torino. Ma la passeggiata notturna di Andreotti sulle note di Fauré è stata filmata in via del Corso a Roma... Era una sequenza difficile, anzi una serie di sequenze che si dovevano svolgere all’alba, perché Andreotti si recava allo studio molto presto con la scorta. L’alba in agosto dura pochissimo, e una delle preoccupazioni maggiori della produzione era: quante albe saranno necessarie per queste sequenze? La soluzione è stata ricorrere agli effetti speciali. Abbiamo consultato un ottimo professionista, Rodolfo Migliari, di Chromatica, e con lui abbiamo deciso che avremmo girato tutte le sequenze di notte, con il cielo scuro, e poi lui avrebbe messo su quel cielo nero un “effetto alba”. Il mio problema era come fare in modo che la sensazione di luce intorno ad Andreotti fosse quella delle prime luci del mattino. Sono ricorso a un pallone a elio con la luce interna, soluzione che mi ha permesso di seguire gli attori lungo tutto il percorso senza grandi spostamenti di mezzi illuminotecnici. Ci sono delle foto di quella notte piuttosto divertenti in cui gli elettricisti seguono Toni Servillo per via del Corso con un grande pallone luminoso. Il risultato finale era un’alba perfettamente credibile. Mi auguro... Città visibili e invisibili, parafrasando Italo Calvino... Già, proprio così. Esistono città che stimolano immagini, e sono le città a cui sono più legato. Vivo molto le sensazioni che mi danno i luoghi. Ho una forte relazione con i luoghi, anche gli interni. Ci sono interni di case che mi creano disagio, ansia, diffidenza. E ci sono città che vivo con grande passione e
benessere, altre che mi generano distanza. Non capisco se sia stata questa sensibilità a spingermi verso il mio lavoro, o se sia il mio lavoro ad aver accentuato questa sensibilità. Mi appartiene molto il senso della geografia, del Nord geografico. Ho la percezione del Nord senza aver bisogno della bussola. Forse tutto questo si lega al mio essere concentrato sulla luce, al mio legame con la luce. E come è stato lavorare a Napoli con un napoletano autentico come Antonio Capuano? La vera difficoltà con Capuano è capire il suo dialetto! Parla in napoletano strettissimo (ride)... Scherzi a parte, Antonio è un uomo incredibile, insegna scenografia all’Accademia di Belle Arti di Napoli, è un artista completo. Ammiro il contrasto che emerge dai suoi film: ne La guerra di Mario sembra che metta in scena la borghesia napoletana, ma in realtà gli interessa documentare la condizione proletaria, soprattutto quella dei bambini. È lo scarto tra una messa in scena molto costruita e l’intento documentaristico che mi affascina di più nel suo cinema. In quel film mi ha chiesto di usare sempre la macchina a mano, sporca, realistica. Al tempo stesso ha idee molto precise sulla luce, da vero specialista. Sono pochi i registi che si esprimono direttamente sulla questione delle luci, tutti dicono di fidarsi, come se noi direttori della fotografia fossimo detentori di un sapere misterioso. In genere nel mio lavoro sulle luci mi sento come in un limbo di tecnicismo, un territorio che gli altri sentono inaccessibile. Ecco, Capuano, come Amelio, ha una sensibilità fotografica e una professionalità tali che potrebbe fare benissimo il direttore della fotografia dei suoi film.
È nota la difficoltà per un fotografo – e non solo per un direttore della fotografia – nel gestire il colore bianco. Nel 2009 hai lavorato con Francesca Comencini a Lo spazio bianco, girato anche questo a Napoli. Un film luminoso, arioso, dove la luce bianca assume un chiaro segno narrativo e non solo visivo... Sì, hai ragione a parlare di quella difficoltà. Posizionare le luci in un set in cui le pareti sono bianche comporta il rischio di evidenziarle a scapito degli attori. Ma questo rischio può essere ribaltato in coraggio creativo. La stanza di rianimazione del film di Francesca Comencini aveva le pareti volutamente bianche, con le tende volutamente bianche, i pavimenti volutamente bianchi, i soffitti volutamente bianchi, le lenzuola volutamente bianche, ma i camici verdi: volevamo gettare quelle giovani madri in uno spazio lattiginoso e abbagliante. La difficoltà maggiore è stata quella di separare i vari bianchi tra loro. Il colore bianco possiede una quantità infinita di sfumature, come sanno bene gli eschimesi, che hanno molte parole per definirlo a differenza di noi europei. Il compito più arduo da affrontare nel film era far emergere diversi piani visivi da quello spazio uniforme, bianco e luminoso. Nella realtà del set, le pareti e le lenzuola avevano la stessa tonalità di bianco...
Come hai risolto? Mi è stato d’aiuto il fatto che giravamo in studio, non in una stanza di ospedale reale. La scenografa, Paola Comencini, ha ideato un soffitto luminoso in plexiglas che mi permetteva di aggiungere quanti neon volevo. Ho potuto realizzare così grandi totali e rendere l’ambiente ancora più luminoso, con alcune precise e volute zone d’ombra. Nel film c’è un’inquadratura meravigliosa, in cui la stanza delle incubatrici è ripresa dall’alto... Di chi fu l’idea? Fu un’idea di Francesca, naturalmente. Tutte le idee visive sono quasi sempre dei registi. Spetta poi a noi operatori la capacità di realizzarle. Una tale inquadratura dall’alto, in sezione, della stanza, costringeva la produzione a utilizzare un teatro di posa, cosa che nessun operatore può permettersi di proporre. Solo il regista può fare tali richieste. Cosa pensavi dell’idea di Francesca? Mi piacque tantissimo. Trovavo che fosse una delle immagini più interessanti del film. Restituiva lo scollamento, il delirio intimo che la protagonista si trovava a vivere. Il compito dell’operatore, dunque mio, era trovare il modo e la tecnica per realizzarla. Inizialmente volevo usare un dolly, ma poi pensai che non poteva funzionare, perché il movimento di discesa avrebbe comportato un binario molto lungo e un movimento di assestamento complesso durante la discesa del braccio e l’arretramento del carrello. Utilizzai invece un Technocrane, un dolly che arretra sul suo stesso asse senza bisogno di alcun binario. Quella geometria dall’alto, che rendeva l’immagine quasi una planimetria della stanza, l’ho ottenuta con un particolare e costoso obiettivo 8mm, molto adatto a rispettare le linee senza deformarle, quindi ottimo per il campo totale. Una lente con un’ottica deformante non avrebbe tradotto in immagine quello che Francesca intendeva. A quanti metri di altezza era posizionata la macchina da presa? Ero a otto metri da terra, con le mie solite angosce. Voglio dire che, superata l’iniziale solita discussione con la produzione riguardo ai costi dell’operazione, rimaneva l’incognita del risultato. Potevo anche accorgermi, una volta lì in cima, che l’effetto finale non era quello che pensavo. Ma dovevo rischiare.
E quindi, la notte prima... incubi? Incubi (ride)... esattamente! La notte prima e la notte dopo. Le scene in cui Margherita Buy fuma sui tetti dell’ospedale sono filmate invece all’aperto. Sono sequenze altrettanto coinvolgenti. Sarà per il volto di Margherita Buy, la brace delle sigarette, il vento, la luce del sole, le nuvole in cielo, la camera a mano... Sei d’accordo con me che si tratta di una sequenza molto suggestiva e riuscita? Sì, lo penso anche io, però... (pausa). Non mi attribuisco meriti per la particolare efficacia di alcune sequenze. Sono colpevole se vengono male, se non riesco a tradurre in immagini ciò che il regista intende, ma non è mio il merito della bellezza delle immagini. Il mio intervento si fonde con il lavoro del regista. Nel caso che hai citato non mi ricordo se l’idea di utilizzare la camera a mano sui tetti dell’ospedale sia stata di Francesca o mia. Resta il fatto che quell’idea era ottima, perché la mobilità della camera restituiva il senso di precarietà e l’inquietudine della protagonista. Tu e Francesca avete aspettato il vento e che il sole filtrasse dalle nuvole? No. La coincidenza tra agenti meteorologici e necessità visive non è mai preordinata. Tantomeno attesa o aspettata. A volte è semplicemente una questione di fortuna. Io mi reputo molto fortunato. E spesso i registi sono ancora più fortunati di me. Andrea Segre, con cui ho lavorato in Io sono Li, è un uomo fortunatissimo dal punto di vista meteorologico: durante le riprese del suo film abbiamo avuto la nebbia proprio quando lui avrebbe voluto la nebbia, l’acqua alta – eravamo a Venezia – quando avrebbe voluto l’acqua alta, abbiamo avuto addirittura lo “stravedo” – fenomeno che si verifica una volta l’anno e che consente di vedere a occhio nudo le Alpi dalla laguna di Venezia, a 300 km di distanza – in un momento in cui nessuno se lo sarebbe aspettato, mentre giravamo. Tornando sui tetti dell’ospedale di Napoli, non abbiamo aspettato gli agenti atmosferici. Quel sole e quel vento sono stati una fortuna, erano lì in quel momento e non abbiamo fatto altro che approfittarne. Ecco perché insisto sempre sulla questione della fortuna. Sono da sempre fortunato. Fortunatissimo. Un fortunato dilettante. Con Lo spazio bianco ritrovavi di nuovo la città di Napoli, dove il tuo occhio era già di casa...
Credo che Napoli sia la città dove ho girato la maggior parte dei miei film. Due solo nel 2011, con due registi che ho molto apprezzato: in primavera La kryptonite nella borsa di Ivan Cotroneo e, in autunno L’intervallo, del documentarista napoletano Leonardo Di Costanzo, alla sua prima esperienza di finzione. Grazie a queste due produzioni ho avuto modo di vedere Napoli prima e dopo l’elezione di De Magistris: la città è completamente cambiata, non solo per la rimozione dei rifiuti ma anche per l’umore della popolazione, per il ritorno di vivacità, disponibilità, gentilezza. Sono sempre influenzato dai luoghi che vivo, e penso che l’atmosfera che respiro si riversi nel mio lavoro e in quello di chi mi circonda sul set.
Gianni Amelio Dopo il successo internazionale nel 1992 de Il ladro di bambini, Gianni Amelio inizia a lavorare al progetto di Lamerica e chiama te per la direzione della fotografia. Come è avvenuto il vostro incontro? Ero molto agitato, perché già all’epoca consideravo Il ladro di bambini una delle massime vette raggiunte dal cinema italiano di sempre. Era un film in cui l’estremo realismo dell’immagine e della messa in scena si coniugava in modo pressoché perfetto con una storia intensamente poetica. In quel momento per me Gianni Amelio era il nostro regista più all’avanguardia e più rappresentativo. Credo che abbia anticipato, in un certo senso, il cinema dei fratelli Dardenne. Era l’autore di Porte aperte, I ragazzi di via Panisperna e Colpire al cuore, film che io e Silvio Soldini avevamo follemente amato all’inizio degli anni ’80. Quando Gianni mi chiamò era come se un mio sogno bussasse alla porta. E questo mi procurava terrore. Sapevo che, forse, in Albania il film l’avrebbe fotografato Giuseppe Lanci, verso il quale sentivo una sorta di competizione persa in partenza per il fatto che Giuseppe aveva lavorato nel 1983 in Nostalghia, con Andrej Tarkovskij, altro monumento della storia del cinema. Avvertivo pesantemente a mio sfavore l’idea del confronto, consapevole che mi si stava prospettando un’occasione irripetibile, e che sarebbe bastato un niente o una parola di troppo per perdere l’opportunità di lavorare in quel film. Il primo incontro con Gianni Amelio avvenne in Santa Maria in Trastevere, dove mi presentai praticamente agghiacciato. Gianni è un cinefilo onnivoro e portentoso, e ricordo che cominciò a nominare i film a cui avevo lavorato, da L’aria serena dell’Ovest a Morte di un matematico napoletano, e purtroppo anche altri vecchi titoli di cui mi vergognavo e che avevo cercato di dimenticare. I mesi successivi non seppi più nulla, a causa di alcune vicissitudini produttive. E incominciai a pensare che non mi avrebbero più chiamato. Invece alla fine Gianni decise di rischiare con me, che allora avevo solo 33 anni. Accettai per una paga irrisoria, terribilmente bassa, ma non mi interessava. Era il film che volevo fare, era il regista con cui volevo lavorare. Il film ha avuto fin dall’inizio grandi problemi, produttivi e logistici, tra sostituzioni di attori e organizzazione dei set in un’Albania ancora così difficile. In realtà allora l’Albania era un posto bellissimo, sembrava l’Italia meridionale degli anni ’40. Al tempo stesso però era una terra pericolosa. Mi ricordo che a volte rientravamo in albergo e trovavamo dei buchi nei soffitti delle stanze perché di giorno c’erano state
sparatorie. Un altro dato sconcertante: il film venne girato in 21 settimane. In media le riprese per un film oscillano dalle 6 alle 10 settimane. Tutto assumeva tempi dilatati, lenti e complessi. Solamente per preparare le 3.500 comparse sulla nave ci si mise una notte intera. Cominciammo a farli salire alle due di notte per essere pronti a girare alle dieci dell’indomani mattina. È stato un film di colossale impegno. L’Albania è vicina, ma i contatti e i collegamenti con l’Italia non erano semplici. Altri fattori hanno contribuito a dilatare i tempi della lavorazione. L’attore protagonista era molto anziano, e le sue possibilità di concentrazione erano scarse. Non solo, le numerose scene di massa, sulle quali Gianni aveva un preciso e assoluto controllo, avevano un’impegnativa coreografia. Era un film che voleva essere fuori dal tempo, dall’immagine retrodatata, a cominciare dalla scelta del formato anamorfico, ormai in disuso ma dal sapore ancora epico. Gianni desiderava usarlo per restituire un’immagine antica, un ambiente lontano come può esserlo l’Albania rispetto a un contesto moderno. In che modo hai “resuscitato” il formato anamorfico? Il formato anamorfico aveva – perlomeno in quegli anni – lenti particolarmente delicate, nessuno le usava più. Intorno alle lenti anamorfiche circolavano degli allarmismi infondati. Il tecnico del noleggio attrezzature mi diceva in continuazione: “Mi raccomando, devi mettere i controluce”; “Mi raccomando, devi usare diaframmi alti”. La preoccupazione, anzi l’angoscia, per il film era fortissima. Non avevo mai usato le lenti anamorfiche. Mi dicevano tutti che non potevo filmare come ero solito fare, con poca luce e con luci morbide e diffuse, senza i proiettori diretti. Mi riconosco il merito di non aver ceduto alle pressioni, e di aver resistito a quelle convinzioni legate al passato. Girai senza alcun controluce, senza diaframmi alti e con il mio solito 2.8 di diaframma. Essendo in Albania, non potevo avere nessun riscontro immediato dal laboratorio, e così passavano giorni e giorni prima che qualcuno potesse dirmi com’era il materiale girato. In fase di post-produzione feci dei test per dare alla pellicola una patina antica. Volevo che il film fosse particolarmente decolorato, ma non volevo che questo comportasse un aumento del contrasto, conseguenza tipica della desaturazione. Per evitarlo adottammo in laboratorio un sistema di decolorazione, l’ENR, abbinato a una flashatura, ossia a un velo disteso sul positivo di stampa in modo tale che il contrasto fosse minore. L’accostamento fu azzardato, ma il risultato, devo dirlo, fu molto buono. Con Lamerica arrivarono infatti i primi riconoscimenti, i primi premi... Fu il punto di svolta decisivo nella mia carriera, e anche il momento in cui la cinematografia romana ha dovuto
cominciare ad accettarmi. Sopravvissuto all’Albania, e superata la prova al fianco di Amelio, è stato tutto più facile (sorride). L’Albania è stata una grande avventura e Gianni Amelio è stato un vero maestro. Con lui, su quel set, ho sperimentato concezioni visive e tecniche che non avevo mai immaginato prima. Gianni è un regista che ha il controllo assoluto sull’immagine e sulle singole inquadrature. Nelle prime settimane abbiamo filmato le scene di massa utilizzando carrelli, dolly, panoramiche, movimenti di macchina elaborati, insomma facevamo un cinema dal respiro epico, cosa che Gianni si era proposto di fare ma a cui entrambi eravamo estranei. In fondo anche lui fino ad allora si era dedicato a un cinema intimista, quasi da camera. Nelle settimane successive, invece, abbiamo proseguito le riprese con la macchina fissa, senza carrelli né movimenti perché, nelle parole di Gianni, ora toccava agli attori recitare, e lo spettatore non doveva essere distratto da alcun movimento della macchina da presa. Questo è stato l’insegnamento di Amelio che più di altri custodisco gelosamente dentro di me: nel momento in cui gli attori recitano è assolutamente inutile muovere la camera; nel momento in cui gli attori recitano non bisogna far altro che catturare l’attenzione dello spettatore permettendogli di guardare e ascoltare la loro recitazione. Da quel film in poi ho imparato a illuminare in maniera diversa gli attori mentre recitano un brano lungo, da allora mi sento in dovere di far vedere bene gli occhi di un attore. Cosa più difficile se la macchina si muove. Dall’illuminazione della scena sono passato all’illuminazione dei volti.
Allo spettatore di Lamerica, infatti, non può sfuggire il volto di Enrico Lo Verso: una figura sempre più calata nella desolazione della terra e nello sconforto del cuore... Cosa ha significato illuminare il volto di Enrico Lo Verso? Offrire a un direttore della fotografia l’opportunità di illuminare il volto di Enrico Lo Verso è il regalo più generoso che gli si possa fare, perché Lo Verso ha uno dei volti più belli, se non straordinari che io abbia mai visto. Ha una faccia antica: il suo viso rimanda direttamente all’Italia degli anni ’40 e ’50. Una fisionomia così italiana non si trova più ai giorni nostri, è andata perduta. Per ritrovare quel tipo di viso oggi bisogna scendere in Algeria, in Tunisia. La pelle di Enrico, gli zigomi, sono un paradiso per un direttore della fotografia. Oltretutto Lo Verso è uno degli attori più precisi che abbia mai visto nel posizionarsi all’interno di una scena. Arriva al centimetro esatto della posizone stabilita in precedenza rispetto alla macchina da presa, quindi per me era bellissimo lavorare con lui anche come operatore alla camera. Una volta gli dissi di non preoccuparsi esageratamente dei segni per terra, e lui mi rispose che se aveva dei riferimenti spaziali riusciva ad essere più naturale. Ci sono attori che non tollerano di dover assumere una posizione precisa, altri che si sentono
agevolati dal fatto di ricevere indicazioni. La questione dell’illuminare i volti, in Lamerica, è stata dunque incisiva nell’economia delle riprese? Ricordo una scena per la quale provo ancora oggi soddisfazione, quella in cui Michele Placido ed Enrico Lo Verso, in cerca di un prestanome, entrano in una specie di lager pieno di anziani. Abbiamo girato di notte ma si doveva dare l’idea che fosse giorno, giravo con una camera a mano che si muoveva a 360 gradi, per cui tutte le luci andavano sospese in aria e nessuno stativo poteva essere in campo. La scena doveva mantenere una forte cupezza, quindi sorgeva il problema di far vedere i volti. Per di più mi trovavo di fronte un attore molto noto, Placido, e avevo grande timore nel favorire l’illuminazione della scena a scapito di quella del suo volto. D’altra parte, per fortuna, gli attori che hanno molta esperienza sanno bene che a volte devono rinunciare ad avere la luce tutta per loro. Con Michele Placido ci sono state situazioni ancora peggiori. Subito dopo Lamerica feci Un eroe borghese, dove lui era sia regista che interprete. In una certa sequenza posizionai la luce esclusivamente dall’alto in modo da illuminare solo il suo capo e lasciare il viso nella più completa oscurità. A fine giornata Michele scherzò molto sull’illuminazione dei suoi capelli bianchi a scapito del suo viso. Era una cosa a cui non era abituato, ma intelligentemente capiva che in quel momento del film quel buio sul suo volto poteva costituire un valore espressivo.
Rimanendo ancora su Lamerica, ricordo un’inquadratura molto breve, quella della bambina che balla in un corridoio sulle note di una canzone pop, che mi colpì molto, ma ancora oggi non saprei dire perché. Forse era per via della luce, o dei toni cromatici virati sul rosa, o per via dell’inquadratura, o dello straniamento della situazione... Puoi dirmi come nacque quella sequenza? Mi fa molto piacere quando qualcuno mi dice di aver amato molto una sequenza e si congratula con me quando dietro quella sequenza non c’è stato affatto un mio intervento (sorride). Per quella scena non ho posizionato, né tantomeno studiato, alcuna luce, abbiamo solamente aspettato il momento giusto con determinazione. Ricevere questo tipo di apprezzamenti mi procura grande soddisfazione, perché credo che non ci sia nulla di meglio che conquistare l’occhio dello spettatore utilizzando esclusivamente la luce naturale presente in quel momento sul set. In fondo si tratta di un atto di coraggio, perché usare la sola luce naturale mi espone a molti rischi, imprevisti, perché la luce si muove, cambia, se ne va... La sequenza a cui alludi era illuminata semplicemente dalla luce che proveniva dai finestroni del corridoio. Tra le doti di un grande regista come Amelio c’è anche quella di saper riconoscere l’eccezionalità di una
situazione non contemplata nel piano di regia. Quella scena non era stata prevista. Passare nei pressi di quell’albergo, capire che la struttura architettonica di quel corridoio era interessante e che la luce naturale poteva bastare, abbandonare le decisioni prese in precedenza durante i sopralluoghi, e cogliere quella realtà sul momento, fidarsi del caso e affidarsi all’improvvisazione è stato un atto di coraggio anche da parte di Gianni, che di solito ha il controllo totale di ogni minimo dettaglio. Come tu stesso mi confermi, sono le sequenze meno rigide e più casuali quelle che impressionano di più perché sono più vere. Quel corridoio era molto lungo, stretto e basso. Non ricordo se su suggerimento mio o di Gianni, per dare rilievo a quella luce e al luogo versammo dell’acqua sul pavimento, in modo che i riflessi dessero all’immagine una brillantezza che diversamente non avremmo avuto per l’assenza delle luci. Tra l’altro, correggimi se sbaglio, la camera era posizionata ad altezza della bambina, dunque leggermente più bassa rispetto all’altezza consueta... Sì, è vero. Io amo moltissimo la geometria, purché non sia fine a se stessa. Passo più tempo a spostare la macchina da presa in verticale sul suo asse che a spostarla lateralmente, anche solo con movimenti minimi: due centimetri più in alto o più in basso. Se gli spostamenti laterali costituiscono l’evidenza, gli spostamenti in altezza sono poco considerati, poco praticati, ma in realtà sono più efficaci, più discreti, e fanno la differenza nella composizione di un’immagine. Ho sempre pensato che per definire lo stile di regia e di fotografia di Lamerica non ci fosse termine migliore che “realismo epico”. Quando è inquadrata la nave incredibilmente carica di profughi, lo schermo respira ed esplode. Viene in mente la magniloquenza dei quadri di David Lean, il regista più epico della storia del cinema. Dal realismo e dall’intimismo, con Lamerica, passavi all’epica, alla Storia... La lavorazione di quella scena fu altrettanto epica (sorride). Cominciammo a girare il film in estate, poi i tempi di lavorazione si dilatarono talmente che si arrivò a girare quell’ultima sequenza a novembre. A quel punto le ore di luce erano diventate troppo poche e il mare era diventato una minaccia, era sempre più mosso. Rimandammo le riprese alla primavera inoltrata dell’anno successivo. Nel frattempo Amelio era venuto in Italia a montare il film. Senza la sequenza conclusiva. Tornammo in Albania a filmarla sei mesi dopo. Il primo giorno delle riprese di quella sequenza ero con Gianni su una barca d’appoggio a
filmare le 3.500 persone sulla nave. Erano tante, ma non sufficienti a riempirla. Gianni chiamò allora l’aiuto regista, che era sulla nave, e gli chiese di far spostare tutte le comparse sul lato inquadrato. Ci fu un’inclinazione della nave estremamente pericolosa. Più che alla dimensione epica di quell’immagine ripenso spesso al pericolo a cui abbiamo esposto migliaia di persone. Ma è vero, ne venne fuori un’inquadratura epica. Un altro momento topico del cinema italiano contemporaneo è il movimento di macchina che accompagna Enrico Lo Verso mentre sul suo volto si posa una delle bandiere rosse del corteo del PC in Così ridevano, sempre di Amelio. Questo per introdurre uno dei film più illustri a cui hai collaborato, Leone d’oro al Festival di Venezia nel 1998... Così ridevano è un film in costume che abbiamo realizzato tra il 1997 e il 1998 e che probabilmente oggi non sarebbe più realizzabile. Torino è enormemente cambiata negli ultimi tempi. Riuscimmo a girare il film prima che il centro storico fosse radicalmente riqualificato. Ogni volta che torno a Torino mi rendo conto che sarebbe impossibile girare la sequenza iniziale ora che la stazione è stata completamente ristrutturata. Volevo fosse un film contrastato, crudo. Il tono di quegli anni doveva riversarsi in una fotografia cupa e decolorata. Gianni, da un lato, mi lasciava andare verso l’oscurità, dall’altro, pretendeva giustamente che i volti degli attori fossero ampiamente illuminati. Era questo il problema visivo del film. Girai usando il formato di pellicola Super 35mm, che, rispetto all’anamorfico, mantiene il rapporto 1:2.35 ma ha il vantaggio di essere più leggero e maneggevole, più elastico. Anche se Torino non aveva ancora avuto tutti gli ammodernamenti che sono poi venuti, girare una scena di massa come quella della manifestazione del Partito Comunista restava pur sempre complicato, dato che il budget, anche in quel caso, era relativamente basso. L’escamotage fu quello di riempire la scena di bandiere rosse, per non far notare la relativa scarsezza di comparse. Avevamo posizionato Enrico in una via laterale a quella dove transitavano le persone che si recavano alla manifestazione. In questo modo si poteva intravedere il corteo senza che si dovesse ricorrere alla messa in scena di una vera e propria manifestazione. Questa idea delle bandiere rosse che sventolavano sul volto straniato di Enrico era molto significativa, perché restituiva in immagine una distanza e una estraneità del protagonista. Era quasi un oltraggio, uno schiaffo simbolico. Il personaggio non aveva nulla a che vedere con i movimenti politici di quel tempo, e quelle bandiere rosse diventavano, molto dolorosamente, il segno della sua condizione di isolamento. Credo che Così ridevano sia uno dei film meno
compresi di Gianni, e forse è uno dei più belli. Non ho mai capito perché il nostro Paese abbia rifiutato questo film...
Nonostante il premio a Venezia, assegnato da una giuria presieduta da Ettore Scola... Sì, infatti. Anch’io ho ricevuto un premio per il film, l’Osella d’oro per la fotografia, di cui sono ancora grato alla giuria, e il Leone d’oro è stato un riconoscimento straordinario, però gli incassi sono stati deludenti. Evidentemente è un film troppo complesso, forse per via della struttura a episodi, non so... Non ho mai capito perché non sia arrivato al cuore dell’Italia. La cupezza iniziale della fotografia mano a mano si rischiara. Nella parte finale del film l’immagine diventa più leggera e in qualche modo “si apre”. Cerco sempre di fare delle scelte fotografiche che rispecchino la sceneggiatura: pensavo che quel finale, nonostante la tragicità della storia, lasciasse la conclusione aperta, e ogni apertura è sempre luminosa. All’inizio ho sentito di potermi permettere una certa cupezza, un’oscurità, un contrasto potente e pochissimo colore, ma poi, nel finale, ho dovuto cambiare impostazione visiva e tornare ai colori, dal momento che l’ultimo episodio si apre verso il futuro, anche se in modo amaro. Soffermiamoci anche sulla sequenza iniziale, a cui accennavi, quella dell’arrivo del treno alla stazione Porta Nuova di Torino... Ecco, quella è stata senza dubbio la sequenza più difficile da realizzare. Ricordo che la posizione della stazione ci esponeva a grossi problemi con il sole. E bisognava coreografare attentamente il movimento delle comparse, numerosissime. Gianni era molto attento al movimento di ogni singola comparsa, bastava che una di loro facesse un errore per essere costretti a rifare il ciak, e intanto il sole proseguiva la sua inesorabile corsa ed io ero sempre più disperato. Si trattava di una lunga ripresa con camera a mano, ambientata in inverno e volevamo un cielo cupo, non il sole. Alla fine, per il rotto della cuffia e con una macchina artificiale per la nebbia, ce l’abbiamo fatta. La stessa macchina della nebbia che abbiamo utilizzato qualche giorno dopo per girare quel grande totale di piazza San Carlo in cui i nostri protagonisti, soli e dispersi, affrontano la metropoli. Anche quel giorno il sole non dava tregua, e noi volevamo un grigio inverno. Mi ricordo che abbiamo avuto la forza, o il coraggio dei folli, di aspettare il tramonto del sole per tutta la giornata. A quel punto, avevamo pochi minuti per girare prima del buio, e dovevamo riempire la piazza di nebbia artificiale. Abbiamo caricato la macchina del fumo su un’auto scoperta che a tutta velocità correva per la piazza. E subito dopo, potente, il grido di Gianni “motore!”. Tre soli ciak, dopo una giornata di tensione, il
penultimo senza vento, perfetto: sembrava veramente inverno nebbioso. Una soddisfazione indicibile, frutto di coraggio e pazienza. La sensazione era quella di vedere in azione un grande regista, un uomo determinato che riesce a cambiare la situazione meteorologica affrontando il rischio di perdere l’intera giornata, indifferente alle pesanti pressioni della produzione. Con gratitudine e ammirazione non lo dimentichi per tutta la vita. Di quel film, ricordo un aneddoto prezioso e al tempo stesso molto doloroso. Avevamo passato un’intera notte a filmare una sequenza molto impegnativa a bordo di un tram, quasi fino all’alba: il tram, a un certo punto, era passato in mezzo al mercato di Porta Palazzo, e le persone che cominciavano a montare le bancherelle della frutta e della verdura ci gridarono: “Andate a lavorare!”. Ci rimasi malissimo, soprattutto perché avevo faticato tutta la notte per riuscire a costruire quelle riprese molto articolate. Non capisco perché ci sia questo luogo comune secondo cui chi lavora nel cinema si diverte o perde tempo. Noi eravamo distrutti, come lo si è alla fine di ogni giornata di riprese di qualunque film. Mi sorprende sempre questo preconcetto nei confronti della gente di cinema. Non solo facciamo un lavoro strutturalmente precario – cosa di cui non ci lamentiamo avendola scelta – ma, soprattutto negli ultimi anni di berlusconismo, spesso veniamo considerati come parassiti, come divoratori di fondi pubblici. L’Italia è il Paese europeo che meno investe nella cultura, dove meno ci si rende conto di quanto possa restituire, anche economicamente. Se si investisse nel sistema cinema, teatro, musica, si favorirebbe la creazione di nuovi posti di lavoro, con il vantaggio che i capitali investiti rientrerebbero nelle casse dello Stato. Il tentativo spregevole di far apparire la cultura parassitaria è un indice di come il nostro Paese stia precipitando nel baratro.
Ritorniamo su quel tram verde: in quella sequenza i due fratelli sono entrambi a bordo, ma ignari l’uno della presenza dell’altro. Trattandosi di un tram snodato a due vagoni, grazie a una curva si andavano a svelare anche i sedili del secondo vagone e Francesco Giuffrida entrava nella stessa inquadratura di Enrico Lo Verso. Come è nata l’architettura di questa sequenza?
Questa sequenza doveva mantenere un margine di ambiguità. Lo spettatore ha il dubbio che i due non si vedano, anche se resta improbabile che non si siano accorti l’uno dell’altro. Forse si sono intravisti, ma decidono comunque di non parlarsi. Non ricordo i dettagli, ma credo di aver messo solo uno o due neon perché mi sembrava ragionevole non illuminare ulteriormente l’interno del tram: volevo si cogliessero le luci che provenivano da fuori. Sono nato nel ’58, ho dei ricordi delle città negli anni ’60. Ho dentro di me l’immagine viva di città buie, molto meno illuminate di quanto lo siano adesso. Oggi l’ossessione per la sicurezza spinge a pensare che le strade più sono illuminate più sono sicure. Innanzitutto questo è falso, e poi si perde così il fascino delle città, l’alternarsi naturale e significativo delle zone di luce e delle zone d’ombra. Non da ultimo, diventa problematico girare i film, perché l’illuminazione piatta e omogenea che ne scaturisce impedisce di lavorare in modo creativo. Esiste un’evoluzione percepibile e storicizzabile nel modo di illuminare le città?
Sì certo, esiste una storia dell’illuminazione, sia urbana che degli interni. Negli anni 2000, le luci delle strade e degli appartamenti sono diverse da quelle degli anni ’70, così come è cambiata la loro messa in scena. Ad esempio, nell’Italia degli anni ’80, l’Italia craxiana, si prendevano dei quarzi e li si buttava sul soffitto. Ecco: la mia idea fotografica del craxismo è quella di una luce piatta e diffusa biecamente da ogni parte, riflesso di una situzione politica. Da questo ha avuto origine una volgarità visiva che dura ancora oggi. In quel periodo abbiamo avuto un cinema in cui non esistevano volumi, ombre, rilievi, proporzioni sui volti. Il cinema degli anni ’50 e ’60 era un cinema in cui le luci erano sì frontali, ma perlomeno definivano i volti. Il cinema degli anni ’70 e ’80 è stato, invece, un cinema piatto, mediato dall’immagine televisiva dominante. All’inizio della mia carriera venivo accusato di usare luci poco intense e molto tagliate. Forse la mia era una reazione alla piattezza dilagante dell’illuminazione cinematografica, per la quale provavo orrore. D’altra parte vedevo molti film indipendenti, tedeschi e francesi, nei quali riconoscevo il realismo, quella profondità che viviamo quotidianamente nella vita. E non capivo perché il nostro cinema non dovesse provare a rappresentarla. Nonostante ci fossero delle eccezioni, provavo rigetto per l’immagine cinematografica canonica degli anni ’80. Probabilmente qualcuno si risentirà di queste mie osservazioni, ma è così.
La scoperta dell’attore Sei direttore della fotografia e sei operatore alla macchina. Ti ritrovi sempre calato in prima persona, fisicamente, nel mezzo delle scene che filmi, vicino agli attori e ai loro volti. Lo spettatore di Lamerica difficilmente tratteneva la commozione assistendo alle ultime inquadrature dei profughi sulla nave e al primo piano dell’anziano prestanome morente. Ti capita mai di commuoverti durante le riprese? Piango spesso mentre giro. A volte diventa un problema, perché mi si appanna l’oculare e non vedo più niente. Sì, mi commuovo, mi succede spessissimo. L’ultima volta è stato durante le riprese de Lo spazio bianco, quando Margherita Buy canta... (si interrompe). Se ci ripenso mi commuovo ancora. Quando canta la canzone italiana al microfono dell’ospedale. Ho pianto per quanto era brava Margherita. Torna di nuovo la questione del rapporto umano, privilegiato ed esclusivo, che l’operatore alla macchina instaura con l’attore. L’attore sviluppa un rapporto di fiducia con l’operatore. È una questione non delegabile ad altri sul set. Gli attori sono sostanzialmente insicuri, quindi avere di fronte una persona che li inquadra piuttosto che un’altra può fare la differenza. Quando il rapporto delicatissimo tra attore e operatore funziona le riprese si svolgono in maniera semplice e veloce. Se assumessi soltanto il ruolo di direttore della fotografia dovrei parlare con l’operatore, che a sua volta parlerebbe con gli attori, che poi parlerebbero con il regista ecc... Torna l’importanza del tuo doppio ruolo... È fondamentale. A volte nascono dei conflitti tra il direttore della fotografia e l’operatore alla macchina. Io posso risolverli confliggendo con me stesso, e faccio prima (ride). L’operatore alla macchina vorrebbe muoversi sul set il più liberamente possibile. Il direttore della fotografia, in astratto, vorrebbe posizionare il maggior numero possibile di stativi, ingombrando la scena. Dal momento che queste due cose confliggono, meglio che risolva il problema una sola persona, dentro di sé. Nel mio caso, l’ho già detto, vince sempre l’operatore di macchina. Preferiresti quindi che il tuo nome venisse associato al ruolo di operatore alla macchina piuttosto che a quello di direttore della fotografia?
Assolutamente sì. Sono un operatore di macchina costretto a mettere delle luci, per evitare di avere un rompiballe tra i piedi (ride). In fondo mi vedo proprio così. Uno che studia le inquadrature e muove la macchina da presa, e che purtroppo deve posizionare delle luci, e quando può non metterle è molto più contento. Pensa quale incredibile capovolgimento ti sto dichiarando rispetto a tutta la retorica di cui vive e si nutre il cosiddetto “creatore della luce”. Questo vuol dire, per me, operare con le luci in un modo diverso da quello tradizionale. Nel 1999 Giuseppe Piccioni ti chiama per curare la direzione della fotografia di Fuori dal mondo. Ormai eri un nome conosciuto e riconosciuto. Ti contattò lui? Sì. A quel tempo stavo girando Così ridevano con Gianni Amelio. Giuseppe Piccioni venne a Torino per incontrarmi e propormi di lavorare a questo suo film dalla sceneggiatura molto bizzarra. Mai avrei pensato di fare un film con protagonista una suora (sorride). Forse in realtà fu proprio il copione ardito e anomalo a colpirmi. La sceneggiatura era indubbiamente potente, ma rimaneva il timore che, trasposta sullo schermo, rischiasse di risultare insostenibile. Si trattava di conventi, suore, neonati abbandonati. Accettai di fare quel film con una certa perplessità. Invece mi ritrovai di fronte ad un regista dotato di una sensibilità davvero inconsueta, e a due attori straordinari, Margherita Buy e Silvio Orlando, che insieme formavano una coppia a dir poco incandescente. Due attori antitetici, tanto lei è introversa e timida tanto lui è esplosivo e comico. Fu l’incontro di loro due sul set ad accendere la miccia del film. E poi questo film mi riportava a girare nella mia Milano, una città stranamente trascurata dal cinema italiano contemporaneo, forse per via della sua apparente monotonia, o, al contrario, della sua disomogeneità. Fuori dal mondo è un film molto “grigio”. Sono grigi gli abiti delle suore, i muri delle case, i muri del convento, persino la lavanderia è grigia. È un film la cui cifra stilistica risiede nel grigiore, conferito anche dall’ambientazione quasi invernale, un film con una sua forte coerenza visiva. Ma ciò che ricordo di quell’esperienza è soprattutto il fatto che fosse un film fondato sugli attori e sulle loro interpretazioni.
Tornava quindi la questione, già a te molto cara, dell’illuminazione degli attori... Sì, mi sforzo continuamente di pensare all’importanza degli attori e dei loro volti. Gli attori sono il cardine del nostro lavoro, o perlomeno del mio. Se non dessi tanta importanza al rispetto e all’attenzione al volto degli attori vedrei intorno a me soltanto estetismo, ricerca di inquadrature ammalianti e di luci pseudo artistiche. Non parlo ovviamente di un’attenzione alla “bellezza” dell’attore, secondo quello stereotipo per cui gli attori richiedono sempre di apparire al meglio. Quella è un’altra cosa. Il volto di un attore deve essere valorizzato per la sua importanza, per la sua centralità nel film, nella fotografia. Quando mi chiedi di parlare di Fuori dal mondo mi vengono in mente i volti degli attori, non le luci del film. Nonostante questo, ricordo momenti del film in cui la costruzione visiva dell’inquadratura era evidente. Penso all’immagine di Margherita Buy ripresa di spalle mentre porta il neonato in ospedale. Un’inquadratura a camera fissa, inclinata leggermente verso l’alto, in cui avete optato per l’uso del grandangolo...
Sai, in realtà non penso di aver mai girato un film dando importanza all’utilizzo di una lente piuttosto che di un’altra. Non mi sono mai posto la questione di utilizzare teleobiettivi o grandangoli. Semplicemente in certe sequenze intuisco quale lente sia preferibile. Una scelta radicale, quella sì, sarebbe scegliere di girare un film solo con grandangoli o esclusivamente con teleobiettivi. Di recente mi sono sorpreso a utilizzare molto lo zoom: un dispositivo di cui si è talmente abusato nel cinema degli anni ’70 che poi è caduto in disuso fino alla fine degli anni ‘90. Secondo me lo zoom è una soluzione interessante e utile se non viene usato in maniera didascalica, ma come alternativa al taglio di un’inquadratura. Mi è capitato di fare una ripresa in zoom, da 20mm a 100mm, di cui non tutti possono accorgersi, perché l’ho inserita all’interno di un lungo movimento di macchina. I film di Sorrentino sono pieni di zoom, più o meno dichiarati. Sono soluzioni utilissime. Tutto questo per dire che sulle ottiche non ho delle rigidità o dei preconcetti. Scelgo un’ottica per ogni singola inquadratura, non per l’impianto globale di un film. In una scena in cui un attore deve entrare in un luogo – come Margherita Buy, vista di spalle, che entra per la prima volta nell’ospedale con il neonato in braccio – probabilmente è più importante poter vedere il luogo che la persona. Essendo l’ospedale di dimensioni mastodontiche, poteva essere valorizzato solo utilizzando un’ottica grandangolare. Inoltre, a differenza del teleobiettivo, che mantiene le proporzioni dell’essere umano per un tempo più lungo, il grandangolo rimpicciolisce molto velocemente la persona in movimento. Era importante far emergere la rapidità con cui Margherita veniva inghiottita dall’ospedale. Nella sequenza dell’abbraccio tra la Buy e Silvio Orlando, nel sottofinale, dopo che lui l’ha accompagnata a far visita ai genitori adottivi del neonato, hai scelto di utilizzare la camera a mano. Era per non perdere alcun gesto o sguardo della Buy in lacrime? Quella fu una sequenza piuttosto complessa da filmare, perché Margherita Buy ha una sorta di repulsione al contatto fisico. Chiedere a Margherita di abbracciare o baciare qualcuno è un’operazione delicata, che richiede discrezione e leggerezza. Quindi girare con la camera a mano era un modo per farla sentire più a suo agio. E poi indubbiamente, la macchina a mano ci faceva sentire più pronti a cogliere tutto ciò che poteva accadere, dal momento che i gesti di Margherita rimanevano un’incognita. Poteva scappare, iniziare a correre, andare a nascondersi... La camera a mano consente elasticità, e durante quella ripresa l’elasticità e la prontezza erano necessarie perché non sapevamo bene dove ci avrebbe condotti Margherita. Come vedi, nessuna motivazione poetica
(sorride), ma solo accorgimenti pratici. Ma le soluzioni tecniche a volte si fondono con l’emotività dell’attimo colto.
A proposito della ritrosia di Margherita Buy, immagino sia stata un’impresa titanica inquadrare il suo nudo frontale ne Lo spazio bianco di Francesca Comencini, sebbene fosse in penombra, e in silhouette... Eh (sorride)... Ci furono delle lunghe trattative per quella scena. La prima, appunto, inderogabile, era che venisse illuminata solamente in silhouette e in penombra. Io ero d’accordo. Francesca Comencini decise di girare quella scena anche lei nuda, per alleggerire la condizione di Margherita. Tutti gli uomini presenti sul set uscirono. Me compreso. È stata infatti Francesca a filmare quella scena, nuda dietro la macchina da presa che io avevo precedentemente preparato. Meraviglioso... Già, è stato un successo inaudito avere Margherita nuda (sorride). Al di là dell’episodio specifico, più vado avanti e più mi rendo conto, davvero, che lo scopo di un film non è avere belle luci o belle inquadrature ma attori che recitino
al loro meglio, perché messi a loro agio. Qualunque artificio gli attori chiedano va concesso. A me non importa di luci e colori, ma degli attori, che possano esprimersi al cento per cento. Torniamo a Fuori dal mondo. Ci sono quegli splendidi intermezzi che sfociano nel surreale, con cui Piccioni sembra voglia intervistare i personaggi del film, e che nel finale diventano una sequenza di montaggio di tableaux vivants. Come sono nate quelle immagini così anomale, in flou? Quei quadri furono un’idea di Giuseppe. Volevamo in qualche modo differenziare quelle immagini fisse dal resto del tessuto visivo del film. Erano immagini dichiaratamente statiche, una sorta di ritratti. Avevo messo ai bordi della lente della vaselina, che spalmavo, a seconda dell’inquadratura, per cercare di isolare il più possibile le figure dall’ambiente. L’ambiente non era importante in quel caso. La vaselina serviva a far sparire i contorni, a metterli fuori fuoco. L’applicazione della vaselina sulla lente era una delle tue tante invenzioni?
Sì, in qualche modo, ho ripreso un’idea che avevo adottato sul set de L’amore molesto. Tutte le sequenze relative al passato, con la bambina che rappresentava il personaggio di Anna Bonaiuto da piccola, le avevo trattate in quel modo. Anche in quel caso volevo staccarle visivamente dal resto del film, rendendole estremamente decolorate grazie al procedimento della separazione tricromatica, in passato abbastanza diffuso, ma in quegli anni ormai dimenticato. L’uso della vaselina sulla lente oltretutto ci permetteva di ottenere quello che non potevamo permetterci per la scenografia e la ricostruzione d’epoca. La vaselina andava ad occultare i bordi dello spazio filmato dove c’erano elementi che negli anni ’50 non avrebbero dovuto esserci. C’era un’automobile o una costruzione a lato dell’inquadratura che non erano giustificate in quell’epoca? Con una spalmata di vaselina sparivano dal quadro... (sorride). Nel film di Piccioni non era un pretesto per ovviare a mancanze scenografiche, ma il desiderio di isolare e
separare le figure dall’ambiente. Quelle inquadrature fisse diventavano quasi ritratti di famiglia, di amici, di colleghi... Esatto. Io tra l’altro ho una particolare attrazione per le fotografie di gruppo. Colleziono vecchie fotografie ufficiali di gruppo, perché sono attratto dal vedere come gli esseri umani si dispongono al momento di uno scatto fotografico. C’è sempre una scala gerarchica molto interessante nella composizione dei quadri di gruppi di persone. Ad esempio, foto di fabbrica dove il padrone sta in piedi su un piedistallo con intorno gli impiegati e dietro gli operai, oppure antiche foto di gruppo di amici che si dispongono in una maniera piuttosto studiata, con le donne ai lati e gli uomini al centro. Nel film di Piccioni ho amato molto filmare quegli istanti improvvisamente fermi, fossilizzati, fatti di persone che prima sono in movimento e ad un tratto vengono riprese immobili, con gli sguardi in macchina, con camera fissa, per poi tornare a muoversi, come se si trattasse di uno svelamento della finzione cinematografica: “Avete creduto a questa storia? Bene, questa storia è stata interpretata da queste persone”, e magari, sotto, l’eco degli applausi (sorride).
Hai collaborato molte volte con Fabrizio Bentivoglio. Che rapporto hai con lui? Ho conosciuto Fabrizio nel 1989 sul set de L’aria serena dell’Ovest, il mio primo film riconosciuto, in un certo senso. Dunque Bentivoglio è stato il primo attore professionista con cui ho lavorato. È stato lui il primo a farmi capire quanto siano importanti per un attore lo studio, la concentrazione e l’essere a suo agio sul set. Con lui ho imparato ad avere rispetto per il lavoro dell’attore. Ho capito che il direttore della fotografia deve essere al servizio dell’attore. In quale interpretazione l’hai ammirato di più? L’ho trovato straordinario in Un’eroe borghese di Michele Placido. Fabrizio è un grande trasformista, entra realmente nel personaggio, qualunque esso sia. Mentre giravamo il film a volte mi sembrava di avere davanti Alighiero Noschese. In quel film Fabrizio era diventato davvero l’avv. Ambrosoli. Mi ricordo che sul set mi era difficile scherzarci, come da amici abbiamo sempre fatto, perché mi sembrava di avere a che fare con l’avvocato: aveva un’altra voce, un altro volto (ride)... Fabrizio Bentivoglio è un grande attore che è passato alla regia. Anche in quelle occasioni sei stato il suo direttore della fotografia... Gli attori protagonisti sono sempre coregisti del film, quindi mi pare naturale che passino dietro la macchina da presa. Come regista Fabrizio ha la stessa grande concentrazione che lo caratterizza come attore. Con lui ho potuto osservare come assumere il doppio ruolo attore/regista sia particolarmente faticoso, a volte quasi una tortura. Gli attori mi suscitano una sorta di pietas, sono fragili, sono molto esposti, e nella vita vivono una grande precarietà. La vera materia dei film sono gli attori, i loro volti, la loro recitazione, non i nostri movimenti di macchina, le nostre luci, il nostro montaggio. Sono loro che rimangono nella memoria dello spettatore. E così deve essere.
Altri luoghi, non luoghi, luoghi dell’immaginario Nel 2000, Silvio Soldini ti porta a Venezia, insieme a Licia Maglietta e Bruno Ganz, per realizzare Pane e tulipani. È stata un’esperienza piacevole e leggera così come è il film? Pane e tulipani ha rappresentato il mio tentativo di avvicinarmi alla commedia. Fino a quel momento non avevo mai girato commedie, ma solo film drammatici. Ho all’attivo una filmografia di tragedie! Il mio contributo fu di apportare molto colore, in supporto alla scenografia e ai costumi. L’idea generale di Silvio era di fare un film molto colorato. È anche vero che, pur cercando di salvaguardare il volto degli attori, mi interessava che gli ambienti fossero un po’ nell’oscurità, con un rilievo che in genere nelle commedie si tende ad evitare. In questo film, volti ben illuminati si staccano da fondali poco in risalto. Riguardo a Venezia, ho poco da aggiungere. Venezia è un paradiso per chi ha la fortuna di lavorare lì come direttore della fotografia: non solo è meravigliosa per i suoi scorci e per le sue architetture, ma il fatto che non ci siano automobili è un grande vantaggio. Filmare le automobili, con quelle superfici così lucide, è il mio incubo. Ho ribrezzo per tutto ciò che è lucido e, di conseguenza, ho un’ossessione per l’opacizzazione. Uso decine e decine di bombolette di spray opacizzante per attutire le superfici riflettenti. E poi, passeggiare in una città dove senti il rumore dei tuoi passi è un sollievo per la mente. E ancora l’acqua... L’acqua ti offre infinite ispirazioni visive. Stranamente Venezia è una location poco utilizzata, forse perché logisticamente non è semplice. Pane e tulipani non è stato girato solo lì. Allo splendore di Venezia si oppone lo squallore dell’autogrill, la banalità della gita turistica a Paestum, il ritorno molto triste a Pescara, la città dove la protagonista vive: al romanticismo narrativo e visivo veneziano si alternano sequenze di grande crudezza quotidiana ambientate nel resto d’Italia. Il ritorno a Pescara presenta scene prevalentemente grigie. È utile ricordare che se un direttore della fotografia può intervenire sul colore al momento del trattamento in stampa della pellicola, è pur vero che il colore reale presente nel film è dato dalla scenografia e dai costumi. Noi direttori della fotografia non possiamo intervenire colorando le luci se un ambiente è monocromatico o privo di colore. Quelle tonalità, per essere vive, devono provenire dal set. Sono gli scenografi e i costumisti i veri responsabili del colore in un film. Noi dobbiamo lavorare di concerto con loro, il cinema è un opera collettiva, non individuale.
Un altro film fortemente legato a un luogo è La giusta distanza di Carlo Mazzacurati... Lo considero un film bellissimo. Sì, è uno di quei film che nasce in un luogo geografico preciso e non può non esserne influenzato. Lo girammo nel Polesine, nelle sue nebbie, le sue lagune... Era come se il film si facesse da solo, come se i luoghi diventassero attori naturali. Nonostante il freddo e le notti passate a girare sotto la pioggia, ne valse davvero la pena. Carlo è un autore sensibile e profondo, ha una straordinaria capacità affabulatoria, a volte mi sembra uno scrittore di fiabe per adulti. È un regista che lavora partendo da suggestioni autobiografiche, da esperienze reali o comunque di vita vissuta. Ad esempio La passione nasce dal fatto che lui aveva realmente messo in scena una rappresentazione della passione in un piccolo comune della Toscana. Nel film la condizione di solitudine di Silvio Orlando – un regista disperato intento a fare
qualcosa che non conosce – è comica ma anche tragicamente vera. Dal punto di vista della fotografia non abbiamo fatto un film realistico: mi sbizzarrii dichiaratamente nell’artificio delle luci, illuminando la rappresentazione in modo vagamente dilettantistico. La difficoltà fu quella di abbandonare tutte le nozioni iconografiche di libri e dipinti e trovare un equilibrio tra l’illuminazione, possibilmente buona, del film e l’illuminazione, possibilmente semplice, della sacra rappresentazione in sé. Carlo Mazzacurati è uno di quei talenti con cui hai stabilito un notevole sodalizio artistico... Quello con Carlo è un rapporto complesso e affascinante. Sai, con un regista si crea sul set un rapporto di simbiosi, nel bene e nel male, si condividono felicità e gioie, difficoltà e problemi. Finito il film, di solito il rapporto si interrompe, il sodalizio è solo professionale. Con Carlo invece non finisce lì. È un uomo meraviglioso, coerente, cosciente, e fin da subito ho riconosciuto in lui un amico, non un regista. Mi è molto difficile parlare di Carlo, perché è come se tu mi chiedessi di parlare di un fratello. Ci sentiamo quasi ogni giorno, da tanti anni ormai... Le conseguenze dell’amore, con il quale nel 2004 hai iniziato la collaborazione con Sorrentino, è invece un film di “non luoghi”... Fu girato a Treviso (sorride), con la pretesa di farlo sembrare ambientato in Svizzera. Avevo girato a Treviso una parte de Le acrobate di Silvio Soldini e la ricordavo come una delle città più anonime del Nord Italia. È simile a tante altre città, è quasi astratta nel suo essere anonima. Mi piace Treviso, proprio perché si presta a qualunque ambientazione. Paolo aveva scelto un hotel perfetto come hotel di Lugano. Era circondato da portici che potevano far pensare alla Svizzera e di fronte c’era una piazza con una strana statua di metallo al centro, brutta abbastanza da sembrare anch’essa svizzera. L’amministrazione leghista di Treviso aveva fatto di tutto per trasformare la città in una sorta di “altrove”, e in questo caso la cosa ci era utile. Quali altre location avete utilizzato oltre Treviso? L’hotel era a Treviso. Il garage era a Caserta, pretendendo di essere in Svizzera. L’altro hotel, quello con la sala conferenze in cui Toni Servillo viene interrogato, era a Napoli, anche se nella storia è a Palermo. Chiasso è rimasta Chiasso. Il
finale tra le montagne l’abbiamo girato in Val d’Aosta. Insomma, eravamo girovaghi...
Lo spettatore de Le conseguenze dell’amore ricorda le numerose carrellate e le acrobazie dei movimenti di macchina. Un film indubbiamente dinamico nella concezione visiva, di contro all’immobilità del protagonista. Sì, esatto. L’intelligenza visiva di Paolo si è concentrata proprio in quei termini. Ha fatto un film sostanzialmente statico, meditativo, facendo muovere poco gli attori e molto la macchina, con delle piroette visive a volte impressionanti. La rigidità voluta del volto di Toni è un pregio espressivo in contrasto con la mobilità della macchina, un contrasto che rende anomalo e affascinante il film. È stata la mia prima collaborazione con Paolo, e il giorno dell’inizio dei sopralluoghi abbiamo litigato così tanto che io decisi che non avrei fatto il film e lui che non mi avrebbe mai più voluto vedere. È stato il produttore Nicola Giuliano a obbligarci a lavorare insieme. Ci eravamo entrambi irritati durante un sopralluogo in cui Paolo mi chiedeva una cosa che io ritenevo inconcepibile: dato che sono sempre stato propenso alla semplicità, non volevo impegnarmi a filmare qualcosa che mi sembrava impossibile. In realtà, lui aveva ragione e io
avevo torto. Era assolutamente possibile realizzare quello che in un primo momento mi era sembrato impossibile. Ci vuoi raccontare in dettaglio? Era un’inquadratura in cui i mafiosi che dovevano interrogare Toni salivano – con l’auto dentro un montacarichi – sul tetto di un albergo a Napoli. Paolo mi chiedeva di illuminarli controluce e secondo me era un lavoro complesso ma possibile, trattandosi di un enorme terrazzo tra due palazzi adiacenti. Poi però, con un riposizionamento della camera di 180 gradi, avrei dovuto inquadrarli nuovamente controluce. Gli dissi che avremmo dovuto spostare dalla parte opposta tutte le luci già faticosamente piazzate. Lui voleva che si facesse così, e io gli risposi di farselo da solo. In realtà si poteva fare in un modo più semplice di come avevo immaginato. Avevo sbagliato io nel drammatizzare sulle difficoltà. Aveva ragione lui. Paolo ti mette sempre di fronte a cose complesse, apparentemente irrisolvibili. Grazie a lui ho scoperto che si può fare di tutto, sia per quanto riguarda la luce, che per quanto riguarda la camera. Si può di fare tutto, anche un film in bianco e nero. Ripenso alla tua collaborazione con Daniele Ciprì e Franco Maresco, prima ne Lo zio di Brooklyn nel 1995 e poi in Totò che visse due volte nel 1998. Come hai affrontato l’esperienza del bianco e nero? Ciprì e Maresco avevano sempre e solo lavorato con il video. Mi chiamarono in aiuto del loro primo film in pellicola, e io cercai di essere molto rispettoso dell’immagine che avevano creato precedentemente: i lavori di Cinico TV avevano una forma estetica precisa e riconoscibile. Ne Lo zio di Brooklyn ho applicato anche le conoscenze di camera oscura che avevo grazie alle mie esperienze giovanili, il contrasto, lo sviluppo, l’uso di filtri colorati sul bianco e nero, e mi sono limitato a mettere quei dégradés che danno l’immagine riconoscibile dei loro video. Penso sia stato corretto non intervenire a gamba tesa, e cercare semplicemente di fare con la pellicola quanto loro avevano fatto magnificamente con il video. Nel secondo film, invece, Totò che visse due volte, il mio intervento è stato più sensibile e si è discostato dall’estetica de Lo zio di Brooklyn e dei precedenti lavori in video. Per me si è trattato dell’esperimento decisivo per capire che l’illuminazione in bianco e nero non è soggetta a quelle regole datate che la vorrebbero basata su fonti dirette e l’uso sconsiderato e continuo del contro luce. Ancora oggi sul bianco e nero circolano stereotipi e leggende abbastanza ridicoli e superati. Ho girato il film come se fosse a colori,
tutto qui. A conferma di questo posso ricordare che Il nastro bianco di Haneke, del 2009, è stato girato con le luci di un film a colori, e il risultato ottenuto da Christian Berger è uno dei film in bianco e nero più belli che si siano mai visti. Stesso accorgimento e stesso risultato ha ottenuto Roger Deakins nel film dei Coen del 2001 L’uomo che non c’era. L’idea che serva un controluce per staccare l’attore dal fondo è un’idea errata, se non addirittura ridicola, ereditata dalla preistoria del cinema. Il bianco e nero ha indubbiamente bisogno di un accurato lavoro sul contrasto, che si può ottenere o con i filtri o in sede di sviluppo del negativo o in sede di stampa. Non c’è alcun motivo per cui si debbano usare luci irrealistiche solo perché si crede, ancora oggi, che il bianco e nero le sopporti meglio del colore.
Nel 2011 sei stato, in un certo senso, protagonista di un road movie, grazie a
This Must Be the Place di Paolo Sorrentino... Eh già (sospira). Da Dublino agli States, partendo dall’Italia. Questa volta con sforzi produttivi e cast notevolmente maggiori. Avete iniziato a filmare in Irlanda? Sì, a Dublino per tre settimane, poi abbiamo proseguito negli Stati Uniti per altre sette. In realtà le settimane effettive di riprese sono state otto, se non si contano gli spostamenti tra una location e l’altra. Abbiamo corso tantissimo. È stata una lavorazione molto impegnativa, e ci avremmo messo più tempo senza la disponibilità di mezzi e di persone degli americani, che vuol dire anche velocità, con i suoi vantaggi e i suoi svantaggi. Ed è stata una lavorazione faticosa: gli orari statunitensi sono micidiali, quasi dodici ore giornaliere compreso il sabato. Il problema è che gli americani ti obbligano a decidere tutto prima. In questo caso è stato indubbiamente un grande vantaggio. Per This Must Be the Place ho avuto la grande fortuna di poter portare con me una parte dei miei collaboratori storici, il capo elettricista Alessandro Saulini, il capo macchinista Patrizio Marra, l’assistente operatore Salvatore Bognanni, e poi Davide Bertoni, che ha fatto l’aiuto regia di Paolo negli ultimi tre film. Una piccola ma affiatata troupe italiana in mezzo alla mastodontica organizzazione americana. Per ragioni sindacali, sul set avevamo gli equivalenti statunitensi di ogni ruolo, un capo elettricista, un assistente operatore ecc... Il rapporto con loro è stato eccellente. In realtà lo immaginavo, perché gli americani hanno un grado di duttilità ed elasticità molto elevato e grande attitudine alla collaborazione. Cosa pensavi della sceneggiatura di Paolo, così piena, densa e pirotecnica? Il film scava dentro ricordi collettivi e personali. È chiaro che per la sceneggiatura Paolo ha fatto ricorso a un immaginario dell’America che potesse essere condiviso da molti, dalla musica ai paesaggi. E l’ha fatto con divertimento, intelligenza e astuzia. L’immagine che tutti noi abbiamo dell’America, degli spazi sconfinati e della musica, però, l’ha rielaborata e frantumata, rimescolata, frullata.
Come si affronta visivamente un tale cocktail? L’ho affrontato facendo altrettanto: attingendo ai miei ricordi cinematografici, diffusi, espansi, dal western al cinema indipendente americano, che tanto hanno utilizzato quegli spazi semplici, suggestivi, aperti. Ricorrendo a ricordi legati alla musica, alla mia stessa passione per i Talking Heads, condivisa con Paolo. La mia direzione della fotografia in This Must Be the Place ha assunto una forma cinematografica che si è riallacciata d’istinto al mio vissuto personale, fatto di viaggi e di conoscenza reale di quei luoghi. Quegli stessi luoghi in cui abbiamo girato li avevo visti infatti da giovane, a vent’anni, quando ero andato da solo alla scoperta dell’America, a bordo di quei bus della Greyhound. Avevo attraversato quegli spazi solo e senza soldi: ecco, quell’esperienza mi è stata estremamente fertile per la fotografia del film. Avevo la sensazione di conoscere quei luoghi, non erano un territorio estraneo. Non solo perché ci ero già stato, ma perché li conoscevo anche “culturalmente”. La mescolanza di questi due aspetti, biografico e di immaginario cinematografico, mi è tornata utile al fianco di Paolo. Immagini usurate, che Paolo ha avuto la capacità di mescolare con un risultato, perlomeno a mio parere, davvero apprezzabile. Se in Cina, con Amelio, avevo avuto difficoltà a illuminare certi ambienti perché avevo una conoscenza superficiale di quei luoghi, in America non ho avuto perplessità. Poi è un altro discorso il fatto che con Paolo, a volte, si ideavano inquadrature molto complesse, in luoghi difficili da filmare, con grandi divi, troupe numerose e tempi molto ristretti. In tutti i film di Paolo, tra l’altro, la velocità nelle riprese è un fattore determinante. Lui ha un’idea molto precisa del momento in cui bisogna cedere e accontentarsi dell’imperfezione, perché sa bene che la ricerca della perfezione porterebbe solo danni in termini di fatica e di tempo. Una frase che io e Paolo ci ripetiamo spesso è “l’ottimo è il nemico del bene”, una splendida affermazione che riassume la necessità di fermarsi. Paolo mi ha insegnato ad accontentarmi. Data la quantità esorbitante di riprese, di differenti sequenze da fare nell’arco di una sola giornata, non ci si poteva soffermare per ore su una singola inquadratura. È un grande insegnamento. È bello lavorare in maniera veloce. La concentrazione è innegabilmente più alta. E poi nell’imperfezione sottile risiede molto della magia del cinema di Paolo, e del cinema in genere. Nei margini di errore c’è qualcosa di estremamente affascinante. Non è detto che il rimedio sia migliore dell’errore. Ho imparato ad accontentarmi anche per rispetto della troupe, degli attori, che sono spesso vittime di attese snervanti, e a fare tesoro degli errori. Come hai affrontato la questione del colore, di cui il film è così carico?
Semplificando posso dire che avevamo scelto di restituire un’Irlanda grigia e un’America colorata. Mi ricordo di aver spinto molto, in fase di stampa, il colore delle sequenze americane. Di per sé l’America era realmente più colorata. Qualcuno mi ha chiesto: “Ma quegli alberi erano davvero così gialli?”. Sì, erano davvero così gialli. Era autunno, gli alberi erano molto belli, gialli e risaltavano molto. La natura di quei luoghi riserva sorprese e regala idee visive inesauribili. In fase di stampa ho solo evidenziato colori che erano già presenti in natura. Non li avevamo dipinti alla maniera di Antonioni (sorride). Abbiamo fatto un uso molto interessante di effetti speciali: nella scena finale la neve non c’era, ovviamente, altrimenti l’anziano attore che interpretava il nazista avrebbe avuto seri problemi a rimanere nudo. Ed eravamo fuori stagione. Avevamo messo una grande macchia di neve artificiale dove l’attore posava i piedi, ma il resto è stato introdotto con effetti speciali digitali. Anche in altre sequenze l’utilizzo di ritocchi digitali è stato essenziale: ad esempio, in un’inquadratura frontale di un camion cisterna in acciaio, con la camera che passa sotto il camion per poi inquadrare il Pick up di Sean alla pompa di benzina dove siede un’indiano, il binario del carrello è stato cancellato in post-produzione, così come il riflesso di me con la mia troupe. All’inizio del film, dopo i primi dettagli sul trucco del protagonista, c’è un’inquadratura in cui Sean Penn si volge verso lo specchio: anche in quello specchio c’era il mio riflesso con la macchina da presa. In quel caso la cornice dello specchio è stata usata come separatore naturale e l’immagine speculare di Sean ha sostituito il riflesso della troupe. Insomma, This Must Be the Place è estremamente elaborato. Immagino che anche il piano sequenza con l’esibizione di David Byrne sia stato molto complesso da filmare... Esatto, e in quel caso non c’era alcun effetto speciale. Quella piattaforma che prima era pavimento e poi diventava parete mobile passando sopra le teste dei musicisti era concreta e reale e mi creava problemi di illuminazione, perché la luce sulla pedana sarebbe andata a interferire con la luce che avevo posto sui cantanti. Desideravo che quella pedana avesse una sua luminosità autonoma, indipendentemente dai suoi movimenti e dallo spazio che attraversava. Ho illuminato la pedana con dei led nascosti lungo i bordi e delle abat-jour che le permettevano di vivere di luce propria. Il problema si poneva al momento del passaggio sulle teste dei musicisti, perché la pedana avrebbe raccolto anche le luci del palco. Scelsi di posizionare sui musicisti delle luci a pioggia: al momento del passaggio della pedana queste singole luci si spegnevano e si attivava un controluce. Una volta passata la pedana, sul palcoscenico tornava
l’illuminazione iniziale. La pedana stessa illuminava poi il pubblico della performance musicale con la luce che emanava, quindi non ho avuto altri particolari problemi per la sala. Un movimento di camera con il Technocrane, il braccio estendibile che avevo usato sul set de Lo spazio bianco, passava sopra le teste degli spettatori. A quel punto la questione era illuminare il volto di Sean Penn senza che il pubblico ne fosse coinvolto. Volevo isolare in qualche modo il viso di Sean che piangeva senza che venisse illuminato anche chi lo circondava. Allora abbiamo messo un piccolo led sulla macchina da presa: è una soluzione che non adotto mai, odio le luci appoggiate sulla camera perché producono una luce piatta e ricordano il cinema degli anni ’80. In quel caso, aiutato da un piccolo dimmer, ho acceso la luce, debolmente, solo quando la macchina da presa era talmente vicina al volto di Sean da non intervenire sui volti degli altri spettatori. Un piccolo trucco artigianale e primitivo, ma efficace. Insomma, una sequenza difficile anche se risolta in un tempo molto veloce: sul prelight avevamo lavorato il giorno prima, la ripresa effettiva è poi durata circa quattro ore, non di più.
L’idea di affidarsi a un piano sequenza era ovviamente di Paolo?
Assolutamente sì. Il 99% delle idee su come girare una sequenza vengono dai registi, sempre. Agli operatori appartengono variazioni su quella scelta, migliorie, facilitazioni, suggerimenti a volte. Niente di piu e niente di meno.
Il set, l’Italia Ci sono film del recente cinema italiano per cui non sei stato contattato e di cui avresti voluto essere il direttore della fotografia? Certo, ce ne sono moltissimi. Sai, va premesso che guardo da spettatore pagante quasi tutti i film che vengono prodotti in Italia ogni anno. Ritengo sia giusto vederli e ritengo che il cinema italiano sia meravigliosamente potente. Un cinema fatto di tante personalità diverse, di tanti registi che hanno un loro tratto distintivo, e che parla della realtà che viviamo quotidianamente molto più di altre cinematografie europee. Non mi riferisco alle commedie di cassetta, è chiaro. In Italia non esiste una corrente unica, ma ci sono tanti registi dotati ciascuno di forte personalità. Sono un sostenitore convinto del cinema italiano contemporaneo. Dobbiamo smetterla di punirci e di lamentarci, di criticarci per via degli incassi. La qualità media del cinema italiano è notevolmente più alta di quella del cinema di altri paesi, me ne rendo conto quando nei festival mi capita di poter fare dei confronti. Per tornare alla tua domanda, vorrei essere il direttore della fotografia di almeno uno su due dei film italiani che vedo al cinema, non parlo di film spazzatura, sia chiaro. Mi viene in mente il 2008, anno in cui, contemporaneamente a Il divo di Paolo Sorrentino, a cui hai lavorato, usciva Gomorra di Matteo Garrone, che sarebbe stato molto adatto a te per la sua natura di denuncia civile, umana e politica... A dire il vero vorrei essere stato il direttore della fotografia di tutti i film di Matteo Garrone. Penso a L’imbalsamatore, a Primo amore, ma soprattutto a Estate romana, che considero un capolavoro. Il fatto è che Matteo stesso sta alla macchina da presa, e io non potrei mai fare unicamente il direttore della fotografia. D’altronde, fin dagli inizi della sua carriera, Matteo ha lavorato sempre con la stessa troupe, non vedo perché dovrebbe cambiare. I film di Matteo sono bellissimi. Ammiro molto il suo lavoro sulla luce. In qualità di direttore della fotografia hai un rapporto diretto con i produttori? Interagisco direttamente con le produzioni con cui lavoro. A volte mi ritrovo a farmi carico di questioni di cui non dovrei occuparmi, a difendere il regista e il film stesso contro la produzione. Non si tratta quasi mai di questioni tecniche: ogni volta che ho chiesto supporto tecnico nessuna produzione me l’ha mai
negato. I motivi di litigio sono sempre o di natura morale o economica o organizzativa, perché spesso vedo che prevalgono interessi meschini, a sfavore del film. Litigare mi fa stare male, ma è anche vero che non riesco a evitare di farlo. Se non lo facessi il film subirebbe dei danni. Il clima di ostilità e diffidenza reciproca che si è creato tra me e alcune produzioni mi spinge a evitare alcune situazioni. Benché sia giusto che i capitali investiti rientrino e che i film non siano operazioni a perdere, e dato per scontato che il nostro lavoro non è mai solo artistico ma anche legato al denaro – gli artisti visivi hanno il mercato dell’arte, gli scrittori hanno gli editori –, bisogna anche dire che esistono persone che spesso governano con infamia le leggi del mercato. Alcuni produttori, a mio parere, veri e propri criminali, esseri spregevoli, moralmente e professionalmente, gravitano all’interno di un vero e proprio racket. Per fortuna sta nascendo una generazione di giovani produttori, più onesti e determinati, che lavorano con passione e alla ricerca della qualità. Vuoi parlare del tuo rapporto con il resto della troupe? Un buon rapporto con tutti coloro che collaborano al film è naturalmente fondamentale. Come accennavo, credo che la collaborazione tra un regista e un direttore della fotografia debba interrompersi dopo un po’ di anni. Sono invece fermamente convinto che un rapporto continuativo e consolidato nel tempo tra il direttore della fotografia e la sua troupe sia un bene prezioso e insostituibile. Lavoro con lo stesso capo elettricista da 26 anni, Alessandro Saulini: abbiamo iniziato insieme e sono sicuro che finiremo insieme le nostre carriere. Senza di lui io non potrei filmare e lui lavora solo con me. Si è creato un tale rapporto di intesa, un’intuizione reciproca così essenziale per cui lui capisce di cosa ho bisogno e io capisco cosa lui può fare. Se Alessandro mi dice che una ripresa o un’inquadratura non si può fare, io mi fido della sua opinione e accetto il suo suggerimento. Ho lo stesso tipo di rapporto con l’assistente operatore, Salvatore Bognanni, che è addetto ai fuochi: se giro con la macchina a mano, so di mettere in difficoltà il suo lavoro, perché muovendomi metto a rischio la messa a fuoco. Se non lavorassimo insieme da anni sarebbe una collaborazione sempre a rischio di litigio, invece viviamo di comune rispetto e di reciproco aiuto. Con il macchinista, Patrizio Marra, che muove il carrello, ho un uguale rapporto di intesa. Comunichiamo senza bisogno di parole, per cui lui sa sempre esattamente quando iniziare a muovere il carrello su cui io siedo con la macchina da presa, così come sa quando fermarlo se qualcosa di imprevisto nella recitazione lo richiede. Sono rapporti simbiotici, a cui si aggiunge quello con l’assistente al monitor, Daria D’Antonio nell’ultimo decennio e Luan Amelio recentemente.
Dovendo stare dietro la macchina da presa, ho bisogno di un collaboratore fidato che controlli sul monitor l’andamento della ripresa, in tempo reale, e che sappia farmi le giuste osservazioni sui movimenti di macchina o su quanto può essermi sfuggito. E poi, quando serve, chiedo proprio a loro di diventare operatori alla seconda macchina. Mi sembra un passaggio naturale, anche se non convenzionale nel “sistema ufficiale”. E con gli scenografi? Mi viene subito in mente l’esempio di Fuori dal mondo. L’ambientazione nella lavanderia ci creava non pochi problemi perché era tutta a vetri, e la compensazione tra la luce interna e la luce esterna richiedeva miracoli. In quel tipo di ambiente un direttore della fotografia è messo a dura prova, perché in una giornata di sole è complicato non far bruciare l’esterno, inquadrandolo dall’interno. Avrei dovuto avere la stessa quantità di luci sia dentro sia fuori la lavanderia, cosa che non era possibile. Come sempre, mi è stata fondamentale la fortuna. Avevo fatto mettere sul tetto delle luci che venivano diffuse verso l’interno della lavanderia, ma non sarebbe stato sufficiente se avessi incontrato giornate di sole. Ma un po’ la fortuna, un po’ Milano, un po’ il “desiderio”... Alla fine le giornate grigie mi vennero in aiuto.
Nel momento in cui si accetta, per esempio, di girare in una lavanderia tutta a vetri, il rapporto con lo scenografo diventa essenziale. Se uno scenografo imposta una simile ambientazione pone a rischio la riuscita del lavoro del direttore della fotografia, per cui è necessario che si crei una grande complicità, in modo da condividere i problemi e risolverli in collaborazione. Lo scenografo deve esserne cosciente, il direttore della fotografia deve illustrare al regista i rischi, e la produzione deve essere tenuta al corrente per evitare contrasti. Quando viene a mancare la comunicazione tra tutti i membri della troupe il risultato può essere fatale. L’ambientazione in una lavanderia aperta verso l’esterno era una sfida interessante, per me e per il film stesso. Avevo il dovere di accettare la giusta scelta dello scenografo, ma dovevo anche illustrare le problematiche che avrebbe comportato per l’illuminazione. Avrei avuto meno problemi a girare in una lavanderia con le pareti in cemento e quattro neon appesi, ma il film non sarebbe stato altrettanto interessante. Bisogna saper essere generosi, e spero di riuscirci. Non esiste una fotografia bella o non bella. Esiste solamente una fotografia adatta o non adatta alle esigenze del racconto.
Partecipi spesso alle riunioni di preparazione del film? No. Sono un pessimo preparatore. Una volta fatti i sopralluoghi, non mi interessa partecipare alle riunioni con gli attori, con il resto dei collaboratori tecnici, con gli sceneggiatori. Mi fido del regista. La preparazione meticolosa è dannosa alla creatività tecnica. Da questo punto di vista il metodo di lavoro degli statunitensi mi mette in grande imbarazzo, perché loro investono moltissimo sulla preparazione. In fase di sopralluogo le produzioni americane, come accennavo, ti obbligano a dire dove posizionerai le luci. Quando poi ci si trova sul set, mesi dopo, sorprendentemente le trovi già messe in quel modo. Se dovessi lavorare spesso con questo metodo mi verrebbero grandi ansie, perché non è detto che una cosa pensata mesi prima rimanga adatta alla situazione mesi dopo. Se venissi chiamato da una produzione statunitense accetteresti la proposta? Mi capita spesso di essere contattato dagli americani, ma rinuncio sempre. Per una serie di motivi. Vivo in Italia, la mia casa è in Italia, la mia troupe è in Italia, le mie radici sono in Italia e conosco l’Italia. Non mi interessa lavorare all’estero. Penso che ognuno abbia il dovere di fare quello che può nel luogo dove ha scelto di vivere. Sarò presuntuoso e provocatorio, ma con la mia professione di direttore della fotografia nel cinema italiano vorrei dare un contributo a questo nostro disastrato Paese. Al tempo stesso, non riesco ad abbandonare progetti presi a cuore. Di recente mi stavo accingendo a girare a bassissimo budget Io sono Li, il primo film di Andrea Segre, quando mi hanno proposto di lavorare in un film con Meryl Streep protagonista, La signora di ferro... The Iron Lady, sì... Esatto, The Iron Lady, sulla vita di Margareth Thatcher. Ho risposto: “Mi dispiace, se volete sono disponibile da febbraio 2011”. Così ho lavorato come direttore della fotografia per Andrea Segre in Io sono Li, uno dei film che amo di più di tutta la mia carriera, e gli americani hanno scelto un altro. Non hai alcun rimpianto? Francamente no. Avevo già detto di sì ad Andrea, era un progetto che mi piaceva molto. Con lui avevo già fatto dei documentari ed è una persona che stimo. Questa sua opera prima alla fine è risultata meravigliosa, modesta nel budget ma eccellente grazie anche all’impegno di tutte le maestranze. Non mi sarei mai
sentito capace di dire ad Andrea, dopo mesi di riflessioni e sopralluoghi: “Mi spiace, ho ricevuto un’altra offerta, vado a Londra a fare un film con Meryl Streep”. Non è una questione di eroismo. Sono nella condizione di fare i film che voglio nel mio Paese, perché mai dovrei fare dei film che non voglio in un altro paese? Mi arrivano sceneggiature da produzioni americane così scadenti e imbarazzanti che dopo le prime venti pagine le abbandono. Perché mai dovrei rinunciare a lavorare per un ottimo film italiano, nel mio Paese, con registi che già conosco, con cui ho già lavorato e a cui voglio bene? Perché mai dovrei rinunciare a fare un film con Carlo Mazzacurati solo perché ricevo proposte da persone e produzioni estere che non conosco? Non mi interessa. Io sto benissimo qui.
È indubbiamente una presa di posizione civile, se non politica... Certo, perché non siamo più abituati a pensare così nei confronti del nostro Paese. Io spero di dare un contributo politico con il mio lavoro di direttore delle fotografia. Scegliere di lavorare in Italia per un film di un giovane regista italiano, cercando di illuminarlo come richiede una storia di immigrazione e di rapporti umani possibili in una nazione come la nostra, devastata culturalmente
ed economicamente, con un budget praticamente inesistente e mezzi tecnici pressoché minimi... ecco, tutto questo è molto più interessante che girare un film con cinque gruppi elettrogeni e superstar americane. E lo dico senza rimpianti. Questo è il mio modo di fare politica oggi. Si fa politica facendo ciascuno quello che sa fare, che vuole fare, e facendolo bene, onestamente, correttamente. Così possiamo pensare di migliorare, forse, le cose. Se ognuno invece si vende al miglior offerente, facendo per di più cose che non sa fare, solo per essere ripagato nel proprio ego, allora probabilmente questo Paese andrà sempre più a rotoli. Io voglio resistere.
Quello che dici mi lascia senza parole. Non trovo altra via se non quella di provocarti... Hai lavorato in Italia con Abbas Kiarostami in una produzione italo-francese. Se il suo film fosse stato iraniano, nella produzione e nel setting, avresti accettato lo stesso? È una domanda giusta. Premetto che il solo fatto di aver potuto lavorare con Abbas Kiarostami probabilmente ha colmato uno degli ultimi desideri rimasti non esauditi nella mia vita. Detto questo, se Kiarostami avesse girato il suo film in Francia, sicuramente non avrebbe chiamato me. Invece il film era ambientato
in Toscana e c’era Angelo Barbagallo nella produzione, così il mio è stato il primo nome ad essere considerato. Se quello stesso film, con quella stessa produzione, avesse implicato filmare in Iran... Sì, ci sarei andato. Per la curiosità, anche geografica, che da sempre mi accompagna. Quello che volevo dire, che vorrei far capire, è che sono sereno, pienamente soddisfatto e convinto nel voler proseguire sulla mia strada di libertà e di indipendenza. Ti faccio un altro esempio. Un giorno mi chiamò Bernardo Bertolucci per chiedermi di lavorare a L’assedio. Io gli dissi di no perché dovevo, ma soprattutto volevo, tornare a collaborare con Gianni Amelio in Così ridevano. Certo non è stato semplice, ma ancora oggi non ho rimpianti, dovevo dire di no. Gli impegni sono impegni, scelte morali e politiche al tempo stesso.
Kiarostami, un videoartista Nel 2010, dunque, sei stato chiamato da Abbas Kiarostami. Un punto di arrivo? Definitivo! Da quel giorno ho pensato: “Va bene, è fatta, quello che dovevo fare l’ho fatto”. Abbas è stato uno dei registi che più ho amato nella vita. Sono sempre stato al di qua di ogni riflessione critica di fronte a ogni suo film. Ho adorato i film di Abbas fin da giovane: la sua filmografia così spiazzante, fatta di titoli apparentemente così diversi tra loro, dal realismo alla videoarte, dall’intellettualismo all’umanesimo, fino al romanticismo. Lavorare con Kiarostami è stato il punto di arrivo della mia carriera, se non della mia vita. Con lui ho avuto una sensazione che mi era capitata con Gianni Amelio: in entrambe le occasioni mi sono chiesto se me lo meritassi. Essendo un cinefilo, non riesco mai a lasciare da parte l’emozione di lavorare nel mondo che amo, quello del cinema, e quando entro in contatto con persone come Amelio e Kiarostami provo l’imbarazzo di non meritarlo, ma al tempo stesso mi esplode il cuore. Come sei stato contattato per lavorare a Copia conforme? Il film doveva essere girato in Italia. Per trovare un direttore della fotografia i produttori francesi si erano rivolti ad Angelo Barbagallo, e lui ha suggerito di chiamare me. Non avevo mai lavorato con Angelo, ma è uno dei pochi produttori italiani che stimo, con Nicola Giuliano e pochi altri. Abbas e io ci siamo incontrati e ci siamo fatti, credo, un’ottima impressione. Per circa un anno la realizzazione è rimasta in stallo, per via di grandi problemi di casting. Inoltre, l’aiuto regista di Abbas avrebbe dovuto essere Jafar Panahi, ma proprio all’inizio delle riprese ci è giunta la notizia agghiacciante della sua carcerazione. Abbas mi portava in giro per sopralluoghi e mi faceva richieste che io non capivo bene, esattamente come succede con Sorrentino. Abbas ha voluto un uso “incoerente” di macchina a mano e macchina fissa, scelte tra loro in opposizione. Non riuscivo a capire la logica di queste richieste, ma davanti al risultato finale ho dovuto ammettere che, anche questa volta, aveva ragione il regista. Mi sono scoperto nel tempo una persona rigida e duttile allo stesso tempo, spesso in conflitto tra questi due poli. Imparo a fidarmi dei registi, anche quando non sono bravi e affermati come Kiarostami e Sorrentino. Quando ho delle discussioni con Paolo a proposito di certe sue idee che mi lasciano perplesso la sua ultima parola è sempre: “Fidati”. Di fronte a questa parola di solito non dico più niente e mi metto al lavoro. Tra un direttore della fotografia che è anche operatore e un
regista può esserci dibattito, ma va da sé che la scelta finale spetta sempre al regista. Tuttavia è nel tentativo del regista di convincermi ad avere fiducia che la sua decisione acquista, per me, un senso definitivo e indiscutibile. “Fidati” è un’espressione densa di significato, presuppone che il regista si assuma le sue responsabilità e che io mi adoperi al suo servizio. Deve aver fine questa leggenda secondo cui il direttore della fotografia è un autore. È il regista l’autore, il direttore della fotografia impiega e posiziona le luci, ma è il regista che decide come effettuare le riprese. Do continui suggerimenti su come muovere la camera, anzi a volte sono fin troppo invasivo, ma è il regista che decide e sceglie. Anche in questo caso hai ignorato qualunque influenza visiva da parte dei precedenti film di Kiarostami? Sì. Premetto: amando il cinema di Kiarostami, ero ben preparato sui suoi lavori precedenti. Mi documento sempre sulle opere di un regista con cui mi accingo a lavorare. Non potrei mai fare un film con qualcuno di cui non conosco i lavori precedenti. Conoscere i film realizzati da ogni regista è il motivo stesso per cui scelgo di collaborare con qualcuno. Non è solo la sceneggiatura a convincermi ad accettare una proposta, ma il nome del regista, il suo percorso. Ovvio che gli esordienti siano sempre una scommessa. Al tempo stesso, però, se reputo necessario conoscere le esperienze artistiche di un regista, considero totalmente irrilevante conoscerle da un punto di vista fotografico. Penso che il regista si aspetti da me qualcosa di diverso o perlomeno di adeguato al film in lavorazione, dunque non mi interessa sapere come sono stati illuminati i film precedenti, preferisco non saperlo e cerco in ogni caso di non farmene influenzare. Cambiando direttore della fotografia i registi decidono di cambiare stile, ragione in più per non essere influenzati a livello visivo dai loro lavori precedenti. Tranne alcune eccezioni, come nel caso di Ciprì e Maresco, perlomeno del primo film che abbiamo fatto insieme, ma loro erano registi e fotografi insieme. Come andò la lavorazione in Toscana? Dal punto di vista umano la lavorazione fu eccellente. I luoghi erano meravigliosi, le ore di lavoro giornaliero poche perché Abbas ha le idee molto chiare. Pochissimi ciak, pochissime inquadrature, scene molto studiate e molto precise. Ci sono state alcune riprese con camera a mano abbastanza complesse, di cui una molto lunga: quella con la camera che parte da un parcheggio, attraversa un androne dove c’è un fotografo di matrimoni, sale una scalinata a
precedere gli attori, entra in un museo. Nel corso di quella ripresa dovetti fare numerosi cambi di diaframma. Uso spesso il cambio di diaframma all’interno di una medesima ripresa, è qualcosa che nella prassi tradizionale non si dovrebbe fare, ma lo trovo molto utile e molto funzionale. Il cambio può essere addirittura invisibile se fatto lentamente, con attenzione e nel momento opportuno. Tra l’esterno del parcheggio assolato e l’interno dell’androne ci saranno stati 12 diaframmi di differenza. Per compensare lo squilibrio luminoso avrei dovuto mettere molte luci nell’androne, ma così non ci sarebbe stato spazio per gli attori. Come altre volte, ho preferito usare poche luci e cambiare diaframma con accorgimenti di inquadratura e di movimento per non far trasparire il cambio. È uno dei principi di quella che definisco la mia estetica della leggerezza che viene sempre accolta con favore dai registi con cui lavoro. E fu accolta anche in quel caso da Abbas. Mi spiace solo che abbiamo girato con la RED, perché Abbas voleva filmare e poi montare la sera stessa. Il video era la scelta più snella e veloce. C’erano già stati casi in cui avevo abbandonato la pellicola a favore del digitale, ma non avevo ancora mai utilizzato la RED. È uno strumento infernale (sorride), a mio avviso non rende giustizia ai colori e li priva di qualunque densità, sebbene l’immagine sia molto nitida e senza alcuna grana. Amo l’immagine morbida, non mi piace il fatto che la tecnica stia evolvendo verso la nitidezza clinica e purificatrice, che a mio avviso non costituisce un valore e non è necessaria. Questa mania di vedere nella più alta risoluzione anche i pori sui volti degli attori non la comprendo davvero (sorride)...
In quel caso i pori erano quelli di Juliette Binoche. Come è stato lavorare con lei? È stato fantastico, è un’attrice davvero straordinaria e un’ottima persona. Non penso che lavorare con attori di fama mondiale sia un metro del successo della mia carriera, né motivo di vanto nella mia vita. La mia priorità sono i registi: sono loro i miei riferimenti. Detto questo, è stata una fortuna lavorare con Juliette perché è un’attrice meravigliosa, molto intuitiva, una persona di una intelligenza sconcertante. Anche lei, come Margherita Buy, conosce perfettamente il posizionamento, la qualità delle luci e il rapporto con la macchina da presa. Anche lei, come Margherita, con grande garbo e gentilezza fa capire che determinate luci non le vanno bene: sono richieste che creano imbarazzo perché devo rinunciare alla scelta per me migliore in rapporto all‘ambiente e trovare un compromesso. Alla fine dentro di me so che non solo hanno ragione nelle loro richieste, ma che anzi mi offrono opportunità preziose per soluzioni nuove e impreviste. Hai preso parte, insieme a Kiarostami e alla Binoche, alla presentazione del film a Cannes nel 2010? Sì, però devo essere sincero: la mondanità del cinema non mi interessa affatto e la rifuggo il più possibile. Vado al cinema più volte a settimana, mi piace stare dentro una sala cinematografica: quando vedo il film all’interno del laboratorio, insieme al tecnico, al regista e al montatore, sento di avere una visione fuorviante, ed è per questo che ho bisogno di vedere i film in sala, tra il pubblico. In mezzo al pubblico mi rendo realmente conto del film che ho fatto, sia dal punto di vista fotografico, sia dal punto di vista della qualità del film in sé. Ecco perché trovo fuorvianti anche i contesti festivalieri, dove di solito la sala è o “amica” o prevenuta. Bisogna vedere i film nelle sale dove si siede il pubblico pagante. Il cinema è uno spettacolo la cui fruizione è, per definizione, collettiva. Una sala, possibilmente piena, restituisce le emozioni e le sensazioni di quello che il film è realmente. Non si riuscirà mai ad avere il giudizio completo su un film se questo viene visto al computer o in televisione, a casa. L’umore della sala aggiunge e completa il senso di un film. Gli aspetti mondani non mi interessano. Quali impressioni hai avuto nel vedere al lavoro un regista come Abbas
Kiarostami? Devo dire che rispetto alla poesia e alla naturalezza che restituiscono i suoi film, la complessità e l’artificio della lavorazione sono sorprendenti, anzi sconvolgenti. Non c’era un’inquadratura che avesse la stessa continuità scenografica o addirittura geografica; non c’era un’inquadratura che non avesse una finzione clamorosa dietro l’apparente semplicità. Copia conforme ha una continuità di tempo, di spazio e di luogo totalmente costruita. Ad esempio, la stanza dell’albergo dove i due protagonisti parlano alla fine del film è composta da cinque ambienti ricostruiti in cinque posti diversi: il bagno stava da una parte, l’esterno da un’altra, le scale da un’altra ancora... Dal punto di vista scenografico tutto era frammentato e poi ricomposto al montaggio. Perché questa sua scelta, secondo te? Secondo me perché Abbas persegue una sua idea formale così precisa e così accurata che per varie ragioni evidentemente non è reperibile nella realtà. Non è un regista documentaristico o realista, lui costruisce la sua personalissima realtà. E questo è stupefacente, perché vedendo i suoi film, si ha la sensazione di un’estrema naturalezza. Questo salto mortale tra la restituzione della realtà e l’artificio della messa in scena è stato veramente una delle cose più sorprendenti che abbia mai visto. Per far combaciare due muri diversi in due paesini diversi che confluivano nella continuità della stessa sequenza, Abbas ha scattato delle fotografie del primo muro nel primo paese, le ha fatte stampare in dimensioni 3 X 4 metri e le ha attaccate sulla parete del secondo paese: tra un campo e un contro campo, tra un taglio di inquadratura e un altro, si creava in questo modo una continuità stupefacente. Quando vedevo queste cose rimanevo senza parole. Gli dicevo: “Ma la fotografia non è tridimensionale”. E lui mi rispondeva: “Ma il film non è tridimensionale”. Lo scenografo era anch’esso annichilito, ma aveva ragione Abbas. Quei fondi fotografati e appesi, trasportati da un paese all’altro, sono per me l’emblema di un artificio che alla fine mostra sullo schermo qualcosa di naturale. Scene totalmente frammentate, dove a un campo in una stanza seguiva un controcampo in un’altra stanza, in un altro paese, dove a un bagno inesistente si sopperiva costruendolo in una piazza e dotandolo di quattro pareti di legno... Mi ricordo un attore che a un certo punto apriva una porta, ma quella porta era finta, dava su un muro, e io avevo messo dei led dietro per dare l’impressione che dalla porta provenisse della luce. Questa ricostruzione anomala non gravava sui costi di produzione?
No. Il film aveva un budget relativamente basso, solo due attori protagonisti, poche comparse, girato in estrema velocità. Avevamo a disposizione sette settimane e lo girammo in cinque, un vero record all’interno della mia carriera. Abbas è un regista estremamente attento al taglio dell’inquadratura nel primo piano, rasenta davvero la maniacalità, può cercare il taglio giusto per ore. Ho fatto molta fatica, all’inizio della nostra collaborazione, a comprendere il metodo di Abbas, ero molto perplesso. Alla fine ne ero totalmente affascinato, e arricchito di conoscenza preziosa, umana e cinematografica. come mai nella vita. Ti aspettavi di avere di fronte il regista iraniano realista per antonomasia... Infatti, il caposcuola del realismo contemporaneo, e invece mi sono trovato di fronte una sorta di video artista.
Avanti, verso le origini Al momento stai lavorando a un nuovo film? Sì, ho appena iniziato le riprese del nuovo film di Francesca Comencini, dal titolo provvisorio Il primo lavoro. È un film molto scomodo e attuale, dal punto di vista narrativo e politico. Nessuno ha avuto il coraggio di finanziarlo, quindi la produzione ha dovuto provvedere a metà del budget. La troupe è ridottissima. È un film la cui lavorazione mi sta portando a riflessioni profonde. Saranno anche questi giorni di intervista che mi invitano a una maggiore consapevolezza. Lo sto girando con una RED Epic, che è l’evoluzione della RED One che avevo usato sul set di Kiarostami... Sei sempre aggiornato sull’evoluzione delle tecnologie, in questo caso delle macchine da presa? Mi aggiorno, sì, ma non perché sia interessato alla tecnologia in sé. Piuttosto, sono molto incuriosito da tutte le migliorie che portano maggiore praticità e riduzione degli ingombri: la RED Epic è una macchina da presa molto piccola, estremamente versatile, dotata di un sensore molto sensibile, potente, più precisa e in grado di ottenere colori di gran lunga più definiti rispetto alla RED One. È la prima volta che viene utilizzata in un film italiano. Usando una macchina così piccola e dalla così alta qualità fotografica, il punto di vista ritorna prioritario e non sono più costretto a snervanti compromessi logistici dovuti all’ingombro delle camere. In questo momento sul set sono completamente libero di dedicarmi alla composizione dell’inquadratura, una cosa a cui non ero più abituato. E contemporaneamente mi sto convincendo che il lavoro che sto affrontando per questo film sia uno dei più elaborati dal punto di vista formale che io abbia mai realizzato. Con questa nuova macchina da presa posso girare in qualsiasi condizione di luce. In questo piccolissimo film di Francesca ci sono molte scene che presupporrebbero dei camera car. Io odio i camera car. Essendo la RED Epic molto piccola, posso metterla ovunque, sul cruscotto, sui finestrini, in qualunque posizione ma sempre all’interno della vettura, e non fuori.
Se posso prestare meno attenzione al posizionamento delle luci, mi concentro di più sulla scelta delle inquadrature e questo non impoverisce le mie scelte fotografiche ma le sublima. Con Francesca stiamo costruendo molto attentamente le inquadrature sulla base della luce esistente, e così si regala al film velocità, leggerezza, verità. E la qualità formale rimane altissima. La questione della velocità, per me essenziale, ritorna sempre, ritornerà sempre. Tutta l’esperienza passata nel posizionare le luci mi sta ora aiutando a toglierle. Devi sapere che, in fondo, togliere la luce è molto più difficile che metterla. In questi giorni ho la sensazione di tornare alle mie origini, quando non avevo luci a disposizione: all’epoca la cosa mi poteva frustrare, invece ora, trent’anni dopo, vivo l’esiguità di mezzi in modo del tutto felice, come stimolo innovativo e creativo.
Testimonianze
Gianni Amelio Quando ho conosciuto Luca Bigazzi, nei primi anni ’90, credo che tutti e due fossimo nella nostra forma migliore. Non mi riferisco al talento: quello c’è o non c’è o si coltiva. Penso all’energia, alla carica vitale, alla voglia di fare sempre di più e di meglio, con insistenza cocciuta e il sorriso sulle labbra solo quando ci vuole. Mi ricordo che mentre giravamo Lamerica lo trovavo ogni mattina nell’atrio dell’albergo con gli occhi che brillavano: “che bello che andiamo a lavorare”, mi diceva... Non so se lo dice ancora, è da un po’ che non lo vedo. Io mi prendo con le molle, allora come adesso. E cerco di dosare i miei entusiasmi. Luca no, non ne è capace. È un libro aperto, nel bene e nel male. Come abbia fatto a raggiungere la vetta in un mondo che sventola l’ipocrisia come bandiera è ancora un mistero per me. Il talento, su quello non si discute. Ma non basta. Ci vuole qualcosa di più che ti renda compagno di strada insostituibile, confidente e confessore. Bigazzi è tutto questo, almeno per me lo è stato. Ha la qualità essenziale per un direttore della fotografia, che non è quella di saper piazzare le luci ma di saper creare il buio (era così un altro grande, Tonino Nardi, con il quale ho avuto il privilegio di lavorare litigando e di litigare lavorando...). Ma, ripeto, non è questo il suo grande dono. Luca Bigazzi è l’uomo che ti sorregge un attimo prima che tu cada, che non impone le sue idee ma crede fermamente nelle tue, una volta che ti ha scelto. È un intellettuale che tiene a bada la propria filosofia nel momento in cui imbraccia la macchina a mano: allora diventa un operaio che non sente la fatica e cerca di farla scordare anche agli altri. Abbiamo fatto insieme quattro film e non sono “bei ricordi”, come si usa dire, ma molto di più... Non so se ci ritroveremo ancora come una volta. Siamo cambiati, tutti e due, in questi vent’anni. Però ad Algeri, durante i sopralluoghi per un film che poi non ha fatto, Luca era ancora lui, il ragazzo con cui ho scalato le montagne in Albania.
Philippe Antonello Il fotografo di scena, pur presente sul set, è l’unica figura professionale che non contribuisce in maniera diretta alla realizzazione di un film, ma solo alla sua promozione. L’unica persona a cui possa appoggiarsi è il direttore della fotografia: io sono stato molto fortunato perché ho iniziato e imparato il mio mestiere dal miglior insegnante che potesse capitarmi. Luca Bigazzi ha inventato un modo nuovo di intendere la fotografia nel cinema. Ho esordito al suo fianco, durante la lavorazione di Un’anima divisa in due, nel 1992. A quel tempo ero ancora studente di fotografia allo IED di Milano, con Mario Cresci. Silvio Soldini aveva visto il mio primo portfolio sulla rivista «Linea d’ombra» di Goffredo Fofi e all’improvviso mi trovai catapultato sul suo set, a fotografare Luca che inquadrava Fabrizio Bentivoglio. Non avevo né esperienza né capacità tecniche, ma vicino a Luca ho potuto imparare tutto. Con Luca hai la possibilità di imparare: lui ha questa inconsapevole, curiosa, naturale e innata predisposizione alla condivisione del sapere. Quello per cui ringrazio Luca è che, senza saperlo, ha creato una bottega. Dove si può imparare. Fatta di colleghi, collaboratori, amici. A volte ho ancora nostalgia delle sere passate in giro per Milano, con Saulo [Alessandro Saulini] e Luca...
Gianluca Arcopinto Io e Luca, praticamente coetanei, ci siamo conosciuti nel 1990. Lui era un astro nascente, io ero forse il più promettente organizzatore di produzione e già iniziavo a produrre nella mia maniera anomala. Ci conoscemmo durante la settimana di lavorazione di un mediometraggio ambientato a Madrid durante gli ultimi giorni dei mondiali di calcio italiani. “Va bene tutto, ma non fatemi tornare a Milano in concomitanza con la finale”. Dopo una settimana faticosa e piena di incomprensioni, Luca rientrò a Milano esattamente mentre Argentina e Germania si giocavano quel mondiale. Durante quella settimana iniziò il nostro rapporto di non amore, che ci portiamo dietro da tutta la vita, anche quando più volte, pubblicamente, io ho espresso la mia ammirazione assoluta nei confronti suoi e della sua preziosa carriera, ineccepibile in tutte le scelte. E anche quando lui a sorpresa mi telefonò all’annuncio della chiusura della “Pablo”, la mia casa di distribuzione, esprimendo solidarietà e rispetto per il mio lavoro. Continuo a pensare che sia il migliore della nostra generazione; cosa pensa lui di me lo disse in quella telefonata: questa è la nostra “maschia” e orgogliosa relazione umana e professionale.
Fabrizio Bentivoglio Con Luca ho cominciato a lavorare nel 1989, sul set de L’aria serena dell’Ovest di Silvio Soldini. Eravamo tutti trentenni, giovani ed entusiasti. Da allora la collaborazione con Luca prosegue da più di vent’anni in modo quasi sistematico: da Un eroe borghese di Placido a Testimone a rischio di Pasquale Pozzessere, da Un’anima divisa in due ancora di Soldini a La giusta distanza di Mazzacurati, e tanti altri titoli. Almeno ogni due anni io e Luca ci rincontriamo sul set, con registi diversi. Al momento di debuttare nella regia con Tipota è stato naturale per me averlo al fianco come direttore della fotografia: Luca mi incoraggiava da tempo. E posso dire che Lascia perdere, Johnny!, nel 2007, è stato un inevitabile proseguimento, nonostante fossero passati otto anni. Ricordo un momento particolare sul set de L’aria serena dell’Ovest: dovevo scendere le scale per entrare in metropolitana, ma non avevamo il permesso per filmare, stavamo facendo un vero e proprio blitz. Luca, con la macchina in spalla che diventava tutt’uno col suo corpo, mi seguiva con un piccolissimo neon alimentato a batteria posizionato con lo scotch sopra l’obiettivo, in maniera molto rustica... Dopodiché, allo stop, spense la luce e tutti ci separammo velocemente, come dei fuorilegge. La nostra collaborazione proseguirà ancora, ne sono sicuro.
Anna Bonaiuto Luca Bigazzi è direttore della fotografia quasi teutonico: di poche parole, perfezionista, veloce e circondato da un’ottima squadra di assistenti e collaboratori. Lo ricordo ossessionato dall’illuminazione delle cose, capace, un secondo prima del ciak, di modificare una luce oscurandola, anche solo con un dito. Un furetto, che si aggira e corre per il set. No perditempo. Quasi antipatico. Un artista.
Margherita Buy Con Luca ho fatto due film fondamentali per la mia carriera e la mia vita personale: Fuori dal mondo e Lo spazio bianco. A pensarci, sono due film completamente diversi tra loro, non solo le storie ma anche le immagini. Credo sia questa la grandezza di Luca: è capace di adattarsi ai lavori più diversi, mantenendo un suo personalissimo stile che però non diventa stampo. Qualunque film decide di fare, Luca si improvvisa, si rinnova, si adatta, ci entra dentro, lo illumina come fosse anche lui un interprete – cosa che poi è – del film. Spesso un direttore della fotografia si impone al film, Luca invece si pone al servizio del film. Non capita spesso di avere un direttore della fotografia che è anche operatore: stando in macchina, Luca apporta un contributo enorme. Quando so che c’è Luca in camera, io vivo due diversi stati d’animo. Da una parte sono tranquilla, perché Luca è una persona seria, si concentra insieme a me, ha fiducia in me. Dall’altra sento un grande senso di responsabilità e timore, perché non voglio deluderlo, non voglio fare errori, magari anche solo per distrazione. Ai tempi di Fuori dal mondo, per esempio, Giuseppe lo conoscevo già bene, invece di Luca conoscevo solo la fama straordinaria. Ma avevo sentito dire che amava prestare attenzione agli ambienti e non alle attrici, ed ero terrorizzata. Un’attrice ha sempre un rapporto importantissimo con il direttore della fotografia: gli si appoggia, cerca di avere in lui un alleato che la aiuti. Noi attrici siamo sempre piene di fisime, sul nostro aspetto, su come appariamo sul grande schermo. I miei ruoli in quei due film non erano di certo gentili per una donna, non risparmiavano nulla. Ma Luca riuscì a darmi una grazia aggiunta, e alla fine di entrambi i film mi sono piaciuta molto.
Antonio Capuano Luca Bigazzi non vuole fare il “Direttore della Fotografia”, con le maiuscole. Si è stancato di “mettere le luci”, “illuminare”. Non ne trova più il senso, la necessità. Come per una cosa ripetuta un milione di volte, ne ha smarrito il significato. Lui vuole che gli ambienti abbiano la luce che hanno. Ha troppo rispetto per la luce, per mistificarla. È un ecologista. Non vuole aggiungere, modificare, inquinare, schiarire, scurire, montare panni neri, capanni, schermi, riflessi. Più che accendere Luca Bigazzi vuole spegnere. Una delle cose che gli danno fastidio è quando i “suoi elettricisti”, tutti amici, padri di famiglia, fidanzati, artisti, “stendono la linea”. Ecco, quello è proprio un momento in cui Luca pensa che quel lavoro là lo possono fare tutti, una volta accettatane la frequenza bislacca. Un lavoro in cui i cretini possano irrispettosamente brillare. Allora prova subito uno straniamento, un’amarezza, un leggero strazio che non riesce a nascondere. Lo si nota subito nei suoi occhi allegri. Perché Luca ha gli occhi allegri. E dolci. È la prima cosa che vedi e ti colpisce quando lo conosci e gli stringi la mano. Per questa sua peculiarità, quindi, tenderebbe al gioco, al lazzo, al tenero sorriso, anzi vorrebbe che tutto il suo lavoro avesse quel fine. A questo punto avviene la tremenda scissione. Succede che la sua parte cattiva, che sarebbe il “Bigazzi” che è in lui, professionista estremo, preso dalla smania di onorare il contratto, mette Luca in un angolo e scatena con il resto del mondo (la troupe) azioni di forza tecnico-artistiche, psicologiche e finanche fisiche. Ma qui Luca diventa volpe. Abbandona l’angolo, striscia tra i polli (la troupe) e i proiettori accesi che “Bigazzi” ha fatto piazzare nel suo perenne delirio luminoso e... click, li spegne. Poi dice, “sono pronto”, con lo sguardo che brilla.
Francesca Comencini È difficile per me scrivere queste righe ora, dal momento che proprio in questi giorni ho iniziato a girare un nuovo film con Luca. Ogni mattina ci ritroviamo sul set e cerchiamo le immagini giuste per raccontare il mondo, le emozioni e la storia della ragazza protagonista. L’atto creativo va oltre le parole. Luca stabilisce con i film ai quali collabora un rapporto di grandissima intensità. Questo non significa che si appropri del film anzi, il legame che lo assicura al film è sempre la sua capacità di ascolto, e, direi, quasi di simbiosi, con il regista. Luca si lega in un modo tutto suo, solitario e profondo, ad ogni film che fa, ed è così che dà il meglio di sé, traducendo per il regista le proprie immagini, i propri ricordi personali di vita ma anche le mostre che ha visitato, i viaggi che ha fatto, le letture che ha compiuto, le mutazioni delle stagioni che, da amante della natura, osserva con infantile e rinnovato stupore ogni giorno. Per Luca tutto è immagine, odore, emozione, ricordo, sentimento. La sua memoria procede per immagini. Può non ricordarsi quello che ti ha detto cinque minuti prima, ma non dimentica mai un quadro che ha visto, anche dieci anni prima, o il colore di un portone mezzo aperto su una corte di Milano, o la faccia di una persona di cui non sa il nome ma che lo colpisce nell’espressione. Le immagini gli cadono addosso come fiocchi di neve e lui se ne lascia ricoprire come un ragazzino divertito, che ha la grazia di restituircele nei nostri film con quello stesso candore, necessità, profondità e serissima attitudine di concentrazione dei bambini che giocano. Credo che questo sia, molto semplicemente, talento.
Angelo Curti Con Mario Martone scegliemmo Luca Bigazzi per il nostro primo film, Morte di un matematico napoletano, grazie al suggerimento di Andrea Renzi che lo aveva assai apprezzato sul set di Incidente di percorso, con protagonista Tomas Arana, l’altro attore iconico del gruppo teatrale Falso Movimento. Luca fu più che decisivo nel conferire all’anaparastassi dell’ultima settimana di Renato Caccioppoli il caratteristico pendolo cromatico oscillante fra giallo giorno e blu notte. Avevo scoperto quella sapienza luministica già qualche anno prima, attraverso un vhs di Giulia in ottobre di Silvio Soldini, fornitomi in modo semiclandestino dalla protagonista Carla Chiarelli, anch’ella attrice di un nostro spettacolo nel cuore degli anni ‘80. Più degli ultralaconici dialoghi in marcato accento milanese, brillava l’abilissimo incrocio di luci stradali e interni al neon. La vera differenza di Luca Bigazzi, reincarnazione post-sovietica dell’uomo con la macchina da presa, consiste però nel suo mostruoso talento di operatore. Come di alcuni grandi calciatori, si può dire di lui che fa reparto da solo.
Nicola Giuliano Non voglio parlare di Luca Bigazzi come straordinario maestro della luce, lascio il compito a chi ha competenze critiche ben superiori alle mie, né di Luca come mio grande amico, perché attiene alla sfera personale. Parlerò allora di Luca come valore aggiunto in un film: avere lui in squadra significa dare al film, al regista, alla produzione, agli attori, un gigantesco bacino di tempo cui attingere. Il tempo è quanto di più prezioso possa esserci in un film, le soluzioni geniali di Luca permettono sempre al regista di impiegare il tempo sempre e solo al servizio del suo lavoro e mai sprecarlo nell’attesa. Luca consegna a un regista uno spazio di 360 gradi per le riprese, senza bisogno di intervalli per i cambi di luce fra un’inquadratura e l’altra, il che si traduce in intensità, continuità, concentrazione nel lavoro. Luca ha sempre la soluzione giusta di fronte alle difficoltà. Un piccolo episodio: durante i sopralluoghi de Le conseguenze dell’amore, Paolo Sorrentino aveva scelto come camera d’albergo dove far vivere il protagonista Servillo/Di Girolamo una minuscola stanza al quarto piano, senza balconi, praticamente impossibile da illuminare senza una gru esterna (che non avremmo mai potuto permetterci). Entrati nella stanza Luca mi guardò come a dirmi: “Perché mi hai fatto portare qui, come posso fare?”. Ma di fronte al regista che gli magnificava la bellezza scenografica della stanza, e dopo aver girato in tondo come un leone in gabbia, semplicemente disse: “Va bene”. Con un complicato sistema di tubi a espansione ancorati al soffitto e di pezzi di legno a sbalzo all’esterno della finestra, risolse il problema. Credo di aver lavorato con Luca in una quindicina di film, fra quelli fatti come organizzatore e quelli come produttore. Non credo sia un caso.
Valeria Golino Sto lavorando alle riprese del mio primo film da regista. Da subito, in modo del tutto naturale, ho pensato a Luca come potenziale direttore della fotografia. I sogni non sempre si realizzano, e varie circostanze alla fine non ci hanno permesso di lavorare insieme ancora una volta. Sì, ancora una volta, perché se ho lavorato con molti registi una sola volta (Soldini, Capuano, Archibugi, Piccioni, Bentivoglio, Cotroneo), con Luca Bigazzi invece ho lavorato otto volte, compreso Tipota... Credo che i numeri parlino da soli. Cambiano i registi, ma Luca rimane sempre. Nel momento in cui filma, Luca, è come se andasse oltre il volto dell’attore, riuscendo a estrarre i sentimenti che l’attore cerca di esprimere. A lui non interessano tanto i connotati fisici, quanto le emozioni. Luca è un “estrapolatore” dei sentimenti di un attore. Ecco che cosa è per me. Spesso, rivedendomi sullo schermo, ho notato espressioni e sguardi che non sapevo di aver avuto. Era lui, il suo occhio dietro la macchina da presa, a cogliere qualcosa che all’apparenza non c’era. Altrettanto, le sue luci sui luoghi raccontano qualcosa di arcano e inaspettato. Luca coglie l’impressione di un luogo. La sua luce è sempre credibile, è naturale due volte: svela sia l’ambiente sia l’impressione di quell’ambiente. Credo siano queste le caratteristiche del suo enorme talento.
Abbas Kiarostami Ho avuto il piacere di conoscere Luca in occasione delle riprese del mio film Copia conforme. A dire il vero non sono stato io a scegliere Luca come direttore della fotografia, mi è stato consigliato dal produttore italiano del film, Angelo Barbagallo, e posso dire che si è rivelata la scelta più giusta che avessi potuto fare. Sicuramente Luca è un bravissimo direttore della fotografia, uno dei migliori che abbia conosciuto; ma non è solo questo che me lo fa apprezzare e mi spinge a voler continuare a lavorare con lui: è la sua pazienza, la sua capacità di ascoltare e la sua disponibilità a mettere in discussione il suo punto di vista. La cosa più bella nel lavorare con Luca è stato il non dover spendere energie per discutere e per farsi capire. Lui capiva subito quello che intendevo... Questo ci ha permesso di lavorare in modo sereno e spedito.
Franco Maresco Parlare di Luca Bigazzi in poche righe per me è impossibile. Allora provo a scegliere una sola parola che riassuma la sua caratteristica più evidente: la generosità. Ho conosciuto poche persone generose come Luca, non solo nell’ambito del cinema italiano, ambiente frequentato da gentaglia fasulla, ma in generale. È impressionante il numero di registi, di autori giovani e meno giovani che hanno esordito con lui. In passato, sfottendolo, gli ho spesso rimproverato di avere sulla coscienza questi debutti, di molti dei quali francamente si sarebbe potuto fare a meno. Lui a volte approvava, a volte li difendeva come farebbe un buon padre protettivo. Rischio di essere retorico, chi se ne frega, ma per Bigazzi il cinema è una missione, che esercita in senso politico. Luca ha inteso il cinema come utopia, come un modo per cambiare la società e il mondo che ci sta attorno. Non appartengo a questa scuola di pensiero, ma l’approccio di Luca mi ha sempre affascinato. Ho conosciuto Luca nel 1994, insieme a Ciprì, in occasione de Lo zio di Brooklyn, il nostro primo lungometraggio. Tre anni dopo avremmo fatto Totò che visse due volte. A farcelo conoscere credo sia stato Gianni Amelio, ma non ne sono sicuro. Io e Ciprì venivamo dall’esperienza di Cinico TV, eravamo abituati a set totalmente anarchici, rigorosamente maschili, come se fossero ritiri spirituali. Da una parte i nostri attori, dall’altra io e Daniele che facevamo tutto, registi, direttori della fotografia, scenografi, fonici. Un mondo autarchico di saltimbanchi che non aveva bisogno di nessuno. Quando siamo passati al nostro primo lungometraggio, la nostra preoccupazione era di trovarci di fronte ad una troupe e a un direttore della fotografia professionisti, molto rigidi, con la scuola di cinema alle spalle. In realtà spunta Bigazzi, ed è la sorpresa più bella, più stimolante. Perché Luca ha dimostrato una capacità di adattamento come pochi. Non solo per quel che riguardava il lavoro, un lavoro antiaccademico, non convenzionale, del tutto anomalo, ma anche perché si trattava di stare su un set in cui il clima e gli attori non erano certamente quelli degli ambienti romani. Luca tutto questo lo ha capito e lo ha fatto proprio. Di quei set ricordo poi naturalmente i litigi, perché con Luca non si può non litigare, ma anche le riappacificazioni struggenti, melodrammatiche.
Un aneddoto, per finire. Il set è quello de Lo zio di Brooklyn... Entra in scena Pietro Giordano, in mutande e calzini, che va dritto verso la macchina da presa, guarda nell’obiettivo e comincia a contare. La voce fuori campo – che poi è la mia – gli chiede cosa sta facendo, e Pietro risponde: “Conto gli spettatori”, “Perché?”. “Perché questo film fa schifo”. Dopodiché sputa violentemente verso la macchina da presa. Girammo quella scena una trentina di volte e Luca si era messo pure un panno per coprirsi da quel diluvio imbarazzante, da quella cascata di sputi. Adesso, ditemi se esiste da qualunque altra parte del mondo un direttore della fotografia che riceve ripetutamente decine di sputi – non da una Sharon Stone ma da un Pietro Giordano in mutande, tra l’altro – e che, invece di ammazzarci tutti, inizia a ridere come un pazzo, entusiasta della scena. Questo è Luca e questo è il suo modo di amare il cinema.
Mario Martone L’incontro con Luca è stato tra i più avvincenti che io abbia avuto nella mia vita artistica. A trent’anni, dopo più di dieci anni di teatro, sentii la spinta fortissima a raccontare con i mezzi del cinema la figura di Renato Caccioppoli, leggendario matematico napoletano vissuto negli anni ’50. Ero dunque un esordiente e in quel periodo le produzioni erano solite affiancare agli esordienti direttori della fotografia e montatori di grande esperienza. Ma poiché la nostra era una produzione indipendente, mi permisi il lusso di scegliere in libertà i miei collaboratori. Volevo fare il film con persone della mia età: volevo, diciamo così, poter sbagliare con le mie mani. Soprattutto, volevo lavorare con chi sapesse condividere un’idea di lavoro non solo estetica ma anche politica, dal modo di organizzare la troupe e il piano di riprese alla creazione dell’inquadratura o di un movimento di macchina: qualcuno insomma che sapesse che, come insegna Godard, “il carrello è una questione morale”. A Milano era nato in quegli anni un movimento cinematografico indipendente di cui Bigazzi era tra i protagonisti, avevo visto il suo bellissimo lavoro in Giulia in ottobre e ne L’aria serena dell’Ovest di Silvio Soldini, intuivo che Luca fosse la persona che cercavo, e in breve mi ritrovai a guidarlo tra i vicoli di Napoli perché svelasse una città che, benché filmata innumerevoli volte, andava guardata con un occhio cinematografico nuovo. Quella camminata è proseguita e ha dato vita a due film che credo abbiano davvero restituito agli spettatori una dimensione visiva di Napoli nuova: Morte di un matematico napoletano e L’amore molesto. In entrambi il contributo di Luca è fortissimo. E se lo è in tutta evidenza per chi ha visto i film, io qui posso aggiungere quanto lo sia stato anche dal punto di vista interno della costruzione del lavoro. Luca è un cineasta a 360 gradi: regia, recitazione, scenografia, costumi e soprattutto produzione, con ciascuno di questi settori dialoga scavando e approfondendo, ponendosi come un motore fondamentale per la realizzazione del film.
Carlo Mazzacurati Luca è un umanista, e l’intrusività è l’aspetto che più mi piace del suo carattere. Si occupa di tutto e guarda il film da ogni angolatura possibile. Sono sicuro che non sia solo una questione di generosità. Luca è come un artista rinascimentale: non conosce confine tra il fatto tecnico e la ragione artistica. Agisce per intuizione, per entusiasmo e per affetto. Durante le ore di lavoro è sempre in perenne azione e, quando finalmente arriva il meritato riposo e tutti si fermano e si stendono e si appisolano, lui spesso prepara marmellate che poi regala.
Giuseppe Piccioni Non è facile lavorare con Luca, non lo è stato per me all’inizio, nel primo fortunato film che abbiamo fatto insieme, Fuori dal mondo. Io con le mie decisive esitazioni, con le mie certezze costruite su un accumulo di incertezze, ripensamenti, cancellature. Difficile stargli dietro, anche per un regista. Per uno come me incline a misurare le forze, spesso dubbioso sul proprio valore. Luca è sempre un passo avanti. Sempre pronto a filmare, troppo pronto, impaziente, infaticabile. Due caratteri diversi, difficilmente conciliabili, almeno all’apparenza. Eppure quel film alla fine è riuscito, forse proprio grazie a quelle differenze. Quel film ci ha sorpresi più vicini di quanto si potesse immaginare vedendoci sul set. Mi ricordo che una volta gli raccomandai di prestare attenzione a certe ombre sul volto di Margherita [Buy]. “Non faccio la fotografia sulle attrici” mi rispose seccato. Però da quel momento in poi ebbi l’impressione che la mettesse quell’attenzione in più, che avesse fatto propria quella preoccupazione. Luca, che dà l’anima per il tuo film, è capace di affetti e di attenzioni che non ti aspetti. Con Luca hai la sensazione che il film acquisti, con la sua “fotografia” e negli aspetti compositivi dell’inquadratura, una qualità speciale. Qualcosa che migliora il tuo lavoro di regista, che lo rende più incisivo di quello che sarebbe stato senza il suo contributo. Poi Luca è cambiato, e anch’io, spero. Lui meno scorbutico, più affettuoso e io meno sfuggente, meno esitante. Abbiamo lavorato di nuovo insieme in Giulia non esce la sera. Luca è un fuoriclasse ma non puoi fargli troppi complimenti, altrimenti ti manda a quel paese. Diciamolo a bassa voce, speriamo non si sia accorto che qualcuno sta scrivendo un libro su di lui.
Alessandro Saulini Ho conosciuto Luca nel 1986, tramite conoscenze comuni, quando ancora non facevo questo mestiere. Pochi mesi dopo già lavoravo con lui come capo elettricista sul set di un film indipendente ambientato a Torino, la mia città. Ci siamo trovati subito in sintonia e l’avventura è proseguita con naturalezza fino a oggi, e proseguirà anche domani. Luca ha un carattere forte, determinato, in qualunque cosa faccia dà il massimo di se stesso e giustamente chiede altrettanto a chi gli è vicino. Sul set, in particolare, esige concentrazione e massima efficienza. I risultati si vedono poi a lavoro finito, quando si scopre che ogni luce ha una sua giustificazione, che ogni tono di colore ha una sua emozione. Condivido le sue scelte fotografiche. Credo che questo sodalizio tecnico, e artistico, sia dovuto al fatto che i nostri caratteri si completano a vicenda. Nei lunghi anni trascorsi si è trasformato in amicizia e fiducia e stima reciproca: un percorso comune che rende la mia vita professionale completa e gratificante.
Andrea Segre - C’è una signora meravigliosa che vive a Ponte di Nona, estrema periferia Est di Roma, dieci chilometri oltre l’incubo del GRA. È la nuova “Mamma Roma”. Vieni con me a raccontarla? - Volentieri. Chiedo ad Abbas se possiamo slittare un po’. - Abbas? - Kiarostami. - Ah, beh, forse non è il caso. Non c’è un euro per fare il documentario. Andremmo io, te e Matteo in macchina. - Volentieri. Così abbiamo iniziato a collaborare. Tre settimane a casa di Neda, in mezzo ai palazzoni colorati e le fontane abbandonate di Ponte di Nona. La necessità di entrare nella realtà, di conoscere le persone più semplici e lontane, denunciare ingiustizie e celebrare dignità. Luca mi ha insegnato il cinema. Ma non me l’ha mai detto. L’abbiamo fatto. Per strada. A casa di Neda, negli aranceti di Rosarno, nei laboratori tessili di Torpignattara e nelle nebbie ghiacciate della laguna. “Non mi devi spiegare cosa vuoi tecnicamente, ma farmi capire cosa stiamo raccontando e perché”, mi diceva. Sembra semplice a dirsi, invece è un percorso denso e complesso: da percorrere non per consumare immagini, ma per capire, conoscere e sentirsi vivi.
Daniele Segre Il mio incontro con Luca Bigazzi risale alla seconda metà degli anni ’80 quando, con la mia società “I Cammelli”, insieme ad altre tre società milanesi, creammo la cooperativa “Indigena”, con cui abbiamo realizzato il lungometraggio collettivo Provvisorio quasi d’amore... Per uno come me, che si considera regista della realtà, l’incontro con Luca è stato determinante per comprendere l’importanza dell’uso della luce nel cinema. L’esperienza di Manila Paloma Blanca (1992), interpretato da Carlo Colnaghi, fu straordinaria in tutti i sensi, grazie al suo impegno e alla sua dedizione al progetto: Luca è infaticabile e determinato, non si risparmia, riesce a trasmettere la sua passione nel cuore e nelle menti di tutti coloro che hanno la fortuna di collaborare con lui.
Toni Servillo Luca è stato il testimone del mio battesimo cinematografico. Per me, come per Mario Martone, la sua figura ha prima di tutto un valore profondamente affettivo perché si lega a Morte di un matematico napoletano. Quel film, esordio al cinema di Mario Martone, è stato anche il mio esordio come attore cinematografico. Luca Bigazzi è stato il complice perfetto del mio primo rapporto con quel nuovo mondo. Eravamo ragazzi di una avventura: ricordo con tenerezza quando, il primo giorno di lavorazione, per rompere il ghiaccio, Mario chiese a Luca, di fronte a me e a Carlo Cecchi, quale fosse l’ordine giusto dei termini: “azione”, “motore”, “ciak”. Scoppiammo tutti in una gran risata. Luca è il primo direttore della fotografia che io abbia visto stare contemporaneamente anche in macchina, ed è tuttora uno dei pochi: è responsabile di un aspetto fondamentale del linguaggio cinematografico, ossia la fotografia, ed è al tempo stesso colui che osserva per primo, nell’obiettivo, la nascita del personaggio. Ti guarda da un punto di vista privilegiato mentre il tuo personaggio prende vita, e custodisce la relazione intima che si stabilisce tra l’attore e il personaggio. Ecco perché quando penso a Luca non penso soltanto al grande direttore della fotografia ma soprattutto al primo, reale e complice, spettatore del film. Bigazzi è il direttore della fotografia con cui ho lavorato di più. Lo considero un punto di riferimento nella mia formazione, una persona essenziale nel mio percorso di attore cinematografico.
Silvio Soldini Conosco Luca da quando eravamo al Liceo, tanti anni fa... Ma fu solo nell’inverno dell’82, dopo il mio ritorno dai due anni vissuti a New York, che iniziò veramente la nostra amicizia. Se penso che sono passati 30 anni mi fa una certa impressione. Allora avevo sì fatto una scuola di cinema, ma non avevo idea di come arrivare a farlo, il cinema. Non avevo conoscenze a Roma, dove “sta di sede” il cinema italiano, né agganci, né spiccate capacità di vendermi. In altre parole potevo contare solo su una cosa, oltre ai rudimenti del mestiere appresi a NY: l’entusiasmo. Credo sia stato proprio questo sentimento ad aver unito Luca e me, anzi riunito. Lui aveva entusiasmo da vendere. Ai tempi lavorava come aiuto regista in pubblicità ma il suo sogno era fare l’operatore e la fotografia; il mio – che lavoravo come traduttore e dialoghista di telefilm americani, sfruttando la mia conoscenza dell’inglese – era di fare il regista. Andavamo spesso al cinema, all’Anteo, all’Obraz Cinestudio, e dall’estero arrivavano esempi di film fatti con due soldi, indipendenti, autoprodotti, diversi... Così abbiamo iniziato a girare qualche provino in Super8, di notte, in giro per Milano, mentre scribacchiavamo il soggetto di un film noir. Nell’autunno del 1982 abbiamo dato il via alle riprese: 16mm, bianco e nero, girando quando potevamo – quando non si lavorava, ossia di notte e nei weekend – in 5/6 persone. Ci abbiamo messo quattro mesi. Pensavamo fosse un corto di mezz’ora, lentamente è lievitato fino a 70 minuti. Ogni tanto si univa a noi qualcuno che voleva dare una mano, ma durava poco, la fatica era troppa, la voglia di fare bene a volte diventava maniacalità, i tempi erano spesso lunghissimi, le ore di sonno troppo poche... Ricordo che Luca una mattina, tornando a casa alle sei con la sua R4 dopo due nottate di riprese e un giorno di lavoro consecutivi, si è addormentato al volante ed è andato dritto in una curva finendo a sbattere contro un’auto parcheggiata; per fortuna andava piano. Inutile dire che nessuno era pagato, anzi era proprio il contrario: chi partecipava al film metteva anche del suo. E tutto ruotava intorno a noi due, Luca e me. Lui era riuscito a trovare una Arri 16mm a 15.000 lire al giorno e delle luci in prestito, io avevo coinvolto un fonico dello studio di doppiaggio dei telefilm e gli attori. Insomma, nell’estate dell’83 Paesaggio con figure andò in concorso al Festival di Locarno, e fu solo la prima di parecchie avventure. Due anni dopo Giulia in ottobre, poi i primi documentari, i lungometraggi. Di film in film lo sguardo di Luca si è affinato, i mezzi a disposizione e i budget sono aumentati, lui è diventato sempre più bravo
ma la sua ricerca non si è fermata, i film che gira hanno sempre una loro luce speciale, una loro bellezza da guardare e confermano, ogni volta, il suo talento.
Io credo che senza Luca, senza il suo entusiasmo – di questo avevo iniziato a parlare – senza la sua costanza, la sua incessante ricerca, la sua caparbietà, la sua generosità, non so cosa sarei riuscito a fare “lontano da Roma”. Da solo, prima o poi mi sarei forse arreso. Si incontrano a volte persone nella propria vita professionale da cui si impara e con cui si cresce, ma è proprio con Luca che ho iniziato questo mestiere: lavorare insieme è stata una seconda scuola, la nostra vera “gavetta”. Abbiamo capito insieme che cos’è fare cinema, rimboccandoci le maniche e partendo dalla povertà dei mezzi, dagli esperimenti, dalle scelte radicali, imparando dagli errori. Una fortuna del genere non capita a tutti.
Paolo Sorrentino Era già molto bravo, capace di innovare e soprattutto veloce – questione decisiva, a metà tra arte e produzione – quando incontrai Luca per fare Le conseguenze dell’amore. Durante uno dei primi giorni dei sopralluoghi litigammo, per via di divergenze su non ricordo cosa, tant’è che arrivammo a mettere in dubbio la collaborazione. Non si sa come, quell’iniziale conflittualità è diventata poi intesa professionale, armonia, stima, amicizia. Io e Luca ci divertiamo sempre un sacco: ci piace sfidare la tecnica e la forza di gravità, insieme studiamo e valutiamo movimenti di camera arditi ed elaborati, che Luca affina con la sua capacità e i mezzi tecnici a disposizione. Gli piace costruire nuovi accrocchi, insieme ai tecnici. Luca esce dai consueti binari della professione del direttore della fotografia. Non si ferma di fronte a nessun ostacolo. La mia stima nei suoi confronti cresce di fim in film, ogni lavoro diventa un’esperienza umana, faticosa ma sempre felice. Secondo me il tratto distintivo di Luca, oltre all’intelligenza smisurata, è la curiosità. Preserva un candore infantile che compensa alcuni lati del mio carattere. Laddove io sono stanco, cinico e disilluso, tiene vivo l’entusiasmo, è trascinante, ed è capace di trasmettermi forza. Il divo è stato un film di grande complessità, girato in tempi ragionevoli ma che allora non ci non sembravano sufficienti. Ad esempio, le molte scene nella (vera) Camera dei Deputati le girammo in soli due giorni. L’affiatamento tra me e Luca in quell’occasione fu strabiliante. Poi, girando This Must Be the Place, abbiamo vissuto insieme un’avventura adolescenziale, siamo tornati ragazzi e abbiamo davvero sognato e filmato l’America a occhi aperti.
Didascalie immagini Luca Bigazzi sul set de Le acrobate di Silvio Soldini. Foto (particolare) di Philippe Antonello Luca Bigazzi sul set di Un’anima divisa in due di Silvio Soldini. Foto (particolare) di Philippe Antonello Ritratto di Luca Bigazzi fotografo. Foto di Alberto Spadafora Luca Bigazzi sul set de Lo spazio bianco di Francesca Comencini. Foto (particolare) di Chico De Luigi Silvio Soldini e Luca Bigazzi sul set de Le acrobate. Foto di Philippe Antonello In alto Valeria Golino e Luca Bigazzi sul set de Le acrobate di Silvio Soldini. In basso, al centro Ivan Franek e Silvio Soldini sul set di Brucio nel vento. Foto di Philippe Antonello Silvio Soldini e Luca Bigazzi sul set di Brucio nel vento. Foto di Philippe Antonello La lavorazione di Brucio nel vento di Silvio Soldini. Foto di Philippe Antonello La lavorazione di Pane e tulipani di Silvio Soldini. Foto di Philippe Antonello Sopra, Anna Bonaiuto ne Il divo di Paolo Sorrentino. Foto di Gianni Fiorito. Sotto, un set di A casa nostra di Francesca Comencini. Foto di Philippe Antonello In alto, Luca Bigazzi durante le riprese de La passione di Carlo Mazzacurati. Foto di Chico De Luigi. Sotto, una scena di Pane e tulipani di Silvio Soldini. Foto di Philippe Antonello Toni Servillo e Paolo Sorrentino durante la lavorazione de Il divo. Foto di Gianni Fiorito Toni Servillo ne Il divo di Paolo Sorrentino. Foto di Gianni Fiorito
Antonio Capuano, Luca Bigazzi, Alessandro Saulini e Valeria Golino sul set de La guerra di Maro. Foto di Sergio Varriale II set de La passione di Carlo Mazzacurati. Sotto, Luca Bigazzi e il regista al lavoro. Foto di Chico De Luigi Luca Bigazzi filma con camera a mano una scena di A casa nostra di Francesca Comencini. Foto di Philippe Antonello Mario Martone e Luca Bigazzi sul set di Morte di un matematico napoletano. Foto di Cesare Accetta Anna Bonaiuto ne L’amore molesto di Mario Martone. Foto di Cesare Accetta Sopra e sotto, Mario Martone e Luca Bigazzi sul set di Morte di un matematico napoletano. Foto di Cesare Accetta Luca Bigazzi sul set di Morte di un matematico napoletano. Foto di Cesare Accetta Luca Bigazzi e Francesca Comencini a Napoli durante le riprese de Lo spazio bianco. Foto di Chico De Luigi Luca Bigazzi e Gianni Amelio sul set di Lamerica. Foto di Claudio Iannone Luca Bigazzi, Gianni Amelio ed Enrico Lo Verso sul set di Lamerica. Foto di Claudio Iannone Luca Bigazzi e Gianni Amelio sul set di Così ridevano. Foto di Claudio Iannone Luca Bigazzi con Gianni Amelio (sopra) e con Amelio ed Enrico Lo Verso (sotto) sul set di Così ridevano. Foto di Claudio Iannone Piazza San Carlo a Torino durante la preparazione di una scena di Così ridevano. Foto di Claudio Iannone Un set de Le chiavi di casa di Gianni Amelio, con Kim Rossi Stuart a sinistra, di spalle. Foto di Claudio Iannone Luca Bigazzi, Sergio Castellitto e Gianni Amelio sul set de La stella che non c’è.
Foto di Claudio Iannone Silvio Orlando durante la lavorazione di Fuori dal mondo di Giuseppe Piccioni. Foto di Philippe Antonello Margherita Buy sul set di Fuori dal mondo di Giuseppe Piccioni. Foto di Philippe Antonello Carlo Mazzacurati (voltato), Silvio Orlando e Luca Bigazzi durante la lavorazione de La passione. Foto di Chico De Luigi Due momenti della lavorazione de Lo spazio bianco. In alto Francesca Comencini, Margherita Buy, e Luca Bigazzi. In basso Margherita Buy e Luca Bigazzi. Foto di Chico De Luigi Fabrizio Bentivoglio e Luca Bigazzi durante le riprese di Lascia perdere, Johnny! di F. Bentivoglio. Foto di Philippe Antonello Clara Bindi ne L’amico di famiglia di Paolo Sorrentino. Foto di Sergio Varriale II set di Pane e tulipani di Silvio Soldini. Al centro Licia Maglietta e Bruno Ganz. Foto di Philippe Antonello Toni Servillo ne Le conseguenze dell’amore di Paolo Sorrentino. Foto di Sergio Varriale In alto, una scena de Lo zio di Brooklyn di Daniele Ciprì e Franco Maresco. Sotto, Daniele Ciprì sul set di Totò che visse due volte. Foto di Philippe Antonello Luca Bigazzi su uno dei set statunitensi di This Must Be the Place di Paolo Sorrentino. Foto di Chuck Zlotnick Sean Penn in This Must Be the Place di Paolo Sorrentino. Foto di Chuck Zlotnick Maurizio Nichetti e Luca Bigazzi sul set di Luna e l’altra. Foto di Philippe Antonello L’assistente operatore Salvatore Bognanni e Luca Bigazzi sul set de La stella che
non c’è di Gianni Amelio. Foto di Claudio Iannone Momenti della lavorazione de La passione di Carlo Mazzacurati. A destra, seduto, Corrado Guzzanti. Foto di Chico De Luigi Fabrizio Bentivoglio, Beppe Servillo, Salvatore Bognanni (voltato) e Luca Bigazzi sul set di Lascia perdere, Johnny!. Foto di Philippe Antonello Un set de Lo spazio bianco di Francesca Comencini. Foto di Chico De Luigi Luca Bigazzi e Abbas Kiarostami sul set di Copia conforme. In secondo piano, Juliette Binoche. Foto di Laurent Thurin Nal Fotogrammi da Vediamo Copia conforme di Irene Bufo, backstage di Copia conforme di Abbas Kiarostami Francesca Comencini e Luca Bigazzi, con la camera RED Epic, durante la lavorazione de Il primo lavoro (titolo provvisorio). Foto di Philippe Antonello Francesca Comencini e Luca Bigazzi sul set de Il primo lavoro (titolo provvisorio). Foto di Philippe Antonello Luca Bigazzi e Franco Maresco sul set de Lo zio di Brooklyn. Foto (particolare) di Sergio Ciprì Anna Bonaiuto ne L’amore molesto di Mario Martone. Foto di Cesare Accetta Luca Bigazzi e Francesca Comencini durante la lavorazione de Lo spazio bianco. Foto di Chico De Luigi Luca Bigazzi e Valeria Golino sul set de Le acrobate di Silvio Soldini. Foto di Philippe Antonello Franco Maresco sul set di Totò che visse duevolte. Foto di Sergio Ciprì Mario Martone e Luca Bigazzi sul set di Morte di un matematico napoletano. Foto di Cesare Accetta Luca Bigazzi, Giuseppe Battiston e Carlo Mazzacurati sul set de La passione. Foto di Chico De Luigi
Toni Servillo (seduto) durante le riprese di Morte di un matematico napoletano, con Mario Martone e Luca Bigazzi. Foto di Cesare Accetta Silvio Soldini e Luca Bigazzi nel 1991, sul set de L’aria serena dell’Ovest. Foto di Fulvia Farassino Luca Bigazzi e Paolo Sorrentino (di spalle) sul set de Il divo. Foto di Gianni Fiorito Luca Bigazzi e Margherita Buy (distesa) sul set de Lo spazio bianco di Francesca Comencini. Foto di Chico De Luigi
Filmografia* a cura di Nicola Cordone Paesaggio con figure (1983) Regia: Silvio Soldini; soggetto: Anni Amati, Carlo Bella, Silvio Soldini, Luca Bigazzi; sceneggiatura: Silvio Soldini; interpreti: Anni Amati, Carla Chiarelli, Vanni Corbellin, Mario Sala; fotografia: Luca Bigazzi; musica: Matteo Di Guida; montaggio: Michele Bonelli; produzione: Bilicofilm, Iceberg. Giulia in ottobre (1984) Regia: Silvio Soldini; soggetto: Silvio Soldini; sceneggiatura: Lara Fremder, Silvio Soldini; interpreti: Carlo Arlunno, Roberto Casali, Giuseppe Cederna, Carla Chiarelli, Daniela Morelli, Andrea Novicov, Moni Ovadia, Pier Luigi Picchetti; fotografia: Luca Bigazzi; musica: Gianni Celesia, Matteo Di Guida, Silvio Soldini; costumi: Franca Bertagnolli; montaggio: Claudio Cormio, Michele Bonelli, Silvio Soldini; produzione: Bilicofilm. Incidente di percorso (1986) Regia: Donatello Alunni Pierucci; soggetto e sceneggiatura: Donatello Alunni Pierucci, Lara Fremder; interpreti: Tomas Arana, Philippe Leroy, Monica Scattini, Bruno Armando, Carla Chiarelli, Giacomo Paris, Andrea Renzi; fotografia: Luca Bigazzi; musica: Daniel Bacalov, Galliano Prosperi; scenografia: Franca Bertagnolli; montaggio: Massimo Fiocchi; suono: Hubrecht Nijhuis; produzione: Electric; distribuzione: Indigena. Voci celate (1986) Regia: Silvio Soldini; soggetto e sceneggiatura: Enrica Goldfluss, Claudio Mencacci, Silvio Soldini; fotografia: Luca Bigazzi; montaggio: Silvio Soldini; produzione: USSL 58. La fabbrica sospesa (1987) Regia: Silvio Soldini; fotografia: Luca Bigazzi; musica: Matteo Di Guida; montaggio: Claudio Cormio; produzione: Bilicofilm. Nome di battaglia: Bruno (1987) Regia: Bruno Bigoni; interpreti: Vittorina B.; fotografia: Luca Bigazzi. Viva gli sposi (1987)
Regia: Giancarlo Di Re; fotografia: Luca Bigazzi. Cuore in gola (1988) Regia: Stefania Casini; soggetto e sceneggiatura: Stefania Casini, Roberta Mazzoni; interpreti: Umberto Morale, Iacopo Fedi, Stefania Montorsi, Antonella Ponziani, Novello Novelli, Rik Battaglia, Barbara Valmorin, Emilio Delle Piane, Renzo Rossi; fotografia: Luca Bigazzi; costumi e scenografia: Stefano Pica; montaggio: Mauro Bonanni; suono: Guido Lentini; produzione: Paravalley. Corsa in discesa (1989) Regia: Corrado Franco; soggetto: Cornell Woolrich; sceneggiatura: Corrado Franco; interpreti: Rudiger Vogler, Bruno Stori, Deborah Jones, Patrizia Terreno, Astrid Raber; fotografia: Luca Bigazzi, Carlo Rainero; musica: Adriano Maria Vitali; scenografia: Simonetta Carlevaro; montaggio: Giorgio Venturoli; produzione: Sherpa Film Reteitalia. Antonio e Cleo (1989) Episodio di Provvisorio, quasi d’amore Regia: Silvio Soldini; soggetto e sceneggiatura: Silvio Soldini; interpreti: Carla Chiarelli, Andrea Novicov; fotografia: Luca Bigazzi; suono: Hubrecht Nijhuis; produzione: Indigena per Radiotelevisione italiana (Rai Tre). Sarabanda finale (1989) Episodio di Provvisorio, quasi d’amore Regia: Daniele Segre; interpreti: Nicola Donalisio, Barbara Valmorin; fotografia: Luca Bigazzi; suono: Hubrecht Nijhuis; produzione: Indigena per Radiotelevisione italiana (Rai Tre). Frammenti d’amore (1988) Regia: Giancarlo Soldi; interpreti: Kim Rossi Stuart, Alfredo Pea, Maria Amelia Monti, fotografia: Luca Bigazzi; produzione: Radiotelevisione italiana (Rai Due). L’aria serena dell’Ovest (1990) Regia: Silvio Soldini; soggetto e sceneggiatura: Paola Candiani, Silvio Soldini, Roberto Tiraboschi; interpreti: Fabrizio Bentivoglio, Cesare Bocci, Antonella Fattori, Ivano Marescotti, Patrizia Piccinini; fotografia: Luca Bigazzi, musica: Giovanni Venosta; montaggio: Claudio Cormio; suono: Barbara Flückiger; produzione: Monogatari in collaborazione con PiCfilm, Radiotelevisione
Svizzera Italiana (RTSI), Société Suisse de Radiodiffusione et Télévision (SSR) e con il Ministero del Turismo e dello Spettacolo. Lulù lunaire (1990) Regia: Giuseppe Marini; fotografia: Luca Bigazzi. Errore fatale (1991) Regia: Filippo De Luigi; soggetto e sceneggiatura: Donald Martin; interpreti: Patricia Millardet, Spiros Focás, Isabel Russinova, Corinne Cléry, Alessandro Di Sanzo, Marioletta Bideri, Giuseppe Perruccio, Clive Riche, Renato Scarpa; fotografia: Luca Bigazzi; scenografia: Lorenzo Baraldi; produzione: Reteitalia. Morte di un matematico napoletano (1992) Regia: Mario Martone; soggetto e sceneggiatura: Mario Martone; interpreti: Carlo Cecchi, Anna Bonaiuto, Renato Carpentieri, Toni Servillo, Antonio Neiwiller, Licia Maglietta, Fulvia Carotenut, Roberto De Francesco, Andrea Renzi, Alessandra D’Elia, Annalisa Foà; fotografia: Luca Bigazzi; costumi: Metella Raboni; scenografia: Giancarlo Muselli; montaggio: Jacopo Quadri; suono: Hubrecht Nijhuis, Daghi Rondanini; montaggio: Jacopo Quadri; produzione: AnGio Film Radiotelevisione Italiana (Rai Tre), Teatri Uniti. Ultimo respiro (1992) Regia: Felice Farina; soggetto: Aurelio Grimaldi; sceneggiatura: Felice Farina, Gianluca Greco, Sandro Veronesi; interpreti: Federica Moro, Massimo Dapporto, Francesco Benigno, Salvatore Termini, Giovanna Granata, Maurizio Marsala, Valentina Pizzuto Benedetto Ranalli; fotografia: Luca Bigazzi; musica: Tommaso Vittoriani; scenografia: Antonino Formica; costumi: Cinzia Lucchetti; montaggio: Roberto Schiavone; suono: Hubrecht Nijhuis, Adriano Torbidone; effetti speciali: Paolo Ricci; produzione: Clemi Cinematografica; distribuzione: CDI Compagnia Distribuzione Internazionale. Manila Paloma Blanca (1992) Regia: Daniele Segre; soggetto: Daniele Segre, Carlo Colnaghi; sceneggiatura: Davide Ferrario, Daniele Segre; interpreti: Carlo Colnaghi, Lou Castel, Alessandra Comerio, Eugenia D’Aquino, Leone Ferrero, Laura Panti, Barbara Valmorin, Eugenio Allegri; fotografia: Luca Bigazzi; musica: Giuseppe Napoli; costumi: Elena Bosio; scenografia: Elena Bosio; montaggio: Claudio Cormio; suono: Marco Tidu; produzione: I Cammelli Film, Istituto Luce; distribuzione: Luce Italnoleggio.
Nero (1992) Regia: Giancarlo Soldi; soggetto e sceneggiatura: Tiziano Sclavi, Giancarlo Soldi, dall’omonimo romanzo di Tiziano Sclavi; interpreti: Sergio Castellitto, Chiara Caselli, Carlo Colnaghi, Luis Molteni, Hugo Pratt, Osvaldo Salvi, Luigi Rosatelli, Alioscia Bisceglia, Leslaw Janicki, Waclaw Janicki, Nicola Valcarenghi; fotografia: Luca Bigazzi; musica: Francesco Guccini, Mau Mau; costumi: Paola Artioli; scenografia: Mauro Radaelli; montaggio: Mauro Bonanni; suono: Hubrecht Nijhuis; produzione: Produzioni Intersound; distribuzione: Titanus. Veleno (1993) Regia: Bruno Bigoni; soggetto: Bruno Bigoni; sceneggiatura: Bruno Bigoni, Fabio Carlini; interpreti: Marina Confalone, Elio De Capitani, Carlo Colnaghi, Ida Marinelli, Fabio Modesti, Valeria D’Onofrio, Matteo Bigoni, Gianluigi Molteni, Raul Manso, Riccardo Marchesini, Cesare Vodani, Giorgio Bucassi, Domenico Raccosta, Ida Kuniaki, Giovanni Bigoni; fotografia: Luca Bigazzi; musica: Davide Masarati; costumi: Vera Castrovilli; scenografia: Carlo Sala; trucco: Sonia Maione; montaggio: Claudio Cormio; suono: Hubrecht Nijhuis; produzione: Minnie Ferrara & Associati, Reteitalia, Ministero del Turismo e dello Spettacolo; distribuzione: Mikado. Un’anima divisa in due (1993) Regia: Silvio Soldini; soggetto e sceneggiatura: Silvio Soldini, Roberto Tiraboschi; interpreti: Fabrizio Bentivoglio, Maria Bakò, Philippine LeroyBeaulieu, Jessica Forde, Felice Andreasi, Silvia Mocci, Edoardo Moussanet, Patrizia Punzo, Moni Ovadia, Eugenio Canton, Sonia Gessnet, Giuseppe Battiston, Antonio Albanese, Andrea Novicov, Giuseppe Cederna; fotografia: Luca Bigazzi; musica: Giovanni Venosta; scenografia: Elvezio V.D. Meijden, Sonia Peng; montaggio: Claudio Cormio; suono: Thierry Sabatier; produzione: Aran, Reteitalia, Mod Films, Télévision Suisse-Romande (TSR), Televisione Svizzera Italiana (TSI), PiCfilm, Euroimages Fund of the Council of Europe, Département Fédéral de l’Intérieur. E quando lei morì fu lutto nazionale (1993) Regia: Lucio Gaudino; soggetto e sceneggiatura: Roberto Ivan Orano; interpreti: David Brandon, Marzio Honorato, Agnese Nano, Uwe Ochsenknecht, Elena Sofia Ricci, Luca Zingaretti; fotografia: Luca Bigazzi; produzione: Partners Produzioni Audiovisive, Gierre Film, Ministero del Turismo e dello Spettacolo.
Lamerica (1994) Regia: Gianni Amelio; soggetto e sceneggiatura: Gianni Amelio, Andrea Porporati, Alessandro Sermoneta; interpreti: Enrico Lo Verso, Michele Placido, Piro Milkani, Elida Janushi, Sefer Pema, Idajet Sejdi, Marieta Ljarja, Elida Ndreu, Ilir Ara, Liliana Subashi, Artn Marina, Nikolin Elezi, Fatmir Gjyla; fotografia: Luca Bigazzi; musica: FrancoPiersanti; costumi: Liliana Sotira, Claudia Tenaglia; scenografia: Giuseppe M. Gaudino; montaggio: Simona Paggi; suono: Alessandro Zanon; produzione: Alia Film, Cecchi Gori Group Tiger Cinematografica, RAI-Radiotelevisione Italiana (Rete 1), Arena Films, Paris, Vega Film, Zürich, Canal Plus Productions, Paris; distribuzione: Penta Film Distribuzione. Un eroe borghese (1994) Regia: Michele Placido; soggetto e sceneggiatura: Graziano Diana, Angelo Pasquini; interpreti: Fabrizio Bentivoglio, Michele Placido, Omero Antonutti, Laura Betti, Philippine Leroy Beaulieu, Daan Hugaert, Gianpaolo Bocelli, Laure Killing, Ricky Tognazzi, Roberto Abbati, Giuliano Montaldo, Luigi Dall’Aglio, Pascal Druant, Cristina Cattellani, Emanuele Gallo Perozzi, Lara Silvestri, Sebastiano Silvestri, Riccardo Peroni, Alessandro Calducci; fotogr fia: Luca Bigazzi; musica: Pino Dosaggio; costumi: Claudio Cordaro; scenografia: Francesco Frigeri; montaggio: Claudio Di Mauro; suono: Bernard Bats; produzione: Taodue Film, Mediaset, Istituto Luce, MACT Productions, Paris, Corsan Productions, Antverpen, Canal Plus, Paris; distribuzione: Istituto Luce spa. D’estate (1994) Episodio del film Miracoli, storie per corti Regia: Silvio Soldini; interpreti: Sonia Bergamasco, Antonio Mastronunzio, Moni Ovadia, Edmondo Sannazzaro; fotografia: Luca Bigazzi. L’amore molesto (1995) Regia: Mario Martone soggetto e sceneggiatura: Mario Martone, dal romanzo omonimo di Elena Ferrante; interpreti: Anna Bonaiuto, Angela Luce, Gianni Cajafa, Licia Maglietta, Carmela Pecoraro, Anna Calato, Giovanni Viglietti, Beppe Lanzetta, Italo Celoro, Francesco Paolantoni, Enzo Decaro, Tailer Martini, Carlo Carotenuto, Lina Polito, Marita D’Elia, Sabina Cangiano, Beniamino Femiano, Fabrizio Martone; fotografia: Luca Bigazzi; musica: Daghi Rondinini; costumi: Metella Roboni; scenografia: Giancarlo Muselli; montaggio: Jacopo Quadri; suono: Mario Iaquone, Daghi Rondinini; produzione:
Lucky Red, Teatri Uniti, RAI-Radiotelevisione Italiana (Rete Tre); distribuzione: Lucky Red Distribuzione. Lo zio di Brooklyn (1995) Regia: Franco Maresco, Daniele Ciprì; soggetto e sceneggiatura: Daniele Ciprì, Franco Maresco; interpreti: Giuseppe Augusta, Francesco Arnao, Antonino Bruno, Rosario Carollo, Luigi Cinà, Camillo Conti, Bruno Di Benedetto, Giuseppe Di Stefano, Salvatore Farina, Umberto Florulli, n Ernesto Gattuso, Salvatore Gattuso, Pietro Giordano, Giovanni Gucciardi, Natale Lauria, Giovanni Lo Giudice; fotografia: Luca Bigazzi; musica: Joe Vitale; costumi: Enzo Venezia; scenografia: Enzo Venezia; montaggio: Jacopo Quadri; suono: Riccardo Calmieri; produzione: Digital Film; distribuzione: Filmauro. Correre contro (1995) Regia: Antonio Ribaldi; soggetto: Nino Bizzarri; sceneggiatura: Nino Bizzarri, Ivan Roberto Orano, Guglielmo Enea; interpreti: Stefano Dionisi, Massimo Bellinzoni, Stefania Rocca, Giorgio Tirabassi, Damiano Capoccitti, Mauro Marino, Pierfrancesco Favino; fotografia: Luca Bigazzi; musiche: Franco Piersanti; costumi: Cinzia Lucchetti; montaggio: Simona Paggi; suono: Fernando Caso, Alvaro Gramigna; effetti speciali: Franco Galiano; produzione: Fandango, Radiotelevisione italiana (RAI), Cine Audio Effects. Luna e l’altra (1996) Regia: Maurizio Nichetti; soggetto: Maurizio Nichetti, Stefano Albè; sceneggiatura: Maurizio Nichetti; interpreti: Iaia Forte, Aurelio Fierro, Luigi Maria Burruano, Ivano Marescotti, Maurizio Nichetti, Eraldo Turra, Luciano Manzalini, Marco Pironti, Fabio Santacroce, Eva Robin’s, Davide Marotta, Maria Rosaria Uva, Alessandro Berti, Gianluigi Carlone, Roberto Carlone, Luis Molteni, Luca Brugnoli, Alberto Azarya, gruppo Banda Osiris; fotografia: Luca Bigazzi; musica: Carlo Siliotto; costumi: Maria Pia Angelini; scenografia: Maria Pia Angelini; montaggio: Rita Rossi; suono: Amedeo Casati; produzione: Bambù Cinema e TV, Radiotelevisione italiana (RAI); distribuzione: 20th Century Fox Italia. Le acrobate (1997) Regia: Silvio Soldini; soggetto e sceneggiatura: Doriana Leodeff, Silvio Soldini; interpreti: Licia Maglietta, Valeria Golino, Angela Marraffa, Mira Sardoc, Fabrizio Bentivoglio, Nicoletta Maragno, Maria Consagra, Giuseppe Battiston, Marco Baliani, Roberto Citran, Bonaventura Gamba, Sonia Gessner, Francesco
Simon, Luca Cirasola, Lucia Zotti, Leonardo Pantaleo, Laura Federzoni, Maurizio Toran, Manrico Gammarota, Maria Teresa Saponangelo; fotografia: Luca Bigazzi; musica: Giovanni Venosta; costumi: Annabruna Gola; scenografia: Mario Rossetti; montaggio: Claudio Cormio; suono: Roberto Mozzarelli; produzione: Mediaset, ARAN, Vega Film, Zürich, TSI Televisione Svizzera, S.S.R., Berne, Pandora Film, Frankfurt; distribuzione: Mikado Film. La stirpe di Iana (1997) Episodio de I vesuviani Regia: Pappi Corsicato; soggetto: Pappi Corsicato; sceneggiatura: Pappi Corsicato, Ivan Cotroneo; interpreti: Anna Bonaiuto, Iaia Forte, Cristina Donadio, Paola Iovinella, Franco Iavarone, Lello Giulivo, Maurizio Bizzi; fotografia: Luca Bigazzi; musica: Antonello Paliotti; costumi: Pappi Corsicato; scenografia: Pappi Corsicato; montaggio: Jacopo Quadri; produzione: Megaris, Mikado, Radiotelevisione italiana (RAI), Telepiù; distribuzione: Mikado. Testimone a rischio (1997) Regia: Pasquale Pozzessere; soggetto: Pietro Calderoni, Furio Scarpelli, Giacomo Scarpelli; sceneggiatura: Furio Scarpelli, Pietro Calderoni, Giacomo Scarpelli, Pasquale Pozzerese; interpreti: Claudio Amendola, Margherita Buy, Fabrizio Bentivoglio, Arnaldo Ninchi, Maurizio Donadoni, Antonio Petrocelli, Paolo Maria Scalondro, Biagio Pelligra, Sara Franchetti, Helmut Hagen, Mauro Marino, Pierfrancesco Pergoli, Federica Cocuccioni, Claudio Spadaro, Achille D’Aniello, Guido Morbello; fotografia: Luca Bigazzi; musica: Franco Piersanti; costumi: Lia Francesca Morandini; scene: Francesco Frigeri; montaggio: Carlo Valerio; suono: Mario Iaquone; produzione: Taodue Film, Istituto Luce, Mediaste; distribuzione: Medusa Film spa. Totò che visse due volte (1998) Regia: Daniele Ciprì, Franco Maresco; soggetto e sceneggiatura: Daniele Ciprì, Franco Maresco, Lillo Iacolino; interpreti: Marcello Miranda, Angelo Prollo, Baldassarre Catanzaro, Francesco Anitra, Carlo Giordano, Camillo Conti, Giuseppe Pepe, Fortunato Cirrincione, Pietro Ardidiacono, Antonino Carollo, Antonino Aliotta, Giacomino Lo Piccolo, Lorenzo Aiello, Vincenzo Cacciarelli, Paolo Alaimo, Antonino Cirrincione, Giuseppe Empoli, Antonello Pensati, Giuseppe Pedalino, Giovanni Rotolo, Giacomo Casisa, Michele Lunardo; fotografia: Luca Bigazzi; costumi: Fabio Sciortino; scenografia: Fabio Sciortino; Montaggio: Daniele Ciprì, Franco Maresco; suono: Luigi Melchionda; produzione: Tea Nova; distribuzione: Lucky Red Distribuzione.
Claudine’s Return (1998) Regia: Antonio Ribaldi; soggetto: Heidi Hall; sceneggiatura: Heidi Hall, Antonio Ribaldi; interpreti: Christina Applegate, Stefano Dionisi, Matt Clark, Tony Torn, Gabriel Mann, Perry Anzilotti, Tom Nowicki; fotografia: Luca Bigazzi; musica: Michel Colombier; costumi: April Ferry; scenografia: Bryce Perrin; montaggio: Janice Keuhnelian; suono: Tod Scott Brody, Steve Burgess, Craig Carter, Dominick Tavella; produzione: Jazz Pictures; distribuzione: Jazz Pictures Inc., Miramax Home Entertainment, Showcase Entertainment. L’albero delle pere (1998) Regia: Francesca Archibugi; soggetto e sceneggiatura: Francesca Archibugi; interpreti: Valeria Golino, Sergio Rubini, Stefano Dionisi, Niccolò Senni, Francesca Di Giovanni, Chiara Noschese, Victor Cavallo, Maria Consagra, Giuseppe Del Bono, Raffaella Lebboroni, Sergio Pierattini, Serena Scapagnini, Paolo Triestino, Raffaele Vannoli, Silvio Vannucci, Pasquale Colecchio, Alessandro Cucchi; fotografia: Luca Bigazzi; musica: Battista Lena; costumi: Paola Marchesin; scenografia: Mario Rossetti; montaggio: Esmeralda Calabria; suono: Alessandro Zanon; produzione: 3 Emme Cinematografica, RAIRadiotelevisione Italiana, RAI Cinemafiction, Istituto Luce, Telepiù; distribuzione: Istituto Luce spa. Così ridevano (1998) Regia: Gianni Amelio; soggetto e sceneggiatura: Gianni Amelio; interpreti: Enrico Lo Verso, Francesco Giuffrida, Fabrizio Gifuni, Calogero Caruana, Roberto Marzo, Davide Negro, Giorgio Pittau, Giuliano Spadaro, Patrizia Marino, Giuseppe Sangari, Francesca Monchiero, Pasqualino Vona, Giuseppe Zarbano, Salvatore Refano, Giorgia Scuderi, Maria Terranova, Antonino Trigilia; fotografia: Luca Bigazzi; musica: Franco Piersanti; costumi: Gianna Gissi; scenografia: Giancarlo Basili; montaggio: Simona Paggi; suono: Alessandro Zanon; produzione: Cecchi Gori Group - Tiger Cinematografica; distribuzione: Cecchi Gori Distribuzione. Fuori dal mondo (1999) Regia: Giuseppe Piccioni; soggetto e sceneggiatura: Giuseppe Piccioni, Gualtiero Rosella, Lucia Zei; interpreti: Margherita Buy, Silvio Orlando, Carolina Freschi, Maria Cristina Minerva, Sonia Gessner, Alessandro Di Natale, Riccardo De Torrebruna, Stefano Abbati, Fabio Sartor, Giuliana Lojodice, Silvano Piccardi, Carlina Torta, Daniela Cristofori, Tania Casartelli, Olivia Manescaldi, Paola Negri, Andrea Toscagna, Alessandro Quasimodo, Gaia
Catullo, Gabriele Garofalo; fotografia: Luca Bigazzi; musica: Ludovico Einaudi; costumi: Carolina Olcese; scenografia: Marco Belluzzi; montaggio: Esmeralda Calabria; suono: Filippo Bussi, Amedeo Casati; produzione: Lumiere & Co.; distribuzione Mikado Film. Tipota (1999) Regia: Fabrizio Bentivoglio; soggetto e sceneggiatura: Fabrizio Bentivoglio, Peppe Servillo; interpreti: Fabrizio Bentivoglio, Stefania Celato, Valeria Golino, Peppe Servillo, gli Avion Travel; fotografia: Luca Bigazzi; musica: Mario Tronco; scenografia: Mario Rossetti; trucco: Maurizio Fazzini; montaggio: Cecilia Zanuso; suono: Maurizio Argentieri, Francesco Cucinelli; produzione: Tipota Movie Company; distribuzione: International Movie Company (IMC). Questo è il giardino (1999) Regia: Giovanni Davide Maderna; soggetto e sceneggiatura: Giovanni Davide Maderna, Carolina Fraschi; interpreti: Denis Fasolo, Carolina Freschi, Emanuela Macchniz, Ale sandro Quattro, Delia Boccardo, Ashley Cancian, Cosima Coccheri, Tiziana Bergamaschi, Alessandro Quasimodo, Pietro Violante, Santino Petri, Francesco Devito, Olivia Mancino, Elena Ceccato, Matteo Bavera, Sergio Leone; fotografia: Luca Bigazzi; costumi: Roberta Beolchini; scenografia: Marco Belluzzi; montaggio: Jacopo Quadri; suono: Roberto Mozzarelli; produzione: Lucky Red, Telepiù; distribuzione: Lucky RedDistribuzione. Pane e tulipani (2000) Regia: Silvio Soldini; soggetto e sceneggiatura: Silvio Soldini, Doriana Leondeff; interpreti: Licia Maglietta, Bruno Ganz, Giuseppe Battiston, Antonio Catania, Marina Massironi, Andrea Vitalba, Daniela Piperno, Tatiana Lepore, Lina Bernardi, Tiziano Cucchiarelli, Matteo Febo, Mauro Marino, Felice Andreasi, Ludovico Paladin; fotografia: Luca Bigazzi; musica: Giovanni Venosta; costumi: Silvia Nebiolo; scenografia: Paola Bizzarri; montaggio: Carlotta Cristiani; suono: Maurizio Argentieri; produzione: Monogatari, Istituto Luce, RAI-Radiotelevisione Italiana, Amka Films, Lugano TS, TSI - Televisione Svizzera Italiana, Lugano; distribuzione: Istituto Luce spa. Preferisco il rumore del mare (2000) Regia: Mimmo Calopresti; soggetto: Mimmo Calopresti, Heidrun Schleeff, Francesco Bruni; sceneggiatura: Francesco Bruni, Mimmo Calopresti; interpreti: Silvio Orlando, Paolo Cirio, Michele Raso, Fabrizia Sacchi, Mimmo Calopresti, Andrea Occhipinti, Eugenio Masciari, Enrica Rosso, Marcello Mazzarella,
Raffaella Lebboroni, Stefano Venturi, Lorenzo Ventavoli, Laura Curino, Palma Valentina Di Nunno; fotografia: Luca Bigazzi; musica: Franco Piersanti; costumi: Silvia Nebiolo; scenografia: Alessandro Marrazzo; montaggio: Massimo Fiocchi; suono: Remo Ugolinelli; produzione: Bianca Film, Mikado Film, RAI-Radiotelevisione Italiana, Arcapix, Parigi, Canal Plus, Paris; distribuzione: Mikado Film. Domani (2000) Regia: Francesca Archibugi; soggetto e sceneggiatura: Francesca Archibugi; interpreti: Marco Baliani, Ornella Muti, Niccolò Senni, David Bracci, Patrizia Piccinini, Valerio Mastandrea, Ilaria Occhini, James Purefoy, Anna WilsonJones, Renzo Giovanpietro, Gisella Burinato, Silvio Vannucci, Stella Vordemann, Debora Ciuffi, Giancarlo Pacini, Raffaele Vannoli, Paolo Taviani; fotografia: Luca Bigazzi; musica: Lena Battista; costumi: Paola Marchesin; scenografia: Sonia Lucia Peng, Mario Rossetti; montaggio: Jacopo Quadri; suono: Remo Ugolinelli; produzione: Cinemello, Rai Cinema, Telepiù; distribuzione: Warner Bros. Pictures Italia. Lupo mannaro (2000) Regia: Antonio Ribaldi; soggetto e sceneggiatura: Carlo Lucarelli, Laura Paolucci, dal romanzo omonimo di Carlo Lucarelli; interpreti: Maya Sansa, Alessandra Acciai, Gigio Alberti, Bruno Armando, Francesco Carnelutti, Stefano Dionisi, Roberto Nobile; fotografia: Luca Bigazzi; musica: Aldo De Scalzi; scenografia: Davide Bassan; effetti speciali: Daniele Tirinnanzi; montaggio: Carlotta Cristiani; suono: Daniela Bassani, Craig Carter; produzione: Fandango. Le parole di mio padre (2001) Regia: Francesca Comencini; soggetto e sceneggiatura: Francesca Comencini, Francesco Bruni. Tratto da La coscienza di Zeno di Italo Svevo; interpreti: Fabrizio Rongione, Chiara Mastroianni, Mimmo Calopresti, Claudia Coli, Viola Graziosi, Silvia Cohen, Vittorio Ciorcalo, Valerio Binasco, Toni Bertorelli, Camille Dugay Comencini, Stefano Venturi, Marina Benedetto, Andrea Rebaudengo, Raffaele Porro; fotografia: Luca Bigazzi; musica: Ludovico Einaudi; costumi: Carolina Olcese; scenografia: Paola Comencini; montaggio: Francesca Calvelli; suono: Tullio Morganti; produzione: Bianca Film, Mikado Film, Telepiù, Rai Cinema, Les Films d’Ici, Arte France Cinéma, Paris; distribuzione: Mikado Film.
Brucio nel vento (2002) Regia: Silvio Soldini; soggetto e sceneggiatura: Silvio Soldini, Doriana Leodeff, dal romanzo Hier di Agota Kristof; interpreti: Ivan Franek, Barbara Lukesova, Citrad Gotz, Caroline Baehr, Cecile Pallas, Petr Forman, Zuzana Maurery, Pavel Andel, Jitka Jezkova, Jaromir Dulava, Filip Gottschalk, Kmila Bednarova, Monika Hilmerova, Maeva Biolley; fotografia: Luca Bigazzi; musica: Giovanni Venosta; costumi: Silvia Nebiolo; scenografia: Paola Bizzarri; montaggio: Carlotta Cristiani; suono: François Musy; produzione: Telepiù, Rai Cinema, Albachiara spa, Vega Film, Zurigo, RTSI - Radio Televisione Svizzera Italiana; d stribuzione: 01 Rai Cinema & Studio Canal Distribution Srl. Un viaggio chiamato amore (2002) Regia: Michele Placido; soggetto: Michele Placido, Diego Ribon, Heidrun Schleeff, brani dal libro Una donna, lettere dal libro omonimo; sceneggiatura: Michele Placido, Diego Ribon, Heidrun Schleeff; interpreti: Laura Morante, Stefano Accorsi, Alessandro Haber, Galatea Ranzi, Diego Ribon, Dario Bandiera, Consuelo Ciatti, Andrea Coppola, Marit Nissen, Paco Reconti, Jesus Emiliano Coltorti, Katy Louise Saunders; fotografia: Luca Bigazzi; musica: Carlo Crivelli; costumi: Elena Mannini; scenografia: Giuseppe Pirrotta; montaggio: Esmeralda Calabria; suono: Remo Ugolinelli; produzione: Rai Cinema, Cattleya, Stream spa; distribuzione: 01 Rai Cinema & Studio Canal Distribution Srl. Carlo Giuliani, ragazzo (2002) Regia: Francesca Comencini; soggetto: Francesca Comencini, Luca Bigazzi; interpreti: Heidi Gaggio Giuliani, Carlo Orlando (voce narrante); montaggio: Linda Taylor; suono: Federico Ricci; produzione: Fondazione Cinema nel Presente, Luna Rossa Cinematografica; distribuzione: Les Films d’Ici Mikado. La forza del passato (2002) Regia: Piergiorgio Gay; soggetto e sceneggiatura: Piergiorgio Gay, Lara Fremder, dal romanzo omonimo di Sandro Veronesi; interpreti: Sergio Rubini, Bruno Ganz, Sandra Ceccarelli, Mariangela D’Abbraccio, Valeria Moriconi, Giuseppe Battiston; fotografia: Luca Bigazzi; musica: Quintorigo; costumi: Francesca Sartori; scenografia: Paola Comencini; montaggio: Carlotta Cristiani; suono: Mario Iaquone; produzione: Istituto Luce, Albachiara spa; distribuzione: Istituto Luce spa. Mi piace lavorare (2003)
Regia: Francesca Comencini; soggetto e sceneggiatura: Francesca Comencini; interpreti: Nicoletta Braschi, Camille Dugay Comencini, Marina Buoncristiani, Roberta Celea, Assunta Cestaro, Stefano Colace, Claudia Coli, Marcello Miglio; fotografia: Luca Bigazzi; musica: Gianluigi Trovesi, Gianni Coscia; costumi: Antonella Berardi; scenografia: Paola Comencini; montaggio: Massimo Fiocchi; suono: Alberto Amato; produzione: Bianca Film, Bim Distribuzione, Rai Cinema; distribuzione: BIM Distribuzione. Le chiavi di casa (2004) Regia: Gianni Amelio; soggetto e sceneggiatura: Gianni Amelio, Sandro Petraglia, Stefano Rulli; interpreti: Kim Rossi Stuart, Charlotte Rampling, Andrea Rossi, Anita Bardeleben, Thorsten Schwarz, Bernd Weikert, Ingrid Appenrodth, Manuel Katzy, Dimitri Susin, Alla Faerovich, Pierfrancesco Favino; fotografia: Luca Bigazzi; musica: Franco Piersanti; costumi: Piero Tosi, Cristina Francioni; scenografia: Giancarlo Basili; montaggio: Simona Paggi; suono: Alessandro Zanon; produzione: Achab Film, Jean Vigo Italia Srl, Rai Cinema, Sky, Pola Pandora Film Produktion, Francoforte, Arena Films, Paris, Arte France Cinéma, Paris, Bavaria Films, Z.D.F., Mainz, Canal +; distribuzione: 01 Distribution. Le conseguenze dell’amore (2004) Regia: Paolo Sorrentino; soggetto e sceneggiatura: Paolo Sorrentino; interpreti: Toni Servillo, Olivia Magnani, Adriano Giannini, Antonio Ballerio, Giannapaola Scaffidi, Nino D’Agata, Enzo Vitagliano, Diego Ribon, Gilberto Idonea, Giselda Volodi, Giovanni Vettorazzo, Gaetano Bruno, Ana Valeria Dini, Vittorio Di Prima, Angela Goodwin, Raffaele Pisu; fotografia: Luca Bigazzi; musica: Pasquale Catalano; costumi: Ortensia De Francesco; scenografia: Lino Fiorito; suono: Daghi Rondanini, Emanuele Cecere; montaggio: Giogiò Franchini; produzione: Fandango, Indigo Film, Medusa Film; distribuzione: Fandango. Ovunque sei (2004) Regia: Michele Placido; soggetto e sceneggiatura: Michele Placido, Umberto Contarello, Francesco Piccolo, Domenico Starnone; interpreti: Stefano Accorsi, Barbora Bobulova, Violante Placido, Stefano Dionisi, Massimo De Francovich, Giuditta Saltarini, Donato Placido, Jesus Emiliano Coltorti, Giulia De Leopardi; fotografia: Luca Bigazzi; costumi: Nicoletta Taranta; scenografia: Cosimo Gomez; suono: Bruno Pupparo; montaggio: Esmeralda Calabria; produzione: Rai Cinema, Cattleya; distribuzione: 01 Distribution
L’amore ritrovato (2004) Regia: Carlo Mazzacurati; soggetto: Carlo Mazzacurati, Claudio Piersanti, dal romanzo Una relazione di Carlo Cassola; sceneggiatura: Carlo Mazzacurati, Claudio Piersanti, Doriana Leondeff; interpreti: Stefano Accorsi, Maya Sansa, Marco Messeri, Roberto Citran; fotografia: Luca Bigazzi; musica: Franco Piersanti; costumi: Gianna Gissi; scenografia: Giancarlo Basili; suono: Bruno Pupparo; montaggio: Paolo Cottignola; produzione: Bianca Film, Sky, Pyramide Productions, Canal +; distribuzione: Medusa Film Spa. La guerra di Mario (2005) Regia: Antonio Capuano; soggetto e sceneggiatura: Antonio Capuano; interpreti: Valeria Golino, Marco Grieco, Andrea Renzi, Rosaria De Cicco, Antonio Pennarella, Valeria Sabel, Imma Villa, Nunzio Gallo, Lucia Ragni, Anita Caprioli; fotografia: Luca Bigazzi; musica: Pasquale Catalano; costumi: Daniela Ciancio; scenografia: Lino Fiorito; suono: Emanuele Cecere, Daghi Rondanini; produzione: Fandango, Medusa Film, Indigo Film; distribuzione: Medusa Film spa. Romanzo criminale (2005) Regia: Michele Placido; soggetto: Stefano Rulli, Sandro Petraglia; sceneggiatura: Stefano Rulli, Sandro Petraglia, Giancarlo De Cataldo, dal romanzo omonimo di Giancarlo De Cataldo; interpreti: Kim Rossi Stuart, Anna Mouglalis, Pierfrancesco Favino, Claudio Santamaria, Stefano Accorsi, Riccardo Scamarcio, Jasmine Trinca, Toni Bertorelli, Elio Germano, Franco Interlenghi, Donato Placido, Gianmarco Tognazzi, Francesco Venditti, Gigi Angelillo, Antonello Fassari; fotografia: Luca Bigazzi; musica: Paolo Buonvino; costumi: Nicoletta Taranta; scenografia: Paola Comencini; suono: Mario Iaquone; produzione: Cattleya, Babe Films, Crime Novel Films Limited, Warner Bros Pictures; distribuzione: Warner Bros. Pictures Italia. La stella che non c’è (2006) Regia: Gianni Amelio; soggetto e sceneggiatura: Gianni Amelio, Umberto Contarello, da La dismissione di Ermanno Rea; interpreti: Sergio Castellitto, Tai Ling; fotografia: Luca Bigazzi; musica: Franco Piersanti; costumi: Cristina Francioni; scenografia: Attilio Viti; suono: Remo Ugolinelli; montaggio: Simona Paggi; produzione: Cattleya, Achab Film, Rai Cinema, Babe Films, Carac Film, Berne, RTSI - Radio Televisione Svizzera Italiana; distribuzione: 01 Distribution.
L’amico di famiglia (2006) Regia: Paolo Sorrentino; soggetto e sceneggiatura: Paolo Sorrentino; interpreti: Giacomo Rizzo, Laura Chiatti, Gigi Angelillo, Marco Giallini, Barbara Valmorin, Luisa De Santis, Clara Bindi, Roberta Fiorentini, Elia Schilton, Lorenzo Gioielli, Emilio De Marchi, Giorgio Colangeli, Fabio Grossi, Lucia Ragni, Fabrizio Bentivoglio; fotografia: Luca Bigazzi; musica: Teho Teardo; costumi: Ortensia De Francesco, Jessica Zimbelli; scenografia: Lino Fiorito; montaggio: Giogiò Franchini; suono: Emanuele Cecere, Daghi Rondinini; produzione: Indigo Film, Fandango, Sky, Medusa Film, Babe Films, Studio Canal, Canal+, Wild Bunch; distribuzione: Medusa Film spa. A casa nostra (2006) Regia: Francesca Comencini; soggetto: Francesca Comencini; sceneggiatura: Francesca Comencini, Franco Bernini; interpreti: Valeria Golino, Luca Zingaretti, Giuseppe Battiston, Laura Chiatti, Luca Argentero, Bebo Storti, Teco Celio, Fabio Ghidoni, Cristina Maria Suciu, Valentina Lodovini, Paolo Bessegato, Marta Lina Comerio, Elena Bellini, Teresa Acerbis; fotografia: Luca Bigazzi; musica: Banda Osiris, Fabio Gurian; costumi: Daniela Ciancio; scenografia: Paola Comencini; montaggio: Massimo Fiocchi; suono: Alberto Amato; produzione: Bianca Film, Rai Cinema; distribuzione:01Distribution. Lascia perdere, Johnny! (2007) Regia: Fabrizio Bentivoglio; soggetto e sceneggiatura: Umberto Contarello, Filippo Gravino, Guido Iuculano, Fabrizio Bentivoglio. Liberamente ispirato a I racconti fatti a tavola di Fausto Mesolella; interpreti: Antimo Merolillo, Ernesto Mahieux, Lina Sastri, Roberto De Francesco, Luigi Montini, Flavio Bonacci, Ugo Fangareggi, Enrico Ianniello, Daria D’Antonio, Peppe Servillo, Fabrizio Bentivoglio, Valeria Golino, Toni Servillo; fotografia: Luca Bigazzi; musica: Fausto Mesolella; costumi: Ortensia De Francesco; scenografia: Giancarlo Basili; suono: Emanuele Cecere; montaggio: Esmeralda Calabria; produzione: Fandango, Medusa Film, Sky; distribuzione: Medusa Film spa. La giusta distanza (2007) Regia: Carlo Mazzacurati; soggetto: Carlo Mazzacurati, Doriana Leondeff; sceneggiatura: Carlo Mazzacurati, Doriana Leondeff, Marco Pettenello, Claudio Piersanti; interpreti: Giovanni Capovilla, Valentina Lodovini, Ahmed Hafiene, Giuseppe Battiston, Natalino Balasso, Stefano Scandaletti, Dario Cantarelli, Marina Rocco, Roberto Abbiati, Mirko Artuso, Nicoletta Maragno, Silvio Comis, Fadila Belkebla, Amri Amine, Abdel Jelil, Roxana Paun Trifan,
Raffaella Cabia Fiorin, Ivano Marescotti, Fabrizio Bentivoglio; fotografia: Luca Bigazzi; musica: Tin Hat; costumi: Francesca Sartori; scenografia: Giancarlo Basili; suono: Remo Ugolinelli; montaggio: Paolo Cottignola; produzione: Fandango, Rai Cinema; distribuzione: 01 Distribution. L’ora di punta (2007) Regia: Vincenzo Marra; soggetto e sceneggiatura: Vincenzo Marra; interpreti: Fanny Ardant, Michele Lastella, Giulia Bevilacqua, Augusto Zucchi, Antonio Gerardi; fotografia: Luca Bigazzi; costumi: Daniela Ciancio; scenografia: Beatrice Scarpato; montaggio: Luca Benedetti; suono: Remo Ugolinelli; produzione: R&C Produzioni, French Connection, Parigi, Rai Cinema; distribuzione: 01 Distribution. ll divo (2008) Regia: Paolo Sorrentino; soggetto e sceneggiatura: Paolo Sorrentino; interpreti: Toni Servillo, Anna Bonaiuto, Giulio Bosetti, Flavio Bucci, Carlo Buccirosso, Giorgio Colangeli, Alberto Cracco, Piera Degli Espositi, Lorenzo Gioielli, Paolo Graziosi, Gianfelice Imparato, Massimo Popolizio, Aldo Ralli, Giovanni Vettorazzo; fotografia: Luca Bigazzi; musica: Teho Teardo; costumi: Daniela Ciancio; scenografia: Lino Fiorito; suono: Emanuele Cecere; montaggio: Cristiano Travagliali; produzione: Indigo Film, Lucky Red, Parco Film, Babe Films, StudioCanal, Arte France Cinéma, Paris, Sky Cinema; distribuzione: Lucky Red Distribuzione. Giulia non esce la sera (2009) Regia: Giuseppe Piccioni; soggetto e sceneggiatura: Giuseppe Piccioni, Federica Pontremoli; interpreti: Valerio Mastandrea, Valeria Golino, Sonia Bergamasco, Domiziana Cardinali, Jacopo Domenicucci, Jacopo Bicocchi, Sara Tosti, Chiara Nicola, Fabio Camilli, Sasa Vulicevic, Paolo Sassanelli, Lidia Vitale, Antonia Liskova, Piera Degli Esposti fotografia: Luca Bigazzi; musica: Baustelle; costumi: Maria Rita Barbera; scenografia: Giada Calabria; montaggio: Esmeralda Calabria; suono: Remo Ugolinelli, Alessandro Palmerini; produzione: Lumiere & Co., Rai Cinema; distribuzione: 01 Distribution. Lo spazio bianco (2009) Regia: Francesca Comencini; soggetto: Francesca Comencini, Federica Pontremoli, dal romanzo omonimo di Valeria Parrella; sceneggiatura: Francesca Comencini, Federica Pontremoli; interpreti: Margherita Buy, Gaetano Bruno, Giovanni Ludeno, Antonia Truppo, Guido Caprino, Salvatore Cantalupo,
Massimo Andrei, Carlo Cerciello, Anna Gigante, Emanuela Annecchino, Fulvia Carotenuto, Riccardo Veno, Maria Pajato; fotografia: Luca Bigazzi; musica: Nicola Tescari; costumi: Francesca Vecchi, Roberta Vecchi; scenografia: Paola Comencini; montaggio: Massimo Fiocchi; suono: Alessandro Zanon; produzione: Fandango, Rai Cinema; distribuzione: 01 Distribution. La siciliana ribelle (2009) Regia: Marco Amenta; soggetto: Marco Amenta, ispirato ad una storia vera; sceneggiatura: Sergio Donati, Marco Amenta; interpreti: Veronica D’Agostino, Gérard Jugnot, Marcello Mazzarella, Mario Pupella, Francesco Casisa, Lucia Sardo, Carmelo Galati, Roberto Bonura, Lollo Franco, Primo Reggiani, Paolo Briguglia, Miriana Fajia; fotografia: Luca Bigazzi; musica: Pasquale Catalano; costumi: Cristina Francioni; scenografia: Marcello Di Carlo; montaggio: Mirco Garrone; suono: Mario Iaquone; produzione: Eurofilm Srl, R&C Produzioni, Roissy Films, Rai Cinema, Studio 37, Malec Productions, Canal +, TPS Star; distribuzione: Istituto Luce spa. Fuga dal call center (2009) Regia: Federico Rizzo; soggetto: Federico Rizzo, Emanuele Caputo; sceneggiatura: Federico Rizzo, Emanuele Caputo, Nerina Fiumanò, Alessandro Leone; interpreti: Angelo Pisani, Isabella Tabarini, Paolo Pierobon, Natalino Balasso, Tatti Sanguineti, Andrea Riva degli Onesti, Peppe Voltarelli, Luis Molteni, Debora Villa, Diego Pagotto, Emanuele Asprella, Paolo Riva, Laura Magni, Martin Giantullio, Estelo Pupa, Uele, Roberta Arrigoni, Matteo Gianoli; fotografia: Luca Bigazzi costumi: Antonella Frazzetta; scenografia: Alessio Baskakis, Valentina Pavan; suono: Roberto Mozzarelli; montaggio: Manuel Donninelli; produzione: Gagarin coop., Ardaco Srl, Ester Productions, Orda D’Oro Film, Adverteam, Augustuscolor, Lo Scrittoio - Milano, Pontaccio; distribuzione: Orda D’Oro Film. Giallo? (2010) Regia: Antonio Capuano; soggetto e sceneggiatura: Antonio Capuano; interpreti: Carlo Cantore, Barbara Bouchet, Teresa Cerciello, Alberto Ricci Hoiss, Massimiliano Rossi, Franco Olivero, Claudio Paracchinetto, Marco Carena, Amedeo Ambrosino, Lorenzo Rapazzini Regis, Raffaella Pontarelli, Stefania Silvestrini, Stefano Moffa, Sergio Panariello, Elias Zoccoli, Cristina Giorgetti, Paolo Belletrutti, Adelaide D’Avino, Pasquale Gentile; fotografia: Antonio Capuano, Luca Bigazzi; costumi: Francesca Balzano; scenografia: Flaviano Barbarisi; montaggio: Giogiò Franchini, Max Pacifico; produzione:
ACT Multimedia.
Copia conforme (2010) Regia: Abbas Kiarostami; soggetto e sceneggiatura: Abbas Kiarostami; interpreti: Juliette Binoche, William Shimell, Jean-Claude Carrière, Agathe Natanson, Gianna Giachetti, Adrian Moore, Angelo Barbagallo, Andrea Laurenzi, Filippo Trojano; fotografia: Luca Bigazzi; scenografia: Giancarlo Basili, Ludovica Ferrario; costumi: Marzia Tardone; trucco: Fabienne Robineau; suono: Dominique Vieillard; montaggio: Bahman Kiarostami; produzione: MK2 Productions, BiBi Film, Abbas Kiarostami Productions, in associazione con France 3, Canal+; distribuzione: MK2 Diffusion, Euro Space, IFC Films, CDI Films. La passione (2010) Regia: Carlo Mazzacurati; soggetto e sceneggiatura: Carlo Mazzacurati, Umberto Contarello, Doriana Leondeff, Marco Pettenello; interpreti: Silvio Orlando, Giuseppe Battiston, Kasia Smutniak, Marco Messeri, Giovanni Mascherini, Maria Paiato, Fausto Russo Alesi, Paolo Graziosi, Sergio Pierattini, Roberto Abbiati, Natalino Ballasso, Gianfranco Barra, Tommaso Ragno,
Cristiana Capotondi, Stefania Sandrelli, Corrado Guzzanti; fotografia: Luca Bigazzi; musica: Carlo Crivelli; costumi: Francesca Sartori; scenografia: Giancarlo Basili; suono: Remo Ugolinelli, Alessandro Palmerini; montaggio: Paolo Cottignola, Clelio Benevento; produzione: Fandango, Rai Cinema; distribuzione: 01 Distribution. ll gioiellino (2011) Regia: Andrea Molaioli; soggetto e sceneggiatura: Ludovica Rampoldi, Gabriele Romagnoli, Andrea Molaioli; interpreti: Toni Servillo, Remo Girone, Sarah Felberbaum, Lino Guanciale, Fausto Maria Sciarappa, Jay O. Sanders, Lisa Galantini, Vanessa Compagnucci, Igor Chernevich, Maurizio Marchetti, Adriana De Guilmi, Gianna Paola Scaffidi, Roberto Sbaratto, Alessandro Adriano, Renato Carpentieri; fotografia: Luca Bigazzi; musica: Teho Teardo; costumi: Rossano Marchi; scenografia: Alessandra Mura; suono: Mario Iaquone; montaggio: Giogiò Franchini; produzione: Indigo Film, Babe Films, Rai Cinema, Bim Distribuzione, Canal +, Cinécinéma; distribuzione: BIM Distribuzione. This Must Be the Place (2011) Regia: Paolo Sorrentino; sceneggiatura: Paolo Sorrentino, Umberto Contarello; interpreti: Sean Penn, Judd Hirsch, Eve Hewson, Kerry Condon, Harry Dean Stanton, Joyce Van Patten, David Byrne, Olwen Fouere, Shea Whigham, Liron Levo, Heinz Lieven, Simon Delaney, Frances McDormand; fotografia: Luca Bigazzi; musica: David Byrne; costumi: Karen Patch; scenografia: Stefania Cella; montaggio: Cristiano Travaglioli; produzione: Indigo Film, Lucky Red, Medusa Film, France 2 Cinéma, Paris, ARP, Element Pictures, Bord Scannan Na Heireann, The Irish Film Board, Sky, Canal +; distribuzione: Medusa Film Spa. Io sono Li (2011) Regia: Andrea Segre; soggetto: Andrea Segre; sceneggiatura: Andrea Segre, Marco Pettenello; interpreti: Zhao Tao, Rade Sherbedgia, Marco Paolini, Roberto Citran, Giuseppe Battiston, Giordano Bacci, Spartaco Mainardi, Zhong Cheng, Wang Yuan, Amleto Voltolina, Andrea Pennacchi, Xu Guo Qiang, Sara Perini, Federico Hu, Nicolò Bonaldo; fotografia: Luca Bigazzi; musica: François Couturier; costumi: Maria Rita Barbera; scenografia: Leonardo Scarpa; suono: Alessandro Zanon; montaggio: Sara Zavarise; produzione: Jolefilm, Aeternam Films, Rai Cinema, Arte France Cinéma, Paris; distribuzione: Parthenos. La kryptonite nella borsa (2011)
Regia: Ivan Cotroneo; soggetto e sceneggiatura: Ivan Cotroneo, Monica Rametta, Ludovica Rampolli; interpreti: Valeria Golino, Cristiana Capotondi, Luca Zingaretti, Libero De Rienzo, Luigi Catani, Lucia Ragni, Vincenzo Nemolato, Massimiliano Gallo, Monica Nappo, Rosaria De Cicco, Antonia Truppo, Nunzia Schiano, Sergio Solli, Gennaro Cuomo, Carmine Borrino, Anita Caprioli, Fabrizio Gifuni; fotografia: Luca Bigazzi; musica: Pasquale Catalano; costumi: Rossano Marchi; scenografia: Lino Fiorito; montaggio: Giogiò Franchini; suono: Emanuele Cecere; produzione: Indigo Film, Rai Cinema; distribuzione: Lucky Red Distribuzione. L’intervallo (2012) Regia: Leonardo Di Costanzo; soggetto e sceneggiatura: Maurizio Braucci, Mariangela Barbanente, Leonardo Di Costanzo; interpreti: Francesca Riso, Alessio Gallo; fotografia: Luca Bigazzi; produzione: Tempesta, AMKA Films Productions, in coproduzione con ZDF/Das Kleine Fernsehspiel, con la partecipazione di Cineteca di Bologna, in collaborazione con ARTE RSI Radiotelevisione svizzera SRG, SSR Idée Suisse Svizzera, Film Commission Regione Campania, Teatro Mercadante Napoli. ll primo lavoro (in lavorazione, titolo provvisorio, 2012) Regia: Francesca Comencini; soggetto e sceneggiatura: Francesca Comencini, Giulia Calenda; interpreti: Giulia Valentini, Filippo Scicchitano; fotografia: Luca Bigazzi; costumi: Ursula Paztak; scenografia: Paola Comencini; suono: Alessandro Zanon; produzione: Palomar.
* La filmografia è redatta sulla base delle seguenti fonti: ANICA Archivio
Cinema. La produzione italiana (http://www.anica.it/); The Internet Movie Data Base (http://www.imdb.com). Per quanto riguarda i premi, si propone una selezione.
Premi 1992 Premio Linea d’ombra per L’aria serena dell’Ovest 1993 Premio Cinema e Società per Manila Paloma Blanca Ciak d’oro per Morte di un matematico napoletano 1994 Premio Casa Rossa per Veleno 1995 Nastro d’argento per Lamerica David di Donatello per Lamerica Ciak d’oro per Lamerica 1996 Premio Casa rossa per Lo zio di Brooklyn Ciak d’oro per L’amore molesto Premio Cinema e Società per Un eroe borghese 1997 Sacher d’oro per Lamerica 1998 Osella d’oro alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia per Così ridevano e per L’albero delle pere Sitges International Film Festival – Miglior fotografia per Totò che visse due volte Menzione speciale Globo d’oro per Totò che visse due volte 1999 Premio Linea d’ombra per Così ridevano Ciak d’oro per Così ridevano e Fuori dal mondo 2000
David di Donatello per Pane e tulipani 2002 Nastro d’argento per Brucio nel vento Globo d’oro per Brucio nel vento Premio Flaiano per Brucio nel vento Premio Silver Camera 300 al Festival Manaki Brothers per Brucio nel vento 2004 Premio Agis per Le chiavi di casa e per Ovunque sei 2005 Nastro d’argento per Le chiavi di casa, per Ovunque sei e per Le conseguenze dell’amore David di Donatello per Le conseguenze dell’amore 2006 David di Donatello per Romanzo criminale Premio Néstor Almendros (Lanterna Magica, L’Aquila) alla carriera 2007 Ciak d’oro per La stella che non c’è e per L’amico di famiglia Premio Mosfilm al Festival Manaki Brothers per La stella che non c’è 2008 Prix Vulcain al Festival di Cannes per ll divo Premio Giuseppe Rotunno al BIF&ST (Bari) per ll divo Premio Tallin Film Festival per ll divo Candidatura European Film Awards per ll divo 2009 David di Donatello per ll divo Premio RiverRun International Film Festival (North Carolina) per ll divo 2010 Premio Giuseppe Rotunno al BIF&ST (Bari) per Lo spazio bianco 2012 Premio Giuseppe Rotunno al BIF&ST (Bari) per This Must Be the Place David di Donatello per This Must Be the Place
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