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Italian Pages 650 [676] Year 2001
Benedetta Craveri
LA CIVILTÀ LLA CONVERSAZIONE Adelphi
Se si dovesse dire in che cosa e in quali luoghi si cristallizzò l’ideale della più oziosa, spregiudicata, esigente civiltà europea fra Seicento e Settecento, si potrebbe ri-
spondere: in alcuni salotti di Parigi, dove si celebravano i riti, insieme esoterici e tra-
sparenti, della conversazione. Via via allontanata, per volontà del sovrano,
dall’uso
della forza come dal potere politico più incisivo, l’aristocrazia spese le sue ultime,
dispettose energie nell’elaborare un modo di vivere che pretendeva di raggiungere un traguardo di perfezione a partire dal quale tutto il passato apparisse grezzo e goffo. Con l’ausilio di alcuni geni della socievolezza — quasi sempre donne, spesso antagoniste nelle loro inclinazioni e peculiarità, ma tutte maestre di eleganza e psicologia — si creò così una corrente impetuosa che attraversò due secoli e, nella sua apparente capricciosità, investì vastissimi territori. Alla fine dovremo constatare che la più alta e frivola mondanità era riuscita a plasmare molte forme della vita sociale e intellettuale, oltre che a diventare
veicolo dell’azione politica. Quella corrente si infranse contro lo sbarramento della Rivoluzione, ma il suo ricordo ha continua-
to ad agire potentemente, come immagine inarrivabile della «civiltà perfezionata», sino a oggi. Di questa storia affascinante e pullulante di personaggi, scene, battute memorabili, mancava una rappresentazione concatenata, che mostrasse la continuità della sua evoluzione, e il mutare del suo carattere,
attraverso due secoli che, sotto questo riguardo, impongono di essere considerati in un'unica visione d’insieme. Già autrice di una preziosa biografia di Madame du
Deffand (una delle protagoniste della «civiltà della conversazione»), Benedetta Cra-
veri ha saputo ricostruire dall’interno, narrandola e contrappuntandola di ritratti, una vicenda che non è stata nulla di meno che una delle grandi avventure - e glorie — dello spirito europeo.
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LA COLLANA DEI CASI 48
DELLA STESSA AUTRICE: Madame du Deffand e il suo mondo
BENEDETTA
CRAVERI
La cruilta della conversazione
ADELPHI
EDIZIONI
Prima edizione: maggio 2001 Seconda edizione: settembre 2001
© 2001 ADELPHI EDIZIONI S.P.A. MILANO
ISBN 88-459-1617-0
INDICE
Premessa
Una certa maniera di vivere
Le figlie di Eva La Camera azzurra Vincent Voiture, ovvero l’«àme du rond» La Guirlande de Julie Madame
de Longueville: una metamorfosi
esemplare VII.
La duchessa di Montbazon e il riformatore della Trappa
VII.
La marchesa di Sablé: il salotto nel convento Le «fondatrici del giansenismo» L’amicizia come passione All’ombra di Port-Royal Il gioco delle massime
La Grande Mademoiselle L’eroina della Fronda
La prova dell'esilio Il gioco dei ritratti
Madame de Sévigné e Madame de La Fayette: una lunga amicizia
245
XI.
Madame de La Sablière: l’assoluto del sentimento
289
xII.
Madame de Maintenon e Ninon de Lenclos:
l’importanza della reputazione
La rivincita di Parigi
316 316 332 348
La marchesa di Lambert: l’ideale dell’ honnéte femme
359
Madame de Tencin: l’avventuriera dei Lumi
SRL
xII. L’esprit de société Il carattere della Nazione La corte come
xIV.
xv.
301
teatro
XVI. Sotto il segno dell’emulazione
399
xvII. La civiltà della conversazione Il piacere della parola
455 455 473 481
Gli inganni della parola
Il potere della parola
Bibliografia
503
Indice dei nomi
590
LA CIVILTÀ DELLA CONVERSAZIONE
per Benoît
PREMESSA
Questo libro racconta la storia di un ideale, l’ultimo in cui la nobiltà francese di Antico Regime si sarebbe riconosciuta interamente, l’ultimo che le avrebbe consentito di erigersi ancora una volta a emblema e modello di tutta la nazione. Un ideale di socievolezza sotto il segno dell’eleganza e della cortesia, che contrapponeva alla logica della forza e alla brutalità degli istinti un’arte di stare insieme basata sulla seduzione e sul piacere reciproco. Nei primi decenni del XVII secolo, l’élite nobiliare scopriva l’esistenza di un territorio fino allora inesplorato, a
uguale distanza dalla corte e dalla Chiesa, ne disegnava i confini e lo dotava di leggi autonome e di un codice di comportamento improntato al culto rigoroso delle forme. Non ci si preoccupava di dargli un nome, utilizzando per esso l’appellativo generico di monde: in breve tempo, infatti,
il termine non avrebbe indicato più soltanto la sfera dell’umano contrapposta a quella del divino, il luogo dell'esilio e del peccato in cui tutto sembrava dover concorrere alla perdizione dell’anima, ma avrebbe evocato una realtà sociale
circoscritta dove una piccola schiera di privilegiati si cimentava in un progetto etico ed estetico rigorosamente laico, che per realizzarsi non aveva bisogno di cauzioni teologiche. E se nel corso del Seicento non pochi fra coloro che
2
La civiltà della conversazione
appartenevano
al monde avrebbero
finito, attraverso meta-
di Dio questo morfosi esemplari, per sacrificare al richiamo ideale troppo terreno, il secolo successivo, liberando l’uomo dall’ansia religiosa, lo affidava fiducioso alla sua voca-
zione puramente mondana. E di questo progetto, della sua elaborazione e della sua realizzazione, dai tempi dell’hòtel de Rambouillet fino alla Rivoluzione francese, che mi sono proposta di rintracciare qui i motivi ispiratori e gli elementi costitutivi. Ma perché fermarsi al 1789 e circoscrivere a un periodo storico concluso un modello di socievolezza eminentemente moderno e destinato a sopravvivere, sia pure attraverso mille metamorfosi, alla società che lo aveva ideato? Perché
solo la società aristocratica di Antico Regime, prigioniera di uno splendido ozio e senza altra preoccupazione che quel la di autocelebrarsi, poteva fare della vita mondana un’arte inimitabile e un fine in sé. Mettendo termine ai privilegi della nobiltà, la Rivoluzione tracciava infatti con il passato una linea di non ritorno.
Non è certo un caso che l’idea di una storia della società
mondana
risalga proprio ai tempi della Restaurazione e
che sia un ex rivoluzionario
pentito, il conte Pierre-Louis
de Roederer, a pubblicare nel 1835 il Mémotre pour servir à l’histoîre de la société polie en France, il primo lavoro propria-
mente storico sull'argomento. Da allora scrittori, studiosi, eruditi non hanno cessato di indagare su quel mondo scomparso, privilegiando l’approccio biografico, la tecnica del ritratto, l’aneddotica, il romanzesco; e focalizzando per
lo più l’attenzione sulla centralità della vita di salotto e del potere che le donne vi esercitavano. D'altro canto, nel corso del Novecento, gli studiosi della lingua, della letteratura e della cultura di Antico Regime hanno finito per tenere sempre più conto, nelle loro diverse prospettive di ricerca,
del complesso gioco di influenze che si intrecciano
assai
presto tra savants e mondani, a cominciare dal contributo dato da questi ultimi alla nascita del francese moderno, allo
sviluppo di nuove forme letterarie, alla definizione del gusto. Cosa mi ha indotto, allora, a ritornare su un terreno già esplorato da critici illustri, da universitari ferratissimi, da di-
vulgatori spesso accattivanti? In primo luogo la constatazione dell’esistenza di una linea divisoria del tutto artificiale
Premessa
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tra Seicento e Settecento. Nel campo degli studi ciascuno di questi due secoli ha i suoi specialisti, generalmente poco inclini ad avventurarsi al di fuori delle specifiche aree di
competenza. Inoltre, sul piano più generale della storia delle idee, o più semplicemente
di quella del costume
e del
gusto, Sei e Settecento propongono due visioni così diverse del mondo da indurre sovente, al di là dei corsi e ricorsi delle mode, a decise, personalissime scelte di campo. In effetti, come non riconoscere che, nonostante la stabi-
lità delle istituzioni di Antico Regime, nel passaggio tra Sei e Settecento quasi tutto appaia diverso? A cambiare è innanzitutto la percezione che l’uomo ha di se stesso, il suo modo di pensare, la sua sensibilità, la sua morale, la sua
idea di felicità, nonché la concezione che egli ha della società in cui vive.
Eppure, se osserviamo i due secoli dal punto di vista della civiltà mondana,
è impossibile
non
percepire
come
in
quest'ottica qualsiasi forma di cesura sia fuorviante. Nel succedersi delle generazioni che si affacciano l’una dopo l’altra alla ribalta della vita di società, la prima cosa a colpirci è, infatti, la forza della tradizione e la continuità dello stile. Avido di sapere e sempre più onnivoro, il dilettantismo mondano, con l’avanzare dei Lumi, si faceva un punto
d’onore di schierarsi all'avanguardia del nuovo, ma non per questo cessava di obbedire al codice formale delle buone maniere e di coltivare l’antico ideale di perfezione estetica. Non si trattava solo di raffinare un’arte della messa in scena di sé che costituiva ormai il tratto distintivo dell’identità nobiliare, ma di serbare il ricordo tenace di un sogno utopico che ben si adattava a un secolo di utopie e che, nonostante i suoi molti fallimenti, non voleva morire. Era l’utopia di un altrove felice, di un’isola fortunata, di un’arcadia innocente dove dimenticare i drammi dell’esi-
stenza, coltivare l’illusione della propria perfezione morale ed estetica, correggere le brutture della vita e rimodellare la realtà alla luce dell’arte. All’inizio del Seicento, Honoré
d’Urfé l’aveva illustrata nell’Astrée, il romanzo più amato dalla nobiltà francese,
e Madame de Rambouillet aveva ten-
tato di realizzarla nella sua casa, facendo di quest’ultima il modello
archetipico
della
socievolezza
aristocratica.
Ma
non sempre le virtù delle apparenze potevano avere ragione dell’orgoglio, dell’odio, dell’invidia, della violenza: tra un complimento e l’altro si continuava a uccidersi in duel-
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La civiltà della conversazione
lo per una semplice ripicca, a rapire giovani donne pericolosamente belle o ricche, a tradire, calunniare, offendere. Molto spesso la cortesia sì rivelava una semplice finzione,
l'eleganza dei modi una mera impostura. E tuttavia, se moralisti, romanzieri, scrittori di teatro, e non ultimi gli stessi
mondani si accanivano a strappare le maschere e a denunciare la risibilità della commedia
sociale, ciò non
poteva
che dimostrare il permanere di un autentico ideale di perfezione. D'altronde, la nostalgia del passato aveva accompagnato fin dall’inizio la nascita del mito mondano. Ancora nel Seicento,‘nello stigmatizzare la volgarità della società a lui contemporanea, l’antimondano La Bruyére evocava con infinito rimpianto i discorsi irripetibili, arguti e brillanti che si tenevano all’hòtel de Rambouillet. Non diversamente, negli anni a ridosso della Rivoluzione — quelli dove /a douceur de vivre raggiungerà il suo culmine -—, il mondanissimo Talleyrand ritornerà col pensiero alle conversazioni sublimi, e per sempre perdute, che si erano intrecciate tra Madame de La Fayette, Madame de Sévigné e il duca di La Rochefoucauld. Al mio proposito di ricostruire la storia dell’esprit de société nella lunga durata si è aggiunto il desiderio di raccontarla con un taglio narrativo e un linguaggio non accademico, non solo perché questa mi sembrava la forma più congeniale all'argomento che intendevo trattare, ma anche nella
speranza di riuscire a restituire l’eco di quello «stile medio» in cui i lettori del tempo amavano riconoscersi. Ho affidato, invece, alla Nota bibliografica il compito di testi-
moniare quanto grande sia il mio debito con il mondo della ricerca. Se sono riuscita a cogliere con precisione la varietà delle sfaccettature della cultura mondana e le moltissime direzioni verso cui questa conduce è certamente grazie alla ricchezza e alla qualità degli studi apparsi in questi ultimi decenni.
Ricostruire i connotati di un ideale collettivo di vita, che
si protrae per un periodo di quasi due secoli, imponeva una scelta di percorso e di metodo, ed è proprio l’alto grado di consapevolezza dei suoi stessi interpreti ad avermene suggerito la traccia. Forse nessuna società ha mai riflettuto su se stessa, sulla propria identità e sul proprio modo di rappresentarsi quan-
Premessa
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to quella che mi propongo di evocare, e mi è sembrato naturale raccontarla dall’interno, attraverso i suoi testi fonda-
tori, affidandomi alla guida di alcune delle sue figure femminili più emblematiche,
dando loro, là dov'era possibile,
la parola, facendo spesso ricorso a quella dei contemporanei e soffermandomi ugualmente su taluni dei grandi temi — la condizione
femminile,
l’esprit de société, la conver-
sazione — attraverso cui la civiltà mondana prendeva coscienza di sé. Ma perché — ci si può ugualmente chiedere — privilegiare ancora una volta delle figure di donna, di non poche delle quali esistono già bellissimi ritratti, e che sono oggi, grazie alla storiografia femminista, l’oggetto di un numero cre-
scente di studi? Forse che sul piano del costume e dello stile aristocratico il Gran Condé può essere considerato meno rappresentativo di Madame de Longueville, La Rochefoucauld di Madame de La Fayette, Bussy-Rabutin di Madame de Sévigné, o Saint-Evremond di Ninon de Lenclos? Certo che no, ma è difficile non tener conto di un dato di fatto:
come constatavano per primi gli osservatori contemporanei, nella società mondana di Antico Regime erano le donne e non gli uomini a dettare legge e a stabilire le regole del gioco. E non si può non ricordare che proprio l’alto grado di integrazione dei due sessi era, insieme alla presenza dei letterati e alla centralizzazione della vita di mondo tra Parigi e Versailles, ciò che avrebbe fatto della società no-
biliare francese un fenomeno unico in Europa. Ciascuno dei personaggi femminili qui rappresentati si misura con un modello di comportamento ideale e lo interpreta adattandolo alle sue ambizioni, ai suoi interessi, alla cerchia dei suoi frequentatori, alle sue aspirazioni più profonde. E così facendo ne ribadisce l’importanza e la centralità nella vita dell’epoca, e lo trasmette alla generazione successiva arricchito di un suo personale contributo. Ecco dunque la duchessa di Longueville incarnare in modo ugualmente esemplare le due figure opposte della seduzione mondana e della rinuncia al mondo;
ecco la marchesa
di Sablé iniziarci alla collaborazione che si instaura fra mondanità e letteratura; ecco Mademoiselle de Montpensier coltivare la gamma completa dei /oîsîrs nobiliari; ecco la marchesa di Sévigné illustrare, nella vita come nelle lettere,
la forza travolgente dell’enjouement, la gaiezza euforica così essenziale al successo in società; ecco Madame
de Lambert
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La civiltà della conversazione
e Madame de Tencin presiedere a un nuovo tipo di conversazione intellettuale e preparare gli esponenti del bel mondo al dibattito dei Lumi. Ma c’è una ragione forse più profonda e più segreta che mi ha indotta a rivisitare questa storia remota, che ha ormai
il sapore della leggenda: ed è la consapevolezza del fatto che, nonostante l’infinita distanza che ci separa da quel mondo scomparso, esso non ha mai cessato di esercitare su
di noi un’attrazione irresistibile. È lì che
l’uomo
moderno,
munito
di una
solidissima
scienza psicologica, ha fatto della socievolezza un'arte e l’ha portata al più alto punto di perfezione estetica; è lì che è nata l’idea di una élite basata sul principio di cooptazione tra uomini e donne che si volevano uguali e che si sceglievano sulla base delle reciproche affinità. E in un’epoca come la nostra, dove modelli di comportamento posticci, determinati dall'esterno, si succedono a ritmo serrato, sconfinando
spesso nella caricatura, è difficile non ammirare la sovrana naturalezza di quei mondani, che con una perfetta padronanza dei gesti e della parola interpretavano il solo modello che si erano dati e in cui si riconoscevano. E come non confrontare mestamente la nostra concezione intimidatoria e prefabbricata del «tempo libero» con una civiltà del loisir dove l’arte, la letteratura, la musica, la danza, il teatro,
la conversazione, costituivano una scuola permanente del
corpo e dello spirito? Ma è all’arte per eccellenza di quella società, all’arte della conversazione, che, come era già accaduto con La Bruyère e con Talleyrand, vanno oggi, in primo luogo, la nostra ammirazione e il nostro rimpianto. Nata come un intrattenimento fine a se stesso, come un gioco destinato allo svago e al piacere reciproco, la conversazione obbediva a leggi severe che ne garantivano l’armonia su un piano di perfetta uguaglianza. Erano leggi di chiarezza, di misura, di eleganza, di rispetto per l'amor pro-
prio altrui. Il talento di ascoltare vi era più apprezzato che quello di parlare, e una squisita cortesia frenava l’irruenza e impediva lo scontro verbale. Assurta presto allo status di rito centrale della socievolezza mondana,
nutrita di letteratura, curiosa di tutto, la con-
versazione si apriva progressivamente all’introspezione, alla
Premessa
(or;
storia, alla riflessione filosofica e scientifica, al confronto
delle idee. E poiché la Francia non era dotata né di un sistema rappresentativo né di una sede istituzionale dove la società civile potesse esprimere le sue opinioni, la conversazione mondana diventava un luogo di dibattito intellettuale e politico, la sola agorà di cui la società civile potesse di-
sporre. Durante la Rivoluzione, i rappresentanti della nobiltà seduti sui banchi dell'Assemblea Costituente si distinguevano ancora per la pacatezza del tono e per la loro capacità di mediazione, una capacità che aveva reso celebre la diplomazia francese di Antico Regime. Questo ideale di conversazione, che sa coniugare la leggerezza con la profondità, l’eleganza con il piacere, la ricerca della verità con la tolleranza e con il rispetto dell’opinione altrui, non ha mai smesso di attrarci; e quanto più la
realtà ce ne allontana tanto più ne sentiamo la mancanza. Esso ha cessato di essere l’ideale di tutta una società, è di-
ventato un «luogo di memoria», e non c’è rito propiziatorio che possa riportarlo fra noi a condizioni che non gli sono favorevoli; conduce ormai un'esistenza clandestina, ed è
appannaggio di pochissimi — eppure niente ci dice che un giorno non possa tornare a renderci felici. Il lettore avrà subito modo di accorgersi che sono molte le parole che non sono state tradotte o la cui traduzione — necessariamente approssimativa — potrebbe ingenerare equivoci. Il termine «mondano» non implicava affatto, come può accadere oggi, un giudizio di demerito. E per indicare il luogo di ritrovo canonico della vita di società dobbiamo fare ricorso alla parola «salotto », un vocabolo anacronistico,
entrato nell’uso solo alla fine del Settecento. Nel francese di Antico Regime, al di là del generico «casa», o del molto
specifico ruelle (lo spazio tra il letto e il muro messo alla moda dalle Preziose, che ricevevano nelle loro camere), non
esiste un vocabolo che indichi il luogo di ricevimento, e ci si riferisce solo alle persone che possono, di volta in volta, formare un cercle, una assemblée, una société, una compagnie. E
purtroppo nessuno di questi termini (a eccezione, in alcuni casi, di cercle) si presta a una traduzione non ambigua. Un altro anacronismo a cui, per una semplice esigenza di
varietà, ho fatto sovente ricorso, è l’uso del termine «aristo-
crazia», coniato con intenzione dispregiativa al tempo della
18
La civiltà della conversazione
Rivoluzione. Nell’Antico Regime, l’unica parola esistente per indicare i rappresentanti del Secondo Stato era « nobiltà».
Mi sono anche rassegnata a lasciare in francese alcuni vocaboli davvero intraducibili. Il primo caso è quello che riguarda il campo semantico dell’ honnéteté. Parola chiave della cultura secentesca,
essa rimanda
generalmente,
come
i
lettori avranno modo di vedere, a una doppia accezione, etica ed estetica, ma il peso delle due istanze varia enormemente a seconda dei casi; il termine italiano «onestà» (così come «onest'uomo») sposta decisamente l’accento sulla connotazione morale risultando sviante; e lo stesso discorso vale, a più forte ragione, per galanterie e galant homme.
Un
problema
non
meno
difficile è rappresentato
da
esprit, parola che abbraccia una gamma di significati amplis-
sima, che spazia dalla dimensione spirituale a quella intellettuale e speculativa, a quella ludica e brillante. La schiera
di aggettivi che generalmente l’accompagna, determinandone di volta in volta il senso, non agevola il compito del traduttore. Quando mi è stato possibile e a seconda del contesto ho tradotto esprit con «mente», «intelligenza», «spirito», ma in molti casì mi è parso più opportuno attenermi al termine francese, limitandomi a specificarne i diversi si-
gnificati. Uguale difficoltà presenta la traduzione di polîtesse e di
bienséances: la parola politesse potrebbe essere resa in italiano con
«cortesia»,
ma
ciò significherebbe
non
tener
conto
che politesse è entrato nell’uso proprio in alternativa all’antico termine di courtoiste, portando con sé tutta una nuova
gamma di sfumature; bienséances potrebbe, a sua volta, essere tradotto con «buone maniere», ma questa espressione non
evoca con la stessa evidenza del termine francese la
complessa operazione conoscitiva che presiedeva alla loro applicazione. Allo stesso modo ho conservato quasi sempre in francese il termine raillerie che può di volta in volta si-
gnificare «celia», «scherzo», « presa in giro» bonaria, «satira», e enjouement, Vl’eutrapelia degli Antichi, che indica un concentrato di brio, di vivacità, di gaiezza. Sul significato
delle parole rimaste in francese, il lettore potrà comunque
trovare delle delucidazioni nella Nota bibliografica.
Questo libro, che ha come filo conduttore la conversazione, deve molto alle conversazioni, agli scambi di opinio-
Premessa
19
ne, ai suggerimenti degli amici. L’idea stessa del libro è nata da un invito rivoltomi nella primavera del 1987 da Eugenio Scalfari a scrivere per «la Repubblica» una serie di articoli sui salotti francesi di Antico Regime e dalla proposta di Roberto Calasso di raccoglierli in un «instant book» corredato da una piccola antologia di testi. E benché l’«instant book» abbia impiegato più di quindici anni per giungere a compimento — e abbia moltiplicato, cammin facendo, sue pagine —, il mio editore non ha cambiato parere
le e,
affidandomi alle cure di Ena Marchi e di Pia Cigala Fulgosi, ha consentito alla Civiltà della conversazione di beneficiare di un editing di grande rigore e competenza. Di estrema importanza è stato per me, in tutti questi anni, il dialogo ininterrotto con gli amici secentisti: Marc Fu-
maroli, la cui opera ha costituito un punto di riferimento costante per la mia ricerca, e Benedetta Papàsogli, Barbara Piqué e Louis van Delft, che hanno letto e discusso quel che andavo scrivendo, prodigandomi via via consigli preziosi. Ma Giuseppe Galasso e Bernard Minoret sono probabilmente le persone di cui ho messo più a dura prova la pazienza e l’amicizia: entrambi si sono sobbarcati per primi la lettura del dattiloscritto e, vittime della loro dottrina, sono
stati sottoposti nel tempo a una serie interminabile di quesiti storici, dinastici, genealogici. La gentilezza di Robert Silvers mi ha inoltre consentito di usufruire dell’organizzazione della «New York Review of Books» e di ottenere con la massima facilità libri e articoli apparsi negli Stati Uniti su argomenti relativi alla mia ricerca. Sono altresì debitrice a Francesco Scaglione di un aiuto prezioso nel lavoro di riscontro dei testi citati alla Biblioteca Nazionale di Parigi, e
a Gaetano Lettieri di chiarimenti illuminanti sul dibattito giansenista intorno all’interpretazione agostiniana della Grazia. A tutti questi amici vorrei esprimere qui, dal profondo del cuore, la mia più affettuosa riconoscenza.
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I UNA CERTA MANIERA
DI VIVERE
Un giorno imprecisato del 1627 Catherine de Vivonne, marchesa di Rambouillet, ebbe la sorpresa di ricevere la vi-
sita di padre Joseph, l’Eminenza Grigia di Richelieu. Tallemant des Réaux racconta come, dopo i primi convenevoli, il potente cappuccino spiegasse le ragioni della sua presenza in rue Saint-Thomas-du-Louvre. Richelieu gli aveva affidato l’incarico di esprimere alla marchesa il suo compiacimento per l'importante trattativa diplomatica che Monsieur de Rambouillet stava conducendo in Spagna e le rinnovava l'assicurazione della propria benevolenza. In cambio,
però, «bisognava che ella desse a Sua Eccellenza una piccola soddisfazione
a cui teneva
molto,
perché un
primo
ministro non poteva mai eccedere in precauzioni. In una parola: il cardinale desiderava che ella lo mettesse al corrente degli intrighi di Madame la Princesse e del cardinale di La Valette ».' La risposta della marchesa era stata categorica: non credeva affatto che Madame la Princesse e il cardinale di La Valette avessero degli intrighi, ma quand’anche fosse stato così, «non si sentiva portata per il mestiere della spia».
1. Tallemant des Réaux, MHistoriettes, a cura di Antoine Adam, 2 voll., Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard, Paris, 1960-1961, vol. I, p. 444.
22
La civiltà della conversazione La richiesta di Richelieu
non
era, dopotutto,
tanto
ol-
traggiosa: in un’epoca di complotti, di voltafaccia e di continui patteggiamenti tra l’alta nobiltà e la monarchia, il cardinale proponeva un normalissimo scambio di prestazioni. Egli chiedeva alla marchesa di dimostrare in modo tangibile la sua lealtà al trono, e in cambio offriva a lei e a suo ma-
rito la garanzia del favore reale. Basterebbero i Mémozres del cardinale di Retz o del duca di La Rochefoucauld per mostrare quanto grande fosse la spregiudicatezza dell’etica nobiliare in fatto di lealtà e obbedienza al sovrano, e come, in
generale, gli interessi di famiglia prevalessero su quelli della monarchia e della nazione. Il secco rifiuto della marchesa non era una sfida aristocratica al ministro che in quegli anni richiamava all’ordine la nobiltà ribelle con il carcere e con la scure. Quali che fossero i loro sentimenti nei confronti di Luigi XIII e di Richelieu,
iRambouillet erano sud-
diti fedeli, come avrebbero dimostrato inequivocabilmente durante la Fronda, e la loro casa non era un luogo di complotto e di sedizione. Madame de Rambouillet si limitava semplicemente a rivendicare la sua libertà privata, il diritto
di vivere con chi e come più le pareva nella sua dimora. Eppure, così facendo, la marchesa compiva un gesto inaugu-
rale: attraverso di lei la società civile proclamava la sua autonomia dalla politica e rifiutava le ingerenze del potere nella sfera della vita privata. Richelieu, del resto, non aveva torto nel voler essere te-
nuto al corrente di quanto avveniva nella «Camera azzurra» ma, nonostante il suo intuito politico, non poteva sapere che la congiura che vi si ordiva — perché di una congiura in fondo si trattava — non obbediva alle vecchie logiche del potere, non aveva bisogno né di ministeri, né di eserciti, né
di ricchezze, si affidava al puro gioco delle idee e non aveva ancora trovato un nome. Si sarebbe chiamata Opinione e si sarebbe rivelata, soltanto un secolo dopo, una minaccia per l’ordine costituito.
Conferire all’episodio raccontato da Tallemant un significato così emblematico può certo apparire un arbitrio; ma si tratta di un arbitrio in assoluta sintonia con la leggenda di Madame de Rambovuillet. I primi a investire la marchesa di una funzione archetipica erano stati, senza alcun dubbio, i suoi stessi contemporanei. È nella sua casa che, a
Una certa maniera di vivere
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loro giudizio, aveva preso l’avvio una nuova civiltà mondana e sì era elaborato uno stile di vita che sarebbe servito da modello per le élite francesi. E Madame come afferma Segrais, «ad aver corretto
de Rambouillet, i cattivi costumi
che vigevano prima di lei ... è lei ad aver insegnato la politesse a tutti coloro che l’hanno frequentata». La definizione che appare nella prima edizione del Dictionnaire de l’Académie francaise (1694) basta a farcene cogliere tutta l’importanza concettuale: la politesse non era infatti una somma di precetti, ma «una certa maniera di vivere, di agire, di appa-
rire ... acquisita mediante l’uso mondano»; poteva quindi essere appresa e trasmessa solo attraverso una pratica attiva, un processo di iniziazione. Ed è proprio all’hòtel de Rambouillet che questa maniera di vivere assumeva per la prima volta l’evidenza di un ideale.
Alla marchesa di Rambouillet spetta dunque l’onore di aver inaugurato la vita di società in Francia e di aver presieduto, per oltre quarant'anni, il primo centro mondano del XVII secolo. Ripetuta da un libro all’altro, quest’affermazione è diventata un assioma; proprio perciò può non essere del tutto inutile trasformarla in un’interrogazione. Perché mai, ci si può chiedere, quest’onore è ricaduto proprio su Madame de Rambouillet? Già nel corso del XVI secolo più di una dimora privata era stata teatro di nobili svaghi e di dotte conversazioni, e la marchesa non era certo l’unica
donna della sua epoca ad aver coltivato l'ambizione di fare della sua casa un luogo d’incontro culturale e mondano. Prima di lei l’intraprendente viscontessa d’Auchy, decisa a immortalare
il proprio nome,
teneva
già un
salotto, fre-
quentato soprattutto da poeti: Malherbe, di gran lunga il più illustre fra tutti, la celebrava sotto il nome di Calliste. L’ammirazione che lo scrittore aveva per lei non era però solo di natura platonica, e nel 1609 un marito poco sensi bile al prestigio della letteratura la relegava a San Quintino, città di cui era governatore. L'eredità di Madame d’Auchy veniva prontamente raccolta da Madame des Loges, una protestante di nobiltà recente, il cui salotto, non infe-
riore per reputazione a quello della marchesa di Rambouillet, raggiunse l’apice della notorietà negli anni Venti. 1. Jean Regnault de Segrais, Segrazsiana ou mélange d’histoire et de littérature,
Pierre Gosse, La Haye, 1722, p. 26.
24
La civiltà della conversazione
Vi si davano appuntamento Malherbe e la sua scuola — Racan, Boisrobert, Godeau -—, e scrittori « modernisti» come Guez de Balzac, Faret, Vaugelas. Il cercle di rue de Tournon, tuttavia, non coltivava solo interessi letterari, ma si appassionava alla religione e alla politica, e non nascondeva le
sue simpatie per il duca d'Orléans, il fratello ribelle di Luigi XII. E proprio il suo carattere di salotto d'opposizione attirò nel 1629 su Madame des Loges un ordine di esilio da parte del cardinale.
Il vero elemento di novità presente nella decisione di Madame de Rambouillet di aprire regolarmente le porte della sua casa a un certo numero di ospiti abituali consisteva nel fatto che tale decisione fosse dettata dall’idiosincrasia. Profondamente a disagio nei ricevimenti reali che si tenevano al Louvre, la marchesa aveva abbandonato il posto che competeva al suo rango nella sfera della rappresentazione pubblica per poi ritirarsi nella sfera privata. In lei la nascita della vocazione mondana coincideva con una retraitedal teatro del mondo, ed era una consapevole presa di distanza dalla vita di corte. La natura polemica del suo gesto inaugurale non sfuggì, naturalmente, ai suoi contemporanei: «Non che disdegnasse i divertimenti,» scrive infatti
Tallemant «solo che le piacevano quelli privati. E una cosa abbastanza strana per una persona giovane e bella, e di alto lignaggio. Alla cerimonia di accoglienza per Maria de’ Medici, quando
Enrico
IV la fece
incoronare,
Madame
de
Rambouillet era tra le belle che facevano parte del seguito ».! Forse, al di là delle spiegazioni fornite dai critici — il susseguirsi delle maternità e una salute sempre più delicata — o dalla marchesa stessa — la calca, il disordine dei ricevimenti del Louvre +, è lecito supporre che proprio l’onore di aver assistito ad alcune delle feste più memorabili del regno di Enrico IV avesse contribuito non poco al suo distacco. Sappiamo infatti che Madame de Rambovuillet, allora ventunenne,° assieme a Mademoiselle de Montmorency appena adolescente e alla giovanissima Mademoiselle Paulet — destinate a diventare entrambe sue intime amiche —, faceva
parte del corteo di ninfe che conducevano l’amore prigio1. Histonettes, cit., vol. I, p. 442. 2. Ibid., p. 69.
Una certa maniera di vivere
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niero nel celebre ballet de la Reine tenutosi a Saint-Germainen-Laye il 31 gennaio 1609. Il fasto della coreografia e il fatto che Malherbe l’avesse impreziosita con i suoi versi non avevano attutito lo scandalo della cerimonia e la brutalità degli appetiti del sovrano. In attesa di mettere a punto per Mademoiselle de Montmorency una strategia matrimoniale che gli consentisse di sostituirsi allo sposo, il re aveva dirottato i suoi desideri su Mademoiselle Paulet che, con la sua mirabile voce, cantava seminuda a cavallo di un delfino.
Smentendo il vaudeville che era circolato in quell’occasione,' fu proprio Enrico IV a esser « preso dalla voglia di andare a letto con la bella cantante per farla cantare sotto di sé: e tutti furono concordi nel dire che quella voglia se l’era cavata». Il che ci fa capire quali fossero i divertimenti, lo spirito e il linguaggio della corte del grande re che aveva pacificato la Francia, allorché Madame
de Rambouillet inco-
minciò a desiderare di sottrarsi a un modo di vivere che le ripugnava profondamente.
Dominare
la forza degli istinti, erigere degli argini con-
tro la brutalità dell’esistenza, frapporre tra sé e gli altri lo scudo invisibile di un corpo di regole di comportamento in grado di garantire la dignità di ciascuno: questa non era solo l'aspirazione personale di una delicata nobildonna. Al contrario, rappresentava l’esigenza di una intera casta — una casta guerriera che aveva deposto le armi dopo una lunga e sanguinosa lotta fratricida, senza peraltro riuscire a dismettere la violenza dei modi nella vita quotidiana. Interrogandosi desolata sulle ragioni di tanta brutalità, Mademoiselle de Gournay, fille d’alliance di Montaigne, ne vedeva
in primo luogo la causa nel segno stesso dell’appartenenza nobiliare: nel diritto a portare la spada. «Il potere, e di conseguenza l’audacia, che questa spada che i nobili portano al fianco conferisce loro, sono un potere che, a eccezione di
qualche spirito superiore, dà alla testa». 1. «Qui fit le mieux du ballet? / Ce fut la petite Paulet, / Monteée sur le Dauphin,
/ Qui montera sur elle enfin» («Chi era la migliore del balletto? / La piccola Paulet / Che cavalcava il Delfino / Che alla fine la cavalcherà»), i02d.,
p. 474. Dello cho: 3. Mademoiselle de Gournay, «De la Néantise des communes vaillances de ce temps, et du peu de prix de la qualité de la noblesse », in Les avis ou
26
La civiltà della conversazione
Questa esigenza civilizzatrice, che avrebbe incominciato a farsi strada a partire dal secondo decennio del XVII secolo, non era dettata soltanto da una necessità pratica, ma si
ricollegava a una riflessione assai più vasta e complessa, legata all’identità nobiliare, alla sua rappresentazione sociale
e al diverso ruolo che le era consentito di esercitare nel nuovo quadro della monarchia moderna. Privata delle vecchie certezze, la nobiltà francese era indotta a ripensare se
stessa e a ridefinirsi attraverso una spettacolare metamorfosi. Come non essere spinti a interrogarsi sulla propria identità di classe quando ci si vedeva mutilati di ciò che ne costituiva l’essenza stessa, l’esercizio permanente
delie armi,
quando si era costretti ad abbattere le mura delle proprie fortezze, quando non si poteva più sguainare la spada per difendere il proprio onore, quando la guerra era diventata
una professione e i nobili venivano ridotti al rango di ufficiali del re? E come identificarsi ancora con le ragioni di un sovrano che aveva cessato di essere primus inter pares, e che, geloso della propria autorità, escludeva la nobiltà dalla sfera politica e affidava l’amministrazione del paese a uomini oscuri, ambiziosi e servili, eppure arrogantemente consa-
pevoli di rappresentare l’autorità reale? «I nobili francesi, come l’aristocrazia terriera in altri pae-
sì, avevano già affrontato in passato qualche problema di assestamento. Ma il periodo che va dal 1560 al 1640 era stato particolarmente difficile. La fase di transizione che la nobiltà si trovò ad attraversare in quegli anni
(una sorta di
“crisì di identità” con connotati sia economici sia sociali sia psicologici) coincise con i radicali cambiamenti che siamo soliti collegare all’età delle guerre di religione, alla rivoluzione commerciale e alla rivoluzione scientifica». La costante crescita dei prezzi che aveva caratterizzato tutto il corso del XVI secolo aveva avuto ripercussioni allarmanti sulle rendite nobiliari. Sempre meno ricchi e sempre più indebitati,
i nobili cercavano,
è vero, di rivalersi sui conta-
dini, ma questo non aveva fatto altro che alimentare un risentimento diffuso che non contribuiva certo a rafforzare les présents de la damoiselle de Gournay, T. du Bray, Paris, 1641 (1° ediz., 1634), p. 241, citato in Maurice Magendie, La politesse mondaine et les théories de l’honnéteté en France au XVIE siècle, de 1600 à 1660, PUF, Paris, 1925 (2
tomi in 1 vol., Slatkine Reprints, Genève, 1970), tomo 1, p. 66.
1. Davis Bitton, The French Nobility in Crisis, 1560-1640, Stanford University Press, Stanford, Calif., 1969, Pa
i
Una certa maniera di vivere
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la loro posizione all’interno del regno. I contadini non erano, infatti, i soli francesi a contestare
i privilegi della no-
biltà. Per secoli, come compenso per le loro prestazioni militari, i nobili erano stati esentati dalla taille! Ma da più parti ci si cominciava a domandare se essi avessero ancora una funzione così rilevante nella difesa del Paese. Durante la guerra dei Cent'anni, con la creazione di grandi eserciti mobilitati in permanenza su vasti territori, anche molti roturiers avevano dimostrato di saper combattere valorosamente, mentre
l’istituzione nobiliare del dan et arrière-ban?
entrava in piena decadenza: i nobili apparivano sempre meno disposti a mobilitarsi quando il re lo richiedeva, e molti
di loro pagavano per essere sostituiti. Ed era cambiato il modo stesso di fare la guerra: non c’era più segregazione di classe nelle unità militari, e la nuova importanza assunta dalla fanteria, arma per cui la nobiltà provava disprezzo, aveva ridimensionato il ruolo della cavalleria, dove i nobili
davano tradizionalmente prova di sé. Né le cose andavano meglio nel pubblico impiego, vale a dire nel servizio del re, nelle corti di giustizia e nell’amministrazione locale e provinciale. La venalità delle cariche favoriva in tutti questi settori i plebei arricchiti, e nel 1604 l’editto ricordato come
«la Paulette» — che ne regolamentava le vendite e ne prefigurava l’ereditarietà — costituì un colpo durissimo alle rivendicazioni dei nobili. Eppure la loro strategia difensiva rimaneva incerta. Se si opponeva alla venalità delle cariche l’appartenenza di classe, si dovevano però fare i conti con il fatto che il denaro era anche all’origine dell’infiltrazione di un numero crescente di plebei nel corpo della nobiltà. L’usanza di innalzare degli uomini del Terzo Stato al rango nobiliare era sempre esistita, ma sotto Enrico IV il fenomeno
aveva assunto proporzioni mai raggiunte prima. Se poi si invocava il criterio del merito, bisognava prendere atto che molte delle cariche occupate dai borghesi nelle corti di giustizia richiedevano una cultura e una preparazione tecnica che ai nobili mancava del tutto. Probabilmente,
proprio la
consapevolezza di esser privi di una funzione sociale chiaramente riconoscibile, la difficoltà di dare una giustificazione razionale ai propri privilegi e la permeabilità della classe 1. L'imposta che era alla base del sistema fiscale francese dal Medioevo fino alla Rivoluzione.
2. La mobilitazione militare dei vassalli su ordine del re.
28
La civiltà della conversazione
nobiliare contribuirono a indurre la maggioranza dei nobili a non contestare, anzi a esaltare come un elemento di su-
periorità e di distinzione, la loi de dérogeance che interdiceva loro di partecipare agli affari e al commercio. Pallida consolazione davanti a una impasse tanto drammatica. C'era un’epoca, scriveva nel 1610 lo storico ed erudito Nicolas Pas-
quier a Enrico IV, in cui i nobili potevano aspirare a essere remunerati per i loro servizi ricevendo cariche di vario genere. Ma ora che tutte le cariche erano venali cosa mai poteva sperare un giovane gentiluomo?! In risposta a questi interrogativi, a queste incertezze, a queste difficoltà, l’ideologia nobiliare ridefiniva la propria appartenenza spostando l’accento dal valore, che non aveva più modo di esercitarsi pienamente, all’incontestabile purezza del lignaggio, dalla superiorità delle armi a quella del sangue. Tuttavia, per manifestarsi, anche la superiorità del li-
gnaggio aveva bisogno di un nuovo sistema di segni che andasse a rafforzare l’autorità declinante di quelli tradizionali. Da quando erano diventati oggetto di mercimonio tra la corona e gli uomini nuovi, i titoli, le cariche, le terre, i pa-
lazzi, i vestiti, 1 gioielli non potevano più indicare incontrovertibilmente l'appartenenza di diritto a una classe. Così, di fronte a un contesto storico inedito, in cui le prerogative tradizionali avevano perso i loro connotati di esclusività e le occasioni di farsi valere si erano ridotte ai caroselli e alle giostre, la nobiltà di spada avrebbe scelto di distinguersi sul terreno insidioso dello stile. D'ora in avanti sarebbe stato il modo di vivere, di parlare, di atteggiarsi, di divertirsi, di sta-
re insieme a conferire alle élite nobiliari l’incrollabile certezza della propria superiorità; sarebbero state le bienséan-
ces, il corpo di leggi non scritte, ma più potenti di qualsiasi norma, a fornire loro il banco di prova che un tempo era riservato alle armi. A questo punto ci si sarebbe potuti aspettare che la scena di questa metamorfosi dovesse essere il Louvre, dove i nobili detenevano ancora le cariche di rappresentanza più 1. Nicolas Pasquier, in @uvres d'Estienne Pasquier, 2 voll., Aux dépens de la Compagnie des Libraires associez, Amsterdam, 1723, vol. II, p. 1072, citato in Bitton, op. cit., p. 45.
Una certa mamiera di vivere
29
onorifiche. Non era nelle sue splendide piccole corti che l’Italia del Cinquecento aveva elaborato una civiltà delle buone maniere a cui era andata l'ammirazione di tutta l'Europa? La fortuna in terra d'Oltralpe dei grandi testi pedagogici italiani — il Galateo, il Libro del Cortegiano, La civil
conversazione— costituiva l’eloquente testimonianza della volontà francese di far propria quella lezione. E se si tornava indietro col pensiero al tempo dei Valois, come sarebbe accaduto sempre più sovente nel corso del secolo, la Francia non trovava a sua volta un esempio prestigioso di società di corte da prendere come modello nazionale? Morto Enrico IV e superati gli anni turbolenti e incerti della reggenza di Maria de’ Medici, la monarchia stessa non poteva rimanere indifferente all’insubordinazione, all’arroganza, alla violenza che continuavano a contrassegnare la condotta della nobiltà in tutto il Paese. Così, fin dal
suo ingresso sulla scena politica, Richelieu si propose di riportare ordine nello Stato e di ristabilire le forme di cortesia e di rispetto dovute al re e ai suoi ufficiali già ampiamente codificate dalla tradizione. Ma la sua missione edu-
cativa nasceva con un intento molto diverso da quello che ispirava l'élite nobiliare nel suo sforzo di autosublimazione.
Spazzando via le incertezze interpretative di un dibattito che risaliva al Medioevo sui confini tra la monarchia e l’ordine cavalleresco, tra il re e lo Stato, Richelieu fece in modo
che gli antichi codici di cortesia si trasformassero in uno strumento di coercizione e di controllo al servizio di una ideologia assolutista, e che i nobili, per primi, venissero imbrigliati dai mille lacci dell’etichetta. Il cardinal ministro era troppo consapevole della funzione simbolica dei segni
per ignorare che una grande monarchia doveva potersi rispecchiare nell’eleganza della sua lingua, nell’eccellenza delle sue istituzioni culturali e artistiche, nel prestigio della sua letteratura e, naturalmente, nello splendore della sua corte. Richelieu, come dimostra la sua politica economica,
non desiderava affatto privare la nobiltà del suo prestigio, a condizione che questo prestigio fosse il riflesso del presti gio del monarca. A condizione, insomma, che i nobili imparassero a essere cortigiani.
30
La civiltà della conversazione
Era dunque fatale, date queste premesse, che la nobiltà sentisse l'esigenza di ritagliarsi uno spazio di libertà, autonomo
dalla vita di corte, dove poter celebrare
soltanto se
stessa. Ed è in questo spazio nuovo, nella vita mondana, che il processo rigeneratore degli usi e costumi della società francese moderna prese l’avvio, non già sotto il segno dell’autorità ma del divertimento. Jean Starobinski ha posto l’accento sulla spinta ludica che è all’origine della dottrina classica della civilité francese. Nello sforzo di smussare la violenza dei rapporti quotidiani, le élite nobiliari avevano infatti scoperto che «il rifiuto convenzionale dell’eventualità aggressiva» poteva non soltanto rendere la vita meno pericolosa, ma produrre piacere. Così, scrive Starobinski, si era aperto «uno spazio protetto, uno spazio di gioco, un campo chiuso dove, di comune accordo, i partner rinunciano a nuocersi e attaccarsi,
sia per quel che concerne i rapporti usuali sia per ciò che riguarda l’amore. Se è concesso utilizzare qui una terminologia anacronistica, potremmo dire che l’idea dominante è quella di una massimizzazione del piacere: la perdita che la pulsione amorosa subisce sotto l’effetto della repressione e della sublimazione
è controbilanciata,
secondo
la teoria
dell’honnéteté, dall’erotizzazione dei rapporti quotidiani, della conversazione, dello scambio epistolare. La dottrina dell’honnéteté estetizza la “rinuncia pulsionale”».' Ma assai prima di approdare alle sue formulazioni teoriche e alle sue illustrazioni romanzesche, ancora confusa e incerta, la
quéte nobiliare di un nuovo stile di vita in cui riconoscersi pienamente trovò lo «spazio protetto» e ludico dove misurarsì per la prima volta, sotto la guida delle donne, con il
gioco complice ed esclusivo della mondanità.
1. Jean Starobinski, «Sur la flatterie », in Le remède dans le mal. Critique et légitimation de l’artifice a l’age des Lumières, Gallimard, Paris, 1989, pp. 61-62. LI
II LE FIGLIE DI EVA
Opera del pittore Jean Cousin, il primo nudo del Rinascimento francese (1540-1547 ca) sfida la curiosità dei visi-
tatori del Louvre
con
sovrana
indifferenza.
Ritratta
di
profilo, come in un cammeo antico, con lo sguardo fisso su qualcosa che è al di là del nostro campo visivo, la bellissima giovane che, allungata sul fianco destro, tiene il busto lieve-
mente sollevato in una posizione da triclinio, ci appare remota, inaccessibile. La sua candida nudità è protetta dal velo dell’enigma. La si potrebbe prendere per una raffigurazione di Venere, se un cartiglio sospeso sotto la volta dell’arco naturale che le fa da sfondo non recasse scritto a chiare lettere «Eva Prima Pandora». A ben guardare, infatti, nel quadro non v'è traccia né di putti alati, né di archi e faretre, e niente autorizza ad associare questo splendido corpo alle fantasie dell'amore. Il corredo simbolico della donna è decisamente inquietante. Il ramoscello di melo che ella tiene nella mano destra potrebbe, è vero, apparire innocente,
ma il gomito che le sostiene il busto sollevato
poggia su un teschio e il braccio sinistro è cinto da un serpente. Due eleganti urne cesellate costituiscono il solo, fu-
nereo arredo della grotta. Non Venere, dunque, ma Eva e Pandora abitano simbio-
ticamente questo nudo perfetto. Due tradizioni culturali,
D2
La civiltà della conversazione
quella mitologica classica e quella biblica, si congiungonoe si potenziano nel quadro di Cousin per mettere in guardia l’uomo del Cinquecento dalle insidie della bellezza femminile. La donna è fonte di tutti i mali, genera la vita ma anche la morte, porta con sé la devastazione e il peccato. Che la sua malizia sia più forte delle catene con cui la società tenta di disciplinarla, che la sua seduzione sia più potente degli interdetti che mirano a circoscriverne la sfera d’azione, sembrerebbe confermato, nel quadro di Cousin, anche
da un preciso riferimento storico. Formalmente vicina al bronzo con cui Benvenuto Cellini aveva celebrato sotto forma di ninfa cacciatrice Diane
de Poitiers, la Eva-Pandora
del Louvre potenzierebbe la misoginia metafisica del suo messaggio alludendo alla più scandalosa attualità, alla donna dell’epoca fra tutte fatale, alla potentissima amante del re di Francia. Per quanto sorprendente possa apparire, l’età moderna non aveva segnato un passo avanti ma piuttosto un regresso nella condizione femminile. Infatti, mentre sul piano sociale il ritorno al diritto romano, nettamente sfavorevole alle donne, ne indeboliva la posizione giuridica, sul piano reli-
gioso la grande partecipazione femminile alla vita spirituale e alle pratiche della carità e dell’assistenza, che si era espressa attraverso la fioritura degli ordini religiosi minori, era destinata a perdere i suoi caratteri di spontaneità e di autonomia: con la Controriforma non era più consentito alle donne di esplicare la loro vocazione religiosa nelle strade, fra la gente, né di organizzarsi in comunità e beghinaggi. Esse ormai potevano servire Dio solo nella clausura o nel ritiro dei conventi, sottoposte al rigoroso controllo spirituale del clero maschile. Profondamente radicata nel pensiero religioso, la misoginia aveva trovato nella riscoperta del pensiero antico un’autorevole conferma. Aristotele aveva teorizzato l’imperfezione congenita della natura femminile e, nella tradizione pitagorica, la donna appariva come l’aspetto lunare e tenebroso dell’universo in contrasto con i caratteri solari e positivi dell’uomo: una visione scientifica e filosofica della donna che si rivelava perfettamente coerente con l’antifemminismo teologico cristiano. Le figlie di Eva non distoglievano l’uomo solo dall’ordine razionale, ma anche da quello divino della
Le figlie di Eva
33
grazia e «avevano la forza del diavolo nei lombi».' La donna, insomma, era una forza negativa che bisognava domina-
re, ma la paura che essa suscitava era anche un modo di prendere atto della sua centralità nella vita sociale. All’alba del Seicento, tuttavia, controlli, divieti, sospetti non impedivano alle figlie di Eva-Pandora di ordire in Francia una nuova congiura che, nel giro di un secolo, le
avrebbe portate a conquistare un potere senza precedenti, destinato a rimanere unico nella storia d'Europa. L'Italia del Rinascimento aveva, è vero, fatto posto alle donne, tanto all’interno delle sue corti quanto nel mondo della prostituzione e dell’illecito, ma le aveva tenute lontane dalla vi-
ta della società civile. La presenza femminile sulla scena pubblica rimaneva estremamente controversa e si mascherava
dietro
formule
ambigue,
come
indica
l’espressione
«cortigiana onesta». Proprio la fortuna di questa definizione può essere indicativa. Nel Cortegiano (1528), il grande libro sulla civiltà di corte che sarebbe servito da modello di
comportamento alle élite europee, Baldesar Castiglione non faceva uso del termine «cortigiano » al femminile. Nel celebre trattato le donne,
che tanto contribuivano
con la
loro presenza a fare dei passatempi della piccola reggia di Urbino un’opera d’arte, venivano generalmente designate
con la perifrasi «dame di palazzo ». Castiglione infatti, non avrebbe potuto utilizzare l’espressione «cortigiana» senza incorrere in equivoci imbarazzanti. Già ai suoi tempi la parola designava, nella sua versione femminile, l’esatto rove-
scio dell’utopia di corte. Nella società italiana del Rinascimento, ad eccezione di pochi casi isolati come Giulia Gonzaga, Vittoria Colonna o Isabella d’Este, le sole donne a cui
era consentito fare pubblico sfoggio delle proprie qualità fisiche e intellettuali erano le prostitute. Quanto più esse si avvicinavano per raffinatezza, cultura ed eleganza all’ideale della «dama di palazzo » proposto da Castiglione, tanto più, prendendo le distanze dalle volgari meretrici, esse entrava-
no a far parte della superiore categoria sociale delle « cortigiane oneste ». La differenza sostanziale tra la « dama di palazzo» e la «cortigiana onesta» era, in fondo, una sola: la prima poteva giocare con l’amore a condizione di subli1. San Girolamo, Adversus Iovinianum, II, citato in Michel de Montaigne, Essais, libro terzo, cap. v [trad. it. Saggi, a cura di Fausta Garavini, 2 voll.,
Adelphi, Milano, 1992 (1° ediz., 1966), vol. II, p. 1144].
34
La civiltà della conversazione
marlo; la seconda, scegliendo di riportarlo sulla terra, di-
sponeva invece liberamente del proprio corpo come della propria anima. Entrambi i modelli rimanevano, comunque, in aperto contrasto con il costume delle classi sociali dominanti, che voleva il mondo
femminile nettamente
se-
parato da quello maschile e la sfera d’azione delle donne confinata alla vita privata. Nella Francia del Cinquecento, dove la Rinascenza era giunta con almeno mezzo secolo di ritardo rispetto all’Italia, il gentil sesso beneficiava in seno alla società aristocratica di un trattamento più liberale. Qui, per un’antica tradizione, a differenza dell’Italia e della Spagna, le donne non
vivevano isolate dagli uomini e non erano tagliate fuori dalla vita sociale; e, benché il loro ruolo sulla scena pubblica
fosse essenzialmente decorativo, non erano per questo delle escluse. Alcune grandi dame avevano animato dei veri focolai di cultura umanistica e la presenza femminile aveva dato un tangibile contributo allo splendore della monarchia dei Valois. Proprio durante il regno di Francesco I, come deplorava Fénelon, la corte, un tempo limitata alla ristretta cerchia dei familiari del re, aveva iniziato ad allargarsi e si era aperta in misura crescente alle donne. Le quali, con la loro bellezza, la loro eleganza, la loro grazia, erano destina-
te a presiedere tanto ai fasti cavallereschi quanto all’estremo naufragio di tutte le regole morali che avrebbero caratterizzato la lunga reggenza di Caterina de’ Medici. Erano madri, mogli, sorelle, amanti che, secondo un’antica tradizione, godevano, nel mondo chiuso della corte, di una li-
bertà e talvolta di un potere abusivi, basati sulla capacità personale di imporsi grazie alla persuasione e alla seduzione. A partire dai primi decenni
del Seicento,
tuttavia, la
presenza delle donne nella società francese cambiò di segno. Esse non furono più costrette a conquistarsi, volta per volta, un problematico spazio d’influenza al di fuori degli stretti confini della sfera domestica, ma assunsero la guida della vita mondana.
Sarebbero
state loro, d’ora in poi, a
dettar legge in fatto di buone maniere, di lingua, di gusto, di loisirs, a definire cioè i tratti più fortemente distintivi dello stile nobiliare. Era una rivoluzione spettacolare, ricca di conseguenze molteplici e destinata a caratterizzare la società francese fino alla fine dell’Antico Regime. Una rivolu-
Le figlie di Eva
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zione che i contemporanei celebravano come un processo purificatore e civilizzatore, ma di cui taluni osservatori co-
glievano immediatamente i rischi. Fin dall’inizio degli anni Quaranta Grenaille gettava l’allarme: la conversazione delle donne «ingentilisce gli uomini ... ma li rammollisce ».' Nel 1656, in anticipo di circa un secolo sul pariniano Gio-
vin Signore, in un dialogo a cinque voci di Sarasin, Sl faut que un jeune homme soit Amoureux, Ménage tratteggiava la caricatura di taluni petits-maîtres alla moda: «Li troviamo occupati a pettinarsi e a vestirsi come delle donne, e tutto questo con una mollezza a tal punto indecente che non solo ci sì può chiedere se siano uomini, ma se non siano a loro volta a caccia di altri uomini».? E Fénelon denunciava la gravità di un fenomeno molto più generale e più profondo, di cui Luigi XIV aveva dimostrato di saper fare buon uso politico: la devirilizzazione di una società basata sull’ozio e sui loisirs. «La mollezza» egli scriveva «toglie all’uomo tutto ciò che può far grandi le sue qualità. Un uomo molle non è un uomo; è una mezza donna». Esattamente cento anni dopo i sarcasmi di Ménage, nella celebre Lettre à d’’Alembert sur les spectacles, Jean-Jacques
Rousseau
poteva
tirare
le somme
della presa di potere del gentil sesso con un giudizio senza appello: la società parigina era diventata un mondo alla rovescia, dove i rapporti naturali tra uomo e donna apparivano totalmente sovvertiti. « Vilmente ossequiosi davanti alla volontà del sesso che dovremmo proteggere e non servire, abbiamo imparato a disprezzarlo obbedendogli, a oltraggiarlo con le nostre attenzioni irrispettose, e ogni donna a Parigi riunisce nel suo appartamento un serraglio di uomi ni più donne di quanto ella sia».' Si erano forse avverate le fantasie misogine elucubrate nei secoli da teologi e morali sti? Dopo avere irretito i discendenti di Adamo con le loro 1. Francois de Grenaille, L'honneste garcon, T. Quinet, Paris, 1642, p. 229, citato in Peter Burke,
The Art of Conversation,
Cornell University Press,
Ithaca, N.Y, 1993, p. 116. 2. Les Euvres de Monsieur Sarasin publiées par Ménage, Préface de Pellisson,
Augustin Courbé, Rouen, Paris, 1658 (2* ediz.), p. 176. 3. Lettres spirituelles de Fénelon, in uvres compltes, précédées par son histoire littéraire par M. Gosselin,
1851-1852
(Slatkine Reprints, Genève,
1971), lettera XXXIV, vol. VIII, p. 472.
4. Jean-Jacques Rousseau, Lettre à d’Alembert sur les spectacles, in (Euvres completes, a cura di Bernard Gagnebin e Marcel Raymond, 5 voll., Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard, Paris, 1995, vol. V, p. 93.
36
La civiltà della conversazione
arti diaboliche, le figlie di Eva-Pandora erano dunque riuscite a pervertirne la vera natura e a devirilizzarli per meglio ridurli in schiavitù?
È assai improbabile che la crescente influenza femminile nel contesto della vita mondana francese nascesse da un
consapevole progetto elaborato dal gentil sesso in antagonismo con l’autorità del potere tradizionale maschile. Dal punto di vista giuridico, religioso, morale la donna continuava a vivere in Francia, come nel resto dell'Europa, in condizioni di schiacciante inferiorità rispetto all'uomo. Sot-
tomessa prima all’autorità paterna, poi a quella maritale, ella non poteva disporre di sé, né veniva consultata sulle decisioni fondamentali
che determinavano
la sua esistenza.
La sola libertà che le veniva concessa era quella di rinunciare al mondo e rifugiarsi in convento; ma vi era anche chi, meno fortunata, non vedeva altra scelta che togliersi la vita. E anche l’affermazione delle donne sulla scena mondana,
lungi dall’essere il risultato di un colpo di mano, rifletteva in primo luogo gli orientamenti della cultura maschile.
Alla luce dei valori dell’antica tradizione feudale, la con-
dizione di oggettiva inferiorità del sesso debole poteva prestarsi a uno spettacolare ribaltamento. Proprio perché delicata, indifesa e bisognosa di protezione, la donna diventava, nella concezione
nobiliare
dell’onore,
la destinataria
per eccellenza dell’omaggio cavalleresco. Il costume era certo molto cambiato dai tempi delle medioevali « corti d’amore» ma, nel momento di ridefinire il proprio stile di vita
e il proprio codice di riconoscimento, la nobiltà francese ritornava idealmente alle sue origini, al culto reso alla donna
dalla civiltà cortese e alla recente riscoperta da parte delle
élite rinascimentali di quella concezione
neoplatonica e
idealizzante dell’amore come strumento di elevazione spirituale che, proprio in quegli anni, Honoré d’Urfé aveva scelto di illustrare con tanto successo nell’ Astrée. In contrasto
con l’antifemminismo tipico delle credenze popolari e con l’angusta morale del costume borghese, l’etica nobiliare si manteneva fedele a un modello femminile che non rappresentava una insidia verso il basso ma una sfida verso l’alto,
Le figlie di Eva
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che non era un richiamo agli istinti della natura ma un invito alla forza civilizzatrice della cultura. Nella tradizione del costume aristocratico, l'omaggio ostentato alla donna e la posizione di privilegio che le veniva riservata erano dunque, in primo luogo, un’importante occasione di verifica dell’onore virile e, al tempo stesso, un segno evidente di distinzione sociale. Mitizzata, riverita, adulata, la donna appariva come una componente irrinun-
ciabile del modello di vita nobiliare e come il trofeo più bello dell’orgoglio maschile. Dare nuova linfa a questa tradizione dopo l’imbarbarimento dei costumi seguito alle guerre di religione, e riattualizzarla nel quadro antifeudale di una monarchia centralizzata e moderna, presupponeva innanzitutto la collaborazione delle donne. Ma il mondo
femminile francese, ta-
gliato fuori dalle responsabilità politiche e civili e dall’insegnamento del sapere, aveva reagito al clima di violenza endemica del paese ripiegandosi su se stesso, chiudendosi en-
tro gli orizzonti della propria cultura. Gli uomini erano stati i primi ad avvertire il rischio di questo isolamento femminile che li privava di una dimensione gioiosa e ludica dell’esistenza. Ed è essenzialmente in nome di una concezione più esigente del piacere maschile che Montaigne auspicava uno scambio tra i due sessi basato sulla parità e sull’intesa: «Insegnamo alle dame a farsi valere, a stimarsi, a lusingarci e a ingannarci ... Chi non ha godimento se non nel godi mento, chi non vince che col massimo dei punti, chi non ama la caccia che nella presa, non gli si addice unirsi alla
nostra scuola ».! Il pensiero di Montaigne prefigurava il futuro. Presto uomini e donne della nobiltà francese si sarebbero addestrati insieme allo stesso gioco, il gioco della «galanteria».
Che
altro non era se non una «caccia» epurata da ogni violenza e priva del «godimento» della «presa», dove il valore maschile si misurava sull’ardore dell’inseguimento e quello femminile sulla capacità di sottrarsi ai desideri dell’inseguitore. Contrariamente a quanto pensava l’autore degli Essais, però, si trattava di un gioco in cui le donne non aveva-
no bisogno di essere istruite. Bastava solo che gli uomini lo consentissero ed esse erano pronte non solo a «farsi valere», ma a diventarne maestre. Tant'è che, appena qualche 1. Montaigne, Essais, cit., libro terzo, cap. v (trad. it. cit., vol. II, p. 107198
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La civiltà della conversazione
decennio dopo, i termini del problema proposti da Montaigne appariranno esattamente capovolti. Per convinzione pressoché unanime solo le donne avranno la capacità di insegnare l’arte della galanteria e delle buone maniere e di iniziare gli uomini alla vita di mondo.
In un bel libro dedicato all'educazione delle fanciulle nella società nobiliare francese di Antico Regime, Paule Constant ha illustrato i caratteri di una cultura femminile,
tramandata di madre in figlia, che preparava le fanciulle ad assumere con fierezza un destino immutabile, fissato dal sesso e dalla appartenenza sociale: «Il mondo, certo, è fatto
per gli uomini, che vi detengono il primato. Bisogna che le Damigelle vi consentano ... Ma imparano anche ad avere il loro posto tra gli uomini, a essere la dolcezza della loro vio-
lenza, la forza della loro debolezza. La differenza non agisce come esclusione ma è presentata loro come complementare e talvolta, a condizione che esse adempiano a tutti i loro doveri, come cruciale. Esse divengono allora detentrici della felicità, guardiane delle virtù, protettrici dei costumi, e per forza di cose padrone di questo mondo di cui gli uomini sono padroni ».! Prima ancora di appartenere a se stesse, le fanciulle della nobiltà appartenevano alle loro famiglie, ne conoscevano la storia e l’importanza, e compensavano la condizione di inferiorità del loro sesso con la superiorità del loro rango. L’educazione contribuiva a sviluppare nelle donne, fin da giovanissime, il sentimento dell’identità nobiliare. Nel suo dia-
rio di collegiale, iniziato nel 1773, quando aveva appena die-
ci anni, la piccola principessa polacca Hélène Massalska, allieva dell'istituto parigino dell’Abbaye-aux-Bois, registrava un dialogo intercorso tra la badessa, Madame
de Richelieu,
e Mademoiselle de Montmorency, un’educanda di nove anni. «Quando fate così vi ammazzerei » si era lasciata sfuggire la badessa spazientita dalla testardaggine della bambina. E questa, di rimando: «Non sarebbe la prima volta che i Richelieu divengono i carnefici dei Montmorency! ».? Avvenu1. Paule Constant, Un monde à I ‘usage des demoiselles, Gallimard, Paris, 1987,
Pie22: 2. Lucien Perey, Histoire d'une grande dame au XVIII siècle, la Princesse Hélène de Ligne, Calmann-Lévy, Paris, 1887, p. 76.
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ta un secolo e mezzo prima, la morte sul patibolo dell’illustre antenato voluta dal cardinale era un episodio ben inciso nella memoria della bambina e pronto a essere oggetto di una rivendicazione appassionata.
A casa come in convento, l’insegnamento impartito alle ragazze era scelto in previsione del posto che esse avrebbero occupato nel mondo. E questa educazione così fortemente contrassegnata dalla consapevolezza e dall’orgoglio dell’appartenenza sociale portava generalmente le demoiselles ad accettare con serenità un matrimonio
che, deciso a
loro insaputa, rispondeva alle ragioni del lignaggio e non a quelle del cuore. A dire il vero, a differenza delle ragazze borghesi, le fanciulle della nobiltà non avevano affatto l’abitudine di interrogare i loro sentimenti. Consultata dalla madre, Mademoiselle de Chartres acconsentiva serenamente a diventare principessa di Clèves, senza provare la mini-
ma inclinazione per il futuro marito. Il sentimento era un elemento improprio, se non ridicolo, e persino dannoso, in unioni dettate dalla ragione e finalizzate al rafforzamento del prestigio familiare, alla preservazione del patrimonio, alla perpetuazione del nome e della stirpe. E la gloria di entrare in un casato illustre fungeva da potente lenitivo anche per le unioni più sfortunate. Ma l’imperativo della posizione sociale e dell’integrità morale andava di pari passo, nel-
l'educazione delle fanciulle, con la messa in guardia dai pericoli del «mondo». Eccoci, dunque, davanti alla prima delle evidenti contrad-
dizioni che connotavano la condizione femminile nelle élite nobiliari e che avrebbero contribuito a fare delle donne le virtuose del paraître sociale. Sul piano religioso e morale, l’educazione delle fanciulle era incentrata sull’obbedienza, il pudore, la carità, il riserbo, il timore degli uomini e la messa
in guardia dalle passioni. E se, in una visione tradizionalmente misogina, le donne si caratterizzavano per la loro irrazionalità e la loro sessualità impura, la cultura femminile
pensava a se stessa in modo radicalmente diverso. Nelle stanze materne e negli spazi conventuali, generazione dopo generazione, le fanciulle potevano vivere per un numero variabile di anni l’utopia di una vita al femminile, casta e virtuosa
come quella proposta dal culto mariano: un’età dell’innocenza, a cui l’ingresso in società poneva fatalmente fine. Ep-
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pure tutti sapevano che quell’ingresso era necessario e andava preparato con cure infinite, perché le donne dovevano essere capaci di resistere alle lusinghe del mondo e da quel mondo ottenere, però, l'ammirazione e l’omaggio. Se molte erano le cure che venivano prodigate a fortificare l’anima in vista dei combattimenti che essa avrebbe dovuto sostenere, non meno attenzione era dedicata a plasma-
re il corpo e ad affinare la mente delle fanciulle. I busti, i corpetti, le stecche di balena, le lezioni di portamento e di
danza correggevano la natura troppo ugualitaria e ridisegnavano una silhouette inconfondibile, con il bacino stretto, le spalle sfuggenti, la schiena eretta, l'andatura sapiente: poiché gli imponenti vestiti da parata, gli strascichi chilometrici, le pettinature vertiginose esigevano un'arte dell’incedere che richiedeva una lunga preparazione. Per le donne della nobiltà, tuttavia, l’obbligo di «apparire» non si limitava alla messa in scena del corpo e all’eleganza dei gesti, ma implicava ugualmente l’arte della parola. Anche in questo caso l’apprendistato risaliva agli anni della fanciullezza, alla purezza della lingua materna, a un sistema di trasmissione della cultura femminile essenzialmente orale, al gusto delle conversazioni pedagogiche. Rimaneva il problema di che cosa dire. Le conoscenze delle donne erano limitate e ogni personalizzazione del discorso pericolosa. Bisognava evitare di «distinguersi», perché l’identità sociale veniva prima di quella individuale e perché le parole erano insidiose: «Qualsiasi forma di distinzione attira l’attenzione degli uomini, la loro attenzione dà luogo a dicerie e queste, a seconda che siano piacevoli o spiacevoli, lusingano o feriscono la vanità, generando così una tentazione capace di indurci in svariati errori ».! Esisteva però un linguaggio comune ai due sessi, un linguaggio del corpo come dello spirito, della voce come dei gesti; un linguaggio capace di risolvere, almeno sul piano della forma, la prima delle grandi contraddizioni a cui doveva far fronte la donna, chiamata a con-
sacrarsi a Dio e a vivere nel mondo, a darsi in spettacolo e a non concedere niente di sé. Questo linguaggio era quello della politesse, e il gentil sesso se ne sarebbe servito come di un segno della propria appartenenza nobiliare, come scudo della propria reputazione, come misura del proprio merito. 1. Pierre Nicole, Lettres choîsies, .F.Bronkart, Liège, 1706, lettera III, p. 15, citato in Constant, op. cit., p. 233.
Le figlie di Eva
44
Scritta per una donna dell’alta nobiltà chiamata a vivere nel mondo, l’ Introduction à la vie dévote di Saint-Francois de
Sales si proponeva, già agli inizi del XVII secolo, di spingersi oltre e di fare della politesse un’arte cristiana. Fino ad allora, egli scriveva, «quanti hanno trattato della devozione hanno per lo più a cuore l’istruzione delle persone che hanno rinunciato a ogni rapporto con il mondo, o quanto meno hanno insegnato una sorta di devozione che porta a una simile rinuncia totale ».' Ma era giunto il momento di prendere atto che per molti quel «commercio» appariva una scelta inevitabile e che le donne andavano aiutate a viverlo non in antitesi ma in armonia con la loro fede religiosa. Le manifestazioni della politesse, «il volto e le parole adorni di gioia, di gaiezza e di cortesia», potevano allora diventa-
re espressione dell’anima e testimonianza eloquente della presenza di Dio. Destinata a una grande fortuna, l’ [ntroduction non si limitava a legittimare, sul piano della religione, la partecipazione attiva delle donne alla vita nel mondo, ma
contribuiva a caratterizzare questa vita con gli attributi delle virtù femminili. Tutto predisponeva, dunque, le donne ad avere un ruolo
importante nel rafforzamento dell’identità nobiliare: i loro valori e le loro virtù erano al servizio di una cultura di casta,
e complementari a quelle eroiche e guerriere del mondo virile. Ma poiché i tradizionali valori maschili erano entrati in crisi, le donne si trovavano improvvisamente al centro della ribalta per due diverse ragioni: perché l’ossequio cavalleresco che veniva tributato loro era un gesto consapevole di fedeltà all’antico costume feudale in polemica implicita con il presente; e perché valori tradizionalmente femminili come la politesse assumevano ora, nel processo di ridefinizione dello stile di vita nobiliare, una importanza centrale anche per gli uomini. Alle donne fu dunque concesso di assumere il controllo del nuovo spazio sociale creatosi a metà strada tra la sfera ufficiale della corte e la sfera propriamente domestica delle 1. Saint-Francois de Sales, Introduction à la vie dévote (1609), Prefazione, in @uuvres, a cura di André Ravier, Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard, Paris, 1969, p. 24.
2. Ibid., p. 201.
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La civiltà della conversazione
residenze private. Uno spazio i cui confini dovevano essere oggetto di una sorveglianza continua e la cui autonomia andava protetta tanto dalle pressioni indebite del mondo esterno quanto dai disordini interni del cuore. Destinato a esercitarsi su un terreno estremamente mutevole e insidioso, questo nuovo
prestigio femminile
non
era esente da ambiguità. La sua autorità riposava su semplici convenzioni e seguiva scelte pressoché obbligate. Ci si poteva chiedere se fosse in ragione della loro eccellenza o della loro debolezza che le donne avevano diritto all’omaggio degli uomini. Fatto sta che nel nuovo contesto culturale la loro fragilità poteva rivelarsi un elemento di forza e i loro svantaggi di partenza occasioni inattese di farsi valere. Prima
ancora
che un
elemento
di distinzione
sociale, l’uso
corretto delle bienséances, ad esempio, rappresentava per il gentil sesso un’arma di difesa: poiché solo le regole di comportamento consacrate dall’uso potevano mitigare la condizione di inferiorità giuridica delle donne, esse ne erano
diventate le più fedeli custodi. Abituate così a mantenersi in delicato equilibrio fra costume e legge, ad affidare il proprio prestigio e la propria reputazione alla capacità di farsi interpreti di quella che oggi chiameremmo la sensibilità collettiva della loro casta, le donne della nobiltà avevano ac-
quisito un’arte consumata delle sfumature che le portava naturalmente a eccellere nel gioco mondano.
In uno dei dialoghi delle Femmes illustres, Mademoiselle de Scudéry denunciava senza mezzi termini le condizioni di ignoranza in cui erano tenute allora le donne: «Coloro che hanno delle schiave le fanno istruire per il proprio tornaconto, e coloro che la natura o le usanze ci hanno dato per padroni vogliono soffocare, nella nostra anima, tutti i lumi
datici dal Cielo e che viviamo nelle gnoranza».' Un secolo di successi mutato questa situazione di fondo. ne sarebbe lamentata con profonda
più fitte tenebre dell’ifemminili non avrebbe Madame du Deffand se amarezza nella sua cor-
rispondenza con Voltaire e con Walpole; e, ancora nel 1771, in una bellissima lettera all’abate Galiani, Madame 1. Mademoiselle de Scudéry, «Sapho à Erinne», Vingtième harangue, in Les femmes illustres ou les Harangues héroiques (1642), Prefazione di Claude Maignien, Còté-femmes éditions, Paris, 1991, Pallo9!
Le figlie di Eva
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d’Epinay avrebbe ripreso con vibrante indignazione la denuncia di Mademoiselle de Scudéry: «... Sono molto ignorante, ecco il punto. Tutta la mia educazione si è concentrata su ciò che poteva rendermi gradevole ... La reputazione di una donna di spirito mi sembra una beffa inventata dagli uomini per vendicarsi del fatto che generalmente le donne hanno più spirito di loro. Tanto più che a questa qualifica si associa quasi sempre l’idea di una donna istruita, e la più istruita delle donne non ha e non può avere che conoscenze estremamente superficiali ... Sostengo dunque che una donna, per il fatto di essere donna, non ha la pos-
sibilità di acquisirne di abbastanza vaste per essere utile ai propri simili, e mi sembra che solo di quelle sia ragionevole menare vanto. Per poter fare uso utilmente delle proprie conoscenze, di qualunque genere esse siano, bisogna poter
unire la pratica alla teoria: senza di ciò si hanno solo delle nozioni imperfette ... Una donna, quindi, ha torto e si espone solo al ridicolo quando esibisce il proprio sapere o il proprio spirito e crede di poter difendere questa sua reputazione; ma ha più che mai ragione di voler apprendere il maggior numero di conoscenze possibili. Ha più che mai ragione, espletati i doveri di madre, figlia e sposa, di dedicarsi allo studio o al lavoro, perché questo è un modo sicuro di bastare a se stessa, di essere libera e indipendente, di
consolarsi delle ingiustizie della sorte... ».' Eppure queste spesse tenebre dell’ignoranza dovevano rivelarsi estremamente feconde per gli orientamenti della lingua e della letteratura francesi. Proprio perché le donne non ricevevano un’educazione umanistica, il loro francese limpido e naturale, esente dalle
volgarità dell’eloquio popolare come dai tecnicismi dei dotti, assurgeva, nel grande dibattito sulla lingua, a model lo di tutta la nazione. Da quando Francesco I aveva fatto del francese la lingua ufficiale dell’amministrazione reale e delle corti di giustizia, il problema di una lingua nazionale capace di illustrare pienamente la gloria del regno aveva appassionato le co1. Madame d’Épinay all’abate Galiani, 4 maggio 1771, in Ferdinando Galiani, Louise d’Epinay, Correspondance, a cura di Georges Dulac e Daniel Mag-
getti, 5 voll., Desjonquères, Paris, 1992-1997, vol. II, pp. 24-26.
44
La civiltà della conversazione
scienze. Ma perché il francese riuscisse a uguagliare il prestigio del latino e a prendere il suo posto nel mondo del sapere e delle lettere bisognava potenziarne i caratteri «naturali» o latinizzarlo attraverso una dotta assimilazione, una mimesi sapiente dei modelli antichi? All’inizio del XVII secolo, quando la Francia conquistava l’orgogliosa certezza di aver
soppiantato
quando realtà
in Europa
il primato
culturale
italiano,
la translatio studiorum francorum era ormai incontestabile,
la fierezza
gallica non
nutriva
una più
dubbi: il francese doveva preservare la propria purezza, rifiutando
ornamenti
che gli erano
estranei,
e realizzare
pienamente la propria vocazione di lingua universale. Per primo Malherbe affrontava il problema, non solo sul piano della lingua scritta ma su quello della lingua parlata. Nonostante il suo amore per i classici, egli pensava che la musicalità di una lingua non potesse essere il frutto di un’operazione archeologica e andasse cercata nella pratica viva delle élite,
e innanzitutto
nelle conversazioni
delle donne,
cre-
sciute al riparo dalle influenze corruttrici del mondo. La sua riforma non coinvolgeva soltanto una piccola cerchia di specialistie savants, ma faceva appello alla nobiltà di corte: il poeta «E riuscito a far condividere la sua preoccupazione per la lingua a tutto un ambiente caratterizzato dall’oralità ... Da quel momento,
in Francia, l’arte della conversazione
diventa inseparabile dalla delicatezza quasi musicale e dalla curiosità più puntuale rivolta all’enunciazione orale della lingua. Le donne, “ignoranti” quanto i facchini, hanno un orecchio ancora migliore per giudicare questa musica e per suonarla ».' Da Vaugelas a Bouhours a La Bruyère, la cultu-
ra ufficiale riconoscerà quasi unanimemente alle donne — proprio in virtù del fatto di non aver studiato, di non conoscere altra lingua che la propria — una competenza linguistica superiore a quella degli uomini. Ma questo singolare paradosso ne implicava uno ancora più grande. Con l'avvento al potere di Richelieu, la promozione della lingua reale iniziata da Malherbe diventava uno dei punti chiave della politica culturale della monarchia. Questa aveva bisogno di un francese moderno ed elegante, che per1. Marc Fumaroli, «Le génie de la langue francaise», in Troîs institutions littéraires, Gallimard, Paris, 1986, pp. 2683-69 (42 Salotto, l'Accademia, la Lin-
gua. Tre istituzioni letterarie, trad. it. di Margherita Botto, Adelphi, Milano, 2001, p. 280).
Le fighe di Eva
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mettesse la nascita di una grande letteratura nazionale, che
consentisse alla società di corte di illustrare con la sua raffinatezza la magnificenza del sovrano, e potesse imporsi come lingua egemone in tutta l'Europa. Ma l'istituzione delle
accademie,
a cominciare
dall’Académie
francaise,
chiamata appunto a vigilare sulla purezza della lingua, e il nuovo mecenatismo di Stato, lungimirante sistema di promozione e di controllo della vita culturale messo in opera da Richelieu, non sarebbero bastati a realizzare questo pro-
getto grandioso. Per renderlo operante c’era bisogno, come aveva mostrato Malherbe, della collaborazione di una società civile capace di far propria, in totale libertà, la rivoluzione della lingua. Così, senza rendersene conto, l’élite nobiliare che, nel prendere le distanze dalla corte, aveva
fatto dell’arte della parola uno dei segni distintivi della propria identità di casta, contribuiva in modo
decisivo al suc-
cesso della politica culturale dell’odiato cardinal ministro. E le donne, che lo Stato e la Chiesa condannavano
all’ob-
bedienza e all’ignoranza, acquisirono di fatto l’autorità di dettar legge sulla prima delle istituzioni su cui poggiava lo Stato, vale a dire la lingua. Ma non basta. Poiché le donne erano tagliate fuori dalla cultura aulica e chiedevano in primo luogo alla lettura svago e divertimento, esse formavano un nuovo importante pubblico di cui gli scrittori imparavano rapidamente a tener conto. Su loro richiesta prendeva forma un’ampia letteratura di intrattenimento. Si trattava di generi minori, destinati a riempire gli ozi della vita mondana, come le questions d’amowr, i ritratti, gli aforismi, le lettere, i romanzi. Di-
vertimenti femminili che i dotti disdegnavano e gli uomini di Chiesa condannavano, ma che a lungo andare si sarebbero rivelati altrettanti punti di forza della tradizione letteraria francese. Se le donne incidevano sugli orientamenti della cultura moderna per quello che non sapevano, dovevano in compenso nascondere accuratamente quello che sapevano. Le bienséances aborrivano la «pedanteria» femminile e puntavano sulla giocosità e sulla galanteria. Ma anche la regola generale di questo gioco imponeva alle donne autocontrollo e dissimulazione: bisognava piacere e insieme negarsi, sedurre e non lasciarsi conquistare. Ancora una volta, per ri-
spondere alle esigenze specifiche della sua condizione, il gentil sesso era costretto a eccellere in un’arte complessa
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La civiltà della conversazione
dell’apparire che sarebbe stato il banco di prova di un’intera società. I requisiti femminili della seduzione, del disimpegno e della leggerezza altro non erano che le regole generali dell’ honnétete.
Il prestigio crescente delle donne e l’importanza che esse erano andate assumendo all’interno della vita mondana dovevano fatalmente portare entrambi i sessi a interrogarsi ancora una volta sui caratteri specifici della natura femminile e sulla sua legittima sfera d’azione. Se nella prima metà del XVII secolo si registrava una recrudescenza delle vecchie prese di posizione che caratterizzavano fin dal Medioevo la Querelle des femmes, l’Introduction à la vie dévote di Saint-Frangcois de Sales cambiava totalmente di prospetti va, come abbiamo visto, teorizzando la compatibilità fra vita
devota e vita mondana e chiedendo alle donne di testimoniarla con la propria condotta. Moralisti e uomini di Chiesa prendevano atto di questa rivoluzione, che investiva la donna di una missione
spirituale in seno
alla società civile e,
senza frapporre indugio, sì affrettavano a istruirla all’alto compito. Di questa urgenza la letteratura precettistica dell’epoca costituisce una testimonianza eloquente. Sull’onda dell'esempio italiano del secolo precedente, si assiste in Francia a una grande fioritura di trattati di buone maniere. Il primo e più importante, L’honneste homme ou l'art de plaire à la cour di Nicolas Faret, che, pur ispirandosi al grande libro di Castiglione, non insegnava più al suo cortigiano come eccellere a corte, ma come
riuscire a farvi carriera, ap-
pariva nel 1630, inaugurando la vastissima letteratura sull’honnéteté. Solo due anni dopo anche il gentil sesso veniva dotato, con L’honneste femme di Jacques Du Bosc (16321636), di un suo specifico manuale di condotta, in attesa che Grenaille si rivolgesse in modo ancora più mirato all’Honneste fille (1639-1640) e all’ Honneste veuve (1640). Non
si può non
rilevare,
tuttavia,
che
il richiamo
al-
l’honnéteté poteva assumere una valenza diversa a seconda del sesso a cui era diretto. Per l’uomo l’honnéteté era un ideale di comportamento sociale assolutamente laico, mentre per la donna esso era inseparabile dai valori religiosi della devozione, della pietà e della castità.
L'arte di piacere a corte è una delle principali preoccupazioni dell’ honnéte homme, ma non è quanto si chiede alla
Le figlie di Eva
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sua controparte femminile. Il suo ruolo nella vita di società è essenzialmente passivo, e la sua condotta obbedisce a nor-
me di comportamento molto più rigide di quelle prescritte all’ honnéte homme. I maestri di morale le raccomandano, piuttosto, di vigilare sul suo onore e sulla sua reputazione, e
di opporsi alla galanteria. Nella nuova realtà della vita mondana,
le donne
erano,
però, tutt'altro che propense a dare ascolto a questi consigli e ad attenersi a un ruolo «passivo», almeno in fatto di gusto e di divertimenti. Su loro richiesta, nei salotti si sarebbe conversato, scritto, rimato (e lo si sarebbe fatto in modo inatteso, leggero, rapido, brillante, galante) soprat-
tutto di psicologia e di casistica amorosa: i due argomenti in cui l’intelligenza femminile
poteva eccellere senz’altra
preparazione che la sensibilità, l’intuito e l’uso di mondo. Sconfitta ma non rassegnata, la Chiesa avrebbe continuato
ad ammonire contro le insidie del gioco e dell’immaginazione, senza tuttavia riuscire ad aggiornare le sue vecchie argomentazioni, rese desuete dall’evoluzione del costume nobiliare. Un nuovo e assai più temibile attacco sarebbe invece venuto alle donne delle élite proprio da coloro che esse si erano abituate a considerare come complici dei loro loisirs. Per i savants, infatti, il santuario della vera letteratura
era seriamente minacciato dal crescente potere di un gusto femminile superficiale e frivolo, sprovvisto finanche dei primi rudimenti della cultura umanistica, inadatto a capire la bellezza, la grandezza e la verità della ricerca artistica. E,
negli anni che seguirono alla Fronda, una certa ostilità serpeggiava anche tra gli scrittori mondani che erano costretti a far fronte, non senza fastidio e gelosia, a un nutrito drappello di donne venuto a cimentarsi nell’agone letterario con raccolte di versi, tragedie, racconti, romanzi. Nessuno, tuttavia, nel mondo delle lettere, poteva per-
mettersi il lusso di ignorare che il gusto femminile era diventato determinante nel decretare il successo di un’opera, nel consacrare la reputazione di un autore, nell’orientare
la produzione letteraria.
E non erano solo pennivendoli
senza scrupoli a coltivare il nuovo pubblico di lettrici. Nel 1637, per poter essere letto anche dalle donne, lo stesso Descartes decideva di scrivere il suo Discours de la méthode in francese anziché in latino, e di rinunciare a trattare a fondo
il troppo difficile problema dell’esistenza di Dio. E non era tutto. Non paghe di influenzare così tirannicamente il mon-
48
La civiltà della conversazione
do delle lettere, alcune di loro avanzavano nuove pretese e aspiravano a rimodellare la vita a immagine della letteratura. E intorno
alla metà del secolo, con
l’entrata in scena
delle Preziose, la condizione femminile diventava per la prima volta oggetto di una riflessione sistematica da parte di un gruppo di donne. Per la prima volta non erano più gli uomini
a studiare, interpretare,
dirigere l’altro sesso, ma
era quest’ultimo a dichiarare ad alta voce ciò che era e come voleva essere trattato. L’evidente forzatura delle convenzioni
del gioco
mondano
era,
però,
l’occasione
che
molti attendevano per un regolamento di conti. Non più protette dal codice delle bienséances, le colpevoli convogliavano sulle loro teste un risentimento che accomunava esponenti del mondo della Chiesa, della politica e delle lettere, contro il potere esercitato in tutti questi campi da una élite femminile troppo in alto nella piramide sociale per poter essere criticata apertamente. Spogliate di ogni individualità, ridotte a tipologia, le Preziose si vedevano così esposte senza difesa non solo alla satira di autori mediocri, ma al
genio satirico di Molière e alla misoginia di Boileau e di La Bruyère. Quale migliore occasione per gli scrittori schierati con gli Antichi di irridere la cultura femminile che a loro aveva preferito i Moderni? A partire dal 1620, per oltre un ventennio, prima che le Preziose mettessero a punto un modello femminile contraddistinto dalla delicatezza, uno stuolo di eroine, di amaz-
zoni a cavallo, cinte di corazza e cimiero e con la spada in pugno, facevano il loro ingresso nella iconografia e nella letteratura. La loro origine poteva essere pagana o cristiana, mitologica o storica, ma il loro ritorno in scena era il frutto dell’iniziativa e della fantasia maschili. Il messaggio di questo spettacolare corteo è difficile da decifrare ed è inevitabile chiedersi se mirasse a rinnovare l’immagine tradizionale del sesso debole o si limitasse a rivisitare vecchi stereotipi dimenticati. Non è un caso, però, che negli anni della reggenza di Anna d’Austria (1643-1652) due uomini di Chiesa, il gesuita Le Moyne e il frate francescano Du Bosc,
celebrassero l’archetipo della femme forte. Tre regine che, in meno
di un
secolo,
avevano
governato
la Francia
in no-
me dei loro giovani figli e la spettacolare partecipazione di alcune grandi dame ai moti della Fronda erano lì a dimo-
Le fighe di Eva strare come
49
all’occorrenza le donne non mancassero
di
virtù virili. Casi eccezionali, certo, richiesti da situazioni straordinarie, che non rimettevano in discussione la norma, ma che smentivano i luoghi comuni della tradizione
antifemminista, poiché non si poteva accusarle né di incostanza, né di indolenza, né di ipocrisia, né di nessun
altro
dei vizi comunemente imputati alle donne. Pari agli uomini, anzi a essi superiori per bellezza e carità, le amazzoni vir-
tuose di Le Moyne e Du Bosc dovevano però essere in primo luogo cristiane e caste: la loro eccezionalità non le emancipava dagli obblighi delle donne comuni e la loro azione non poteva discostarsi dai dettami della Chiesa. Ma anche questo nobile modello era estraneo alla mentalità dominante che vedeva semmai nella donna un’occasione e un incitamento all’eroismo maschile. E in ogni caso regine,
principesse, «avventuriere » della Fronda erano lì a smentire con i fatti la figura vagheggiata di un’amazzone compassionevole e pia. Due preoccupazioni costanti e non sempre concordi sembrano caratterizzare lungo tutto il Seicento la vasta produzione letteraria a favore delle donne: per imporsi al rispetto degli uomini, per omologarsi a loro, esse dovevano o brillare per le loro qualità morali o dare prova di un perfetto uso di mondo. Pieni di buone intenzioni i Le Moyne, i Du Bosc, i Grenaille volevano dimostrare la parità dei due
sessi, ma rimanevano prigionieri delle contraddizioni interne di un discorso che si manteneva ossequiente alle regole dell’ordine e del conformismo sociale. Ma anche se nel 1673 Poullain de La Barre! aveva l’audacia di riconoscere alle donne le stesse capacità intellettuali degli uomini, negli anni Sessanta, a cominciare dall’apparizione delle Preziose, si faceva sempre più strada nel gentil sesso la convinzione che il valore della donna risiedesse nella sua differenza e non nella sua uguaglianza rispetto all'uomo. È quantunque questa differenza potesse anche dar luogo a rivendicazioni e conflitti, essa costituiva uno
dei connotati irrinunciabili
della civiltà mondana. Cavalleria, galanteria,
honnéteté erano,
infatti, ideali im-
possibili al di fuori di un’intesa profonda tra i sessi. La nobiltà e l’eleganza del modello di vita aristocratico francese 1. Nel De l’égalité des deux sexes, discours physique et moral où l’on vott l'importance de se défaire des préjugéz, Jean Du Puis, Paris, 1673.
50
La civiltà della conversazione
nascevano da una sfida congiunta. Fieri delle loro differenze, ricchi delle loro diverse esperienze, uomini e donne fu-
rono uniti dalla stessa passione per la vita di società. Per essa si mostrarono disposti a sacrificare i sentimenti indivi duali più violenti, talvolta anche le aspirazioni più profonde, e ricevettero in cambio diritto di cittadinanza in un mondo
di piacere, di divertimento, di svago. Un mondo
di
affini, dove bellezza e valore procedevano nuovamente associati e dove le uniche leggi che ispiravano rispetto erano quelle fissate nell’intesa comune.
«E solo frequentando le dame che si acquisisce quell’aria di mondo, quella politesse che nessun consiglio né alcuna lettura possono conferire ».' Alla fine del Seicento, anche l’abate di Bellegarde, prolifico autore di manuali di buone maniere, si mostrava disposto ad ammettere che la frequentazione delle donne fosse pedagogicamente più efficace dei libri specializzati. A_ partire da Madame de Rambouillet, le donne dell’alta società assumevano,
infatti, una
funzione educativa che, di generazione in generazione, al di là di tutte le differenze, avrebbe costituito il più importante banco di prova e la verifica più significativa del loro successo. A distanza di una ventina d’anni dalla «incomparabile» Arthénice, vediamo
Madame
de Sablé ricevere un
omaggio che si era creduto irripetibile: «Mai nessuno ha portato la politesse a un più alto grado di perfezione ».° Simili attestati verranno conferiti, a intervalli regolari, fino alla
fine dell'Antico Regime. Il ritratto che il duca di Lévis ha tracciato della marescialla di Luxembourg non lascia dubbi. Insegnando alle nuove generazioni l’arte delle buone maniere, la grande dama aveva assolto, ultimo esempio glorioso della sua epoca, a una missione civilizzatrice che inve-
stiva ormai tutta la Nazione: poiché la politesse aveva cessato da tempo di essere solo un fattore di distinzione sociale ed era diventata un tratto caratteristico dell’identità culturale francese. «Con l’aiuto di un nome illustre, di molta audacia
e soprattutto di una grande casa ospitale, era riuscita a far 1. Jean-Baptiste Morvan de Bellegarde, Ré/lexions sur la politesse des murs, in (Euvres diverses, 4 voll., Robustel, Paris, 1723, vol. II, p. 621. 2. Nicolas d’Ailly, Préface aux Maximes de Madame la marquise de Sablé et pensées diverses de M.L.D., Sebastien Marbre-Cramoisy, Paris, 1678, p. 6.
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Le fighe di Eva
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dimenticare una condotta a dir poco leggera e ad affermarsi come arbitra sovrana del bon ton, delle buone maniere e
di quelle forme che costituiscono il fondamento della politesse. L'autorità che esercitava sui giovani di entrambi i sessi era assoluta; metteva un freno alla sventatezza delle fanciulle, le obbligava a essere civettuole con tutti, costringeva i
giovani al ritegno e alla gentilezza; manteneva vivo, insomma, il fuoco sacro dell’urbanità francese. Nella sua casa si conservava intatta la tradizione delle maniere nobili e di-
sinvolte che l’Europa intera veniva ad ammirare a Parigi e che cercava invano di imitare ».!
Vestali di un patrimonio di segni che fungevano da codice di riconoscimento di un’intera élite, garanti, con la loro
semplice presenza, della purezza della lingua e della delicatezza dei modi, le donne della nobiltà sembravano schierate
dal lato della continuità e della tradizione. Eppure l’acquisizione delle bienséances non era una trasmissione meccanica,
ma un processo conoscitivo, un rito iniziatico che dipendeva dalle attitudini, dalla sensibilità individuale;
e non
era
neanche necessariamente legato alla nascita. Basata sul doppio principio della cooptazione e dell’esclusione, l’arte mondana poteva prestarsi tanto a fungere da baluardo dell’identità nobiliare quanto a servire da strumento di ascesa sociale. Sotto la spinta di questa doppia dinamica prendeva inizio uno spettacolare inseguimento. Studiato, copiato, interiorizzato, il modello di comportamento aristocratico di-
ventava oggetto di una imitazione costante da parte degli esponenti più intraprendenti e ambiziosi delle élite borghesi. Ma ogni qualvolta l’obiettivo sembrava vicino e il processo mimetico pareva giungere a compimento, il codice di riconoscimento aristocratico modificava lievemente i suoi segni. Nell’abbigliamento come negli svaghi, nelle infatuazioni intellettuali come negli atteggiamenti più frivoli, nuove mode venivano a cambiare le regole del gioco e a ristabilire le distanze fra gli eletti e gli esclusi, fino al momento in cui le capacità di adattamento di questi ultimi imponevano la necessità di ricominciare il ciclo. Se spirito di emulazione, profusione di mezzi, lezioni di comportamento e di danza, 1. Souvenirs-Portraits du Duc de Lévis (1813), a cura di Jacques Dupaquier, Mercure de France, Paris, 1993, p. 101.
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La civiltà della conversazione
studio della letteratura precettistica e lettura dei romanzi alla moda non bastavano in generale a garantire l’omologazione, vi era però per taluni la possibilità di acquisire i modi e lo stile del gentiluomo attraverso la pratica viva delle dienséances e la partecipazione diretta alla vita di mondo. E questa esperienza iniziatica aveva come mezzo e come fine, come luogo di formazione e come meta, come tribunale e co-
me palcoscenico, il regno femminile dei salons. Investite dell’autorità di presiedere alla cerimonia mondana e di decidere del diritto di ciascuno a prendervi parte in base a qualità come
l’amabilità, la raffinatezza, l’esprit, le
donne venivano così a esercitare una notevole influenza sulla definizione dei confini della vita nobiliare. Ma nel fare del comportamento il segno distintivo della propria identità sociale, la nobiltà francese aveva lanciato una sfida pericolosa. Spostando il criterio di appartenenza dalla nascita al merito, identificando quest’ultimo con i valori della cultura mondana e affidandone alle donne la diffusione e il controllo, l’élite nobiliare sembrava tradire l’antico spirito di casta, rinunciare alla convinzione della propria superiorità
genetica e accettare di mescolarsi con gente venuta dal basso. Lo spazio ludico dei salotti poteva allora apparire come un luogo contraddistinto dalla confusione dei ranghi e da un’allarmante mobilità sociale, e rappresentare una minaccia tanto per la stabilità dei valori della tradizione nobiliare quanto per quelli dell’etica borghese. E poiché l’elemento più rilevante della nuova commedia mondana era il ruolo di primo piano tenutovi dalle donne, furono esse a fungere da capro espiatorio di un conflitto ideologico che andava ben oltre i confini di una discussione sull’identità femminile. E precisamente in questa prospettiva critica che una studiosa americana, Carolyn C. Lougee, ha analizzato la nuova ondata di antifemminismo abbattutasi sul gentil sesso a partire dalla seconda metà del XVII secolo. Ed è significativo che la discussione non vertesse più tanto sulla natura della donna quanto sul posto che le competeva nella società. Se ci si prendeva gioco delle sue ambizioni mondane, delle sue
aspirazioni culturali, delle sue esigenze di cortesia, di urbanità, di galanteria, se la si richiamava ai doveri domestici, al
riserbo, all’obbedienza, era proprio perché tutte queste ridicole pretese rappresentavano altrettante minacce alla forza della tradizione,
all’autorità del costume,
alla stabilità
dell’ordine sociale. La concezione cristiana del matrimonio
Le figlie di Eva
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era snaturata dal progressivo affermarsi, sotto il velo dell’ideale, della pratica extraconiugale dell'amore galante; i criteri di valutazione femminili premiavano le nuove virtù promosse dalla cultura mondana, anteponendole a quelle che la nobiltà trasmetteva col sangue. E mentre l’autorità pedagogica attribuita alle donne e la loro capacità di «creare i gentiluomini» le rendevano arbitre della composizione sociale dei salotti e in massima misura responsabili della mescolanza dei ranghi, la loro aspirazione al lusso e ai loisîrs omologava la cultura aristocratica a quella borghese e provocava danni irreparabili sia all’uno che all’altro ordine sociale. Proprio attraverso l’analisi dell’estrazione sociale delle dame i cui nomi figurano nel Grand dictionnaire des Prétieuses di Somaize! — vale a dire dei personaggi femminili più in vista nella società mondana intorno al 1660 —, la Lougee ha dimostrato che quella che frequentava i salotti parigini era, fin dalle origini, una società mista. Se metà delle signore menzionate nel Dictionnaire appartenevano all’antica nobiltà, le altre — nonostante i titoli acquisiti con il matrimonio — provenivano dalla robe o erano fresche di roture. E, contrariamente a quanto potrebbe indurci a credere la vibrante indignazione di grandi scrittori come La Bruyère e SaintSimon, l’accoglienza riservata alle giovani spose che venivano a «concimare» con la loro dote antichi feudi impoveriti era tutt'altro che ostile. Le nuove arrivate erano general mente giovani, desiderose di piacere e animate dallo zelo di imparare: la loro «rigenerazione» sociale avveniva per osmosi, attraverso l’esperienza diretta della vita di mondo. Le grandi famiglie della nobiltà di corte potevano mostrarsi intransigenti in fatto di mésalliance; la società mondana appariva invece propensa ad aprire le braccia a coloro che potevano
arricchire
quel capitale di gaiezza, di eleganza, di
esprit che costituiva il suo blasone più autentico. La tendenza all'integrazione fra il mondo della nobiltà — antica o recente, di spada o di toga — e quello dell’alta borghesia e della finanza che si delinea nei salotti parigini degli anni Ses1. Del Grand dictionnatre des Prétieuses di Antoine Baudeau de Somaize esistono due edizioni leggermente diverse: Le grand dictionnatre des Prétieuses ou la Clef de la langue des ruelles, Jean Ribou, Paris, 1660; Le grand diction-
naire des Prétieuses, historique, poétique, geographique, cosmographique, chronolo gique et armoirique..., 2 voll., Jean Ribou, Paris, 1661.
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La civiltà della conversazione
santa era d’altronde una tendenza destinata ad accentuarsi col tempo e ad avviare un processo irreversibile. Nato come un luogo utopico fuori dal mondo, «eppure capace di inglobare quanto di meglio c’era in esso», il salon doveva dunque, a lungo andare, rivelarsi una minaccia per l’integrità di quell’antico spirito di casta di cui sembrava la diretta emanazione. La cultura mondana aveva elaborato un modello
di comportamento
distintivo, ma
la sua
ideologia decisamente elitaria coabitava con una vocazione fortemente pedagogica. A chi era destinato il suo messaggio civilizzatore? Certamente ai nobili, ma anche a tutti coloro che erano in grado di capirlo e farlo proprio. Trasferita sul piano estetico e morale, la cooptazione mondana rimetteva in discussione, in nome
della superiorità dei com-
portamenti, l’ordine di una società gerarchica e fortemente stratificata. «Fissava i ranghi», e al tempo stesso ne alterava la composizione originaria. E poiché ad assolvere questa delicata missione pedagogica era essenzialmente il gentil sesso, furono le donne ad apparire in ampia misura responsabili della mobilità sociale innescata dal processo civilizzatore. Doppiamente responsabili, perché erano loro a suggerire i criteri di cooptazione che aprivano le porte della buona società, e perché erano loro ad aiutare le giovani borghesi, assurte improvvisamente col matrimonio allo stato nobiliare, a integrarsi rapidamente nel mondo aristocratico. Le nuove arrivate venivano a confermare, con la prontezza dei loro riflessi, la superiore attitudine delle donne a
eccellere nell’esercizio dell’arte mondana.
1. Elizabeth C. Goldsmith, Exclusive Conversations: the Art of Interaction in Seventeenth-Century France, University of Pennsylvania Press, Philadelphia, 1988, p. 45.
II LA CAMERA AZZURRA
Non è possibile stabilire con esattezza l’epoca in cui il salotto di Madame de Rambouillet aveva aperto i battenti, anche se da una lettera di Malherbe' sappiamo che già nel 1613 la marchesa riceveva regolarmente a casa sua. Vi è tuttavia una data, il 1618, che si presta ad assumere un carattere inaugurale. In quell’anno, infatti, iniziarono nell’hòtel
di rue Saint-Thomas-du-Louvre i lavori di ristrutturazione che avrebbero consentito a Madame de Rambouillet di creare la cornice più consona alla sua nuova scelta di vita. Due fattori tra loro complementari concorrono a rendere memorabile l’evento: l’edificio avrebbe occupato un posto importante nella storia del gusto e dell'arredamento, e sarebbe stata la marchesa stessa, dunque una donna, a svolgere le mansioni d’architetto. « Una sera, scontenta di tutti i
progetti che le venivano sottoposti ... dopo averci riflettuto a lungo, si mise a gridare: “Presto, della carta! Ho trovato il
modo di fare quel che volevo”. E lì per lì ne fece il disegno, perché naturalmente sapeva disegnare ... E tale disegno venne seguito punto per punto. È lei che ha insegnato a mettere le scale da un lato, così da avere una grande infilata di 1. Cfr. Nicole Aronson, Madame de Rambouillet ou la magicienne de la Cham-
bre bleue,
Fayard, Paris, 1988, pp. 98-99.
56
La civiltà della conversazione
stanze, ad alzare i soffitti e a fare delle finestre alte e lar-
ghe e disposte simmetricamente le une di fronte alle altre. E ciò è vero al punto che, quando Maria de’ Medici fece costruire il Luxembourg, ordinò agli architetti di andare a vedere l’hòtel de Rambouillet, dal che essi trassero giovamen-
to. È lei che per prima ha avuto l’idea di dipingere una stanza di un colore diverso dal rosso o dal cuoio; e per questo alla sua grande sala è stato attribuito il nome di “Camera azzurra».
Le due principali soluzioni architettoniche
che Talle-
mant attribuiva alla marchesa non erano delle assolute novità, come pure non era nuova l’idea di creare un senso di unità coordinando i colori e i tessuti di una stanza. Senza precedenti erano, invece, l’effetto d’insieme della casa alla
fine dei lavori e l'ammirazione che questa suscitò nei parigini, tanto da essere considerata il palazzo «più celebrato del regno ».° La dimora di rue Saint-Thomas-du-Louvre sorprendeva per la sua «regolarità», ma l’aspetto chiaro e armonioso, di ispirazione italiana, si coniugava con una sensazione, tutta nuova, di intimità e di confort. Subito imitato, l’hòtel de Rambouillet si imponeva così, fin dall’inizio, come il per-
fetto prototipo del décor che, per quasi tre secoli, avrebbe fatto da sfondo al rito della sociabilité francese.
Nel disegnare con mano sicura lo scenario archetipico della vita di mondo,
Madame
de Rambouillet
sembrava,
tuttavia, concepire la propria dimora anche come un rifugio dal mondo, un locus amoenus dove dimenticare la crudezza della vita reale, dove filtrare la fisicità violenta che si
respirava nel fango e nel disordine delle strade parigine. Ciò che colpiva i contemporanei della marchesa, e continua a colpire chi legge le loro testimonianze, è il senso di
sorpresa e di spaesamento che coglieva i visitatori di rue Saint-Thomas-du-Louvre. Tallemant racconta come Madame de Rambouillet fosse riuscita a piantare davanti alla sua casa un viale di sicomori e a seminarvi un prato, potendo
così menar vanto di «essere la sola a Parigi a vedere tagliare 1. Tallemant, Historiettes, cit., vol. I, Pid45: 2. Henri Sauval, Histotre et recherches des antiquités de la ville de Paris, Charles Moette, Paris, 17724, libro terzo, vol. II, p. 100, citato in Peter Thornton,
Seventeenth-Century Interior Decoration in England, France and Holland, Yale University Press, New Haven, 1990 (1° ediz., 1978), p. 337, nota 1.
La Camera azzurra
57
il fieno sotto la sua finestra ».! Mademoiselle de Scudéry, ri-
traendo nel Grand Cyrus la marchesa sotto il nome di Cléomire, ha sottolineato con molta efficacia l’effetto illusioni-
stico del palazzo e la sua atmosfera magica: «[La marchesa] ha scoperto l’arte di far sorgere su un terreno di dimensioni modeste un ampio palazzo. L’ordine, l’armonia e la pulizia contraddistinguono tanto gli ambienti quanto l’arredamento. Nella sua casa tutto è magnifico, tutto è speciale: le lampade
sono
diverse da quelle che si vedono
altrove, le
stanze sono piene di mille rarità che attestano la competenza di colei che le ha scelte. L’aria ... è sempre profumata; molti cestini magnifici, pieni di fiori, creano nella sua casa
una eterna primavera; e il luogo in cui la si vede di solito è così piacevole,
così ben
ideato,
che
si ha l’impressione,
quando le si è accanto, di essere sotto l’effetto di un incantesimo ».? Il posto «incantato » in cui la marchesa aveva l’abitudine di ricevere i suoi intimi era la celebre Camera azzurra. L’incanto era innanzitutto cromatico perché azzurro era il broccato d’oro intessuto d’argento alle pareti e azzurre la tappezzeria delle poltrone e le tende del baldacchino. Ma motivo di sorpresa era anche la funzione del tutto insolita data alla stanza. Rompendo
con le convenzioni,
Madame
de Rambouillet aveva infatti trasferito la sua camera da letto privata in un piccolo guardaroba, e aveva fatto della grande camera da letto ufficiale un luogo di ricevimento. La decisione — che consentiva alla marchesa di intrattenere i suoi ospiti sdraiata nell’angolo più riparato della stanza — era dettata da ragioni di comodità e di salute, ma avrebbe fatto scuola, trasformandosi in rituale sociale. Per metonimia, la ruelle, ovvero lo spazio compreso tra il letto e il muro, sarebbe diventato per le dame del XVII secolo, il luogo
per eccellenza dove ricevere. Posta al centro della scena mondana,
l’alcova diventava «virtuosa», perdeva ogni con-
notato di intimità e si trasformava in simbolo di prestigio: la più oscura delle Preziose vi avrebbe raccolto l’omaggio riservato fino ad allora al re di Francia. Soltanto nel Settecento l’alcova femminile avrebbe riconquistato un posto 1. Tallemant, Historiettes, cit., vol. I, p. 450. 2. Mademoiselle
de Scudéry, Artamène ou le Grand Cyrus (1649-1653),
10
voll., ristampa dell’edizione di Leida, Augustin Courbé; Paris, 1656 (Slat-
kine Reprints, Genève, 1972), parte settima, libro primo, vol. VII, pp. 298-99.
58
La civiltà della conversazione
centrale nell'immaginario erotico a cui Madame de Rambouillet aveva voluto voltare le spalle. Se all'origine del gusto scenografico della marchesa vi era, senza dubbio, un’esigenza profonda di bellezza e di ar-
monia, è impossibile non cogliere dietro l'animazione permanente della sua casa un bisogno continuo di distrazione e di svago. La prima disciplina che si praticava all’hOtel de Rambouillet era l’arte del divertimento. Ci si può chiedere che cosa ci fosse dietro questa spinta ludica che centuplicava le energie della fragile marchesa e resisteva allo scorrere
degli anni, alle disgrazie, ai dolori.
Era il rifiuto di crescere di una sposa bambina, amata e vezzeggiata, ma che, pur madre di sette figli e moglie esemplare, avrebbe preferito rimanere nubile e casta?! Era la consapevolezza che l’ozio rappresentava un tratto irrinunciabile della vita aristocratica e che saperlo coltivare nobilmente costituiva un segno di identità e di appartenenza? O forse era già la paura del vuoto e della solitudine, che di lì a non molto Pascal doveva stigmatizzare nelle Pensées,
a connotare
così la vita mondana fin dai suoi primissimi albori? Ciascuna di queste ragioni poteva contenere un frammento di verità, ma la loro somma finiva per conferire all’hòtel de Ram-
bouillet una dimensione fortemente utopica. La dimora della marchesa era un «altrove», un mondo
a
parte, separato, diverso. Il suo primo connotato era la bellezza, il clima vi era temperato, la primavera perenne, e non
vi si conosceva altro tempo se non quello dello svago. In questo universo ludico le differenze sociali venivano ignorate e tutti i giocatori erano uguali. «All’hòtel de Rambouillet ci si sceglie, o, per meglio dire, ci si riconosce ».* Ma pochi erano gli eletti che vi potevano avere accesso, e talvolta, per
riuscire a penetrarvi, bisognava sottoporsi a una vera iniziazione e «rispettare con pazienza le regole del gioco». La vita, a casa della marchesa, era lieve, trasparente, libe-
ra dal peso delle passioni. Svuotato della sua aggressività, purificato dal desiderio, ridotto a finzione, l’eros era diven1. «Ella giura che, se fosse arrivata a vent'anni senz’essere poi obbligata a sposarsi, sarebbe rimasta ragazza», Tallemant, Mistoriettes, cit., vol. I, p. 2) 2. Jacques Revel, Les usages de la civilité, in Histoire de la vie privée, a cura di Philippe Ariès e Georges Duby, 5 voll., Éditions du Seuil, Paris, 1985-1987, vol. III: De la Renaissance aux Lumiòres, p. 196.
La Camera azzurra
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tato pura commedia. E se talvolta poteva accadere che, preso dalla foga del gioco, qualcuno se ne dimenticasse, il richiamo all’ordine era perentorio. «All’hétel de Rambouillet era ammessa la galanteria, ma non l’amore. Monsieur de Voiture, dando un giorno la mano a Mademoiselle de Rambouillet, futura Madame de Montausier, volle mostrarsi libe-
ro da ogni conformismo e le baciò il braccio. Ma Mademoiselle de Rambouillet reagì alla sua audacia con una severità tale da togliergli per sempre la voglia di tentare di nuovo una simile impertinenza ».! Certo, bastava uscire dall’h6tel di rue Saint-Thomas-du-
Louvre perché la vita reale riprendesse il sopravvento e gli habitué della marchesa ricominciassero a desiderare, amare, odiare, cospirare, uccidere, fare la guerra, come pure a
pregare, a predicare o ad amministrare diocesi. « Facevamo conversazione, ci scambiavamo
delle cortesie ed erava-
mo pronti a strangolarci»? ricorderà Retz, rievocando gli anni della Fronda. Ma il ricordo della finzione utopica resisteva tenace e, se si aveva tanta ansia di ritornare a giocare,
ciò dipendeva probabilmente dal fatto che quel gioco si stava trasformando in una seconda natura. Era l’inizio di un fenomeno di sdoppiamento che avrebbe connotato nel profondo l’identità stessa della nobiltà francese fino alla Rivoluzione. Era la sola risposta possibile a una scelta impossibile tra vita di corte e vita di mondo. Così, per quasi due secoli, le élite nobiliari avrebbero impersonato su due palcoscenici diversi, eppure contigui, una duplice parte, indossando ora gli abiti di cortigiano, ora quelli di uomo di mondo.
Sotto il regno di Luigi XIV, è vero, sarebbe stata la
scena di corte a monopolizzare tutti gli sguardi, ma ancor prima della morte del vecchio sovrano il doppio spettacolo avrebbe ripreso la sua ritmica alternanza. Nel suo Mémoire pour servir à l’histoire de la société polie en France, scritto sotto la Restaurazione, il conte di Roederer ha indicato per primo nell’h6tel de Rambouillet il luogo d’origine di tale sdoppiamento: «Questa società e la corte erano due mondi diversi, dove le medesime persone che li frequentavano, passando 1. Menagiana, sive excerpta ex ore Aegidii Menagti, Florentin e Pierre Delaulne, Paris, 1693, pp. 223-24. 2. Cardinal de Retz, Mémoires, La conjuration du comte Jean-Louis de Fiesque, Pamphlets, a cura di Maurice Allem e Edith Thomas, Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard, Paris, 1956, p. 330.
60
La civiltà della conversazione
dall’uno all’altro, cessavano di essere le stesse ... Quando si
entrava nell’hòtel de Rambovuillet, ci si lasciava alle spalle la politica e gli intrighi; quando si andava a corte, le abitudini dell’htel si dissimulavano, cedendo al tono dominan-
te. Quanto più la corte era agitata e corrotta, tanto più la società di Rambouillet era ricercata e brillante ».! Intorno alla metà del XVII secolo, quando ormai il salotto di rue Saint-Thomas-du-Louvre era una gloria del passato, un osservatore acuto della vita mondana, il cavaliere di Méré, ci
mostra come la scommessa utopica della marchesa fosse diventata quella di un’intera società. A prendere le distanze dalla corte, a resistere al suo quasi illimitato potere, a im-
porsi come metro di giudizio e di scelta, si ergeva ora il tribunale supremo del Grand Monde: «Questa corte, seppure la più bella e forse la più grande della terra, ha tuttavia i suoi difetti e i suoi limiti. Ma il Grand Monde, che si esten-
de ovunque, è più perfetto; cosicché, per quanto concerne i modi di vivere e di comportarsi che amiamo, bisogna valutare separatamente la corte e il Grand Monde e non ignorare che la corte, per consuetudine o per capriccio, approva talvolta delle cose che il Grand Monde non tollererebbe ».? : Il Grand Monde sarà la sola delle istituzioni della società aristocratica a mantenere intatto il suo prestigio fino alla fine dell’Antico Regime. E quel prestigio, come dimostrano i romanzi di Balzac o la Recherche di Proust, doveva poi so-
pravvivere attraverso mille metamorfosi fin quasi alla nostra epoca. «Quella grande société, o bonne compagnie» scrive Madame de Genlis nelle sue memorie «non si limitava a pronunciare dei verdetti frivoli sul tono e sui modi; esercitava
un controllo severo e assai utile sui costumi e costituiva una sorta di supplemento alle leggi; umiliava con la sua censura i vizi che i tribunali non punivano, come l’ingratitudine e
l’avarizia. La giustizia si incaricava di punire le cattive azioni, la società le cattive maniere. La sua disapprovazione privava colui che ne era l’oggetto di parte del credito di cui godeva: l’esserne esclusi aveva conseguenze funeste sul de1. Pierre-Louis de Roederer, Mémoîre pour servir a l’histoire de la société polie en France, F. Didot frères, Paris, 1835, pioli 2. Antoine Gombaud, Chevalier de Méré, « Discours de la conversation », in Euvres complètes, a cura di Charles-H. Boudhors, 3 voll., Fernand Ro-
ches, Paris, 1930, vol. II, p. 111.
La Camera azzurra
61
stino di chi subiva tale esclusione. Un’intera esistenza poteva venire sconvolta dalle terribili parole: tutti gli hanno chiuso la porta în faccia». Il processo di mitizzazione dell’hOtel de Rambouillet aveva preso l’avvio fin dai tempi del suo massimo splendore, e le testimonianze dei contemporanei preludono alla idealizzazione assoluta che della marchesa farà Mademoiselle de Scudéry. Per avere un’idea viva della quotidianità dell’epoca e un'immagine più vicina alla realtà bisogna invece rivolgersi a Tallemant des Réaux. La caratteristica delle sue Historiettes, scritte per divertimento e senza pensare alla pubblicazione, è proprio quella di non rispettare nessuno, di trat-
tare anche i personaggi più illustri con un piacere iconoclasta. Tallemant costruisce i suoi ritratti per accumulazione, affastellando con ritmo vorticoso frammenti di storia e
schegge di vita privata, tratti fisici e dettagli psicologici, aneddoti, pettegolezzi, indiscrezioni, calunnie. Lo scrittore
prende le sue informazioni dove capita: da altri libri, da testimoni diretti o indiretti delle storie che racconta e, innan-
zitutto, dalla sua personale esperienza. Le informazioni su Madame de Rambouillet e il suo mondo sono di prima mano, perché Tallemant ha fatto in tempo a raccoglierle dalla viva voce della marchesa e, nonostante l’affettuosa ammira-
zione che provava per lei, ce le restituisce così come le ha sentite, senza il minimo intento agiografico. Dandoci dunque la possibilità di osservare la vita di Madame de Rambouillet e della sua corte senza il filtro della leggenda, le /Historiettes rappresentano il documento più prezioso per cogliere le spettacolari contraddizioni di una società in trasformazione, che mentre, in alcuni spazi privilegiati, si apre
alla modernità e all’eleganza è ancora in gran parte impregnata di brutalità e di barbarie. La marchesa «si divertiva di tutto»? e amava scherzare: prima, istintiva presa di distanza dal mondo, il riso doveva essere una terapia salutare per una donna che, per sua stes1. Madame
de Genlis, Mémotres inédits sur le XVIIF siècle et la Revolution
francaise, 10 voll., Ladvocat, Paris, 1825, vol. II, pp. 207-208. 2. Tallemant, Historiettes, cit., vol. I, p. 444.
62
La civiltà della conversazione
sa ammissione, tendeva al pessimismo. A cominciare da al-
cuni domestici italiani, la cui principale incombenza era quella di divertire con le loro eccentricità la marchesa e suo marito — il gusto barbaro per i buffoni non annunciava secondo Voltaire! quello per il teatro? —, le cronache mondane di Rambouillet sono un susseguirsi di scherzi che rivelano come, a dispetto dell’eleganza raffinata del décor, i gusti della padrona di casa e dei suoi ospiti inclinassero, in fatto di divertimenti,
alla burla, e potessero
essere
ancora
sor-
prendentemente semplici. Si insiste perché il conte di Guiche, futuro maresciallo di
Grammont, resti a cena e gli si propinano, tra l’ilarità generale, tutte le pietanze che egli detesta, e solo dopo averlo messo duramente alla prova lo si riconforta con uno splendido banchetto. Si fa credere a Monsieur de Chaudebonne, ca-
valiere d’onore della duchessa d'Orléans, di aver mangiato dei funghi velenosi e di essersi mostruosamente gonfiato poiché non riesce più a entrare nei suoi vestiti che gli sono stati ristretti di nascosto.
A sua volta Madame
de Rambouillet,
mentre è sola nella sua stanza, vede spuntare improvvisamente da dietro un paravento un immenso orso ammaestrato. Ma questo amore per la farsa si intrecciava a una passione assai più sofisticata per i coups de théatre e per gli exploit scenografici. Tallemant ha avuto cura di raccontarne alcuni dei più memorabili. Una volta la marchesa aveva fatto costruire in gran segreto una nuova camera sul giardino, e l’aveva arredata di tutto punto. Poi, «una sera in cui l’hòtel de Rambouillet era pieno di ospiti, all'improvviso si sente del rumore dietro la tappezzeria. Si apre una porta ed ecco apparire Mademoiselle de Rambouillet, oggi Madame de Montausier, splendidamente vestita, sullo sfondo di un ampio, magnifico studiolo, meravigliosamente illuminato. Vi lascio immagina-
re la sorpresa della gente. Tutti sapevano che dietro la parete vi era solo il giardino dei Quinze-Vingts,? e, senza averne mai avuto il minimo sospetto, vedevano ora uno studiolo così bel-
lo, così ben dipinto, e grande quasi come una camera, che pareva portato lì da un incantesimo ».* Philippe de Cospeau, 1. Voltaire, Vie de Molière avec des petits sommaires de ses pièces (1739), Mélan-
ges II in (uvres complètes, édition établie par Louis Moland, 50 voll. e 2 voll. di indici, Garnier, Paris, 1877-1885, vol. XXIII, Pa976
2. L'ospedale dei ciechi che confinava con l’hétel de Rambouillet. 3. Tallemant, Historiettes, cit., vol. I, p. 450.
La Camera azzurra
63
vescovo di Lisieux, era stato, invece, l’unico privilegiato spet-
tatore di un tableau vivant pastorale degno di figurare nell’ Astrée. L'illustre prelato era andato a far visita a Madame de Rambouillet nel suo castello di campagna, e la marchesa lo aveva invitato a fare una passeggiata. Conversando amabilmente erano giunti in un punto della proprietà dove si potevano distinguere, seminascoste dagli alberi, delle grandi roc-
ce, disposte in cerchio. Avvicinandosi il vescovo aveva avuto l'impressione di intravedere un singolare luccichio e delle sagome femminili simili a ninfe, e in effetti, giunto allo spiazzo roccioso, ecco «Mademoiselle de Rambouillet e tutte le fanciulle della casa che, vestite da ninfe e sedute sulle rocce,
formavano il più incantevole spettacolo del mondo». «Uno dei grandi piaceri [della marchesa] era quello di sorprendere la gente »' nota ancora Tallemant: e di fronte a una scena come quella appena descritta, che rivela un gusto illusionistico tipicamente barocco, è difficile non ricordarsi delle origini italiane della marchesa, appartenente, dal lato materno, all’illustre famiglia romana dei Savelli. In verità, fra i tanti svaghi che scandiscono gli ozi dell’hòtel de Rambouillet — ricevimenti, balli, concerti, gite,
giochi di società, conversazioni, letture —, la passione per il teatro si impone in tutte le sue forme. E anche questo dato non sfugge all’osservazione dei contemporanei. Secondo Segrais, nella commedia di Desmarets, Les visionnatres, scritta sotto l’influenza di Richelieu, Madame de Rambouillet è infatti ritratta sotto il nome di Sestianne, una fanciulla vir-
tuosa che ama solo il teatro.? La marchesa non si limitava a invitare grandi attori - Montdory o Molière — a recitare per i suoi ospiti: l’hÒtel allestiva veri e propri spettacoli, e i suoi habitué si improvvisavano attori. Nel 1636 veniva messa in scena al castello di Rambouillet la Sophonisbe di Mairet: la figlia primogenita della marchesa, Julie d’Angennes, allora trentunenne, recitava la parte della protagonista; l’austero abate Arnauld, Scipione; e Mademoiselle Paulet cantava, negli intervalli, travestita da ninfa. Nel 1639 una lettera di
Chapelain ci descrive Arthénice «indaffarata a preparare uno spettacolo nello stile della commedia dell’arte ».? An1. Ibid., pp. 44445. 2. Cfr. Charles-Louis Livet, Précieux et précieuses, caractères et maurs littérarres du XVIF siècle, Didier, Paris, 1859, p. 65. 3. Cfr. Aronson, Madame de Rambowillet, cit., p. 226.
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La civiltà della conversazione
che Corneille dava prova di riconoscere la competenza teatrale di Madame de Rambouillet e dei suoi ospiti sottoponendo al loro giudizio il Polyeucte.! Nella sua predilezione per il teatro, la marchesa non esprimeva soltanto una forte inclinazione a travestire il reale e a trasformarlo in spettacolo, ma prendeva posizione su
un argomento di grande attualità nella Francia degli anni Trenta. La lotta per conferire dignità al teatro, sottraendolo agli interdetti della Chiesa e ponendolo sotto la protezione diretta del re, era uno dei primi obiettivi della politica cul-
turale di Richelieu. Di qui l’importanza di un suo statuto artistico e del dibattito sulla natura delle regole che ne avrebbero garantito l'eccellenza letteraria. Il cardinale, egli stesso autore teatrale mancato, aveva investito il teatro del com-
pito di riflettere ed esaltare il prestigio della monarchia. La marchesa contribuiva, invece, alla sua fortuna nella società civile, portando a esso l’adesione di un pubblico aristocrati-
co che lo avrebbe sostenuto, anche contro le proprie ragioni — come insegna il Mariage de Figaro —, fino alla fine dell’Antico Regime. All’hétel
de Rambouillet,
dunque,
la vita mondana
ai
suoi esordi sì innamorava del teatro e se ne appropriava, ponendolo al centro dei suoi /oîsirs. Un mecenate geniale quale Nicolas Fouquet avrebbe presto dimostrato, sia pure
per un breve momento, come lo svago privato potesse coniugarsi all’eccellenza artistica. Subito dopo, però, nei decenni centrali del regno di Luigi XIV, il teatro sarebbe di-
ventato monopolio reale e, sotto la gelosa regia del sovrano, la nobiltà sarebbe stata interamente
concentrata nello
sforzo di partecipare al quotidiano spettacolo della vita di corte. Solo agli inizi del secolo successivo la passione per il teatro sarebbe esplosa in tutta la sua violenza. Non paghi di ripercorrere incessantemente il circuito degli spettacoli istituzionali, l’Opéra, il Théàtre Francais, Les Italiens, l’Opéra-
Comique, e di decretarne il successo, i protagonisti della vita mondana inviteranno gli attori nelle loro case per delle rappresentazioni private e si faranno costruire tanto nei loro hòtel parigini che nelle loro dimore di campagna dei teatri in miniatura. Lì, al riparo dagli sguardi indiscreti, essi potranno organizzare, per il proprio esclusivo diletto, 1. Ciò avveniva nel 1640, cfr. Émile Magne, Voiture et les années de gloire de l’hé-
tel de Rambouillet (1635-1648), Mercure de France, Paris, 1912, pp. 226 sg.
La Camera azzurra
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delle vere «stagioni» teatrali, di cui saranno sovente gli ideatori, gli autori, gli spettatori e gli interpreti. A cominciare dai principi del sangue, passando per la vecchia nobiltà di corte, fino ai piccoli e grandi parvenu dell’ambiente della finanza — per non parlare dell’attività di impresario di Voltaire a Ferney o della marchesa di Pompadour nei petits appartements di Versailles —, il mondo dei privilegiati userà e abuserà del teatro come di una droga irrinunciabile. Ma, forse, se il palcoscenico esercitava un fascino così irresistibile, ciò dipendeva anche dal fatto che la simulazione
di vita che lì si metteva in scena era profondamente speculare all'esistenza reale, e obbediva a identiche leggi. Fin dai suoi inizi, la vita di società era andata sempre più assomigliando a una grande, ininterrotta rappresentazione teatrale, in cui i protagonisti più applauditi erano quelli che meglio sapevano dissimulare la propria arte all’insegna della semplicità e della naturalezza. E già il primo teorico della scienza mondana, il cavaliere di Méré, aveva sostenuto che l’uomo di mondo doveva, come l’attore, sapersi estraniare
dalla parte che si era proposto di interpretare: «E un talento assai raro quello di essere un buon Attore nella vita, e c’è
bisogno di molta intelligenza e molta precisione per portarlo alla perfezione ... Sono persuaso che in molte occasioni non sia inutile guardare a ciò che si fa come a una Commedia e immaginarsi di recitare un personaggio sulla scena. Questo pensiero impedisce di attaccarsi troppo a qualcosa e assicura, inoltre, una libertà che manca quando si è
turbati dalla paura e dall’inquietudine ».! Lo spettacolo più originale di cui Madame de Rambouillet avesse ideato il canovaccio e fissato lo stile di recitazione era sicuramente quello della vita di società. «L’h6tel de Rambouillet»
scrive Tallemant «era, per così dire, il teatro
di tutti ... i divertimenti, ed era il punto d’incontro di quanto vi era di più galante a corte, e di più urbano tra i begli ingegni del secolo».?
«La
corte
della corte»,
per usare
la
definizione di Le Moyne,* in cui le esigenze dell’etichetta 1. Méré, Discorso VI, «Suite du Commerce du Monde», in @uvres posthumes, in (Euvres complètes, cit., vol. III, pp. 157-58. 2. Tallemant, Histonettes, cit., vol. I, p. 443.
3. Pierre Le Moyne, Galerie des femmes fortes, Antoine de Sommaville, Paris, 1647, pp. 252-53, citato in Magne, Voiture et les années de glotre, cit., p. 212, nota 2.
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avevano ceduto il passo all’attrazione reciproca: «le principesse frequentavano [Madame de Rambouillet] sebbene non fosse duchessa» constatava Segrais.' Fin dall’inizio, all’hétel di rue Saint-Thomas-du-Louvre, la vita di società si annunciava come una libera scelta e consentiva al criterio dell’affinità e della simpatia di avere la precedenza sul rango. Uscendo dalla cappella del Palais-Royal dove erano state appena celebrate le sue nozze con il re di Polonia, Maria Luisa di Gonzaga Nevers, «ancora con la corona in testa »,° andava ad accomiatarsi da Madame de Rambouillet,
prefigurando in tal modo il celebre « Mamma, vostro figlio è re» con cui, un secolo dopo, Stanislao Augusto Poniatow-
ski avrebbe comunicato alla borghese Madame Geoffrin di essere salito sul trono polacco. La prima ad accettare le regole del nuovo gioco e a spogliarsi, entrando nella Camera azzurra, della sua leggendaria alterigia, era stata Charlotte de Montmorency, figlia dell’ulti-
mo connestabile di Montmorency, e moglie di Henri de Bourbon, principe di Condé, detta Madame la Princesse. Esempio illustre, poiché, come avrebbe scritto Madame de Motteville, Charlotte «non era solo la prima tra le principesse, ma era anche la più bella e, pur non essendo più giovane, sì imponeva ancora all’ammirazione di chiunque la vedesse ... Aveva i capelli biondi e la pelle candida, e i suoi occhi az-
zurri erano di una bellezza perfetta. Aveva un’aria altera e maestosa e modi gradevoli. La seduzione esercitata dalla sua persona era assoluta, a meno
che ella decidesse diversamen-
te, inalberando una fierezza rude e assai aspra nei confronti di coloro che avevano osato dispiacerle ».? Non si può dire che Madame la Princesse non avesse pagato a caro prezzo 1 privilegi della bellezza e del rango. A soli quindici anni, vittima della persecuzione
amorosa
di
Enrico IV, Charlotte veniva data in sposa a un marito con il quale non le sarebbe mai stato possibile trovare un’intesa. 1. Segraisiana, cit., p. 26. 2. Tallemant, Historiettes, cit., vol. II, p. 585.
3. Mémoires de Madame de Motteville sur Anne d’Autriche et sa cour, éd. par M.F. Riaux, 4 voll., Charpentier, Paris, 1855, vol. I, pp. 37-38. 4. «Alla sua morte, ella non si disperò, e sembra che l’illustre Madame de Rambouillet abbia detto, in tale occasione, che la principessa aveva tra-
La Camera azzurra
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Contrariamente a ciò che ci si poteva attendere, Henri de Bourbon,
che era stato scelto solo perché
rinunciasse
ai
suoi diritti coniugali in favore del sovrano, aveva preferito salvare l'onore ed era fuggito a Bruxelles con la giovane moglie. La morte di Enrico IV aveva messo fine all’esilio della coppia, ma
nel 1619, in seguito a violenti dissapori
con Maria de’ Medici, il principe di Condé veniva rinchiuso alla Bastiglia e sua moglie si sentiva costretta, in omaggio alle bienséances, a condividere la sua prigionia. Una coabitazione forzata senza la quale, probabilmente, la futura du-
chessa di Longueville non avrebbe mai visto la luce. Nel 1632,
infine,
il fratello
di Charlotte,
il glorioso
duca
di
Montmorency, veniva decapitato a Tolosa per aver dato man forte al fratello ribelle del re. Meno coraggioso ma più realista del cognato, il principe di Condé sceglieva invece di adeguarsi ai tempi nuovi e, transigendo sulla grandezza del casato, acconsentiva a dare in moglie al suo primogenito, il
futuro Grand Condé, una nipote del cardinale di Richelieu. L'amicizia tra Madame la Princesse e Madame de Rambouillet era antica e profonda. Di cinque anni più anziana di Charlotte, la marchesa aveva sicuramente seguito con simpatia le vicende della coppia perseguitata, tanto più che suo padre era stato precettore del giovane Condé. A partire dall’inizio degli anni Venti e fino alla Fronda, non solo Madame la Princesse sarebbe stata un’ospite assidua della Camera azzurra, assieme al più tenace dei suoi adoratori, «il suo piccolo sposo », il cardinale di La Valette, ma col passa-
re del tempo anche i suoi figli e i figli della marchesa sarebbero diventati amici e avrebbero condiviso feste, svaghi e di-
vertimenti, contribuendo con la loro allegria e con la loro giovinezza al periodo di maggior splendore dell’hòtel.
Per Angélique Paulet, invece, entrare a far parte della piccola cerchia degli eletti di rue Saint-Thomas-du-Louvre era stato tutt'altro che semplice. Il ballet de la Reine, che ave-
va segnato il suo primo incontro con Madame de Rambouillet e Mademoiselle de Montmorency, aveva anche avuscorso non più di due belle giornate con il principe, ossia il giorno in cui lo sposò, per l’alto rango che egli le conferì, e il giorno della sua morte, per la libertà che le rese e i molti beni che le lasciò», i0id., p. 300.
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La civiltà della conversazione
to conseguenze fatali per la sua reputazione. Tallemant sostiene che Enrico IV venne assassinato da Ravaillac mentre si stava recando da lei con uno dei suoi figli illegittimi, il duca di Vendòme, poiché «voleva iniziarlo alla galanteria; for-
se si era già accorto che quel giovin signore non amava le donne». Dopo il sovrano, Angélique non aveva visto alcuna ragione per negare i suoi favori agli uomini che più le piacevano, e aveva collezionato scandali e amanti fino a quando, intorno ai trent'anni, sì era decisa a cambiare vita e a mostrarsi devota. Così, Madame de Rambouillet, che
aveva sempre avuto simpatia per lei, «dopo aver lasciato passare un bel po’ di tempo perché la sua reputazione potesse purgarsi ... la accolse come amica, e la grande virtù di una simile dama purificò, per così dire, Mademoiselle Paulet, che da quel momento in poi fu amata e stimata da tutti». Conversione provvidenziale per la gloria della Camera azzurra, perché Angélique era una delle figure femminili più originali e seducenti della sua epoca.ì Altre ospiti dell’hòtel de Rambouillet potevano gareggiare con lei in bellezza, grazia, spirito; nessuna aveva una voce come
la sua,
nessuna si era conquistata nelle battaglie della vita un soprannome
così splendido: «L’ardore con cui amava, il suo
coraggio, la sua fierezza, i suoi occhi vividi e i suoi capelli troppo dorati, fecero sì che venisse soprannominata Lyonne».
Un'altra ospite della marchesa tentava di dissimulare, in sintonia con lo stile del luogo, i suoi modi imperiosi. A differenza di Madame la Princesse, tuttavia, l’alterigia di Madame de Combalet, insignita nel 1638 del titolo di duchessa d’Aiguillon, non si fondava sulla nobiltà del casato, ma
sulla forza tangibile del potere. Nipote prediletta del cardinale di Richelieu, ella aveva contribuito, con il suo matrimonio, all’ascesa sociale dello zio. L’avversione che suo ma-
rito le aveva saputo ispirare era tale, tacconta Tallemant, 1. Tallemant, MHistoriettes, cit., vol. I, p. 474. 2. Ibid., p. 476. 3. Mademoiselle de Scudéry la ritraeva sotto il nome di «Élise», dedicandole «L'Histoire d’Elise», in Artaméne ou le Grand Cyrus, cit., parte settima, libro primo, vol. VII, pp. 132-361. 4. Tallemant, Historiettes, cit., vol. I, p. 476.
La Camera azzurra
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che quando nel 1621 Madame de Combalet divenne insperatamente vedova, « per paura di essere di nuovo sacrificata alla ragion di Stato, fece precipitosamente voto di non risposarsi e di farsi carmelitana».' Postasi strategicamente sotto la protezione
di Dio, Madame
de Combalet
poteva
finalmente incominciare a godere della sua esistenza terrena. Come, di lì a non molto, avrebbe illustrato in un tripu-
dio di gioia anche Madame de Sévigné — che pure non detestava suo marito —, lo stato vedovile era incontestabilmen-
te la sola condizione giuridica in grado di consentire a una donna del XVII secolo di disporre liberamente di sé. Dal momento
in cui proferì i voti, ci racconta Tallemant,
Madame de Combalet «si vestì con la modestia di una devota di cinquant'anni. Non aveva un capello fuori posto. Portava un vestito di stoffa grezza e teneva sempre gli occhi bassi. In questa tenuta svolgeva le funzioni di dame d’atour? della Regina Madre, e non si muoveva mai dalla corte; e al-
lora era nel pieno della sua bellezza. Questo comportamento durò abbastanza a lungo. Alla fine, man mano che suo zio diventava più potente, incominciò a indulgere a qualche frangia, poi si fece un boccolo, o mise tra i capelli un
piccolo nastro nero; indossò degli abiti di seta, e a poco a poco si spinse così avanti che è grazie a lei se le vedove portano colori d’ogni sorta, a eccezione del verde ... Madame de Combalet rinnovava ogni anno il suo voto di carmelitana e lo rinnovò per ben sette volte ».* L’ascendente che Madame de Combalet esercitava su Richelieu era palese a tutti. Raramente il cardinale rifiutava un favore alla nipote e, a cominciare da Madame de Rambouillet, gli amici le domandavano sovente di intervenire
presso il ministro. Madame la Princesse, per prima, non disdegnava di ricercare la sua amicizia « per avere la protezione del cardinale, perché temeva che suo marito la relegasse a Bourges». Ma il legame tra zio e nipote non mancava di suggerire interpretazioni assai poco benevole: «Si sono fatte molte maldicenze su di loro; lui amava le donne e teme-
va lo scandalo. La nipote era bella, e nessuno poteva trovar 1. Ibid., p. 304. 2. Le dames d’atour erano incaricate di sovrintendere alla cerimonia della
toilette delle principesse del sangue. 3. Tallemant, Historiettes, cit., vol. I, pp. 304-305.
4. Ibid., p.310.
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La civiltà della conversazione
da ridire sul fatto che avesse familiarità con lui. Effettivamente, ella dava prova di scarsa modestia:
con la scusa di
amare i fiori, ne aveva sempre un mazzetto appuntato alla scollatura, e andava a far visita allo zio con il seno scoper-
to».' Un sospetto d’incesto che, pure, non metteva al riparo la bella vedova dall’insinuazione di amare le donne. Tallemant riferisce le voci che circolavano su una sua relazione particolare con un’altra habitué della Camera azzurra, Anne de Neufbourg,
una
ricca borghese
che era andata
in
sposa nel 1617 al barone du Vigean.? Come le diverse residenze dei Condé, come
il castello di Richelieu, anche La
Barre, la bella proprietà di campagna dei du Vigean, era destinata a entrare nei circuiti abituali dei frequentatori dell’hòtel de Rambouillet,
e una lettera di Voiture al cardi-
nale di La Valette, scritta presumibilmente intorno al 1630, ci riporta di nuovo sul versante del gioco e dell’utopia. «Come sapete, Monsignore ... Madame la Princesse, Mademoiselle de Bourbon, Madame du Vigean, Madame d’Aubry, Mademoiselle de Rambouillet, Mademoiselle Pau-
let, Monsieur de Chaudebonne
e io partimmo da Parigi
verso le sei di sera per recarci a La Barre, dove Madame
du
Vigean doveva offrire un rinfresco a Madame la Princesse ... Entrammo in una sala dove si camminava su un tappeto di rose e fiori d'arancio. Madame
mirato parco, le che na che
la Princesse, dopo aver am-
questa magnificenza, volle andare a passeggiare nel in attesa dell’ora di cena ... In fondo a un grande viasi estendeva a perdita d’occhio trovammo una fontagettava da sola più acqua di tutte quelle di Tivoli. Di-
sposti in cerchio, attorno ad essa, vi erano ventiquattro suonatori di violino ... Avvicinandoci, scoprimmo, in una nic-
chia intagliata in una palizzata, una Diana dell’età di undici o dodici anni, più bella di quanto l’avessero mai vista le foreste della Grecia e della Tessaglia. Accanto, in un’altra nic-
chia, vi era una delle sue ninfe, bella e gentile quanto occorre esserlo per far parte del suo corteo. Coloro che non credevano alle favole pensarono ché fossero Mademoiselle de Bourbon e la fanciulla Priande?... Tutti tacevano, attoni-
ti davanti a tante cose mirabili che colpivano in ugual misura la vista e l’udito, quando, all'improvviso, la dea balzò giù 1. Ibid., p. 306.
2. Ibid., pp. 309-10. 3. Mademoiselle d’ Aubry.
La Camera azzurra
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dalla sua nicchia e con una grazia indescrivibile cominciò a danzare intorno alla fontana ...E questo spettacolo si sarebbe ulteriormente protratto se i violinisti non si fossero subito messi a suonare una sarabanda così allegra che tutti si alzarono gioiosamente ... e così, saltando, danzando, volteggiando, piroettando, facendo capriole, arrivammo alla casa,
dove trovammo una tavola che sembrava essere stata apparecchiata per le fate ... Dopo pranzo fummo attirati al piano di sopra dal suono dei violini, e lì trovammo una stanza così ben illuminata da far credere che il giorno, dopo aver preso commiato dalla terra, vi si fosse ritirato tutto intero ...
Mentre ancora fervevano le danze, ecco che all’improvviso un gran rumore proveniente dall’esterno costrinse tutte le dame ad affacciarsi alla finestra. Vedemmo allora una tale quantità di fuochi d’artificio uscire da una folta macchia boscosa situata a trecento passi dalla casa che tutti i rami e i tronchi degli alberi sembravano trasformati in razzi... ».' Ottemperando
ai dettami
di Madame
de Rambouillet,
l’ozio aristocratico ambiva dunque a farsi rappresentazione artistica; ma perché ciò avvenisse, agli attori di questa inces-
sante metamorfosi occorreva uno specchio in cui rimirare se stessi in azione: lo trovarono, paradossalmente, nel bor-
ghese Vincent Voiture. Nessuno meglio di Voiture potrà aiutarci a cogliere lo spirito dell’hòtel de Rambouillet, perché nessuno più di lui aveva contribuito a dare una dignità artistica alla «rivoluzione culturale» che si era consumata nella Camera azzurra. Al servizio del gioco e dell’effimero, i suoi versi e le sue lettere furono il manifesto della nuova estetica mondana e segnarono, a dispetto della loro levità giocosa, l’ingresso del salotto di Arthénice nella storia della letteratura.
Con la letteratura l’hOtel di rue Saint-Thomas-du-Louvre aveva intrattenuto fin dall’inizio rapporti estremamente amabili. Il celebre Malherbe, il grande riformatore della poesia francese moderna, appariva, a partire dal 1613, tra i frequentatori abituali della casa della marchesa ed era stato
lui, in omaggio alla tradizione arcadica, a coniare per la sua 1. Voiture al cardinale di La Valette [fine del 1630], lettera X, in @uvres de Voiîture. Lettres et poésies, nouvelle édition par M.A. Ubicini, 2 voll., Charpentier, Paris, 1855, vol. I, pp. 45-50.
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La civiltà della conversazione
ospite il soprannome di Arthénice, anagramma di Catherine. Anche Jean Chapelain, il migliore critico della sua epoca, faceva parte degli habitué dell’hòtel fin dai tempi del suo primo successo, la Prefazione all’ Adone di Marino, pub-
blicato a Parigi nel 1623. E fra gli altri letterati che sarebbero stati ammessi nella Camera azzurra, si ricordano i nomi di Gombauld, Vaugelas, Racan, Saint-Amant, Desmarets de
Saint-Sorlin. Per gli scrittori di professione, che per la maggior parte vivevano ancora di mecenatismo privato, la vita mondana appariva un ideale terreno di caccia dove cercare possibili protettori, mentre per la marchesa di Rambouillet e i suoi ospiti la letteratura era, non diversamente dal ballo, dal teatro, dalla musica, dai giochi di società, dalla conversazione, un’occasione di divertimento e di svago. Madame
d’Auchy e Madame des Loges potevano ambire a fare delle loro case dei centri intellettuali, sulla falsariga di una tradizione illustre; per Arthénice, invece, il solo sospetto di col-
tivare delle ambizioni letterarie appariva un oltraggio. Jean Chapelain ne era così consapevole da modificare, prima di mostrarlo alla marchesa, il testo di una lettera del più celebre epistolografo del tempo, Guez de Balzac: «In un solo punto, là dove dite che il suo studiolo è il luogo in cui tante persone di così raro ingegno si riuniscono ogni giorno, 0 qualcosa di simile, Monsieur
de Chaudebonne,
Monsieur
de Vaugelas e io abbiamo creduto opportuno, prima di farle vedere la lettera, aggiungere “e delle persone eminenti che si incontrano spesso da lei”. Con ciò, senza mutare
senso piamo vostra punto
il
delle vostre parole, conferiamo loro il tono che sapesserle più gradito, assecondando al tempo stesso la intenzione, affinché la sua casa passi piuttosto per un di ritrovo di questa corte scelta e del gran mondo pu-
rificato, come voi dite in maniera eccellente, piuttosto che
un luogo di discussione sistematica, cosa che in effetti non è, e che sarebbe meno onorevole della realtà ».?
Rifiutata come forma di specialismo incompatibile con il dilettantismo nobiliare, la letteratura aveva però contribuito in modo rilevante al processo di « purificazione del Gran Monde » promosso da Madame de Rambouillet. L'esigenza della marchesa di epurare, di travestire la vita reale prima 1. Cfr. Honorat de Bueil de Racan, Vie de Monsieur Malherbe, a cura di Marie-Frangoise Quignard, Le Promeneur, Gallimard, Paris, 1991, pp. 57-59.
2. Citato in Aronson, Madame de Rambouillet, cit., p. 32.
La Camera azzurra
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di aprirle le porte della sua casa, nasceva, è vero, da una
spinta personale e profonda, ma le forme e i modi di quella finzione ludica non erano certo il frutto della sua esclusiva invenzione.
Per un singolare paradosso, a suggerire all’hòtel de Rambouillet il maggiore repertorio di modelli di comportamento etici ed estetici, era stato il genere letterario più disprezzato dai savants e più inviso ai moralisti, vale a dire il romanzo. E in un momento in cui la cultura dei dotti, impegnata in una accanita polemica anti-italiana, intendeva imporre il primato francese su tutta l'Europa, Madame de Rambouillet, in sintonia con i gusti della cultura mondana,
«sì era formata sulle opere letterarie italiane e spagnole ».' Proprio nella letteratura spagnola del secolo precedente, infatti,
l’irrinunciabile
aspirazione
nobiliare
all’eroismo,
sempre più mortificata dalla nuova ideologia monarchica, aveva trovato una compensazione fantastica, e in virtù di un
singolare décalage storico, mentre la Spagna moderna andava sostituendo i suoi nuovi picari agli antichi eroi, la Francia aristocratica continuava ad ammirare e a prendere come modello gli ideali cavallereschi della Spagna cinquecentesca. Così, in traduzione come in lingua originale, si ammiravano gli eroi immuni da debolezze dei romanzi di cavalleria
(il più celebre dei quali era l'Amadis), e l’amore
idealizzato della Diana di Montemayor e dell’ Arcadia di Lope de Vega. E influenza non minore esercitavano sull’immaginario della nobiltà francese i poemi cavallereschi del Rinascimento italiano. Sul piano teorico, gli autori italiani contribuivano in modo decisivo a lanciare il dibattito sul tema del meraviglioso nell’epopea e, per contrasto, collabo-
ravano a orientare la riflessione estetica dei letterati francesi verso una concezione dell’arte ossequiente alle leggi della verosimiglianza e della ragione. Ma nella pratica viva della lettura Ariosto e Tasso continuavano a conquistare il cuore e la fantasia delle élite nobiliari proponendo loro, nel l’Orlando furioso come
nella Gerusalemme liberata, un ideale
cavalleresco nobile e appassionato, dove «la gentilezza si sposava alla forza e la cortesia al vigore ».° 1. Segraisiana, cit., p. 26. 2. Lionello Sozzi, L’influence en France des 6popées italiennes et le débat sur le
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La civiltà della conversazione
Ma per la piccola cerchia di eletti raccolti intorno a Madame de Rambouillet questo gusto del passato, che esprimeva il sentimento di disagio con cui molti nobili vivevano il presente, si spingeva ancora più indietro nel tempo, oltre il Rinascimento italiano e spagnolo, nella Francia dell'Alto Medioevo, alle origini stesse della civiltà cavalleresca. Così nella
Camera azzurra si riprendevano in mano i «vecchi romanzi » dimenticati di Chrétien de Troyes, si riscoprivano le virtù cor-
tesi, le corti d'amore, le leggende della Tavola Rotonda. Facendosi promotore della Lecture des vieux romans in un dialogo dedicato a Jean-Francois-Paul de Gondi (poi cardinale di
Retz e futuro eroe della Fronda), Chapelain doveva certo farsi anche portavoce delle motivazioni dei lettori dell’hÒtel. Le ragioni che potevano rendere appassionante la lettura di un’opera come il Lancelot non erano solo di natura letteraria. «Libro favoloso e storico insieme », esso racchiudeva in sé la quintessenza di quell’ethos feudale in cui la nobiltà francese non aveva mai cessato di riconoscersi. Vi si poteva leggere «in quale maniera essi [gli antichi cavalieri] conversassero assieme; come fossero imbevuti dei princìpi del vero onore; come mantenessero religiosamente la loro parola; in che
consistesse la loro galanteria; fino a che punto fossero capaci di spingere un’amicizia degna di tale nome; come mostrassero riconoscenza per i benefici ricevuti; quale alta idea si fossero fatti del valore, e infine quali sentimenti nutrissero per il Cielo e quale rispetto portassero alle cose sacre ».' Se tutte queste diverse letture contribuivano ad arricchire il patrimonio di immagini, di gesti, di emozioni, di fanta-
sie a cui la marchesa attingeva a piene mani per mettere in scena la rappresentazione della propria vita, vi era tuttavia un romanzo, un romanzo francese apparso proprio negli anni di formazione
del salotto della marchesa,
L’Astrée di
Honoré d’Urfé,* che era destinato ad avere per i frequentamerveilleux, in Mélanges offerts à Georges Couton, Presses Universitaires de
Lyon, Lyon, 1981, p. 72. 1. De la lecture des vieux romans par Jean Chapelain, publié pour la première
fois avec des notes par Alphonse Feillet, Aubry, Paris, 1870, p. 31. 2. La prima parte dell’ Astrée fu pubblicata nel 1607, la seconda apparve nel 1610, la terza nel 1619 e la quarta nel 1627, dopo la morte dell’autore. Nel
1628 fu data alle stampe La conclusion et dernière partie d’Astrée, a opera di Balthasar Baro.
La Camera azzurra
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tori della Camera azzurra una vera e propria funzione di modello e di guida. Riprendendo la formula di successo del romanzo pastorale, d'Urfé metteva in scena, in aperta polemica con la società di corte, una comunità ideale di pochi privilegiati tra-
vestiti da pastori. La foresta del Forez era dunque il teatro di un esperimento utopico, dove una piccola élite di uomini liberi perseguiva la perfezione morale attraverso la quéte amorosa, restituendo alla donna l’antica posizione di prestigio a cui l'avevano innalzata la civiltà cortese prima, poi la tradizione petrarchista. Ma quando le vicende del mondo esterno — l'ambizione, la cupidigia, il sopruso — venivano a turbare la quiete della foresta, i pastori si dimostravano cavalieri valenti, fedeli sino in fondo all’etica aristocratica
dell’onore. Honoré d’Urfé apparteneva alla vecchia nobiltà di provincia, si era battuto coraggiosamente per la Lega durante le guerre di religione, aveva sperimentato la vita di corte e
l’esilio, era stato protagonista di una lunga e contrastata storia d’amore — possedeva, insomma, una vasta esperienza
degli uomini e del mondo. In quale misura il suo romanzo rifletteva lo stile di vita di una élite aristocratica realmente esistente e quanto era invece frutto di pura fantasia? E ragionevole supporre che l’immenso successo dell’ Astrée implicasse l’esistenza di un pubblico capace di condividere le aspirazioni nobili e innocenti degli abitanti della foresta del Forez. Certo, l’opera fluviale di Urfé non si limitava a tener desta l’attenzione dei suoi lettori di avventura in avventura, di amore in amore, ma — simile a un trattato di morale in azione — insegnava loro la cortesia, la galanteria, l’uso di mondo, ne educava la sensibilità e il gusto, la mente e il
cuore. Così, proprio all’inizio del suo cammino, la civiltà mondana francese trovava, sotto forma di romanzo, un mo-
dello pedagogico nazionale, un «breviario» di comportamento da associare ai testi sacri delle buone maniere importati dall’Italia del Rinascimento. Nessuno più di Madame de Rambouillet doveva aver ravvisato nell’ Astrée la proiezione fantastica delle proprie aspirazioni più segrete. Non era anche lei alla ricerca di un /ocus amoenus, di uno spazio protetto, lontano dai veleni della corte, dove il ritrovarsi tra affini fosse frutto di una libera
scelta e garanzia di un piacere reciproco? Dove l’amore potesse vivere di attesa piuttosto che di appagamento, e la
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La civiltà della conversazione
donna sapesse ispirare ammirazione e rispetto? Perché, dunque, non fare propria quella finzione arcadica, perché non tentare di introdurre nelle belle sale dell’hòtel di rue Saint-Thomas-du-Louvre l’innocenza, la grazia, la gentilezza dei suoi pastori? Iniziava così, nella Camera azzurra, quel
vorticoso gioco di specchi tra la letteratura e la vita che avrebbe caratterizzato di lì a poco tutta la cultura mondana. Il caso dell’hòtel de Rambouillet era particolarmente spettacolare perché, ispirandosi all’ Astrée e fungendo a sua vol ta da modello per la società idealizzata dalla narrativa di Mademoiselle de Scudéry, si iscriveva tra i due romanzi di maggior successo del secolo; ma esso era tutt'altro che unico. Fin dall’inizio del suo percorso, il tratto più distintivo della civiltà mondana francese si rivelava infatti l’alto grado di consapevolezza dei suoi attori e l'esigenza di verificare la propria immagine riflessa nello sguardo altrui. Così, portata ad analizzare e a commentare costantemente se stessa, la
vita mondana sconfinava insensibilmente, quasi involontariamente, dall’oralità alla scrittura. L’effimero della parola,
dei gesti, delle situazioni irripetibili riviveva negli aneddoti, negli scambi epistolari, nei ritratti, nelle migliaia di versi destinati non alla lettura ma all’ascolto e che, tuttavia, fini-
vano per circolare manoscritti ed essere pubblicati nei recueils o negli Ana.' Inoltre, la completa esteriorizzazione di sé, il paraître mondano, diventava, a cominciare dal cavalie-
re di Méré e dal duca di La Rochefoucauld, materia di riflessione teorica per taluni dei suoi interpreti più prestigiosì, e apriva un interrogativo inquietante sull’identità dell’io. Come i pastori di Urfé, i frequentatori dell’hòtel de Rambouillet passeggiavano, conversavano, disquisivano di casistica amorosa, componevano versi e canzoni, scrivevano let-
tere galanti. Nel regno di Arthénice la varietà di forme letterarie che nell’Astrée avevano il compito di dare profondità e movimento alla narrazione dovevano contribuire solo a rendere più divertente e piacevole la vita. Eppure, per una delle tante bizzarrie della sorte, fu un uomo che veniva dal negotium a riportare l’otium della Camera azzurra nell’alveo della letteratura. 1. Raccolte di frasi e pensieri di un autore o di una persona famosa, e di
aneddoti relativi alla sua vita, designate in genere dal nome proprio seguito dal suffisso -ana.
IV VINCENT VOITURE,
OVVERO
L’«AME DU ROND »
«Voiture era figlio di un mercante di vini al seguito della corte ... Godeva già di una vasta fama ... quando Monsieur de Chaudebonne lo incontrò in una casa e gli disse: “Monsieur, voi siete troppo galant homme per rimanere nella borghesia; bisogna che ve ne tiri fuori”. Ne parlò a Madame de Rambouillet, e qualche tempo dopo lo condusse da lei. Questo egli intende dire in una lettera in cui scrive: “Da quando Monsieur de Chaudebonne mi ha rigenerato in virtù di Madame e Mademoiselle de Rambouillet”».'
Se upslamo lasciarci sedurre dalla fantasia erudita di Emile Magne, possiamo supporre che Voiture abbia varcato per la prima volta la soglia dell’hÒOtel di rue Saint-Thomas-du-Louvre nel 1625, in occasione di un ricevimento in
onore del duca di Buckingham. A Parigi, dov'era venuto per condurre in Inghilterra la moglie del suo re, la princi pessa Enrichetta-Maria di Francia, Buckingham aveva espresso il desiderio di ascoltare la celebre voce di Mademoiselle 1. Tallemant, Historiettes, cit., vol. I, pp. 484-85. 2. Emile Magne, Voiture et l’hòtel de Rambouillet. Les ovigines, 1597-1635, nuova edizione accresciuta e corretta, Émile-Paul frères, Paris, 1929, pp. 39-57.
78
Paulet,
La civiltà della conversazione
e i Rambouillet si erano offerti di esaudire la sua cu-
riosità. Nel palazzo di rue Saint-Thomas-du-Louvre ebbe così luogo una festa memorabile. E proprio quella sera, nell’hòtel illuminato da mille candele, scintillante di argenti e di cristalli, gremito del fior fiore della nobiltà francese, Voi-
ture era stato presentato per la prima volta a Madame de Rambouillet e alla sua primogenita Julie d’Angennes. Arthénice aveva allora trentasette
anni, Julie venti, ed è difficile
dire quale delle due abbia esercitato in seguito sul nuovo ospite un’influenza più profonda. Quella sera però, mentre l’attenzione generale si concentrava sul favorito di Carlo I, che con un abito interamente trapunto d’oro e di perle faceva il suo ingresso nella Camera azzurra in compagnia del duca e della duchessa di Chevreuse,
la fantasia di Voiture
veniva probabilmente catturata dalla magia del luogo. Tallemant des Réaux, che aveva poca simpatia per Voiture, indica con grande precisione, nel lungo ritratto a lui dedicato, alcune delle ragioni per cui quest'uomo — dai tratti gradevoli
ma
estremamente
piccolo
di statura,
vanitoso,
umorale, sensuale, dominato dalla passione del gioco d’azzardo —, le cui maniere tradivano sovente la modestia delle sue origini, veniva accolto senza riserve all’h6tel de Ram-
bouillet, e finiva per diventarne addirittura l'emblema. Si dice che il Seicento sia il secolo in cui la Francia ha scoperto l’esprit. Certo, Voiture è il primo caso esemplare di un uomo che all’esprit deve assolutamente tutto: ascesa sociale, successo, amicizie, reputazione, fama. Tallemant lo dichia-
ra esplicitamente: «Poiché era uomo di grande esprit, ed era nato per la vita di corte, fece ben presto la gioia della società formata da quelle illustri persone: le sue lettere e le sue poesie ne sono la chiara testimonianza». Né «quelle illustri persone» nutrivano dubbi sul perché della loro predilezione. A qualcuno che, dopo aver letto l’edizione postuma delle lettere di Voiture, ne lodava l’esprit, Madame de Rambouillet
rispondeva:
«Ma,
Monsieur,
pensavate
forse
che fosse per la sua nobiltà o per la sua statura che veniva ricevuto dappertutto?».?
1. Tallemant, Historiettes, cit., vol. I, p. 485.
2. Ibid., p. 499.
Vincent Voiture, ovvero l’«Ame du rond »
79
Ecco, dunque, la prima spiegazione del successo di Voiture affidata a un termine intraducibile, esprit, che, vago e
preciso insieme, può venir definito solo attraverso le sue sfumature. Una quarantina d’anni dopo il debutto mondano di Voiture, La Rochefoucauld passava in rassegna i mol-
ti possibili significati che la parola assumeva a seconda degli aggettivi che la accompagnavano, ed elencava fra gli altri, bel esprit, esprit adrott, bon esprit, esprit enjoué, esprit moqueur, esprit de raillerie, espnit fin, esprit de finesse, esprit de détail. È estremamente difficile trovare l’esatto equivalente italiano per ognuno di questi attributi. Bel esprit, per esempio, può avere, a seconda delle intenzioni con cui lo si usa, una va-
lenza elogiativa o una più o meno ironica; esprit de raillerie può indicare la capacità di prendersi gioco garbatamente di una persona o la volontà di farne il bersaglio di un tagliente sarcasmo; e se l’esprit fin evoca di solito una mente
raffinata, l’espnt de finesse circoscrive generalmente l'ambito della sottigliezza intellettuale.
Del resto, il duca stesso ri-
nunciava a dare delle definizioni precise, impossibili al di fuori del contesto di ciascun discorso: «Benché vi siano per la parola esprit svariati attributi che paiono voler dire la stessa cosa, la loro differenza è data dal tono e dal modo di pronunciarli. Ma poiché i toni e i modi non sono trascrivibili,
non mi addentrerò in dettagli impossibili da spiegare bene».' Se però, senza tener conto dell’anacronismo, voglia-
mo affidarci alla guida di La Rochefoucauld, la categoria in cui Voiture potrebbe meglio rientrare è probabilmente quella di esprit enjoué («brioso»), e razlleur («faceto »), vale a
dire di un esprit fatto di gaiezza e ironia, che sa prendersi gioco di tutto e di tutti, mantenendosi in delicato equilibrio tra l’impertinenza e l’adulazione. Voiture sarebbe diventato un virtuoso di questa difficile arte — che richiedeva prontezza, intuito psicologico ed esatta percezione dei tempi —, perché conosceva il suo pubblico e sapeva esattamente cosa ci si attendeva da lui. Giorno dopo giorno, egli si sarebbe impegnato a pagare il suo debito di gratitudine a coloro che lo avevano accolto come un uguale, irraggiando intorno a sé sorpresa e divertimento. «Aveva sempre visto cose 1. Francois de La Rochefoucauld, « De la différence des esprits», in Max:
mes, suivies des Réflexions diverses, du Portrait de La Rochefoucauld par lui-méme et des Remarques de Christine de Suède sur les « Maximes », a cura di Jacques
Truchet, Garnier, Paris, 1967, pp. 218-20.
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La civiltà della conversazione
che gli altri non avevano visto e, non appena arrivava, tutti facevano cerchio attorno a lui per ascoltarlo ... Nelle feste che si tenevano all’hòtel de Rambouillet e all’hòtel de Condé, Voiture divertiva sempre i presenti. Ora con versi, ora con qualche follia che gli veniva in mente ».!
Tra fantasie, curiosità, scherzi, racconti, continue inven-
zioni, vi era un tema centrale di conversazione che il piccolo gruppo di privilegiati raccolti intorno a Voiture non si stancava di ascoltare con infinito diletto: la cronaca idealizzata della loro stessa vita quotidiana. In prosa o in versi, orale o scritta, questa cronaca affettuosa e impertinente, alle-
gra e galante, si faceva interprete dei gusti dell’hOtel de Rambouillet e, al tempo stesso, li determinava e li rinnovava, orientandone le scelte.
Poiché uno degli intrattenimenti prediletti della Camera azzurra era l’amore, l’uso del verso si imponeva a Voiture come una scelta quasi obbligata. La convenzione petrarchesca, con il suo linguaggio codificato e il suo vasto repertorio di situazioni e di immagini, era ancora lì a garantire la natura platonica del desiderio e a tutelare la reputazione femminile. Voiture non avrebbe esitato a farla propria. In realtà, il
petrarchismo era per lui una soluzione puramente formale, di cui egli si serviva come di uno schermo per poter più liberamente desacralizzare l’amore. «Tutti hanno sempre saputo » scriverà Mademoiselle de Scudéry subito dopo la sua morte «che in cuor suo prediligeva Venere Anadiomene rispetto a Venere Urania, perché non riusciva a concepire che vi potesse essere una passione distaccata dai sensi e faceva persino fatica a credere che esistesse al mondo un affetto assolutamente puro ».? Nella poesia di Voiture la donna continuava a occupare il centro della scena, a essere celebrata, ammirata, adulata, corteggiata con il dovuto rispetto, ma cessava di essere una figura sacrale, e la mistica petrarchesca
si riduceva a semplice finzione. Con grazia, con leggerezza, con eleganza, Voiture metteva in scena le figure dell’amore, 1. Tallemant, Historiettes, cit., vol. I, pp. 489-91. 2. Mademoiselle de Scudéry, ritratto a chiave di Voiture sotto il nome di «Callicrate », in Artamène ou le Grand Cyrus, cit., parte sesta, libro primo, vol. VI, p. 81.
Vincent Voiture, ovvero l’«Ame du rond »
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moltiplicava le dichiarazioni, i giuramenti, i palpiti, i sospiri
— senza tuttavia pretendere di essere creduto. Lors tout à coupje revins en moy-mesme, Le Repentir, et la Peur au teint blesme,
Les prompts Souhaits, les violens Desirs, La fausse Joye et les vains Desplaisirs, Les tristes Soins, et les Inquietudes, Les longs Regrets, amis des solitudes, Les doux Espoirs, les bizarres Pensers,
Les courts Dépits, et les souspirs legers, Les Desespoirs, les vaines Défiances,
Et les Langueurs, et les Impatiences, Et tous les biens et les maux que l’Amour Tient d’ordinaire attachez à sa Cour...!
Se in un componimento come questo l’accumulazione delle formule tradizionali della poesia amorosa e il sovrapporsi veloce di tutti i possibili stati d'animo della passione sembrano quasi voler provocare il sorriso del lettore, altrove è proprio l’esplicito smascheramento di un topos letterario, il classico «morire d'amore », a consentire a Voiture di
sfiorare la sincerità: « Potete essere certa» scrive a una ignota dama «che la tristezza e l’amore non faranno mai morire persona veruna, visto che né l’una né l’altro mi hanno ancora ucciso, e, sia pure privato per ben due giorni dell’onore di vedervi, mi rimane qualche parvenza di vita. Se qualcosa poteva indurmi ad allontanarmi da voi, era la certezza
che avrei finito per morirne e che un dolore così forte non mi avrebbe lasciato languire a lungo. Eppure debbo constatare, contro ogni speranza, che resisto molto più di quanto pensassi, e credo che, nonostante
la ferita mortale, la mia
anima non possa staccarsi dal mio cuore perché in esso contempla la vostra immagine...».È 1. «Quando di colpo rientrai in me / Il pentimento e la paura dal livido volto, / I pronti auspici, i violenti desii, / La falsa gioia e i vani dolori, / I tristi affanni e le inquietudini, / I lunghi rimpianti, amici delle solitudini,
/ Le dolci speranze e i pensieri bizzarri, / I brevi crucci e i lievi sospiri, / La disperazione, e i vani sospetti, / E i languori, e le impazienze, / E tutti i beni e i mali che l’amore / Trascina di consueto al suo seguito...», Vincent Voiture, Poésies, ediz. a cura di Henri
Lafay, 2 voll., Didier, Paris,
1971, vol. I, pp. 21-22. 2. Voiture a Madame***, lettera XV, in Lettres amoureuses, in Euvres de Voi ture, cit., vol. II, p. 192.
82
La civiltà della conversazione
Diretta in primo luogo alle donne, la poesia di Voiture conquistava immediatamente, con la sua grazia ambigua, la complicità femminile. L’hòtel de Rambouillet voleva giocare senza pericolo al gioco dell'amore, e Voiture rendeva la
scommessa possibile forgiando, ad uso esclusivo di una piccola élite, un modello
di stile galante che, attraverso
una
gamma infinita di sfumature e di varianti, si sarebbe poi imposto come elemento irrinunciabile a tutta una civiltà mondana. La stessa Mademoiselle de Scudéry dovrà riconoscere che Voiture «scriveva molto piacevolmente in prosa e in versi, e in un modo così galante e così inusuale che lo sì poteva quasi dire inventato da lui». E già Tallemant des Réaux aveva dichiarato, senz’ombra di esitazione, che biso-
gnava salutare in Voiture «il padre dell’ingegnosa bdadinerie», e riconoscergli il merito «di aver insegnato agli altri a esprimersi in modo galante ».?
Il poeta della Camera
azzurra
poteva,
tuttavia, vantare
un’altra e più importante innovazione di stile, destinata non solo a contraddistinguere il comportamento nobiliare ma a connotare nella sua essenza più profonda la letteratura francese classica: l'estetica del naturel. Per trovare un equivalente italiano del termine bisogna risalire a una parola del nostro vocabolario caduta in disuso, a quella « sprez-
zatura » che Baldesar Castiglione usava come chiave di volta della grazia mondana: «Ma avendo io già più volte pensato meco onde nasca questa grazia, lasciando quelli che dalle stelle l'hanno, trovo una regula universalissima ... e ciò è fuggir quanto più si po, e come asperissimo e pericoloso scoglio, l’affettazione; e, per dir forse una nova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l’arte e dimostri ciò che si fa e si dice venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi. Da questo credo io che derivi assai la grazia ... Però sì po dir quella esser vera arte che non pare esser arte; né più in altro si ha da poner studio, che nel nasconderla...».* Di quest'arte nascosta, di quest’artificio dissimulato, 1. Mademoiselle de Scudéry, Artamène ou le Grand Cyrus, cit., parte sesta, libro primo, vol. VI, p. 77. 2. Tallemant, Historiettes, cit., vol. I, p. 489.
3. Baldesar Castiglione, // libro del Cortegiano, a cura di Walter Barberis, Einaudi, Torino, 1998, libro primo, cap. xxvI, p. 59.
Vincent Voiture, ovvero l’«ame du rond »
83
di questa «negligenza tanto sottile», di questa «noncuranza tanto gradevole »' a cui i francesi avrebbero dato, un secolo dopo, il nome di naturel, fu ancora una volta un trattatista italiano, Stefano Guazzo, a enunciare
il progetto estetico.
Per l’autore della Civil conversazione il «naturale» non intratteneva con la natura un semplice rapporto di equivalenza ma ne rivelava piuttosto le potenzialità intrinseche, e na-
turale era «tutto quello che la natura consente che si faccia migliore e acquisti perfezzione ».? A distanza di quasi un secolo, il grande teorico dell’ honnétete, il cavaliere di Méré, non avrebbe detto niente di
diverso illustrando l’estetica del nature! sulla falsariga della riflessione di Guazzo. « Bisogna imitare la natura e seguirla in tutto, ma la natura più perfetta e più realizzata: bisogna osservare e scegliere tutto ciò che vi si può scoprire di più bello, di più amabile e di più seducente, nella sfera del sensibile come in quella dell’intellettuale o dell’invisibile, o
dello spirituale ».? Destinato a trionfare nei salotti come nell’Art poétique di Boileau, questo imperativo si sarebbe tramandato, di generazione in generazione, da Madame de Sévigné,
a Madame
du Deffand, a Julie de Lespinasse, fino
a trovare il suo ultimo manifesto nel celebre motto del principe di Ligne: «du naturel, surtout du naturel! ». Prima ancora che nella riflessione teorica, l'estetica del
naturel si era imposta in Francia nella pratica viva, e a dare l’esempio era stato il beniamino della Camera azzurra. Proprio Voiture, scriveva per esempio padre Bouhours, un gesuita che fu tra i critici più influenti degli anni 1670-1680,
ha insegnato ai francesi a scrivere con «naturalezza ».* Anche in questo caso, tuttavia, Voiture si limitava a farsi inter-
prete dei gusti di Madame de Rambouillet e dell’hòtel di rue Saint-Thomas-du-Louvre. Commentando con Chapelain uno dei divertissements da lui scritti per il cercle della marchesa, Guez de Balzac osservava, con una sfumatura di 1. Mademoiselle de Scudéry, «Épitre aux Dames», in Les femmes illustres, Cit. P:229: 2. Stefano Guazzo, La civil conversazione, a cura di Amedeo voll., Panini, Modena, 1993, libro secondo, vol. I, p. 87.
Quondam,
2
3. Lettera XLII a Mr de***, in Lettres de Monsieur le Chevalier de Méré, 2
voll., D. Thierry et C. Barbin, Paris, 1682, vol: I, pp. 223-24. 4. Dominique Bouhours, Les entretiens d’Ariste et d'Eugène (1671), presenta-
zione di Ferdinand Brunot, A. Colin, Paris, 1962, «La langue francaise »,
entretien II, p. 79 e «Le bel esprit», entretien IV, p. 133.
84
La civiltà della conversazione
paternalismo: «Se è vero che la Natura si mostra grande soprattutto nelle piccole cose, applichiamo questa verità ai biglietti di Voiture, e preferiamoli ai Volumi degli Autori Asiatici! ».! Il grande maestro dell’Atticismo francese non si rendeva ancora conto che proprio quel naturel si sarebbe trasformato in una pericolosa minaccia per il suo personale prestigio di scrittore. A differenza di Guez de Balzac, Voiture non aspirava a es-
sere un savant, e tanto meno un «autore», ma semplicemente un galant homme che scriveva con l’intento esclusivo di piacere ai suoi amici. Destinata alla cerchia mondana che l’aveva ispirata, la sua poesia ne mimava lo stile: era brillante,
discorsiva,
aneddotica,
veloce,
all’insegna
della
leggerezza e della noncuranza. Appropriandosi con disinvoltura dei generi poetici minori — stanze, canzoni, ballate,
sonetti, epistole, madrigali, rondò —, Voiture «libertineggiava»? con la metrica, disdegnava il labor limae e privilegiava l’immediatezza. Nasceva così, con lui, una poesia da salotto che, non diversamente dalla conversazione, era incentrata
sulla capacità di improvvisare. Arte difficile, di cui l’impromptu settecentesco avrebbe rappresentato l'apoteosi, e che, pur attingendo a un grande repertorio mnemonico e presupponendo un notevole lavoro di preparazione, si faceva un punto d’onore di cancellare ogni traccia di sforzo e di saper interpretare l’attimo fuggente. Voiture, notava infatti puntualmente Tallemant,
«faceva mostra di improvvi-
sare al momento, il che poteva capitargli spesso, ma altrettanto spesso si portava da casa composizioni già preparate».° E l’autore delle Historiettes racconta poi uno scherzo che rivela l’alto grado di consapevolezza e di ironia dei frequentatori della Camera azzurra nel complicato gioco di scambi fra oralità e scrittura, fra dilettantismo e tradizione
letteraria. «Madame
de Rambouillet
riuscì a trarlo in inganno.
[Voiture] aveva scritto un sonetto di cui era abbastanza soddisfatto; lo diede a Madame de Rambouillet, che lo fece
stampare, avendo cura di provvedere alla numerazione del1. Guez de Balzac a Chapelain, 15 marzo 1640, in Lettres familières de Monsteur de Balzac à Monsieur Chapelain, Augustin Courbé, Paris, 1656, lettera VI, libro quinto, p. 464.
2. Tallemant, Historiettes, cit., vol. I, p. 490. 3. Ibid., p. 489.
Vincent Voiture, ovvero l’«@me du rond »
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le pagine e a tutto il resto, e poi lo fece cucire con molta perizia in una raccolta di versi pubblicata da tempo. Voiture trovò il libro, che era stato lasciato di proposito aperto in quel punto. Lesse varie volte il sonetto; recitò il suo fra sé e Sé, per vedere se vi fossero delle differenze; a lungo andare
gli si confusero le idee al punto che credette di averlo letto in passato e di averlo non già composto ma semplicemente ricordato. Alla fine, quando ne ebbero riso abbastanza, gli
svelarono l’inganno ».' La poesia leggera di Voiture suscitava un entusiasmo tale da indurre molti scrittori di professione a seguirne l’esempio. Non solo autori ansiosi di successo, come i Cotin e i Benserade,
ma
letterati
illustri come
Chapelain,
nonché
eruditi come Ménage e Conrart, davano il loro contributo a questo gioco collettivo, che produceva, anno dopo anno, un numero sterminato di versi, e si arricchiva, cammin facendo, di nuove varianti. Nel 1636, ad esempio, Voiture lanciava la moda dei rondò, e l’anno successivo l’abate Cotin
trionfava con quella degli enigmi. Nel 1638 giungeva l’ora delle metamorfosi
in prosa, e nel 1640 prendeva piede l’e-
pistola in versi, «che nasceva direttamente dalla vita mondana ... e diventò il genere per eccellenza a cui ricorrere per gli scambi di notizie, i complimenti galanti e le profferte amorose ».? E anche in questo — come dubitarne? — Voiture si rivelò un maestro.
E tuttavia non fu nelle epistole in versi, bensì nelle lettere
in prosa che Voiture diede la piena misura del suo talento. La scrittura epistolare si era andata rivelando, fin dagli inizi, una componente essenziale della vita di società. La lettera fungeva da conversazione trasposta, che non solo consentiva agli assenti di non essere dimenticati, ma permetteva loro di brillare a distanza; e al tempo stesso costituiva, per i destinatari, una fonte di divertimento, di notizie e di svago. Letta ad alta voce, commentata, spesso ricopiata,
una lettera poteva raggiungere infatti, attraverso un destinatario ben scelto, un’ampia cerchia di persone. il caso di Guez de Balzac è esemplare. Relegato nella più remota pro1. Ibid., p. 492. 2. Y. Fukui, Raffinement précieux dans la poésie francaise du XVII siècle, Nizet, Paris, 1964, pp. 21415.
86
La civiltà della conversazione
vincia francese, «il padre dell’iperbole» non aveva rinunciato a fare sentire la sua presenza sulla scena parigina grazie, soprattutto, al fitto scambio epistolare con Chapelain.
Attraverso di lui Balzac continuava a essere al corrente di tutto quanto avveniva nella capitale, e con l’aiuto e la mediazione dell’amico riusciva a orchestrare una campagna autopromozionale in piena regola. I rapporti dello scrittore con l’hétel de Rambouillet illustrano in maniera evidente i legami fra scrittura epistolare e vita di salotto. Benché sia altamente improbabile che Balzac abbia mai frequentato rue Saint-Thomas-du-Louvre, lo si può considerare a pieno titolo un habitué dell’hòtel, di cui aveva finito per conoscere, grazie a Chapelain,
frequentatori,
abitudini e gusti. « Del
resto non potreste provare curiosità per qualcosa che lo meriti più dell’h6tel de Rambouillet. Qui non si parla in modo
dotto, ma in modo
ragionevole, e non potrebbe es-
servi maggiore buon senso e minore pedanteria ... E il luogo in cui, più che altrove, la vostra virtù può trovarsi nella condizione che le sia più congeniale, e sono certo che ne converrete non appena sarete qui e vi avrete fatto qualche visita. Fin d’ora tutti vi onorano e vi amano e vi considerano presente per il ricordo continuo che hanno del vostro merito»! gli scriveva Chapelain il 22 marzo 1638. E, di lì in avanti, l’«Eremita della Charente» avrebbe fatto tutto ciò che era in suo potere perché quel «ricordo continuo» non venisse meno. Consapevole del prestigio della Camera azzurra e della sua capacità di incidere sulla moda, Balzac coltivava dunque la benevolenza di Arthénice e della sua cerchia mettendo in atto una sapiente strategia epistolare. La corrispondenza con Chapelain gli consentiva di adulare Madame de Rambouillet con tatto ed eleganza, in forma indiretta, nella certezza che alla prima occasione l’amico si sarebbe premurato di dare pubblica lettura delle sue lettere. E puntualmente, sempre attraverso Chapelain, l’hòtel gli faceva pervenire il suo apprezzamento e il suo plauso. Così incoraggiato, Guez de Balzac saggiava il terreno per vedere se poteva rendere alla marchesa un pubblico omaggio e, ricevuta una risposta affermativa, le dedicava quattro dei suoi 1. Lettres de Jean Chapelain, de l’Académie frangaise, publiées par Ph. Tamizey i de Larroque, 2 voll., Imprimerie Nationale, Paris, 1880-1883, lettera CLI,
vol. I, pp. 215-16.
Vincent Votture, ovvero l’«Ame du rond »
87
discorsi, tra cui il suo capolavoro, De la vertu romaine. Quale
migliore occasione per ricordare che Arthénice discendeva per parte di madre dall’illustre casato romano dei Savelli? Questo corteggiamento a distanza tra due «potenze» — un grande scrittore e un’influente cerchia mondana - si rivelava dunque estremamente proficuo per entrambi e preludeva ad altri grandi carteggi incentrati sulle regole dello stesso gioco. Da Bussy-Rabutin a Voltaire e all’abate Galiani, una schiera di illustri esiliati si sarebbero serviti della scrittura epistolare per non essere tagliati fuori dal consorzio civile, per non essere dimenticati, per difendere i propri interessi; così facendo, avrebbero contribuito, dalla lontananza del loro esilio, a infondere ricchezza, varietà e prestigio a
quella vita da cui si sentivano così crudelmente esclusi. Per Balzac, come d’altronde avverrà anche per Bussy-Rabutin e per Voltaire, l’esilio era però anche una scelta, un ottum studiosum in cui ritrovare se stessi nel silenzio, nel
commercio con gli autori antichi, per poi stabilire un nuovo contatto con il mondo attraverso la scrittura. Mentre l’hétel de Rambouillet lanciava l’utopia giocosa di un «altrove » dove tutto era svago e divertimento, Guez de Balzac
faceva del suo ritiro forzato il simbolo della solitudine studiosa e della creazione letteraria: due modelli culturali profondamente diversi, eppure destinati, da quel momento in poi, a incontrarsi sempre più spesso e ad arricchirsi a vicenda. Anche a Voiture sarebbe toccato in sorte di provare a più riprese il dolore della separazione e dell’esilio. «Introduttore
degli ambasciatori»
di Gastone
d’Orléans,
lo
scrittore fu infatti costretto a seguire il fratello ribelle di Luigi XIII nei suoi spostamenti e nelle sue fughe. Ma ancor prima di diventare una necessità pratica, imposta dalle circostanze, la lettera era per Voiture un’occasione di seduzione e di gioco. Se Guez de Balzac, compenetrato della propria dignità letteraria, non abbandonava mai un tono ufficiale e togato (leggendo il suo splendido epistolario, si ha l’impressione che si rivolga ai suoi corrispondenti col pensiero già proiettato verso l’opera a stampa e il letto1. Nel 1629 raggiunge Gastone in Lorena; nel 1632 lo segue in un lungo viaggio attraverso la Spagna; dal luglio 1632 fino all’ottobre 1636 è in Spagna dove svolge mansioni diplomatiche per il suo signore; nel 1638 è inviato dal re come ambasciatore straordinario presso il granduca di Toscana per annunciargli la nascita del futuro Luigi XIV, e raggiunge Firenze passando per Torino, Vercelli, Genova, Livorno.
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La civiltà della conversazione
re futuro), Voiture non si preoccupava minimamente dei posteri e, fedele all’etica nobiliare del gruppo che lo aveva adottato, scriveva per divertimento, disdegnando l’idea di pubblicare le sue opere e rivolgendosi ai suoi lettori con un tono familiare e complice. Ma quando, nel 1650, due anni dopo la sua morte, apparve, per iniziativa del nipote Étienne Martin de Pinchéne, la prima raccolta delle sue lettere, fu palese che era stato lui e non Balzac a indicare la strada: «Si può dire che Voiture ci abbia insegnato quel modo di scrivere naturale e delicato che predomina oggi» scriverà vent’anni dopo padre Bouhours. «Prima di lui si pensava che per essere intelligenti si dovesse parlare come Balzac e che, per esprimere grandi pensieri, occorressero grandi parole ».'
La maggiore ambizione di Voiture, dunque, era quella di
piacere ai destinatari delle sue lettere e di divertirli. Per riuscire nel suo intento, egli si mostrava pronto, in primo luogo, a giocare la carta dell’autoironia. Uno degli esempi più brillanti è senz'altro la lunga lettera indirizzata a Mademoiselle de Bourbon, futura duchessa di Longueville: la principessina undicenne giaceva a letto ammalata e Voiture, incaricato di distrarla, non era riuscito nell’impresa.
Mademoiselle,
venerdì pomeriggio mi hanno fatto saltare per aria su una coperta perché non ero riuscito a farvi ridere entro il tempo accordatomi a quello scopo. Madame de Rambouillet ha emanato tale sentenza su richiesta di sua figlia e di Mademoiselle Paulet ... Ebbi un bel gridare e difendermi: qualcuno portò la coperta, e quattro degli uomini più forti del mondo furono scelti per la bisogna. Ciò che posso dire, Mademoiselle, è che nessuno arrivò mai in alto come me, e
non credevo che la fortuna mi avrebbe mai innalzato tanto. A ogni colpo mi perdevano di vista e mi lanciavano più in alto di dove possono arrivare le aquile. Vidi, come spianate al di sotto di me, le montagne; vidi i venti e le nubi cammi-
narmi sotto i piedi; scoprii paesi che non avevo mai visto e mari che non avevo mai immaginato ... Una volta che mi
1. Bouhours,
«Le
bel esprit», entretien
d'Eugéne, cit., pp. 133-34.
IV, in Les entretiens
d’Ariste et
Vincent Voiture, ovvero l’«@me du rond »
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avevano lanciato più in alto, scendendo, mi ritrovai dentro una nube spessissima, e, essendo io estremamente leggero,
vi rimasi a lungo impigliato senza ricadere a terra. Cosicché quelli che stavano sotto rimasero un bel po’ con la coperta tesa, guardando in alto senza poter immaginare cosa mi fosse successo. Per fortuna non vi era un soffio di vento, perché, se ci fosse stato, la nube, spostandosi, mi avrebbe
portato con sé e io avrei finito per precipitare al suolo, cosa che non poteva non farmi assai male. Ma sopraggiunse un incidente ancora più pericoloso. L’ultima volta che mi lanciarono in aria, mi ritrovai in mezzo a un branco di gru, che
dapprima si stupirono nel vedermi a quell’altezza. Ma quando furono più vicine mi presero per uno di quei pigmei con cui, come sapete bene, Mademoiselle, esse sono da
sempre in guerra, e pensarono che fossi venuto a spiarle anche lassù. Subito mi si scagliarono addosso, a gran colpi di becco, con una violenza tale che credetti di essere tra-
passato da cento colpi di pugnale, e una di loro non mi lasciò finché non fui ricaduto sulla coperta. Ciò dissuase i miei aguzzini dal lasciarmi nuovamente alla mercé delle mie nemiche, che si erano ammassate in gran numero e si tenevano sospese nell’aria in attesa che io vi venissi rispedito. Mi riportarono a casa avvolto in quella stessa coperta, incredibilmente prostrato. In verità va detto che si tratta di un esercizio un po’ troppo violento per un uomo debole come me. Potete dunque giudicare, Mademoiselle, quanto
questa azione sia stata crudele, e per quanti motivi non possiate non disapprovarla. E senza mentire, poiché siete nata con tante doti atte al comando,
è bene che vi abituiate fin
d’ora a odiare l’ingiustizia e a prendere sotto la vostra protezione gli oppressi. Vi supplico dunque, Mademoiselle, di dichiarare in primo luogo quest’impresa come un’aggressione che disconoscete, e di ordinare, al fine di riscattare il
mio onore e di farmi recuperare le forze, che venga costruito un grande padiglione di organza nella Camera azzurra dell’hòtel de Rambouillet. Lì sarò servito e trattato magnificamente, per due giorni interi, dalle due demoiselles
che sono state la causa della mia disgrazia. Ai due angoli della stanza si prepareranno in continuazione delle confetture, e una di esse soffierà sul fornello mentre l’altra non si
occuperà d’altro se non di versare dello sciroppo su un piatto per farlo raffreddare e portarmelo di tanto in tanto.
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La civiltà della conversazione
Così, Mademoiselle, compirete un atto di giustizia degno di una grande e bella principessa quale siete...' In realtà, la verve buffonesca dell’autocaricatura masche-
ra qui, con grande delicatezza, una commovente professione di devozione
totale. L’omino
in miniatura,
che veniva
fatto rimbalzare come un clown sulla coperta tesa aveva donato tutto se stesso alle tiranniche dame di cui ora subiva il capriccio. Ma nessuna prova doveva apparire troppo dura per chi, come lui, poteva poi pretendere di occupare il centro della Camera azzurra sotto un baldacchino di organza.
L’arte epistolare di Voiture si basava su una conoscenza profonda dei suoi interlocutori, della loro psicologia, dei loro gusti, delle loro abitudini; tutto ciò contribuiva a fare di
lui un autentico maestro dell’elogio. Le sue lettere erano uno specchio incantatore, dove le persone a cui erano indirizzate potevano cogliere il riflesso sublimato della propria immagine. Ma tutti i frequentatori dell’hOtel de Rambouillet facevano ugualmente festa ai suoi exploit epistolari, perché essi consentivano loro di evocare all’infinito alcuni preziosi frammenti della propria storia. Applaudendo Voiture, la Camera azzurra applaudiva, in ultima analisi, anche se stessa, e questa specularità era il frutto di un forte condizionamento reciproco. Facendosi cronista dell’hòtel, lo scrittore non si limitava a interpretarne lo spirito; ne aumentava anche la autoconsapevolezza, fornendo a esso, grazie all’evidenza della scrittura, la prova definitiva dello stile. Voiture non era infat-
ti una delle creazioni più brillanti dell’hòtel medesimo, la dimostrazione inconfutabile della sua virtù educatrice? In un omaggio non privo di riserve, Pellisson sembrava voler sottolineare i legami di reciproca dipendenza fra Voiture e la Camera azzurra: «Che goda eternamente del privilegio di aver fatto parte della più bella e più galante società che mai sia esistita, dalla quale ha molto ricevuto e alla quale ha reso al-
trettanto; che incanti eternamente quanto di più delicato vi sarà mai al mondo; che sia eternamente inimitabile, ma che non ci accusino eternamente di imitarlo »..? 1. Voiture a Mademoiselle de Bourbon Voiture, cit., vol. I, pp. 40-44.
(1630 ca), lettera IX, in @uvres de
2. Paul Pellisson, Prefazione a Les @uvres de Monsieur Sarasin, cit., praz:
Vincent Voiture, ovvero l’«Ame du rond »
9I
Erano state le donne che avevano reso il talento di Voiture «inimitabile», ripagandolo così della sua ammirazione per loro. Non era forse il primo scrittore francese moderno a dedicare tutta la sua attenzione a un pubblico femminile? «Sarebbe un errore credere che l’approvazione da parte degli uomini, quali che possano essere i loro titoli quanto a ricchezze e a sussiego, gli giovi di più del plauso di quelle donne illustri che hanno fatto della sua compagnia e dei suoi scritti uno dei loro più piacevoli svaghi ».' Ed è proprio alla straordinaria qualità di quelle lettrici, delle loro aspettative, della loro sensibilità, del loro giudizio che Voiture fa-
ceva appello, ricevendone in cambio il favore. Con le sue lettere, come
già con le sue composizioni in
versi, Voiture dimostrava di eccellere nel badinage galante, un’arte del corteggiamento delicata e sapiente, in difficile equilibrio tra sincerità e menzogna, tra audacia e rispetto, tra esprit e cuore. Come innalzare una donna, e poi un’altra, e poi un’altra
ancora, al di sopra di tutte le perfezioni, e rinverdire ogni volta uno stereotipo che, per giungere davvero a lusingare, non poteva fare a meno di una parvenza di verità? Come conciliare l’eccitante effervescenza del corteggiamento amoroso con la lucida consapevolezza della finzione mondana? Come riuscire, insomma, a sostenere e al tempo stesso a ne-
gare un certo messaggio, attraverso un discorso complice e insieme plateale? L’arte del badinage consisteva, per l’appunto, nel saper conciliare tutte queste contraddizioni sotto il segno del gioco, nel mettere in scena la commedia scherzosa e brillante del corteggiamento amoroso senza tuttavia confonderla con la realtà della vita. Ma il badinage galante seduceva anche per una congenita ambiguità di fondo: la simulazione dell’amore non poteva, infatti, servi-
re a sua volta da schermo per dissimulare un sentimento che non osava manifestarsi alla luce del sole? È certamente difficile non avere questo sospetto leggendo le lettere di Voiture a Julie d’Angennes. E se con lei il badinage galante dello scrittore raggiungeva il culmine del virtuosismo, ciò dipendeva dal fatto che a nessun’altra donna
mai egli aveva così intensamente desiderato piacere. Proba1. Étienne Martin de Pinchéne, Préface a Les @uvres de Monsieur de Voitu-
re. Seconde édition, revue, corrigée, et augmentée, Augustin Courbé, Paris, 1650, p. 7.
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La civiltà della conversazione
bilmente lo scrittore amava davvero di un amore impossibile la figlia primogenita di Madame
de Rambouillet, e il dba-
dinage gli offriva il solo modo di corteggiarla senza recarle offesa. Le due lettere che seguono sono giustamente celebri e rappresentano dei modelli assoluti del genere. Entrambe sono scritte per gioco, ed entrambe sono destinate a una doppia lettura: quella privata di Julie e quella pubblica dei frequentatori della Camera azzurra. La Lettre à Mademoiselle de Rambouillet, sous le nom du Roi de Suède, datata marzo 1632, è uno scherzo in puro stile Ram-
bouillet. Si parlava molto, nella Camera azzurra, della passione della primogenita della marchesa per il re di Svezia, i
cui successi militari avevano riempito di ammirazione l’Europa. Julie, per prima, alimentava queste voci, esponendo un ritratto di Gustavo Adolfo nella sua camera da letto. Era difficile pensare a uno spunto migliore di badinage per i letterati dell’hòtel, e questa volta fu Chapelain ad avere i riflessi più pronti. Due poesie anonime, La Couronne Impénalee L’Aigle de l’Empire, in cui Gustavo Adolfo esprimeva a Julie la sua gratitudine e la sua tenerezza, vennero recapitate in circostanze misteriose, e a breve distanza l’una dall’altra,
in rue Saint-Thomas-du-Louvre. Tutto l’hòtel ammirò i versi e si appassionò all’enigma; e più d’uno dei suoi frequentatori abituali si cimentò in quel gioco letterario. Arrivato, buon ultimo, in una situazione in cui tutto sembrava già essere stato tentato, Voiture dimostrò di saper fare di meglio. In effetti, quando i Rambouillet videro fer-
marsi davanti alla loro casa una grande carrozza e scenderne varie persone vestite alla svedese che recavano in dono un ritratto di Gustavo Adolfo, rimasero di stucco: la fama
dell’hòtel aveva davvero raggiunto la Svezia? Ma bastarono poche righe della lettera consegnata a Julie per capire che sì trattava di uno scherzo e che solo Voiture poteva esserne l’autore. Mademoiselle,
ecco il Leone del Nord, quel conquistatore il cui nome
ha suscitato tanto clamore nel mondo, che viene a deporre ai vostri piedi i trofei della Germania e che, dopo aver sconfitto Tilly e aver abbattuto la potenza spagnola e le forze dell’Impero, viene a fare atto di sottomissione al vo-
stro. Ira le grida di gioia e i canti di vittoria che sento
Vincent Voiture, ovvero l’«ame du rond »
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echeggiare da tanti giorni non ho udito niente di più gradevole di quanto mi è stato riferito, ossia che mi portate nel cuore. Da quando l’ho saputo, ho mutato tutti i miei piani e concentrato in voi sola quell’ambizione che abbracciava la terra intera. Ciò non significa che io abbia ridimensionato i miei progetti, ma che li ho innalzati. Perché anche la terra ha i suoi limiti e il desiderio di conquistarne il dominio non ha infiammato solo il mio animo. Ma questo vostro spirito che suscita tanta ammirazione e che non sì può né misurare né compenetrare, questo cuore che si colloca molto al di sopra degli scettri e delle corone, e questa grazia che vi fa regnare su qualsiasi volontà, sono beni infiniti a cui nessuno, al di fuori di me, ha mai osato aspi-
rare. Coloro che ambivano a dominare più mondi nutrivano desideri più moderati dei miei. Qualora i miei voti potessero realizzarsi, e se la fortuna che mi fa vincere ovunque mi assiste anche con voi, non invidierò ad Alessandro
tutte le sue conquiste, forte della convinzione che coloro che hanno esercitato il loro dominio sull’intera umanità non possono vantare un impero bello ed esteso quanto il mio. Vi direi di più, Mademoiselle,
ma in questo preciso
momento mi accingo a dar battaglia all’esercito imperiale e a espugnare Norimberga nel giro di sei ore. Sono, Mademoiselle, il Vostro appassionato servitore, Gustavo Adolfo!
Generico nella laudatio — l’intelligenza, il cuore, la venu-
stà di Julie sono incomparabili —, l'omaggio galante di Voiture doveva il suo successo all’invenzione e alla sorpresa. La prima minaccia insita nel badinage era la monotonia e, nel caso della primogenita dei Rambouillet — la fanciulla più celebrata della sua epoca -—, il rischio era particolarmente alto. Invece di preoccuparsi di escogitare dei complimenti originali, Voiture aveva deciso di puntare sulla spettacolarizzazione dell’omaggio attraverso un’azione in due tempi. Un colpo di scena iniziale — l’arrivo della delegazione svedese, la consegna della lettera e del ritratto — catturava l’at-
tenzione generale e la fissava su Julie. La lettura della missiva rendeva poi alla giovane donna il più lusinghiero degli elogi: elogio eccezionale non tanto per i complimenti in sé, 1. Voiture a Mademoiselle de Rambouillet Euvres de Voîture, cit., vol. I, pp. 73-75.
[marzo 1632], lettera XXII, in
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La civiltà della conversazione
ma per colui che li aveva formulati. Il «conquistatore d’Europa» si chinava umilmente
davanti a colei che si riteneva
inconquistabile, e poteva esprimere pubblicamente quella speranza d’amore che Voiture era costretto a tacere.
È ancora alla sorpresa che si affidava il Re Chiquito' per restituire a uno dei topoi più abusati della retorica amorosa, l’indifferenza della «bella crudele», un lieve, garbatissi-
mo soffio di autentica malinconia. Nel 1637 una lettera di Julie suggerì a Voiture, allora lontano da Parigi, un magnifico spunto di badinage: i puristi dell'Académie francaise si erano dichiarati contro la congiunzione car e a favore di pour ce que, e la figlia di Arthénice era scesa in campo in sua difesa. L’argomento, ampiamente dibattuto nel bel mondo parigino, si prestava splendidamente al doppio obiettivo di celebrare Julie e di interessare tutti i frequentatori dell’hòtel. Lo scrittore poteva così, a dispetto della distanza, ricordare al suo pubblico che nessuno sapeva essere più spiritoso di lui, e nessuno possedeva come lui il segreto del riso. Mademoiselle,
poiché car gode nella nostra lingua di una così grande considerazione, approvo incondizionatamente il vostro sde-
gno per il torto che vogliono fargli ... In tempi in cui il fato suscita tragedie in Europa, non vedo niente di più degno di pietà del fatto che si sia pronti a espellere e a mettere sotto processo una parola che ha servito così proficuamente questa monarchia e che in tutte le discordie del regno si è sempre dimostrata una buona francese ... Ignoro chi possa avere interesse a togliere a car ciò che gli appartiene per darlo a pour ce que, né per quale motivo si voglia dire con tre parole ciò che si può dire con tre lettere ... Ma voi, Mademoiselle, siete tenuta ad assumervi il compito di proteggerlo. Poiché la forza più grande e la più perfetta bellezza della nostra lingua risiedono nella vostra, dovete esercitare su di essa un po-
tere sovrano e far vivere o morire le parole a vostro piacere. E in verità credo che abbiate già salvato questa dal rischio 1. Il nomignolo era preso dalla storia di uno gnomo diventato re di Granada ed era stato dato a Voiture da Julie d’Angennes in considerazione della sua bassa statura e della sua passione per la Spagna.
Vincent Voiture, ovvero l’«Ame du rond »
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che correva: racchiudendola nella vostra lettera, l’avete posta in un rifugio e in un luogo glorioso dove né il tempo né l’invidia riusciranno a toccarla. In tutto questo, confesso di
essere rimasto stupito nel vedere quanto le vostre bontà siano bizzarre, e non riesco a non
trovare strano che voi, Ma-
demoiselle, che lasciate perire cento uomini senza esserne mossa a pietà, non sopportiate di veder morire una sillaba. Se aveste avuto per me tutte le attenzioni che avete per car, sarei stato, malgrado la mia cattiva stella, un uomo felice, e la povertà, l’esilio e il dolore mi avrebbero solo sfiorato ... Ab-
biate più considerazione per me la prossima volta, ve ne prego, e quando vi lancerete in difesa degli afflitti non dimenti-
cate che anch'io ne faccio parte. Mi servirò sempre del car per obbligarvi ad accordarmi questa grazia... Sotto la sua penna, la contesa linguistica si trasforma in
parodia, e car diventa l’eroe perseguitato di una tragicommedia. Ma, giunto all’apice del racconto — l’intervento salvifico di Julie —, Voiture introduce inaspettatamente una nota personale e dolente: se solo l’illustre, potentissima dama gli avesse dispensato un po’ della pietà da lei dimostrata per una semplice sillaba, nessuna disgrazia avrebbe mai potuto ferirlo. La controversia linguistica non era, tuttavia, un puro pre-
testo di dbadinage: era l'occasione per rendere a Mademoiselle d’Angennes il più ambito dei riconoscimenti, quello di es-
sere arbitra assoluta della lingua. Per una volta non ci troviamo davanti a un complimento iperbolico ma a un preciso giudizio di merito. Come sua madre, come le altre nobildonne che frequentano la Camera azzurra, Julie parla un francese perfetto, possiede d’istinto la conoscenza della lingua, e la sua autorità in materia è indiscussa. Voiture non era il solo a nutrire questa convinzione. Proprio all’hòtel de Rambouillet Vaugelas andrà a registrare, per le sue Remarques sur la langue frangoise, utiles à ceux qui veulent bien parler et bien éenre, il
«buon uso» della lingua, il francese «puro» parlato dalla «plus saine partie de la cour».° Facendo della figlia primogenita di Arthénice l'emblema della supremazia linguistica del1. Voiture a Mademoiselle de Rambouillet [1637 ca], lettera CI, in @uvres de Voiture, cit., vol. I, pp. 293-96.
2. Claude Favre de Vaugelas, Remarques sur la langue francoise, chez la Veuve J. Camusat et P. Le Petit, Paris, 1647, rist. anastatica, a cura di Jeanne Streicher, Droz, Paris, 1934, Prefazione, p. 2.
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l’hòtel, Voiture la elevava così a simbolo della nuova regalità femminile in materia di lingua e di gusto. E tuttavia, né l’arte di piacere, né il talento di divertire
avevano il potere, come scriverà un secolo dopo Madame de Staal-Delaunay, di riscattare dal «peccato originale » della nascita. Il processo di iniziazione che aveva permesso a Voiture di accedere alla Camera azzurra era un processo per natura incompleto, che non comportava una cittadinanza a pieno diritto. Se Voiture tendeva a dimenticarsene,
c’era sempre qualcuno pronto a ricordarglielo. Fra i tanti giochi di società in voga nel bel mondo, riscuoteva allora molto successo quello di comporre delle filastrocche collettive, a rima obbligata, a cui tutti potevano divertirsi ad aggiungere una strofa. Sembra, stando a Tallemant, che fosse stata Madame des Loges, senz’ombra di malevolenza, a lanciare quella con la rima in ture, destinata a
costituire le portrait du pitoyable Voiture. L'intenzione era assolutamente scherzosa ma, cammin facendo, qualcuno non
si era peritato di cambiare di tono, passando dall’ironia bonaria all’offesa brutale.? Una lettera all’abate Costar, erudito
e latinista con
cui
Voiture intratteneva rapporti di amicizia e solidarietà, rivela tutta la profondità della ferita: «Vi mando dei versi che sono stati composti contro di me,
e in cul si fa rimare Voiture con roture ... pur non assomigliandoci in nient'altro, [Orazio e io] ci assomigliamo per la nostra estrazione plebea ...
E mi sembra che, quando avrò
fatto un libro, potrò ben rivolgere a esso le parole che Orazio dice al suo: “Me libertino natum patre, et in tenui re / Maiores
pennas nido extendisse loqueris”. Non oserei aggiungere ciò che segue: “Ut quantum generi demas, virtutibus addas” è «Ditelo per me, se ritenete che io lo meriti. In verità, 1. Mémoires de Madame de Staal, Firmin-Didot, Paris, 1928 (1° ediz., 1755) (trad. it. Memorie, a cura di Daria Galateria, Adelphi, Milano, 1995, p. 273).
2. Tallemant, Historiettes, cit., vol. I, p. 488. Scritti probabilmente intorno al 1633-1634, i versi erano: «C'est une aimable creature, / Si sa race estoît sans rature, / Et sa naissance sans roture» («E un’amabile creatura, / Se solo la sua razza non fosse impura, / E la sua nascita non fosse plebea»).
3. «Tu racconterai [o libretto] che ero nato da padre liberto, in una povera casa, e volai, oltre assai il mio piccolo nido; e quanto non dirai della nascita, altrettanto attribuirai al merito», Orazio, Lettere, I, 20, vv. 20-22, trad. it. di Enzo Mandruzzato, Rizzoli, Milano, 1983, p. 209.
Vincent Voiture, ovvero l’«Gme du rond » Monsieur, coloro che mi muovono
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simili rimproveri mi co-
noscono assai poco se pensano di farmi dispetto. Vi assicuro che vorrei che tutti sapessero chi sono. Così mi disprezzerebbero di meno se valessi poco, e se avessi del merito mi apprezzerebbero ancora di più. La nobiltà occupa senz’altro un posto importante nella gerarchia dei beni toccatici in sorte, e costituisce un vantaggio che consente di acquisirne molti altri. Ma vi sono tante altre cose più desiderabili nella vita, e questa sarebbe una delle ultime che mi azzarderei a desiderare. Se non si potesse essere generosi senza essere quello che i latini chiamano generosus,' se non si potesse avere una bella mente e un’anima forte, grande, superiore; se
la salute, la reputazione e le ricchezze dipendessero necessariamente dalla nascita, allora non ci sarebbe consolazione
possibile né per Orazio né per me. Ma così non è, grazie a Dio, e so che sull'argomento vi sono una intera satira di Giovenale e una intera arringa di Mario in Sallustio ...? «Ma forse non conoscete quel proverbio castigliano secondo cui ciascuno è figlio delle proprie opere, né la risposta data a un signore italiano da un bravo di quel paese: “Io e il mio braccio destro, che adesso riconosco come mio padre, valiamo più di voi”. Permettetemi anche di precisare che in spagnolo hidalgo, che significa «gentiluomo », viene
da hijo d’algo, ossia, «figlio di qualcosa »: a sottolineare che la vera nobiltà deriva dalle azioni virtuose che ci danno una seconda nascita, migliore e più gloriosa della prima. «Stando così le cose, Monsieur, colui che è nato plebeo
può rinascere gentiluomo e inondare la sua vita di luce, nonostante l’oscurità della sua origine. Ma per far questo bisogna possedere le qualità straordinarie che a me mancano e mancheranno sempre. La mia fortuna è che esse non siano indispensabili per avere la vostra amicizia: perderei la speranza di poterla conservare, e questo è uno dei pensieri che più mi rallegrano ».? Colpito nel vivo, Voiture cambiava improvvisamente registro e si esponeva a viso scoperto. Non v'è traccia d’ironia 0 di scherzo in questa bella lettera in cui, assumendo il tono 1. Colui che appartiene a un genus, a una famiglia nobile. 2. Satira VIII, Bellum fugurthinum, cap. LXXXV. 3. Voiture, Correspondance de Voiture avec Costar, billet IV, in @uvres de Vor ture, cit., vol. II, pp. 148-50.
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La civiltà della conversazione
del moralista, egli inalbera la sua dignità di intellettuale e di borghese. Il termine «gentiluomo» non sì limitava per lui a designare una condizione sociale, rinviava anche a una dimensione spirituale. Come aveva già teorizzato Stefano Guazzo nella Civil conversazione, vi è una nobiltà dell'anima
che prescinde dalla nascita e si forgia nell'esercizio della virtù. Dimenticando, sotto l’effetto dell’indignazione, il suo distacco di scrittore dilettante, Voiture rivendica qui
implicitamente, dietro la modestia d’obbligo, il valore della propria opera. Eppure lo scrittore sapeva per esperienza che questa «seconda nascita, migliore e più gloriosa della prima», non veniva sempre riconosciuta e comportava una sfida, destinata a ripetersi generazione dopo generazione.
Ancora una volta Voiture ci appare come un caso emblematico che preannuncia il futuro. Con lui il letterato faceva il suo ingresso nella vita mondana,
diventandone
un ele-
mento integrante, ma conservando uno statuto fortemente ambiguo. Ricercato, vezzeggiato, conteso, l’«intellettuale » avrebbe continuato a essere trattato dalle élite nobiliari come uguale e, al tempo stesso, come diverso. Uguale nello spazio utopico del salotto, egli non poteva che occupare una posizione di inferiorità nel generale contesto di una società gerarchica, organizzata in base alla nascita e al censo. Nemmeno l’immenso prestigio acquisito dai gens de lettres nel secolo dei Lumi avrebbe cancellato del tutto la loro diversità sociale. A ridosso della Rivoluzione, un aneddoto ri-
guardante Chamfort, che più di chiunque altro doveva vivere fino in fondo il dramma della doppia appartenenza, segnala il perdurare di questa situazione bloccata. Ce lo riferisce Sainte-Beuve: «Un giorno il marchese di Créqui gli disse: “Ma, Monsieur de Chamfort, mi sembra che oggi un
uomo d’ingegno sia pari a chiunque, e che il nome non abbia più alcun peso”. “Parlate bene, signor marchese,” replicò Chamfort “ma supponete che invece di chiamarvi Monsieur de Créquìi vi chiamaste Monsieur Criquet: entrate in un salotto e vedrete se l’effetto è lo stesso ».? Del resto, la frase del bravo italiano che Voiture riportava
all'amico — «Io e il mio braccio destro, che adesso ricono1. Cfr. Guazzo, La civil conversazione, cit., libro secondo, vol. I, pp. 124 sgg. 2. Charles-Augustin Sainte-Beuve, «Chamfort», in Causeries du lundi, 3° édition, revue et corrigée, 15 voll. e 1 vol. di indici, Garnier, Paris, 18571870, vol. IV, p. 540, nota 1.
Vincent Voiture, ovvero l’«Ame du rond »
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sco come mio padre, valiamo più di voi» — sembra anticipare lo scambio di battute che sarebbe intercorso tra il giovane Voltaire e il cavaliere di Rohan verso la fine del mese di gennaio del 1726. Uno scambio in due tempi, prima all'Opéra e poi, due giorni dopo, nel foyer della Comédie-francaise. Alla domanda provocatoria dell’aristocratico —
«Monsieur de Voltaire, Monsieur Arouet, come vi chiama-
te?» —, lo scrittore rispondeva in modo ugualmente provocatorio: «E voi, vi chiamate Rohan o Chabot?». Poi rincara-
va la dose, precisando che la differenza tra loro consisteva nel fatto che, mentre il cavaliere disonorava un nome
illu-
stre, lui rendeva immortale il proprio.' Come già era avvenuto a Voiture, il successo mondano
aveva indotto Voltaire
a credere che nascita e merito potessero fronteggiarsi alla pari e godessero di uguale considerazione; la villania di un privilegiato lo costringeva ora, bruscamente, a constatare che non era affatto così: il figlio di un notaio non poteva rintuzzare impunemente le offese del discendente di una delle più fiere casate di Francia, e Rohan lo obbligava a prenderne atto facendolo bastonare dai suoi servi. Il gesto era indegno, e il cavaliere un noto degenerato: malgrado ciò, nessuno degli amici aristocratici di Voltaire si sarebbe fatto avanti a prendere apertamente le sue difese. In fondo, come
avrebbe avuto a dire il maresciallo di Villars, «non
era altro che un poeta».° Eppure, nonostante tutto, il poeta si ostinava a condursi come un gentiluomo e prendeva lezioni di scherma per sfidare Rohan a duello. Questa volta, però, erano le forze dell’ordine a rimettere Voltaire al suo posto, mandandolo alla Bastiglia. Il duello aveva esercitato anche su Voiture una attrazione profonda, fin quasi a diventare una mania. In anni in cui il diritto di tutelare il proprio onore con la spada era stato difeso dalla nobiltà a costo della vita, la pratica del duello, simbolo per eccellenza del costume aristocratico, sembrava
poter conferire a un uomo del Terzo Stato la provvisoria illusione di una promozione sociale. Così, desideroso di mo-
dellare il proprio comportamento su quello dei nobili amici della marchesa di Rambouillet, Voiture univa allo sprez-
zo per il denaro quello per la vita. Eppure sarebbe stato 1. Cfr. René Pomeau, D’Arouet @ Voltaire, 1694-1734, The Voltaire Foundation, Taylor Institution, Oxford, 1985, p. 204.
2. Ibid., p. 206.
100
La civiltà della conversazione
proprio un duello, e per di più un duello ridicolo, a farlo estromettere dalla Camera azzurra poco tempo prima della sua triste fine. Non solo, dopo il matrimonio di Julie d’Angennes, egli aveva avuto l’audacia di innamorarsi della figlia più giovane della marchesa, Angélique-Clarice, e di mostrarsene geloso, ma era stato così dissennato da battersi per lei con Chavaroche, l’intendente dei Rambouillet. Gesto di una involontaria comicità, di una confusione di ruoli
inaccettabile per la buona reputazione dell’hòtel. In verità, la sola scherma concessa a Voiture era quella verbale, e forse, anche in questo caso, la sua grande libertà di parola, persino la sua insolenza, più che di parità, era indizio di di-
suguaglianza. «“Se Voiture fosse uno di noi,” diceva Monsieur le Prince “non sarebbe tollerabile”».' E allora viene da chiedersi se l’indulgenza di cui egli godeva all’hòtel de Rambouillet non fosse in fondo, al di là delle apparenze, quella che i grandi signori da sempre concedevano ai loro buffoni.
1. Tallemant, Historiettes, cit., vol. I, p. 489.
V
LA GUIRLANDE
DE JULIE
L’impertinenza, l’allegria, il riso di Voiture non divertivano il duca di Montausier, dal 1632 frequentatore assiduo del-
l’hòtel de Rambouillet. Per molto tempo il pretendente di Julie d’Angennes era stato bersaglio degli scherzi del corps, la piccola banda di giovani scavezzacollo capitanata dall’unico figlio maschio dei Rambouillet, Léon-Pompée,
marchese di
Pisani. Ignorantissimo e illetterato, Pisani provava per il poeta dell’hOtel un’amicizia senza riserve e lo aveva cooptato nel suo gruppo. Il loro sodalizio, d'altronde, non era casuale. L’irriverenza del giovane marchese, il suo gusto per la farsa, lo spirito salace, l’audacia temeraria mascheravano, come in Voiture, la mortificazione profonda di chi si sente escluso
dalla pienezza dell’esistenza: piccolo, gobbo e deforme, Pisani esorcizzava il suo dramma con il riso. All’hétel de Rambouillet, dunque, il raffinato, mondano
Voiture non si consacrava solo a piacere alle dame, ma si alleava con l’enfant terrible della casa che, indifferente alla rivoluzione che stava avvenendo nel salotto di sua madre, si
prendeva gioco delle buone maniere e ostentava l’ignoranza come un vanto. Charles de Sainte-Maure, poi duca di Montausier, al contrario, era un uomo austero e introverso che, adempiuto al suo dovere di soldato, amava dedicarsi
agli studi e intrattenere rapporti eruditi con letterati illu-
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La civiltà della conversazione
stri. La cultura per lui non era, come per Pisani, un’attività pedantesca, incompatibile con la fierezza aristocratica. Ciò che appariva disdicevole a Montausier, semmai, era la chiassosa irriverenza del corps e l’insopportabile petulanza di Voiture, tanto più che la sua posizione di pretendente alla mano di Julie lo rendeva particolarmente vulnerabile agli attacchi di entrambi. Ed ecco che Montausier riusciva a vendicarsi
di Voiture
nel più sottile dei modi, battendolo
sul suo stesso terreno ed escludendo il re dei galanti dalla «più grande galanteria che mai vi fu». Il 22 maggio 1641, giorno del suo onomastico, Julie d’Angennes aveva trovato al suo risveglio un regalo straordinario: sul tavolo da toilette della sua camera da letto, rac-
chiuso in una custodia di legno odoroso, vi era il libro più bello che avesse mai visto. Un libro che era stato ideato appositamente per lei, portava il suo nome, la celebrava a ogni pagina ed era una delicata, struggente dichiarazione d’amore. Si trattava di un manoscritto — rilegato in marocchino rosso, con le iniziali della destinataria impresse sul dorso a caratteri d’oro —, che alternava ventinove tavole di-
pinte a mano su carta velina a quaranta fogli di pergamena finissima su cui erano stati trascritti, con calligrafia impareggiabile, altrettanti brevi componimenti poetici. Una meravigliosa ghirlanda floreale ornava il frontespizio, dando il titolo all'opera e annunciandone il tema: La Guirlande de Julie. Ognuno dei ventinove fiori di cui era intessuto il serto destinato a incoronare la fronte della damigella più ammirata della sua epoca occupava, all’interno del volume, una
tavola a sé, e ciascun fiore prendeva la parola, con uno o più madrigali, per illustrare la bellezza e la virtù diJulie. Questo tour de force prezioso non era solo un gioco letterario: dietro le convenzioni della retorica amorosa e il virtuosismo delle allusioni simboliche palpitava il troppo reale sentimento che il duca di Montausier nutriva da oltre dieci anni per una donna che si dichiarava inaccessibile a sa siasi profferta amorosa. A trentasette anni, in un’età in cui le sue coetanee erano già nonne, Julie d’Angennes si considerava ancora una giovinetta, e non voleva fare i conti con la realtà. La sua vera vocazione era la vita di società: riscuotere l’ammirazione generale, non lasciarla mai venir meno, accrescere ogni giorno il numero delle sue conquiste le sembrava un’impresa molto più emozionante che regnare su un unico cuo-
La Guirlande de Julie
103
re. Ma ci si poteva poi aspettare qualcosa di diverso dalla figlia della marchesa di Rambouillet? Se Arthénice aveva saputo fare del suo salotto il modello della nuova sociabilité francese; se, grazie al suo esempio, l’arte delle buone
ma-
niere e la religione del buon gusto erano destinate a diventare patrimonio irrinunciabile della cultura delle élite nobiliari, come poteva la sua primogenita non rappresentare, ai propri stessi occhi e a quelli del mondo, l’incarnazione perfetta di quell’esprit de société che era tornato a splendere nella Camera azzurra? Figlia prediletta, cresciuta accanto alla madre, Julie era il capolavoro pedagogico della marchesa: aveva un portamento regale, danzava in modo impareggiabile, possedeva un tatto squisito e un gusto infallibile; la sua conversazione sapeva essere varia, spiritosa, brillante,
senza però mai prevaricare su quella dei suoi interlocutori; e tutti facevano a gara per ottenere il suo amore. «Dopo Elena» scriveva Tallemant «non vi è stata persona al mondo la cui avvenenza
non
fosse più unanimemente
celebrata;
eppure non è mai stata una vera bellezza ... Danzando però in modo mirabile, con lo spirito e la grazia che sempre l’hanno contraddistinta, era una persona davvero degna di
ammirazione ».' Ma le passioni e la violenza dell’Eros non avevano accesso all’h6tel de Rambouillet. Lì, come abbiamo visto, la galanteria doveva essere senza amore, la lingua monda da
ogni impurità; lì la vita stessa ambiva a farsi pura rappresentazione artistica. Madame de Rambouillet soleva ripetere che, se avesse potuto tornare indietro negli anni, non si
sarebbe sposata, e Julie realizzava le aspirazioni materne: perché porre fine alla più libera e armoniosa delle esistenze, per abbracciare la prosaica realtà del matrimonio? Sarebbe tuttavia sbagliato credere che Mademoiselle d’Angennes fosse la reincarnazione mondana di sua madre, il suo doppio perfetto. Basta confrontare i giudizi dei contemporanei per cogliere una sostanziale diversità di carattere e di stile fra le due donne: una diversità evidente per i frequentatori dell’hòtel e quanto mai premonitrice dell’evoluzione che la sociabilité francese avrebbe avuto nei suoi sviluppi successivi. Per la figlia della marchesa di Rambotillet la mondanità 1. Historiettes, cit., vol. I, p. 457.
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La civiltà della conversazione
non era, come per sua madre, occasione esclusiva di svago, fuga verso l’Arcadia, gioco gratuito. Madame de Rambouillet aveva creato un mondo a propria immagine e somiglianza, Julie non intendeva stabilire confini alle proprie ambizioni di conquista. La marchesa aveva voltato le spalle alla corte, sua figlia, avendo fatto della seduzione mondana
lo strumento più efficace della propria ambizione, vi sarebbe un giorno tornata in favore. Più forte di ogni sentimento — dell'amore, dell’amicizia, del senso della propria integrità morale —, ciò che spingeva Mademoiselle d’Angennes alla ricerca di un consenso indiscriminato era un imperioso bisogno di piacere. Nel ritratto a chiave di Julie che Madeleine de Scudéry pubblicava, nel 1651, nel Grand Cyrus aleggia l’ombra di un sospetto: come può Philonide! corrispondere ai sentimenti di un numero così prodigioso di amici? Poiché la scrittrice conosceva meglio di chiunque altro la natura artificiale, inautentica della rappresentazione mondana, ella sapeva bene che il successo di ciascuno dipendeva dalla capacità di interpretare con naturalezza e persuasività un modello di comportamento altamente codificato. E nella condotta di Julie, nel suo desiderio d’applausi, vi era un virtuosismo eccessivo, che sollevava un problema di credibilità e apriva un interrogativo sui sentimenti che potevano dissimularsi dietro alla infinita amabilità dei suoi modi. Nessuno
riusciva a penetrare
il suo enigma perché, come
concludeva diplomaticamente Mademoiselle de Scudéry, «ella sola sa con certezza chi ama e in che misura ».? Assai più esplicita e diretta — ma non scriveva i suoi Mémotîres per i contemporanei —, Madame de Motteville coglieva invece tutta la potenziale ambiguità morale di un art de plaire che, un secolo dopo, Rousseau
avrebbe
denunciato
come suprema manifestazione dell’«amor proprio» e come proterva volontà di dominio: «Si comportava con i suoi amici e le sue amiche in modo così amabile che non si poteva fare a meno di desiderare di piacerle ... Le sue dimostrazioni d'amicizia erano talmente cortesi che tutte le persone che la vedevano ne erano lusingate e ciascuna credeva di ricevere un’attenzione particolare. Dicevano, però, che avesse un difetto, e talvolta le confidavano direttamente le 1. Questo il soprannome «prezioso » che si era scelta Julie d’Angennes. 2. Artamène ou le Grand Cyrus, cit., parte settima, libro primo, vol. VII, p. 302.
La Guirlande de Julie
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insinuazioni di cui era oggetto. Le rimproveravano di voler sempre blandire con la sua cortesia anche le persone che non godevano della sua stima, e coloro che credevano di meritarla si lamentavano del fatto che ella sembrasse concederla a tutti in uguale misura e l’accusavano di interessarsi a un numero eccessivo di persone, dicendo che, per vole-
re troppi amici, non ne aveva alcuno ».' Scritto intorno al 1661, il ritratto di Madame de Mottevil-
le dipingeva Julie negli anni della piena maturità, in un’epoca in cui i fasti dell’hòtel de Rambouillet erano già entrati a far parte della leggenda.
Tuttavia,
fin da quando,
quarant’anni prima, la figlia prediletta della marchesa aveva fatto il suo ingresso nella Camera azzurra, era parso evidente che ella non si limitava a essere un semplice ornamento del salotto materno, ma ne costituiva una delle principali attrattive. Insieme, nello spazio chiuso del cercle, ma-
dre e figlia si completavano mirabilmente: la prima più raccolta, più posata, più attenta; l’altra più comunicativa, più estroversa e, al tempo stesso, più indifferente al prossimo. Se mai Mademoiselle d’Angennes avesse preso in considerazione l’ipotesi di uscire da quel cerchio magico e di accettare l’idea del matrimonio, chi avrebbe potuto mostrarsi all’altezza delle sue fantasie romanzesche? Una volta soltanto si era fatto avanti un pretendente degno di lei, e questi non era Charles de Montausier, bensì suo fratello Hector.
Bello, galante, ardimentoso ed elegantissimo — era sempre vestito di rosso —, Hector non avrebbe infatti sfigurato nei romanzi cavallereschi tanto cari alla Camera azzurra e, se non fosse morto da eroe in battaglia, Julie si sarebbe forse decisa a prenderlo in considerazione. Scomparso il maggiore dei Montausier, era stato il secondogenito a farsi avanti.
Nonostante fosse più giovane di Mademoiselle d’Angennes di tre anni, Charles l’amava fin da quando era ragazzo, sen-
za peraltro possedere nessuna delle doti del fratello. Il minore
dei Montausier
era aspro,
intransigente,
sincero
al
punto da apparire brutale. Detestava la falsità e non nascondeva la sua insofferenza neppure per quel tanto di ipocrisia indispensabile a vivere in società. Si dice che Molière prendesse Montausier a modello del suo Misanthrope: certamente il contrasto di personalità offerto dal duca e Julie 1. Mémoires de Madame de Motteville, cit., vol. IV, p. 303 [anno 1661].
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La civiltà della conversazione
nella vita non doveva essere meno clamoroso di quello tra Alceste e Célimène sulla scena. Il duca, però, a differenza del protagonista della commedia di Molière, non intendeva ritirarsi dal mondo né rinun-
ciare alla donna che amava. Per anni e anni egli aveva combattuto ostinatamente contro un duplice ostacolo: il suo carattere rude e poco socievole, e la resistenza di Mademoiselle d’Angennes. Sul primo aveva conseguito, a forza di volontà e di applicazione, sorprendenti vittorie, trasformandosi un po’ alla volta nel più perfetto degli amanti, degno quasi di un trattato di cavalleria. Valoroso in guerra — era in corso quella dei Trent'anni —, a Parigi, nelle tregue invernali, Montausier seguiva come un’ombra, umile e rispettoso, i passi della sua dea. E, quanto al secondo ostacolo, il
duca poteva solo rallegrarsi del fatto che, invece di formulare un netto rifiuto, Julie pareva trincerarsi dietro una vaghezza sibillina. Nel 1641, per uscire da una situazione ormai immobile da troppi anni, Montausier decideva di tentare un'ultima carta e affidarsi al linguaggio dei fiori. La perfezione dell’amore che portava a Julie sarebbe finalmente emersa, assieme a quella dell’amata, in un libro perfetto, dove i fiori di
retorica della poesia avrebbero avuto la funzione di illustrare la valenza simbolica dei fiori reali. Per comporre i quaranta madrigali, Montausier aveva chiesto la collaborazione degli ospiti più dotati della Camera azzurra, mentre, per i caratteri e le illustrazioni, si era affidato a due artisti: il cal-
ligrafo Nicolas Jarry, la cui penna si distingueva da tutte le altre, perché non lasciava trasparire il punto in cui aveva ripreso l’inchiostro, e il pittore di soggetti botanici Nicolas Robert, scoperto dal duca e destinato ad avere presto fra i suoi committenti i reali di Francia. Montausier aveva puntato sulla formula del manoscritto in un’epoca in cui i codici miniati andavano scomparendo soppiantati dalla stampa, perché voleva che il dono offerto a Julie fosse davvero un unicum irripetibile di cui potesse circolare la fama. Dotato di una solida preparazione erudita, possessore di una magnifica biblioteca, Montausier era perfettamente consapevole della ricchezza e della varietà dei simboli che i fiori potevano offrire al suo discorso amoroso. E probabilmente durante l’assedio di Casale era venuto a conoscenza della ghirlanda di madrigali che un illustre abitante della città, Stefano Guazzo, l’autore della Civil conversazio-
La Guirlande de Julie
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ne, aveva dedicato alla contessa Angela Bianca Beccaria. Ma
la sua scelta era anche un preciso omaggio all’hétel de Rambouillet: era stata proprio la marchesa, infatti, a introdurre in Francia l’abitudine di rallegrare la casa con corbeille fiorite e di profumare gli ambienti con pot-pourri di petali odorosi. Coniugando, dunque, il rigore della cultura dotta al gusto per i giochi verbali, gli enigmi, le metamorfosi, gli emblemi, Montausier riusciva a offrire
a Mademoiselle
d’'An-
gennes uno specchio irresistibile in cui rimirare la propria splendida apoteosi. La notizia dell’impresa del duca fece sensazione. I versi della raccolta produssero altri versi, e la eccezionalità dell’evento trovò la sua ultima conferma nella parodia. Se, nel madrigale di Desmarets, la tenera violetta così parla a Julie:
Franche d’ambition, ie me cache sous l’herbe, Modeste en ma couleur, modeste en mon sejour; Mais si sur vostre front ie me puis voir un iour,
La plus humble des Fleurs sera la plus superbe ,' in un vaudeville anonimo si faceva invece riferimento a un fiore che non compariva nella Ghirlanda e che pure sarebbe stato urgente cogliere, quello della verginità della fanciulla celebrata:
Cette fleur vive, rouge et belle Dure au monde si longuement Que l’on peut dire justement Que c'est une fleur immortelle. La recherche en eùt été prompte; Ou si tu la laisses vieillir Pas un ne voudra la cueillir Et son honneur sera ta honte...? La Ghirlanda non strappò l’assenso di Julie, ma aprì una
breccia profonda nel muro della sua indifferenza. La reg1. «Esente da ambizione, mi nascondo tra l’erba, / Modesta nel colore, modesta nella vita; / Ma se sulla vostra fronte io posso vedermi un giorno,
/ Il più umile dei fiori sarà il più superbo », La Guirlande de Julie, a cura di Irène Frain, Laffont, Paris, 1991, p. 129. 2. «Questo fiore vivo, rosso e bello / Dura al mondo da così lungo tempo
/ Che si può dire a giusta ragione / Che è un fiore immortale. / Lo avrebbero raccolto prontamente / Ma se lo lasci invecchiare / Nessuno lo vorrà cogliere / E il suo onore sarà la tua vergogna...», îbid., p. 49.
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La civiltà della conversazione
gente Anna d’Austria, il cardinal Mazzarino, gli amici più
cari e, soprattutto, la madre coalizzarono i loro sforzi per spingerla al gran passo. Dal canto suo Montausier abiurava, nella speranza di poterla finalmente sposare, la fede protestante in cui era nato. Tallemant des Réaux racconta che Julie capitolò all’improvviso, nel maggio del 1645, alla vigilia dei suoi quarant’anni.' Forse, insinua il memorialista,
ella
aveva semplicemente capito che era preferibile essere una novella sposa anziché una vecchia ragazza. Il corteggiamento di Montausier era, in effetti, durato quattordici anni.
Due persone non parteciparono alla gioia dei festeggiamenti: Voiture e il marchese di Pisani. Il fratello diJulie era andato a raggiungere il suo reggimento, dichiarando che, poiché Montausier era così contento, lui si sarebbe certamente fatto ammazzare. La sua profezia si realizzò tre mesi dopo, il 3 agosto di quello stesso anno, a NOrdlingen: le sue malformazioni non gli impedivano di essere un soldato temerario. Dal canto suo Voiture, senza più Julie e senza più Pisani, cominciò a dare segni di squilibrio. Le persone che aveva tanto amato
se n’erano
andate,
e Madame
de Ram-
bouillet non aveva più voglia di ridere: tra i quadri della «galleria» poetica di Georges de Scudéry,° ve n’era descritto uno, dipinto da Pieter van Mol, che ritraeva Arthénice
come una Pietà italiana intenta a contemplare il corpo del figlio morto.?
1. Il matrimonio venne celebrato il 5 luglio 1645 da Godeau, vescovo di Grasse, nel castello di Rueil di proprietà di Madame d’Aiguillon. La regina aveva inviato per l’occasione i ventiquattro violinisti del re. 2. Cfr. Georges de Scudéry, Le cabinet de Monsieur de Scudéry, a cura di Christian Biet e Dominique Mocond’huy, Klincksieck, Paris, 1991, pallio. 3. Cfr. Victor Cousin, La société francaise au XVIF siècle d ‘après le Grand Cyrus de Mlle de Scudéry, 2 voll., Didier, Paris, 1873 (4° ediz.), vol. I, p. 250.
VI MADAME DE LONGUEVILLE: UNA METAMORFOSI ESEMPLARE
Anne-Geneviève de Bourbon Condé aveva sedici anni quando fece la sua prima apparizione ufficiale a corte. Fino ad allora era cresciuta negli appartamenti materni, sotto lo sguardo vigile di Madame la Princesse, trascorrendo molte delle sue giornate nel vicino Carmelo di rue Saint-Jacques. La serenità e la dolcezza austera della regola conventuale avevano esercitato su di lei una suggestione profonda, e nella sua adolescenza innocente e casta Anne-Geneviève si era spesso chiesta se non dovesse preferire la pace del chiostro al tumulto del mondo. Ma i Condé nutrivano altri progetti per la loro bellissima figlia e il 18 febbraio 1635, non tenendo conto delle sue reticenze, l’avevano condotta a un
ballo che si teneva al Louvre alla presenza del sovrano. Come
molte altre fanciulle della sua casta, Mademoiselle
de
Bourbon temeva l’incontro con il mondo. E non erano solo gli insegnamenti delle suore a renderla consapevole dei rischi a cui si sarebbe trovata esposta: nonostante i divieti delle religiose, aveva letto troppi romanzi per non fantasticare sulle infinite seduzioni della vita di società. Così, per costringersi a rimanere fedele a se stessa, Anne-Geneviève
si era munita di un cilicio e lo aveva indossato sotto l’abito da cerimonia. I suoi timori dovevano rivelarsi fondati, e le sue precau-
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La civiltà della conversazione
zioni senza efficacia. Mentre la corte rendeva omaggio alla bellezza «angelica»! della giovane principessa, Mademoiselle de Bourbon scopriva negli sguardi ammirati fissi su di lei una nuova se stessa e veniva catturata dal riflesso di quell’immagine. Come avrebbero detto i suoi futuri amici di Port-Royal, la sua anima, cedendo alla più sottile delle ten-
tazioni — il culto della propria persona —, diventava idolatra. Dalla sera del ballo, ella non avrebbe più vagheggiato di nascondersi in un convento, ma si sarebbe fatta interprete, sul
teatro del mondo, della supremazia estetica e morale a cui si sentiva destinata per bellezza e per rango. Mai gioventù fu più lieta di quella di Mademoiselle de Bourbon. Assieme al fratello, il duca d’Enghien, di poco più giovane di lei — l’altro fratello, il principe di Conti, a quell’epoca era ancora un bambino —, Anne-Geneviève era al centro di una lieta banda di petits-maîtres e petites-maîtresses composta dai figli degli amici più cari di Madame la Princesse,
i Rambouillet, i Clermont, i du Vigean, i Bouteville.
Per alcuni anni, nel sontuoso palazzo parigino dei Condé o nelle splendide residenze estive di Chantilly e dell’IsleAdam, la vita le apparve come un susseguirsi di feste, balli, concerti, spettacoli, cacce, scampagnate, merende, «corse all’anello», giochi di società. Amicizie, confidenze, casti
corteggiamenti bastavano a colmare i cuori e non c’era tempo per preoccuparsi del futuro. E la Camera azzurra, dove sua madre amava condurla, non incoraggiava forse a sperare che anche nel mondo degli adulti potessero prevalere la serenità e l'armonia? L’incantesimo si protrasse fino ai vent'anni. Nel 1642 — comme une rose en la saison nouvelle ... tombe entre les mains d’un passant malappris* Anne-Geneviève veniva data in moglie a Henri d'Orléans, duca di Longueville, il più grande signore di Francia dopo i principi del sangue. Il duca possedeva un’immensa
fortuna,
era vedovo,
aveva ventiquattro
anni
più della sposa e, nonostante l'impegno preso con Madame la Princesse, non sembrava disposto ad archiviare la sua passione per Madame de Montbazon. Per la giovane duchessa, del resto, contavano più le ragioni dinastiche che 1. Mémoires de Madame de Motteville, cit., vol. I, p. 37. 2. «Come una rosa nella nuova stagione ... cade fra le mani di un passante screanzato». Versi scritti per l’occasione da Sarasin, citati in Michel Pernot, La Fronde, Editions de Fallois, Paris, 1994, p. 104, nota 2.
Madame de Longueville
TR
quelle del cuore, e mai come in quegli anni il suo orgoglio
aveva motivo di sentirsi appagato. Con la morte di Richelieu, seguita a breve distanza da quella di Luigi XIII, e l’inizio della reggenza, i Condé riacquistavano tutto il peso politico che il cardinale aveva sottratto ai principi del sangue e diventavano, insieme a Gastone d'Orléans, fratello del re, i principali garanti della corona. Inoltre, dichiarandosi fin dall’inizio a favore di Mazzarino, Monsieur le Prince si assicurava la gratitudine della
regina e del nuovo ministro. Ma non basta. Il 19 maggio 1643, a soli ventidue anni, il duca d’Enghien dava la prima
prova del suo genio militare, sbaragliando l’esercito spagnolo a Rocroi e salvando la Francia dalla minaccia dell’invasione straniera: e da allora la superbia dei Condé non conosceva confini. Combatterla doveva presto diventare una necessità per gli altri «Grandi » del regno. Preoccupati dall’intesa stabilitasi tra Monsieur le Prince e Mazzarino e dalla «tirannide » crescente del nuovo cardinal ministro, amareggiati dall’«ingratitudine » della regina
a cui erano stati fedeli nei tempi difficili ma che ora non li ricompensava degnamente per la loro lealtà passata, i Vendòme e i loro fedeli, Madame de Chevreuse e il suo amante il marchese di Chaàteauneuf, insieme a molti altri il-
lustri scontenti, non tralasciavano occasione per contrastare le pretese dei Condé e per farsi valere. E quando questa opportunità si presentò loro sotto forma di vendetta femminile, gli «Importanti» non esitarono a coglierla. La duchessa di Longueville era sposata da quasi due anni quando Madame de Montbazon, per vendicarsi del disprezzo che la moglie del suo vecchio amante ostentava nei suoi confronti, decise di attaccarla sul terreno della virtù, il solo
— oltre a quello del rango — in cui la superiorità della duchessa appariva incontestabile. Se quella di Madame de Montbazon era stata sacrificata, da molto tempo e senza alcun rimpianto, al suo «estremo desiderio di piacere », sul piano della seduzione femminile la duchessa non temeva confronti. «L’ammirazione universale a cui Madame de Montbazon aspirava » era molto diversa da quella rispettosa e casta che ispirava la sua giovane, angelica rivale, ed erano così pochi gli uomini che non si fossero lasciati travolgere dalla sua bellezza maestosa e sensuale, giunta allora al pieno fulgore dei trent'anni, che la severa Madame de Motte-
ville si vedeva costretta a conferirle nella lunga durata del
Ja
La civiltà della conversazione
secolo «il primato assoluto della bellezza e della galanteria».
Una lettera smarrita, caduta probabilmente dalla tasca di un invitato distratto durante un ricevimento a casa di Madame de Montbazon, fu il pretesto per aprire le ostilità. Era una missiva d'amore
non firmata, la cui grafia faceva sup-
porre una mano femminile. Chi l’aveva scritta e a chi era indirizzata? Il piccolo mistero sembrava fatto apposta per animare una riunione mondana e, sotto la regia sapiente della padrona di casa, «dalla gaiezza si passò alla curiosità, dalla
curiosità al sospetto, e dal sospetto si giunse ad asserire che era caduta dalla tasca di Coligny, il quale era appena uscito e che, a quanto si sussurrava, aveva una passione per Madame de Longueville ».? La storia non poteva annunciarsi in termini più romanzeschi — e non a caso la ritroviamo identica nel più bel romanzo del secolo: perché è difficile dubitare che, nello scrivere l’episodio centrale della Princesse de Clèves, Madame
de La Fayette non pensasse
a Madame
de
Longueville e alla tragica vicenda di cui era stata protagonista, trentaquattro anni prima, colei che aveva amato l’uomo
che ora lei stessa amava. Ma nell’attesa che il duca di La Rochefoucauld venisse a infiammare il suo cuore, il comportamento di Madame de Longueville restava irreprensibile. Non diversamente dal termine esprit, anche la parola galanterie poteva colorarsi di un’infinita gamma di sfumature e perfino assumere, come nel caso delle due signore, significati opposti. Per l’una la galanterie era un gioco di società, un gioco libero e innocente in sintonia con la tradizione
aristocratica e cortese,
per l’altra il confine non era affatto invalicabile e la finzione galante poteva preludere alla pratica dell’amore nella piena libertà dei sensi. Così, per l’altera Madame
de Lon-
gueville, accettare pubblicamente l'ammirazione devota di un cavaliere giovane e bello come Maurice de Coligny faceva parte della honnéte galanterie insegnata all’hòtel de Rambouillet e poteva solo essere oggetto di vanto. Intrattenere con lui una complicità segreta, come
avevano
insinuato a
casa di Madame de Montbazon, significava invece gettare l'ombra del dubbio sulla sua fulgida reputazione. 1. Mémoires de Madame de Motteville, cit., vol. I, pp. 135-36.
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Madame de Longueville
113
Quello che in altri casi sarebbe potuto passare per un pettegolezzo scherzoso diventò agli occhi dei Condé un «affare di Stato ». Madame la Princesse chiese in lacrime alla regina una riparazione degna dell’affronto fatto alla figlia, e Anna d’Austria ordinò a Madame de Montbazon di presentare pubblicamente le sue scuse per le insinuazioni avanzate su Madame de Longueville. Costretta a obbedire, la duchessa si recò, all’ora indicata, all’h6tel de Condé, con
appuntato sul ventaglio un foglietto su cui erano scritte le frasi di circostanza che le era stato chiesto di pronunciare. «Lo fece nel modo più fiero e sdegnoso, assumendo un’aria che pareva dire: “Mi faccio beffe di ciò che dico ”».! L’episodio si chiuse nell’insoddisfazione reciproca dei contendenti e la partita rimase aperta. Madame la Princesse domandò ad Anna d’Austria di essere esonerata dal comparire nei luoghi in cui era prevista la presenza di Madame de Montbazon e quest’ultima, spingendo l’ardire fino all’insolenza, si rifiutò di lasciare un ricevimento dove la regina aveva richiesto la compagnia della principessa di Condé. Fino ad allora la politica della reggente era stata di conciliazione e di tolleranza, ma il gesto irrispettoso di Mada-
me de Montbazon faceva esplodere la sua collera. Era fin troppo evidente che quella storia di ripicche femminili mascherava l’antagonismo crescente tra i Condé e i loro nemici, che altri non erano che i nemici di Mazzarino.
Ed era
ugualmente prevedibile che l’insubordinazione di Madame de Montbazon annunciasse quella del suo nuovo amante, lo spavaldo duca di Beaufort, bellissimo e sprovvisto del più
elementare buon senso, che durante la lunga agonia di Luigi XIII aveva offerto i suoi servigi alla regina e ora non nascondeva l’irritazione nel vedersi preferire Mazzarino. È dietro il duca di Beaufort, fratello del duca di Mercoeur e
figlio del principe di Vendòme, si poteva intuire il malumore ogni giorno più minaccioso della «cabala degli Importanti». Ma tutto questo sarebbe rientrato nel gioco paziente della politica, se Anna d’Austria non si fosse sentita offesa
nella sua stessa dignità di sovrana. Era la sola cosa su cui la reggente non intendeva transigere, e Madame de Montbazon ricevette l’ordine di lasciare immediatamente la corte. Era anche l’inizio del regno di Mazzarino: mettendo a profitto le liti dei suoi oppositori e sfruttando astutamente 1. Mémoires de Madame de Motteville, cit., vol. I, p. 142.
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La civiltà della conversazione
la vampata di indignazione della sovrana, il ministro coglieva l’occasione per liberarsi dei suoi nemici, e uno dopo l’altro i più pericolosi tra gli Importanti erano condannati alla prigione o all'esilio. Nel codice cavalleresco l’intervento reale poteva esiliare e punire ma non risolvere le dispute d’onore, e quando era una dama a subire l’offesa stava al suo cavaliere renderle giustizia, anche a costo della vita. L’onesta galanteria esentava la donna dall’amare, non
l’uomo dal morire e, obbe-
diente a questa logica, il conte di Coligny, non potendo affrontare Beaufort che si trovava in carcere, sfidava a duello un amico del duca, Henri de Guise, che si era schierato nel
campo di Madame de Montbazon. Ma che senso aveva tutto ciò nel caso di Madame de Longueville? Nessuno dubitava della sua innocenza.
Era una
donna
sposata,
in stato
di
avanzata gravidanza di un figlio del suo legittimo consorte e con una famiglia illustre pronta a intervenire in sua difesa. Il suo adoratore non l’aveva compromessa in alcun modo. L’imprudente che aveva osato fare delle insinuazioni sul suo conto era stata punita in modo esemplare, per non dire eccessivo, e il duca di Guise non si era unito in alcun modo
alle maldicenze. Allora, perché forzare un gioco al di là di ogni ragionevolezza? Forse Coligny amava davvero Madame de Longueville e voleva guadagnarsi la sua riconoscenza; 0 forse aveva letto anche lui troppi romanzi, e il ricordo dell’antica inimicizia tra la sua famiglia e quella dei Guise aumentava la spettacolarità del suo gesto.' Un gesto certamente suicida, perché Coligny si stava appena ristabilendo da una lunga malattia, e tutti sapevano che Guise era uno spadaccino mille volte migliore di lui. La sfida ebbe luogo il 1° dicembre
1643, alle tre del pomeriggio, in Place Royale,
luogo prediletto dai duellanti perché consentiva la massima visibilità a un gesto proibito dalla legge. «Lo scontro si concluse in men che non si dica: Coligny cadde e il duca di Guise, in segno di oltraggio, gli tolse la spada e lo colpì di piatto con la sua ... Coligny, sopraffatto dal dolore per non aver saputo difendere una così bella causa, morì quattro o
cinque mesi dopo di mal sottile ».? ilo Cfr. La Rochefoucauld,
Mémoires, in Puvres complètes,
a cura di L. Mar-
tin-Chauffier, cronologia e indici a cura di Jean Marchand, Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard, Paris, 1957, p. 85. SAMIEOGNGIT
Madame de Longueville
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In tutta la vicenda il comportamento più difficile da decifrare appare quello di Madame de Longueville. Quali erano i suoi veri sentimenti per Coligny?! Era stata davvero lei a chiedergli di battersi, come sostiene Madame de Motteville? E se così non era, perché non si era opposta al duello, invece di assistervi nascosta dietro una finestra dell’hòtel de Rohan? Anne-Geneviève era incapace di distinguere tra realtà e romanzo, e la sua fantasia troppo accesa la induce-
va a credersi un’eroina di Corneille — o la sua condotta era piuttosto dettata da un amor proprio a cui tutto appariva dovuto, ivi compreso l’omaggio della vita? Molti anni dopo, nella sua «confessione generale », Ma-
dame de Longueville ammetterà di aver «sempre cercato il piacere in tutto ciò che lusingava il suo orgoglio, fino a prefiggersi quello che il Demonio aveva promesso ai nostri progenitori: “Sarete simili a Dio!”».? Nell’ansia di espiazione, la penitente lasciava che il ricordo del peccato invadesse totalmente la sua memoria fino a occupare l’intera sua vita. Eppure quel «sempre » aveva una storia, Lucifero aveva agito per gradi.
Tutti i Condé, a cominciare da Madame la Princesse, era-
no accomunati dalla convinzione di essere diversi dal resto del mondo, e trovavano conferma di ciò nella reciproca ammirazione.
Principi del sangue, immensamente
ricchi e
potenti, non erano solo implacabili nell’esigere quanto ritenevano fosse loro dovuto, ma applicavano la stessa intransigenza a ciò che giudicavano di dovere a se stessi. Credevano nell’eccellenza: il duca d’Enghien era il capolavoro pedagogico dei gesuiti, sua sorella quello della Camera azzurra. Praticavano le virtù tradizionali della loro casta — il coraggio, la fierezza, il fasto — e, facendosi interpreti del nuo-
vo spirito del tempo, si distinguevano anche per il mecenatismo artistico, l'eleganza delle maniere, l’infallibilità del gusto. Certo nessuno era esente da debolezze o da vizi, ma
1. A differenza di La Rochefoucauld, il cardinale di Retz sostiene che Ma-
dame de Longueville era innamorata di Coligny (Mémotres, La conjuration du comte Jean-Louis de Fiesque, Pamphlets, cit., p. 132). 2. J].F Bourgoin de Villefore, La véritable vie d’Anne-Geneviève de Bourbon, duchesse de Longueville, par l’Auteur des Anecdotes de la Constitution Unigeni-
tus, 2 voll., J.-F. Jolly, Amsterdam, 1739, vol. II, p. 50.
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La civiltà della conversazione
le carenze individuali venivano compensate dalla somma delle qualità dei vari membri della famiglia. I Condé formavano un tutto, e la vita di ciascuno sconfinava in quella degli altri. Fin da giovanissima, Anne-Geneviève era stata al centro di questo gioco di specchi: amata e vezzeggiata da tutta la famiglia, avrebbe presto stabilito con il duca d’Enghien un rapporto di seduzione e di dominio vagamente incestuoso, destinato a riprodursi in seguito con il fratello più giovane.° L’ammirazione e la gelosia, le rotture e le rappacificazioni erano i momenti estremi di un processo di identificazione e di esaltazione reciproca che rafforzava nei Condé la certezza di essere una razza a parte, un clan con uno speciale codice di comportamento e uno stile inconfondibile. Marie d’Orléans, figlia di primo letto di Monsieur de Longueville —- che avrebbe avuto agio di provare nei suoi Mémotres quanto poco amasse la matrigna —, ci descrive l’es-
prit dei Condé in quei felici anni Quaranta in cui il duca
d’Enghien, divenuto principe alla morte del padre (1646), si aggiudicava con una serie strepitosa di vittorie l’appellativo di «grande ». A quell’epoca, i Condé si divertivano a dettar legge in società attraverso il pacifico esercizio della conversazione; e le conversazioni che prediligevano, ci riferisce Marie, erano quelle «galanti e briose », in cui potevano disquisire «sulla delicatezza del cuore e del sentimento ... Coloro che vi brillavano erano dunque, a loro giudizio, persone di qualità e degne di stima; giudicavano invece ridicoli e
rozzi tutti quelli che azzardavano conversazioni dall’aria vagamente seria ».} Nel momento stesso in cui si affermava come ideale comune, l’esprit de société era costretto a fare i conti con le dif-
ferenze di tono delle varie cerchie aristocratiche. L’esprit dei Condé, quello dei Mortemart o degli ambienti preziosi sono esempi illustri di una volontà di diversificarsi che forzava le regole del conformismo mondano rifiutando l’omologazione. Ma, superata la metà del secolo, con il trionfo
del gusto classico, moralisti e scrittori si sarebbero coalizzati per combattere come ridicolo e pericoloso ogni desiderio 1. Cfr. La Rochefoucauld,
Mémotres, cit., p. 86.
2. Cfr. Retz, Mémoires, cit., p. 132. 3. Mémoires de Marie d’Orléans duchesse de Nemours (1625-1707) (1709), Mercure de France, Paris, 1990, p. 78.
Madame de Longueville
TD7
di «distinzione ». Non diversamente da quello letterario, il
buon gusto mondano doveva consistere nel mantenersi costantemente in equilibrio tra la naturalezza e la norma, tra
la fedeltà a se stessi e l'obbedienza alle esigenze della « buona compagnia». Madame de Longueville ne aveva l’assoluta consapevolezza e poteva, quando era necessario, dimenticare
l’esprit
dei Condé e adottare quello dell’h6tel de Rambouillet. E a Mùnster, dove nel 1646 era andata a raggiungere suo marito, ella diede prova di aver colto l’importanza che quell’ideale di perfetta cortesia mondana poteva rivestire non solo sul piano sociale, ma su quello della diplomazia e della politica. Per la prima volta lontana dall’hòtel de Condé, Anne-Geneviève scopriva il piacere di avere un ruolo tutto per sé. Dal 1645 Monsieur de Longueville era ambasciatore plenipotenziario di Francia nella cittadina tedesca, dove la diplomazia europea cercava di raggiungere un accordo generale che mettesse fine alla guerra dei Trent'anni. Mentre suo fratello imponeva la supremazia della Francia sui campi di battaglia, e suo marito cercava di farla valere al tavolo delle trattative, Anne-Geneviéève illustrava la superiorità del
suo Paese sul piano della civiltà e dell'eleganza. Con al seguito un brillante stuolo di gentiluomini e letterati, la giovane ambasciatrice dimostrò le qualità altamente diplomatiche della conversazione francese, per sua stessa natura attenta a mediare le differenze, smussare i contrasti e tenere
in altissimo conto l’amor proprio altrui. Il 6 dicembre 1646, il conte d’Avaux — che non si limitava
a eccellere nell’arte della diplomazia, ma impersonava tutte le virtù del perfetto uomo
di mondo
- scriveva a Voiture,
perché questi ne informasse la Camera azzurra, della popolarità di cui godeva Madame de Longueville e ne tesseva le lodi: « Una persona così preziosa, che ha fatto duecento leghe per venire a trovare l’anziano marito, che ha lasciato la
corte per la Vestfalia, che si mostra di una gaiezza costante, che di recente si è estasiata nel vedere una commedia dai gesuiti (per la verità era in buon latino), che concede un
gran numero di udienze, che si intrattiene piacevolmente con Monsieur Salvius, Monsieur Vulteius, Monsieur Lampa-
dius, che non ha più timore di un grosso olandese che la
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La civiltà della conversazione
bacia regolarmente due volte all’ora durante tutte le sue visite, che accoglie affabilmente le cortesie di un altro ambasciatore che le consiglia di imparare il tedesco per divertimento, che con tutto ciò ingrassa di qualche chilo a Mùnster e mostra un viso soddisfatto, che divide le sue ore tra le
buone letture e le udienze, che fa progredire la pace tanto con i consigli quanto con le preghiere, che non
possiede
solo in massimo grado le virtù delle donne, ma ne ha molte altre: Quas sexus habere / Fortior optaret».'
La pace tanto attesa venne conclusa solo il 24 ottobre 1648, in Vestfalia, senza la presenza di Madame de Longueville. Da più di un anno Anne-Geneviève era ritornata in Francia «incoronata di mirto ».? A _Mùnster la principessa aveva scoperto il mondo della politica e trionfato in quello dell’alta diplomazia; era stata ambasciatrice dell’urbanità e dell’eleganza francesi e si era imposta all’ammirazione dei rappresentanti di tutte le potenze europee; aveva, infine, contribuito alla gloria dei Condé con una vittoria assolutamente personale. La trionfale accoglienza parigina non fece che rafforzare il suo desiderio di occupare la scena: «Ella divenne l’oggetto di tutti i desideri, il suo salotto divenne
il centro di tutti gli intrighi, e quelli che amava divennero all'istante i beniamini della Fortuna. I suoi cortigiani furono riveriti dal ministro; e nel giro di poco tempo ella si sarebbe rivelata la causa di tutte le rivoluzioni e di tutti i conflitti che hanno rischiato di mandare in rovina la Francia». L'amore fece il resto. I suoi sensi erano freddi, ma la sua fantasia si era sempre mostrata incline al romanzesco e, quando riconobbe finalmente il suo eroe nel duca di La Rochefoucauld,
gli si donò
tutta intera.
«Per lui divenne
ambiziosa; per lui smise di amare la pace; e riponendo tutta la sua sensibilità in questo amore,
diventò insensibile alla
propria gloria».' Era forse questa una debolezza congenita 1. Da una lettera di Claude d’Avaux a Voiture del 6 dicembre 1646, citata in Victor Cousin, La Jeunesse de Madame de Longueville, Didier, Paris, 1876
(1° ediz., 1852), pp. 282-83. 2. Lettera di Antoine Godeau, vescovo di Grasse, ville, citata in dbid., p. 287.
a Madame
3. Mémoires de Madame de Motteville, cit., vol. I, p:'334. MU di
:p:73351
de Longue-
Madame de Longueville
119
del suo carattere, come si legge in un ritratto crudele ingiustamente attribuito al duca?! O «un desiderio di brillare aggiuntivo », come
insinua
Sainte-Beuve??
O non
denotava,
piuttosto, la sua perfetta identificazione con l’uomo amato e la sua volontà di elevarlo a una altezza degna di lei? Certamente la passione, strappandola al consueto languore, le infuse un senso di onnipotenza e, per meglio indurla in tentazione, Lucifero si servì della Fronda.
Benché gli storici moderni non siano sempre ugualmente inclini a dare un posto di rilievo alla figura di Madame de Longueville, le testimonianze dei contemporanei sono concordi nell’attribuirle una parte importante nei conflitti civili che sconvolsero la Francia tra il 1648 e il 1653. Ma AnneGeneviève non era la sola esponente del suo sesso a invadere il territorio maschile della politica. Più di qualsiasi altro conflitto nella storia francese, la Fronda appare come una guerra di donne.
Non
diversamente
da lei, la duchessa di
Chevreuse, la principessa Palatina, la Grande Mademoiselle e altre dame dell’alta nobiltà avrebbero cinto il cimiero, or-
dito complotti, istigato alla ribellione, seminato discordia. Fra un
«mondo
alla rovescia», come
è stato detto,
o non
piuttosto l’ultima, spettacolare occasione in cui uomini e donne della nobiltà francese avrebbero combattuto insieme per fare prevalere gli interessi particolari della propria casta, e del proprio casato su quelli generali dello Stato? E poiché nella Fronda dei principi l’odio per Mazzarino era il cemento illusorio di una intesa impossibile all’interno stesso del mondo nobiliare, dove neppure i Grandi costituivano un blocco monolitico ma erano in permanente conflitto tra di loro, sarebbe forse più opportuno parlare di interessi di lignaggio e di clan. Nella società di Antico Regime le ambizioni di un individuo non potevano prescindere dall’appoggio della famiglia, che a sua volta aveva bisogno di estendersi e rafforzarsi attraverso la fitta rete delle alleanze 1.
«Lungi dall’imporre il proprio volere a coloro che le portavano una
speciale adorazione, ne adottava così totalmente i sentimenti da non riconoscere più i propri», citato in Charles-Augustin Sainte-Beuve, «Madame de Longueville », in Portraits de femmes, in Euvres, 2 voll., Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard, Paris, 1950-1951, vol. II, p. 1280.
OBIOGNCIÙ:
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La civiltà della conversazione
matrimoniali. Fratelli, figli, nipoti, cugini, con le loro cariche, le loro relazioni, le loro zone d’influenza, erano gli al-
leati irrinunciabili di chiunque ambisse a un potere duraturo. E il primo a saperlo era l’odiato Mazzarino, che per co-
struirsi un retroterra familiare avrebbe fatto venire dall’Italia un esercito di nipoti. Da sempre, nella civiltà aristocratica, le donne erano abi-
tuate ad anteporre alle proprie inclinazioni ciò che poteva servire a rafforzare la posizione della famiglia, e non conoscevano ambizione maggiore di quella di appartenere a un casato illustre. Ostentare sfarzo, bellezza, eleganza e, intanto, tessere nell’ombra intrighi, alleanze, matrimoni, era la
strategia tradizionale a cui faceva ricorso l’intelligenza femminile. «Per l’interesse del proprio casato», la assai poco domestica principessa di Guéméné si dichiarava «pronta a usare il pugnale», anche se la posta in gioco era il diritto al tabouret di una giovane cognata.' In epoche lontane, quando i mariti erano costretti a partire per la guerra, talune di loro non avevano esitato a prendere le armi per difendere le proprie terre dalle prepotenze dei vicini. E solo pochi anni prima, in assenza del marito, Barbe d’Ernecourt, contessa di Saint-Balmon, vestita da uomo, aveva guidato a cavallo
un'armata di contadini per impedire che le sue proprietà in Lorena venissero devastate dagli eserciti austriaci e francesi. Nell’incitare le province governate dai loro padri, dai loro mariti, dai loro fratelli a ribellarsi all’autorità reale, Mademoiselle de Montpensier, Madame de Longueville e
persino la timida e poco amata moglie di Condé agivano in nome
dei loro uomini, prigionieri o lontani, secondo l’an-
tica logica del costume feudale. Così, pur facendo proprie le ambizioni di La Rochefoucauld, Anne-Geneviève non avrebbe mai trascurato quelle della famiglia, e si sarebbe
battuta con uguale determinazione per difendere gli interessi del marito e dei fratelli. Perché dunque porre le amazzoni della Fronda sotto il segno della rottura e non, piuttosto, sotto quello della con-
tinuità? La guerra civile non innovava il codice di comportamento della nobiltà, semmai tendeva a esasperarne l’indi1. Tallemant, Historiettes, cit., vol. II, p. 229. Solo le duchesse, i principi del
sangue e le donne incinte avevano diritto a sedersi (in genere su uno sgabello senza schienale, un tabouret) negli appartamenti della regina o quando erano ammessi ad assistere al pasto del re.
Madame de Longueville
TOI
vidualismo e a incoraggiarne gli eccessi. E là dove il ricordo dell’antico eroismo femminile si era fatto troppo debole, la
letteratura veniva a rinverdire l’immagine della femme forte con le sue Bradamanti, le sue Clorinde e le sue Semiramidi,
a cui sì era proprio allora aggiunto il fulgido eroismo della Pucelle di Chapelain. Ben presto, però, l’identificazione con i modelli letterari si sarebbe rivelata pericolosa per entrambi i sessi. Tra i frondisti vi erano troppi appassionati di romanzi persuasi che la vita fosse speculare alla letteratura. E in primo luogo ne era convinta Madame de Longueville che a Parigi, nell’inverno del 1649, in piena Fronda parlamentare, dava a Retz l’impressione di essere un’eroina usci-
ta dalle pagine dell’ Astrée.' Se la duchessa indulgeva a fantasie romanzesche,
era a
sua volta la musa ispiratrice del nuovo grande successo narrativo dell’epoca, destinato a esercitare un notevole influs-
so sull’immaginario collettivo. Mademoiselle de Scudéry non si limitava a dedicare a Madame de Longueville, l’uno dopo l’altro, i dieci volumi di Artaméne ou le Grand Cyrus, trasposizione romanzesca della Fronda allora in corso, ma ne faceva anche l’eroina principale della sua storia. Nessuno dei lettori contemporanei,
infatti, esitava a riconoscere
il Gran Condé sotto il travestimento esotico dell’eroico Cyrus e a ravvisarne la sorella nella bellissima Mandane.
Assai prima che La Rochefoucauld facesse la sua comparsa, Mazzarino aveva intuito il pericolo che Anne-Geneviève poteva rappresentare sul terreno della politica: «La detta Dama ha tutto il potere sopra il fratello » annota in uno dei suoi taccuini il cardinal ministro. «Vorrebbe veder il fratello dominare e disporre di tutte grazie ... insinua nel fratello concetti alti alli quali per tanto egli è naturalmente portato ... Crede con il fratello che tutte le grazie che si accordano alla sua persona,
casa, parenti e amici, li sieno dovute ».°
Con l’esplodere della Fronda parlamentare le preoccupazioni del ministro trovavano conferma nei fatti. Su istigazione di Madame de Longueville, prima il principe di Conti, poi il Gran Condé si sarebbero ribellati all’autorità reale e 1. Cfr. Retz, Mémoîres, cit., pp. 153-54. 2. Citato in Cousin, La jeunesse de Madame de Longueville, cit., p. 272, nota l.
122
La civiltà della conversazione
avrebbero mosso guerra a Mazzarino per dare la piena misura del loro potere e assumere la guida del Paese. Ambizione tragica, destinata a radicalizzare la Fronda e a insan-
guinare la Francia con una nuova guerra civile. Eppure memorialisti con visioni discordanti come Retz e La Rochefoucauld,
me de Motteville Madame
Mademoiselle
de Montpensier,
Mada-
e Madame de Nemours, pur muovendo su
de Longueville un’imponente lista di accuse, non
riuscivano a non mostrare rispetto per il suo coraggio impavido. Forse Madame de Longueville era davvero un semplice strumento dell’ambizione di La Rochefoucauld, forse non era altro che un’«avventuriera» della Fronda, come l’avrebbe definita nei suoi Mémotres il cardinale di Retz;! ma
è impossibile non rimanere colpiti dalla ferrea determinazione con cui si imponeva al marito, sobillava i fratelli, rom-
peva con loro e poi li riconquistava, si alleava con il Parlamento di Parigi, si cimentava con l’aiuto dei suoi segretari nell’eloquenza civile e nell’invettiva politica, attraversava la Francia a cavallo, incitava la Normandia
alla ribellione, af-
frontava il mare in tempesta per cercare rifugio in Olanda, conduceva dalla cittadina di Stenay, sola roccaforte rimasta in mano
ai ribelli, le trattative con Mazzarino,
si alleava a
Bordeaux con il movimento ultrapopolare dell’Ormée. Reputazione,
morale,
affetti, tutto sembrava
subordinato
al-
l’affermazione eroica dell’io e al desiderio di potere: la galanteria era diventata per lei uno strumento di vanità e di dominio. Così, quando decise di espugnare il cuore del duca di Nemours, che aveva seguito Condé nella Guyenne,
Madame
de Longueville «gli fece delle avance tali che il
principe, pur essendo molto innamorato di un’altra dama,
non poté resisterle; ma la sua resa fu dettata dalla fragilità della carne più che dallo slancio del cuore. Il duca di La Rochefoucauld, che da ormai tre anni era l'amante riamato di Madame de Longueville, prese atto della sua infedeltà
con tutta la rabbia che una simile circostanza comporta. Ed ella, che era interamente assorbita dalla sua grande passione per il duca di Nemours, non si preoccupò in alcun modo di avere un po’ di riguardo per il suo antico amante ... Questa relazione fu di breve durata, e il duca di Nemours non poteva sforzarsi di dimostrare un amore che non sentiva. Come avrebbe potuto la principessa, che era sudicia ed 1. Retz, Mémoires, cit., p. 158.
Madame de Longueville emanava
cattivo odore, nascondere
tali difetti
125 a un uomo
perdutamente innamorato di un’altra donna?».! Sacrificando La Rochefoucauld al duca di Nemours, Madame de Longueville veniva meno anche a se stessa: l’eroina preziosa del Grand Cyrus scendeva, infatti, dal suo piedistallo per raggiungere l’universo degradato delle dame galanti che popolano l’Histotre amoureuse des Gaules, e non potevano certo essere i Mémotres® dell'amante tradito a ricondurla nel regno dell’ideale. Eppure, fin quando c’era stata la possibilità di lottare, non vi erano stati fallimenti, avversità, delusioni che riuscissero a domarla.
Non meno straordinarie appaiono la forza e la dignità di
Madame de Longueville nel momento in cui è costretta ad ammettere il naufragio di tutte le sue ambizioni; la terribile
energia che l’aveva sostenuta fino ad allora cede il posto a una nuova forma di coraggio: quello della rassegnazione. L’amazzone esaltata riconosce l’autorità del marito, si ricon-
cilia con la corte e riprende la strada del Carmelo, tentando di espiare la sua condotta con una vita esemplare. E come se le fosse caduta una benda dagli occhi: « Tutte le attrattive del-
la verità riunite in un unico oggetto mi si pararono dinanzi » scrive ancora nella sua confessione generale.
«La Fede, che
era rimasta come morta e sepolta sotto le mie passioni, tornò a vivere. Mi ritrovai simile a una persona che, dopo aver so-
gnato a lungo di essere grande, felice, onorata e stimata da tutti, si sveglia di colpo e si ritrova carica di catene, coperta di piaghe, prostrata e rinchiusa in una prigione oscura ».° Chateaubriand racconta che nel 1650, prima di spirare lontana dalla figlia, Madame la Princesse aveva detto alla contessa di Brienne:
«Cara amica, riferite a quella povera disgraziata che è a Stenay lo stato in cui mi vedete, e che impari a morire ».' A 1. Roger de Bussy-Rabutin, « Histoire d’Angélique et de Ginotic», in Histoire amoureuse des Gaules, a cura di Jacqueline e Roger Duchéne, Gallimard, Paris, 1993, p. 108. I nomi, in codice, sono stati sostituiti con quelli reali.
2.1 Mémoîres di La Rochefoucauld erano stati oggetto, a partire dal 1662, di diverse pubblicazioni pirata a opera di editori olandesi, con un gran numero di varianti e interpolazioni. 3. Bourgoin de Villefore, op. cit., vol. II, p. 5. 4. Francois-René
de Chateaubriand,
Mémotres
d’Outre-Tombe,
a cura
di
Jean-Claude Berchet, Classiques Garnier, Bordas, Paris, 1989-1998, vol. II, p. 16 (Memorie d’oltretomba, Introduzione di Cesare Garboli, a cura di Iva-
124
La civiltà della conversazione
partire dal 1654, tutta la condotta di Madame de Longueville sembra rispondere all’esortazione materna. Al Carmelo — dove era stata educata, e dove tornava a cercare confor-
to e consiglio — ritrovava alcune delle suore che aveva conosciuto da bambina e con cui non aveva mai interrotto i contatti, ma anche vecchie amiche che, più coraggiose e più sagge di lei, avevano scelto l’eroismo della rinuncia e aveva-
no trovato la quiete interiore consacrandosi a Dio. Sotto il velo di suor Anne-Marie de Jésus, ad esempio, si nasconde-
va quella Anne-Louise-Christine de Nogaret de La Valette d’Epernon che era entrata al Carmelo a venticinque anni, dopo la morte in battaglia del cavaliere di Fiesque a cui era unita da un amore tenero e casto. E nel corso di quello stesso 1649 Mademoiselle du Vigean, abbandonata ogni speranza di potere un giorno sposare Condé e decisa a non amare nessun altro, aveva preso ugualmente il velo con il nome di suor Marthe de Jésus. Anche a Port-Royal, che intorno al 1660 diventava l’altro grande punto di riferimento spirituale della sua vita di convertita, Madame de Longueville non sarebbe stata sola. Più di una dama dell’alta società voltava come lei le spalle al mondo e cercava rifugio all'ombra del celebre monastero.
Gli stessi strumenti di cui Anne-Geneviéève si era avvalsa per coltivare il senso della propria superiorità dovevano ora servire a umiliare il suo orgoglio. La sua sottigliezza psicologica non si esercitava più a disquisire sulla delicatezza del cuore e del sentimento, ma era diretta a un’autodenigrazione implacabile. Torbido. e infido, «il fondo del cuo-
re» nascondeva segreti vergognosi e si sottraeva anche all’introspezione più severa, impedendo persino la certezza della colpa. Se nel passato Anne-Geneviève era stata vigile nel pretendere ciò che riteneva le fosse dovuto, ora era at-
tenta a non tralasciare la minima occasione di mortificarsi. E tutta la diplomazia, tutta la capacità di persuasione di cui aveva fatto sfoggio a Mùnster, nelle alleanze della Fronda, a Stenay, erano adesso al servizio della « pace della Chiesa»,
la tregua che nel 1669 avrebbe messo provvisoriamente fine alle dispute teologiche fra le autorità ecclesiastiche e i solitari di Port-Royal.' Come traspare dalle sue lettere, la na Rosi, trad. it. di F. Martellucci, I. Rosi e F. Vasarri, 2 voll., Einaudi-Gallimard, Torino, 1995, vol. I, piidd4)i
1. Ciò che il giansenismo doveva a Madame de Longueville apparve evi-
Madame de Longueville
125
sua adesione al giansenismo «si delinea, paradossalmente,
senza connotati dottrinali, piuttosto come espressione profonda di una sensibilità religiosa e di un nodo storico di relazioni e di affetti. La sua teologia personale è un’angosciata ricerca di segni di salvezza ... è la rigidezza stessa un poco maniaca dei solitari, che si accorda in lei col bisogno di dirittura morale e col puntiglio tremante dello scrupolo ».! Incapace di dimenticare il suo tradimento, La Rochefoucauld non credeva alla sincerità della sua conversione e la chiamava ironicamente
la «madre»
della Chiesa, forse di-
menticando che Madame de Longueville era anche la madre di suo figlio, il conte di Saint-Paul, poi duca di Longueville, frutto della loro relazione. Il suo battesimo, celebrato da Retz, all’inizio del 1649, nella capitale assediata, era sta-
to un'occasione di festa per tutta la Fronda parlamentare, e il nome
scelto per lui, Charles-Paris, rifletteva l’euforia del
momento e un intento demagogico non dissimile da quello che, centoquarant’anni dopo, avrebbe spinto un altro Orléans a chiamarsi Philippe-Egalité. Intelligente, coraggioso e assai somigliante al padre naturale, il conte di SaintPaul era teneramente amato da entrambi i genitori, e la sua morte sul campo di battaglia li avrebbe accomunati nell’ultima, terribile prova della loro vita. Come uno dei due figli legittimi di La Rochefoucauld,
Longueville fu ucciso, vitti-
ma del suo «bollente ardore »,° il 12 giugno 1672, durante il celebre « passaggio del Reno», l’exploit militare — « prodigio del nostro secolo e della vita di Luigi il Grande » —' con dente al momento della morte della duchessa. A meno di un mese dalla sua scomparsa, un'ordinanza reale ingiungeva agli ecclesiastici e ai solitari di Port-Royal di abbandonare il convento e proibiva alle religiose di accogliere altre novizie. Come avrebbe dichiarato Luigi XIV a Condé, soltanto un sentimento di riguardo nei confronti di Madame de Longueville lo aveva indotto a rinviare fino ad allora la chiusura del monastero. 1. Benedetta Papàsogli, Ritratto di Madame de Longueville, in La lettera e lo spinito. Temi e figure del Seicento francese, Libreria Goliardica, Pisa, 1986, pp. 110-11. 2. Mémotres du Père René Rapin de la Compagnie de Jésus sur l’eglise et la société, la coux la ville et le jansénisme, publiés par Léon Aubineau, 3 voll., Librairie
Catholique Emmanuel Vitte, Paris-Lyon, 1865, vol. II, p. 420. 3. Madame de Sévigné a Madame de Grignan [3 luglio 1672], in Correspondance, a cura di Roger Duchéne, 3 voll., Gallimard, Paris, 1972-1978,
vol. I, p. 547. 4. Bossuet citato in Francois Bluche, Louis XIV, Fayard, Paris, 1986 (L'’età
di Luigi XIV, trad. it. di Carlo De Nonno, Introduzione di Giuseppe Galasso, Salerno Editore, Roma, 1996, p. 335).
126
La civiltà della conversazione
cui Luigi XIV, alla testa delle sue truppe, dava inizio all’invasione dell'Olanda. Il Gran Condé, che dirigeva le operazioni, avrebbe
riportato con
sé, avvolto in un mantello, il
corpo del nipote morto. «Madame de Longueville, mi dicono, spezza il cuore» racconta Madame de Sévigné. «Io non l’ho vista, ma ecco
quello che so. Mademoiselle de Vertus era tornata da due giorni a Port-Royal, dove passa quasi tutto il suo tempo. Sono andati a cercarla, assieme a Monsieur Arnauld, perché fosse lei a darle la terribile notizia. È bastato che Mademoiselle de Vertus si mostrasse: quel ritorno così precipitoso lasciava presagire qualcosa di funesto. In effetti, non appena ella apparve: “Ah! Mademoiselle, come sta il mio Signor Fratello?”. Il suo pensiero non osò spingersi oltre. “Madame, la sua ferita non è grave. C'è stato un combattimento”. “E mio figlio? Figlio caro! E morto subito? Non ha avuto neppure un istante? Ah, mio Dio! Che sacrificio!”. Così dicendo cadde sul letto e tutto ciò che il dolore più vivo può provocare, convulsioni, svenimenti, un silenzio mortale, grida soffocate, lacrime amare, slanci verso il cielo, lamenti
teneri e pietosi, tutto questo ella lo ha provato. Vede pochissime persone. Prende un po’ di brodo, perché Dio lo vuole. Non ha pace. La sua salute, già in pessimo stato, è visibilmente alterata. Io, che non comprendendo come possa
vivere dopo una tale perdita, le auguro la morte. «Vi è un uomo al mondo che non è meno colpito; niente mi toglie dalla mente che, se si fossero incontrati tutti e due in quei primi istanti, alla sola presenza del gatto, tutti gli altri
sentimenti avrebbero fatto posto alle grida e alle lacrime cui sì sarebbero abbandonati senza ritegno: è una visione ».! La «visione» di Madame de Sévigné si basava sulla frequentazione assidua di La Rochefoucauld e sulla stretta amicizia con Madame de La Fayette, e tutto ci induce a credere che, udendo parlare del dolore della sua antica amante, il duca potesse finalmente intuire cosa significava per Madame de Longueville essere «madre».
La Rochefoucauld non era il solo a nutrire dubbi sull’autenticità della metamorfosi di Madame de Longueville. 1. Madame de PESARO a Madame de Grignan, 20 giugno [1672], in Correspondance, cit., vol. I,pp. 535-36.
Madame de Longueville
1297
Quelli che avanzava padre Rapin, anche se dettati da ragioni di parte, sono per noi di grande interesse. Perché, si chiedeva il gesuita, la duchessa di Longueville, la principessa di Guéméné, la marchesa di Sablé, la contessa di Maure,
Mademoiselle de Vertus e tante altre dame dell’alta aristocrazia si lasciavano attrarre da Port-Royal? Perché una società raffinata, dedita agli svaghi, innamorata
delle appa-
renze, invece di apprezzare lo sforzo che la Compagnia di Gesù faceva per conciliare le ragioni della religione con quelle del mondo,
prestava ascolto al richiamo
del rigori-
smo giansenista? La spiegazione di padre Rapin è brillantemente riduttiva: il successo di Port-Royal fra la gente della buona società era dovuto a ragioni esclusivamente mondane, al gusto della novità, al desiderio di distinguersi. Mentre nelle Fiandre il giansenismo non usciva dai confini di una discussione fra teologi, «in Francia erano soltanto le persone altolocate, i beaux esprits e le dame» a propagare la nuova dottrina.' Considerato l’alto rango del personaggio, il caso di Madame de Longueville appariva pericolosamente esemplare, e per screditarlo Rapin ricorreva all’arte sottile della denigrazione: «Quel partito aveva da molto tempo cominciato a piacerle per la severità della morale che si insegnava a Port-Royal. Ella era, infatti, naturalmente severa nei sentimenti, perché lo trovava più bello, anche se poi non lo era affatto nella condotta. Inoltre, l'eleganza intel-
lettuale [politesse d’esprit,] che regnava più che altrove in quella cricca le risultava profondamente congeniale, essendo ella stessa estremamente elegante e avendo grande stima per chi lo era».? Prigioniera delle apparenze, Madame de Longueville poteva avere riformato la sua condotta, ma
gettandosi nelle dispute teologiche praticava un libertinaggio assai più pericoloso di quello dei sensi: «la galanteria dello spirito ». Per la contropropaganda giansenista, invece, la conversazione di Anne-Geneviève, senza rinunciare né alla « delicatezza», né all’esprit, era in intima armonia con la sua fervida
religiosità. Sotto la penna di un «solitario» — forse Nicole — perfezione mondana e umiltà cristiana si rivelavano sorprendentemente speculari: «Era cosa degna di studio il 1. Mémoires du Père Rapin, cit., vol. I, p. 36.
2. Ibid., vol. II, p. 151. 3. Ibid., p. 147.
128
La civiltà della conversazione
modo in cui Madame de Longueville conversava con la gente ... Non diceva mai nulla a proprio favore, e non vi era eccezione
alla regola. Ella coglieva, senz'’ombra
d’affetta-
zione, tutte le occasioni possibili per umiliarsi. Diceva così bene tutto quel che diceva che sarebbe stato difficile dirlo meglio, per quanti sforzi si potessero fare ... Parlava in mo-
do modesto, caritatevole e senza passione ... Il tono che più le era estraneo era quello arrogante e superiore, e so di persone, peraltro assai amabili, che non le sono mai piaciute
perché avevano un che di quel tono ... Insomma, tutto il suo aspetto esteriore, la sua voce, il suo volto, i suoi gesti
erano come una musica perfetta, e il suo spirito e il suo corpo si prestavano così bene a esprimere ciò che ella desiderava comunicare da fare di lei la più perfetta attrice del mondo ».! Dopo la morte del figlio le occasioni di conversazione della principessa sarebbero diventate sempre più rare. Se il voler cercare la verità nel commercio degli uomini era pura illusione, meglio senz’altro tacere. Non esistono parole innocenti, l’ammoniva infatti Rancé, e l’atto stesso di comunica-
re implica la menzogna: «Non solo si offende Dio con la parola quando si comunica con gli uomini, ma si pecca altresì con i pensieri quando non si è più con loro, perché si rimane invischiati in una rete di rapporti e di legami contro cui non vi è difesa. E chiunque si osservi con attenzione troverà grandi
differenze
tra ciò che
è nelle
conversazioni,
per
quanto pure esse siano, e ciò che è quando rimane solo ».È Disertando l’hòtel de Longueville, Anne-Geneviève andò
ad abitare a Port-Royal des Champs, in una casa accanto al convento, dal quale usciva solo per recarsi in visita al Carmelo di rue Saint-Jacques: «Si sarebbe detto che volesse riunire in un supremo slancio d’affetto l'abbazia, che le ricordava la sua giovanile innocenza, e il monastero,
testimone
del suo santo pentimento». Ella non volle mai che ci si dimenticasse che era una peccatrice, e che aveva da espiare 1. Citato in Sainte-Beuve, «Madame de Longueville », in Portraits de femmes, in Euvres, cit., vol. II, p. 1303.
2. L’abate di Rancé
a Madame
de Longueville, [dicembre?]
1675, in Ar-
mand-Jean de Rancé, Correspondance. Edition originale par Alban John Krailsheimer, 4 voll., Les éditions du Cerf (Citeaux, Commentarii Cistercienses), Paris, 1993, vol. I, pp. 727-28. 3. Gécile Gazier, Les belles amies de Port-Royal, Librairie Académique Perrin,
Paris, 1954 (1° ediz., 1930), p. 110.
Madame de Longueville
129
colpe gravissime. Fedele a se stessa nell’orgoglio, lo fu ugualmente nella mortificazione. I due momenti, solo appa-
rentemente contrapposti, della sua vita obbedivano a un unico disegno della Provvidenza; la gravità degli errori commessi era anche il segno eloquente della misericordia divina. Fallax pulchritudo; mulier timens Deum laudabitur: è a partire da questa sentenza dell’Antico Testamento che Gabriel de Roquette, vescovo di Autun, avrebbe ripercorso le due stagioni dell’esistenza di Madame de Longueville nell’orazione funebre pronunciata l’11 aprile 1680, al Carmelo, un
anno dopo la sua scomparsa.' Nella chiesa di rue Saint-Jacques l’emozione era grande e, quel giorno, erano in molti a
piangere. Il principe di Condé non riusciva a trattenere le lacrime al ricordo della sorella; Madame de La Fayette piangeva pensando a La Rochefoucauld, spentosi anch’egli quell’anno, e lo stesso facevano i figli del duca, presenti alla cerimonia. La morte riuniva ancora una volta, per un ul-
timo, imprevisto appuntamento, i due amanti di un tempo. Cronista d’eccezione, Madame de Sévigné osservava, per poi poterle raccontare alla figlia, le reazioni dei diversi partecipanti, e rifletteva affascinata sul gioco delle coincidenze e sull’intrecciarsi dei ricordi: perché «quei due nomi inducevano davvero a sognare ».?
1. Madame de Longueville era morta il 15 aprile 1679. 2. Madame de Sévigné a Madame de Grignan, 12 aprile [1680], in Correspondance, cit., vol. II, p. 903.
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VII
LA DUCHESSA DI MONTBAZON E IL RIFORMATORE DELLA TRAPPA
Se Madame de Longueville aveva avuto venticinque anni per prepararsi a morire, Madame de Montbazon ebbe soltanto poche ore per pentirsi di una vita piena di scandali. Dominati dall’angoscia della dannazione, gli uomini e le
donne del XVII secolo facevano della buona morte il momento cruciale dell’esistenza e seguivano con morbosa curiosità il modo in cui i loro contemporanei avevano affrontato la fine. «Quell’illustre mondana ebbe soltanto tre ore per prepararsi al grande viaggio:» racconta Madame de Motteville «sembrò nondimeno farne buon uso. Si confesSÒ e ricevette tutti i sacramenti, manifestando in vari modi
la sua pietà e il pentimento per non aver seguito princìpi più solidi e più cristiani. A sua figlia, la badessa di Caen, che le era accanto, disse che rimpiangeva di non avere trascorso
come lei la vita in un chiostro e che, sentendo avvicinarsi l’ora del giudizio, provava orrore per il suo passato ».! Dal chiostro, Marie de Bretagne-Avaugour, dei conti di Vertus, era uscita, appena sedicenne, nel 1628, per andare in sposa a Hercule de Rohan, duca di Montbazon, che aveva allora settantadue anni. Come in un racconto di Sade,
era stato proprio il vecchio marito, che amava definirla «la 1. Mémoires de Madame de Motteville, cit., vol. IV, p. 94.
192
La civiltà della conversazione
sua religiosa»,! a iniziarla al libertinaggio. Aveva debuttato in famiglia, scegliendosi come amante il duca di Chevreuse,
marito della figlia di primo letto del duca di Montbazon, la regina delle avventuriere. Tuttavia, mentre quest’ultima, sosteneva Retz, «amava senza scegliere, e soltanto perché bisognava che amasse qualcuno ... ma, una volta che si era presa un amante, lo amava con fedeltà e in modo esclusivo», Madame de Montbazon «non amava nient'altro che il
proprio piacere e, al di sopra di questo, il proprio interesse. Non ho mai visto nessuno che serbasse nel vizio tanto poco rispetto per la virtù ».? Le testimonianze del tempo sulla duchessa ci consentono di misurare la distanza che separa l’utopia mondana della Camera azzurra dalla franca brutalità del costume a essa contemporaneo. Madame de Montbazon non conosceva altra legge che quella del suo desiderio. Amava l’amore, il sesso, il denaro, il potere, e li esigeva con alterigia, travol-
gendo gli uomini con la sua bellezza sensuale e opulenta. Ignorava il valore della parola data, della discrezione; era sempre pronta a tradire. Insolente e sfrontata con tutti, a
cominciare dalla regina, la duchessa non si preoccupava di mascherare i propri vizi né di moderare la crudezza del proprio linguaggio. Mentre, di lì a poco, la paura delle ma-
ternità non desiderate avrebbe spinto le Preziose a sublimare l’amore, Madame de Montbazon, «quando era incinta ... attraversava Parigi in carrozza, a gran velocità, e dopo diceva: “Ho appena spezzato il collo a un bambino”».* La licenza della guerra civile consentì a quella di Madame de Montbazon di avere libero corso. L’ascendente che ella esercitava sul duca di Beaufort, uno dei protagonisti della Fronda, soprannominato «il re delle Halles» perché sapeva conquistarsi la simpatia popolare, le permise di tessere intrighi senza fine, mercanteggiare favori, stringere e sciogliere patti di alleanza. La lotta comune contro Mazzarino non attenuò l’odio che opponeva Madame de Montbazon a Madame de Longueville, né quello, di lunghissima data, tra i Rohan, i Vendòme e i Condé. Talvolta, è vero, es-
sì erano costretti a scendere a patti; in una delle trattative 1. Lo racconta Tallemant des Réaux in Historiettes, cit., vol. II, pezza 2. Retz, Mémotres, cit., pp. 158-59. 3. Tallemant, Historiettes, cit., vol. II, p. 220.
La duchessa di Montbazon
133
Retz ricevette dal principe di Condé l’incarico di trasmettere a Madame de Montbazon il messaggio seguente: «La sola condizione che pongo per la nostra riconciliazione è che, quando taglierà “quel certo non so che” a Monsieur de La Rochefoucauld, ella non lo mandi in un bacile d’argento a mia sorella, come va ripetendo a una ventina di persone da due giorni a questa parte ».' Anche quando faceva ricorso alla metafora, la duchessa non eccedeva in delicatezza.
Fu verso la fine del mese di aprile del 1657 che una febbre improvvisa portò via Marie de Montbazon, lasciandole appena il tempo di ricevere i sacramenti. Non furono in molti a piangerla: «I suoi vecchi amanti la considerarono con disprezzo, e coloro che l’amavano ancora non ne furono commossi, perché ciascuno, geloso del suo rivale, lasciò
le lacrime e il dolore in appannaggio al duca di Beaufort, che era allora il suo preferito »° afferma seccamente Madame de Motteville la quale, però, ignorava che fra quegli amanti ve n’era uno schiantato dal dolore e dall’angoscia e torturato dal dubbio che il pentimento in extremis di Madame de Montbazon potesse non essere stato sufficiente a salvarla dalla dannazione eterna. Éra un uomo di Chiesa, ri-
masto fino ad allora sordo alla parola di Dio, a cui la morte inattesa della donna amata rivelava improvvisamente «che non vi è nulla quaggiù a cui ci si debba attaccare, perché non
vi è nulla al mondo di così grande e di così glorioso che non passi come un lampo e che non possa essere falciato via in un attimo ».’
Fin da bambino, Armand-Jean Le Bouthillier, abate di Rancé, era stato destinato allo stato ecclesiastico. Nato a Parigi, da una famiglia appartenente alla noblesse de robe, il 9 gennaio 1626, intelligente e ambizioso, il giovane abate ave-
va tradotto a dodici anni Anacreonte ed era risultato primo alla laurea in teologia, lasciandosi alle spalle lo stesso Bossuet. La consapevolezza del proprio merito e la passione per lo studio si sposavano in lui al gusto della vita galante. Fortemente attratto dal mondo dell’alta nobiltà parigina (e 1. Retz, Mémoires, cit., pp. 307-308. 2. Mfmoires
deMadame de Motteville, cit., vol. IV, p. 94.
3. L’abate di Rancé a Madame de Longueville [luglio 1672], in Correspondance, cit., vol. I, p. 467.
134
La civiltà della conversazione
unico erede di un notevole
patrimonio),
Rancé
ne aveva
acquisito le abitudini e i modi. Il giovane abate contemperava tranquillamente le esigenze del petit-maître in cerca di piacere con quelle dell’ecclesiastico deciso a far carriera. «Questa mattina vado a predicare come un angelo, questa sera a cacciare come un diavolo» rispondeva a un amico che lo aveva interrogato sui suoi programmi.' Per lui l’importante era eccellere in entrambi i ruoli e farlo con eleganza. E poiché nell'Antico Regime il modo di vestire era un immediato segno di riconoscimento, Rancé dedicava ai suoi abiti la massima attenzione. «Un giustacuore viola di stoffa preziosa, calze di seta dello stesso colore, ben tese, una cravatta ricamata alla moda;
la chioma lunga, sempre arricciata e incipriata con cura; due grossi smeraldi ai polsini e un diamante di gran pregio al dito: tale era allora l’abbigliamento dell’abate di Rancé. Ma quando si recava in campagna o a caccia, era tutt'altra cosa: non sì scorgeva alcun segno che indicasse in lui un uomo
consacrato
al servizio degli altari. La spada al fianco,
due pistole all’arcione della sella, un abito beige e una cravatta di taffettà nero
con
dei ricami in oro.
E se, nel fre-
quentare le compagnie più serie, indossava un giustacuore di velluto nero con dei bottoni d’oro, si sentiva perfettamente a posto e vestito secondo le regole ».° L'incontro con Madame de Montbazon dovette certo contribuire a spingere Rancé dalla parte del diavolo. Lui aveva allora vent'anni, lei almeno quattordici di più, ed è
facile immaginare l'ascendente che quella grande seduttrice dalla bellezza intramontabile esercitò sul giovane libertino. Non sappiamo con quanti altri Rancé condivise i suoi favori e se, dopo tutto, la cosa lo turbasse. Certamente,
se
dobbiamo credere alle insinuazioni di Retz, sul terreno dell’amore il duca di Beaufort non era un rivale temibile. Ma il fascino esercitato dall’avventuriera di gran rango, nella cui scia Rancé aveva attraversato la Fronda, non era soltanto di
natura erotica. Se all’hòtel de Montbazon il giovane abate aveva compiuto la sua metamorfosi mondana abbracciando l'ideologia nobiliare e lo stile dell’alta nobiltà, quel «luogo 1. Blandine Kriegel, La querelle Mabillon-Rancé, Quai Voltaire, Paris, 1992 (l*ediz:x1988), pa26: 2. Descrizione di dom Gervaise, ripresa da Chateaubriand e citata in Krie-
gel, op. cit., p. 23.
La duchessa di Montbazon
135
di adozione» era diventato anche il punto di riferimento più importante della sua vita affettiva; e in casa dell’amante avrebbe ugualmente avuto inizio la metamorfosi spirituale che doveva condurlo fuori dal mondo. Entrambe le storie della conversione di Rancé riferite da Saint-Simon hanno infatti come sfondo il palazzo della duchessa. La prima versione è che l’abate, raggiunto dalla notizia della malattia di Madame de Montbazon mentre si trovava in campagna, era immediatamente tornato a Parigi, ignaro del fatto che la morte lo aveva preceduto. Precipitatosi da lei, Rancé si era trovato di fronte uno spettacolo orribile: «la prima cosa che aveva visto era la sua testa, che i chirurghi, facendole l’autopsia, avevano staccato dal corpo. Così aveva saputo della sua morte, e la sorpresa e l’orrore di quello spettacolo, uniti al dolore di un amante appassionato e corrisposto, lo avevano convertito, spingendolo dapprima a ritirarsi dal mondo, e poi nell’ordine di San Bernardo e nella sua riforma».' La seconda è quella che molti anni dopo fornì al memorialista lo stesso Rancé: «Madame de Montbazon morì di rosolia nel giro di pochi giorni. Monsieur de Rancé le era accanto, non la lasciò neanche un mo-
mento, la vide ricevere i sacramenti e fu presente alla sua morte. La verità è che, già toccato e diviso tra Dio e il mondo, egli meditava ormai da qualche tempo di ritirarsi in solitudine, e le riflessioni che quella morte
così improvvisa
destarono nella sua mente e nel suo cuore finirono per indurlo a tale decisione ». Due secoli dopo, persuaso dal suo confessore a scrivere una biografia del riformatore della Trappa, Chateaubriand poté constatare che tutti i poeti avevano adottato la prima versione, e tutti i religiosi l'avevano respinta. Ma per lo scrittore verità poetica e verità ufficiale non erano affatto inconciliabili,
e nella sua Vie de Rancé le due versioni si sal-
dano in un’unica, drammatica sequenza. Rancé aveva assistito all’agonia di Madame de Montbazon e al suo pentimento sul letto di morte, e si era separato da lei solo quando l’ultimo soffio di vita l’aveva abbandonata. Trascorsa qualche ora, l’abate non aveva però resistito all’impulso di 1. Saint-Simon, Mémotres (1691-1701). Additions au Journal de Dangeau, a cura di Yves Coirault, 8 voll., Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard, Paris,
1982-1987, vol. I, p. 522. RI IE
GIR
136
La civiltà della conversazione
rendere un estremo omaggio alla salma della donna amata e, tornato sui suoi passi, si era trovato di fronte il macabro
spettacolo del corpo mutilato. Chateaubriand si mostra ugualmente incline a prestar fede alla leggenda secondo cui Rancé aveva portato con sé alla Trappa la testa mozza di Madame de Montbazon. Dopo aver incarnato il trionfo della bellezza e dei sensi, ridotta a misero teschio, Marie de Bretagne doveva ora rinsaldare nel suo rifiuto dell’umano colui che tanto l’aveva amata. Sei anni furono necessari a Rancé per recidere tutti i legami con il mgndo e ritirarsi poi nel convento di Notre-Dame de La Trappe, di cui era abate commendatario. Cupo e insalubre, infossato in una valle del Perche piena di acqui-
trini e di stagni, il monastero era in piena decadenza, e Rancé avrebbe subito provveduto a riformarlo, sottoponendolo a una regola così severa da suscitare la resistenza delle stesse autorità religiose. Ispirata al modello del monachesimo del deserto, essa si allontanava dalla tradizione monaca-
le occidentale, contemplativa e studiosa, per imporre un programma di penitenza ed espiazione senza precedenti. Morire alla propria umanità, dimenticare il mondo, tacere,
obbedire, umiliarsi, pregare e vivere nell’attesa di comparire davanti al Creatore erano, certamente, punti centrali del grande dibattito teologico del XVII secolo. Ma Rancé li riuniva tutti in un programma di vita monastica che suonava come una sfida: nemmeno il giansenismo si era spinto su posizioni così estreme. Nel suo furore di mortificazione e di rinuncia Rancé, in polemica con il grande erudito benedettino dom Mabillon, proibiva ai monaci anche lo studio, poi ché, diceva, «la loro condizione è quella di piangere e non di istruire, e il disegno di Dio nel far emergere dei solitari
all’interno della Chiesa non era quello di formare dei dotti ma dei penitenti».' In nome dell’Eterno, il riformatore della Trappa condannava la storia. «La spiritualià di Rancé » ha scritto Bernard Beugnot «era pervasa dal mito dell’origine e della sua purezza, e dalla percezione del tempo co1. Rancé, De la sainteté et des devoirs de la vie monastique, 2 voll.,
Paris, 1683, vol. II, pp. 370-71, citato in Kriegel, op. cit., p. 65.
E Muguet,
La duchessa di Montbazon
137
me causa di decadenza».' Niente di più lontano dall’euforica certezza che avevano molti sudditi di Luigi XIV di vivere in un’epoca privilegiata, diversa da tutte le altre, in cui il progresso delle arti e delle scienze consentiva di credere alla superiorità dei moderni e di guardare con fiducia al domani. L'uscita dal mondo di Rancé doveva dunque impressionare profondamente una società che pure intratteneva con l’idea della retraite una dialettica costante. Non solo perché, assieme a Mademoiselle de La Vallière, Rancé «in-
carnava mirabilmente il contrasto fra un periodo mondano vissuto all’insegna della dissipazione ... e un ingresso non meno spettacolare nella vita religiosa», ma perché, a differenza della gentile amante del Re Sole, il riformatore della Trappa non voltava le spalle soltanto alle miserie del secolo, ma alla sua stessa gloria. Se
per
trentasette
anni,
come
scrive
Chateaubriand,
Rancé visse nella solitudine «per espiare i trentasette che aveva passati nel mondo »,* questo non impedì al mondo di fare del suo monastero un luogo di incessante pellegrinaggio. A mano a mano che Rancé inaspriva la sua regola, nonostante le polemiche e i giudizi contraddittori, la fama della sua terribile santità conquistava la corte. Come già era successo con Port-Royal negli anni Sessanta, la Trappa diventava, un ventennio dopo, un fenomeno alla moda. «I religiosi vi accorrevano dai monasteri vicini, e ben presto, a Parigi come a Versailles, non si parlava d’altro che del si-
lenzio della Trappa. Andare alla Trappa, diceva un gran signore, era la passione di tutti gli honnétes gens. Vi si recavano ogni anno da sei a settemila pellegrini».' Tra i visitatori si segnalavano Madame de Guise, sorella per parte di padre di Mademoiselle de Montpensier e cugina di Luigi XIV, Monsieur, fratello del re, Giacomo II d’Inghilterra, il mare-
sciallo di Bellefonds, il duca di Saint-Simon accompagnato dal figlio, il futuro
memorialista,
e Bossuet,
vescovo
di
1. Bernard Beugnot, Le discours de la retraite au XVII' siècle. Loin du monde et
du bruit, PUF, Paris, 1996, p. 254. DM AI 3. Frangois-René de Chateaubriand, Vie de Rancé, Prefazione di Roland Barthes, Union Générale d’Editions, «10/18», 1965, p. 183 (trad. it. La v?ta di Rancé, a cura di Benedetta Papàsogli, San Paolo, Milano, 1993, pp. 291-92).
4. Kriegel, op. cit., p. 53.
138
La civiltà della conversazione
Meaux, già compagno di collegio di Rancé e capo della Chiesa gallicana. Per avere davvero il senso dell’ampiezza della rete di relazioni che l’abate continuava a tessere pur nella solitudine, basta scorrere l’indice dei nomi dei suoi corrispondenti,
duecentocinquanta persone appartenenti a tutti i ceti sociali, a cui egli indirizzava migliaia di lettere. Ed è inevitabile chiedersi se questo epistolario — che, sebbene ci sia pervenuto solo in minima parte, è uno tra i più imponenti del XVII secolo — non costituisca «una smentita al suo proposito di vita solitaria, una controtestimonianza
a una vita per
altri versi esemplare ».' Come non stupirsi che Rancé si sentisse in diritto di fare ciò che proibiva ai suoi monaci? Due tipi di considerazioni dovettero avere la meglio sui suoi scrupoli. Intrattenere buoni rapporti con il mondo ecclesiastico e con la corte era indispensabile alla salvaguardia e al rafforzamento dell’ordine, e rifiutare di rispondere a chi gli chiedeva soccorso era venir meno ai suoi doveri di religioso. A differenza di Port-Royal, la Trappa escludeva le donne, tuttavia esse figurano numerose nella corrispondenza dell’abate. Alcune erano penitenti illustri come Madame de Longueville o la duchessa di La Vallière; altre, come Mada-
me de La Sablière o come Madame de La Fayette, cercavano rifugio nella religione dopo aver consacrato la loro vita al culto dell’intelligenza e alla scienza del mondo. Rancé rifiutava di assumere la loro direzione spirituale, ma le sosteneva con consigli e parole di incoraggiamento. Benché considerasse la vita monastica la risposta migliore che l’uomo potesse dare a Dio, Rancé credeva che fosse possibile salvarsi e raggiungere la santità anche conducendo un'esistenza secolare, a patto di affrancarsi completamente dai valori mondani.
Nella Princesse de Clèves Madame de La Fayette aveva raccontato la storia di una retraîte dal mondo, di una rinuncia a vivere la passione in nome della pace interiore. Eppure, almeno in apparenza, le ragioni che inducevano la sua eroi-
na a segregarsi in un convento non erano di natura religio1. Lucien Aubry, Introduction à la spiritualité de Rancé, in Rancé, Correspondance, cit., vol. I, p. 30.
La duchessa di Montbazon
139
sa, ma di carattere affettivo e morale: le preoccupazioni che la spingevano a uscire dal mondo non sfuggivano a una logica secolare. Adesso, sedici anni dopo aver dato alle stampe il suo capolavoro, duramente provata dalla perdita di La Rochefoucauld, triste
e malata, era la scrittrice stessa ad anelare alla
quiete. A differenza della sua eroina, Madame de La Fayette chiedeva aiuto alla religione per distaccarsi da una vita intensamente vissuta che presto, suo malgrado, l’avrebbe abbandonata.
Tuttavia, «l’intelligenza, la ragione, l’onore,
la probità» non potevano supplire al dono della fede, e la contessa era tormentosamente sospesa tra dubbi e incertezze. Chiamato a sostenerla in questa difficile prova, Rancé la invitava a una metamorfosi totale dell’io, senza la quale non ci poteva essere salvezza: perché Dio le parlasse e le dicesse ciò che non le aveva ancora detto bisognava che si compisse in lei «una conversione radicale della mente e del cuore ».! La fiducia che Madame de La Fayette nutriva per il suo corrispondente non le impediva di dubitare fortemente di sé. Come le sarebbe stato possibile operare la rivoluzione che le veniva richiesta, trovare il coraggio di voltare le spalle alla propria vita, sacrificare all’ignoto le pochissime cer-
tezze acquisite? Era stanca, prigioniera delle sue stesse paure, della coscienza acutissima delle proprie debolezze. A differenza della principessa di Clèves non si sentiva capace di nessuna impresa eccezionale. Che cosa aveva indotto Rancé a lasciarsi tutto alle spalle e a chiudersi nel silenzio e nella solitudine? Certamente Madame de La Fayette non ignorava la storia della duchessa di Montbazon, della crisi religiosa seguita alla sua morte, della conversione e della
decisione di Rancé di seppellire per sempre il passato. Eppure, ella osava ugualmente formulare la sua insolentissima domanda.
E, cosa altrettanto inaudita, dopo trent'anni di
silenzio, il celebre abate accettava di risponderle. «Non so perché vi ho fornito tutti questi particolari, cosa che non avevo mai fatto con nessuno; avrei potuto astenermene senza che voi vi trovaste niente a ridire. Ma ho creduto che fosse meglio proporli sinceramente alla vostra riflessione, con1. L’abate di Rancé a Madame de La Fayette, 27 novembre 1686, in Correspondance, cit., vol. III, pp. 403-406.
140
La civiltà della conversazione
tando sulla vostra promessa di serbare in proposito un segreto inviolabile »..! Forse, se Chateaubriand avesse avuto conoscenza di questa lettera, la sua Vita sarebbe stata diversa. Non vi era traccia di eventi fatali o di illuminazioni improvvise, non vi era
posto per «la poesia» nel racconto di Rancé. La sua conversione, egli scrive, era stata determinata soltanto dall’insod-
disfazione, dal disgusto per la vita. Con un solo tratto di penna, l’abate sembrava rinnegare il suo passato e stabilire una nuova versione della verità. Voleva così smentire, una volta per tutte, la leggenda scandalosa che circolava su di lui e che poteva nuocere alla Trappa? O, più semplicemente, aveva finito col cancellare una memoria che gli avrebbe impedito divivere, in accordo con la spiritualità secentesca,
«nel varco stretto dell’istante attuale ... sotto la luce dell’assoluto »?° Probabilmente la ragione va cercata altrove. Se Rancé aveva deciso di parlare di sé era perché la sua esperienza potesse servire alla sua interlocutrice. Non era all’immaginazione romanzesca della scrittrice che egli faceva appello, ma alla lucidità della moralista. Dio non aveva bisogno di ricorrere a eventi straordinari per parlare ai cuori: il disgusto del mondo era un’esperienza alla portata di tutti, bastava solo osservarne
l’intrinseca miseria e prendere
atto della sua insufficienza. «Mi domandate, Madame, i motivi che mi hanno indotto
a lasciare il mondo. Vi dirò semplicemente che l’ho lasciato perché non vi ho trovato ciò che vi cercavo. Volevo una pace che esso non era in grado di darmi e se, per mia disgrazia, ve l’avessi trovata, forse non avrei spinto oltre la mia ri-
cerca. Le ragioni che avrebbero dovuto spingermi a vivervi ulteriormente suscitarono in me un tale disgusto che provai vergogna a seguirle e a subirne l’attrazione. Per concludere, le conversazioni gradevoli, i piaceri, i progetti di carriera e di fortuna, mi parvero cose talmente vuote e incon-
sistenti che cominciai a non poterle più guardare senza esserne disgustato. A ciò si aggiunse il disprezzo che nutrivo per la maggior parte degli uomini, visto che essi non avevano né fede, né onore, né lealtà, e tutto questo insieme di 1. L’abate di Rancé a Madame de La Fayette, 22 novembre 1686, ibid., p. 405. 2. Benedetta Papàsogli, Introduzione a Chateaubriand, CIUSIP995.
La vita di Rancé,
La duchessa di Montbazon
141
cose mi portò a fuggire da ciò che non poteva più piacermi e a cercare qualcosa di meglio ».! Rancé acconsentiva dunque a parlare di sé per offrire a Madame de La Fayette uno specchio in cui riconoscersi. La diversità dei loro percorsi biografici era insignificante rispetto alla meta comune, all’ansia di pace interiore, al desiderio di distacco dal mondo, e gli ostacoli da superare si rivelavano, alla luce di ciò che sappiamo su Madame de La Fayette, sorprendentemente identici. Ma identica era anche la civiltà mondana che li aveva sedotti con i suoi piaceri e le sue conversazioni gradevoli, identico l’orgoglio nobiliare che li aveva fatti schiavi delle loro ambizioni sociali. Per conseguire la quiete interiore la principessa di Clèves aveva sacrificato la sua passione per il duca di Nemours; per aprirsi alla parola di Dio, Rancé indicava ora
a Madame
de La
Fayette una strada molto più semplice: vivere fino in fondo il suo disincanto per la vita.
1. L’abate di Rancé a Madame de La Fayette, 22 novembre pondance, cit., vol. III, pp. 403-404.
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VII
LA MARCHESA DI SABLÉ: IL SALOTTO NEL CONVENTO
LE «FONDATRICI
DEL
GIANSENISMO»
Non era il timore della dannazione a tormentare Madame de Sablé, ma più semplicemente la paura di morire. Era
un terror panico che l’accompagnava sin dagli anni della giovinezza e che la marchesa non cercava di combattere con le armi consuete del buon senso, della ragione, della
cristiana rassegnazione, bensì con l’assoluta determinazione a rimanere in vita il più a lungo possibile. Conduceva contro la morte una guerra difensiva astutissima: non si esponeva
alle correnti
d’aria, alle atmosfere
insalubri,
ai
temporali, ai viaggi; evitava accuratamente le persone ammalate, per paura del contagio; aveva sempre a portata di
mano una équipe di medici e una farmacia fornitissima. La notte, per evitare di addormentarsi profondamente col rischio di non risvegliarsi mai più, voleva accanto al letto una persona addetta a vegliare sul suo sonno, con la precisa consegna di scuoterla a intervalli regolari. Lo sconcerto che suscitava intorno a sé non la turbava minimamente: « Temo la morte più degli altri,» aveva detto un giorno «perché nessuno ha mai capito meglio di me cosa sia il nulla».' E a 1. Tallemant, Historiettes, cit., vol. I, p. 517.
144
La civiltà della conversazione
Tallemant des Réaux, che non mancava di sottolineare l’in-
congruenza di tutto questo con la sua devozione e la sua professione di fede in un’altra vita, la marchesa avrebbe probabilmente risposto come aveva fatto una volta ad Arnauld d’Andilly: «Vi assicuro che tengo conto di ogni cosa, valutando ciascuna di esse a tempo e luogo e senza trascurarne alcuna».' Da un lato ella aveva la conoscenza esatta della sua patologia ossessiva, dall’altro la fede religiosa: messe a confronto, le due esperienze potevano certamente
apparire incompatibili. Ma per lei la cosa importante era «dare volta per volta una risposta vera, vale a dire conforme all'ordine delle necessità e dei doveri, al di là della loro di-
versità e contraddittorietà ».? «Tener conto di ogni cosa e valutare ciascuna di esse a tempo e luogo»: niente meglio di questa formula classica avrebbe potuto servire da emblema a Madame de Sablé. La marchesa aveva una mente indipendente e curiosa, non amava lasciarsi intrappolare dalla logica degli schieramenti, dalle scelte obbligate. Protagonista di primo piano della vita sociale, intellettuale e morale della sua epoca, non delegava agli altri la responsabilità di decidere per lei e, per poter essere in condizione di giudicare, voleva innanzitutto
capire. Un’esigenza tutt'altro che scontata in un’epoca nella quale l’accesso alla conoscenza era ancora appannaggio di una élite maschile e la Chiesa riteneva più opportuno limitare l’istruzione religiosa femminile, educando le donne
all’umiltà e all’obbedienza. Coniugando due vizi tipici del suo sesso, la frivolezza e la curiosità, Madame de Sablé veni-
va una volta di più a suffragare la tesi di quanti credevano nella natura demoniaca delle figlie di Eva, e riaccendeva la
discordia all’interno della Chiesa. Un giorno imprecisato del 1642, Madame de Sablé si preparava ad andare a una festa da ballo in compagnia della principessa di Guéméné, ma quando quest’ultima venne a sapere che l’amica si era comunicata quella mattina non nascose il suo stupore: per il suo direttore di coscienza la comunione imponeva la sospensione di qualsiasi attività 1. Citato in Jean Lafond, Madame de Sablé et son salon, in L'homme et son image, Champion, Paris, 1996, p. 264. 2000
La marchesa di Sablé
profana. Incuriosita da tanto rigore, Madame
145
de Sablé in-
terrogò il proprio confessore il quale, a sua volta, chiese di vedere le regole di condotta di Madame de Guéméné per poter poi dichiararsi per iscritto. Il suo commento compì il cammino inverso e passò dalle mani di Madame de Sablé a quelle di Madame de Guéméné, per finire sotto gli occhi del direttore di coscienza della principessa. Deliziate di essersi imbattute in un argomento di conversazione così appassionante, le due amiche non potevano sospettare di aver innescato un processo esplosivo. Entrambe erano entrate in un’epoca della vita in cui le preoccupazioni religiose tendevano a prendere natural mente il sopravvento su quelle galanti ma, mentre Madame de Sablé era un eccellente avvocato delle esigenze del proprio io, Madame de Guéméné viveva la transizione in modo drammatico. Andata sposa a quattordici anni al cugino germano Louis VII de Rohan, principe di Guéméné, figlio di primo letto del marito di Madame de Montbazon, Anne de Rohan ave-
va rivaleggiato con la suocera in bellezza e libertinaggio. Le sue avventure erano di pubblico dominio e «si diceva che i suoi amanti facessero tutti una brutta fine »:' in effetti, almeno tre, il duca di Montmorency, il conte di Bouteville e Monsieur de Thou, erano stati decapitati. Con il futuro car-
dinale di Retz le cose erano andate un po’ meglio. Lui, è vero, aveva cercato di strangolarla, e lei gli aveva tirato un candelabro in testa, ma la relazione si era protratta nel tem-
po. E quando, assalita dai rimorsi e minacciata dal suo padre spirituale delle pene dell’inferno, Madame de Guéméné aveva tentato di mettervi fine, il coadiutore dell’arcive-
scovo di Parigi le aveva maliziosamente mostrato un suo diavolo « dalla forma più benigna e più gradevole ».° La principessa era una penitente incerta, alternava «slanci di devozione a ritorni nel mondo», eppure non aveva avuto paura di affidarsi alla guida dell’abate di Saint-Cyran, «il direttore cristiano per eccellenza ... severo e sapiente medico delle anime ».' Nel 1638 il suo esame di coscienza era 1. Tallemant, Historiettes, cit., vol. II, p. 228. 2. Retz, Mémoires, cit., p. 15.
3. Tallemant, Histoniettes, cit., vol. II, p. 229.
4. Charles-Augustin Sainte-Beuve, Port-Royal, a cura di Maxime Leroy, 3 voll., Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard, Paris, 1953-1955, vol. I, p. 361.
146
La civiltà della conversazione
stato fatto pervenire al direttore spirituale di Port-Royal nel carcere di Vincennes, e l’abate di Saint-Cyran, con l’aiuto di
Arnauld d’Andilly, di padre Singlin, di madre Agnès, si era provato a rafforzare quella fragile disposizione del cuore, simile a «una scintilla di fuoco che venga accesa sopra un terreno ghiacciato, esposto a tutti i venti».' Era un gesto di carità destinato a una inattesa ricompensa: Madame de Guéméné avrebbe continuato a essere una penitente mediocre,
ma grazie a lei Saint-Cyran entrò in possesso di un documento che consentiva al giansenismo francese di uscire allo scoperto e partire alla conquista delle anime. La lettera che il confessore di Madame de Sablé aveva scritto alla marchesa per rispondere ai suoi interrogativi era un esempio estremo di quel lassismo religioso, di quella «devozione
comoda»,
poi denunciata
da Pascal, a cui la
Compagnia di Gesù doveva la sua popolarità negli ambienti di corte. «Vi si leggeva, fra le altre enormità dettate dalla compiacenza, che quanto più si è privi di grazia, tanto più ci si deve accostare con ardire a Gesù Cristo nell’Eucarestia». Era una lettera privata e mai l’abate di Saint-Cyran avrebbe avuto modo di venirne a conoscenza senza l’indiscreto scambio di confidenze di due nobili dame in procinto di recarsi a una festa da ballo. Dal fondo del suo torrione, l’abate perseguitato capì che era tempo di agire, e chiese ad Antoine Arnauld di scrivere, alla luce della dottrina di
Giansenio sul peccato e sulla grazia, una pubblica confutazione. Apparso nell’agosto del 1643, De la frequente communion doveva «rivoluzionare il modo di intendere e praticare la pietà, come pure il modo di scrivere di teologia ... Dal tempo dell’Introduction à la vie dévote di Saint-Francois de Sales, pubblicata all’inizio del secolo, nessun
libro di reli-
gione aveva prodotto un simile effetto e suscitato altrettante adesioni. Ciò avvenne, tuttavia, in un senso, si può dire, diverso, perché il libro di Saint-Francois de Sales si propo-
neva di attrarre la gente di mondo mostrando l’aspetto dolce e affabile della religione, mentre quello di Arnauld ne ri-
cordava la componente severa e terribile ». Il pessimismo giansenista di impronta agostiniana, con la sua denuncia della inautenticità dei valori mondani, del po1. Da una lettera di Saint-Cyran a madre Agnès, citata in ibid., p. 378. 2. Ibid., p. 634. 3. Ibid., pp. 633-35.
La marchesa di Sablé
147
tere, della grandezza, e con il suo invito all’introspezione e alla retraite, offriva una risposta radicale alla crisi religiosa e
morale che aveva colpito il mondo dei privilegiati. Stroncando il «partito devoto » che faceva capo a Bérulle, Richelieu
aveva soffocato anche una delle più autentiche espressioni della volontà di rinnovamento religioso nella Francia della Controriforma. Il successo della monarchia centralizzata andava seminando delusioni e incertezze in seno a due categorie sociali da sempre strettamente associate al potere, e ora
progressivamente allontanate dai grandi incarichi: l’alta nobiltà e la magistratura parlamentare. A queste élite nutrite di cultura mondana Arnauld lanciava il suo messaggio totalizzante non più nel latino della scolastica bensì — novità di grande rilievo trattandosi di un argomento teologico — in un francese chiaro ed elegante che riprendeva la tradizione di semplicità e trasparenza della retorica gallicana. Un saggio di Jean Delumeau! ci aiuta a riconsiderare le posizioni del giansenismo all’interno del grande dibattito sulla confessione che si era acceso con il Concilio di Trento. Quale atteggiamento doveva assumere la Chiesa davanti a milioni di cristiani chiamati a confessarsi almeno una volta all'anno? Quale posizione prendere per incoraggiare i credenti a una pratica che metteva in discussione tutta la loro condotta e li confrontava con la giustizia divina? Bisognava optare per la quantità o per la qualità, per l’indulgenza o per l’intransigenza, per l’assoluzione larga o per la conversione stretta? Fino a metà del XVII secolo era prevalsa la linea dell’indulgenza, sostenuta in primo luogo dai gesuiti; Port-Royal si schierò, invece, dalla parte del rigore. Questo rigore non era fine a se stesso, nasceva dalla totale sfiducia nella possibilità dell’uomo di contribuire al proprio riscatto. Solo la Grazia poteva salvare una creatura decaduta e irrimediabilmente corrotta, ma essa scendeva dal-
l’alto, imprevedibile e gratuita, ed era risibile supporre che la si potesse propiziare con l’esercizio delle virtù terrene,
fuochi fatui della vanità e dell’orgoglio. Sospeso tra la speranza di appartenere al piccolo numero degli eletti e la paura della dannazione, l’uomo doveva combattere la propria umanità e annullarsi nella fede. In questa terribile incertezza, il rigore era insieme inutile e necessario; bisogna1. Jean Delumeau, L’aveu et le pardon: les difficultés de la confession XIT-XVII siècle, Fayard, Paris, 1992 (1° ediz., 1964).
148
La civiltà della conversazione
va «pregare come se tutto dipendesse da Dio e agire come se tutto dipendesse da noi».! Il primo passo verso la salvezza era naturalmente il pentimento. Questo poteva essere di due nature, nascere dall’amore di Dio, dalla disperazione di averlo offeso (la contri-
zione), o da una vergogna tutta umana, dalla ripugnanza oggettiva del peccato, dal timore della punizione (l’attrizione). Nella pratica confessionale i gesuiti incoraggiavano l’attrizione come il preludio della contrizione. I giansenisti, invece, le negavano ogni valore e la giudicavano una invenzione umana. La paura dell’inferno, aveva detto Giansenio,
non ha in sé alcunché di soprannaturale. La Compagnia di Gesù, dunque, giudicava prioritario ingaggiare un dialogo, sia pure imperfetto, con i peccatori, graduare le richieste di un ideale che per molti risultava troppo difficile ed esigente. Concedendo facilmente l’assoluzione e autorizzando la frequente comunione, i gesuiti fidavano inoltre nella facoltà salvifica intrinseca ai sacramenti. Nella Fréquente communion, Arnauld partiva da posizioni opposte, senza temere di fare un discorso per pochi, dal momento che pochi erano gli eletti. Ai suoi occhi il lassismo dei confessori aveva come effetto di «ingannare i peccatori con una falsa misericordia e una dolcezza crudele, limitandosi a coprire le piaghe che potevano essere guarite solo con il ferro e con il fuoco». L’assoluzione andava impartita esclusivamente davanti a una contrizione senza riserve e all’impegno di non ricadere nel peccato: laddove non vi fosse tale garanzia, essa andava dilazionata. La comunione
doveva, a sua volta, essere concessa con parsimo-
nia, come premio e non come incoraggiamento. Gli attacchi micidiali di Arnauld e di Pascal hanno contribuito a dare ai termini «lassismo», «probabilismo» e «casistica» la valenza dispregiativa che oggi li caratterizza, ma queste tre posizioni teologico-morali, sostenute dalla cultura gesuitica, erano nate sotto il segno dello zelo apostolico, dettate dalla «convinzione di appartenere a una ci1. Mathieu Feydeau, Catéchisme de la Grace, Paris, 1650, art. 44, ora in An-
toine Arnauld, Euvres, 38 voll., S. d’Arnay, Paris-Lausanne, 1775-1783; ristampa anastatica, Bruxelles, 1967, vol. XVII, p. 845.
2. Antoine Arnauld, De la frequente communion, A. Vitré, Paris, 1643, p. 480, citato in Delumeau,
L’aveu et lepardon, cit., p. 73.
La marchesa di Sablé
149
viltà in movimento, a un’età nuova in cui si ponevano pro-
blemi inediti e complessi ai quali i Padri della Chiesa non potevano dare risposta».' I teologi casisti messi alla gogna dalle Provinciales tentavano di conciliare gli imperativi della religione con le necessità economiche, morali, sociali della vita moderna. Travolti da un delirio classificatorio, da
un’immaginazione barocca, essi produssero certamente figure mostruose,
compromessi
aberranti, ma
cercarono
di
trovare una soluzione al problema dell’incompatibilità tra religione
e mondo, mentre
i giansenisti scelsero di fare di
questa incompatibilità la loro bandiera e di spingere il conflitto al suo limite estremo. La prima a voltare le spalle ai gesuiti e a lasciarsi conquistare alla causa di Port-Royal fu Madame de Sablé. La Rochefoucauld diceva che lei e Madame de Guéméné erano le «fondatrici del giansenismo», e il suo paradosso aveva un fondo di verità. Il successo della nuova dottrina, il suo proselitismo fra gli esponenti dell’alta aristocrazia, il suo prestigio negli ambienti mondani colti sarebbero difficilmente spiegabili senza l’appassionato sostegno di una piccola élite femminile. Tale convinzione era già diffusa tra i detrattori di PortRoyal e forniva loro un eccellente spunto polemico. Non solo la considerazione che i giansenisti mostravano per il sesso debole era dettata dall’interesse, ma produceva con-
seguenze nefaste. Per ottenere protezione e appoggio nel bel mondo, gli apostoli dell’ascetismo e del rigore facevano
leva sulla vanità delle donne, ne incoraggiavano pericolosamente la curiosità e lo spirito critico, le spingevano ad avventurarsi in discussioni teologiche, senza tener conto dei
limiti naturali delle loro facoltà intellettive. Tutte queste accuse venivano sapientemente modulate nei Mémotres di padre Rapin con una gamma di toni che andavano dalla apparente bonomia all’insinuazione più subdola, dalla critica sottile alla denigrazione più violenta. Il gesuita era un nemico pericoloso perché anch'egli, con la sua «bontà», la sua «dolcezza »,° era maestro nell’arte della 1. Ibid., p. 109. 2. Madame de Sévigné a Bussy-Rabutin, 2 dicembre 1678, in Correspondance, cit., vol. III, p. 338.
150
La civiltà della conversazione
persuasione e aveva una perfetta conoscenza del mondo e un notevole acume psicologico. Il «complotto» giansenista, secondo Rapin, aveva avuto molto più successo in Francia che nelle Fiandre perché li,
grazie alle donne e all’influenza che esse esercitavano sulla società mondana,
era diventato
un fenomeno
alla moda.
«Le dame furono conquistate dallo stile ornato ed elegante [della Fréquente communion] ... che piacque molto a tutti i begli ingegni, il cui parere è così importante in un paese che si fregia tanto di raffinatezza ».! Nulla di male in tutto ciò se, sedotte dalla forma, le dame
in questione non avessero abbracciato una dottrina di cui non potevano cogliere pienamente il significato e non avessero voluto propagarla per dimostrare la superiorità della propria intelligenza e del proprio buon gusto. L'adesione al giansenismo era il frutto di un equivoco, se non di una
impostura: era una cooptazione basata sulla seduzione e un’adesione dettata dalla vanità e dalla superbia, i vizi che più di ogni altro Port-Royal pretendeva di combattere. Restava da spiegare perché tante dame illustri cadessero in quest’errore, ma Rapin le conosceva una per una - i salotti non erano anche il suo terreno di caccia? — e aveva una risposta per ognuna di loro: «Il grande teatro dove si divulgava con maggior clamore e persino con più applausi il nuovo vangelo di Port-Royal era allora? l’h6tel de Nevers ... Il lustro della sua casa, di cui la contessa du Plessis faceva personalmente gli onori, l’eccellenza del cibo — la tavola non avrebbe potuto essere più raffinata e insieme più sontuosa —, la compagnia più scelta di Parigi, composta in ugual misura da esponenti del mondo della magistratura e della corte, e ogni sorta di divertimenti all’insegna dell’esprit attiravano in tal misura gente di qualità che quello era diventato il luogo d’incontro più frequentato da tutta la cricca. Il vescovo di Cominges, cugino germano della contessa, il principe di Marcillac, poi duca di La Rochefoucauld, il maresciallo d’Albret, la marchesa di Liancourt, la
contessa di La Fayette, la marchesa di Sévigné, d’Andilly de Pomponne, l'abate Tètu, amico intimo della contessa, 1. Mémoires du Père Rapin, cit., vol. I, p. 36. 2. La descrizione di Rapin si riferisce, sia pure con molte inesattezze, alla
Parigi degli anni Cinquanta del Seicento, subito dopo la fine della Fronda.
La marchesa di Sablé
151
buon parlatore ma soggetto ai vapori allora di moda, l’abate di Rancé, uomo gradevole e arguto, che è poi diventato il famoso abate della Trappa ... Non che tutti coloro che vi andavano appartenessero al partito: a condurveli erano piuttosto la curiosità e il gusto dell’intrigo, che erano anche i tratti dominanti della padrona di casa. Vi andavano per fare riflessioni che gli interessati giudicavano utili e per favorire la diffusione della nuova dottrina con l’aiuto dei parigini dal gusto più raffinato ».!
All’hÒtel de Nevers la vita mondana rivelava una doppia natura, destinata a svilupparsi nel secolo successivo. Dissimulata dietro lo spettacolo vario e brillante di un’ampia cerchia di ospiti prestigiosi, poteva esistere una sociabilité più segreta, una piccola cerchia di iniziati uniti da un progetto comune.
E quanto
sarebbe
avvenuto,
ad esempio, cent'anni
dopo, nella sontuosa dimora del barone d’Holbach in rue Royal nei giorni in cui il padrone di casa non riceveva il bel mondo
parigino. Lì, a porte chiuse, liberi dall’autocensura
imposta dalle convenzioni del salotto, il barone e i suoi amici philosophes avrebbero preso l'abitudine di parlare con la più assoluta spregiudicatezza di politica, di religione, di filosofia. Allo stesso modo la cabala giansenista dell’hòtel de Nevers tramava un complotto contro l'ordine stabilito, creando un clima di aspettativa e di consenso per la nuova dottrina, ma mantenendo un riserbo prudente sulle convinzioni personali dei cospiratori.” Per padre Rapin le preoccupazioni della bella padrona di casa non erano certamente di natura religiosa. Se PortRoyal si serviva di lei per conquistare la simpatia della società mondana, lei si serviva di Port-Royal in chiave politica,
per indebolire Mazzarino, colpevole di non aver mostrato abbastanza considerazione per suo marito. Il conte du Plessis-Guénégaud, dal canto suo, «lasciava alla moglie la cura
di vendicarsene; ed ella si mostrava ben disposta verso tutto ciò che si contrapponeva alla corte, e fu solo per avversione al cardinale che divenne giansenista ».’ 1. Mémoires du Père Rapin, cit., vol. I, pp. 403-404. 2. Cfr. ibid., p. 218. 3. Loc. cit.
152
La civiltà della conversazione
L’odio e la rivalsa, assai più che la cristiana carità, erano se-
condo Rapin all’origine delle scelte di campo anche di Madame de Longueville. Solo il «desiderio segreto di vendicarsi del disprezzo che la corte nutriva per lei»,' negli anni successivi alla Fronda, aveva spinto Madame de Longueville nelle braccia del partito giansenista. E il suo appoggio avrebbe fatto compiere «più progressi alla nuova dottrina di tutti i discorsi e di tutti gli scritti di Port-Royal messi assieme ».? Padre Rapin non negava la sincerità del suo successivo comolsa mento, «una dedizione senza uguali e senza limiti», ma il tratto dominante della sua personalità rimaneva quello dell’amor proprio. L’estremo rigore della «nuova morale » le forniva delle «occasioni clamorose ... di dar prova della sua devozione e di fare sfoggio di uno spirito che non amava nascondere ».' E il suo orgoglio aveva trovato un nuovo modello di eroismo con cui misurarsi, quello della perfetta penitente. Dinanzi all’avanzata del nemico, l’amabile, mondano pa-
dre Rapin non disdegnava di attingere ai vecchi luoghi comuni misogini che, come emerge anche dai Mémotres di Madame de Motteville, avevano ancora radici profonde nella
coscienza di entrambi i sessi. Avidità di sapere, curiosità eccessiva: all’origine di tutti i mali, l'ambizione femminile alla conoscenza non poteva che essere figlia della superbia. Distaccandosi dall’atteggiamento tradizionale della Chiesa, il giansenismo
autorizzava
invece
le grandi dame,
che in
qualsiasi altra circostanza avrebbero trovato altamente disdicevole fare sfoggio del proprio sapere, a «occuparsi di argomenti di cui si occupavano gli spiriti più sublimi», e a comportarsi come «dottori». E poiché si trattava di donne eccezionali per intelligenza e per rango, il loro esempio si rivelava particolarmente nefasto perché i motivi che spingevano le dame del bel mondo a farsi gianseniste erano principalmente «l’imitazione — o la moda, che altro non è che incitamento all’imitazione — e l'emulazione ».5 Ma, misoginia a parte, se i detrattori della nuova dottrina annettevano tanta importanza all’accoglienza del pubblico 1. Ibid., vol. II, p. 446.
2. Ibid., vol. III, p. 429. 3. Ibid., vol. II, p. 424. 4. Ibid., p. 447. 5. Ibid., vol. I, p. 402. 6. Ibid., p. 356.
La marchesa di Sablé
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femminile, ciò dipendeva soprattutto dal fatto che le donne erano ormai diventate il simbolo della società mondana. Rivolgendosi direttamente a loro e conquistandosene l’appoggio, gli scrittori di Port-Royal avevano giocato d’anticipo sugli avversari, riportando una prima rilevante vittoria. Arnauld e dopo di lui Pascal avevano intuito l’importanza che stava assumendo l’opinione mondana e, voltando le spalle a tutte le regole della discussione religiosa tradizionale, abbandonavano, come già Descartes, il latino per il francese, divulgavano la teologia senza rinunciare a trattare i più complessi problemi teorici e, facendo appello alla capacità di giudizio dei credenti, li rendevano pienamente responsabili delle loro scelte. Conoscevano i gusti di un pubblico aristocratico e colto, assai esigente in materia di lingua e di stile, e lo catturavano con «un francese così bello che per leggerlo si interrompevano i romanzi ».' Ma, contrariamente a quanto sosteneva Rapin, ad attrarre non era soltanto la forma. Il moralismo e l’intellettualismo, che caratterizzarono, a partire dagli anni Quaranta, la spiritualità
di Port-Royal, a scapito «delle tendenze affettive e mistiche ancora ben presenti in Saint-Cyran »,° erano in perfetta sintonia con gli interessi psicologici e morali della cultura mondana e con la sua costante inclinazione all’introspezione. E non bisogna certamente attendere la stagione degli scrittori classici — Molière
e Racine,
La Fontaine,
La Ro-
chefoucauld e La Bruyère — per averne la conferma. Già il preziosismo, inteso come fenomeno sociale e non solo letterario, attestava l’esigenza di un certo numero di dame del gran mondo di distinguersi per la loro cultura, la loro raffinatezza, la loro ripulsa per l’amore fisico e per la vita dei sensi, e di perseguire un programma etico ed estetico di purezza e di rigore. Nel definire le Preziose come «le gianseniste dell'amore»,
Ninon
de Lenclos
esprimeva
in una
forma lapidaria la convinzione, abbastanza diffusa tra gli avversari di Port-Royal, dell’esistenza di una segreta affinità tra le due «sètte». Sia nell’esaltazione della natura umana che nella sua mortificazione, lo stesso gusto per la distinzio-
ne e per la sfida doveva indurre «una parte non trascurabi1. Mémoîres de Madame de Motteville, cit., vol. I, p. 321.
2. Lafond,
265.
Madame de Sablé et son salon, in L'homme et son image, cit., p.
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le dell’aristocrazia a sentirsi in sintonia morale
con
un e-
stremismo che non era alla portata della gente comune ».!
Negli anni della giovinezza, Madame de Sablé era stata una appassionata «casista» dell'amore. Anche Mademoiselle de Scudéry, che in fatto di patologia del cuore non temeva rivali, aveva reso omaggio alla sua scienza psicologica, ritraendola nel Grand Cyrus sotto il nome di principessa di Salamis: «Mai nessuno ha conosciuto come lei tutte le diverse sfumature dell’amore, e non so immaginare niente di
più piacevole del sentirle fare la distinzione tra un amore perfettamente
puro
e uno
grossolano
e terrestre;
tra un
amore sincero e uno finto; tra un amore interessato e uno eroico. Ella riesce infatti a farvi penetrare nel cuore di tutti coloro che ne sono capaci; vi dipinge la gelosia in modo più spaventoso di quando la si raffigura con il cuore dilaniato dai serpenti; conosce
tutte le pure dolcezze
dell'amore
e
tutti i suoi supplizi. E conosce così perfettamente tutto ciò che dipende da questa passione che Venere e Urania non ne sapevano certo più di lei». Per Madame de Sablé l'amore non era una semplice passione, «ma una passione necessaria all’uso di mondo». Formatasi, come le dame della sua generazione, sulla lettura dell’ Astrée, la marchesa riteneva che il sentimento amoroso avesse una funzione altamente educativa, e che «tutti
gli uomini dovessero amare e tutte le donne dovessero essere amate». Il suo platonismo moralizzante la portava a credere che, come all’epoca d’oro della cortesia, « gli uomini potessero senza colpa nutrire sentimenti teneri per le donne; che il desiderio di piacere al gentil sesso li spingesse alle azioni più nobili e più belle, potenziando il loro spirito e ispirando loro la liberalità e ogni sorta di virtù ».5 La condotta di Madame de Sablé non era sempre stata del tutto coerente con i suoi princìpi. Sappiamo che non 1. Lafond, La Rochefoucauld d’une culture à l’autre (1978), ibid., p. 150. 2. Mademoiselle de Scudéry, Artamène ou le Grand Cyrus, cit., parte sesta, libro primo, vol. VI, pp. 72-73. 3. Ibid., p. 70. 4. Loc. cit.
5. Mémoires de Madame de Motteville, cit., vol. I, pials:
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aveva avuto dinieghi per il «prode, magnifico, aitante »' duca di Montmorency di cui si era innamorata a prima vista: «Era molto giovane quando lo vide per la prima volta; si trovava in una sala a pianterreno con le finestre spalancate. Invece di entrare dalla porta, egli entrò volteggiando dalla finestra, e il suo aspetto aveva qualcosa di così attraente che ella ne fu subito sedotta e si sentì presa al laccio ».? Apparizione, a dire il vero, irresistibile per chiunque indulgesse a fantasie romanzesche, e di cui è possibile che Madame de La Fayette si sia ricordata scrivendo La Princesse de Clèves. Come, infatti, non pensare alla celebre scena del ballo del Louvre, quando la protagonista del romanzo rico-
nosce a prima vista il duca di Nemours mentre questi avanza verso di lei per invitarla a danzare, volteggiando con atletica grazia su una fila di sedie che si frappone tra loro? A differenza della principessa di Clèves, però, non era stato il senso di colpa nei confronti di un marito che non amava e che la tradiva a indurre Madame de Sablé a metter fine alla sua relazione con Montmorency, bensì un implacabile orgoglio. Il duca era profondamente innamorato di lei,
ma la vanità lo aveva indotto a corteggiare la giovane regina Anna d'Austria, e alla marchesa questa mancanza di riguar-
do era parsa incompatibile con il rispetto che riteneva le fosse dovuto. Troviamo anche nei Mémotres di Madame de Motteville un’eco del suo sdegno: «Le ho sentito dire ... che, ai primi segni di cambiamento, ella non volle più vederlo, non potendo gradire un omaggio che avrebbe dovuto condividere con la più grande principessa del mondo ».È Pur continuando a lungo a testimoniarle la sua devozione, il duca non riuscì mai a farsi perdonare. Se dobbiamo credere a Tallemant des Réaux, il risentimento della mar-
chesa non si placò nemmeno rency per mano
con la morte di Montmo-
del boia, morte
che, a suo
dire, non
le
avrebbe arrecato alcun dispiacere.' L'avventura non dissuase Madame de Sablé dal prendersi nuovi amanti e dal promuovere al tempo stesso «l’onesta galanteria» alla corte di Francia. L'intelligenza e la bellezza le 1. Ibid., p. 12. 2. Tallemant, Histoniettes, cit., vol. I, p. 514.
3. Mémoires de Madame de Motteville, cit., vol. I, pp. 13-14. 4. Histovriettes, cit., vol. I, p. 515.
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conferivano un’autorità che le sue avventure amorose non misero mai in discussione. L’«alta idea» che si era fatta della «galanteria che gli spagnoli avevano imparato dai Mori»! era confortata dal favore di cui godeva, all’epoca, la letteratura
cavalleresca spagnola. La stessa regina, arrivata da Madrid nel 1615, «non capiva come la bella conversazione, che comunemente si chiama onesta galanteria, e che non implica alcun
impegno particolare, potesse mai essere oggetto di biasimo ».° Date queste premesse, l'accoglienza riservata alla marchesa dall’hòtel de Rambouillet non poteva che essere calorosa. Madame de Sablé aveva cominciato a frequentare la Camera azzurra quando il suo matrimonio si era già rivelato disastroso, intorno al 1620, e per il successivo ventennio ne avrebbe fatto il suo luogo d’elezione. Aveva dieci anni meno di Arthénice e sette più di Julie: all'incrocio fra due generazioni,
Madame
de Sablé era destinata a vivere con
uguale intensità due stagioni successive della nuova civiltà mondana. Nessuno meglio di lei può illustrare il percorso che conduce dall’«idealismo moralizzante» in voga tra i frequentatori dell’hÒtel di rue Saint-Thomas-du-Louvre e il giansenismo
puritano degli amici di Port-Royal,
dal culto
dell’amore a quello dell’amicizia, da una mondanità dedita a una pratica eminentemente ludica della letteratura a una nuova «galanteria vestita di nero »,} dove l’uso perfetto delle bienséances coabitava con una riflessione rigorosa sui problemi della vita intellettuale e morale.
La crisi della Fronda, con le sue passioni messe a nudo e
le sue drammatiche
scelte di campo,
aveva concluso l’età
dell’oro della sociabilité francese e accelerato il suo ingresso nel regno degradato della storia. Con il ritorno all’ordine e al principio d'autorità, pochi avrebbero rivissuto l’utopia di un locus amoenus dove uomini e donne potessero ancora vivere liberamente il loro ideale di perfezione estetica. E la
fine di Fouquet appariva emblematica del destino che attendeva gli spiriti troppo indipendenti. La maggior parte dell’élite nobiliare, trasferitasi in pianta stabile a corte, si sa1. Mémoires de Madame de Motteville, cit., vol. I, p. 13. 2A polo. 3. Giovanni Macchia, La letteratura francese, I Meridiani, Mondadori, Milano, 1987, p. 795.
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rebbe adattata a servire i disegni del sovrano, a cercarne il favore, a intrigare, a dissimulare, mentre i contestatori di
questa logica troppo amara trovavano rifugio nella religione e nella rinuncia. Nella vita pubblica come in quella privata, negli anni difficili della Fronda e in quelli della restaurazione dell’autorità reale, come davanti all’avanzare della vecchiaia e alle
sciagure domestiche, Madame de Sablé tracciava il suo personale percorso, dando prova di molto coraggio, di una grande autonomia intellettuale e, a dispetto delle apparenze, di un raro senso d’equilibrio. Durante la guerra civile si era mantenuta fedele al re, con-
tinuando però a intrattenere stretti rapporti con i suoi amici frondisti e tentando di mediare i contrasti e di suggerire una conciliazione pacifica tra i partiti rivali. E sarebbe stata aliena da eccessi anche nella sua adesione al giansenismo: avrebbe abbracciato la nuova dottrina e contribuito in misura notevole alla sua diffusione, senza tuttavia adottarne i nemici e gli interdetti. Benché installata in un appartamento all’interno della cinta di Port-Royal, non avrebbe interrotto i rapporti con la corte e con il mondo, non avrebbe rinunciato ai suoi amici, ai suoi interessi, ai suoi gusti, alle sue manie.
Un individualismo tanto accentuato e un’attenzione così indulgente alle inclinazioni del proprio io non mancarono di colpire i contemporanei della marchesa. All’interno di un codice di buone maniere che tendeva all’omologazione dei comportamenti, Madame de Sablé faceva valere innanzitutto il rispetto che doveva a se stessa. Nell’amicizia come nell’amore, le affinità elettive venivano a ripagarla dei disastri coniugali, mentre la curiosità, la lettura, la conversazione, colmando le lacune dell’educazione femminile, allarga-
vano i suoi orizzonti e contribuivano a imporla all’ammirazione delle menti più eccelse. «Il suo spirito si raffina di giorno in giorno in modo sorprendente» scriveva Chapelain a Guez de Balzac, e aggiungeva: «bisogna riconoscere che sa scrivere in maniera assai garbata e che mostra, tanto nelle lettere quanto nella conversazione, la delicatezza più squisita che si possa desiderare ».' Le stesse attenzioni che Madame de Sablé dedicava alle esigenze dell’intelligenza e del cuore, le rivolgeva in uguale misura alle cure del corpo. 1. Chapelain a Balzac, 2 aprile 1640, lettera CCCLXXXVII, in Lettres de Jean Chapelain, cit., vol. I, p. 596.
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La civiltà della conversazione
Lo proteggeva dalle malattie e dai contagi, lo nutriva con cibi delicati, infusi, marmellate,
sciroppi, ed evitava di e-
sporlo ai capricci del clima e ai pericoli della strada. Tentando di adattare il suo modo di vivere alla sua sensi bilità e alle sue aspirazioni più intime, la marchesa non si rifugiava nel sogno, si basava piuttosto sulla consapevolezza di ciò che le era dovuto in considerazione del proprio merito. Quest’affermazione di un io sublimato non sarebbe stato appannaggio esclusivo di Madame de Sablé: non poche tra le sue amiche e conoscenti avrebbero più o meno esplicitamente assunto comportamenti analoghi, tentato scelte simili, sofferto delle stesse paure. Era una «nevrosi» diffusa nelle élite mondane e in cui Philippe Sellier ha ravvisato il tratto distintivo della donna « preziosa», assai prima che la satira la rendesse «ridicola».'Madame de Rambouillet con le figlie Julie e Angélique; Mademoiselle de Montpensier e la sua piccola corte, Madame de La Fayette e la sua amica Madame de Sévigné; e, per finire, Mademoiselle de Scudéry dovevano costituire gli astri più luminosi della nuova costellazione femminile. Aristocratica prima che borghese, individualista prima che gregaria, audace più che conformista, e generalmente contraddistinta da una grande penetrazione psicologica e morale e da un gusto impeccabile per lo stile e per la lingua, questa costellazione andrebbe ricordata alla luce dei suoi capolavori, anziché attraverso la lente deformante della caricatura. E se, in questa compagnia illustre, Madame de Sablé ci viene incontro per
prima, è senza dubbio perché tra le autentiche Preziose è quella che ha osato di più.
L'AMICIZIA
COME
PASSIONE
Per anni gli habitué della Camera azzurra avrebbero riso delle fobie di Madame
de Sablé, che erano talmente ecces-
sive da far passare inosservate quelle di Madame de Rambouillet, la quale, non tollerando la luce, si era ridotta a vi1. Cfr. Philippe Sellier,
«La névrose précieuse: une nouvelle pléiade?», in
Présences feminines: littérature et société au XVII siècle francais, Actes de London (Canada), 1985, a cura di Ian Richmond e C. Venesoen, Biblio 17, PFSCL, Paris-Tùbingen-Seattle, 1987, pp. 95-125.
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vere nella penombra. Una lettera di Julie d’Angennes, scritta alla marchesa quando Mademoiselle de Bourbon era stata colpita dal vaiolo, ce la mostra pronta a ricorrere a tutta
la sua inventiva per evitare di entrare, sia pur indirettamente, in contatto con la malattia. Come di consueto, Julie non si rivolgeva solo a Madame de Sablé, ma a tutto il gruppo degli amici comuni, che si sarebbero divertiti e avrebbero ammirato il suo brio: Mademoiselle d’Angennes sapeva di scrivere bene — anzi, a detta di Voiture, non vi era uomo
in
Francia che avesse uno stile migliore del suo.’ Dopo aver esordito raccomandando alla dama di compagnia della marchesa di leggerle la lettera «sottovento», Julie avviava subito «le trattative »: «Sono certa che, tra la prima proposta che mi verrà fatta di vedervi e la conclusione,
voi avrete una tale quantità di cose su cui riflettere, di medici da consultare, di timori da superare, che nel frattempo
avrò avuto ampio modo di prendere aria. Le condizioni che vi propongo sono le seguenti: non venire da voi se non dopo essere rimasta tre giorni senza metter piede nell’hÒtel de Condé, cambiare
tutti gli indumenti, scegliere un gior-
no in cui avrà gelato, tenermi a non meno di quattro passi di distanza da voi, sedermi sempre sulla stessa sedia. Quanto a voi, potrete far accendere un gran fuoco in camera vostra, bruciare del ginepro ai quattro angoli della stanza,
spandere tutt'intorno aceto imperiale, ruta e assenzio. Se vi sentite sufficientemente rassicurata dalle mie proposte senza che debba tagliarmi i capelli, vi giuro di metterle in atto con il massimo scrupolo. Se avete bisogno di qualche esempio per farvi coraggio, vi dirò che la regina ha acconsentito a vedere Monsieur de Chaudebonne appena uscito dalla camera di Mademoiselle
de Bourbon, e che Madame
d’Ai-
guillon, che di queste cose se ne intende ed è inappuntabile in materia, mi ha appena fatto dire che, qualora non volessi andarla a trovare, verrebbe a cercarmi ella stessa ».? Nonostante l’intima amicizia, Madame de Sablé non
poteva non essere ferita dal tono sarcastico di Mademoiselle d’Angennes e decideva di risponderle con una lezione di eleganza morale, smontando gli argomenti della de-
risione. L'ironia rischia di essere un’arma a doppio taglio 1. Voiture, Lettera a Mademoiselle de Rambouillet, 6 gennaio 1634, in @Puvres, cit., vol. I, p. 205. 2. Victor Cousin, Madame de Sablé. Nouvelles études sur les femmes illustres et la société du XVII siècle, Didier, Paris, 1869 (1° ediz., 1858), pp. 37-38.
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perché svela anche il punto di vista di chi la esercita, e Madame de Sablé lo sapeva fin troppo bene. «Vi trovo così bene informata su tutte le precauzioni in uso tra i codardi che mi domando
se avessi ragione, due giorni fa, di con-
traddire una delle vostre amiche, secondo la quale avreste visto Mademoiselle de Bourbon senza timore di sorta. Come potete immaginare, non intendo affatto negare alla vostra generosità tutti gli onori che merita; perché so bene che, in caso di necessità, essa vi farebbe superare ogni
ostacolo per non venir meno al vostro dovere ... Tuttavia avete fatto delle riflessioni così belle sul timore da indurmi a sperare che, conoscendone così bene i pericoli, forse un giorno potrete averne paura anche voi, facendo ai vostri amici il piacere di conservarvi meglio per il futuro. Del resto, avete detto tutto ciò che si può pensare sulla paura, e non avete mai scritto niente di più grazioso, ma vi
rispondo, checché ne pensiate, che siete andata molto al di là delle mie precauzioni. Neppure dal mio medico esigo maggior cautela di quella che voi mi proponete offrendovi di cambiare d’abito. Infatti, quando ho bisogno di lui, sono pronta a vederlo, anche se ha appena visitato
una persona colpita dal vaiolo: purché non si presenti con un abito sudicio, che si impregna più facilmente di aria malsana di quanto farebbe un vestito pulito. E, in verità, ho letto le lettere che avete scritto a Madame de Maure e le mie senza farle scaldare... ».! Dal modo in cui si prendeva gioco delle sue precauzioni, Julie mostrava di ignorare il sentimento della paura. Qual era, allora, il merito di un gesto che non richiedeva il minimo sforzo? La generosità non nasce dall’insensibilità, ma
dallo slancio del cuore. All’elegante gioco parodico di Julie, in cui, osservata dall’esterno, la rappresentazione della nevrosi era affidata al rapido succedersi di tutta una serie di riti scaramantici, Madame de Sablé rispondeva, cambiando
completamente registro, con una sottile analisi morale, più consona alle discussioni che si sarebbero da lì a poco tenute nel suo salotto di Place Royale che allo spirito della Camera azzurra. Poi, assestato il colpo, il tono ritornava legge-
ro e la marchesa dimostrava di saper ridere per prima delle proprie manie.
1. /bid., pp. 38-39.
La marchesa di Sablé
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In un piccolo mondo chiuso su se stesso, dove l’io privato e l’io sociale finivano spesso per coincidere, e i comportamenti e le parole di ciascuno erano normalmente destinati a essere riferiti
e commentati, la lettera rappresentava sem-
pre un azzardo. Già dieci anni prima Julie era stata al centro di una disputa epistolare, ma in quell’occasione era toccato a Madame de Sablé sedere sul banco degli imputati. Nel 1632, scrivendo
a Madame
de Rambouillet, Madame
de Sablé aveva espresso il suo affetto per Mademoiselle d’Angennes, dichiarando che sarebbe stata felice di trascorrere l’intera esistenza sola con lei. Basta leggere le formule di cortesia dell’epoca per constatare che l’uso dell’iperbole faceva parte delle buone maniere. E tuttavia, nel caso di Madame de Sablé, la figura retorica era al servizio del cuore: la
marchesa amava teneramente Julie, che aveva conosciuto bambina, e sapeva che per Arthénice non esisteva piacere più grande di quello di sentir lodare la figlia primogenita. È dunque presumibile che Madame de Rambovuillet fosse particolarmente
lieta di far circolare la lettera, e che il
«com-
plimento » di Madame de Sablé non passasse inosservato tra 1 fedeli dell’hòtel.
In questo
minuetto
di cortesie
rituali,
esplose come un fulmine a ciel sereno l’indignazione di Anne d’Attichy, amica intima della marchesa, la quale giudicò
quel tradimento di tale gravità da indurla a rifiutare l’invito di passare alcuni mesi a Sablé. Quella reazione così violenta gettò nella disperazione Madame de Sable. Il suo legame con Anne d’Attichy risaliva alla prima giovinezza, quando entrambe erano damigelle d’onore di Maria de’ Medici. Avevano all’incirca la stessa età, e Mademoiselle d’Attichy, così fortunata da essere ancora nubile, le era stata di conforto nella sua difficile vita coniugale. Ma in quel funesto 1632, in cui Richelieu aveva
ristabilito l’ordine in Francia costringendo il duca d'Orléans a rifugiarsi in Spagna e infliggendo ai suoi oppositori politici pene esemplari, era piuttosto Mademoiselle d’Attichy che doveva essere consolata. Uno dei suoi zii materni, il maresciallo Louis de Marillac, era finito, come Montmorency, sotto la scure del boia e l’altro, il guardasigilli Michel de
Marillac, era morto in prigione. Invano Madame de Sablé tentò di difendersi, sostenendo
che le sue parole non andavano prese alla lettera. Mademoiselle d’Attichy non aveva dubbi sulla loro interpretazione. Per lei, quale che fosse il contesto in cui venivano usate,
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La civiltà della conversazione
le parole conservavano il loro pieno significato. «Ho visto quella lettera che, a vostro dire, contiene soltanto parole fu-
mose, e vi posso assicurare di aver trovato tutto della massima chiarezza ... Sapete bene che nessuno è più persuaso di me dei suoi meriti [di Julie], ma vi confesso che sono rima-
sta ugualmente sorpresa nel vedere che avete potuto pensare una cosa tanto ingiuriosa per la nostra amicizia. Quanto poi a credere che abbiate potuto dire all’una e scrivere all’altra la stessa cosa per fare a entrambe un complimento lusinghiero, ho troppa stima del vostro coraggio per poter immaginare che la compiacenza vi faccia tradire in questo modo i sentimenti del vostro cuore ... L’affetto che nutro per voi, infatti, è talmente noto a tutti, e in primo luogo a Mademoiselle de Rambouillet, che mi domando se non sia
stata più colpita dal torto che mi fate anziché dalla preferenza che le accordate. Il fatto che questa lettera mi sia capitata tra le mani per puro caso mi ha richiamato alla memoria quei versi di Bertaut che dicono Malheureuse est l’ignorance, Et plus malheureux est le savoir. «Avendo perso così una fiducia che sola mi aiutava a sopportare la vita, il viaggio che mi avete tante volte proposto diventa impensabile. Che senso avrebbe fare sessanta miglia, di questa stagione, per imporvi la presenza di una persona così poco gradita da non potervi impedire, dopo tanti anni di una passione senza uguali, di far consistere
il più
grande piacere della vita nel passarla senza di lei? Me ne ritorno nella mia solitudine a esaminare i difetti che mi rendono così infelice e, a meno di non poterli correggere, la gioia che proverei nel vedervi non riuscirebbe a superare la mia confusione ».? E difficile non rimanere interdetti davanti a questa lettera, che ci stupirebbe assai meno se fosse stata scritta dalla 1. «Dolorosa è l’ignoranza, / Ma più doloroso il sapere». Questa citazione un po’ deformata è presa dalla canzone XXVII del Recueil de quelques vers amoureux di Jean Bertaut, pubblicata prima nel 1600 e nel 1603 da Guillemot, poi ristampata con varianti nel 1606. Si veda Le recueil de quel ques vers amoureux, a cura di Louis Terreaux, Didier, Paris, 1970, pale
2. Edouard de Barthélemy, Madame la comtesse de Maure, sa vie et sa correspondance sutvies des Maximes de Madame de Sablé et d’une étude sur la vie de Mademoiselle de Vandy, J. Gay, Paris, 1863, lettera I, a Madame de Sablé, ottobre 1631, pp. 77-79.
La marchesa di Sablé
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marchesa di Sablé al duca di Montmorency. Vediamo qui insorgere «una passione senza uguali» contro il duplice affronto di un tradimento affettivo e di una mortificazione pubblica. A essere messo sotto accusa non è un comportamento, bensì un desiderio che appartiene al mondo dei so-
gni. Eppure, quell’aspirazione irrealizzabile — una vita felice, fuori dal mondo,
in compagnia di una sola persona —,
che potrebbe sembrare semplicemente l’espressione enfatica di una forte predilezione, era stata interpretata da Made-
moiselle d’Attichy come un impegno sentimentale assoluto, il segno di un'amicizia esclusiva, diversa da tutte le altre. La preferenza che la giovane donna rivendicava non doveva essere necessariamente di natura illecita, dal momento
che il suo affetto per Madame de Sablé «era di pubblico dominio ». Ma davanti alla gelosia di Mademoiselle d’Attichy e alla violenza delle sue recriminazioni non possiamo fare a meno di interrogarci sulla natura della sua amicizia con Madame de Sablé. Nella società di Antico Regime la solidarietà femminile suppliva non di rado all’estraneità coniugale e a un amore
materno
ancora incerto, che doveva fare i
conti con gravidanze rischiose e spesso non desiderate e con una mortalità infantile che non lasciava il tempo di affezionarsi ai figli. Quanto alla galanteria, onesta o disonesta che fosse, essa poteva certo fungere da compensazione a una logica matrimoniale che non teneva conto delle necessità sentimentali, ma era pur sempre un gioco rischioso, pieno d’incognite. Non a caso, per designarlo, sempre più spesso si sarebbe fatto ricorso a metafore guerresche. Via via che aumentava il prestigio mondano delle donne,
però, alcune di esse esprimevano in modo più esplicito le proprie aspirazioni e idiosincrasie. Sposate o nubili non nascondevano di provare una forte ripulsa per il matrimonio e la sessualità, e tanto nella vita privata che in quella sociale celebravano i valori tipici del loro sesso, il riserbo, la delicatezza, la sensibilità emotiva. Gli uomini erano certamente invitati a rispettarli e a condividerli, ma le donne sapevano
di trovare all’interno del mondo femminile una sintonia e una sicurezza affettiva che poteva bastare a se stessa. Tipiche dell’ideologia preziosa, l'esaltazione e la sublimazione dell’amicizia fra donne potevano tuttavia rappresentare una minaccia per l’equilibrio del gioco mondano e dovevano entrare fatalmente in concorrenza con l’amore galante. E se per screditare il prestigio delle Preziose si sa-
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due coniugi non esitarono a prender casa assieme alla marchesa, dando origine alla più singolare delle convivenze.
Intere settimane potevano trascorrere senza che le due nobili ipocondriache si facessero visita. Un susseguirsi di indisposizioni, la paura di ciascuna dei germi dell’altra, le correnti d’aria in agguato nei corridoi e nell’atrio le confina-
vano spesso nei rispettivi appartamenti. Una volta, temendo che la contessa avesse dei dissapori con il marito, Madame de Sablé l’aveva raggiunta coraggiosamente nella sua
stanza da letto, protetta da un padiglione ambulante sorretto dai domestici, ma in generale le due amiche preferivano comunicare per lettera, e si scrivevano anche molte volte al giorno. Date le circostanze, le loro missive erano di un carattere
assolutamente inedito: a volte solo di poche righe, senza intestazioni e senza le formule cerimoniose d’uso, esse conservavano tutta l’immediatezza e la naturalezza delle conversa-
zioni tra persone amiche. Destinati a circolare non meno dell’inesauribile
aneddotica
sull’eccentricità delle due da-
me che li avevano scritti, questi dillets dovevano orientare in modo determinante l’estetica della lettera mondana.
Nella
buona società, il gusto dell’ironia non escludeva l’ammirazione: colte, brillanti, estrose, divertenti, con una conoscenza perfetta della lingua, le due amiche avevano trovato il tono epistolare che si conveniva ai mondani. Il tono che si poteva avere soltanto tra uguali, quando, «considerando la persona a cui si scrive come un altro se stesso, la si tratta senza cerimonie, in modo familiare e onesto ».' «E al tempo loro che la scrittura è diventata usuale» dichiarava la Grande Mademoiselle nell’ Histoire de la Princesse
de Paphlagonie, all’epoca in cui più si dilettava a giocare con la letteratura. «Prima si scrivevano solo contratti di matrimonio, e di lettere non si sentiva nemmeno parlare; così
dobbiamo essere grati a entrambe per una cosa così comoda per la vita di relazione».? E nel 1675 il dotto Ménage 1. Nouveau Recueil contenant la vie, les amours, les infortunes et les lettres d’Abailard et d'Héloîse, les lettres d'une religieuse portugaise et du chevalier***, celles de Cléante et Bélise, avec l’histoire de la Matrone d Ephèse, Bruxelles, 1709, re-
marque VII, p. 476, citato in Roger Duchéne, Madame de Sévigné et la lettre d'amour, nuova edizione accresciuta a cura di Geneviève Haroche-Bouzinac, Klincksieck, Paris, 1992, poalilile
2. Mademoiselle de Montpensier, La relation de l’isle imaginaire et l’histoire de la Princesse de Paphlagonie, Bordeaux, 1659, pp. 81-82.
La marchesa di Sablé
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non esitava a inserire i nomi delle due amiche nelle sue Observations sur la langue francaise: « Comunicare mediante biglietti è una cosa assai comoda, che è stata introdotta trenta o quarant’anni fa dalla marchesa di Sablé e dalla contessa di Maure ». Soltanto i biglietti di Madame de Maure sono giunti fino a noi. Senza data, scritti in fretta, spesso scarabocchiati, pieni
di riferimenti ormai incomprensibili,
essi ci trasmettono
frammenti di una conversazione stravagante e complice, che
ci sconcerta per la sua bizzarria e la sua tensione emotiva. «I vostri ringraziamenti, amor mio, valgono assai più di tutto quello che mai potrò fare per voi» scriveva per esempio la contessa nel novembre del. 1662. «Non sapete forse che vi devo tutto e che mi ripago per mano vostra quando vi servo? Mi avete fatto ridere raccontandomi della vostra angoscia per la lettera che i vostri domestici non mi hanno recapitato. Si sa che in questo campo avete piuttosto la tendenza a esagerare... ». Ogni missiva aveva il compito di testimoniare affetto e gratitudine, prodigare consigli, suggerire terapie, accompagnare l’invio di qualche decotto, unguento, leccornia. Unite dalle stesse manie, Madame
de Sablé
e Madame
de Mau-
re non si stancavano di alimentarle con le reciproche confidenze, indulgendo al piacere di passarle in rassegna quanto più spesso potevano, e disperandosi al solo pensiero che uno dei loro biglietti fosse andato smarrito. «Nessuna lettera è andata perduta, amor mio ... Ho rice-
vuto quella in cui mi dicevate che Monsieur de Valens neticava; credevo che fosse rientrato in sé. Vi ringrazio le e mille volte, mio caro amore, per tutto quel che mi sull’acqua. Si sa che vorreste sempre donare. Io sto un meglio, grazie a Dio, mio caro amore,
farmildite po’
ma non sto ancora
DEDe..>. Grazie all’intelligenza profonda che ciascuna dimostrava per le ossessioni dell’altra, le due amiche potevano, inoltre,
1. Gilles Ménage, Observations sur la langue francaise, 2 voll., C. Barbin, Pa-
ris, 1675-1676, vol. I, p. 395. 2. Édouard de Barthélemy, op. cit., lettera LV, a Madame de Sabié, novem-
bre 1662, p. 182. 3. Ibid., lettera LV.
168
La civiltà della conversazione
tentare di esorcizzare le loro tormentose fantasie di malate immaginarie, elencandone, volta per volta, sintomi e nomi.
«Vi compatisco assai, amor mio, per il male agli occhi che vi procura tutti i disagi che mi dite. Quanto a me, amor mio, starei abbastanza bene se non avessi le nausee; quanto al raffreddore, non ci faccio più caso, perché non ho catarro e neppure molta tosse... ».! Questa soave melopea di appellativi amorosi non deve trarci in inganno. Nonostante l’intimità, le fobie, le abitudini comuni, Madame de Sablé e Madame de Maure conser-
vavano una totale autonomia di giudizio e un assoluto rispetto delle convinzioni reciproche. Il conte di Maure fu un acceso frondista e un molinista convinto,
e Madame
de
Maure non abbracciò mai la dottrina di Port-Royal; ma in Madame
de Sablé, realista e giansenista, la tolleranza aveva
come alleata la curiosità intellettuale per le ragioni degli altri, e d'altronde la contessa di Maure sapeva perfettamente argomentare le proprie. «Amor mio, ciò che scrivete a Monsieur de Sourdis, che
la vostra ragione è dalla sua parte e la vostra fede è contro di lui, e anche ciò che il conte di Maure mi ha detto a proposito della vostra discussione dell’altro ieri mi fa ritenere che prendiate come articolo di fede ciò che sant'Agostino dice nel Trattato della Grazia* ... È io, amor mio, ben lungi dal credere che sia un articolo di fede, sarei molto triste se si dovesse considerarlo tale. Si tratta infatti di un'opinione così dura e, a mio giudizio, così contraria alla bontà di Dio,
che secondo me porterebbe unicamente all’ateismo. Dunque mi attengo ben volentieri alla Bolla che, senza condannare sant'Agostino, condanna tuttavia le opinioni che ho trovato in quell’opera. E, pur non essendo riuscita a capire niente del ragionamento di cui ci si avvale riguardo alla grazia sufficiente, mi ci attengo lo stesso perché significa attenersi alla Bolla e non voglio saperne di più. Non so a chi possa essere utile credere che ci debbano necessariamente essere dei dannati e che Dio non ci abbia concesso la grazia necessaria per adempiere a ciò che ci ha comandato, ma so che per me tale credenza sarebbe estremamente pericoloI. [bid., lettera LXXI, p. 220. 2. Per cogliere tutte le allusioni contenute in questa lettera, che si riferisce alla disputa sulla predestinazione al cuore della polemica giansenista, si veda la Bibliografia.
La marchesa di Sablé
169
sa. So pure che, quand’anche gli uomini più sapienti del mondo fossero riuniti in un luogo facilmente accessibile, li vorrei ascoltare solo per capire chi parla meglio. Perché in materia di dottrina sono persuasa che i più semplici ne sappiano quanto i più dotti. Mi spaventa sempre vedere un accanimento così terribile da entrambe le parti su una materia così oscura, e non già per quanto concerne
la disputa,
perché capisco la foga che può dare il desiderio di vincere, ma per il fatto che molte persone prendono a odiarsi perché sono di opinione contraria in proposito. E mi sono sempre rallegrata nel vedere che condividevate il mio atteggiamento... ».!
ALL’OMBRA
DI PORT-ROYAL
Con la conversione al giansenismo, Madame de Sablé rinunciava alle feste e ai divertimenti, non ai piaceri della società. La marchesa avrebbe continuato a ricevere a casa sua amici e conoscenti e, negli anni che seguirono al fallimento della Fronda, il suo salotto sarebbe diventato uno dei luo-
ghi d’incontro più creativi della vita culturale
e mondana
francese.
Nel 1640 suo marito aveva avuto il buon gusto di morire e lei quello di accogliere la notizia con molta compostezza. In una lettera a Montausier,
Chapelain ce la mostra come
una vera honnéte femme, capace di ottemperare a tutte le esigenze del decoro sociale senza tradire la propria verità interiore: «Dunque la marchesa di Sablé è vedova, e una delle vedove più degne che io abbia mai conosciuto; non ride né piange e, senza fingersi afflitta né ostentare un’indifferenza che susciterebbe scandalo, trattandosi di un cambiamento di stato così importante, segue la sua vera indole, così da non sottostare ad alcunché »..°
Un’altra morte l’aveva sicuramente colpita di più, quella del marchese d’Armentières, ucciso in duello nel febbraio del 1639, il quale, secondo Tallemant, era stato il suo ulti1. Ibid., lettera LX, pp. 189-091.
2. Chapelain al marchese di Montausier, 15 giugno 1640, lettera CDVIII, in Lettres de Jean Chapelain, cit., vol. I, p. 640.
170
La civiltà della conversazione
mo amante: «Dopo quella perdita, la marchesa non fece più l’amore e pensò che fosse giunto il momento di fare la devota». Poi, nell’ottobre del 1646, la marchesa si era mi-
surata con una nuova disgrazia, la scomparsa del figlio minore, il prode, colto, aitante Guy de Laval, perito a venti-
quattr’anni nell’assedio di Dunkerque. E certo non dovette esserle di consolazione la lite patrimoniale intentatale dagli altri figli, lite che la costrinse a vendere la proprietà di Sablé. Secondo
Rapin,
erano
state
proprio
ragioni
di ordine
economico a indurre Madame de Sablé a farsi costruire una casa all’interno delle mura del convento di Port-Royal. Ansiose di accattivarsi la sua benevolenza, le suore avevano
capitolato davanti a richieste che ad altri istituti religiosi erano sembrate inaccettabili. E nonostante le numerose vessazioni che le attendevano, il loro calcolo si sarebbe rive-
lato lungimirante: la marchesa avrebbe conquistato molte simpatie alla causa giansenista e, soprattutto, attirato a PortRoyal la duchessa di Longueville. La scelta di Madame de Sablé era destinata a fare scuola. Fino al termine dell’Antico Regime molti conventi avrebbero ospitato delle nobildonne sole — vedove, separate o nubili —, offrendo loro la possibilità di beneficiare al tempo stesso di conforto religioso e di una totale indipendenza, all’insegna della rispettabilità e dell'economia. E proprio sulla base di queste valutazioni sostanzialmente pratiche, un secolo dopo, Madame du Deffand si sarebbe trasferita in un
appartamento del convento di Saint-Joseph, dove avrebbe dato vita al suo celebre salotto. A differenza della marchesa du Deffand, però, Madame
de Sablé era sinceramente reli-
giosa. Avrebbe voluto distaccarsi dalla vita profana ma non ne aveva la forza, ed era ben conscia che odiare il mondo non significava necessariamente essere in grado di rinunciarvi: «C'è bisogno di una grazia per lasciare il mondo » ella diceva. «Non ce n’è bisogno per detestarlo »..? : La posizione della sua residenza a Port-Royal, che sì affacciava da un lato sulla chiesa e dall’altro sulla strada, era emblematica della sua condizione interiore, sospesa fra la
retraite e il mondo. Non possiamo dire con quanta frequenza la marchesa facesse uso della chiave che le consentiva di 1. Tallemant, Historiettes, cit., vol. I, p. 516. 2. Citato in Sainte-Beuve, Port-Ròyal, cit., vol. III, p. 72.
La marchesa di Sablé
171
accedere direttamente alla tribuna a lei riservata, da dove
poteva seguire le funzioni religiose evitando ogni antigienica promiscuità. Di certo la sua corrispondenza con le suore, a dispetto delle molte, spesso esilaranti, preoccupazioni di ordine pratico, denota un autentico interesse per la vita
della comunità e un profondo sentimento religioso. Madre Angélique, madre Agnès, suor Angélique de SaintJean, che pure avevano abbracciato la più intransigente delle regole, erano costrette a venire continuamente a patti con le sue esigenze, le sue fobie, le sue suscettibilità di gran dama. Le malattie e i decessi erano frequenti al monastero;
le suore si sottoponevano a privazioni, a veglie, a fatiche continue; e se la loro resistenza veniva meno si rimettevano
fiduciose nelle mani di Dio. Ma la reazione di Madame de Sablé il giorno in cui, affacciandosi
sul coro della chiesa,
aveva avuto la sorpresa di trovarsi davanti al cadavere di una religiosa in attesa di sepoltura, era stata tale da indurre le suore a far sì che la scena non si ripetesse. Madre Angélique, la badessa del convento,
aveva un bello scriverle:
«il
giorno avanza, il tramonto si avvicina»,' da quel momento le salme delle sorelle morte sarebbero state esposte lontano dagli occhi della marchesa, e poi seppellite al più presto. Le suore tuttavia, davanti alle inammissibili richieste di Madame de Sablé, non chinavano il capo per semplice opportu-
nismo. Erano psicologicamente troppo agguerrite e la conoscevano abbastanza bene per non essere pienamente consapevoli delle sue sofferenze e del panico incontrollabile che si impadroniva di lei al pensiero della morte. Ritenevano che quella fosse la sua croce e provavano per lei una pena profonda. Non sempre, però, erano disposte a darle ragione. Quando Madame de Sablé si era dimostrata offesa dal fatto che non fosse il confessore del convento a cercarla per primo, madre Angélique le aveva risposto con molta fermezza che le esigenze della fede non tenevano conto delle bdienséances mondane. Ma la leggendaria riformatrice di Port-Royal, che aveva sacrificato a Dio i suoi affetti più cari, avrebbe portato nel cuore, fino alla fine, il pensiero di
quella scomoda ospite. Solo due giorni prima di morire, quando ormai non parlava quasi più, madre Angélique sus1. Lettera di madre Angélique a Madame
de Sablé dell’11 novembre
1655, citata in Cousin, Madame de Sable, cit., p. 184.
172
surrò in modo marchesa! ».!
La civiltà della conversazione
perfettamente
intelligibile:
«Mia
povera
Installata nella roccaforte del giansenismo, Madame de Sablé continuava dunque a intrattenere eccellenti rapporti col mondo. L'unica condizione che le suore le imponevano, quando riceveva gli ospiti, era di proteggerle dagli sguardi indiscreti e di chiudere a chiave gli scuri delle finestre che si affacciavano sul giardino del convento. Numerosi erano infatti i visitatori che venivano in rue de la Bourbe attratti dai piaceri della sua conversazione e dalla raffinatezza della sua tavola. Era quest’ultima a fare le delizie di Monsieur, fratello del re, e del duca di La Rochefoucauld,
con il quale Madame de Sablé avrebbe condiviso anche il gusto delle massime. I suoi stessi amici giansenisti facevano onore alla sua mensa, senza temere di apparire in flagrante contraddizione con l’austerità dei loro principi. Ma la marchesa di Sablé aveva innanzitutto, in somma mi-
sura, il genio di assortire e amalgamare i suoi ospiti intorno a problemi di interesse comune. Grandi aristocratici e magistrati, uomini di scienza, gesuiti e giansenisti, medici, letterati, diplomatici, dame della buona società, tutti si sarebbero
recati da lei per sentir parlare di teologia, assistere a esperimenti scientifici, discutere di metafisica, di morale, di psicologia, di medicina. Si trattava, molto probabilmente, di riu-
nioni ristrette, perché la padrona di casa evitava per quanto possibile di avere contatti fisici con la gente, e perché, stando alla famosa formula del Guazzo, le persone che componevano il cercle della conversazione non dovevano in ogni caso superare la decina. E si può anche presumere che tali incontri non si svolgessero secondo un calendario fisso (usanza intro-
dotta invece dalle Preziose), perché invecchiando Madame de Sablé diventava sempre più eccentrica e tendeva a isolarsi per settimane intere, rifiutandosi di ricevere anche gli amici più intimi e interrompendo persino i rapporti epistolari. Paradossalmente, però, è proprio grazie alla sua ipocondria che oggi siamo in grado di conoscere il nome di molti 1. Gazier, Les belles amies de Port-Royal, cit., p. 49. 2. «... che ’1 convito dee cominciare dalle Grazie e finire nelle Muse, cioè
che ’1 numero de’ convitati non sia minore di tre né maggiore di nove», Guazzo, La civil conversazione, cit., libro secondo, vol. I, p. 175.
La marchesa di Sablé
173
dei suoi invitati e la natura e il tono delle loro conversazioni: andando ad abitare a Port-Royal, infatti, la marchesa aveva voluto accanto a sé un medico fisso, il dottor Vallant, che non le avrebbe certo impedito di morire, ma che, con-
servando la viva traccia delle sue occupazioni — lettere, argomenti di discussione, giochi letterari, versi —, la avrebbe
preservata dall’oblio.
Nemmeno
a Port-Royal, nonostante gli anni e le preoc-
cupazioni religiose, la marchesa smise di interessarsi dell’a-
more. Era un argomento di conversazione che poteva coinvolgere sia i mondani sia i moralisti, e che si prestava al gio-
co come alle riflessioni più profonde. Nel 1658 Mademoiselle de Scudéry, dando alle stampe la terza parte di Clelie,' aveva messo alla moda le questions d’amour, che per circa un decennio avrebbero, assieme al-
le maximes d’amour, «furoreggiato nei salotti». Il passatempo — antico quasi quanto la civiltà aristocratica francese — consisteva nel proporre una serie di quesiti (questions) 0 di tesi (maximes)
di natura amorosa,
e dava ai partecipanti
un’occasione per fare sfoggio di alcune delle virtù mondane più apprezzate: l’acume psicologico, la prontezza, la delicatezza. Anche il giovane Luigi XIV amava questo intrattenimento e lo riteneva un'utile scuola di eleganza per la corte. Bussy-Rabutin racconta come, chiamato a leggere le sue Maximes d’amour davanti al fratello del re, fosse ri-
masto colpito dalla prontezza con cui, nonostante la giovane
età, Francoise
Athénaîis
de
Rochechouart,
futura
marchesa di Montespan, formulava le risposte migliori. Nemmeno gli habitué di Madame de Sablé si sottrassero al gioco: sappiamo che nel novembre 1667 il marchese di Sourdis, abbandonando
per un po’ le discussioni teologi-
che, leggeva nel salotto della marchesa le sue trentadue Questions
sur l’Amour,
trascritte
da Vallant,
assieme
alle
1. Mademoiselle de Scudéry, «Morale galante de Térame », in Clélie, Histoireromaine (1654-1660), ristampa dell’edizione di Parigi del 1658-1662, Slatkine Reprint, Genève, 1973, parte terza, libro terzo, vol. VI, pp. 1360-79.
2. Cfr. Mémoires de Roger de Rabutin, comte de Bussy, nouvelle édition revue sur un manuscrit de famille, augmentée de fragments inédits ... avec une préface, des notes, des tables par Ludovic Lalanne, 2 voll., C. Marpon et E. Flammarion, Paris, 1882, vol. II, p. 160.
174
La civiltà della conversazione
Cinq Questions d'amour di Madame de Brégy, nel XIII volume dei suoi Portefeuilles. Il primo si domandava «se sia meglio perdere una persona amata a causa della morte o dell’infedeltà»; «se una grande gelosia sia segno di un grande amore»; «se si possa amare qualcosa più di se stessi ».! La seconda chiedeva «se la presenza della persona amata susciti una gioia più grande del dolore provocato dalla sua indifferenza»; quale debba essere la scelta di «una persona quando il suo cuore propende per una parte e la sua ragione per l’altra»; e «se dobbiamo odiare qualcuno che ci piace troppo e a cui non possiamo piacere», e ancora «se sia più dolce amare una persona il cui cuore è impegnato anziché un’altra il cui cuore sia insensibile»; e per finire «se il piacere di essere amati ricompensi il dispiacere di non esserlo »..° I cinque quesiti posti dalla contessa di Brégy — un tempo dama d’onore di Anna d’Austria — erano indirizzati al re, il
quale aveva la gentilezza di incaricare Quinault di formulare per lui delle risposte in versi. Quelle di Sourdis sembrerebbero invece aver ispirato alcune delle ardenti dichiarazioni disseminate nelle Lettres portugaises. Come ha rivelato la scoperta del « privilegio » di pubblicazione concesso all’editore Barbin il 17 novembre
1668, sia le Lettres portugaises
sia 1 Valentins® erano opera di un amico e frequentatore di Madame de Sablé, il visconte di Guilleragues. Pubblicati se-
paratamente e senza nome d’autore, il romanzo e i Valentins — biglietti galanti in versi assai simili alle questions d’amour— dovevano andare incontro a destini assai diversi, per-
fettamente speculari alla loro diversa qualità letteraria. Il primo conquistava i lettori e si imponeva come un capolaVOro, i secondi avevano l’effimero successo di un gioco alla moda. Eppure, come si sarebbe giunti a scoprire più di due secoli dopo, le due opere conservavano, nascoste tra le pie1. Citato in Nicolas Ivanoff, La marquise de Sablé et son salon, Les Presses
Modernes, Paris, 1927, pp. 138-39. 2. Cinq Questions d'amour, proposées par Madame de Brégy, avec la reponse en
vers par M. Quinault, par l’ordre du Roy, Leyde, 1666, 3. Il titolo completo, riportato il 17 novembre 1668 ges, del libro di cui si dava l’autorizzazione a stampa tres portugaises Epigrames et Madrigaux de Guilleragues; Prefazione a Guilleragues, Lettres portugaises, suivies méme, Gallimard, Paris, 1990, p. 27.
pp. 130-32. nel Registre des Privilè-. era Les Valantains Letcfr. Frédéric Deloffre, de Guilleragues par lui-
La marchesa di Sablé ghe, le tracce indubitabili di un'origine comune.
175 L’analisi
testuale e tematica mostra un nesso evidente fra le Lettres portugaises e 1 Valentins; entrambi possono essere letti alla luce delle questions d'amour in voga nel salotto di Madame de Sablé. Ma, pubblicata assieme
ai Valentins, figurava an-
che una vera lettera, scritta probabilmente anni prima, in cui Guilleragues non faceva mistero dell’ammirazione che portava alla marchesa. Madame, so bene di non meritare le vostre lettere, ma nonostante questo le voglio. Ecco un esordio sfacciato, che certamente
vi sorprenderà. In effetti, una cosa così preziosa andrebbe chiesta con minor sfrontatezza, soprattutto a una persona come voi, che avete tutto il merito immaginabile e un’uguale delicatezza. Ma voi sapete bene, Madame, che quando si desidera con veemenza si parla con impeto, e che la parola voglio non è riservata esclusivamente alla bocca delle amanti
e dei re. Queste due categorie di persone, che confondono la ragione con la volontà, non sempre vogliono cose ragio-
nevoli,
e non
dovrebbero
dire voglio troppo spesso. Per
quanto mi riguarda, ciò che desidero è così sublime, ed è tale la passione con cui lo desidero che, se esistesse qualcosa di più ardito di voglio, dovrei essere autorizzato a dirlo. Per-
mettetemi dunque, Madame, per concludere il mio biglietto in modo, se possibile, ancora più dissennato di come l’ho
iniziato, di dire, come il re al suo sergente e la regina a suo figlio — perché sono gli ordini più categorici a cui si possa pensare — che voglio che mi facciate l'onore di scrivermi...
Scritta probabilmente all’inizio degli anni Cinquanta, quando Guilleragues aveva da poco conosciuto Madame de Sablé, questa lettera, con cui un giovane provinciale arrivato a Parigi tentava di entrare nel novero dei corrispondenti della marchesa e di strapparle uno dei suoi famosi biglietti, è un esempio perfetto di grazia mondana: eleganza e immediatezza, adulazione delicata e audacia, originalità e gusto della sorpresa conquistano il lettore e lo spingono al gioco. E la scrittura conserva intatto lo slancio e la forza comunicativa di una richiesta che ha tutta la spontaneità e il naturel di una formulata a viva voce.
1. Ibid., p. 117.
176
La civiltà della conversazione
Nato a Bordeaux, in una famiglia appartenente da varie generazioni
alla nobiltà di toga, Gabriel
de Lavergne, VI-
sconte di Guilleragues, sarebbe stato fedele per tutta la vita allo stile di questo suo biglietto. Colto, spiritoso, brillante, possedeva il talento di piacere e sapeva servirsene per fare carriera. Riusciva a inserirsi nel bel mondo parigino frequentando l’hòtel d’Albret e quello di Richelieu, i salotti di Madame de Sablé e di Madame
de La Sablière, ma non tra-
scurava di rendere omaggio a Madame de Montespan, Madame de Thianges, Madame de Maintenon; infine approdava a corte, e qui si guadagnava la benevolenza di Monsieur e quella dello stesso Luigi XIV. Uomo d’armi, segretario del re, diplomatico, ambasciatore presso la Sublime Porta, Guilleragues non cessò mai di coltivare la letteratura en
amateur, disseminando lungo il suo percorso versi, rime e canzoni. Niente meglio dei Valentins illustra questa vena leggera, in perfetta sintonia con i gusti del momento, ma nessuno dei suoi passatempi di nobile dilettante poteva lasciar presagire il miracolo delle Lettres portugaises. Non stupisce che questo miracolo prendesse forma nel salotto di Madame de Sablé. Lì il gioco delle questions d’amour si accompagnava a una riflessione sistematica sulla natura dei sentimenti, e la stessa padrona di casa, come
rico-
nosceva madre Angélique, era «dottissima in fatto di passioni, di delusioni, di istanze, di inganni del mondo ».' Ma se, a sessant'anni come a venti, la scienza del cuore rimane-
va al centro degli interessi della marchesa, il suo punto di vista era molto cambiato col tempo. La concezione cavalleresca dell'amore che Madame de Sablé aveva coltivato nella sua giovinezza era una morale fondata su una metafisica. Come insegnava L'Astrée, la devozione consacrata alla donna amata, alla sua bellezza, alle sue virtù era un sicuro strumento di elevazione spirituale,
un momento essenziale dell’ascesi mistica. Ma per l’agostinismo giansenista la natura dell’uomo era troppo corrotta dal peccato perché questi potesse avere fiducia nell’autenticità dei propri ideali. Esistevano due amori inconciliabili, l’amore di Dio e l’amore di sé, e non si poteva fare a meno di scegliere. E se anche non si voleva rinunciare a una morale amorosa, diventava «impossibile mettersi d’accordo sui 1. Sainte-Beuve, Port-Royal, cit., vol. III, p. 82.
La marchesa di Sablé
1 rar!
suoi fondamenti»,' perché l’idea stessa dell’amore si andava facendo confusa. Di qui le molte discussioni che contrapponevano nel salotto di Madame de Sablé i sostenitori dell’«amore di scelta e d'elezione » a quelli dell’«amore d’inclinazione ». I primi, capeggiati dal marchese di Sourdis, credevano nella possibilità di un amore virtuoso, basato sulla conoscenza dei me-
riti della persona amata, non diverso dall’ «amore di stima» a cui Mademoiselle de Scudéry aveva dato un posto d’onore nella sua Carte de Tendre. I secondi seguivano il giansenista Jacques Esprit, che denunciava invece il carattere misterioso e irrazionale della passione amorosa con tutti i pericoli che ne potevano derivare. Pare che la marchesa esitasse a lungo a prendere posizione e a voltare definitivamente le spalle a quell’idea spagnolesca della galanteria che, nel frattempo, «era diventata uno dei modelli del preziosismo ».° Alla fine, sembrò propendere per l’amore d’inclinazione: «L'amore, ovunque sia, è sempre il padrone. Esso plasma l’anima, il cuore e la mente, a seconda di ciò che è.
La sua piccolezza e la sua grandezza non dipendono né dal cuore né dalla mente che occupa, ma da ciò che è in sé. E sembra davvero che l’amore stia all’anima di colui che ama come l’anima sta al corpo di colui a cui dà vita ».È Nelle Lettres portugaises questa concezione totalizzante dell’amore era messa in atto e portata alle sue estreme conseguenze. In cinque lettere senza risposta — lunghi monologhi che hanno indotto Leo Spitzer a pensare ai cinque atti di una tragedia classica — il romanzo metteva in scena una passione cieca, costretta a fare i conti con il tradimento e l’abbandono, fino ad approdare alla disillusione e al distacco.
Frase dopo frase, gli studiosi hanno mostrato quanto Guilleragues fosse debitore delle idee sostenute da taluni habitué di Madame de Sablé; ma non è escluso che il luogo dove abitava la marchesa avesse inciso sulla sua immaginazione di romanziere. Pur non avendo contatti diretti con la vita del convento, gli ospiti di Madame de Sablé non potevano certo dimenticare che, a pochi metri di distanza dal 1. Jean-Michel Pelous, Amour précieux, amour galant (1654-1675), Klincksieck, Paris, 1980, p. 122. 2. Lafond, L’amitié selon Arnauld d’Andilly, in L'homme et son image, cit.,
p. 267. 3. Maximes de Madame la marquise de Sable, cit., massima LXXIX, pp. 38-39.
178
La civiltà della conversazione
salotto in cui conversavano,
nell’assoluto
esisteva un mondo
della fede. Nel monastero
Guilleragues sceglieva come
che viveva
portoghese
che
teatro della sua storia, invece,
la religione era assente: una tolleranza, una comprensione tutte umane
consentivano alla monaca innamorata di con-
sacrarsi indisturbata alla sua passione. Una lunga tradizione letteraria, dalle lettere di Abelardo ed Eloisa alle novelle di Boccaccio, aveva fatto del convento
un luogo altamente erotico, e solo qualche anno prima, nel 1665, La Fontaine, nei suoi Contes et nouvelles en vers, si era di-
vertito a raccontare delle storie dove amor sacro e amor profano coabitavano lietamente. La scelta di Guilleragues era decisamente diversa: il contesto religioso che faceva da cornice alla sua vicenda non sollecitava la malizia, o le fantasie libertine, o l’indignazione morale. Come Port-Royal, il monastero
portoghese era un luogo separato, che consentiva di misurarsi con un’esperienza assoluta. Nelle lettere di Mariane non v'era posto per la fede, la morale, il pudore, il senso di colpa,
e tanto meno per il mondo esterno: soltanto la passione contava per lei. Come Port-Royal, il convento evocato da Guilleragues era un laboratorio in cui si verificava una ipotesi estrema. nel fino vole
Nel primo, l’amore di sé si annullava nell’amore di Dio; secondo, l’amore d’inclinazione, libero di consumare in fondo la sua fiamma, rivelava la sua natura ingannelasciandosi dietro soltanto un mucchio di ceneri.
Nelle sue visite a Port-Royal, Guilleragues aveva certo ascoltato gli amici di Madame de Sablé dibattere su queste opposte, eppure speculari, forme dell’amore, e non solo per il gusto della discussione astratta. Alcuni di loro, come Madame
de Sablé,
Madame
de Guéméné
o Madame
de
Longueville, dopo aver vissuto esperienze simili a quelle di Mariane, subivano l’attrazione della scommessa estrema di Port-Royal; altri, come La Rochefoucauld, stemperavano le delusioni nel solvente dell’ironia. Guilleragues conosceva le loro storie e, mentre il canto attutito delle suore veniva a
ricordare agli ospiti del salotto che un muro soltanto li separava da un mondo radicalmente diverso, doveva essersi abbandonato più di una volta a fantasticare sui loro amori di un tempo.
E irragionevole pensare che queste suggestioni abbiano spinto Guilleragues a osare di più e a voler ricondurre il sentimento amoroso nell’alveo della vita? Certo, con un ve-
ro colpo di genio, egli passava dalla casistica astratta dei Va-
La marchesa di Sablé
179
lentins all’invenzione di un personaggio e di una storia che sì presentavano come assolutamente autentici. Dal fondo del suo convento, Mariane
illustrava, con la sua viva espe-
rienza, le tappe successive di un percorso sentimentale che disdegnava le bienséances e le delicatezze della Carte de Tendre. Mademoiselle de Scudéry aveva teorizzato la superiorità delle donne nello scrivere le lettere d'amore perché, «quando un amante ha deciso di scrivere apertamente della sua passione, non c’è bisogno di alcuna abilità per dire di continuo: “Muoio d’amore”. Ma nel caso di una donna, che
non confessa mai con chiarezza i suoi sentimenti e li ammanta di grande mistero, quest'amore che appena si intravede piace più di quello che si mostra senz’arte».' Rovesciando questa logica, Mariane aveva l’audacia di gridare i suoi sentimenti e non temeva di dichiarare di aver amato per prima: «Mi è bastato vedervi per consacrare la mia vita a voi». In anticipo sulla Princesse de Cléves, l’amabile, scetti-
co Guilleragues insegnava alle donne a usare la sincerità come un'arma e a prendere in mano il loro destino. Ma, a differenza dell’eroina di Madame
de La Fayette, la monaca
portoghese non rinunciava a vivere l’amore per paura di esserne delusa, e consumava
fino in fondo la sua esperienza
sotto il segno della lucidità e del coraggio. Il pubblico femminile non si sarebbe limitato ad amare l’eroina di Guilleragues: con l’andar del tempo le lettrici più audaci avrebbero finito per seguire il suo esempio. Un secolo dopo, la passione per il maresciallo di Richelieu ispirerà a Madame de La Popelinière delle missive strazianti, Madame
du Def-
fand verrà accusata da Horace Walpole di scrivere delle Portugaises, e Julie de Lespinasse ripeterà per centinaia di lettere la stessa sfida ad amare che Mariane aveva lanciato al suo ignoto ufficiale. La novità delle Lettres portugaises investiva ugualmente la forma, e anche per essa Guilleragues aveva saputo utilizzare, con l’audacia del dilettante, i mezzi espressivi con cui
aveva maggiore familiarità. Come tutti i mondani egli amava i romanzi e, come
alcuni di loro, eccelleva nell’arte epi-
stolare. Coniugando
genialmente
i due generi, Guillera-
1. Mademoiselle de Scudéry, «De la manière d’écrire des lettres», in «De l’air galant » et autres conversations (1653-1684). Pour une étude de l’archive ga-
lante, a cura di Delphine Denis, Champion, Paris, 1998, p. 157. 2. Guilleragues, Lettres portugaises, cit., lettera I, p. 75.
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La civiltà della conversazione
salotto in cui conversavano,
nell’assoluto
esisteva un mondo
della fede. Nel monastero
Guilleragues sceglieva come
che viveva
portoghese
che
teatro della sua storia, invece,
la religione era assente: una tolleranza, una comprensione tutte umane consentivano alla monaca innamorata di consacrarsi indisturbata alla sua passione. Una lunga tradizione letteraria, dalle lettere di Abelardo ed Eloisa alle novelle di Boccaccio, aveva fatto del convento un luogo altamente erotico, e solo qualche anno prima, nel 1665, La Fontaine, nei suoi Contes et nouvelles en vers, si era di-
vertito a raccontare delle storie dove amor sacro e amor profano coabitavano lietamente. La scelta di Guilleragues era decisamente diversa: il contesto religioso che faceva da cornice alla sua vicenda non sollecitava la malizia, o le fantasie libertine, 0 l'indignazione morale. Come Port-Royal, il monastero
portoghese era un luogo separato, che consentiva di misurarsi con un’esperienza assoluta. Nelle lettere di Mariane non v'era posto per la fede, la morale, il pudore, il senso di colpa,
e tanto meno per il mondo esterno: soltanto la passione contava per lei. Come Port-Royal, il convento evocato da Guilleragues era un laboratorio in cui si verificava una ipotesi estrema. Nel primo, l’amore di sé si annullava nell'amore di Dio; nel secondo, l’amore d’inclinazione, libero di consumare
fino in fondo la sua fiamma, rivelava la sua natura ingannevole lasciandosi dietro soltanto un mucchio di ceneri. Nelle sue visite a Port-Royal, Guilleragues aveva certo ascoltato gli amici di Madame de Sablé dibattere su queste opposte, eppure speculari, forme dell’amore, e non solo per il gusto della discussione astratta. Alcuni di loro, come Madame
de Sablé, Madame
de Guéméné
o Madame
de
Longueville, dopo aver vissuto esperienze simili a quelle di Mariane, subivano l’attrazione della scommessa estrema di Port-Royal; altri, come La Rochefoucauld, stemperavano le
delusioni nel solvente dell’ironia. Guilleragues conosceva le loro storie e, mentre il canto attutito delle suore veniva a
ricordare agli ospiti del salotto che un muro soltanto li separava da un mondo
radicalmente
diverso, doveva essersi
abbandonato più di una volta a fantasticare sui loro amori di un tempo. E irragionevole pensare che queste suggestioni abbiano spinto Guilleragues a osare di più e a voler ricondurre il sentimento amoroso nell’alveo della vita? Certo, con un ve-
ro colpo di genio, egli passava dalla casistica astratta dei Va-
La marchesa di Sablé
179
lentins all'invenzione di un personaggio e di una storia che sì presentavano come assolutamente autentici. Dal fondo del suo convento,
Mariane
illustrava, con la sua viva espe-
rienza, le tappe successive di un percorso sentimentale che disdegnava le bienséances e le delicatezze della Carte de Tendre. Mademoiselle de Scudéry aveva teorizzato la superiorità delle donne nello scrivere le lettere d'amore perché, «quando un amante ha deciso di scrivere apertamente della sua passione, non c’è bisogno di alcuna abilità per dire di continuo: “Muoio d’amore”. Ma nel caso di una donna, che
non confessa mai con chiarezza i suoi sentimenti e li ammanta di grande mistero, quest’amore che appena si intravede piace più di quello che si mostra senz’arte».' Rovesciando questa logica, Mariane aveva l’audacia di gridare i suoi sentimenti e non temeva di dichiarare di aver amato per prima: «Mi è bastato vedervi per consacrare la mia vita a voi». In anticipo sulla Princesse de Clèves, lamabile, scettico Guilleragues insegnava alle donne a usare la sincerità come un'arma e a prendere in mano il loro destino. Ma, a differenza dell’eroina di Madame de La Fayette, la monaca portoghese non rinunciava a vivere l’amore per paura di esserne delusa, e consumava fino in fondo la sua esperienza sotto il segno della lucidità e del coraggio. Il pubblico femminile non si sarebbe limitato ad amare l’eroina di Guilleragues: con l’andar del tempo le lettrici più audaci avrebbero finito per seguire il suo esempio. Un secolo dopo, la passione per il maresciallo di Richelieu ispirerà a Madame de La Popelinière delle missive strazianti, Madame
du Det-
fand verrà accusata da Horace Walpole di scrivere delle Portugaises, e Julie de Lespinasse ripeterà per centinaia di lettere la stessa sfida ad amare che Mariane aveva lanciato al suo ignoto ufficiale. La novità delle Lettres portugaises investiva ugualmente la forma, e anche per essa Guilleragues aveva saputo utilizzare, con l’audacia del dilettante,
i mezzi espressivi con cui
aveva maggiore familiarità. Come tutti i mondani egli amava i romanzi e, come
alcuni di loro, eccelleva nell’arte epi-
stolare. Coniugando
genialmente i due generi, Guillera-
1. Mademoiselle de Scudéry, «De la manière d’écrire des lettres», in «De l’air galant » et autres conversations (1653-1684). Pour une étude de l’archive galante, a cura di Delphine Denis, Champion, Paris, 1998, p. 157.
2. Guilleragues, Lettres portugaises, cit., lettera I, p. 75.
180
La civiltà della conversazione
gues rispondeva alla crisi in cui era sprofondato il romanzo agli inizi degli anni Sessanta, con tre proposte destinate a rivelarsi vincenti: la brevità, l’attualità e la soggettività dell’io narrante. Ancora una volta un nobile dilettante, senza
altra apparente preoccupazione che il proprio divertimento, illustrava la cultura mondana con un capolavoro che doveva aprire una delle strade maestre del romanzo francese del Settecento. Soltanto La Rochefoucauld poteva onorare il salotto di Madame de Sablé con un omaggio più bello.
Se l’amore si rivelava pericoloso, vi era un altro ideale che Madame de Sablé non era disposta a sacrificare: quello dell’amicizia. Prima ancora di diventare materia di riflessione, l’amicizia era per lei una realtà affettiva che occupava un posto centrale nella sua vita. «Amava gli amici, la società e la vita al di sopra di tutto» scriveva Rapin, e riconosceva che la stima e la considerazione di cui godeva la marchesa in società erano dovute all’ «honnéteté della sua condotta» e al «piacere che provava nel far piacere a tutti quelli che erano suoi intimi; perché è vero che nessuno più di lei è stato costante nell’amicizia ».' Sul piano teorico, la discussione sull’amicizia aveva coin-
volto tutto il piccolo cercle di intimi della marchesa, che si erano confrontati su posizioni diverse. In risposta a uno di loro - La Rochefoucauld? — che si ostinava a «credere che alla base della vera amicizia vi fosse qualcosa di fragile come lo è il fatto di avere interessi e occupazioni simili »,° la marchesa rispondeva con un 7raîté de l’amitié, nel quale sosteneva in otto «sentenze » che l’amicizia era un sentimento perfettamente conforme alla ragione e alla virtù. Posizione assai più aristotelica che cartesiana, a cui doveva far eco Arnauld d’Andilly con uno scritto sullo stesso argomento. Robert Arnauld d’Andilly apparteneva alla «gens Arnauld, una stirpe di avvocati cristiani di pura roccia ... fami-
glia eloquente ... che godeva da sola di maggior prestigio del Parlamento e dell’Accademia messi insieme ».* Figlio di |. Mémoires du Père Rapin, cit., vol. I, pp. 405, 175. 2. Citato in Lafond, L’amitié selon Arnauld d’Andilly, in L'homme et son image,
cit., p. 268. 3. Cfr. Marc Fumaroli, L’age de l Cloquence. Rhétorique et «res literaria » de la Renaissance au seuil de l’epoque classique, Droz, Genève, 1980, pp. 624-25.
La marchesa di Sablé
181
un grande principe del Foro, campione delle virtù gallicane, fratello di Antoine Arnauld, detto il Grand Arnauld, au-
tore di De la frequente communion, e di madre Angélique, con due figlie religiose a Port-Royal, Arnauld d’Andilly aveva frequentato in gioventù i milieu mondani e conosceva Madame de Sablé dai tempi dell’hòtel de Rambouillet. A differenza della marchesa, la sua conversione al giansenismo era stata radicale. Nella Francia di Luigi XIII e di Richelieu non vi era più posto per l’eloquenza civile e, come gli altri esponenti della sua famiglia, d’Andilly aveva scelto «l’eloquenza dell’esilio e della fedeltà cristiana». Dal 1645 viveva ritirato a Port-Royal des Champs — dove traduceva, fra l’altro, le Confessioni di sant'Agostino —, ma non aveva smesso di intrattenere rapporti epistolari con i suoi amici, ed era un at-
tento lettore delle riflessioni e delle sentenze che Madame de Sablé andava componendo in quei primi anni Sessanta. E i complimenti che indirizzava alla marchesa dopo aver letto il suo 7raîté de l’amitié ci appaiono, vista la provenienza, altamente significativi. «In verità, » le scrive il 23 gennaio 1661 «sono io che posso dirvi, senza adulazione, che quantunque abbiate sempre
scritto bene, adesso scrivete ancor meglio di come abbiate mai fatto. Questo dipende, a mio avviso, dalla continua cre-
scita della capacità di giudizio, che si avvale pertanto con arte e saggezza sempre maggiori delle luci dell’intelletto. Quale prova migliore di ciò che mi avete fatto l’onore di inviarmi in merito all'amicizia? Non vi è nulla di più bello, di più giusto, di più vero. Ma ciò che me lo fa stimare ancora di più è che, per quanto grandi siano il vostro giudizio e il vostro intelletto, essi vi hanno un’importanza molto minore di quanta ne abbia il cuore. Bisogna sentire quelle cose per poterle pensare e poterle dire... ».! La marchesa, dunque, scriveva bene perché pensava bene, e soprattutto perché la sua eloquenza rispecchiava i suoi veri sentimenti. Il suo stile non era frutto dell’arte, ma
della convinzione più profonda. Era «l’eloquenza del cuore» che Saint-Cyran aveva insegnato a Port-Royal.
1. Lettera del 28 gennaio 1661, in Cousin, Madame de Sable, cit., p. 357.
IL GIOCO
DELLE
MASSIME
La Rochefoucauld e l’amico Jacques Esprit non condividevano, invece, le certezze razionalistiche della marchesa e
del «solitario» di che il sentimento mor proprio," per pure capitava che
Port-Royal des Champs. Per il primo andell’amicizia rientrava nella logica dell’ail secondo essa era una falsa virtù.* Ma se Madame de Sablé e i suoi due ospiti non
fossero d’accordo, la cosa non turbava la loro amicizia. La
diversità dei punti di vista costituiva, piuttosto, uno degli elementi di forza del singolare progetto a cui tutti e tre avevano lavorato per alcuni anni,
«un fondo comune
di sentenze »
che avrebbe dovuto raccogliere le loro riflessioni sull'uomo, sulla sua natura e sul suo comportamento sociale. Vediamo per la prima volta La Rochefoucauld parlare di un invio di «sentenze» in un breve biglietto a Madame de Sablé del 1658 o del 1659; ma in una lettera a Jacques Esprit certamente posteriore ma di datazione incerta, troviamo un’allusione più esplicita: «Vi prego di mostrare a Madame de Sablé le nostre ultime sentenze: forse questo le farà tornare la voglia di scriverne altre, e pensateci anche voi, non foss’altro per ingrossare il nostro volume».
I tre
amici continuarono a scrivere, a passarsi l’un l’altro e a commentare reciprocamente quello che andavano componendo, fino al 1663, epoca in cui ciascuno prese una strada diversa: La Rochefoucauld raccolse tutte le sue massime; Madame de Sablé, preso atto della schiacciante superiorità
del talento del duca, rinunciò a perseverare con le proprie, che apparvero solo in un’edizione postuma; mentre Jacques Esprit preferiva dare alle sue riflessioni la forma più sistematica del trattato.‘ 1. La Rochefoucauld, Maxiîmes, 81: «Non possiamo amare niente se non in relazione a noi stessi, e quando, a noi stessi, preferiamo i nostri amici, non facciamo altro che seguire le nostre inclinazioni e il nostro piacere; e
tuttavia solo in ragione di tale preferenza l’amicizia può essere vera e perfetta», ed. cit., p. 25.
2. Jacques Esprit,
«L’amitié », in La fausseté des vertus humaines (1678), pre-
ceduta dal 7raité sur Esprit di Pascal Quignard,
Aubier, Paris, 1996, pp.
127-46. 3. La Rochefoucauld a Jacques Esprit, 1662, in Maximes, ed. cit., p. 545. 4. La fausseté des vertus humaines, che passava in rassegna, in altrettanti capitoli, cinquantaquattro virtù, denunciandone sistematicamente l’impostura, doveva uscire soltanto nell’estate del 1678, in coincidenza con la morte del suo autore.
La marchesa di Sablé
183
Il nuovo passatempo messo a punto da Madame de Sablé, La Rochefoucauld ed Esprit non era certamente un gioco di società equiparabile alle Maximes d’amour— che pure si praticava negli stessi anni nello stesso salotto —, perché
le sentenze dei tre partecipanti non erano né improvvisate né dibattute in pubblico, ma scritte «in solitudine » e poi discusse fra loro. Ciò nondimeno, i due giochi presentavano analogie evidenti e testimoniavano entrambi della nuova fortuna del frammento come forma privilegiata della riflessione psicologica e morale. Nel solco tracciato da Montaigne, furono molti gli scrittori francesi che nel corso del Seicento si interrogarono sulla natura dell’uomo. Alcuni di loro si affidavano fiduciosi alla cartografia morale e alle schede tipologiche; altri puntavano sulle rivelazioni di una nuova e già agguerritissima analisi psicologica; altri ancora erano confortati nel loro lavoro di scandaglio dalla luce della fede. A differenza dei predicatori, non si arrogavano un’autorità morale superiore, e agivano in maniera sottilmente ambigua sui comportamenti; al di là delle varietà e dei punti di vista, tutti si proponevano di studiare l’uomo «ad altezza d'uomo» e di aiutarlo a prendere coscienza di se stesso grazie alla sola analisi e alla sola rappresentazione della realtà — e non a caso 0ggi vi è la tendenza a definirli «antropologi». Ma, nell’accezione secentesca del termine, essi erano innanzitutto dei «moralisti», degli scrittori, cioè, che si occupavano delle meurs, dei costumi. Molti di loro predilessero la forma breve: la sentenza, la riflessione, la massima, l’aforisma, il «carattere ». Essi rifug-
givano dal trattato, dall’ampio periodare ciceroniano, e prendevano le distanze dalla cultura erudita: nei loro scritti si limitavano ad attingere al «gran libro del mondo», e le
loro riflessioni erano destinate a un pubblico essenzialmente mondano. Se al trattato, che presupponeva una visione coerente, organica del sapere e un impegno pedagogico nei confronti del lettore, i moralisti preferivano la forma breve, ciò dipendeva anche dal fatto che la loro visione del
mondo era andata in frantumi. La sentenza degli Antichi affermava una verità di ordine generale e la imponeva al lettore; la nuova sentenza messa in voga dalla letteratura mondana, la massima, non puntava
184
La civiltà della conversazione
tanto sull’autorità morale quanto su un effetto di sorpresa e sulla seduzione dello stile; non voleva istruire ma provocare. Ci si rivolgeva, come in una conversazione, a dei lettori
«attivi», capaci di reagire agli interrogativi del testo e di integrarne il senso. Con le questions, le maximes, le sentences, i mondani scopri-
vano dunque una letteratura che indagava sull'uomo, sulle sue passioni, le sue debolezze, le sue anomalie, che non ave-
va bisogno di studi di retorica o di conoscenze specifiche. Per poterla praticare era invece necessario conoscere il «mondo», la sua superficie visibile e i suoi meccanismi nascosti, il paraître degli attori sulla scena e i loro pensieri segreti. Ma questo non era anche, da sempre, l’unico sapere di cui la
società nobiliare aveva bisogno per occuparvi il posto che le competeva?
Un sapere di cui quella società andava fiera, e
che coltivava per meglio distinguersi, attraverso un’osservazione sistematica dei comportamenti, una penetrazione psicologica acutissima, un’abitudine costante all’autoanalisi, un
esercizio puntiglioso della politesse e dell’arte della parola. Gli scrittori «di professione» avevano contribuito a coltivare questa autoconsapevolezza con i grandi romanzi della prima metà del XVII secolo e molto presto i mondani stessi avevano imparato a servirsi della letteratura, a comporre versi, a scri-
vere lettere e ritratti senza altro scopo che il piacere reciproco, senza altro orientamento che il proprio gusto. Nel caso delle questions d'amour era stato il romanzo di una scrittrice del bel mondo a lanciare la moda, in quello delle maximes al-
cuni nobili dilettanti inauguravano un esercizio di riflessione e di autoanalisi perfettamente corrispondente alle preoccupazioni dei lettori a cui erano destinate.
«Verso il 1660 il pubblico mondano era stanco della prosa eroica, di cui il fallimento della Fronda aveva accelerato
la rovina»,' e chiedeva
alla letteratura di rappresentare
l’uomo nella sua verità. Capovolgendo il mito di Narciso, La Rochefoucauld porgeva ai suoi lettori uno specchio cru1. Jean Lafond, Prefazione a Moralistes du XVII siècle, Laffont, Paris, 1992,
pi XXII. 2. Cfr. Jean de La Fontaine, L'homme et son image, favola XI del primo libro delle Fables (1668) dedicata a La Rochefoucauld, in @uvres completes, 2 voll., Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard, Paris, vol. I, a cura di JeanPierre Collinet, 1991, pp. 46-47.
La marchesa di Sablé
185
dele, che li obbligava a prendere atto della loro laidezza e «li strappava a una fascinazione mortale », pur consenten-
do loro di indulgere all’amore di sé. Che cosa, in realtà, indusse La Rochefoucauld a scrivere il
suo capolavoro? L’emblematicità della sua vicenda biografica e la somma ambiguità della sua opera consentono una grande varietà di letture. Fu la sconfitta della Fronda - e il conseguente naufragio delle sue ambizioni — a determinare in lui una metamorfosi? E lo scrittore era venuto dunque a riempire il grande vuoto lasciato dietro di sé dall’uomo d’armi? O il pessimismo di ispirazione agostiniana delle Maxiîmes era anch’esso una forma di contestazione? Nonostante lo spettacolare lavoro di demolizione,
le «morali
sostitutive »
non finivano per ricostruire un simulacro degli antichi valori sulle rovine del vecchio sistema? E l’abiura dell’eroismo non lasciava il posto a una nuova forma di coraggio? Anche la riflessione di Jacques Esprit muoveva dalla convinzione che l’uomo vivesse nella menzogna, e che non si desse slancio del cuore che non fosse dettato dall’egoismo. Chi dei due, per primo, aveva lanciato il progetto di demolire tutte le virtù? Victor Cousin ritiene che sia stato l’accademico giansenista a ispirare a La Rochefoucauld la cupa visione d’insieme delle Maximes, mentre Sainte-Beuve, pur
senza negare l’influenza di Esprit, pensa che il duca abbia costruito il suo libro a partire dall’esperienza personale, mettendo a punto uno stile letterario perfettamente speculare al suo stile di vita. E se Esprit si cautelava chiudendo ogni capitolo
con
un
rinvio alla religione,
La Rochefou-
cauld finiva per eliminare del tutto Dio dalle sue massime. A differenza di Rancé,
di Madame
de Longueville,
dei
suoi amici di Port-Royal, dei molti celebri convertiti di un secolo abituato alle grandi metamorfosi, La Rochefoucauld
rimase sempre e innanzitutto un uomo di mondo. Nell’autoritratto del 1658, il duca descriveva accuratamente
i suoi
lineamenti senza alludere in alcun modo al fatto di aver avuto il volto sfigurato da una cicatrice — retaggio di un colpo di moschetto ricevuto al tempo della Fronda. «Aveva mancato il suo destino con grazia infinita e la cultura mondana, nel suo significato più alto, è proprio questo: l’arte di sopportare con grazia le disgrazie della vita».' E in ciò la 1. Louis van Delft, Le moraliste classique. Essai de définition et de typologte, Droz, Genève, 1982, p. 160.
186
La civiltà della conversazione
frequentazione di Madame de Sablé gli fu certamente d’aiuto. Il loro legame non aveva mai avuto implicazioni galanti, ma era carico di intime risonanze. Più anziana di lui
di una quindicina d’anni, la marchesa era stata l'amante di suo padre ed era amica intima di Madame de Longueville. Probabilmente aveva raccolto le confidenze del moralista sulla sua antica relazione con la duchessa e si era sforzata di attenuarne i rancori. Egli non riusciva né a perdonare né a dimenticare quella «morta», di cui si era vendicato nei Mémoires e che pure continuava ad affascinarlo. «Amerei mol to sapere da una persona
come
voi, che conosce
i recessì
del cuore,» chiedeva alla marchesa nel giugno del 1662 «quali siano i suoi veri sentimenti per me. Vale a dire se ha cessato di odiarmi per devozione, o per stanchezza, o per
aver compreso che non ho tutti i torti di cui mi incolpava ».! Ciò che avevano in comune La Rochefoucauld e Madame de Sablé erano la cortesia squisita, la cultura moderna ed eclettica, la curiosità, la libertà intellettuale
e, soprattutto,
l’interesse per la vita psicologica e morale. Il piacere che traevano dallo scambiarsi le proprie riflessioni dovette, dunque, indurli a farlo anche per iscritto. L'iniziativa era partita da La Rochefoucauld. Madame de Motteville aveva detto della marchesa che «il suo intelletto era così grande e così bello che persino alcuni savants ignoravano molte delle cose che ella sapeva »;° e il duca l’aveva trascinata nel gioco a ragion veduta: «Sapete bene che su certi argomenti, e in particolare sui misteri del cuore, credo soltanto a voi».ì Madame de Sablé gli avrebbe reso il complimento, definendo le sue massime «un
trattato sugli impulsi del cuore dell’uomo, in precedenza ignoti, si può dire, al cuore stesso che li produce »:' bellissima definizione di quella che, pur sapendo di rischiare uno stridente anacronismo,
potremmo
chiamare
un’analisi dell’in-
conscio che, appena scoperto, seminava disastri, irrideva le azioni virtuose e si interrogava sui loro scopi reconditi, sco-
priva l’esistenza di «pensieri non pensati», metteva sotto. accusa il non detto, denunciava la vita occulta dei desideri. 1. La Rochefoucauld alla marchesa di Sablé, 21 giugno [1662], in @uvres completes, cit., p. 608. 2. Mémoires de Madame de Motteville, cit., vol. I, p. 12. 3. La Rochefoucauld a Madame EANCLUSProo0.
de Sablé, fine 1662/1663 ca, in Maxiîmes,
4. Progetto d’articolo per il «Journal des Savants» sulle Maximes, in La Rochefoucauld, (uvres complètes, cit., pp. 702-703.
La marchesa di Sablé
187
Non tutti gli «impulsi del cuore» registrati da La Rochefoucauld avevano un’intonazione tragica: un uomo di mondo che nel mondo continuava a vivere non poteva ignorare che la vita era anche commedia. Con la stessa naturalezza con cui, nelle lettere
a Madame de Sablé, l’invio delle sen-
tenze sì accompagnava spesso a richieste di marmellate, di ricette di cucina, e finanche di polvere di vipera, nelle Maximes
la disillusione più aspra poteva coabitare con la sottigliezza preziosa, con l’ironia, con il puro gusto della provocazione. Massime come «La semplicità affettata è una impostura delicata»
(289),' «La eccessiva sottigliezza è una falsa deli-
catezza, e la vera delicatezza è una sottigliezza che lascia il segno» (34), «Il maggiore ostacolo alla naturalezza è il desiderio di ostentarla » (431), che avrebbero potuto figurare anche nei libri di Mademoiselle de Scudéry, appaiono sal-
damente ancorate a valori dell’estetica mondana come la delicatezza e il naturel. Esse si imponevano all’ammirazione dei lettori per la finezza delle osservazioni e la sottigliezza delle sfumature e potevano, al tempo stesso, trasformarsi in spunti ideali di conversazione, dando ai componenti del cercle l’occasione di fare sfoggio del proprio sapere psicologico e mondano. Allorché, pregustando le proteste indignate delle dame del bel mondo,
La Rochefoucauld
si di-
vertiva a giocare con i vecchi luoghi comuni della tradizione misogina, e aveva l’impertinenza di affermare: «Il vero amore è come l’apparizione degli spiriti: tutti ne parlano ma pochi li hanno visti» (76); oppure:
«L’austerità delle
donne è un ornamento e un belletto di cui esse si servono come
accessorio per la loro bellezza»
(52); o ancora:
«Vi
sono poche donne oneste che non siano stanche del loro mestiere» (367), egli puntava sulla reazione dei lettori, chiamandoli direttamente in causa. Proprio perché conosceva profondamente il pubblico a cui si rivolgeva, La Rochefoucauld capì che bisognava prepararlo alla ricezione di un libro che poteva apparire scandaloso, e chiese aiuto
a Madame
de Sablé. La marchesa
aveva
sempre adorato lavorare dietro le quinte, promuovere rappacificazioni e favorire amicizie, tanto da accendere i sospet-
ti di Mazzarino, che pure non aveva mai avuto ragione di dubitare della sua lealtà. Proprio in quegli anni l’appoggio di Madame de Sablé si stava rivelando decisivo nella campagna 1. Si rinvia alla numerazione delle Maximes, ed. cit.
188
La civiltà della conversazione
d’opinione a sostegno del giansenismo. I signori di PortRoyal avevano il genio della propaganda, e rivolgendosi al mondo aristocratico facevano appello alla sua autonomia di giudizio, al suo interesse per i problemi psicologici e morali, al suo gusto per l’eleganza e per la purezza della lingua. E in questa politica di seduzione nessun sostegno esterno si dimostrava più prezioso di quello offerto da Madame de Sablé. Il «lancio» di un libro negli ambienti mondani non era di per sé una novità. Madame du Plessis-Guénégaud, per esempio,
aveva contribuito
a quello delle Provinciales; ma
l’opera di Pascal aveva dietro di sé il movimento giansenista, mentre le Maximes erano la messa sotto accusa di un’in-
tera società da parte di un solo individuo. Come le Provinciales, le Maximes erano destinate ad apparire anonime, non già per ragioni di prudenza, ma per una questione di stile. Per un gentiluomo, assumere
ufficialmente la paternità di
un libro equivaleva a degradarsi socialmente; nella società aristocratica scrivere poteva essere un /oisir, non una professione, e la condizione di autore era incompatibile con quella nobiliare. Eppure, ciò non avrebbe impedito a due dilettanti come La Rochefoucauld e Madame de Sablé di preparare il successo delle Maximes mettendo a punto una strategia promozionale che l’editoria moderna non ha smesso di utilizzare: il sondaggio d’opinione e l’orientamento della critica. Una quindicina d’anni dopo, pur trin-
cerandosi dietro un anonimato assai più rigoroso di quello del duca, Madame de La Fayette avrebbe seguito, per il lancio della Princesse de Clèves, una tecnica analoga, coronata
anch'essa da un enorme successo. L'ideologia aristocratica del dilettantismo si trovava per la prima volta, sia pure in maniera mascherata,
a fare i conti con il desiderio di suc-
cesso, ed era il virus democratico ad avere la meglio. Nel 1663 varie copie del manoscritto Liancourt, che raccoglieva le sole massime di La Rochefoucauld, vennero da-
te in lettura a un certo numero di persone di spicco perché esprimessero un giudizio sull’opera. Organizzato da Madame de Sablé, il sondaggio rivelò che il feroce pessimismo del libro poteva apparire sopportabile solo alla luce della fede, tanto che alcuni lettori credettero di cogliervi un implicito invito a «rivolgersi dalla parte di Dio ».' Con assoluta 1. Cfr. Jacques Truchet, Introduzione a La Rochefoucauld, Maximes, ed. CÌtNP SII
La marchesa di Sablé
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spregiudicatezza, La Rochefoucauld decideva di servirsi di questa interpretazione per mettere l’opera al riparo dall’indignazione dei benpensanti. E poiché era fin troppo ovvio che, nonostante gli interventi sul testo — soppressioni, aggiunte e cambiamenti nella disposizione delle massime —, il
significato del libro continuava a essere ambiguo, il duca ricorreva a un espediente destinato a fare scuola: una prefazione cautelativa capace di rassicurare formalmente il lettore. Quando, nel 1665, la prima edizione delle Maximes ve-
deva finalmente la luce, essa era infatti preceduta da un Discours sur les Réflexions ou Sentences et Maximes morales, scritto, su commissione, da un avvocato cultore delle Belle Lettere,
Henri de La Chapelle-Bessé e in evidente contrasto con lo stile del libro. La Rochefoucauld stesso gli aveva indicato i punti su cui impostare una linea di difesa preventiva, in grado di anticipare le critiche emerse dal sondaggio d’opinione condotto due anni prima da Madame de Sablé. Quelle più severe e più nette erano state formulate dalle signore consultate per l'occasione. La contessa di Maure per prima, il 3 marzo 1661, leggendo le massime che la marchesa e il duca si andavano via via comunicando, aveva scritto al-
l’amica la frase famosa: «mi pare che dipinga l’anima dell’uomo a tinte troppo fosche ».' Due anni dopo, chiamata a dare il suo parere sull’insieme dell’opera, la principessa di Guéméné, nonostante il suo giansenismo di stretta osservanza, si rifiutava di credere «che non vi fossero persone desiderose soltanto di fare del bene» e accusava l’autore di «giudicare gli altri a partire da se stesso ».° Ma è nella lunga lettera di Madame de Schomberg a Madame de Sablé che tocchiamo con mano come anche un giudizio severo sulla morale delle Maximes non impedisse di venir catturati dal gioco. Dopo aver respinto Luigi XIII che si era invaghito di lei, la bella Marie d’Hautefort aveva sposato nel 1646 il duca di Schomberg, maresciallo di Francia, e occupava una posizione sociale di grande prestigio. Ora, a sessant'anni compiuti, lasciatasi alle spalle la stagione delle ambizioni e degli intrighi, la duchessa si distingueva per la sua profonda devozione e, esercitata da tempo alla riflessione morale, coglieva
immediatamente il rischio insito nelle Maxzimes: la loro let1. Madame
cit.,
de Maure a Madame
de Sablé,
3 marzo
1661, in Maxiîmes, ed.
«Lettres relatives aux Maximes», p. 561.
2. Madame de Guéméné
a Madame
de Sablé, 1663, idid., p. 570.
190
La civiltà della conversazione
tura poteva infatti persuadere che «non esistono né vizi né virtù, e che a determinare tutte le azioni della vita è la necessità. Ma, se è vero che non possiamo impedirci di fare ciò che desideriamo, siamo scusabili».' Ciò nonostante, Mada-
me de Schomberg le capiva tutte a meraviglia, come se le avesse scritte lei stessa, e ne trovava alcune incantevoli. «La mente è sempre tratta in inganno dal cuore»: eccone una, la 102, che l’aveva immediatamente conquistata. Quale in-
terpretazione ne dava lei? Che «la mente crede sempre, a forza di astuzia e di ragionamenti,
di far fare al cuore
ciò
che essa vuole, ma si sbaglia: è sempre il cuore che fa agire la mente, ed è la mente a essere ingannata». E trovava giu-
stissima la massima 48, secondo cui e non nelle cose », ed estremamente fermava che «la pigrizia, per quanto te le passioni». Mentre la massima
«la felicità sta nel gusto acuta la 266, la quale aflanguida, distrugge tutcruciale 256 sulla dissi-
mulazione — «ciascuno si costruisce un'immagine esteriore,
una parvenza che sostituisce quel che si è con quel che si vuole apparire » — le faceva ricordare di aver sempre pensato che nella vita di società tutto era maschera e travestimento. Nonostante
la condanna
di fondo, la lettera di Madame
de Schomberg era un esempio significativo del modo in cui il pubblico mondano avrebbe reagito alle Maximes. Il volumetto era destinato al successo perché non consentiva al lettore la possibilità di restare indifferente: scandalizzandolo, maltrattandolo,
sorprendendolo,
divertendolo,
stimo-
lando la sua intelligenza, dicendo meglio di lui quello che aveva già potuto pensare, ne faceva fatalmente un complice. Gli parlava e lo induceva a sua volta a commentare ciò che aveva letto con altri, allargando così, di massima in massima, la cerchia degli iniziati.
Condotto in porto il sondaggio, corretta la presentazione del libro, creato un clima di curiosità e di aspettativa negli ambienti mondani, bisognava, al momento della pubblicazione delle Maximes, orientare la critica con un primo arti-
colo capace di dare una chiave di lettura conforme alle esigenze della dottrina cristiana. E ancora una volta La Rochefoucauld si rivolse per aiuto a Madame de Sablé, chiedendole di «recensire» la sua raccolta di sentenze per il «Journal des savants». 1. Madame de Schomberg a Madame de Sablé, 1663, ibid., p. 565.
La marchesa di Sablé
191
Ecco dunque una gran dama, che certo non avrebbe accettato l’etichetta di femme savante, scrivere, su richiesta di un aristocratico, un dilettante che non aveva mai praticato
lo «studio »,' un articolo, sia pur anonimo, per un giornale destinato a un pubblico colto. Caso eccezionale, indubbiamente legato alla straordinaria personalità di Madame de Sablé, ma pur sempre indicativo dell’inopportunità di trac-
ciare frontiere nette fra la cultura dei mondani e la sfera dei «pedanti». Possiamo solo supporre che i redattori del «Journal des savants» si sentissero onorati di essere oggetto d’attenzione da parte di personaggi tanto illustri. Quanto ai motivi che avevano spinto La Rochefoucauld a puntare sulla marchesa, non ci è difficile immaginarli. Nessuno conosceva le Maximes meglio di Madame
de Sablé, e
non erano poche quelle di cui ella poteva considerarsi a buon diritto coautrice. Nessuno più di lei — abituata a scrivere con grande naturalezza e ferrata in teologia — era in grado di illustrare con semplicità ed eleganza l’utilità morale del libro: svelando l’uomo a se stesso, le Maximes gli in-
segnavano che al di fuori della religione non potevano esistere azioni virtuose. Nessun altro, infine, poteva mostrarsi
più accomodante e più complice, consentendo al duca di correggere il suo testo fino a raggiungere la forma del «risvolto di copertina» ideale. Victor Cousin per primo ha pubblicato assieme l’articolo di Madame de Sablé e la versione rivista da La Rochefoucauld così com'era apparsa sul «Journal des savants» del 9 marzo 1665. Il confronto è rivelatore:
come
un
perfetto
pubblicitario
moderno,
il duca
semplificava il messaggio, sopprimendo il paragrafo in cui si dava notizia delle critiche che il libro poteva suscitare, e al tempo stesso lo rafforzava e lo chiariva con una serie di piccoli interventi. «Pianificato », affidato a una persona sicura, rivisto e corretto, l’articolo di Madame
de Sablé fissa-
va una volta per tutte il canovaccio di una commedia rimasta fino a oggi identica a se stessa, quella della recensione letteraria. Ma la cosa davvero singolare è che il suo primo, puntiglioso regista non era un povero scrittore che lottava per affermarsi, bensì un gran signore, un Pari di Francia,
che teorizzava il distacco più assoluto — «il vero honnéte homme è colui che non mena mai vanto di niente» — e disde1. Madame de Sablé a La Rochefoucauld, 2. Massima 203, i0id., p. 51.
1663, idid., p. 552.
192
La civiltà della conversazione
gnava di firmare il libro di cui desiderava così intensamente il successo. A corollario delle Maximes, il critico dell’amor
proprio non esitava a fornire una brillante illustrazione dal vivo di una delle sue patologie più virulente: la vanità d’autore. Più coerente
di lui, Madame
de Sablé gli concedeva
piena libertà d’intervento sul proprio articolo, non dimenticando che per lei scrivere era pur sempre un gioco.
Fra le lettere inviate a Madame de Sablé al momento del «sondaggio d’opinione», ve n’era una scritta da un’altra lettrice d'eccezione, destinata a occupare un posto sempre più importante nella vita di La Rochefoucauld. Nell’estate del 1663, Madame de La Fayette aveva letto una copia del manoscritto delle Maximes a Fresnes, la residenza di campagna dei du Plessis-Guénégaud, in un contesto ideale, un’oa-
si propizia alla meditazione, in compagnia della sola padrona di casa; e difficilmente avrebbe potuto trovare un’interlocutrice più curiosa e aggiornata della sua ospite in fatto di letteratura psicologica e morale. Nonostante queste premesse, la sua reazione era stata di totale ripulsa. «Ah, Madame, » scriveva da Fresnes a Mada-
me de Sablé «bisogna avere la mente e il cuore terribilmente corrotti per potere immaginare tutto questo! ».! Per prestare interamente fede al suo sgomento dovremmo però poter credere che a quell’epoca La Rochefoucauld fosse un estraneo per lei, e la cosa non è tanto plausibile. Dal 1659 Madame de La Fayette era tornata a vivere a Parigi e aveva avuto sovente l’opportunità di incontrare il duca. Entrambi erano ospiti abituali dei du Plessis-Guénégaud e, all’hOtel de Nevers come
a Fresnes, non erano
mancate
le occasioni di intrattenersi in tète-à-téte. Anche le idee espresse nelle Maximes non potevano essere per lei una totale novità. E forse sarebbe allora più plausibile immaginare che in attesa di «riformarne
il cuore», Madame
de La
Fayette si divertisse a scherzare con il duca per interposta 1. Madame de La Fayette a Madame de Sablé [agosto-settembre 1663], in Madame de La Fayette, @uvres complétes, Prefazione di Michel Déon, a cura di Roger Duchéne, Bourin, Paris, 1990, p.- 582.
2. «Monsieur de La Rochefoucauld m’a donné de l’esprit, mais j'ai reformé son
cur»: celebre frase attribuita a Madame de La Fayette in Segraisiana, cit., p. 28, citata in La Rochefoucauld, @uvres complètes, cit., p. 709.
La marchesa di Sablé
193
persona, fingendo una sorpresa e un’indignazione che era lontana dal provare. Quale radicale ripensamento avrebbe altrimenti potuto indurre la marchesa, solo due anni dopo, a offrire al giova-
ne conte di Saint-Paul un testo che l’aveva così profondamente scandalizzata, e a servirsi delle Maximes per informare in modo indiretto il figlio di Madame de Longueville e di La Rochefoucauld della speciale simpatia fiorita tra lei e il duca? Proprio il libro che smascherava implacabilmente le illusioni amorose diventava messaggero di un sentimento delicato e segreto sulla cui natura non si possiedono certezze. Ma la visita di Saint-Paul si era appena conclusa che Madame de La Fayette, preoccupata di essersi spinta troppo oltre, si affrettava a scrivere
a Madame
de Sablé chiedendole
aiuto. Non voleva che il ragazzo pensasse che tra lei e il padre vi fosse qualcosa di diverso da una semplice amicizia e teneva a precisare che non vi era nulla che detestasse di più dell’idea che i giovani potessero ancora attribuirle delle avventure galanti. Frase rivelatrice, che gli storici della lettera-
tura interpreteranno come primo indizio certo della sua relazione con l’autore delle Maximes. In realtà, a quell'epoca,
Madame de La Fayette non aveva ancora compiuto trent’anni e per la prima volta in vita sua scopriva che l’amore non era necessariamente un sentimento «scomodo ».!
1. Mademoiselle de La Vergne a Ménage, 18 settembre
me de La Fayette, Quures complètes, cit., p. 513.
[1653], in Mada-
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DUE
IX LA GRANDE
L’EROINA
MADEMOISELLE
DELLA
FRONDA
Se Madame de Rambouillet aveva insegnato alla nobiltà francese a essere felicemente se stessa lontano dal Louvre,
lo stile di vita della Camera azzurra conquistava progressivamente la corte e faceva proseliti anche all’interno della famiglia reale. Divenuta reggente, finalmente libera di seguire la sua inclinazione naturale per l’onesta galanteria, Anna d’Austria aveva tentato di reintrodurre nella reggia quella antica tradizione di socievolezza che si era rivelata incompatibile con l’autoritarismo di Richelieu e i tormenti solitari di Luigi XII. Dando per prima il buon esempio, ella non aveva tardato a ripristinare la vecchia consuetudine del cercle de la Reine. Fin dai tempi di Eleonora d'Aquitania, le regine di Francia erano solite invitare le dame del seguito a intrattenersi con loro. Era una conversazione a porte aperte, cui potevano assistere le persone ammesse negli appartamenti reali, e che dava il tono allo stile di corte. Disposte in cerchio attorno alla sovrana, pronte a raccogliere le sue sollecitazioni, le dame si misuravano con l’arte della parola e conversavano
di letteratura, di psicologia, d'amore, o sem-
plicemente commentavano gli avvenimenti più recenti e le ultime novità della moda. Da spettatrici delle prodezze maschili, eccole diventare protagoniste di un torneo verbale
196
La civiltà della conversazione
che, in luogo della forza e del coraggio, esigeva acume, brio e felicità d'espressione. Ma perché questo spettacolo potesse nuovamente realizzarsi la buona volontà della regina non era sufficiente: Anna d’Austria doveva fare i conti con l'ignoranza e l’impaccio di molte delle sue dame e con la misoginia di Mazzarino,! la cui sola presenza bastava a rag-
gelare la conversazione. Quando, nel 1643, Bassompierre — che era stato uno dei più audaci corteggiatori della regina — aveva lasciato la Bastiglia dopo dodici anni di reclusione,
«quell’uomo, un tempo così galante e che passava per essere la meraviglia della vecchia corte, poteva essere preso per un tedesco, tanto il suo stile e i suoi modi erano diversi »* da
quelli di una corte che in un decennio aveva completamente cambiato stile. La galanteria era passata di moda, e il povero Bassompierre «veniva accusato di voler piacere e di essere splendido come se si trattasse di una grave colpa. Avendo fatto parte di una corte dove era d’obbligo mostrarsi cortesi e rispettosi verso le dame, egli si ostinava a comportarsi nello stesso modo in una in cui, al contrario, gli uomi-
ni consideravano quasi un’onta prestare loro qualche attenzione ».° Ma, nonostante la pietà fervente e il senso geloso della sua dignità di sovrana, Anna d’Austria rimaneva fe-
dele ai gusti della sua giovinezza. Tanto fedele da sorridere con indulgenza quando, nell’estate del 1644, ospite di Madame
d’Aiguillon
a Rueil, avendo
chiesto
a Voiture,
che
passeggiava nel parco con aria sognante, a cosa pensasse, questi le aveva risposto improvvisando, «senza troppo rifletterci», dei versi « piacevoli e arditi» in cui le ricordava il suo
amore per il duca di Buckingham.* Ella avrebbe quindi perseverato nei suoi propositi, e il suo cercle sarebbe diventato una scuola di civiltà e di cortesia per le fanciulle che frequentavano la corte, a cominciare dalle stesse nipoti di Mazzarino. Maria Mancini vi apprese il gusto per la lettura, l’uso di mondo, il senso dell’eleganza
1. «Disprezzava le honnétes femmes, le belle lettere e tutto ciò che può contribuire ad educare gli uomini», Mémoîres de Madame de Motteville, cit., vol. I, pp. 292-93.
2. Mémotres de l’abbé Arnauld contenant quelques anecdotes de la Cour de France
depuis 1634, jusqu'en 1675 (1756), citato in Magendie, La politesse mondaine, cit., vol. I, p. 421. 3. Mémotres de Madame de Motteville, cit., vol. I, pi292%
4. Ibid., pp. 182-83.
La Grande Mademoiselle
197
che, una volta diventata principessa Colonna, avrebbero co-
sì impressionato la società romana; e il primo e più tenero dei suoi ammiratori, Luigi XIV, si sarebbe dovuto rassegnare con estremo rammarico al fatto che la giovane moglie, ti-
mida e ignorante, non fosse in grado di seguire l’esempio di Anna d’Austria, e non tenesse a sua volta un cercle. Nonostante gli sforzi della regina, tuttavia, negli anni della «buona reggenza» la corte non riconquistava l’antico prestigio in fatto di cultura e di gusto, ed erano le grandi dimore parigine a dare il tono. Non dobbiamo dunque stupirci che la prima e la più fiera delle principesse del sangue, allevata in seno alla famiglia reale e educata per essere a sua volta regina, lasciasse sovente le Tuileries per andare a divertirsi all’h6tel di rue Saint-Thomas-du-Louvre in un’epoca in cui non poteva ancora immaginare quanto l’ideale mondano praticato nella Camera azzurra le sarebbe stato di soccorso nei tempi a venire. Figlia del fratello di Luigi XIII, Gastone, Anne-MarieLouise d'Orléans aveva ricevuto in eredità dalla madre, Ma-
rie de Bourbon-Montpensier, morta nel darla alla luce nel 1627, la più grande fortuna di Francia, e il sentimento or-
goglioso dell’eccezionalità dei propri natali - nemmeno il re era più Borbone e più francese di lei — avrebbe costituito la passione dominante della sua vita, e ne avrebbe segnato il destino. Prima ancora che donna, era principessa del san-
gue, e ciò la dispensava dalle banali preoccupazioni femmi nili, a cominciare da quelle per la propria avvenenza, come traspare dalla pacata obiettività del suo celebre autoritratto, scritto all’età di trent'anni: «Sono alta; né grassa né magra;
con una figura molto armoniosa ed elegante. Ho un bell’aspetto; il seno discretamente modellato; le braccia e le ma-
ni non belle, ma con la pelle bella come quella del seno. Ho le gambe diritte e i piedi ben fatti; i miei capelli sono biondi, di un bel color cenere; il viso allungato e il suo con-
torno bello; il naso grande e aquilino; la bocca né piccola né grande, ma disegnata in modo gradevole; le labbra vermiglie; i denti per nulla belli, ma nemmeno orribili; gli occhi azzurri, né grandi né piccoli, ma brillanti, dolci e fieri
come l’aspetto ».' E in ogni caso ella riteneva i consueti parametri estetici del tutto inadeguati a giudicare il proprio 1.
«Portrait de Mademoiselle, fait par elle mesme », in Divers Portraîts, cit.,
p. 30.
198
La civiltà della conversazione
aspetto: ormai quarantenne, un giorno in cui Lauzun avrà l’impertinenza di dirle che non è più abbastanza giovane per portare tra i capelli un nastro rosso acceso, Mademoiselle gli risponderà seccamente che le persone della sua condizione sono sempre giovani.! Erano l’eroismo e la gloria, assai più che la vanità fem-
minile, a infiammare l’immaginazione della nipotina del Grande Enrico. La sua vocazione al sublime affondava le radici nella mistica della razza reale di cui era stata compenetrata fin dall’infanzia e si modellava sull’esempio di una lunga serie di antenate illustri. Il culto delle tre grandi Margherite — Margherita di Navarra, Margherita di Savoia e Margherita di Valois —, insigni per il loro sapere, il loro coraggio, la loro saggezza politica, doveva essere particolarmente vivo nella memoria di Mademoiselle. E grandissima era certo la suggestione esercitata su di lei dalla figura della nonna paterna, Maria de’ Medici, che era partita troppo presto in esilio perché la nipote potesse conservarne un ricordo diretto, ma di cui aveva potuto mille volte contemplare le gesta nelle immense tele di Rubens esposte nella residenza di Gastone, al Palais de Luxembourg. A incarnare ai suoi occhi il prototipo dell’eroismo al femminile era, però, in quegli anni Cristina di Svezia, prova vivente di come una donna potesse unire a una grande cultura il talento della politica e della guerra. Tra il 1630 e il 1640 anche la letteratura contribuiva, tuttavia, in ampia misura all’esalta-
zione eroica dell’io femminile. Il teatro di Corneille celebrava il coraggio muliebre dando vita a nuove eroine romane, i romanzi alla moda illustravano la superiorità morale del gentil sesso e una schiera di panegiristi e uomini di Chiesa proponevano un modello di comportamento ispirato all’ideale intrepido e casto della femme forte. E poiché molti di questi testi erano dedicati ad Anna d’Austria o a Mademoiselle
de Montpensier,
è assai plausibile che essi
suggerissero un'immagine della sovranità femminile in cui le due principesse erano inclini a riconoscersi. Anche all’hòtel de Rambouillet si coltivavano gli ideali cavallereschi e il culto delle nobili gesta, ma ad attirarvi Mademoiselle de Montpensier negli anni della prima giovinezza era soprattutto la seduzione di uno stile di vita infini1. Cfr. Michel Le Moél, La Grande Mademoiselle, Éditions de Fallois, Paris,
1994, p. 171.
La Grande Mademoiselle
199
tamente più libero e allegro di quello del Louvre. Il suo gusto, educato
fin dalla nascita al fasto rinascimentale
delle
Tuileries, alla grandiosità del Luxembourg e delle dimore reali, scopriva una diversa e più moderna concezione dell’architettura, chiamata ora a rispondere alle nuove esigenze della vita privata. Tutto, nella casa di Madame de Rambouillet, dalla disposizione delle stanze agli arredi, al servi-
zio, sembrava ideato per incoraggiare la socievolezza e la gaiezza, per creare un’atmosfera di raffinato benessere, per mettere a loro agio gli ospiti anziché intimidirli. E sarà proprio la Grande Mademoiselle a lasciarci una delle descrizioni più suggestive di Arthénice immersa nella penombra della Camera azzurra. «Mi pare di vederla in una rientranza della parete dove il sole non riesce a penetrare e da dove la luce non è interamente bandita. Questa specie di grotta è circondata da grandi vasi di cristallo, pieni dei più bei fiori della Primavera, sempre presenti nei giardini che sorgono vicino al suo Tempio per rifornirla di ciò che le è più gradito. Intorno a lei vi sono numerosi ritratti di tutte le persone che ama. Gli sguardi che ella posa su di loro sono come altrettante benedizioni per gli originali. Vi sono anche molti libri su alcune mensole che si trovano in quella grotta. È facile capire che non trattano di argomenti comuni: in questo luogo non si entra se non in due o tre alla volta, perché ella non ama la confusione... ».' La Camera azzurra avrebbe lasciato una traccia profonda nella giovane Mademoiselle: a più riprese, nei suoi castelli e nei suoi palazzi, ella avrebbe tentato di ricreare le condizioni
propizie perché l’incantesimo potesse ripetersi, e neanche la difesa gelosa delle prerogative dovute al suo rango le avrebbe impedito di coltivare il sogno di un «altrove»
felice, di
una utopia egualitaria sotto il segno dell’affinità spirituale. Minor influenza esercitavano invece su di lei gli svaghi intellettuali di Gastone d'Orléans, grande collezionista d’arte e mecenate colto e liberale. Mademoiselle de Montpensier conosceva certo la piccola corte erudita di cui il padre amava circondarsi al Luxembourg, e aveva modo di assistere a talune delle conversazioni che vi si tenevano sulla politica, sulla storia, sulla filosofia: forse è addirittura possibile cogliere l’eco lontana di quei dibattiti in alcune osservazioni 1. Mademoiselle de Montpensier, Histozre de la Princesse de Paphlagonte, cit.,
pp. 120-21.
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La civiltà della conversazione
sparse nei suoi Mémotres. Questa cerchia di soli uomini, impregnati di cultura umanista e schierati su posizioni libertine, non poteva, tuttavia, attirare durevolmente una fanciulla digiuna di studi classici, e i versi erotici e sboccati dei
poeti protetti da Gastone erano incompatibili con la sua moralità intransigente. All’hòtel de Rambouillet, invece, la
Grande Mademoiselle aveva l’occasione di entrare in contatto con una cultura mondana più moderna e più accessibile, di cui la conversazione costituiva la chiave di volta. Lì,
magia del luogo e forza della metamorfosi, era per l’appunto un uomo del seguito di suo padre, Vincent Voiture, a costituire l’«àme du rond». Fino a vent’anni, in attesa di essere richiesta in moglie da un grande sovrano — il re d'Inghilterra? o forse l’imperatore? o, meglio ancora, il giovane cugino Luigi XIV? —, Mademoiselle de Montpensier percorse quotidianamente la grande galleria che collegava le Tuileries al Louvre, e parte-
cipò al fianco della reggente e del giovane re alle più importanti cerimonie di corte, ai balli, ai concerti, agli spetta-
coli teatrali. Poi, non appena i suoi impegni glielo consentivano, ella andava, come i suoi cugini Condé, a divertirsi in rue Saint-Thomas-du-Louvre, a respirarvi l’aria elettrizzan-
te di una festa esclusiva in cui ciascuno dei partecipanti era chiamato a dare il meglio di sé.
Nel 1652, tuttavia, la sua vocazione all’eroismo prendeva
il sopravvento sulla vita mondana e affrontava la prova dei fatti. Se all’inizio della Fronda Mademoiselle de Montpensier era rimasta al fianco della famiglia reale, all’improvviso, con la Rivolta dei principi, si schierò dalla parte dei ribelli. Come Bradamante, come Clorinda, cinto un cimiero ornato di uno splendido pennacchio, la Grande Mademoi-
selle scendeva nell’agone e dava finalmente la piena misura del suo ardire. Che cosa la indusse a partecipare a questa disastrosa avventura che le avrebbe procurato l'esilio e l'eterno rancore di Luigi XIV? La solidarietà di casta contro gli abusi di un ministro straniero, colpevole, fra l’altro, di non essersi dato pe-
na di trovarle un marito all’altezza delle sue aspettative? Il desiderio di riscattare l’onore familiare dalle oscillazioni e dalle viltà di Gastone? O la speranza di essere in una posizione di forza per concordare il matrimonio con il suo reale cugino?
La Grande Mademotselle
201
E difficile dirlo. Certo, agli occhi della famiglia reale, la pri-
ma delle sue due grandi imprese, la spedizione a Orléans, poteva ancora giustificarsi come un gesto di obbedienza filiale, ma la responsabilità della seconda, l’ordine di sparare con
i cannoni della Bastiglia sulle truppe reali che assediavano Parigi, doveva ricadere disastrosamente su di lei.
Nel marzo del 1652, spaventata dall’avvicinarsi dell’esercito reale e dalle notizie delle violenze e dei saccheggi perpetrati dalle soldatesche sul loro cammino,
la città d'Orléans
aveva chiesto l'intervento del suo principe per trattare con la corte e salvaguardare il proprio diritto a mantenersi neutrale. Ma poiché, come doveva scrivere di lì a poco Retz, «per essere honnéte homme, a Monsieur d'Orléans mancava solo il coraggio »,' il principe si era mostrato soprattutto preoccupato di non esporre se stesso e, preferendo non muoversi da Parigi, allora sotto la minaccia delle truppe di Turenne, aveva delegato alla giovane figlia il compito di andarlo a rappresentare nella sua capitale d’appannaggio. Mademoiselle ignorava i tentennamenti del padre, e aveva raggiunto di volata Orléans per battere sui tempi l’avanzata dell’esercito reale. Come le amazzoni cristiane di Le Moyne, ella agiva, in nome di un’autorità superiore assente, per una causa nobile e giusta: la difesa di una comunità pacifica minacciata dagli orrori della guerra. Ed è difficile pensare che il ricordo di Giovanna d’Arco non le si affacciasse alla memoria mentre correva in soccorso della città dove la celebre Pucelle aveva vinto la sua prima battaglia. Grande, dunque, era stato il suo disappunto nello scopri re che Orléans non le riservava l'accoglienza trionfale su cui contava. Intimoriti dalle ingiunzioni del re, divisi sulle scelte da adottare, i notabili avevano fatto chiudere le porte
della città e rifiutavano l’ingresso alla figlia di Gastone, pregandola di andare ad aspettare in un luogo sicuro che la situazione si chiarisse. La decisione era certamente prudente ma non teneva conto del temperamento della principessa. Senza perdersi d’animo, Mademoiselle si calava nel fossato, seguita dalle sue «aiutanti di campo »,; Madame de 1. Retz, Mémoires, cit., p. 154.
2. Dopo l’ingresso a Orléans, Monsieur si era complimentato con le dame di compagnia della figlia in una lettera che recava la seguente intestazione:
202
La civiltà della conversazione
Frontenac e Madame de Fiesque, e passava in rassegna, una dopo l’altra, tutte le porte di accesso a Orléans, trovandole
rigorosamente sprangate. Sul lato della città prospiciente la Loira ella individuava,
tuttavia, grazie ad alcuni barcaioli,
una porticina in disuso e, fattasi immediatamente aprire un varco, e arrampicatasi su una scala a pioli, riusciva a penetrare all’interno della cinta muraria tra l’entusiasmo della popolazione che aveva potuto seguire le varie fasi dello straordinario spettacolo. Messo così davanti al fatto compiuto, il consiglio cittadino si vedeva costretto a rifiutare l’accesso alla delegazione inviata dal re, mentre Mademoi-
selle si affrettava a mostrarsi sugli spalti, circondata dai suoi ufficiali, cingendo la fascia azzurra di suo padre, perché i rappresentanti della corte, giunti sull’altra riva della Loira,
capissero che la città di Gastone era passata alla Fronda. «Figlia mia. Potete immaginare la gioia che mi ha dato l’impresa da voi compiuta: mi avete salvato Orléans e assicurato Parigi. E una gioia collettiva e tutti dicono che la vostra impresa è degna della nipote del Grande Enrico. Non dubitavo del vostro cuore, ma vedo che in questa impresa vi siete dimostrata più genérosa che saggia. Vi dirò anche che sono felice di ciò che avete fatto sia per amor vostro che per amor mio... ».! Ben presto Gastone avrebbe avuto modo di accorgersi che prudenza e obbedienza non erano le virtù predominanti di Mademoiselle. L’avventura era stata troppo bella per concludersi a Orléans e, ignorando le consegne pater-
ne, la principessa decideva di proseguirla a Parigi. In mano ai ribelli e alle truppe di Condé, la capitale, che si preparava a sostenere l'assedio dell’esercito reale comandato da Turenne, era con tutta evidenza il luogo dove si sarebbe deciso il futuro del Paese e Mademoiselle non voleva mancare all’appuntamento. La scena straripava di attori: Orléans, Condé,
Retz, Beaufort, La Rochefoucauld
si con-
tendevano, senza esclusione di colpi, i ruoli principali. E numerose erano anche le donne, non meno audaci, intriganti, ambiziose dei loro mariti e dei loro amanti: amazzoni folli, «A mesdames les comtesses, maréchales de camp de l’armée de ma fille
contre le Mazarin », Mémoires de Mademoiselle de Montpensiex petite fille de Henri IV, collationnés sur le manuscrit autographe avec notes biographiques et historiques par A. Chéruel, 4 voll., Charpentier, Paris, 1858, vol. II, p. 47. 1. Ibid., p. 16.
La Grande Mademoiselle
203
senz’altra legge che il loro personale capriccio. Decisamente non era quello il posto per un’eroina virtuosa, e Gastone per primo avrebbe fatto volentieri a meno della presenza di quella figlia coraggiosa e impulsiva, la cui condotta spettacolare era incompatibile con la sua tattica ambigua e prudente. Ormai pienamente responsabile delle proprie azioni, in quella frenetica estate parigina in cui la Fronda affondava sotto il peso delle passioni e dei tradimenti, Mademoiselle non sentiva altro dovere che quello di essere fedele all’alta idea che coltivava di se stessa. A differenza della cugina Madame de Longueville, la principessa non sapeva cosa fosse l’insidia amorosa, il tradimento, la volontà di dominio, ma
la sua pura e innocente aspirazione alla gloria non era certo meno pericolosa. Interpretata alla luce degli exempla degli avi e attraverso il filtro epico-romanzesco della letteratura, l’esperienza della realtà interessava Mademoiselle nella misura in cui le consentiva di mostrarsi all’altezza dei suoi modelli. Nel clima di eccitazione, di feste, di parate militari,
di colpi di scena in cui si trovava ora immersa, ella non aveva tempo per interrogarsi sui progetti che si celavano dietro ai gesti teatrali e all’eloquenza appassionata dei capi della Fronda; aveva fatto la sua scelta di campo e aspettava con lieta incoscienza che gli eventi le indicassero la condotta da tenere. Allorché, il 2 luglio 1652, il giorno dei combatti menti di rue Saint-Antoine, gli uomini di Condé furono travolti da quelli di Turenne,
e Mademoiselle
vide il Gran
Condé, coperto di polvere e di sangue, piangere gli amici caduti sul campo, ne rimase folgorata. Per la prima volta in vita sua, aveva toccato con mano
il Sublime ed era stata tra-
volta da un incoercibile desiderio di emulazione: le lacrime dell’eroe le avevano indicato con chiarezza qual era la strada da seguire. Dopo aver messo a disposizione di Condé la propria casa e il reggimento di cui andava così fiera, Mademoiselle correva alla Bastiglia e dava ordine di tirare con il cannone sulle truppe reali per consentire a quanto rimaneva dell’esercito ribelle di mettersi in salvo: si disse anche che fosse stata lei stessa ad accendere la miccia. Il giovane Luigi XIV, che aveva assistito alla scena dall’alto di una collina, non avrebbe mai perdonato l’affronto inaudito fatto alla sua persona da colei che aveva sempre considerato come una sorella maggiore. Meno di tre mesi dopo, ripreso il controllo della capitale, il re faceva sapere a Mademoiselle de Montpensier che aveva ventiquattr'ore
204
La civiltà della conversazione
per lasciare le Tuileries e ordinava a Gastone di allontanarsi da Parigi. Non c’era bisogno di un’ulteriore ingiunzione per capire che anche per lei era più prudente andarsene dalla capitale. E poiché il padre si era rifiutato di condurla con sé a Blois, Mademoiselle,
temendo
di essere arrestata,
non aveva altra scelta che chiedere al re il permesso di ritirarsi nel suo castello borgognone di Saint-Fargeau, non lontano da Auxerre e a tre giorni da Parigi. L'ultimo colloquio tra Monsieur e la figlia fu tempestoso. Mademoiselle rimproverò il padre di abbandonare Condé, lui le rinfacciò le sue imprudenze, e lei gli ricordò fieramente la spedizione di Orléans. Lo scambio di battute che seguì, così come lo si legge nella versione di Mademoiselle, è illuminante. Il padre: «E non credete, Mademoiselle, che la storia di
Saint-Antoine vi abbia nociuto non poco a corte? Siete stata così contenta di fare l'eroina e di sentirvi dire che eravate quella del nostro partito, che avevate salvato due volte, che,
qualunque cosa vi succeda, ve ne consolerete ricordandovi di tutte le lodi ricevute ». La figlia: «Non so che significhi essere un’eroina: i miei natali mi impongono di condurmi sempre in modo grande e nobile, quali che siano le mie scelte. Lo si chiami come si vuole, io lo chiamo seguire la mia inclinazione e la mia strada; sono nata per non prendere altro che questa ».' Se il principe conosceva le debolezze della figlia, Mademoiselle non ignorava quelle del padre. Ciò che a Gastone appariva come una fanciullesca vanagloria era per lei la sola condotta compatibile con la sua nascita. A ciascuno la piena responsabilità delle proprie scelte morali. Non era questo anche un modo sottile di ricordare al padre la sua mancanza di generosità e di coraggio?
LA PROVA
DELL’ESILIO
Una nuova e più difficile prova attendeva adesso Mademoiselle; anche per lei, come per Madame
de Longueville,
era giunto il momento di misurarsi con l’eroismo dei vinti. Saper accettare il proprio destino, sopportare le sventu-
1. Ibid., p. 197.
La Grande Mademoiselle
205
re, far fronte alle disgrazie: non era questo il segno inconfutabile delle anime nobili? Madame de Longueville aveva chiesto soccorso alla religione e imboccato la via della penitenza e dell’ascesi, rinne-
gando per sempre gli idoli del passato. A differenza della cugina, Mademoiselle de Montpensier non intendeva cambiare vita, non era perseguitata dai rimorsi, non aveva peccati da
espiare. La sola colpa che le veniva imputata era quella di una legittima scelta di campo, perfettamente conforme alla morale della sua casta. La prova dell'esilio la colpiva, dunque, in ciò che aveva di più caro, l'esercizio delle sue prerogative di principessa del sangue. Estromessa dall’intimità della famiglia reale, lontana dalla corte, tagliata fuori da ogni strategia di potere, la vita perdeva per lei di significato. A cosa servivano i privilegi se non vi era più nessuno con cui condividerli e se mancavano le occasioni per esercitarli? Decisa a difendere a oltranza la propria dignità e il proprio prestigio nel mondo, Mademoiselle seguiva la strada dello stoicismo aristocratico piuttosto che quella della cristiana rassegnazione. Si raccontava che, durante la sua prigionia, il Gran Condé avesse ingannato il tempo coltivando sul davanzale della sua cella dei fiori di garofano;' più fortunata di lui, dal fondo del suo maniero di Saint-Fargeau, la Grande Mademoiselle avrebbe combattuto l’isolamento, la solitudine, la tristezza dell’esilio coltivando tutti i /oîstrs di
cui l’ozio aristocratico poteva adornarsi. Costretta suo malgrado a rinunciare alla vita pubblica, sola e respinta dalla famiglia, una giovane principessa di venticinque
anni
riusciva,
in virtù della sua
nascita,
di uno
straordinario carattere e di una grande fortuna, a fare del suo ritiro forzato l'illustrazione esemplare dei piaceri della vita privata. Nella disgrazia, Mademoiselle
de Montpensier
scopriva infatti il valore inestimabile dell’ultimo spazio di libertà concesso dalla monarchia alla nobiltà francese e lo celebrava con tutte le risorse della sua cultura e della sua immaginazione. Perfetto prontuario delle attività e degli svaghi a cui poteva indulgere l’alta nobiltà quando non prestava servizio a corte, il soggiorno della Grande Mademoiselle a Saint-Fargeau ci aiuta a capire la varietà e la qualità delle occupazioni a cui l’ozio nobiliare apriva le porte.
1. Cfr. Mémoires de Madame de Motteville, cit., vol. III, p. 239.
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La civiltà della conversazione
A Saint-Fargeau Mademoiselle aveva trovato grandi foreste che le consentivano di continuare a praticare anche in esilio, d'estate come d’inverno, l’equitazione e la caccia, le
due attività che più di ogni altra cosa, dal re fino all’ultimo vassallo, connotavano lo stile di vita aristocratico. Costruito
nel XIII secolo, l’imponente castello a forma poligonale era in uno stato di avanzata rovina e richiedeva urgenti riparazioni. Appena arrivata, Mademoiselle ne trasformò subito un’ala, sistemandovi
i suoi appartamenti
privati; poi,
presa dal gioco, fece venire da Parigi l'architetto Francois Le Vau e gli affidò il compito di ampliare il vecchio edificio con una nuova costruzione aperta sul cortile. L'antico maniero si trasformava così, sotto la bacchetta magica di Mademoiselle, in una magnifica dimora moderna, luminosa
ed elegante. Il vecchio parco inselvatichito subiva la stessa metamorfosi.
Viali, vialetti, sentieri, terrazze,
giochi d’ac-
qua e di prospettiva lo rendevano ora una meta incantevole di passeggiate, merende, concerti, e un gioco di pallamaglio consentiva di fare esercizio all’aria aperta. Il gusto per l’architettura rientrava pienamente nelle tradizioni della famiglia reale - Maria de’ Medici ne aveva dato prova con il palazzo del Luxembourg; ma già Madame de Rambouillet e, dopo di lei, Madame du Plessis-Guénégaud avevano mostrato tutta l’importanza che il disegno e l’arredo di una casa potevano avere per la vita di società. Mademoiselle scopriva dunque a Saint-Fargeau il piacere di «costruire »: edificare, ingrandire, abbellire, contribuire al fasto della propria famiglia, lasciare traccia duratura di sé
nella pietra o nel marmo era un’ambizione perfettamente naturale in una grande principessa. Prima ancora di rispondere a obiettivi pratici, l'architettura costituiva, però,
per Mademoiselle una deliziosa fonte di svago: « Se ci si annoia a corte, si va in campagna,
nelle proprie case, con il
proprio seguito. Vi si fa costruire, ci si diverte ».! La principessa, d’altronde, non doveva essere la sola a praticare questa dispendiosa distrazione. Presto per Luigi XIV costruire sarebbe diventata una passione irrefrenabile, l’unica, assieme a quella per le donne e per la caccia, che avrebbe
trasmesso a Luigi XV. Ma già il sovrintendente Fouquet aveva 1. Mémotres de Mademoiselle de Monipensier, cit., vol. III, p. 537, citato in
Claude Mignot, Mademoiselle et son chateau de SaintFargeau, in La Grande Mademoiselle (1627-1693), PFSCL, XXII (1995), 42, p. 99.
La Grande Mademoiselle
207
dato all'architettura un posto centrale nel suo programma estetico,
e con Vaux-le-Vicomte aveva avuto l’imperdonabile
audacia di sfidare l’orgoglio del re su un terreno incompatibile con la dissimulazione.
Nel Settecento, in un clima di
maggiore tolleranza politica e di notevole mobilità sociale, la mania della pietra sarebbe diventata uno dei tratti più tipici del costume aristocratico, avrebbe travolto nobili e parvenu, contribuito tanto alla rovina di antiche fortune quanto alla riuscita mondana dei nuovi arrivati. In città come in campa-
gna le abitazioni diventavano lo specchio eloquente della ricchezza, delle ambizioni e della cultura dei loro proprietari.
A Saint-Fargeau, trasformando «un luogo selvaggio» in un palazzo di Alcina, Mademoiselle avrebbe potuto esercitare su larga scala, e con architetture non effimere, un gusto della metamorfosi e dell’illusionismo tipici della cultura aristocratica del tempo. Ma tra le molte innovazioni introdotte nel castello, almeno tre — la galleria dei ritratti, il tea-
tro, la biblioteca — erano particolarmente emblematiche della cultura e degli interessi di Mademoiselle. Annessa alla camera da letto della principessa, la galleria ospitava una trentina di ritratti dei membri della sua famiglia. Diffusa sin dal Quattrocento, e poi resa più agevole dall’invenzione delle varie tecniche di incisione e di riproduzione, l’abitudine di collezionare le immagini degli ante-
nati era pressoché d’obbligo per Mademoiselle de Montpensier, giustamente orgogliosa della sua storia dinastica. Nella solitudine dell’esilio, tuttavia, quella schiera di princi-
pi e di re in effigie, oltre che un attestato glorioso, poteva rivelarsi una presenza tutelare e confortare Mademoiselle nelle sue prove. Ma già all’epoca della principessa era invalsa l’usanza di collezionare assieme ai ritratti di famiglia quelli degli amici. Le esigenze del ricordo si estendevano così anche alle relazioni sociali e rendevano omaggio ai vincoli dettati dalle affinità oltre che a quelli imposti dal sangue. Sappiamo che Madame de Rambouillet aveva raccolto nel suo studiolo — è proprio Mademoiselle a dircelo +' i ritratti di coloro a cui andavano la sua ammirazione e il suo affetto, e anche Madame des Loges, lontana da Parigi, aveva ornato le pareti della sua stanza con i ritratti degli amici. 1. Cfr., sopra, p. 201.
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Meno di una quindicina d’anni dopo, un altro famoso esiliato, Bussy-Rabutin, tappezzava una sala del suo castello con i ritratti delle dame del bel mondo parigino per avere la consolante illusione di continuare a conversare o a battibeccare con loro. Fino a quel momento, Mademoiselle era stata troppo occupata dal pensiero della propria superiorità dinastica e dalla propria gloria per prestare eccessiva attenzione agli altri. Ora, chiusa a Saint-Fargeau, ella lasciava la compagnia
degli eroi per andare alla scoperta del prossimo: presto avrebbe provveduto ad aggiungere ai ritratti degli avi quelli degli amici e dei conoscenti, cambiando però di registro e sostituendo la scrittura ai colori.
Prendendo la decisione di adibire una sala del castello a teatro, Mademoiselle confermava una passione per gli spettacoli che era tipica della società aristocratica in cui era stata educata. Sin da fanciulla aveva amato la musica, il teatro, il ballo: lei stessa era un’eccellente ballerina e si era esibita in alcuni dei grandi bdallets de cour. Il suo idolo era natural mente Corneille, ma apprezzava anche la verve caricaturale di Desmarets e la comicità di Scarron, tutta giocata sull’alternanza fra burlesco e tragico. Amava, insomma, il teatro barocco nella sua varietà di registri, nella sua audacia inventiva, nei suoi virtuosismi espressivi: quel teatro che, co-
me lei, doveva imparare a chinarsi alle regole e all’ordine. A Parigi Mademoiselle era stata una spettatrice entusiasta, ma a Saint-Fargeau, per continuare a godere di un divertimento che la solitudine rendeva ancora più prezioso, sì era
trasformata in mecenate. Durante una visita al padre, relegato nel castello di Blois,
la principessa aveva potuto apprezzare gli attori che recitavano per Gastone e aveva deciso di ingaggiarli al proprio servizio. I Comédiens de S.A.R. le duc d'Orléans et de Mademoiselle formavano una compagnia itinerante che avrebbe calcato le scene per almeno trent'anni. La troupe di cui facevano parte alcuni attori provenienti dagli Illustres Francais, dove aveva fatto le sue prove il giovane Molière,
avrebbe conosciuto una stagione particolarmente fortunata sotto la direzione di Dorimond, il grande attore che per primo introdusse in Francia la storia di Don Giovanni e del Convitato di pietra.
La Grande Mademoiselle
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La compagnia si sarebbe esibita con regolarità a SaintFargeau per tutta la durata dell’esilio, ma anche a Parigi avrebbe continuato a beneficiare della protezione di Mademoiselle.
Protezione
illustre, nel solco
del mecenatismo
reale, di cui il teatro aveva bisogno per resistere agli attacchi della Chiesa e dei «devoti», e che era anche un segno palese della vocazione liberale di una principessa del sangue. Non abbiamo notizia diretta dei titoli delle opere rappresentate a Saint-Fargeau: ma quel che certamente contava per l’esiliata e per le persone del suo seguito era ritrovare il piacere di un’esperienza più che mai essenziale al loro benessere.' Vestite con ricercatezza, sfoggiando cappelli di pelliccia guarniti di piume, le dame del castello dimenticavano la lontananza, l'isolamento, le rivalità, le gelosie, e ve-
nivano catturate dall’illusione della grande lanterna magica, con il suo vasto repertorio di personaggi, di immagini e di situazioni romanzesche. Potevano così riascoltare i monologhi eroici, le appassionate dichiarazioni d’amore, le disquisizioni sottili, i dialoghi brillanti, le conversazioni galanti, le battute fulminee
e irresistibili su cui modellare
i
sentimenti e il linguaggio: perché il teatro non era per loro soltanto un modo di voltare le spalle alla realtà e abbandonarsi al sogno,
costituiva
un'utile
scuola
di mondo,
una
grande rassegna di situazioni esemplari che preparavano a conoscere e, talvolta, ad anticipare la vita.
Sin da fanciulla Mademoiselle aveva amato profondamente anche la musica, che a Saint-Fargeau divenne un intrattenimento quotidiano per gli abitanti del castello. E sappiamo che fra i suoi strumentisti figurava un giovane italiano,
Giovanni
Battista
Lulli, presto
destinato
a diventare
compositore del re. La creazione di una biblioteca segnava invece per Mademoiselle l’inizio di una nuova importante esperienza: a Saint-Fargeau ella scopriva per la prima volta i piaceri della lettura. Fino ad allora la sua cultura mondana, come in genere accadeva per le dame della nobiltà, era stata essenzialmente orale ed estremamente eclettica. Vi avevano contribuito, in uguale misura, oltre alla conversazione, il garbo 1. «Seguivo gli spettacoli teatrali con più piacere di quanto mi fosse mai accaduto », Mémoîres de Mademoiselle de Montpensier, cit., vol. II, p. 250.
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pedagogico dei letterati al suo servizio, gli spettacoli, l’amore per la musica e la poesia, l’ascolto quasi ininterrotto di una fluviale produzione in versi e in prosa destinata alla vita di società per il divertimento di un istante. Tutto ciò, naturalmente, poteva anche essere propedeutico a un rapporto più diretto con la letteratura ma, per dare i suoi frutti,
aveva bisogno della quiete di un castello di campagna. «A quel tempo cominciai ad amare la lettura, che da allora ho sempre amato molto » scriverà Mademoiselle nelle sue memorie.' «Amava appassionatamente le storie, » è la testimonianza di Pierre-Daniel Huet «e soprattutto i romanzi, come si suole chiamarli. Mentre le sue cameriere la pettinavano, voleva che le leggessi qualcosa, e non vi era argomento su cui non avesse mille domande da porre. E questo mi ha dato la misura della finezza del suo spirito e della sua erudizione, poco comune in una persona del suo sesso ».? Per bizzarro che possa sembrare, prima ancora che il piacere di leggere, Mademoiselle aveva sperimentato quello di scrivere.
Nella vita di società, è vero,
dettare
una
lettera
garbata o improvvisare versi era un prolungamento naturale della conversazione, un’occasione come un’altra di con-
tribuire alla buona riuscita del gioco mondano. Ma nel bel mezzo degli avvenimenti della Fronda, quando la si poteva supporre più che mai assorta in eroici pensieri, Mademoiselle aveva scritto qualcosa di assai meno convenzionale dei soliti componimenti in versi, l’Histoîre de Jeanne Lambert d'Herbigny marquise de Fouquesolle, un divertissement in prosa dal tono ironico e impietoso. Sotto forma di finta confessione - Madame de Fouquerolles racconta la sua storia a un’amica —, la principessa procedeva a un regolamento di conti con una dama di compagnia che si autoaccusava di falsità e di intrigo. Decisamente Madame de Fouquerolles aveva la tendenza a mettersi nei guai: dieci anni prima era stata proprio lei a scrivere la famosa lettera smarrita che Madame de Montbazon non aveva esitato ad attribuire alla duchessa di Longueville. Scritto con spigliatezza e non privo di acume psicologico, 1. Ibid., vol. I, p. 259.
2. Mémotres (1718), a cura di Philippe-Joseph Salazar, Société de Littératures Classiques, Toulouse,
1993, p. 76.
La Grande Mademoiselle
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il breve racconto — una settantina di pagine — era destinato agli intimi di Mademoiselle e li invitava a seppellire nel riso un intrigo che avrebbe potuto comportare conseguenze sgradevoli per tutti. Attraverso le parole di Madame de Fouquerolles la principessa però raccontava anche qualcosa di sé, del proprio temperamento, dei propri gusti, e la condotta ipocrita e sleale della dama di compagnia faceva brillare per contrasto la fierezza del suo carattere e il suo amore per la sincerità. Mademoiselle era stata probabilmente indotta a servirsi della formula della confessione dall’esempio delle mazarinades— i libelli satirici che imperversavano allora a Parigi —, e l’Histoire de la marquise de Fouquesolle conserva indubbiamente una sfumatura di violenza, un vago gusto di gioco al massacro, in perfetta sintonia con il clima della Fronda. Scritto di getto, il divertissement non aveva ambizioni letterarie e faceva parte di uno scherzo a più mani, un insieme di testi brevi, lettere e versi, a cui avevano collaborato anche
Madame de Fiesque e Madame de Frontenac. Eppure l’ Histoîre introduceva sulla scena letteraria una figura chiave della civiltà francese: il personaggio che si strappa la maschera. Un gesto che, nel secolo successivo, avrebbe avuto la sua
apoteosi nel celebre monologo di Versac negli Egarements du ceur et de l’esprit e nella ancor più celebre lettera della marchesa di Merteuil nelle Liaisons dangereuses. Con l’inizio dell’esilio la scrittura era destinata a occupare un posto sempre più importante nella vita di Mademoiselle, anche se, almeno in un primo tempo, la sua funzione restava
immutata: poteva essere un utile strumento al servizio della memoria, del divertimento, della vita di società, ma non rappresentava un fine in sé. La facilità, la rapidità, la fretta, il
rifiuto sdegnoso di rileggersi e correggersi che Mademoiselle amava ostentare, riconducevano la parola scritta a quell’estetica della «sprezzatura » che da Castiglione in poi era il contrassegno della conversazione aristocratica.
Ora che si era concluso il tempo dell’agire, era arrivato per Mademoiselle, come per altri illustri esponenti della Fronda, il momento di ricordare. Accogliendo i suggerimenti della sua piccola corte, di Madame de Fiesque, di Madame de Frontenac e del suo segretario di fiducia Préfontaine, e accingendosi alla stesura delle sue memorie,
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La civiltà della conversazione
la principessa obbediva una volta di più, in maniera esemplare, all’etica della sua casta.
Da quando l’onore del sovrano aveva cessato di coincidere con quello dei suoi nobili, chi poteva ricostruire la verità dei
fatti per la memoria futura? Uomini di lettere al soldo della corona, gli storiografi ufficiali non davano più alcuna garanzia di oggettività e tanto meno di competenza. Il compito di raccontare la Storia spettava dunque a coloro che ne erano stati i testimoni e gli artefici, vale a dire ai nobili, non a borghesi o chierici che avevano passato la vita nel chiuso di una biblioteca e che non sapevano cosa fosse un campo di battaglia. Sin dal Cinquecento, un secolo segnato da un tragico susseguirsi di conflitti religiosi e politici, i nobili avevano avvertito la necessità di tutelare il loro onore e quello della loro discendenza illustrando le ragioni del loro agire e gli eventi a cui avevano preso parte con delle memorie scritte, destinate a integrare il patrimonio di ricordi orali che la famiglia si tramandava di generazione in generazione. L’ultimo in ordine di tempo ad avere scritto un Journal de ma vie era stato Bassompierre, relegato alla Bastiglia per ordine del cardinale. Nel solco di questa tradizione, alla fine di una guerra civile che aveva sconvolto il Paese e in cui lei stessa era entrata in aperto conflitto con la famiglia reale, Mademoiselle
doveva
sentire fortissima la necessità di ribadire la legittimità della propria condotta e di dare la propria versione dei fatti. Compito non facile. La principessa desiderava ottenere il perdono della reggente e del suo reale cugino ed essere riammessa a corte, ma non voleva smentire se stessa, e il ricordo delle can-
nonate della Bastiglia la riempiva di rimorso e insieme di fierezza. I suoi errori, se di errori si trattava, dipendevano meno dalla sua condotta che dai capricci della fortuna," e non erano tali da gettare la minima ombra sulla sua reputazione. Mademoiselle affrontava l’impresa come soltanto lei avrebbe potuto fare. I suoi Mémoires raccontano le eroiche vicende di una principessa del sangue capace di assumere fino in fondo le responsabilità imposte dalla sua nascita e di farsi garante dei valori più sacri della monarchia francese, con la naturalezza, la leggerezza, le distrazioni, l’eclettismo,
la curiosità psicologica di una dama del Grand Monde. A differenza delle memorie tradizionali, in cui l’autore si 1.
«La mia condotta
è meno
colpevole della cecità della fortuna», «Por-
trait de Mademoiselle, fait par elle mesme », in Divers Portraîts, cit., p. 36.
La Grande Mademoiselle
213
nascondeva dietro gli eventi, Mademoiselle si metteva in scena con tutto il gusto teatrale di cui era capace ed evocava gli avvenimenti nella misura in cui ne era stata protagonista o testimone. Unendo l’autorità alla naturalezza mondana, parlava in prima persona, riaffermava con l’atto stesso di scrivere la sua libertà e le ragioni delle sue scelte, riba-
diva i propri valori, non nascondeva il suo compiacimento per le imprese di cui era stata capace. Ma i Mémotres non erano solo un atto di fedeltà al proprio personaggio pubblico: essi consentivano a Mademoiselle di andare alla scoperta di un io privato, sensibile e delicato, destinato a im-
porsi sempre più alla sua coscienza. Era un nuovo, piacevolissimo modo
di occuparsi di sé, confortato
dall’interesse
crescente che la cultura mondana dimostrava per tutte le forme dell’analisi psicologica. La pubblicazione,
nel 1649,
delle Confessioni di sant'Agostino nella traduzione di Arnauld d’Andilly aveva sortito l’effetto paradossale di fare dell’introspezione un gioco di società, e un ex frondista deluso, il duca di La Rochefoucauld, si preparava a liquidare
l’eroismo in nome dei « pensieri non pensati». Fra le tante occupazioni di Saint-Fargeau ve n’era una senza la quale tutte le altre rischiavano di perdere gran parte delle loro attrattive e che sola poteva dare unità e tono alla vita del castello. Non era proprio la conversazione a prolungare il piacere degli spettacoli e della lettura, a indurre a riflettere ad alta voce e a esprimere le proprie impressioni aprendosi a quelle degli altri? E lo stesso atto solitario dello scrivere non implicava forse una reazione quasi immediata da parte della piccola cerchia di lettori a cui ci si rivolgeva per primi, non prefigurava già i commenti, gli applausi e la nuova ondata di conversazioni a cui avrebbe dato luogo? Cosa sarebbero state le cacce, le passeggiate, i balli, i giochi, senza il sottofondo
musicale della conversazione? E a cosa servivano i vari cabinets di cui Mademoiselle aveva voluto disseminare il suo castello, spazi raccolti e arredati in modo
raffinato, se non a
creare le condizioni ideali perché la conversazione potesse dispiegarsi in un clima perfetto di intimità e di armonia? Non meno del teatro, la conversazione aveva bisogno di interpreti, e Mademoiselle era riuscita a garantirsi la presenza di due autentiche virtuose: Madame de Fiesque e Ma-
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dame
La civiltà della conversazione
de Frontenac,
le dame
di compagnia
che l'avevano
seguita a Saint-Fargeau, erano la quintessenza di quella mondanità parigina da cui Mademoiselle era stata profondamente attratta sin dalle sue prime visite alla Camera azzurra. Belle, allegre, spiritose, brillanti, Madame de Fiesque e Madame de Frontenac, che già si erano divertite ad ac-
compagnare la principessa nella spedizione a Orléans, non avevano perso il buonumore quando avevano dovuto pagare le conseguenze della loro avventura seguendo Mademoiselle in esilio. Madame de Fiesque aveva sposato in seconde nozze il figlio della governante di Mademoiselle ed era di otto anni maggiore della principessa. La sua capacità di seduzione doveva essere davvero molto grande se Bussy-Rabutin, noto per la sua maldicenza, non poteva esentarsi dal farne un elogio entusiasta: «Era una donna mirabile. Aveva gli occhi scuri e brillanti e il naso ben disegnato, la bocca gradevole e di un bel colore, la pelle bianca e liscia, il viso di forma al-
lungata. Era la sola persona al mondo la cui bellezza risultasse accresciuta da un mento appuntito. Aveva i capelli di color biondo cenere. Era sempre curata e vestita con molto gusto, ma era il suo portamento,
prima ancora che la ma-
gnificenza degli abiti, a renderla elegante. Il suo spirito era vivo e naturale e, pur serbando la modestia propria al suo sesso, ella era l’amabilità fatta persona». Nata per l’esprit de société, e dedicandosi a esso con passione esclusiva, Madame
de Fiesque era destinata a rimanere
eternamente giovane. Saint-Simon ce ne dà la conferma al momento di scriverne il necrologio: «Era la donna migliore del mondo, la più gaia, la più rara, e, benché morta a più di ottant'anni, non conobbe mai altra età che quella com-
presa tra i quindici e i diciott’anni».? Come lei, anche la sua grande amica Madame de Fronte-
nac recava in dono a Saint-Fargeau le risorse di una autentica vocazione per la vita di società; e anche di lei, al momento della morte, Saint-Simon avrebbe scritto: «Era stata
bella e galante, estremamente a suo agio negli ambienti più esclusivi del Grand Monde ».? AI momento
del suo arrivo a Saint-F argeau, Madame
1. Bussy-Rabutin, Histoire amoureuse des Gaules, cit., pp. 54-55. 2. Saint-Simon, Mémotres, cit., vol. I, Poll
3. Ibid., p. 609.
de
La Grande Mademoiselle
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Frontenac aveva solo vent'anni e cercava con tutti i mezzi di sbarazzarsi del marito. Il conte era «amabile », «spiritoso » e
non privo di «uso di mondo »,' ma ciò non bastava a indurre la giovane sposa ad accoglierlo nel letto coniugale e a cedere alle sue insistenze. Eppure Monsieur de Frontenac non aveva rivali e, anche dopo la sua provvidenziale partenza per il Canada, la moglie non si sarebbe presa un amante. A Saint-Fargeau ella aveva incontrato un’amica con cui godere serenamente delle gioie della vita mondana e di quella affettiva. La signorina si chiamava Madeleine d’Outrelaize, ed era stata Madame de Fiesque a farla venire dalla provincia e a presentarla a Mademoiselle. «Era una giovane dotata di grande spirito, e si fece molti amici che la chiamavano “la Divina”, appellativo che poi ella estese anche a Madame de Frontenac ... con la quale trascorse, senza più separarsene, il resto della vita». A trent'anni da quel primo incontro, la loro convivenza era ancora così perfettamente
felice da indurre Madame de Frontenac a declinare l’offerta di diventare dama d’onore della regina, dichiarando che
«la sua pace e “la Divina” valevano più di una vita così movimentata e brillante ».* Inutile interrogarci sulla natura dei loro rapporti, perché Madame de Sévigné, Saint-Simon, Lo-
ret e i versificatori anonimi non vi fanno cenno. Ci dicono solo che tutti le chiamavano «le Divine» e che «erano persone di cui bisognava ottenere l'approvazione ».‘ La presenza di Madame de Fiesque e di Madame de Frontenac era, dunque, decisiva per introdurre nel grande
castello lo spirito lieve della gaiezza mondana. Mademoiselle aveva voluto fare di Saint-Fargeau un'oasi di bellezza, di cultura, di pace, un’arcadia felice nel segno dell’ Astrée e
della poesia pastorale che tanto amava. Qui, sotto la protezione di una grande principessa, la vita poteva scorrere serena e nobile, lontana dalle ambizioni del potere e dai machiavellismi della politica. Il suo modello ispiratore era naturalmente
la Camera
azzurra,
e ora che Arthénice
aveva
smesso di ricevere Mademoiselle era pronta a raccoglierne l’eredità. Esiliata dalla corte, delusa nelle sue aspettative di 1. Loc. cit. Blas tp: 470: 3. Madame de Sévigné a Madame de Grignan, 9 gennaio [1680], in Correspondance, cit., vol. II, p. 783. 4. Saint-Simon, Mémotres, cit., vol. I, p. 609.
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La civiltà della conversazione
cingere la corona, Mademoiselle de Montpensier rivolgeva la sua attenzione al bel mondo parigino e si preparava ad assumervi, una volta fatto ritorno nella capitale, la funzione
di guida esemplare. Perché ciò fosse davvero possibile, la principessa avrebbe però dovuto poter credere fino in fondo alla sua utopia, rinunciare a vivere il suo destino reale, tradire la propria ambizione alla gloria. Questo, in realtà, non le era possibile. Per qualche anno, tuttavia, in un « al-
trove» sospeso tra il passato e il futuro, contagiata dalla gaiezza delle sue dame di compagnia, Mademoiselle riusciva ad abbandonarsi senza riserve al gioco mondano. Quella di Madame de Fiesque e Madame de Frontenac era una gaiezza euforica, contagiosa, che sapeva rendere gradevole e divertente ogni momento della giornata, e nasceva dal perfetto oblio di sé, dalla capacità di essere, come
scriveva
Bussy-Rabutin, «l’amabilità fatta persona». Il buonumore era una disciplina che ignorava gli stati d'animo e non aveva bisogno di ragioni precise per potersi esercitare. Oltre un secolo dopo, Maupertuis avrebbe detto di Madame de La Ferté-Imbault, la frivola, incantevole figlia di Madame Geoffrin, «che la sua gaiezza non poteva aver fine perché non si fondava su niente»: solo un’arte consumata, tra-
smessa di generazione in generazione, poteva dare a quel niente l'illusione della realtà. Parigi aveva già i suoi nuovi salotti e i suoi nuovi mecenati, ma guardava a Saint-Fargeau con curiosità e ammirazione. Il rango e l’eccezionale personalità di Mademoiselle, la presenza al suo fianco di due vedette della mondanità come Madame de Fiesque e Madame de Frontenac dovevano indurre molti esponenti della corte e del bel mondo a prendere la strada della Borgogna. Nell’estate del 1655 ecco darsi appuntamento a Saint-Fargeau, oltre a Madame de Sully e ai conti di Béthune, due giovani stelle del bel mondo parigino come Madame de Montglas e Madame de Sévigné. Anche Madame de Maure, diretta alla fonte termale di Bourbon, non lontana da Auxerre, si fermava al castello
per rendere omaggio a Mademoiselle. La contessa era accompagnata da Catherine d’Asprémont de Vandy, una giovane parente che, rimasta orfana e senza mezzi, era andata 1. Dai Mélanges de Madame Necker, citato in Pierre-Marie de Ségur, Le royaume de la rue Saint-Honoré, Madame Geoffrin et sa fille, Calmann-Lévy, Paris, 1897, p. 118.
La Grande Mademoiselle
DIR
a stare con lei. La principessa conosceva Madame de Maure, come d’altronde Madame de Sablé, fin dai tempi dell’h6tel de Rambouillet, ne ammirava l’intelligenza e il perfetto uso di mondo e sapeva che, come lei, i Maure stavano
pagando duramente le conseguenze della loro fedeltà alla Fronda. L’incontro fu così cordiale mentre Madame de Maure andava a le a Bourbon, la nipote rimase ad geau. Questa volta, però, la contessa
che l’anno successivo, fare la sua cura termaaspettarla a Saint-Farsarebbe tornata a Pari-
gi da sola, lasciando la giovane parente con la principessa. Mademoiselle non era certo la prima a essere colpita dalla personalità di Mademoiselle de Vandy. La giovane donna apparteneva alla più antica nobiltà lorenese, ma, orfana e senza dote, piuttosto che abbassarsi a un matrimonio indegno del suo lignaggio, aveva preferito rimanere nubile. Dettata da ragioni d’orgoglio, la sua scelta aveva trovato un motivo di sublimazione nella sensibilità preziosa e tradiva talvolta una emotività esacerbata, ai limiti dell’isteria. Made-
moiselle de Vandy manifestava infatti nei confronti dell’amore lo stesso terrore fobico che le sue amiche e protettrici Madame de Maure e Madame de Sablé avevano nei confronti della malattia. Si raccontava che il principe di Condé, quando andava a trovare Madame de Sablé, non mancava di farle la corte e una volta, prendendola alla sprovvista, l’aveva baciata sulla guancia. Mademoiselle de Vandy era stata sul punto di svenire e aveva manifestato un ribrezzo così violento che nessuno si era più azzardato a ripetere il gesto. Ma non era solo l’idea del contatto fisico a riempirla di disgusto, lo stesso termine «amore » era bandito dal suo vocabolario, e se proprio era costretta a farvi cenno, ne parlava come dell’« Altro». Ma una volta al riparo dalle minacce dell’Eros, Mademoiselle de Vandy era l’amabilità fatta per-
sona, e la sua virtù intransigente non le impediva, in pieno stile Rambouillet,
di mostrarsi
galante.
Mademoiselle
de
Scudéry non aveva mancato di tesserne gli elogi nel Grand Cyrus, ritraendola sotto il nome di Télagène, principessa di Paphlagonie: «Non era solo dotata di una grande bellezza, di molta dolcezza e molto spirito, ma anche di una memo1. Mademoiselle de Montpensier, Histoire de la Princesse de Paphlagonie, cit. p. 74.
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La civiltà della conversazione
ria adorna di tutte le letture più piacevoli ... e niente di ciò che le Muse avevano prodotto di eccellente era sfuggito alla sua curiosità ... Così tutte queste letture avevano conferito a Télagène la facoltà di scrivere bene e in modo galante ... la sua conversazione era dolce, lusinghevole e compiacente ».!
Tutte doti che erano frutto di un processo di formazione esemplare. Cresciuta in provincia, da sola, Mademoiselle de
Vandy aveva imparato a conoscere il mondo a distanza, attraverso i libri, e soprattutto attraverso i romanzi alla moda. Era cominciata così quella felice osmosi tra leggere, conversare e scrivere di cui sarebbero stati in molti a godere i benefici. Se il sapere mondano si irradiava, in primo luogo, attraverso la pratica viva delle bienséances e della conversazione, poteva però trasmettersi anche attraverso la parola scritta, a condizione che questa esperienza libresca venisse poi integrata dall'esperienza diretta, «perfezionata da qualche anno trascorso a Parigi, o a corte, o in entrambii luoghi ».è E quanto aveva fatto Mademoiselle de Vandy accettando l’ospitalità di Madame de Maure: a prenderla per mano e a introdurla «nel mondo era la persona più adatta a formare la gente e a renderla sommamente amabile ».? Questo incontro tra una vocazione autentica e un mentore
d'eccezione,
questo processo di iniziazione ai misteri di «quel certo non so che» da cui nasceva la perfezione mondana era destinato a ripetersi, generazione dopo generazione, fino alla fine della società di Antico Regime. Un secolo dopo, una vecchia
signora cieca e atrabiliare avrebbe consentito a un’altra orfana venuta dalla provincia di diventare una stella del firmamento parigino: come Madame de Maure, anche Madame du Deffand non aveva figli ed eccelleva nell’arte della conversazione e della scrittura epistolare, ma mancava della generosità della contessa e il prezzo dell’iniziazione richiesto a Julie de Lespinasse sarebbe stato quello della libertà. Se Madame de Maure aveva incoraggiato la simpatia della principessa per Mademoiselle de Vandy in considerazione di tutti i vantaggi che la giovane cugina ne poteva ricavare, l’entourage di Mademoiselle si preparava a muovere al1. Mademoiselle de Scudéry, Artaméne ou le Grand Cyrus, cit., parte nona, . libro secondo, vol. IX, p. 334. 2. «Portrait de Mademoiselle de Vandy, escrit par Mademoiselle », in Di-
vers Portraits, cit., pp. 72-73.
3. Ibid., p. 73.
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la nuova venuta una lotta senza quartiere. Quella vergine virtuosa e sapiente, in cui la fierezza e l’orgoglio erano sen-
timenti naturali, vere «malattie della razza», aveva troppe affinità con la sua nuova protettrice per non destare allarme. Generosa e leale, Mademoiselle de Vandy non aveva al-
tri interessi che quelli della sua principessa e altro progetto che servirla fedelmente; ella obbediva solo ai dettami della sua coscienza e, aliena da qualsiasi bigottismo, agiva en phi-
losophe. Madame de Fiesque e Madame de Frontenac erano invece grandi dame che avevano come preoccupazione prioritaria la loro posizione nel mondo, e dopo quattro anni passati a Saint-Fargeau, esauriti i piaceri della retraite, am-
bivano solo a tornare a Parigi. Le due amiche non esitarono dunque a mettersi segretamente d’accordo con Gastone, con cui avevano sempre tramato alle spalle di Mademoiselle, per spingere la principessa a mostrarsi accondiscendente sulle condizioni necessarie a una rapida riconciliazione con la famiglia reale. I molteplici intrighi orditi dalle irresistibili contesse non servirono però a garantire loro il controllo sulla casa della principessa, né riuscirono a ostacolare l’ascesa della nuova favorita. Nel giro di pochi mesi l’atmosfera a Saint-Fargeau divenne incandescente e il 1° gennaio 1657, dopo un’ultima clamorosa scenata, Madame de Fiesque abbandonò Il castello seguita, a distanza di qualche mese, da Madame
de Fron-
tenac. Mademoiselle si sarebbe vendicata di entrambe, come già aveva fatto per Madame de Fouquerolles, mettendole alla gogna due anni dopo in un romanzetto satirico, l’ Histoîre de la Princesse de Paphlagonie, la cui eroina, che era natu-
ralmente Mademoiselle de Vandy, finiva assunta in cielo da Diana Cacciatrice a eterna confusione delle sue rivali.
Per fortuna, nel novembre del 1656, proprio mentre l’arcadia di Mademoiselle si rivelava un luogo di disordine e di discordia, una prigione soffocante da cui fuggire, Les nouvelles francaises di Segrais venivano a offrire un'immagine altamente idealizzata della vita del castello e consacravano Saint-Fargeau come il luogo in cui si realizzava un’alleanza esemplare tra cultura principesca e cultura mondana: Maleer:
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La civilta della conversazione
demoiselle era pronta a prendere il posto di Arthénice, e Segrais quello di Voiture. Originario di Caen, educato dai gesuiti, munito di una vasta cultura umanistica, allievo di Malherbe, Jean Regnault de Segrais era un letterato in cerca di successo, pronto ad andare incontro alle esigenze di un nuovo pubblico di lettori curiosi e disponibili, ma alieni da qualsiasi tentazione specialistica. Introdotto all’hOtel de Rambouillet, Segrais si
era misurato con la poesia elegiaca in voga nella Camera azzurra ed eccelleva nell’egloga, a cui era stato iniziato dal suo amico e concittadino Pierre-Daniel Huet. Poi, con la fine della Fronda, aveva trovato in Mademoiselle la mece-
nate di cui era alla ricerca. La sua presenza a Saint-Fargeau si sarebbe rivelata preziosa. Con l’aiuto di Segrais la principessa ampliava le sue conoscenze letterarie, scopriva, sulla scorta dei suoi consigli, il piacere di leggere, si rinsaldava nel gusto di scrivere, metteva un po’ d’ordine nella sua cultura frammentaria ed eclettica. Ma, soprattutto, trovava
uno scrittore capace di celebrarla e di farsi interprete, in poesia come in prosa, dell’alta idea che ella coltivava di se stessa, delle sue ambizioni e dei suoi sogni.
Il primo omaggio che Segrais dedicava
a Mademoiselle
era un poema pastorale, Athys, tragica storia d'amore fra un
pastore e una ninfa inaccessibile e casta. L'intreccio non poteva essere più banale, ma il mito arcadico, che dall’ As-
trée in poi stocratico, di simboli gata nelle
era tenacemente radicato nell’immaginario arioffriva a Segrais un repertorio di convenzioni e che ben si adattavano alla nobile cacciatrice relesue terre.
Con Les nouvelles francaises ou les divertissements de la prin-
cesse Aurélie lo scrittore cambiava completamente registro e contribuiva alla gloria della principessa con un’opera decisamente innovativa, destinata a costituire una tappa importante nell’evoluzione della narrativa francese. Anche questa volta Segrais utilizzava un modello letterario consacrato da una lunga tradizione, mettendo in scena una piccola compagnia
di persone,
riunite
in un
luogo
appartato
e
tranquillo, che si intrattenevano raccontandosi delle storie. Soltanto che, nel caso delle Nouvelles francaises, la cornice
narrativa assumeva un'importanza pari a quella dei racconti e ne costituiva l’ispirazione di fondo. Il locus amoenus, «il castello dalle sette torri», con i suoi nobili loîsîrs, le sue conversazioni, i suoi spettacoli, i suoi giochi, altro non era che
La Grande Mademoiselle
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l’immagine sublimata di Saint-Fargeau, e nella principessa Aurélie e nelle dame che le facevano corona era facile riconoscere Mademoiselle e le signore del suo seguito. Les nouvelles francaises non erano solo il manifesto di un'arte del vivere che guardava a Mademoiselle come all’erede spirituale della marchesa di Rambouillet, ma dimostravano anche la necessità di aggiornare il gusto della Camera azzurra alla luce di una cultura letteraria più attuale. Era tempo di abbandonare i fondali esotici, le epoche remote, le inverosimili avventure dei romanzi che avevano
deliziato gli habitué di rue Saint-Thomas-du-Louvre. La Fronda aveva appena dimostrato che la realtà poteva essere molto più romanzesca della finzione; e, per i lettori che ne avevano fatto la prova di persona, si imponevano ora storie più concise
e più credibili,
ambientate
in Francia,
in un
passato preferibilmente recente, e sfrondate dagli orpelli di una delicatezza manierata e stucchevole, ormai fuori moda.
Lo stile Scudéry aveva fatto il suo tempo e, sia pure indirettamente, la contestazione investiva anche l’autorità monda-
na della scrittrice, la sua reputazione di preziosa e la sua pretesa di ergersi a custode della politesse e delle buone maniere. Mademoiselle non avrebbe esitato a riprendere la polemica in prima persona, sia nei Portraîts che nell’ Histoire de la Princesse de Paphlagonie. Intanto, con Les nouvelles francaises, Segrais sceglieva Saint-Fargeau e le sue nobili dame per lanciare il nuovo dibattito estetico che doveva preparare il terreno alla nascita del romanzo francese moderno. Scelta non casuale, se il suo amico Huet, una quindici-
na d’anni dopo, associava «l’altissimo livello di eleganza e di arte al quale i francesi hanno portato i romanzi» alla «raffinatezza della galanteria » e alla suprema autorità delle donne in materia di stile e di gusto.! Intanto, anche la retraîte della principessa a Saint-Fargeau
stava volgendo al termine. Dopo le crisi domestiche, la primavera aveva portato a Mademoiselle due buone notizie: un decreto reale poneva fine al contenzioso tra lei e Gastone a proposito dell’eredità della madre, permettendole di disporre del suo immenso patrimonio, e una sentenza del Parlamento le restituiva Champigny, il feudo avito dei 1. Lettre-traité de Pierre-Daniel Huet sur l’origine des romans, édition du tricentenaire 1669-1969, a cura di Fabienne Gégou, Nizet, Paris, 1971, p. 139.
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La civiltà della conversazione
Montpensier di cui si era iniquamente appropriato Richelieu. Inoltre, alla fine di luglio, la principessa otteneva il permesso di recarsi a Sedan per ricevere il perdono della famiglia reale. Iniziava così per la principessa il periodo migliore della sua vita. Superata nobilmente la prova dell'esilio, forte di una più matura conoscenza di sé, Mademoiselle guardava con ottimismo al futuro. In attesa di riprendere pienamente il suo posto accanto alla famiglia reale e di trovare una soluzione al delicato problema del suo matrimonio, la prin-
cipessa riscopriva Parigi, ritrovava le gioie della vita di società e, lanciando il «gioco dei ritratti», dimostrava di sape-
re dettar legge in fatto di moda.
IL GIOCO
Come
DEI RITRATTI
di consueto, era stata Mademoiselle
de Scudéry a
indovinare per prima il gusto del pubblico e a lanciare la moda dei ritratti. Dotata di una straordinaria capacità di osservazione, continuava a raccontare, di romanzo in romanZO, sotto i travestimenti più vari, un’unica storia, quella della società del suo tempo. Forse è vero che mancava d’immagi-
nazione e sapeva solo descrivere la gente che conosceva: a volte i suoi personaggi erano talmente riconoscibili che il fratello doveva intervenire per attenuare le somiglianze; nel Grand Cyrus, tuttavia, un talento che fino allora poteva essere stato involontario era diventato intenzionale, e Mademoi-
selle de Scudéry aveva iniziato a sollecitare la curiosità del
pubblico con una serie di ritratti a chiave di alcuni celebri protagonisti della vita mondana, dal principe di Condé a Madame de Rambouillet e a sua figlia Julie. La risposta dei lettori era stata immediata, e la scrittrice ne aveva fatto tesoro aumentando progressivamente, volume dopo volume, nell’arco dei quattro anni della pubblicazione (1649-1653),
il numero dei ritratti contenuti nel romanzo. Sull’onda del
successo, Mademoiselle de Scudéry completava il suo censimento della società contemporanea in un nuovo libro. Tra il
1654 e il 1660 pressoché parigino avrebbero avuto «doppio » ideale in Clélie. ne» scritto non era nuova
tutti gli esponenti del bel mondo la sorpresa di incontrare il loro L'idea del profilo, del «medaglioe vantava precedenti letterari illu-
La Grande Mademoiselle
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stri, ed esattamente un secolo prima dell’exploit di Mademoiselle la bella traduzione di Amyot aveva consentito anche ai non savants di leggere le Vite di Plutarco, e la letteratura mondana aveva già fatto ricorso, in prosa come in versi,
alle risorse celebrative del ritratto. Quando, verso il 1640, Voiture aveva lanciato la moda delle metamorfosi, seguito subito da Chapelain, Malleville e Saint-Amant, l’«àme du
rond» si era divertito a trasformare Julie d’Angennes in diamante e Mademoiselle Paulet in perla. E a partire dai primi anni Cinquanta, anche Segrais ritraeva Mademoiselle e le sue dame di compagnia vestite da ninfe nell’Athys, e in abiti
contemporanei nelle Nouvelles francaises. Mentre le opere di Segrais celebravano la cerchia esclusiva di una grande principessa, i romanzi di Mademoiselle de Scudéry diventavano,
sia pure in codice, il bottin mondain
del bel mondo parigino. Tutte le dame, a cominciare dalla contessa di Fiesque, desideravano figurare nell’empireo romanzesco di Mademoiselle de Scudéry e la scrittrice, malgrado la sua straordinaria operosità, faticava a tener testa
alle troppe richieste. Ne avrebbe subito approfittato uno scrittore assai meno elegante ma ugualmente informato, Antoine Baudeau de Somaize. Il suo Grand dictionnaire des Prétieuses era il certificato di nascita di un'idea base della vita sociale moderna: la lista. Una lista degli inclusi nel mondo dei privilegiati, che però appassionava anche gli esclusi e li trasformava in voyeur. Una lista che chiunque, da quel momento
in poi, coltiverà ambizioni sociali dovrà aver cura
di studiare e aggiornare regolarmente. Una lista i cui criteri di scelta potranno mutare a seconda delle epoche e degli interessi, ma il cui obiettivo essenziale rimarrà invariato nei
secoli: stabilire l’elenco delle persone che contano. In una società in cui gli individui sviluppavano una coscienza sempre più acuta del proprio apparire, potersi vedere attraverso lo sguardo altrui non rappresentava solo un piacere narcisistico: era un’occasione preziosa di osservarsi dall’esterno, di confrontare l’immagine che ciascuno coltivava di sé con la buona riuscita del proprio personaggio. È non era impossibile che, contemplando il proprio ritratto idealizzato, si provasse il desiderio di emularlo o di correggerlo. Fino ad allora gli scrittori professionisti avevano avuto il monopolio del gioco, ma ormai era tempo che esso passas-
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La civiltà della conversazione
se nelle mani di coloro che soli detenevano il diritto di giudicarsi e di giudicare. Ed era Mademoiselle de Montpensier ad assumere l’iniziativa per prima. Ignorando sdegnosamente l’esempio di Mademoiselle de Scudéry, ella decideva
di scrivere il proprio autoritratto dopo aver letto quelli delle sue due amiche, la principessa di Tarente e la principessa di La Trémoille, le quali avevano scoperto il gioco in Olanda,
dove la moda dei ritratti era allora imperante. Staccato dalla sua cornice letteraria, il ritratto diventava un semplice di-
vertissement, frutto del puro estro individuale ed esplicita affermazione del proprio io. Per molto tempo, farsi ritrarre era stato un privilegio esclusivo dei nobili; scegliendo la forma dell’autoritratto e incitando gli amici a seguire il suo esempio, Mademoiselle
si arrogava il diritto di contravvenire a una delle regole base delle dienséances, quella che proibiva di parlare di sé. Come aveva già fatto nei Mémotres, Mademoiselle optava per la sincerità, sebbene
i ritratti fossero destinati a una circola-
zione immediata tra un numero molto maggiore di persone. La libertà con cui la principessa descriveva se stessa doveva guidare la sua penna anche nella descrizione degli altri. Nei suoi ritratti, Mademoiselle de Scudéry aveva messo il suo grande acume psicologico al servizio dell’amor proprio altrui: con tatto e delicatezza, senza mai deporre il suo congenito ottimismo, la scrittrice valorizzava le qualità più
nascoste, tacevà o mascherava i difetti più vistosi, ingentiliva, abbelliva, esaltava. Mademoiselle,
invece, fatta eccezio-
ne del re, non si preoccupava di compiacere nessuno e si serviva del privilegio della nascita per abbandonarsi deliziosamente ai capricci della sua ispirazione. Per dodici mesi, dal novembre del 1657 al novembre del-
l’anno successivo, a Champigny, a Saint-Fargeau, a Parigi, a Forges, a Fontainebleau, Mademoiselle, i suoi amici e gli amici dei suoi amici si divertirono a scrivere e a scambiarsi ritratti, suscitando l'emulazione di un numero crescente di esponenti del bel mondo. Davanti al dilagare della moda, Mademoiselle sentiva il bisogno di chiudere il gioco, conservandone la forma irripetibile di divertimento esclusivo di una piccola cerchia di iniziati. Dopo aver consentito al ritratto di emanciparsi da ogni servitù letteraria e di vivere in libertà, la principessa lo sottraeva ai pericoli dell’effimero e gli offriva una nuova cornice, il recueil, perfettamente com-
patibile con l’autonomia delle singole pièces détachées. Ma i
La Grande Mademoiselle Divers Portraits, affidati alle cure
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editoriali di Segrais e di
Huet, e pubblicati a Caen in un numero limitatissimo di copie — trenta secondo Segrais, sessanta stando a Huet — nei
primissimi giorni del 1659, non erano semplicemente una raccolta, erano la raccolta di Mademoiselle. Aveva lanciato l’idea, scelto i partecipanti — per la quasi totalità nobili —, scritto più ritratti di ciascuno degli altri — sedici su un totale di cinquantotto —, e soprattutto aveva organizzato il materiale raccolto secondo un criterio soltanto suo. Preceduto per ragioni di cortesia dall’autoritratto dei tre personaggi più importanti che avevano preso parte al gioco, il principe e la principessa di Tarente e la principessa di La Trémoille, il lungo autoritratto di Mademoiselle rappresentava la soglia liminare di un mondo che ruotava interamente intorno a lei. Ancora due suoi ritratti in versi attendevano il lettore: quello scritto dalla contessa di La Suze, al centro del Recueil, e l’altro, assai più lungo e impegnativo,
di Segrais, che chiudeva il volume. La principessa incominciava col presentare le sue dame, disposte in cerchio attorno alla ritrattista come in un quadro di Watteau. Ma, avanzando nella lettura, tutto ci induce
a pensare che per Mademoiselle il gioco del ritratto travalicasse il puro divertimento e obbedisse a una logica estremamente personale. Un ritratto poteva infatti nascere da uno slancio di simpatia o da un gesto d’ammirazione, costituire un attestato d’amicizia, premiare un servitore fedele,
consolare una persona in disgrazia, rendere omaggio alla famiglia reale; ma poteva anche punire, vendicare, irridere o, più semplicemente, screditare.
Mademoiselle aveva infine un regno tutto per sé, il pays de portraiture,' di cui ella sola conferiva il diritto di cittadinanza e decideva le leggi. Leggi morali, leggi mondane,
leggi estetiche. La sua libertà sovrana si annunciava attraverso la scrittura. Mademoiselle de Scudéry costruiva i suoi ritratti secondo
uno
schema fisso, facile da imitare anche
per i dilettanti. Si partiva dalle caratteristiche fisiche della persona ritratta per passare alle sue attitudini sociali e mondane, e chiudere poi sulle «qualità dell'anima», avendo cu-
ra di sottrarre il proprio modello agli incidenti del tempo e della vita; Mademoiselle de Montpensier, invece, non rispet1. Cfr. la satira di Charles Sorel, La description de l’Isle de portraiture et de la
Ville des portraîts, C. de Sercy, Paris, 1659.
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La civiltà della conversazione
tava alcun ordine prestabilito e inventava di volta in volta un procedimento diverso. Abbordava con la massima libertà il suo personaggio, dialogava con lui o lo metteva direttamente in scena dandogli la parola; lo descriveva in movimento e nel tempo, nelle sue qualità come nei suoi difetti, nel fulgore della giovinezza, nel ricordo della bellezza passata, nella maturità, nella vecchiaia.
Niente di meno oggettivo, di meno distaccato del suo approccio: ritraendo gli altri Mademoiselle continuava a raccontare se stessa, i suoi gusti, i suoi umori, nella incrollabile
sicurezza del suo giudizio e della sua superiorità sociale. Il suo disdegno delle regole e dei modelli la spingeva a una sperimentazione letteraria che illustrava audacemente a letterati e mondani tutte le risorse del nuovo genere. Nonostante ciò, il ritratto conservava per Mademoiselle il suo carattere di gioco, e nel corso della raccolta la sua voce si al-
ternava a quella degli ospiti, e il suo virtuosismo incoraggiava l'emulazione generale. Alcuni (quattordici in tutto) accettavano la sfida dell’au-
toritratto, gli altri preferivano non parlare di sé e si cimentavano nel dipingere gli amici: si poteva figurare nel Recueil o come artisti o come modelli, o in entrambi i ruoli. Ci si poteva scrivere reciprocamente il ritratto, ma la stessa persona poteva averne più d’uno senza tuttavia risultare fra gli autori del volume. La badessa di Caen, figlia virtuosa della duchessa di Montbazon, contribuiva ai Divers Portraits con il proprio autoritratto e con il ritratto del concittadino Huet,
il quale la ricambiava ritraendola a sua volta. Madame de Brégy invece, pur avendone composti ben cinque, non era nel numero
delle
dame
raffigurate,
mentre
Madame
de
Choisy, appena colpita da un ordine d’esilio, era confortata da due ritratti affettuosi e, a sua volta, consolava la duches-
sa d’Epernon a cui Mademoiselle aveva dedicato uno dei suoi profili più pungenti. La nobile famiglia dei Brienne era forse quella che offriva il campionario più ampio di ruoli: la contessa di Brienne, ritratta da Mademoiselle, si misurava con il ritratto della regina, mentre, la figlia, la marchesa di Gamaches, ritraeva entrambi i genitori e la nuo-
ra, giovane contessa di Brienne, sceglieva di autoraffigurarsi. Simile a un grande conversation piece, il Recueil di Mademoiselle ci mostra tutti gli invitati intenti a parlare di sé, degli altri e, in larga misura, dei problemi relativi alla loro rap-
La Grande Mademoiselle
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presentazione sociale. È una conversazione prevalentemente femminile — dei ventotto autori solo sette sono uomini -,
il cui argomento sono soprattutto le donne stesse: su trentasei ritratti ventitré sono di donne, e su quattordici autori-
tratti solo due sono di mano maschile. I ritratti si concentrano in generale sul modo in cui le persone rappresentate si espongono al giudizio del mondo;
e alcuni temi sono talmente ricorrenti che ci aiutano a capire come, già alla fine degli anni Cinquanta, le bienséances
non rispecchiassero più un corpo di regole chiare e immediatamente riconoscibili, ma avessero bisogno di una esegesi continua e si affidassero a un sistema di sfumature via via più difficile e complesso. Se nei Divers Portraits la conversazione è quasi sempre indicata come uno degli elementi rivelatori della personalità e se, dato il contesto femminile
e mondano,
sono
le con-
versazioni «briose» ad avere la meglio su quelle più serie, tra amici, o sulle conversazioni dotte, emerge con evidenza
che la giocosità ha bisogno di una vigilanza continua per non trasformarsi in offesa. «Esiste un modo delicato e lusinghevole di prendere in giro una persona, che consiste nel parlare solo dei difetti che la persona in questione è disposta ad ammettere, nel saper mascherare gli elogi che le si rivolgono sotto le parvenze di rimproveri, e nel rivelare quel che di amabile vi è in lei fingendo di volerlo nascondere » scrive La Rochefoucauld:' prendere delicatamente in giro qualcuno poteva dunque essere la forma più sottile di complimento, poiché poneva una persona al centro dell’attenzione e suscitava un moto generale di cordialità e di simpatia nei suoi confronti. Certo, per farlo, bisognava dar prova di leggerezza, di acume psicologico e di tatto, riuscendo a individuare uno spunto ironico, un’inclinazione, una preferenza, una debolezza, in cui l'elemento comico
fosse perfettamente compatibile con la dignità e la grazia. Era questa la belle raillerie, l’arte della garbata presa in giro, che Mademoiselle
lodava in Madame
de Montglas, e da-
vanti alla quale anche i diretti interessati non potevano fare a meno di sorridere. Ed era precisamente dalla raz/lerie deli1. «De la différence des esprits», in Ré/lexions diverses, XVI, in Maximes, ed.
Cit: pazi9: 2. Cfr. «Portrait de Madame de Monglat, fait par Mademoiselle », in Divers Portraits, cit., p. 111.
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La civiltà della conversazione
cata di cui era stata lei stessa oggetto che Madame de Monglas aveva acquisito in massimo grado la sua «scienza del mondo e l’arte del saper vivere ».! «Stare alla celia», capire
lo scherzo era una qualità così connaturata all’esprt de société che la regina non esitava a dare il buon esempio* e Luigi XIV stesso sapeva scherzare piacevolmente.® Eppure, anche se accompagnato dalle migliori intenzioni del mondo, quello della celia era un gioco pericoloso — equi valeva a «danzare sui fiori ai bordi di un precipizio » —,' e tutti ne erano consapevoli. La principessa di Tarente preferiva smorzarne gli eccessi, evitando la «celia pungente »;° la giovane contessa di Brienne riconosceva di indulgere alla celia, ma precisava subito di non essere «maldicente »,° e lo stesso faceva la marchesa di Maulny.” Bastava un elemento «umorale » a rendere pericolosa l’ «inesauribile » verve di Madame de Fiesque,* e una diversa disposizione dell’animo poteva imprimere agli «scherzi fini e spirituali » il marchio della cattiveria. Un altro termine altamente ambiguo, di cui il linguaggio mondano non sapeva fare a meno, e che ritorna sovente nei Portraits, è «compiacenza ». Nella sua accezione originaria, la compiacenza era inseparabile dalla politesse e indicava la volontà, comune alla maggior parte delle persone di mondo,
di non entrare in conflitto con la personalità del-
l’interlocutore ma di mostrargli anzi una disponibilità senza riserve, anche a costo di fare violenza al proprio carattere.
«Sono briosa con coloro che mi piacciono, » faceva dire
Mademoiselle de Montpensier a Mademoiselle Melson «e la mia compiacenza verso di loro è così grande che, sebbe1. Ibid., p. 110. 2. Cfr. «Portrait de la Reyne, fait par Madame de Motteville », ibid., p. 245. 3. Cfr. «Portrait du Roy, fait par Mademoiselle»,
ibid., p. 268.
4. Ortigue de Vaumorière, L’art de plaire dans la conversation, cit., Entretien
XII,
«Avec quelle précaution il est permi de railler», p. 183.
5. Cfr. «Portrait de Madame la Princesse de Tarente, fait par elle mesme »,
in Divers Portraits, cit., p. 7. 6. «Portrait de Madame la Comtesse de Brienne la fille, fait par elle mesme», ibid, p. 136.
7. Cfr. «Portrait de Madame la Marquise de Mauny, fait par elle mesme», ibid., p. 129. 8. Cfr.
«Portrait d’Amaranthe, escrit par Mademoiselle », 20id., p. 89.
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ne abbia un temperamento malinconico, passo per essere di indole assai gaia »..' Ma non appena questa disposizione generale doveva fare i conti con la diversità delle condizioni che costituivano l’articolazione della società di Antico Regime, la parola «compiacenza» diventava sospetta, ed entrava in scena l’adulazione. Madame de Staél scriverà nel De l’Allemagne che in Francia, fino al 1789, la conversazione, facendosi interprete del-
l’alto grado di arbitrarietà delle istituzioni, bastava da sola a regolare i rapporti sociali e ad addolcire le differenze, dando a ciascuno ciò che gli era dovuto.’ In questo complesso sistema di relazioni, il modo di rivolgersi agli altri era anche una esplicita dichiarazione di identità, e imponeva prudenza e misura. Praticata fra uguali, la compiacenza era una gara di educazione, ma se uno dei due interlocutori occupava
— o semplicemente presumeva di occupare — una posizione più elevata, un eccesso di cortesia diventava improvvisamente rischioso. Bastava un piccolo passo falso e la compiacenza scivolava pericolosamente verso l’adulazione, esattamente come la celia poteva degenerare nella maldicenza. In entrambi i casi era impossibile tracciare una netta linea di demarcazione, e soltanto «la scienza del mondo»
e
l’arte delle
sfumature consentivano di mantenersi sul filo del crinale. Se Mademoiselle,
dall’alto del suo piedistallo, poteva ri-
solvere facilmente il problema, dichiarando di non praticare la compiacenza ma di pretenderla dagli altri, gli autoritratti delle sue nobili amiche rivelavano come anche all’interno dell’élite più esclusiva alcune parole chiave del codice mondano potessero prestarsi a notevoli oscillazioni di significato. La principessa di La Trémoille non aveva dubbi: « plaudiva alla compiacenza» con uno slancio pari all’« avversione » che provava per l’adulazione e non mostrava di credere che tra i due comportamenti potesse insorgere il minimo equi1. «Portrait de Mademoiselle
Melson», in La galere de portraits de Mlle de
Montpensier, Nouvelle édition par M. Edouard de Barthélemy, Didier, Paris, 1860, pp. 204-206, citato in Pelous, op. cit., p. 206.
2. Madame de Staél, De l’Allemagne, cronologia e Introduzione di Simone Balayé, 2 voll., Garnier-Flammarion, Paris, 1967, vol. I, pp. 105-106. 3. Cfr. «Portrait de Mademoiselle, fait par elle mesme », in Divers Portratts, CIC paso:
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voco.' Ma sua figlia aveva già perso la sicurezza materna, e il timore di essere fraintesa condizionava persino il suo modo di agire: «la paura di incorrere in quest'accusa mi induce spesso a essere meno compiacente di quanto dovrei ».° Per la principessa di Tarente, che «si piccava di essere del tutto compiacente, senza mai indulgere però all’adulazione »? quest’ultima non era un marchio infamante, ma un inutile eccesso di zelo. La badessa di Caen era la sola ad affrontare il problema - come avrebbe potuto fare il cavaliere di Méré — dal punto di vista dell’ honnéteté, attribuendo alla compiacenza un valore morale: «Preferisco non contraddire, an-
che se sono di opinione opposta a quelle degli altri: ciò dipende dalla mia compiacenza. Posso persino affermare che per me la compiacenza è una virtù, perché, quantunque sia portata ad averne per inclinazione, me ne servo secondo ragione e mai per viltà ... e se, talvolta, la compiacenza può costringermi a tacere, non mi costringe mai a dire cose che non sento ».‘ Rovesciando la prospettiva e ammettendo di essere sensi bile «alla compiacenza senza per questo amare l’adulazione», la duchessa di Vitry ricordava implicitamente come l’adulazione mondana trovasse il suo più severo censore nell’orgoglio della persona incensata. Per poter piacere, i complimenti dovevano essere credibili, altrimenti rischiavano di diventare offensivi. «Apparire e occupare degnamente il proprio posto nel mondo »,° «essere veramente ciò che si vuole apparire »:” di-
vise tra due esigenze difficilmente conciliabili, le donne di questi ritratti si pensano e vivono attraverso lo sguardo de1. Cfr. «Portrait de Madame la Duchesse de la Trimoùille, fait par elle mesme», 20id., p. 19. 2. Cfr. «Portrait de Mademoiselle de la Trimoùille, fait par elle mesme», ibid., p. 10. 3. Cfr. «Portrait de Madame la Princesse de Tarente, fait par elle mesme »,
ibid., p. 4. 4. Cfr. «Portrait de Madame
l’Abbesse de Caen, escrit par elle mesme»,
ibid., p. 59.
5. Cfr. «Portrait de Madame la Duchesse de Vitry, fait par elle mesme», ibid., p. 141. 6. «Portrait de Madame
la Princesse de Tarente, fait par elle mesme»,
ibid., p. 7. 7. «Portrait de Madame la Duchesse de la Trimoùille, fait par elle mes-
me», ddid., p. 17.
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gli altri. Tacciono gli affetti privati e, in attesa che entri in scena la devozione e «Dio tocchi loro il cuore »,' le uniche
passioni ad aver diritto a mostrarsi sono il desiderio di gloria, l'orgoglio, le ambizioni della propria famiglia. Al tempo stesso, però, la scena mondana, essendo il luogo dove si
è ciò che si appare, permette a ciascuno, dietro la maschera delle bienséances, di praticare l’amicizia, coltivare il «gusto delle cose belle », conversare, scherzare, ridere, sedurre, e forse, sia pur per un breve momento, essere felici.
Nei Divers Portraits, soltanto Mademoiselle, compenetrata dell’idea della sua superiorità naturale, indulgeva al lusso della sincerità, salvo poi smentire con i fatti alcune delle sue dichiarazioni più stentoree. Come conciliare, infatti,
ciò che ella affermava nel suo autoritratto — «rifuggo dalla maldicenza e dalla celia, anche se conosco meglio di chiun-
que altro il lato ridicolo della gente » — con la satira crudele delle Preziose? Nuova e audace, l’idea di un «ritratto collettivo» (che aveva tentato anche Tallemant des Réaux) nasceva in Ma-
demoiselle dal desiderio di regolare in una volta sola tutta una serie di conti in sospeso. Nel suo ritratto di Amaranthe, la principessa non aveva certo risparmiato Madame de Fiesque, che aveva descritto bella ma sporca, brillante conversa-
trice ma senza talento nello scrivere, sprovvista di gusto e con «uno spirito del tutto privo di delicatezza», con degli slanci di devozione che le duravano meno del tempo necessario per farsi confezionare un cilicio, troppo preoccupata di piacere, frivola, superficiale. Eppure questa lista di perfidie non aveva placato la principessa, e il fatto stesso di essere stata costretta a concludere: «con tutto ciò, quando la
si vede la si ama» contribuiva probabilmente ad alimentare il suo risentimento. Prima di riaprire direttamente le ostilità contro la sua ex dama di compagnia nella Princesse de Paphlagonie, Mademoiselle si vendicava di Mademoiselle d’Aumale
e di Mademoiselle
d’Haucourt,
che avevano
tradito
Mademoiselle de Vandy per la contessa di Fiesque, pren1. «Portrait de Madame la Duchesse d’Espernon, escrit par Mademoiselle», ibid., p. 80.
2. «Portrait de Mademoiselle, fait par elle mesme», 20d., p. 31. 3. «Portrait d’Amaranthe, escrit par Mademoiselle », 20id., p. 93.
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dendole a modello per la sua caricatura delle Preziose. Ma l’antipatia personale coincideva qui con una polemica più generale che investiva nella sua totalità un comportamento sociale e uno stile di vita. Il ritratto di Mademoiselle ci pone di fronte a uno dei problemi più discussi e controversi della cultura francese del XVII secolo, quello delle Preziose e della loro vera identità storica. Per un singolare paradosso sembrerebbe infatti che queste donne, che avevano suscitato scandalo per non essersi mostrate disposte a rinunciare al proprio «prezzo», al proprio intrinseco valore, non abbiano lasciato traccia se non nella letteratura satirica, di cui il ritratto di Mademoi-
selle costituisce uno dei testi fondatori: paradosso con cui deve fare i conti chiunque si interroghi sulle Preziose al plurale, sulla loro esistenza sotto forma di gruppo o di «setta». Possiamo prendere come certificato di nascita del movimento una lettera del cavaliere di Sévigné del 3 aprile 1654: «A Parigi c'è un tipo particolare di fanciulle e di donne chiamate “preziose”, che usano un linguaggio e hanno un aspetto e un'andatura meravigliosi: e c'è una carta fatta apposta per navigare nel loro paese ».! La carta a cui si faceva allusione era probabilmente opera di un frequentatore della cerchia di Gastone d’Orléans, il marchese
di Maulévrier, e sarebbe stata pubblicata solo
nel 1659, al culmine della voga delle Preziose. Tra il 1654 e il 1661, le occupazioni
e le aspirazioni intellettuali
della
«setta» diventavano infatti l'oggetto di una intensa campagna che avrebbe avuto come tappe fondamentali La Prétieuse (1656-1658) dell’abate di Pure, Les Précieuses ridicules di Molière (1659) e le due edizioni successive (1660 e 1661)
del Grand dictionnaire des Prétieuses di Somaize. Per sette anni, nel bene e nel male, esse avrebbero fatto parlare di sé
con l’effimera intensità dei fenomeni alla moda, per poi dileguarsi nel nulla. Questo corpus di testi, per la maggior parte sommamente ambigui, è stato oggetto delle letture più varie. Si è voluto risalire, attraverso una dotta ricerca delle chiavi, dalla carica-
tura letteraria ai modelli originali, dando per scontata l’esistenza delle Preziose; ma si è anche ipotizzato che esse fosse1. Correspondance du chevalier de Sévigné et de Christine de France, duchesse de Savoie, a cura di Jean Lemoine e Frédéric Saulnier, H. Laurens, Paris, 1911, p. 246, citato in Pelous, op. cit., p. 309.
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ro semplicemente un’astrazione, la personificazione di una perdita del senso della misura pericolosa per l’equilibrio mondano, o una pura invenzione della misoginia maschile. Quel che è ormai certo è che, a partire dagli anni Quaranta, una «pleiade » di donne occupava un posto di primo piano nella vita mondana della capitale. Per ciascuna di loro — fino a ora ne sono state identificate più di centotrenta —,
quasi tutte esponenti dell’alta aristocrazia, l’aggettivo qualificativo di « preziosa » veniva sempre usato al singolare, era esente da qualsiasi connotato negativo ed era sinonimo di delicatezza, raffinatezza, distinzione.
Già nel 1638, Voiture si rivolgeva a Julie d’Angennes come alla «cosa più preziosa del mondo».' Indubbiamente l’aggettivo conservava ancora il senso di «amabile, grazioso, carino » che la parola aveva in spagnolo e non rivestiva esattamente lo stesso significato che avrebbe assunto in seguito il sostantivo. Ma il fatto stesso che 1’ «àme du rond» se ne servisse per adulare una donna, e che questa donna fosse la figlia di Madame
de Rambouillet, mostra come nella Came-
ra azzurra fosse invalsa l’abitudine di usarlo per lodare le donne. E Tallemant des Réaux indicava senza esitazione la figlia secondogenita di Arthénice, Angélique — che ostentava un’avversione aperta per il matrimonio e un purismo linguistico che prefigurano gli eccessi poi imputati alle «Preziose ridicole » degli anni Cinquanta —, come uno degli « originali» a cui si era ispirato Molière scrivendo la sua farsa. Anche se la vita mondana si caratterizzava per la sua circolarità e la sua fluidità, dunque, le nobili dame che si atti-
ravano la qualifica di Preziose frequentavano di preferenza gli stessi luoghi ed erano spesso legate fra loro. Basti pensare all’ininterrotta catena d’amicizia che univa Julie d’Angennes, Madame de Longueville, Madame de Montpensier, Madame de Sablé, Madame de Maure, Mademoiselle de Vandy, Madame de La Fayette, Madame de Sévigné, per
non citare che i nomi più celebri. Esse condividevano certo l’interesse per la letteratura e l’amore per la lingua, la passione per la conversazione e l’acume psicologico, la raffinatezza dei modi e l’intransigenza del gusto, ma nessuno
di
questi elementi era appannaggio esclusivo della tipologia 1. Cfr. Alexandre
Cioranescu,
Précieuse, in «Baroque»,
3-4, p. 82. 2. Tallemant, Histoniettes, cit., vol. II, p. 894.
dicembre
1969,
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«preziosa»: erano piuttosto tratti comuni alla nuova cultura mondana. Anche il culto dell’eroismo e della gloria che connotava il femminismo della Fronda non costituiva una novità assoluta per le donne dell’aristocrazia, e una insigne tradizione letteraria contribuiva ad alimentare le loro fantasie guerriere. Alcune di loro mostravano senza dubbio una resistenza più o meno dichiarata ai vincoli del matrimonio e un sentimento di ripulsa per l’amore; non tutte, però, davano prova di uguale intransigenza né si erano sempre negate ai loro adoratori.
Molte
erano
malate
immaginarie,
soffrivano
di
manie, tradivano i segni di una patologia isterica, ma vi era anche chi, come Mademoiselle, vantava una salute di ferro. Nelle donne «preziose», tuttavia, questa diversità di inclina-
zioni e di modi era riconducibile a una volontà comune che dava al loro comportamento un carattere inconfondibile. Virile o delicata, austera o frivola, libertina o sessuofoba,
la «preziosa» coltivava un’alta idea di se stessa e del rispetto che le era dovuto, e questo atteggiamento non era soltanto frutto dell'orgoglio di casta, ma nasceva dalla tragica consapevolezza della fragilità della condizione femminile. I privilegi di cui ella godeva in seno alla società aristocratica non modificavano la sua situazione di inferiorità giuridica e non impedivano che, nella grande maggioranza dei casi, altri decidessero del suo destino. Ma accettare l’ineluttabile, trovarsi in balîa di un marito non amato, rischiare la vita a
causa di maternità indesiderate, non implicava necessariamente un atteggiamento di rassegnazione: la preziosa rimaneva infatti fedele a se stessa, si ascoltava, si analizzava, si
possedeva saldamente. Forte del potere conferitole dalle bienséances, ella dava la misura di ciò che valeva nella zona
franca della mondanità: lì poteva esercitare liberamente la sua intelligenza, imporre la sua sensibilità, abbandonarsi ai
piaceri incorporei dell’esprit; lì le era consentito scegliere ed esigere, sedurre e negarsi, e trionfare finalmente sulla realtà imprigionandola nella metafora. Per questo la letteratura e la lingua assumevano per la « preziosa» un’importanza senza uguali: non le consentivano solo di rifugiarsi nel regno dei sogni e delle emozioni estetiche, di raffinare sempre più la sua sensibilità e il suo gusto, ma le insegnava- . no il potere fondante della parola. Parlare e scrivere diventavano per lei un atto creatore: per lei esisteva solo ciò che accettava di nominare.
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All’hétel de Rambouillet la Grande Mademoiselle aveva scoperto la sensibilità preziosa e l’arte della distinzione mondana.
Coltivava
un
ideale
femminile
eroico
e casto,
prediligeva la compagnia delle donne, non subiva l’attrazione dell’amore,
e le sue amicizie femminili,
la sua inti-
mità con Madame de Fiesque e «le Divine», poi con Mademoiselle de Vandy, la poneva al centro della costellazione preziosa formatasi nei primi anni della reggenza. Perché allora, servendosi proprio del più prezioso dei generi letterari, vale a dire del ritratto, smentiva così clamorosamente se
stessa e muoveva guerra alle nuove Preziose nel momento in cui esse trovavano la forza di rivendicare pubblicamente le loro aspirazioni? E la sua presa di posizione era davvero così sorprendente? Per rispondere a questa domanda non sarà inutile soffermarsi sullo slittamento di significato del termine « preziosa» dall’aggettivo al sostantivo, dal singolare al plurale, in seguito al quale la parola smette di contrassegnare una personalità di rilievo e rinvia piuttosto a una tipologia; perde ogni connotazione lusinghiera e diventa, a dir poco, sospetta. Ci si può chiedere che cosa fosse accaduto. A partire dal 1654, con il ritorno della stabilità e della pace, Pari-
gi viveva una stagione mondana simile per intensità solo a quella che seguirà alla morte di Luigi XIV: i salotti si moltiplicavano, la passione per la sociabilité conquistava un numero sempre maggiore di nobili e di borghesi, cambiavano le forme di intrattenimento, si diversificavano gli inte-
ressi dei cercles. La nobiltà rinunciava definitivamente ai suoi sogni di autonomia e di gloria e si rifugiava negli ozi mondani; l’alta borghesia ne approfittava per ridurre le sue distanze dal mondo dei privilegiati e ne mimava lo stile di vita; le amazzoni pugnaci erano costrette a ritirarsi dalla
scena politica e a trasferire le loro ambizioni nel regno della letteratura. Se nella prima metà del secolo era altamente disdicevole che le donne aspirassero a scrivere e a pubblicare, nel decennio successivo alla Fronda le scrittrici dilettanti si moltiplicavano, e la concezione stessa che la so-
cietà mondana coltivava della letteratura incoraggiava a prendere le penna in mano. Le signore partecipavano attivamente alla redazione dei giochi letterari che una volta erano monopolio dei Voiture, dei Cotin, dei Benserade — «bouts-rimés, enigmi, rebus, metamorfosi, rondò, madrigali,
lettere collettive in versi o in prosa, gazzette e cronache, ri-
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tratti».! Ma scrivere, come dimostra il contributo determinante dato dalle donne alla nascita del romanzo moderno,
non era necessariamente un puro passatempo per loro. Le responsabilità di Mademoiselle de Scudéry in questo prendere la parola da parte delle donne erano molteplici. Nella «Harangue de Sapho a Erinne», pubblicata nelle Fem-
mes illustres (1642), era stata lei la prima a rivendicare, discretamente ma fermamente, il diritto delle donne a colti-
varsi e a scrivere versi. I suoi romanzi promuovevano un modello di sociabilité che incoraggiava la curiosità intellettuale e il gusto dell’analisi psicologica, e la sua modestia, la sua diplomazia, il suo tatto le avevano consentito, sotto il velo trasparente dell’anonimato, di pubblicare i suoi libri e di
guadagnarsi la vita al riparo dalle critiche malevole. Ma ora, all’inizio degli anni Cinquanta, resasi finalmente indipendente dal suo tirannico fratello, forte del suo grande successo, Mademoiselle de Scudéry non si accontentava più di essere la romanziera della società mondana e indulgeva al piacere di avere un salotto tutto per sé. Le riunioni del sabato in rue de Beauce, nel Marais, erano molto diverse da
quelle della Camera azzurra. Gli habitué di Mademoiselle de Scudéry non appartenevano al mondo dell’aristocrazia ma a quello delle lettere: erano savants, critici, poeti, e sia le loro conversazioni che i loro divertimenti rivestivano un carattere di sperimentazione letteraria. Un piccolo gruppo di signore, non solo aristocratiche, ma anche borghesi, era
ammesso ad ammirare questa gara settimanale di brio intellettuale, di sensibilità e di del esprit. Sotto gli occhi dei suoi ospiti, la «ninfa del Marais» doveva scoprire di persona, ancor prima di teorizzarle in Clelie, le gioie dell’amor piatonico. Il percorso iniziatico a cui Mademoiselle de Scudéry-Saffo avrebbe sottoposto il suo giovane corteggiatore Pellisson-Acante, prima di investirlo del titolo di amico
del cuore, prendeva forma un giorno del 1653. Pellisson stesso ha raccontato l'origine della più celebre delle allegorie geografiche della letteratura amorosa, che di lì a poco avrebbe fatto le delizie dei lettori nel primo volume di Clé lie: «Nel corso di una conversazione del sabato sull’amici1. Linda Timmermans, L'accès des femmes à la culture (1598-1715). Un debat d’idées de SaintFrangots de Sales à la Marquise de Lambert, Champion, Paris, 1993, p. 181.
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zia, avendo Saffo operato una distinzione fra nuovi amici,
amici particolari e amici teneri, Acante le chiese a quale categoria egli appartenesse e gli fu risposto che faceva parte degli amici particolari. Ebbe allora l’idea di chiedere quale fosse la distanza tra Particolare e Tenero, e se un uomo che
viaggiava sempre in diligenza potesse sperare di arrivarvi tra novembre, il mese in cui avveniva quella conversazione, e febbraio, quello in cui sarebbe scaduto il periodo di pro-
va che gli era stato concesso. Gli fu risposto che questo dipendeva dall’itinerario che avrebbe seguito perché, se sbagliava strada, non sarebbe mai arrivato. Chiese quante strade ci fossero: gli fu risposto che si poteva andare via acqua, via terra e via cielo, e che stava a lui scegliere quale delle tre preferisse. Disse che sceglieva l’ultima, la più breve, e che avrebbe trovato il modo di volare ... Ulteriormente sviluppata, questa galanteria diede origine alla Carte de Tendre» Il gioco era meraviglioso e invitava all’emulazione; ed era fatale che Saffo stessa diventasse un modello da imitare. Il talento pedagogico di Mademoiselle de Scudéry e la specularità sempre più evidente fra il suo universo letterario e la vita reale contribuivano a fare dei suoi romanzi dei libri di formazione. E ciò era particolarmente vero per le donne borghesi, che non avevano avuto una iniziazione mondana ed erano generalmente vittime di una educazione molto meno liberale di quella riservata alle loro sorelle aristocratiche. Così, sia pure senza mai menzionare nelle sue opere il termine «preziosa», tanto la scrittrice che il suo personaggio venivano a incarnarne agli occhi del pubblico il prototipo perfetto. Mademoiselle de Scudéry era troppo intelligente e conosceva troppo bene il mondo per ignorare i pericoli a cui il suo modello andava incontro: una sola nota sbagliata bastava infatti a trasformare la donna di spirito in un personaggio ridicolo, privandolo di qualsiasi credibilità morale e mondana. Di conseguenza, nel momento stesso in cui,
giunta alla decima e ultima parte del Grand Cyrus, ella si presentava
ai suoi
lettori
nell’ Histoîre de Sapho, badava
a
prendere le distanze dalle sue imitatrici. Contrapponendo alla modestia e alla discrezione di Saffo la mancanza di mi1. Documents inédits sur la société et la littérature précieuses: extraits de la « Chronique» du Samedi, publiés d’après le registre original de Pellisson (1652-1657), pubblicati da Luc Belmont, in «Revue d’histoire littéraire de la France », IX (1902), 9, p. 671.
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sura della pretenziosa Démophile, la scrittrice anticipava la polemica a venire e introduceva la distinzione tra le autentiche e le false Preziose — e abbandonava queste ultime a un destino ridicolo. Ma la forza delle ammiratrici di Saffo consisteva precisamente nell’amare la provocazione e nel non temere gli eccessi. Nelle loro ruelles del Marais queste Preziose outrées, in preda a un
delirio di onnipotenza,
attenuavano
i SUONI,
filtravano le luci e mettevano in scena lo spettacolo di un mondo alla rovescia, dove la volontà e l’intelligenza trionfavano sulla natura e sull’istinto. «L’abate di Pure sosteneva che l’ingresso nella preziosità era come l’entrata in convento, e che il secondo voto pronunciato da una preziosa era
quello del “metodo nei desideri”»:' esse perseguivano dunque la pace dell’anima e la libertà interiore attraverso una scelta di atarassia e di perfetto controllo degli slanci del cuore. ; In una pagina di Saint-Evremond del 1656 (quando il movimento era solo agli albori) possiamo già trovare una critica penetrante delle Preziose: «Hanno detto alla regina di Svezia che le Preziose sono le gianseniste dell’amore, e la definizione le è piaciuta. Per le Preziose, l’amore è ancora un dio. Non eccita le passioni nelle loro anime, vi istituisce
una sorta di religione. Ma, per parlare in modo meno misterioso, la corporazione delle Preziose non è altro che l’u-
nione di un piccolo numero di persone, alcune delle quali, realmente delicate, hanno indotto le altre a ostentare la de-
licatezza in maniera ridicola. «Queste false delicate hanno tolto all’amore ciò che ha di più naturale, pensando di conferirgli qualcosa di più “prezioso”. Hanno trasferito una passione sensibile dal cuore alla mente e convertito gli affetti in idee. Questo grande processo di purificazione ha tratto origine da un onesto disgusto per la sensualità; ma così facendo esse si sono allontanate dalla vera natura dell’amore, non meno
delle volut-
tuose. Perché l’amore non ha a che fare né con la speculazione mentale né con la brutalità dell’appetito ».? Come si vede, lo scrittore libertino si guardava bene dal1. René Bray, La Préciosité et les Précieux, de Thibaut de Champagne à Jean Giraudoux, Nizet, Paris, 1968, p. 153.
2. Saint-Evremond, «Sur les Précieuses », in (uvres, a cura di René de Planhol, 3 voll., La Cité des livres, Paris, 1927, vol. I, p. 45.
La Grande Mademoiselle
l’emettere una condanna sommaria:
239
a suo giudizio, molte
di loro non erano affatto ridicole, e coltivavano preoccupazioni per nulla incomprensibili, ma tutte, vittime di un eccesso di intellettualismo, ignoravano la vera natura della di-
vinità di cui celebravano il culto. Per le nobili dame che si erano formate alla scuola di Madame de Rambouillet l’ideale prezioso poteva coabitare perfettamente con il conformismo mondano. Da un lato, il costume aristocratico consentiva alle donne un notevole margine di libertà nella scelta di uno stile di vita compatibile con le loro aspirazioni più personali; dall’altro, la sensibilità preziosa trovava sulla scena mondana il luogo dove affermarsi sotto il segno della raffinatezza e dell’eleganza, al-
l'ombra protettrice delle bdienséances. È precisamente alle bienséances che le Preziose degli anni Cinquanta pensarono di poter voltare impunemente le spalle, privandosi così della loro sola arma di difesa. Per la maggior parte di estrazione borghese, esse non godevano dei privilegi delle aristocratiche, non avevano una conoscenza sicura degli usi di mondo, e vollero manifestare ad alta voce le loro richieste
di libertà e di emancipazione, ignorando la discrezione e il buon gusto. Contavano sulla loro forza; erano tante da costituire un gruppo a sé, erano unite da uno spirito di corpo, erano confortate nella loro baldanza dall’euforia mondana e dalla lettura dei romanzi. Ma tutto ciò le rese clamorosamente visibili e le espose indifese alla satira. A differenza di Molière, Mademoiselle de Montpensier non capì l’originalità e la portata di un movimento che faceva della cultura la chiave di volta dell’emancipazione della donna. Le Preziose a cui dedicava il suo impietoso ritratto incorrevano nella sua disapprovazione essenzialmente per una questione di stile. Niente di più irritante, per lei, della pretenziosità e dell’artificiosità di un comportamento collettivo agli antipodi con il gusto aristocratico della vera distinzione e con l’estetica del naturel Se Mademoiselle non risparmiava colpi bassi alle sue nemiche - il ritratto che ne dava era caricaturale, ed esse vi erano raffigurate maleducate, brutte, povere —, la lezione che voleva dare loro era, in fondo, di classica semplicità: «Io sono una di
quelle persone per le quali si deve vivere con i vivi e non bisogna distinguersi in alcun modo per affettazione e per scelta. Se apparteniamo al resto del mondo, ciò deve avve-
nire sulla base dell’approvazione ottenuta dalla nostra con-
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dotta e grazie alla nostra virtù e non a un’affettazione che le è estranea ».!
Ma l’ottimismo di Mademoiselle non era destinato a durare. Il trionfo dei ritratti doveva costituire la sua ultima grande affermazione mondana; poi, tanto a corte che a Pa-
rigi, la sua stella avrebbe incominciato a declinare. Come quello delle Preziose, anche il gusto della principessa passava di moda. Poco alla volta Mademoiselle si rendeva conto che non vi erano più corone ad attenderla, e che la sua po-
sizione in seno alla famiglia reale perdeva fatalmente di importanza. Presto una nuova regina e una nuova Madame si sarebbero affiancate alla Regina Madre e avrebbero avuto la precedenza su di lei. Nella giovane corte, frivola e galante, che si andava costituendo intorno al sovrano, la morale
austera della vergine attempata e la sua cultura mondana di stampo Rambouillet apparivano improvvisamente fuori
tempo. Mademoiselle aveva probabilmente capito che non vi sarebbero più stati primi ruoli per lei nell’estate del 1660, mentre soggiornava con la corte a Saint-Jfean-de-Luz, accanto al confine spagnolo, in attesa che si concludessero le trattative di matrimonio tra Luigi XIV e l’Infanta. ImMmemore di avere predicato appena due anni prima alle tanto deprecate Preziose che si deve «vivere con i vivi e non bisogna distinguersi », Mademoiselle non esitava a cercare rifugio nella più preziosa delle utopie. In una serie di lettere indirizzate a Madame de Motteville, ella illustrava un progetto di retraite arcadica, a metà strada tra Saint-Fargeau e L’Astrée. Vestite da pastorelle, ritirate nella solitudine agreste, alcu-
ne dame di gran merito avrebbero passato la vita leggendo, meditando, chiacchierando. La presenza di qualche honnéte homme sarebbe servita a rendere la conversazione più interessante e più varia, senza però introdurre la minima nota galante. Basata sulla perfetta uguaglianza dei sessi, l’arcadia di Mademoiselle bandiva rigorosamente il matrimonio e l’amore, e il provvedimento non era solo di carattere cautelativo. Nel regno
dell’utopia, la vecchia amazzone
delusa
dalla politica ritrovava il gusto della lotta e incitava le donne a combattere per la propria libertà e a ribellarsi alle leg1.
«Portrait des Précieuses», in Divers Portraîts, cit., p. 302.
La Grande Mademoiselle
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gi del costume e del patriarcato. «Ciò che ha conferito la superiorità agli uomini è il matrimonio, » ella scrive «e ciò che ci ha fatte chiamare il sesso debole è la dipendenza a cui il sesso ci ha assoggettate, sovente contro la nostra volontà e per ragioni di famiglia di cui siamo state vittime. Usciamo una buona volta da questa schiavità! Che vi sia un posto al mondo dove si possa dire che le donne sono padrone di se stesse e che non hanno tutti i difetti che vengono loro attribuiti. Celebriamoci nei secoli a venire con una vita che ci consenta di vivere eternamente! ».'
Dieci anni dopo Mademoiselle era costretta a smentire se stessa e a sognare la propria schiavitù. Forte della propria diffidenza istintiva, sprezzante delle strategie praticate nelle ruelles, ella si imbatteva inaspettatamente nell’« Altro»,
quando aveva ormai varcato la soglia dei quarant’anni, e lo riconosceva per averlo incontrato nella letteratura. Si chiamava Antoine Nompar de Caumont, conte di Puyguilhem e poi duca di Lauzun, ed era di sei anni più giovane di lei. Non era né re, né imperatore, né eroe: di nobiltà
mediocre, aveva come
solo merito quello di piacere alle
donne e di essere il favorito del re. Per lui, per sposarlo, per
liberarlo dalla prigione a cui lo avrebbe involontariamente condannato, Mademoiselle si sarebbe umiliata, coperta di ridicolo, spogliata dei suoi titoli e delle sue ricchezze. Cele-
brato in segreto dopo la scarcerazione di Lauzun nel 1680, il matrimonio tanto sognato si sarebbe rivelato una terribile delusione, e Mademoiselle, indignata dalla oltraggiosa indifferenza dell'amato, si separava definitivamente da lui
nel 1684. In un’epoca in cui Mademoiselle de Scudéry aveva rinunciato da tempo a scrivere i romanzi che avevano suscitato i suoi sarcasmi, la principessa iniziava la più incredibile delle avventure. La celebre lettera sotto forma di indovinello, con cui Madame de Sévigné annunciava la notizia a Coulanges, giocava fino in fondo sull’effetto sorpresa: la sorpresa di una intera società davanti alla caduta dell’ulti1. Mademoiselle de Montpensier a Madame de Motteville, lettera II, in Lettres de Mademoiselle de Montpensier, des Mesdames de Motteville et de Mont
morency, de Mademoiselle Du Pré et de Madame la marquise de Lambert, Accompagnées de Notices biographiques et de Notes explicatives, A. Colin, Paris, 1806, p. 35.
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ma e più irraggiungibile di tutte le amazzoni. «Sto per dirvi la cosa più stupefacente, più sorprendente, più mirabolante, più miracolosa, più trionfale, più sbalorditiva, più inau-
dita, più singolare ... la cosa più rara, più comune, più clamorosa,
più segreta fino ad oggi, più brillante, più degna
d’invidia ... una cosa da non credere a Parigi (e come si potrebbe credervi a Lione?); una cosa che fa gridare miseri cordia a tutti ... Non posso decidermi a dirla; indovinatela: ve la do uno a tre. Non riuscite a indovinare? Ebbene, biso-
gna proprio che ve la dica: domenica Monsieur de Lauzun sposa al Louvre, indovinate chi? Ve la do uno a quattro, uno a dieci, uno a cento. Madame de Coulanges dice: in verità è ben difficile indovinarlo; è Mademoiselle de La Vallière? — Niente affatto, Madame. — Allora è Mademoiselle de Retz? —
Niente affatto, siete davvero provinciale. In verità siamo proprio stupidi, dite voi,
è Mademoiselle
Colbert? - Meno
che mai. — Sarà certamente Mademoiselle de Créquy. — Non ci siete. Allora devo proprio dirvelo: domenica [Monsieur de Lauzun] sposa, al Louvre, con il permesso del re, Mademoiselle, Mademoiselle de... Mademoiselle... indovinate il nome: sposa Mademoiselle, in fede, in fede mia, Mademoiselle, la Grande Mademoiselle; Mademoiselle, figlia del defunto Monsieur; Mademoiselle, nipote di Enrico IV, Mademoiselle d’Eu, Mademoiselle de Dombes, Mademoiselle de Montpensier, Mademoiselle d'Orléans; Mademoiselle, cugina germana del re; Mademoiselle, destinata al trono; Ma-
demoiselle, il solo partito di Francia che sarebbe stato degno di Monsieur. Ecco un bell’argomento di conversazione. Se gridate, se siete fuori di voi, se dite che abbiamo mentito, che è falso, che vi si prende in giro, che si tratta di una bella celia, che è una trovata insulsa; se, in conclusione, ci lanciate delle ingiurie, troveremo che avete ragione; è ciò che abbiamo fatto anche noi ».!
1. Madame de Sévigné a Coulanges, 15 dicembre
ce, cit., vol. I, pp. 139-40.
[1670], in Correspondan-
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MADAME
DE SEVIGNE E MADAME DE LA FAYETTE: UNA LUNGA AMICIZIA
Des ouvrages du Ciel le plus parfait ouvrage, Ornement de la cour, merveille de notre age,
Aimable Sévigné dont les charmes puissants Captivent la raison et maîtrisent les sens... Nell’estate del 1652, mentre la Fronda consumava le sue
ultime speranze e la Grande Mademoiselle si disponeva a prendere
la via dell’esilio,
Miscellanea,
un
libro fresco
di
stampa che raccoglieva gli scritti di Gilles Ménage, consacrava la reputazione di un astro nascente della vita mondana con un poemetto di circa duecento versi, Le Pécheur ou Alexis, dedicato alla marchesa di Sévigné.' L’anno successivo la giovane vedova avrebbe fatto ritorno nella capitale finalmente pacificata, irradiando la sua gioia di vivere nei cercles parigini. La marchesa discendeva, per parte paterna, dall’antico casato borgognone dei Rabutin-Chantal; per parte materna, da una famiglia di ricchi borghesi parigini, i Coulanges. Fin dalla più tenera infanzia era rimasta orfana di entrambi i genitori. In lei due tradizioni culturali, due etiche, due
mentalità che apparivano inconciliabili rivelavano tuttavia quale « parfait ouvrage » potesse produrre il loro innesto. 1. «Delle opere del cielo, l’opera più perfetta, / Ornamento della corte, meraviglia della nostra età, / Amabile Sévigné le cui grazie irresistibili
/ Cattu-
rano la mente e comandano ai sensi... », Gilles Ménage, Le Pécheur ou Alexis. Idylle à Madame la marquise de Sévigné, in Miscellanea, A. Courbé, Paris, 1652, citato in Roger Duchéne, Madame de Sévigné ou la chance d'étre femme, nuova edizione rivista, corretta e aumentata, Fayard, Paris, 1982, p. 105.
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La civiltà della conversazione
Dal cété Coulanges la bionda e bella Marie aveva ricevuto in dono, oltre a un notevole patrimonio e a una eccellente educazione,
concretezza,
ottimismo,
buon
senso.
Dal còté
Rabutin-Chantal aveva ereditato la fierezza del proprio lignaggio, l’esprit che aveva già reso irresistibile suo padre e il dono
innato
della grazia mondana.
La scrittura,
è vero,
avrebbe rivelato anche l’esistenza di quello che Proust definirà il suo còté Dostoevskij, ma esso doveva rimanere celato alla maggior parte dei suoi conoscenti. Proprio per ottemperare alle esigenze del coté Rabutin, nel 1644, compiuti i diciotto anni, l’orfana era andata in-
contro alla seconda difficile prova della sua esistenza, il matrimonio. Henri de Sévigné, lo sposo scelto per lei in considerazione
del suo albero genealogico,
era infatti un sedu-
cente giovane marchese bretone e un perfetto petit-maître alla moda. La sposa era la prima a non coltivare illusioni sulla felicità coniugale — « Monsieur de Sévigné mi stima ma non mi ama, io lo amo ma non lo stimo » —, tuttavia il mari-
to non avrebbe avuto il tempo di farle versare troppe lacrime, né di dilapidarle interamente la dote perché, nel 1651,
trovava la morte per mano del cavaliere d’Albret con cui si batté in duello per una donna che aveva cessato da tempo di preoccuparsi della propria reputazione. Vedova a venticinque anni, con due magnifici bambini e l'appoggio del provvido abate di Coulanges, lo zio «bien bon » che l’aiuterà a rimettere in sesto il suo patrimonio, la marchesa scopriva il piacere di disporre liberamente di sé. Grazie ai vincoli di parentela e di amicizia che legavano il marito al potente clan dei Gondi, Madame de Sévigné aveva frequentato, sin dai primi anni di matrimonio, l’hòtel de
Condé e di lì, al seguito di Madame de Longueville, era stata ammessa nella Camera azzurra, giusto in tempo per ammirarne gli ultimi splendori. Non doveva passarvi inosservata, e un letterato illustre come Chapelain si arrogava il merito di aver stretto i nodi d’amicizia tra la giovane sposa, Arthénice e sua figlia Julie.? Stando alla tradizione, Chapelain avrebbe anche contribuito, assieme all’abate Ménage,
a raffinare il gusto e a completare l’educazione letteraria dell’incantevole marchesa. Ma l’affermazione mondana di 1. Tallemant, Historiettes, cit., vol. II, p. 429. 2. Cfr. Duchéne, Madame de Sévigné et la lettre d’amowr, cit., pili2bt
Madame de Sévigné e Madame de La Fayette
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Madame de Sévigné avrebbe avuto come teatro la Parigi del dopo Fronda, coincidendo con la moda delle Preziose. La sua presenza, sotto il nome di Sophronie, nel Grand dictionnatre des Prétieuses di Somaize non deve tuttavia trarci in inganno. In lei la difesa gelosa della propria libertà, l’algidità sessuale, la preferenza spiccata per le amicizie femminili, la passione per la letteratura non avevano bisogno di solida-. rietà gregarie o di dichiarazioni di principio. Il suo senso della realtà, il suo gusto per la vita erano troppo forti per frapporre tra sé e il mondo il velo della metafora. Anche il leggendario naturel di Madame de Sévigné appariva agli antipodi degli eufemismi e dei concettismi preziosi che connotavano il linguaggio delle ruelles, ed era piuttosto al piacere del parlar franco, come ci dice Tallemant,' che la mar-
chesa sacrificava talvolta il ritegno imposto al suo sesso. Nel tentare di cogliere i tratti distintivi delle personalità femminili che ci sono venute incontro fino ad ora, ci siamo
spesso dovuti affidare alle parole e ai giudizi degli altri. Di Madame de Rambouillet non ci è giunta nemmeno un’immagine, e le poche righe di suo pugno non ci aiutano certo a conoscerla. E a volte anche i ritratti che ci sono rimasti possono apparirci remoti, indecifrabili, e in aperto contrasto con i giudizi dei contemporanei. Un canone di bellezza femminile diverso dal nostro o, più semplicemente, un ritrattista poco dotato bastano a raggelare la nostra immaginazione e darci un senso di insuperabile lontananza dalla persona raffigurata. Se, ad esempio, vogliamo credere all’irresistibile seduzione di Madame de Longueville, non dobbiamo chiederne conferma ai ritratti, ma attenerci all'entusiasmo dei suoi ammiratori; se desideriamo farci un’i-
dea del suo esprit— il famoso esprit Condé — non ci resta che cercarne la traccia nel sarcasmo dei suoi detrattori o nell’autodenigrazione implacabile della penitente ritirata dal mondo. E inevitabile è la delusione che ci coglie davanti al viso massiccio, al naso e al mento prominenti, ai capelli cor-
ti e crespi di una Madame de Sablé non più giovane disegnata da Dumonstier; nel suo caso, però, sebbene sia difficile associare a simili tratti l’immagine di una delle bellezze più rinomate della sua epoca, qualcosa nel volto cala1. «Non può trattenersi dal dire quel che crede spiritoso, anche se spesso si tratta di cose un po’ spinte; addirittura se ne compiace e crea le occasioni per dirle », Historiettes, cit., vol. II, p. 429 nota.
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mita la nostra attenzione: lo sguardo penetrante degli occhi che ci fissano da sotto le palpebre troppo pesanti si addice perfettamente a colei che conosceva nel profondo tutte le pieghe del cuore. Ma, come si desume dalle sue Maximes, questo sguardo era rivolto all'osservazione dei comportamenti psicologici e morali dell’uomo in generale. La cultura mondana privilegiava il paraître e proibiva di parlare di sé, e anche chi, come la Grande Mademoiselle, ci ha lasciato il racconto della sua vita, lo ha fatto nascondendosi
quanto più poteva dietro il suo personaggio, abbandonandosi alle confidenze private solo nella misura in cui esse non apparivano in contraddizione con la sua immagine pubblica e, soprattutto, non dimenticando mai ciò che do-
veva al suo rango e alla sua gloria. Con Madame de Sévigné questa sensazione di estraneità, questo sentimento di distanza vengono improvvisamente meno. Ci troviamo per la prima volta davanti a una persona con cui è subito possibile stabilire un rapporto diretto e che, con spontaneità e immediatezza, ci apre il suo cuore, ci confida i suoi sentimenti, le sue gioie e i suoi dolori, le
sue preoccupazioni e le sue speranze. Una persona che ci mette al corrente delle sue riflessioni, delle sue amicizie, delle sue letture, dei suoi divertimenti. Che ci racconta,
giorno dopo giorno, la sua esistenza e quello che accade intorno a lei. Sotto la sua penna i fatti della vita quotidiana e gli avvenimenti pubblici del regno di Luigi XIV acquistano un’evidenza
che abolisce le distanze,
e ci fanno
ridere o
rabbrividire come se li ascoltassimo dalla sua viva voce. Possiamo dire, leggendo le sue lettere, di conoscere Madame
de Sévigné nell’intimo,
come
un’amica,
e questo ci
consente anche di riconoscerla nelle parole degli altri. Riconosciamo il suo spirito, la sua vivacità, la sua voglia di pia-
cere e, al tempo stesso, crediamo di capire, dietro le ragioni oggettive del suo successo, la necessità soggettiva, psicologica e morale che la spingeva prepotentemente sulla scena mondana. Prima ancora che un’occasione di affermazione e di svago, la vita di società rappresentava per lei, come per molti suoi contemporanei, un momento di benesse-
re assoluto, un rito collettivo capace di sconfiggere, per la durata di qualche ora, l’angoscia di vivere nell’attesa della morte. Pochi sono, infatti, nel Seicento, coloro che posso-
no dirsi esenti dal timore del giudizio finale e della dannazione eterna.
Madame de Sévigné e Madame de La Fayette
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Esistono un certo numero di ritratti sicuri di Madame de
Sévigné che ci permettono di seguire l’evoluzione del suo viso dall’adolescenza alla maturità e, nell’incanto timido e
stupito della prima giovinezza come nella travolgente seduzione dei vent'anni e nella calma penetrante della matu-
rità, a captare subito il nostro sguardo è la stessa intensa luminosità: luminosità dei vaporosi riccioli biondi, luminosità dei celebri occhi «screziati », luminosità del « più bell’incar-
nato del mondo»! che la tonalità madreperlacea della collana contribuisce a esaltare.
Ebbene, questa creatura di luce che portava con sé la vita e l'allegria non tollerava l’idea di dover un giorno ritornare nelle tenebre. Ella sapeva fin troppo bene che il suo attaccamento al mondo era più forte di quello per Dio, e l’angoscia di ciò che l’aspettava le faceva rimpiangere di non essere morta
«fra le braccia della nutrice».
Il suo stesso
amore per la vita e il timore di perderla la spingevano talvolta a detestarla: « Trovo la morte così terribile che odio di
più la vita perché mi conduce a essa di quanto odi le spine che si incontrano sul suo cammino ».? Ma, per sua e nostra
fortuna, l’istintivo piacere di esistere aveva in lei la meglio sui momenti di sconforto, ed era nel divertissement mondano — quel divertissement che di lì a poco il suo amato Pas-
cal avrebbe denunciato come uno dei maggiori ostacoli alla presa di coscienza della condizione umana — che Madame
de Sévigné scopriva la formula di una felicità immediata e senza rischi.
Mademoiselle de Scudéry era stata la prima a celebrare l’esprit della marchesa ritraendola sotto il nome di Clarinte
in Clélie;» ma è stata Madame de La Fayette a indicare con estrema
chiarezza,
nella
sua
prima
opera,
l’unica
da lei
firmata, il ritratto di Madame de Sévigné (apparso nel Recueil della Grande Mademoiselle), il processo di valorizzazione reciproca che si innescava nel momento in cui una persona altamente dotata faceva il suo ingresso in un cercle: «La vostra presenza accresce i divertimenti e i divertimenti
accrescono la vostra bellezza quando vi fanno corona: la 1. Bussy-Rabutin, Histoire amoureuse des Gaules, cit., pp. 152, 156. 2. Madame de Sévigné a Madame de Grignan, 16 marzo 1672, in Correspondance, cit., vol. I, p. 459.
3. Mademoiselle de Scudéry, Clelie, cit., seguito della terza parte del libro terzo, vol. VI, pp. 1324-35.
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La civiltà della conversazione
gioia, insomma,
è la vera condizione della vostra anima, e
niente vi è più estraneo del dolore ».! La verve della marchesa contribuiva, dunque, a creare intorno a lei un clima euforico e quest’euforia finiva, a sua
volta, per possederla «Quando vi animate cora Madame de La fascino e vi si addice
e agirla nella mente come nel corpo. conversando liberamente, » scrive anFayette «tutto ciò che dite ha un tale così perfettamente che le vostre paro-
le attirano intorno a voi le risa e le grazie, e lo sfavillio del
vostro spirito conferisce una tale luminosità al vostro colorito e ai vostri occhi che, per quanto sembri che lo spirito tocchi solo l’udito, non v'è dubbio che il vostro abbaglia la
vista ».? Mobile e cangiante come i suoi occhi, l’esprit di Madame
de Sévigné sapeva entrare in sintonia con le persone e le circostanze. «Voi siete per natura la persona più affabile e cortese del mondo. Tutto ciò che fate dà un’impressione di spontaneità e di dolcezza, e sulle vostre labbra i più semplici complimenti dettati dall’educazione paiono delle dichiarazioni di amicizia. Tutti coloro che si accomiatano da voi se ne vanno persuasi della vostra stima e della vostra benevolenza, senza sapersi dire con precisione quali segni tangibili abbiate dato loro dell’una o dell’altra». Ma era davvero così, o avevano ragione coloro che la sospettavano di non voler svelare il suo cuore? Di lì a poco,
nell’Histoîre amoureuse des Gaules, un cugino di Madame de Sévigné, il conte Bussy-Rabutin, utilizzando in chiave satirica la formula del ritratto prezioso, si sarebbe divertito a la-
sciarci di lei una descrizione tutt'altro che lusinghiera. L’intenzione del brillante libertino era solo quella di distrarre un’amica malata, Madame de Montglas, raccontandole, in una serie di ritratti in codice, le abitudini e le caratteristiche, non propriamente edificanti, di alcune delle dame più in vista della corte. Il fatto che molte di loro — Madame de
Chatillon, la contessa d’Olonne, la contessa stessa Madame de Sévigné — avessero avuto rare nel Recueil della Grande Mademoiselle gioco di Bussy consistesse precisamente nel
di Fiesque e la l’onore di figumostra come il ribaltare l’otti-
1. «Portrait de Madame la Marquise de Sevigny, par Madame la Comtesse de La Fayette sous le nom d’un inconnu», in Divers Portraîts, cit., p. 315.
2. Ibid., pp. 314-15. 3. Ibid., p. 316.
Madame de Sévigné e Madame de La Fayette
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ca preziosa: sfidando gli interdetti del codice mondano, i suoi ritratti mettevano a nudo tutto ciò che le bienséances imponevano di ignorare. Il divertissement era destinato a una piccola cerchia di amici; invece, per disgrazia di Bussy-Rabutin e delle dame da lui dileggiate, il gioco gli sfuggì di mano, trasformandosi in uno scandalo pubblico, e Bussy fu costretto a constatare come, sotto Luigi XIV, ridere troppo
liberamente fosse diventato assai rischioso. Nel ritrarre Madame de Sévigné sotto il nome di Madame de Cheneville, Bussy obbediva però a un sentimento di vendetta. Nonostante la loro parentela e la loro amicizia, la marchesa,
certo sobillata dall’abate Coulanges, non
si era
fatta scrupolo di rifiutargli un prestito in un momento di pressante bisogno e lui aveva deciso di ricambiarla con la stessa
moneta,
svelando
la falsità del suo
carattere:
«La
preoccupazione maggiore di Madame de Cheneville è di sembrare tutto ciò che non è ».! Sia Mademoiselle de Scudéry che Madame de La Fayette avevano insistito sull’inespugnabilità della giovane vedova e sulla sua fermezza nel tenere a distanza qualsiasi pretendente: «galante senza galanteria » — secondo la formula cara all’hOtel de Rambouillet
—, la marchesa
trionfava sulla
maldicenza grazie alla sua incontestabile virtù. Nel suo ritratto, Bussy-Rabutin strappava alla cugina la maschera della rispettabilità e ne capovolgeva la prospettiva morale: non vi era niente di virtuoso nella condotta di Madame de Sévigné; la sua castità non era frutto di una scelta morale, ma
era dettata dalla frigidità e questo rendeva il suo gioco galante assai impudico; forte del suo impedimento, la marchesa si realizzava totalmente nell’atto della seduzione e il suo piacere era così intenso da farle perdere il controllo di sé. Nel trattare la cugina alla stregua di una volgare allumeuse, il libertino irriverente non disdegnava di fare ricorso
alla morale delle intenzioni: se l’onore coniugale del defunto marchese di Sévigné poteva apparire inattaccabile agli occhi del mondo, egli era certo «un cornuto al cospetto di Dio ».*? Ma l’ipocrisia che Bussy denunciava in Madame de Sévigné non era forse quella di tutta una cultura mondana che evitava i pericoli dell'amore sostituendolo con i suoi surrogati? 1. Bussy-Rabutin, Histoire amoureuse des Gaules, cit., p. 156.
2. Ibid., p. 154.
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La civiltà della conversazione
Bussy-Rabutin incarnava meglio di chiunque altro il prototipo dell’aristocratico che cercava la gloria nella professione delle armi e si divertiva a coltivare la letteratura en amateur. A tredici anni era stato costretto a lasciare il collegio e raggiungere il reggimento paterno: come avveniva generalmente per gli esponenti della sua classe, tra una campagna militare e l’altra, egli aveva completato la sua formazione seguendo la scuola del mondo. Si era dunque divertito a condividere le letture e i gusti delle dame della buona società a cui faceva la corte e aveva dimostrato di saper eccellere negli intrattenimenti letterari più in voga, co-
me dimostrano i suoi portraits' e le sue Questions d'amour Tuttavia, in sintonia con il nuovo clima galante degli anni
Sessanta, la sua capacità di penetrazione psicologica e il suo talento letterario non erano più al servizio di un ideale d’amore delicato e casto ma del semplice gioco e, prima ancora di misurarsi con la casistica sottile delle Maximes d’amour, Bussy si era lanciato nella parodia della Carte de Tendre, con una Carte du pays de braquerie. Scritta nel 1654, durante l’assedio di Villafranca, per divertire il principe di
Conti, la Carte di Bussy forniva la mappa dettagliata di cittadelle e roccaforti dai nomi assai simili a quelli di talune delle dame più «galanti» della corte, di cui si illustravano, con boccaceesca ironia, rese e cedimenti. L’ Histoîre amoureuse des Gaules proseguiva nella stessa direzione, con una
galleria di ritratti satirici che costituivano anche una evidente presa in giro dell’idealizzazione sistematica dei personaggi caratteristica dei romanzi di Mademoiselle de Scudéry. Nel ritratto a chiave di Madame
de Sévigné, scritto nel
1659, non avendo pettegolezzi scandalosi da cui prendere spunto, Bussy-Rabutin era costretto ad aguzzare tutto il suo acume psicologico e la sua scienza mondana per individuare il punto debole dove poter colpire con maggiore efficacia. E audacemente sferrava il suo attacco proprio sul fronte dove la cugina appariva più inattaccabile, quello dell’es1. Almeno due dei portrazts del Recueil des portraits et éloges, en vers et en prose, dé-
dié à son Altesse Barbin a Parigi 2. Apparse per cueil de pièces en
royale Mademoiselle, pubblicato da Charles de Sercy e Claude nel 1659, sono attribuibili a Bussy. la prima volta anonime nel quinto e ultimo volume del Reprose, les plus agréables de ce temps composées par divers Auteurs,
pubblicato da Charles de Sercy nel 1658 (prima parte).
Madame de Sévigné e Madame de La Fayette
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prit: «Non vi è donna in Francia che abbia più spirito di lei, e ve ne sono pochissime che ne abbiano quanto lei. E vivace e divertente. C’è chi dice che, per essere una donna di
qualità, indulge un po’ troppo allo scherzo. All’epoca in cui la vedevo, questo giudizio mi pareva un po’ ridicolo e ammiravo la sua verve burlesca pensando che fosse allegria. Ma oggi che ho smesso di vederla e che il suo grande fuoco non mi abbaglia più, concordo sul fatto che vuole essere troppo divertente ».' Maestra nella difficile arte del badinage che da Voiture in poi era uno dei piaceri supremi dello scambio mondano, capace come nessun altro di magnetizzare l’attenzione dei suoi
interlocutori,
la marchesa
mancava
tuttavia
di quel
preciso senso del limite che deve contraddistinguere la conversazione della vera gentildonna. Il crescendo euforico descritto qui da Bussy ricorda da vicino quello già illustrato da Madame de La Fayette, ma con esiti molto diversi. Cedendo alla sua natura cangiante, trascinata dalla foga del gioco, Madame de Sévigné poteva perdere il controllo di sé. Il brio volgeva allora rapidamente all’audacia, la voglia di ridere diventava incontenibile, e la vedova prudente tradiva tutta la sua sensualità nascosta, indulgendo con un piacere sia pure dissimulato a discorsi che la decenza avrebbe dovuto troncare sul nascere. A ben vedere, era l’esprii stesso di sua cugina che Bussy finiva per mettere sotto accusa, perché «con
un fuoco così grande non ci si deve
sorprendere che il discernimento sia mediocre, trattandosi in genere di due cose incompatibili ».*è Non a caso Madame de Sévigné mostrava di preferire la vivacità degli sciocchi alla riflessività delle persone intelligenti, e la sua gran-
de, travolgente allegria si rivelava incompatibile con un giudizio di merito, senza il quale l’ honnéteté non poteva aVer Corso. Rivisitato in chiave satirica nel momento di massima moda del genere, il ritratto mostrava tutto il suo potenziale: la conoscenza esatta delle bienséances, l’acume psicologico, il gusto prezioso delle sfumature, che erano stati fino ad allo-
ra al servizio dell’amor proprio altrui, si rivelavano utili strumenti di indagine per penetrare nel segreto di una per1. Bussy-Rabutin, Histoire amoureuse des Gaules, cit., p. 153. 2. Loc. cit.
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La civiltà della conversazione
sonalità e, prima ancora che La Rochefoucauld inaugurasse con le Maximes la grande stagione dei moralisti classici,
Bussy-Rabutin mostrava quanto l’occhio dell’uomo di mondo potesse rivelarsi implacabile. Con il suo ritratto di Madame de Sévigné Bussy faceva di questo divertissement letterario l’arma ideale per un regolamento di conti, e molti avrebbero seguito il suo esempio: un ammiratore della marchesa, il cardinale di Retz, avrebbe concentrato i suoi veleni
in poche righe fulminanti; Saint-Simon li avrebbe sapientemente dosati per procedere a esecuzioni più spettacolari. Ma non sarebbero mancati i ritratti estemporanei, dettati dall’antipatia e dal risentimento personale, o finalizzati a una vendetta lungamente meditata, destinati a sfogare un momento di stizza o a soddisfare il puro piacere della denigrazione, come ci mostra Molière con la sua Célimène. Ge-
nerazione dopo generazione, questo sguardo non avrebbe perso la sua lucidità crudele e le donne non si sarebbero mostrate più pietose degli uomini. Basti pensare, a distanza di quasi un secolo, al ritratto della duchessa del Maine fatto da Madame de Staal-Delaunay, alla caricatura di Madame du Chatelet scritta da Madame du Deffand, o al circostan-
ziato atto d’accusa che contro quest’ultima redigerà Mademoiselle
de Lespinasse,
e vedremo
che al loro confronto
Bussy-Rabutin apparirà quasi bonario.
Spiritosa, allegra, vivace, estroversa, originale, mutevole, camaleontica, decisa a piacere: è questa l’immagine di Madame de Sévigné che emerge dalle testimonianze contem-
poranee e che spiega le ragioni del suo successo. Un successo che sembra averle aperto tutte le porte. Eppure, come è stato osservato, questa instancabile mondana che, dall’hOtel de Condé alla corte di Mademoiselle, dall’hétel de Gondi al castello di Vaux-le-Vicomte alla corte stessa, era
stata accolta nelle migliori società del suo tempo non aveva l'abitudine di ricevere a casa propria. A differenza delle Preziose del Marais, la marchesa non coltivava infatti l’am-
bizione di raccogliere intorno a sé un cercle di ospiti scelti e preferiva sfarfalleggiare, di salotto in salotto, frequentando più di un ambiente.
Era una scelta dettata da ragioni economiche, o era il segno di una mancanza di sicurezza nella propria capacità di aggregazione mondana? O si trattava, piuttosto, di una for-
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ma di prudenza? Troppe volte Madame de Sévigné avrebbe visto la sventura colpire i suoi amici per correre il rischio di far dipendere la propria sorte da quella di un unico gruppo, identificandosi totalmente con esso. Durante la Fronda,
la parentela con i Gondi aveva spinto i Sévigné a schierarsi con i perdenti, e il cardinale di Retz, amico e protettore della giovane coppia, era stato costretto alla fuga. Tornata la pace, la marchesa non si era fatta scrupolo di passare al campo avverso, cercando l’appoggio di un uomo di fiducia di Mazzarino, ugualmente legato ai gesuiti e al « partito devoto », il potente sovrintendente Nicolas Fouquet; ma anche su di lui doveva abbattersi, improvvisa e micidiale, la collera di Luigi XIV. Madame de Sévigné frequentava, è vero, anche i du Plessis-Guénégaud, su posizioni diverse da
quelle di Fouquet e ardenti sostenitori delle idee gianseniste, ma neppure loro avrebbero conservato a lungo il favore reale. Per non parlare delle persecuzioni che attendevano la famiglia Arnauld,
con cui Madame
de Sévigné si sa-
rebbe legata sempre più strettamente, e del tragico destino che incombeva su Port-Royal. La disgrazia stessa di BussyRabutin non si limitava a indebolire la marchesa sul fronte delle relazioni familiari, ma la colpiva profondamente, costringendola a perdonare al cugino uno scherzo che gli era costato così caro. Troppo realista per non rassegnarsi all’ineluttabile, Madame de Sévigné aveva l’arte di sapersi adeguare. Sola, senza marito, senza padre, senza fratelli, con due figli da siste-
mare, la marchesa non poteva permettersi di rinunciare all’appoggio della gente influente e la vita di società era l’occasione migliore per coltivare queste relazioni. L’intransigenza non era il suo forte, ma questo non le avrebbe impedito di amare sinceramente i suoi amici, di trepidare per loro e, se altro non le era possibile, di piangerne le sventure
nel segreto del cuore.
La celebre sequenza delle lettere di Madame
de Sévigné
sul processo Fouquet, con il suo altissimo tasso di coinvolgimento emotivo — «il nostro caro amico», «il povero infelice », «il nostro caro e sfortunato amico », «il nostro caro infelice », «il nostro povero amico » —, non lascia dubbi sull’e-
sistenza di un legame di simpatia profonda tra la marchesa e il sovrintendente. Sappiamo da Bussy-Rabutin che solo
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La civiltà della conversazione
nel 1657, dopo averle fatto una corte serrata, Fouquet si era rassegnato ad accontentarsi di una semplice amicizia. È proprio in quell’anno, alcuni versi a lei dedicati da un giovane poeta «pensionato» da Fouquet confermano la sua presenza nella cerchia del sovrintendente. L'autore dell’omaggio — che si chiudeva con i versi: «Entre les dieux, et c'est chose notoire, / En me louant Sévigné me placa» — era Jean de La Fontaine. La marchesa aveva trovato incantevole un suo componimento in versi, La lettre a l’abbesse de Mouzon, contribuendo
a decretarne il successo, e La Fon-
taine si era affrettato a esprimerle la sua riconoscenza. Il «solo poeta lirico del secolo di Luigi XIV»? e la gentildonna che, come
nessun
altro scrittore dell’epoca, saprà parlare
dei propri sentimenti e raccontare le proprie emozioni erano fatti per intendersi e per piacersi. Entrambi avevano ricevuto il dono dell’allegria e la capacità di irradiarla intorno a sé. Per loro, però, la gaiezza non rispondeva solo a un’inclinazione naturale dell’anima, era un antidoto contro i drammi della vita, un rifiuto tenace di soccombere al dolore. Con la sua epistola in versi, dedicata a una giovane suora che le Grazie, le risa e gli Amori volevano seguire anche al-
l’interno del chiostro, La Fontaine, proponendosi come un nuovo
Voiture,
coglieva perfettamente
il tono
di amabile
epicureismo e di libertinaggio galante che regnavano alla corte del sovrintendente. Grande finanziere con una solida formazione giuridica alle spalle, Fouquet era una creatura di Mazzarino e gli ave-
va dato prova di una totale fedeltà durante la Fronda. Dal 1653 egli rivestiva l’alta carica di sovrintendente delle Finanze e, nella speranza di succedere un giorno al cardinale come primo ministro, perseguiva un progetto politico di riconciliazione teso a mettere fine una volta per tutte ai conflitti, agli asti, alle delusioni e ai lutti che avevano troppo a lungo lacerato il Paese. Nelle belle pagine dedicate a Fouquet nel suo libro su La Fontaine, Marc Fumaroli ci ha mostrato come questa visio1. «Fra gli dèi, ed è cosa nota, / Con le sue lodi Sévigné mi ha collocato...», Pour Madame de Sévigné, in uvres completes, cit., vol. II, p. 493.
2. Lettre à M.D.C.A.D.M., ibid., pp. 491-93. 3. Marc Fumaroli, Le poòte et le roi: Jean de La Fontaine en son siècle, Éditions de Fallois, Paris, 1997, p. 32.
Madame de Sévigné e Madame de La Fayette
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ne politica andasse di pari passo con un sogno umanistico di pace, voluttà e bellezza. Un sogno utopico, fiorito nelle piccole corti italiane del Cinquecento — che aveva avuto il suo manifesto filosofico nel De voluptate di Lorenzo Valla e la sua illustrazione poetica nell’ Aminta del Tasso e nel Pastor fido del Guarini —, e poi trasmigrato alla corte dei Valois e in
alcuni cenacoli dell’alta nobiltà del tempo di Luigi XIII. Proprio nella convinzione che l’arte fosse capace «di creare l’armonia, la mitezza, l'aspirazione alla vera felicità», Fou-
quet avrebbe svolto la sua politica di mecenate e orientato le sue scelte artistiche. Il castello di Vaux-le-Vicomte doveva essere l'illustrazione concreta del suo programma estetico. Deciso a promuovere i nuovi talenti emersi in quegli anni nel campo delle lettere e delle arti, il sovrintendente non si affidava solo alla sicurezza del suo gusto ma, avvalendosi
dei consigli di un letterato autorevole e grande conoscitore della poesia antica come Pellisson, raccoglieva intorno a sé
una vera e propria accademia di artisti e savants; e proprio su suggerimento di Pellisson apriva le braccia a La Fontaine. Questa cultura raffinata e altamente erudita non aveva però niente di pedante, e si prestava con grazia e buonumore ai giochi di società e al preziosismo alla moda. Ricco, potente, intelligente, bello, elegante, galante, Fouquet aveva tutto per fare della sua casa di Parigi, come della
sua proprietà di Saint-Mandé, uno dei centri propulsori della mondanità parigina. La vita di società era certamente per lui uno strumento di ascesa e di autopromozione, ma l’utopia mondana era in perfetta sintonia con la sua visione politica. Felicità privata e felicità pubblica avevano bisogno di armonia e quest'armonia dipendeva dalla capacità di esprimere le proprie aspirazioni e di aprirsi a quelle dell’altro. Dopo gli odi e le violenze della guerra civile, le élite francesi si riconciliavano, sublimando la loro volontà di su-
premazia nel desiderio di piacere, riprendendo a incontrarsi negli stessi luoghi, a condividere gli stessi divertimenti, a conversare insieme, avendo cura di aggirare gli ostacoli ineliminabili della vita reale con gli eufemismi del linguaggio prezioso. Questo momento di grazia trovava la sua idealizzazione nella Clélie di Mademoiselle de Scudéry. Il romanzo, composto di cinque parti, ciascuna divisa in tre libri, per un to-
1. Ibid., p. 147.
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La civiltà della conversazione
tale di dieci volumi, veniva dato alle stampe tra il 1654 e il 1660, vale a dire nel breve, intenso periodo che va dalla fine
della guerra civile all’inizio del regno personale di Luigi XIV. La scrittrice, che nel Grand Cyrus aveva esaltato gli eroi della Fronda, celebrava ora la nuova stagione mondana del-
la capitale con il suo entusiasmo contagioso, ritraendone i protagonisti con nomi in codice e disegnandone i circuiti e gli scambi. Era «l’ultimo tentativo letterario di rappresentare in una stessa finzione armoniosa la vita pubblica e le vite private del regno, in una città ideale che racchiude la corte». E nell’esaltare la vita mondana non solo come uno spettacolo in cui ciascuno era chiamato a dare il meglio di sé, ma come
un luogo di comunicazione,
di tolleranza, di
empatia, Mademoiselle de Scudéry veniva in aiuto al progetto politico del sovrintendente. «Il regno, così come lo concepivano Fouquet e Pellisson, avrebbe conciliato lo Sta-
to ereditato da Richelieu con i sapori e le virtù propri della vita privata». Per primo, il sovrintendente dimostrava come i doveri di una grande carica non fossero incompatibili con i piaceri della sociabilité e con la dolcezza dell’amicizia. L’illustre Saffo avrebbe avuto modo di constatarlo di persona a partire dal 1657, anno in cui Pellisson presentava sia lei che La Fontaine al suo protettore. Ma Fouquet non aveva aspettato il suo arrivo per distinguersi nella belle galanterie. Era una vedova giovane e seducente, e non la timida e devota Madame Fouquet, a orientare le scelte mondane del sovrintendente — se non, come insinuavano i malevoli, a favorirne gli amori. Suzanne de Bruc, marchesa du Plessis-
Belliére, vicina di campagna dei Fouquet, sapeva conciliare la delicatezza del gusto prezioso con virtù tradizionalmente virili come il coraggio e uno spiccato senso degli affari. Suo marito era stato un militare brillante e aveva condiviso con lei la passione per i giochi e i divertimenti ma, essendo stato così sfortunato da morire a breve distanza dal pappagallo della moglie, la sua scomparsa era passata in secondo piano rispetto a quella del volatile. Certo, imperversava la moda di celebrare in versi leggiadri e commossi gli animali domestici a cui le dame del bel mondo dedicavano le loro tenere cure: ricordiamo, fra i tanti, la capinera, la colomba
e il camaleonte di Mademoiselle de Scudéry, i cani e i gatti 1. Ibid., p. 234.
Scuola di Abraham Bosse, // pranzo delle dame. Musée des Arts Décoratifs, Paris.
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Madeleine de Scudéry, La carte de
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Bibliothèque
Nationale,
Paris.
La duchessa di Longueville, incisio-
ne di Frosne. Bibliothèque Nationale, Paris.
Du Moustier, La marchesa di Sable. Musée du Louvre, Paris.
Philippe de Champaigne, Ritratto di Robert
Arnauld d’Andilly. Musée du Louvre, Paris.
Charles e Henri Beaubrun, Anne-Marte-Louise d'Orléans, duchessa di Montpensier, detta la Grande Mademoiselle. Musée Carnavalet, Paris.
Pierre Mignard, Francoise de Sévigne, contessa di Grignan. Musée Carnavalet, Paris.
Claude Lefèvre, Roger de Rabutin,
conte di Bussy.
Chateau de Bussy.
N. Poilly, Il principe di Conde. Bibliothèque Nationale, Paris.
Jean Petitot il Vecchio,
Madame Scarron. Musée du Louvre, Paris.
Scuola francese del XVII secolo, Ninon de Lenclos. Chàteau de Versailles.
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Scuola francese del XVII secolo, Francois
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