371 92 2MB
Italian Pages 760 [754] Year 2008
BIBLIOTECA DI «NUOVA STORIA CONTEMPORANEA» Collana diretta da Francesco Perfetti 29
EUGENIO DI RIENZO
LA STORIA E L’AZIONE Vita politica di Gioacchino Volpe
Le Lettere
La stampa di questo volume è stata resa possibile grazie ad un contributo finanziario erogato dal Dipartimento di Studi Politici della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Roma, La Sapienza.
Copyright © 2008 by Casa Editrice Le Lettere - Firenze ISBN 88 6087 106 9 www.lelettere.it
Agli amici, ai colleghi, agli studenti della Facoltà di Scienze Politiche della Sapienza
ABBREVIAZIONI AANL = ABC = AC = ACorsera = ACS = ACZ = ADV = AEA = AEI = AFG = AGDR = AGP = ALE = AMP = AS = ASNSP = AUR = AWCS = BNCR = CPV = CV = FAC = FFP = FFN = FV =
Archivio dell’Accademia Nazionale dei Lincei Archivio Benedetto Croce Archivio Chabod Archivio Storico del Corriere della Sera Archivio Centrale dello Stato Archivio Carlo Zaghi Archivio De Vecchi Archivio Epistolare Arcari. Archivio storico dell’Enciclopedia Italiana Archivio della Fondazione Gentile Archivio Guido De Ruggiero Archivio Giuseppe Prezzolini Archivio Luigi Einaudi Archivio Marino Parenti Archivio Sansoni Archivio della Scuola Normale Superiore di Pisa Archivio dell’Università di Roma Archivio Cesarini Sforza. Biblioteca Nazionale Centrale di Roma Carteggio Pasquale Villari Carte Gioacchino Volpe Fondo Alessandro Casati Fondo Fortunato Pintor Fondo Francesco Novati Fondo Gioacchino Volpe
PREMESSA Fece un lungo viaggio, fu esausto, consunto dalla fatica; quando ritornò, su una pietra l’intera storia incise. L’epopea di Gilgames$ Ora, invece, io che sto per narrare la vita di un uomo che non c’è più, devo chiedere quell’indulgenza, che non dovrei chiedere se intendessi pronunciare un atto di accusa. Tanto questi tempi sono crudelmente ostili agli esempi di dignitoso valore. Tacito, Vita di Agricola
Con l’epopea di Gilgames$, almeno millecinquecento anni innanzi all’Iliade di Omero, si manifesta per la prima volta quel rapporto strettissimo che, da quel momento, sarebbe stato destinato a unire storia e azione. L’eroe sumerico è infatti allo stesso tempo attore e narratore delle proprie imprese, osservatore e protagonista degli eventi del suo tempo. Così accadrà a Gioacchino Volpe durante il suo lungo impegno storiografico vissuto nell’Italia carducciana, crispina, giolittiana, nei tempi del moto interventista e del primo conflitto mondiale, dell’ascesa e del trionfo del fascismo, della catastrofe nazionale del 1943, del difficile, drammatico secondo dopoguerra. Colui che fu per antonomasia lo storico della storia d’Italia (dal Medioevo all’età contemporanea) rappresentò anche, con la sua stessa persona, i suoi desideri, le sue speranze, illusioni, traviamenti, la «storia di un italiano», simile a quella di tanti altri più oscuri suoi connazionali. Una biografia politica, che è allo stesso tempo racconto corale di un’intera generazione intellettuale (dei Croce, dei Gentile, dei Salvemini, dei Prezzolini), dove quello steccato invalicabile che dovrebbe separare, nel mestiere di storico, res gestae e historia rerum, mostra invece allo scoperto crepe, fratture mal connesse, soluzioni di continuità. Se la grandezza del Volpe storico fu infatti, come soltanto accadde nella Francia del XIX secolo a Michelet, la capacità di aver instaurato un rapporto intimo, istintivo, molto spesso non mediato da una precisa prospettiva intellettuale, con il suo popolo, quella fu anche la sua miseria, quando quel rapporto viscerale lo spinse, per volontà di comprendere a tutti i costi e di tutto voler giustificare, a considerare con davvero eccessiva indulgenza, da una prospettiva
8
PREMESSA
che Croce avrebbe giudicato pericolosamente «affettuosa», le vicende della sua patria, anche quando queste si sarebbero incrociate e compromesse con i mali oscuri del Novecento. Di qui, il rifiuto della sua storiografia, a partire dal 1945, che si sarebbe basato più sui dati della sua vita che su quelli della sua opera, e la leggenda tenebrosa, eppure sicuramente non infondata, del Volpe fascista e poi neofascista, che avrebbe potentemente assecondato la degradazione morale dell’Italia di Mussolini e dei suoi epigoni, dilapidando le sue stesse formidabili qualità di analista del passato. Di qui, anche, in tempi più recenti, la nascita, per contrappasso, di un’altra leggenda, questa volta aurea, relativa ad un Volpe, vittima inconsapevole dei mali del proprio tempo e sempre capace di superare i tanti condizionamenti ambientali, grazie alle superiori doti di un’impareggiabile maestria storiografica. In ambedue i casi, una congettura di valore, molto spesso formulata a priori, ha così ridotto e mortificato la ricchezza e la contraddittorietà di un’esistenza, che è possibile comprendere, a parte intera, soltanto a condizione di narrarla, in tutte le sue luci e in tutte le sue ombre, come nelle pagine che seguono si è tentato di fare, prima ancora di giudicarla. * * * Questo volume deve la sua prima ideazione a Francesco Perfetti, mentre la sua elaborazione e la sua stesura è stata accompagnata da un’ininterrotta conversazione intellettuale con Giuseppe Galasso, che qui ringrazio affettuosamente. Grazie anche agli «amici di sempre» (Antonino De Francesco, Aurelio Musi, Guido Pescosolido, Paolo Simoncelli), che mi sono stati prodighi di consigli e suggerimenti, di consensi e di dissensi, di sostegno e di fiducia.
I.
GLI ANNI DELL’ATTESA
1. NASCITA DI UNO STORICO 1. A poche settimane di distanza dalla comparsa dell’Intervista sul fascismo di Renzo De Felice, Giovanni Volpe (il prediletto primogenito del grande storico), scriveva al suo autore tracciando una genealogia minima ma penetrante del suo ambiente familiare: «Eravamo noi ceti emergenti, ceti spostati, borghesia borghese o che altro? Mio padre era figlio di un addetto al comune di Paganica, mia madre (sorella di Arrigo Serpieri) aveva come padre un musicista con poca fortuna e come madre una signora della borghesia agraria bolognese (agraria nel senso dell’imprenditore agricolo, non del reddituario agricolo). Eravamo sei figli, si viveva dello stipendio paterno e di qualche aiuto che uno zio agricoltore mandava a mia madre»1. Dai quadri del piccolo, medio ceto borghese e provinciale, traeva infatti le sue origini Gioacchino Volpe, nato, insieme ad altra numerosa prole, dall’unione di Giacomo, farmacista e segretario comunale di Paganica (dove lo storico vide la luce il 16 febbraio 1876), e da Bianca Mori, maestra elementare, nativa di Siena, stabilitasi nel piccolo, antico borgo abruzzese nei pressi dell’Aquila2, situato nel cuore del ventre profondo di quella periferia italiana, la quale sovente appare provincia dormiente, terra del silenzio, che «poco sapeva d’Italia», quasi staccata dalla storia della nazione. Sorte alla quale Paganica, si sottrasse però almeno per due volte. Agli inizi dell’età contemporanea, tra vecchio e nuovo regime, quando il capoluogo abruzzese e i suoi immediati dintorni furono teatro di una violenta sollevazione antifrancese e di una durissima repressione condotta dalle truppe napoleoniche contro quel patriottismo primitivo, «conservatore (ma non senza una sua venatura socialmente rivoluzionaria) dei ceti più alti, del clero e delle masse popolari e contadine fedeli al Re, alla religione, al costume avito»3. Poi, 1 Giovanni Volpe a Renzo De Felice, Roma 24 luglio 1975, in Archivio Centrale dello Stato (ACS), Carte Renzo De Felice, busta 2, fasc. 1, 16. 2 G. VOLPE, Ritorno al paese (Paganica). Memorie minime, Roma, Urbinati, 1963, pp. 24-25. 3 Ivi, p. 12. Su questa interpretazione dell’«insorgenza», in Volpe, rimando al mio, Le due rivoluzioni, in Nazione e Controrivoluzione nell’Europa contemporanea, 1799-1848, a cura di E. Di Rienzo, Milano, Guerini e Associati, 2004, pp. 9 ss. Sui moti abruzzesi del pe-
12
GLI ANNI DELL’ATTESA
tra 1848 e 1849, quando il vento impetuoso della rivoluzione europea raggiunse anche quelle contrade, travolgendo il destino di «un altro Gioacchino Volpe, possidente e medico, mio nonno, che, avendo partecipato da liberale ai moti aquilani, attorno al 1840, aveva sofferto il carcere e di quella sofferenza era, dopo uscito di là, morto ancora giovane: donde la cospicua pensione di 25 lire annue che mio padre, rimasto orfano a dieci anni, riscuoteva come “vittima politica”, e seguitò a riscuotere, fino a che visse, nel 1929»4. Testimonianza, questa, che Volpe ricavava dalla memoria familiare ma che ha un suo esatto riscontro nella documentazione archivistica relativa ai così detti «Fatti di Paganica»: una sorta di faida civile tra fazione repubblicana e borbonica, che si concluse, senza spargimento di sangue, nel luglio del 1849, quando un distaccamento militare, chiamato a ristabilire l’ordine, traeva in arresto una quarantina di congiurati, presunti liberali e carbonari, tra cui l’avo dello storico, condannato nell’aprile 1851, dopo un tormentato processo a un lungo periodo di detenzione con l’accusa di «reità di Stato, essendosi spesso riunito, insieme agli altri inquisiti, per concerto settario, procurando di essere sempre soli, e che niun altro, il quale non fosse loro vi accedesse», di «macchinazione contro il Sovrano» e di «associazione illecita con vincolo di segreto, avente per oggetto di distruggere e cambiare l’attuale forma di governo»5. Pena severa ma tutto sommato non più del lecito e appropriata alla gravità dei fatti contestati, visto e considerato che, nel corso del dibattimento, erano emerse a carico di Gioacchino Volpe «medico, cerusico, proprietario, capo della milizia urbana, figlio del fu Saverio», imputazioni se non più gravi, almeno più circostanziate, secondo le quali, nel corso del 1848, egli avrebbe fatto parte di una riunione politica, che «sotto il titolo di Comitato della morte, aveva per proposito la distruzione della legittima autorità e di eccitare alla strage di tutti i sudditi fedeli del Re», i cui componenti, nel corso dello stesso anno, «a viva forza, avevano privato sdegnosamente, tanto delle armi che delle munizioni di guerra, il presidio della Real Gendarmeria»6. Dopo questi episodi che avevano, almeno per un momento, legato
riodo, si veda ora F. GALLO, Dai gigli alle coccarde. Il conflitto politico in Abruzzo, 1770-1815, Roma, Carocci, 2002. 4 G. VOLPE, Ritorno al paese, cit., p. 12. Sullo stesso punto, ID., Momenti della Rivoluzione napoletana (1798-1799), ora in ID., Pagine risorgimentali, Roma, Volpe, 1967, 2 voll., I, p. 198. 5 Archivio di Stato dell’Aquila, Procura Generale presso la Gran Corte Criminale di Aquila, imputati di reati politici, anni 1848-56, fascicolo 377, relativo ai «Fatti di Paganica» del 29 Luglio 1849. 6 Ibidem.
NASCITA DI UNO STORICO
13
la piccola patria di Paganica ai destini della patria italiana, che si stava costituendo in nazione, il paese abruzzese ripiombava nella sua dimensione di borgo agricolo, dove il tempo sarebbe stato di nuovo ritmato dal ciclo delle stagioni e del lavoro della terra e non più da quello segnato dalle grandi congiunture storiche. Paganica tornava a essere soltanto «Paganica delle patate», ma anche dello zafferano, delle mandorle e delle greggi, lontanissima dalla mitologia dell’Abruzzo barbarico delle Novelle della Pescara e della Figlia di Iorio di D’Annunzio, e invece «contrada gentile negli abitanti, come, anche tra le durezze della montagna, nella natura del paesaggio», che trovava la sua dimensione di compostezza «romanica», nelle sue chiese, nelle sue pievi, nei suoi monasteri ma anche nei coefficienti elementari che a Volpe parvero, insieme, «geometrici e umanissimi» del podere, del tratturo, del percorso della acque irrigue che precipitavano dalle vette appenniniche, per addomesticarsi nella pianura7. In questo ambiente di «Strapaese», scorreva l’infanzia e l’adolescenza dello storico tra l’irruenza degli antichi giochi paesani, i quali, in omaggio ai nuovi tempi, che la nazione italiana si apprestava a vivere, divenivano anche culto della strenuous life, disciplinato in attività sportiva (attrezzi, lotta, podismo, nuoto e remo) e in faticose escursioni montane8, che pare avessero sottratto tempo ed energie al Volpe scolaro «mediocrissimo», indisciplinato, nel ginnasio-liceo dell’Aquila, poco amato dai docenti «che mi avevano bocciato in non so quante materie e condannato a ripetere l’anno»9. Poi, nel 1890, alcune difficoltà economiche costringevano la famiglia Volpe a trasferirsi a Santarcangelo di Romagna. Sull’accaduto non esistono particolari precisi, ma forse è possibile ipotizzare che Giacomo Volpe fosse stato travolto da un rovescio di fortuna, almeno in parte simile a quello che avrebbe funestato l’esistenza di Giovanni Gentile, nel 1896, quando il padre del filosofo, anch’esso farmacista a Campobello, in Sicilia, venne costretto a chiudere il proprio dispensario, dopo essere stato accusato di averlo gestito, non rispettando le cautele imposte dalla nuova legge sanitaria varata dal governo Crispi. Dall’accaduto, il farmacista Gentile sarebbe uscito prostrato nel fisico e soprattutto nel
7 G. VOLPE, Poesia e storia, in «Meridiano di Roma», 26 marzo 1939, p. 4. 8 ID., Ritorno al paese, cit., p. 26. Sul ruolo dello sport e soprattutto dell’alpinismo co-
me sintomo della rinascita dell’orgoglio borghese e nazionale, in questo periodo, si veda G. VOLPE, L’Italia in cammino, Roma-Bari, Laterza, 1991, pp. 120-121: «I giovani che disertavano il socialismo sentivano il fascino di nuovi ideali e seguivano altre bandiere che qua e là accennavano a dispiegarsi. Non è senza significato, anche il grande diffondersi dello sport, in quegli anni. […] Tutto questo non era politica: ma la politica vi era vicina, a volte implicita e latente, e dava a quei moti sportivi e culturali qualche stimolo e coloritura». 9 ID., Ritorno al paese, cit., p. 4.
14
GLI ANNI DELL’ATTESA
morale, anche dopo la ripresa della sua attività, che provocava nuovi e tali dissesti da ridurre la famiglia quasi sul lastrico10. Meno infausto il destino di Giacomo Volpe, che poteva continuare il suo lavoro, con qualche fortuna, impiantando la sua bottega nella piazza principale di Santarcangelo. Ma i due episodi gemelli dimostravano la precarietà economica di una borghesia minuta, almeno se si pensa alle fonti di reddito, dalla quale provenivano due dei più grandi intellettuali del Novecento, che contrastava, come proprio Volpe avrebbe sottolineato, con l’agiatezza economica del rentier Benedetto Croce11. L’arrivo nel ridente paese romagnolo, sospeso tra le colline e il mare di Rimini, ricco di memorie medievali e rinascimentali, produsse un salto di qualità nella formazione scolastica del giovane allievo abruzzese. Il liceo Terenzio Mamiani di Pesaro, che da quel momento Volpe avrebbe frequentato, superando qualche non piccola difficoltà logistica, metteva a disposizione degli alunni un’offerta pedagogica che, grazie al ridottissimo numero degli iscritti e alla superiore qualità dei docenti, si trasformava quasi in pratica seminariale. E questa esperienza di rapporto frontale diretto, che nell’immediato avrebbe innalzato il suo profitto scolastico12, e che Volpe avrebbe ritrovato potenziata sui banchi della Normale di Pisa, finirà per costituire un modello per la sua attività di «maestro» dei decenni a venire, la quale sempre si sarebbe configurata come la proposta di un momento comune di indagine, che si limitava nel più dei casi non a fornire risposte ma a suscitare domande, che lo scolaro avrebbe dovuto rilanciare in grande autonomia, per aprire nuovi territori d’analisi, nei quali discente e docente avrebbero potuto ritrovarsi, per poi riconoscersi in un organico percorso di ricerca13. Tra i suoi insegnanti, Volpe avrebbe ricordato, quello di storia, Ber-
10 G. TURI, Giovanni Gentile. Una biografia, Firenze, Giunti, 1995, pp. 8-9; S. ROMAGiovanni Gentile. Un filosofo al potere negli anni del regime, Milano, Rizzoli, 2004, pp. 15-16. 11 Gioacchino Volpe a Giovanni Gentile, S. Arcangelo di Romagna, 14 settembre 1903, Archivio della Fondazione Giovanni Gentile (AFG): «Se ti ricorderai di una vecchia promessa (il libro ultimo del Croce) mi farai grande piacere. Un insegnante secondario italiano, tu lo sai, solo con grande stento può spendere 10 lire per un libro; e nel caso nostro non si tratta neanche di incoraggiare la produzione e… il produttore». Il riferimento era al volume, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, Milano, Sandron, 1902. 12 Come risulta dallo scrutinio finale del 2 giugno 1895, Volpe riportava nell’esame di licenza liceale «dieci nell’italiano e nelle storia e geografia, nove nel latino, nella fisica e nella storia naturale, otto nel greco e nella filosofia, sette nella matematica». Il documento è conservato nell’Archivio di Stato di Pisa (ASPI), Università di Pisa, III versamento, busta 63, fasc. 5518. 13 Sul punto, il mio Storici e Maestro. L’eredità di Gioacchino Volpe tra continuità e innovazione (1945-1962), in «Clio», 2007, 1, pp. 39 ss. NO,
NASCITA DI UNO STORICO
15
nardino Feliciangeli (umile ma robusta figura di erudito locale che lo avrebbe familiarizzato con la ricerca d’archivio) e soprattutto: il «caro, indimenticabile Giuseppe Picciòla, irredento e irredentista, allievo entusiasta di Carducci nostro illuminato compagno, più che “professore”»14, il quale, docente di lettere italiane negli anni 1892-1895, avrebbe poi spinto l’allievo a presentarsi al concorso di ammissione alla Scuola Normale di Pisa15. Picciòla, iscrittosi nel 1877 alla Facoltà di Lettere dell’Università di Pisa, entrò l’anno successivo nella Scuola Normale, dove conseguì la laurea nel 1881. Allievo di Alessandro D’Ancona, compagno di studi di Francesco Novati, fu particolarmente legato a Guido Mazzoni e a Giuseppe Chiarini, che lo introdussero presso Carducci, con il quale iniziò una lunga e mai interrotta frequentazione, che gli valse il non inglorioso titolo di «modesto ma non oscuro astro della costellazione carducciana»16. «Irredento», essendo nato a Parenzo d’Istria, nel 1859, Picciòla era anche «irredentista» per tradizioni familiari del ramo paterno e materno e per convincimenti personali, come aveva dimostrato, nel 1878, la sua partecipazione, a Trieste, alle manifestazioni studentesche contro il governo austriaco, che lo posero in contatto con Salvatore ed Emilio Barzilai e Guglielmo Oberdan e che poi lo spinsero a unirsi a quella generosa e colta diaspora giuliana e istriana nella Penisola, insieme a Scipio Sighele, Graziadio Ascoli, Giacomo Venezian, Giuseppe Ara. La sua formazione iniziale, repubblicana e garibaldina, che si inseriva quindi pienamente nel quadro politico del Partito d’Azione, evolse, tuttavia verso posizioni progressivamente moderate e infine dichiaratamente monarchiche. La sua stessa adesione alla Dante Alighieri, nel 1889, si articolava su di un programma di ripudio di ogni forma di radicalismo17. La Società, a suo avviso doveva infatti astenersi dal promuovere o incoraggiare «dimostrazioni e agitazioni oggi inutili», e abbracciare, invece, «intendimenti pacifici», per adoperarsi, in pieno accordo con il governo, a «proteggere la nostra lingua e la nostra nazionalità, così nelle province italiane dell’Austria come in quelle della Francia». Parole, queste, che rispecchiavano molto bene il nuovo corso della politica italiana, sancito da Crispi con il rinnovamento della Triplice Al-
14 G. VOLPE, Ritorno al paese, cit., p. 6. 15 Per una sintetica biografia di Picciòla, si rimanda a C. VIOLANTE, Appunti sulla for-
mazione di Gioacchino Volpe, in «Annali dell’Istituto Italiano per gli Studi storici», IX, 19851986, pp. 301 ss. 16 G. VOLPE, Italia Moderna, a cura di F. Perfetti, Firenze, Le Lettere, 2003, 3 voll., III, p. 178. 17 Sulla storia e le varie metamorfosi politiche di quel sodalizio, si veda B. PISA, Nazione e politica nella Società “Dante Alighieri”, Roma, Bonacci, 1995.
16
GLI ANNI DELL’ATTESA
leanza del 1887, e il conseguente avvicinamento alla Germania contro la Francia, con la quale si esasperavano intanto i contrasti sulla questione tunisina e a proposito del contenzioso commerciale18. La buona disposizione verso la Germania, l’insofferenza verso la Francia e la poca considerazione verso l’Impero asburgico, considerato ormai un gigante dai piedi di argilla, prossimo al tracollo, portavano a interrompere il programma militare e insurrezionale dell’irredentismo, caro al partito garibaldino, in cambio di una strategia diplomatica che si proponeva di ottenere dall’Austria compensi territoriali sul confine nord-orientale in cambio del sostegno italiano alla sua politica di espansione nei Balcani. Il «nuovo irredentismo» (la definizione è di Volpe)19 si trasformava anche sul piano interno, in simbiosi con il programma crispino, e si attestava su posizioni rigidamente legalitarie, parzialmente ereditate dal patrimonio ideale della Destra, ma anche tendenzialmente ostili ai mali del regime parlamentare. Agli inizi degli anni Novanta, Picciòla dichiarava di voler opporsi a una politica, che, in nome del ricongiungimento delle terre italiane ancora non liberate al corpo della nazione, intendesse «sostenere in piccole guerricciole parlamentari gli istinti ribelli e le idee non sicure» della Sinistra e di voler operare, al contrario, per «togliere l’irredentismo a’ radicali e renderlo sommesso alle genti della patria»20. Questi convincimenti rispecchiavano, a pieno, il nuovo programma dell’estremismo di centro, che Carducci aveva redatto significativamente in occasione della commemorazione di Aurelio Saffi, nell’aprile del 1890, descrivendo, con qualche evidente forzatura, la metamorfosi dell’esponente mazziniano, repubblicano, democratico in «uomo d’ordine». Primo, autorità nazionale e quindi riprovazione di un torbido comunismo derivante da socialismo settario ed egoistico; secondo, tradizione italiana e quindi rinuncia d’ogni iniziativa straniera, massime francese: non repubbliche cisalpine; terzo, integramento del territorio della patria21.
18 G. VOLPE, L’Italia in cammino, cit., pp. 47 ss. 19 ID., Italia Moderna, cit., III, pp. 177 ss. 20 Utilizzando, i suoi «ricordi personali di studente liceale a Pesaro, tra 1893 e 1895»,
Volpe scriveva in Italia Moderna, cit., III, pp. 178-179: «Quando nel 1890, Salvatore Barzilai, repubblicano triestino, venne eletto deputato di Roma con i voti dei repubblicani, Picciòla, già repubblicano anche esso, che era la iniziale e più spontanea manifestazione di italianità fra gli Italiani della Venezia Giulia, fu il primo, con pubblica lettera, a proclamare che la causa irredentista dover rimanere fuori e sopra i partiti politici interni: donde scontri vivaci suoi con i repubblicani di Pesaro, perfino con giovani studenti, suoi discepoli al liceo; e, a conclusione, una fragorosa bomba posta ed esplosa, presso la sua casa». 21 G. CARDUCCI, Aurelio Saffi, in ID., Prose, Bologna, Zanichelli, 1922, p. 1220.
NASCITA DI UNO STORICO
17
Dati questi presupposti, l’influsso di Picciòla su Volpe si trasformò in un apprendistato politico integralmente basato sul magistero del Carducci «poeta civile», che «per mezzo della scuola e della quotidiana polemica, manifestò variamente quel suo carattere, esercitando per alcuni decenni opera di correttore e di educatore»22. Era quello di Picciòla, e conseguentemente di Volpe, un Carducci che aveva ormai consumato il distacco dall’ideologia «giacobina» e fervorosamente democratica della giovinezza23, avvicinandosi decisamente all’istituto monarchico e rompendo, con altrettanta decisione, ogni legame con «la piccola fazione repubblicana, che, mal d’accordo e senza più ingegno, ieri menava a rovinare e guastava, come rovinerebbe e guasterebbe volentieri oggi, aiutandosi pur dei socialisti, che la odiano e disprezzano, la unità, che fu ed è l’amore, la fede, la religione della mia vita»24. Un Carducci, dunque, che aveva condiviso pienamente e poi appoggiato con vigore gli obiettivi politici di Francesco Crispi («il solo grande uomo di Stato cresciuto dalla democrazia italiana del 1860, il quale confermandone gli ideali abbia mostrato di saperli attuare, il solo, dopo Cavour, vero ministro italiano»)25: e in particolare quello di traghettare la Sinistra su posizioni costituzionali e legalitarie di accettazione piena e indiscussa dello status quo istituzionale, soprattutto in vista del raggiungimento di una grandeur internazionale, che solo la coesione interna della nazione, garantita dalla monarchia, avrebbe potuto consentire26. Sull’adesione al principio monarchico, in quanto «fusione dell’elemento signorile col cittadino, dell’esercito col popolo, delle memorie monarchiche d’una parte con le democratiche di altre», e soprattutto inteso come momento culminante della «Storia d’Italia, questa istoria mirabilmente complessa, che ha in sé tutti i semi, tutti li svolgimenti, tut22 B. CROCE, Giosuè Carducci, in «La Critica», 1909, poi in volume, Bari, Laterza, 1937, p. 55. Definizione ripresa da R. Balzani nel saggio introduttivo a G. CARDUCCI, Discorsi parlamentari, Bologna, Il Mulino, 2004, pp. 13 ss., che parla del poeta come «tutore dell’ideologia italiana». Sullo stesso punto, ma con ben diverso e spesso tendenzioso giudizio di valore, A. ASOR ROSA, Storia d’Italia. Dall’Unità a oggi. IX. Letteratura e sviluppo della nazione, Torino, Einaudi, 1975, pp. 940 ss.; L. MANGONI, Lo Stato unitario liberale, in Letteratura italiana. I. Il letterato e le istituzioni, Torino, Einaudi, 1982, pp. 503 ss. 23 P. ALATRI, Carducci giacobino: l’evoluzione dell’ethos politico, Palermo, Libreria Prima, 1953. 24 Giosuè Carducci ad Antonio Traversi, 15 settembre 1897, in M. VINCIGUERRA, Carducci uomo politico, Pisa, Nistri-Lischi, 1957, p. 43. 25 G. CARDUCCI, Francesco Crispi, in «Gazzetta dell’Emilia», 29 giugno 1893, in ID., Confessioni e battaglie, Seconda serie, Bologna, Zanichelli, 1939, p. 396. Sul punto, M. VINCIGUERRA, Carducci uomo politico, cit., pp. 41 ss.; A.A. MOLA, Giosuè Carducci, scrittore, politico, massone, Milano, Bompiani, 2006, pp. 299 ss. 26 C. DUGGAN, Creare la nazione. Vita di Francesco Crispi, Roma-Bari, Laterza, 2000, pp. 329 ss.
18
GLI ANNI DELL’ATTESA
te le fioriture e sfioriture di tutte le idee, di tutte le forme e di tutti i fenomeni politici»27, si sorreggevano le fondamenta politiche dell’egemonia culturale carducciana, nella quale venivano a essere riassunti tutti i valori e i miti della vasta area dell’opinione pubblica liberal-moderata, meglio definibile ancora come radical-moderata o radicale di destra, che si era andata raccogliendo intorno a Crispi, fino a comprendere buona parte della classe dirigente post-unitaria, con l’esclusione delle sole forze anti-sistema: «rossi» e «neri», socialisti e cattolici. Egemonia, che permetteva la possibilità di un rassemblement della componente monarchica, aristocratica e militare del Risorgimento con quella piccolo-borghese, laica e democratico-costituzionale, in chiave di riscossa nazionale: «senza e contro ogni ingerenza straniera». Egemonia, che si giustificava attraverso un’idea della storia d’Italia, come storia di un «primato» ormai integralmente laico e nazionale, da ricostruire in alternativa a quello classico e neoguelfo proposto da Gioberti. Egemonia, infine, che comprendeva anche precoci tratti di sistematico antiparlamentarismo28, e maggiormente di inquieto orgoglio patriottico, venato non raramente di sciovinismo e soprattutto ritmato in funzione antifrancese e anti-imperiale, che Carducci aveva espresso nitidamente e senza equivoci, nel 1882. L’Italia intanto è debole dentro, debolissima alle frontiere. Al nord-est, l’Impero austro-ungarico dalle Alpi centrali e orientali la stringe alla gola. Al nord-ovest, dalle Alpi occidentali la repubblica francese la minaccia alle spalle. Per le coste è in balia di tutti. Dentro, ella marcisce nel bizantinismo. Ora non bisogna marcire di più. Ora bisogna: riforme sociali, per la giustizia; riforme economiche, per la forza; armi, armi, armi, armi per la sicurezza. E armi, non per difendere, ma per offendere. L’Italia non si difende che offendendo. Altrimenti sarà invasa29.
Un carduccianesimo vastamente inteso costituiva quindi il tratto distintivo della formazione politica che Volpe ereditava da Picciòla, quale ritroveremo, a più riprese, in non interrotta continuità, anche in sede di giudizio storico, fino al secondo dopoguerra, nelle sua miscela di crispismo, nazionalismo misogallico e misoasburgico, laicismo, antiso27 G. CARDUCCI, Prefazione a Giambi ed Epodi, 1882, in ID., Confessioni e battaglie, Prima serie, Bologna, Zanichelli, 1939, pp. 148-149. 28 Carducci avrebbe stigmatizzato come «sedizione» parlamentare, priva di una reale «maggioranza» etico-politica, le manovre parlamentari che nel maggio del 1898 avevano condotto Crispi alle dimissioni e portato alla formazione del gabinetto di Rudinì. Sul punto, R. BALZANI, Per Crispi e la regina: Carducci senatore, cit, p. 37. 29 G. CARDUCCI, XX dicembre. In morte di Oberdan, 1882, in ID., Confessioni e battaglie, Seconda serie, cit., p. 308.
NASCITA DI UNO STORICO
19
cialismo e tendenzialità filomonarchica (ambedue di metodo, però, e non di viscere), insofferenza per una rappresentanza politica che soffocava e mistificava la reale volontà del paese. Ma dall’eredità carducciana Volpe traeva anche un diretto stimolo all’analisi del passato e, in questo campo, il «poeta educatore», per utilizzare ancora le definizioni di Benedetto Croce, cedeva il passo al «poeta della storia»30. Nelle «ricostruzioni storiche» di Carducci si trovavano contenuti in nuce alcuni temi fondamentali del Volpe storico dell’età comunale e già precocemente storico della nazione italiana. Così nel poema Sui campi di Marengo, dove l’alleanza delle città lombarde avverse alla calata del Barbarossa viene avvertita come prima manifestazione della reazione italiana contro il «dominio di estranee genti». Così nel Comune rustico, celebrazione dello spontaneo formarsi, in area rurale, dei nuclei civili di libertà, d’indipendenza e di resistenza alla barbarie, tanto più intensi spiritualmente quanto più piccolo materialmente è il campo in cui essi sorgono e si affermano. Così, ancora, nella Faida di Comune, dove persino l’esuberanza incomposta delle forze, che si urtano tra loro nella perenne guerra italo-italiana dell’età di mezzo, è vista come testimonianza ideale di un governo libero, ma al tempo stesso forte sul piano esterno, che si sviluppa nella comunità primitiva, di tipo paleocomunale e contadino, all’interno della quale il rapporto fra l’autorità e i cittadini è diretto, perché tra lo Stato, ridotto alle sue istituzioni elementari, e il popolo esiste un rapporto di naturale intesa più che di interazione istituzionale. Rapporto costruito sulla coincidenza assoluta fra mondo del lavoro (che in primo luogo identificava la cittadinanza come tale, al di là di ogni partizione cetuale) e società civile: in quanto il popolano è, nella stessa maniera, rappresentante nel «piccolo senato» (come amministratore e politico al servizio della comunità), proprietario collettivo del territorio della repubblica (e quindi compartecipe delle fortune economiche di essa), suo difensore all’occorrenza e artefice della sua espansione, perché elemento della «nazione in armi», secondo una definizione che, coniata negli ambienti della sinistra mazziniana e garibaldina, era entrata a far parte dell’armamentario ideologico del crispismo31. Ma più ancora che per questi temi particolari, che troveremo tutti puntualmente sviluppati nel lavoro sul Comune pisano del 190232, il legato del Carducci storico si trasmetteva a Volpe in alcune linee di ten-
30 B. CROCE, Giosuè Carducci, cit., pp. 65 e 104. 31 C. DUGGAN, Creare la nazione. Vita di Francesco Crispi, cit., pp. 517 ss. 32 G. VOLPE, Studi sulle Istituzioni comunali a Pisa. Città e contado, consoli e podestà
nei secoli XII-XIII, Pisa, Nistri, 1902. Se ne veda la più recente edizione a cura e con una ricca introduzione di C. Violante, Firenze, Sansoni, 1970, dalla quale si cita.
20
GLI ANNI DELL’ATTESA
denza generali. Se infatti, in Italia, a partire dalla fine degli anni Sessanta, si assisteva alla proposta del mito dell’età comunale, come insuperato esempio di indipendenza e di libertà, e pietra angolare per la costruzione di un’identità nazionale comune ma, al tempo stesso, in grado di valorizzare le diversità cittadine e regionali33, se addirittura, nei programmi scolastici, il Medioevo era definito il momento in cui «aveva luogo la formazione del moderno popolo italiano» e nel quale «il soggetto della storia veramente si cangia; non è più storia del paese, ma storia della nazione»34, Carducci utilizzava tutta l’autorità del suo magistero per rafforzare e sostenere questa interpretazione. Questo accadeva fin dalle lezioni dedicate allo «svolgimento della letteratura nazionale» del 1868-1871, nelle quali, all’assenza di una letteratura nazionale, fra XI e XIII secolo, si contrapponeva l’attivo rappresentato dal fatto che l’Italia in quello stesso periodo «ha costituito a repubblica i suoi Comuni; ella ha fiaccato l’Impero e fa già paura al Papato, ha restaurato il diritto romano, e instaura i codici di commercio nell’Europa feudale, pel commercio dominatrice d’Europa copre di legni il Mediterraneo, dispensiera delle ricchezze d’oriente, spinge le sue peregrinazioni fino alla Cina e al Malabar»35. Il risultato di questa meravigliosa espansione era in tutto dovuto agli «spiriti romanamente pratici e sociali» della sua stirpe e alla presenza di un «principio popolare nazionale», che si presentava quasi come un’energia generatrice di carattere materiale e naturale, costituendo, proprio per questo, un fattore remoto, sotterraneo, ma sempre operante in tutta la sua potenza, della dinamica storica, in quanto «forza vitale che fermentò lunghi secoli occulta ne’ residui dell’antica Italia, che fu come il glutine della nuova Italia, e che per ciò può dirittamente considerarsi come l’elemento nazionale»36. Da quella forza e dal suo operare ascondito, come il seme di grano nella nera terra, la «nazione italiana» proiettava la sua capacità di nascere e di rinascere, dopo tante morti e tante cadute, allorché «all’ombra della Chiesa, un altro elemento, dalle gilde commerciali e dalle maestranze delle arti, avanzava poco a poco alla massa, alla credenza al comune, e nelle contese, 33 E. SESTAN, L’erudizione storica in Italia in Cinquant’anni di vita intellettuale italiana. Scritti in onore di Benedetto Croce per il suo ottantesimo compleanno, a cura di C. Antoni e R. Mattioli, Napoli, Esi, 1950, II, pp. 425 ss.; I. PORCIANI, Il Medioevo nella costruzione dell’Italia unita: la proposta di un mito, in Italia e Germania, Immagini, modelli, miti fra due popoli nell’Ottocento: il Medioevo, a cura di R. Elze e P. Schiera, Bologna-Berlin, Il Mulino-Duncker & Humblot, 1988, pp. 163 ss. 34 Istruzioni e programmi per l’insegnamento nei Licei e nei Ginnasi approvati con R. Decreto del 7 ottobre 1867, Torino, R. Stamperia della Camera de’ Deputati, 1874, pp. 28 ss. 35 G. CARDUCCI, Dello svolgimento della letteratura nazionale, 1868-1871, in ID., Prose, cit., pp. 271-272. 36 Ivi, p. 284.
NASCITA DI UNO STORICO
21
tra pontefici e imperatori, sorse terzo e più vero potere, fin allora sconosciuto e oppresso; ma con lui e per lui stava il diritto e la forza dell’avvenire; e chiamavasi, con nome nella storia d’Italia eternamente memorando, il popolo». Quel popolo, concludeva Carducci, che «altrove rimasto terzo stato aiutò i monarchi a snervare il clero e la nobiltà, qui all’ardita opera procedè primo e solo»37. Il «popolo» dunque si acquartierava sovrano, unico e indiscusso, nella ricostruzione storica carducciana, come più tardi sarebbe accaduto in quella di Volpe storico dell’Italia medievale, moderna e recentissima, che, nel 1907, avrebbe esplicitamente ricordato come l’analisi del passato avrebbe sempre dovuto concentrarsi sull’elemento collettivo e cogliere in profondità «le forme della sua attività, i prodotti inconsapevoli della storia, in cui più che l’impronta netta dell’uomo di genio si ritrova il lavorio lento, secolare, incerto della turba anonima e incolore, la goccia che scava il macigno; le istituzioni economiche e giuridiche tutte, in cui si fissano e si tramandano i bisogni e le consuetudini della gran massa degli uomini»38. Né si trattava però in questo caso, né per Carducci né per Volpe, di una nozione di «popolo» interpretato alla luce del principio democratico, come era accaduto in Michelet39, ma di «una vita anonima da osservare non per individui o per fatti ben chiari e fermi e circoscritti nel tempo e nello spazio, ma per masse»40, tanto più apparentemente indecifrabile tanto più vitale, mai esattamente definibile in base a categorie di classe o di stirpe, e bisognosa, per potere mettere in azione tutte le potenzialità in essa riposte, di essere fecondata dall’azione dei «migliori», nei quali soltanto risiedeva l’effettiva «cittadinanza»41. Questo principio popolare e nazionale, postulato da Carducci, avrebbe finito per sottrarsi poi a una determinazione rigidamente etnica, anche se il professore dell’ateneo di Bologna, posto di fronte al secolare dibattito storiografico sulla «questione longobarda» (da intender37 Ivi, p. 282. 38 G. VOLPE, Rassegna di studi storici, in «Rivista d’Italia», X, 1907, 1, pp. 677 ss., in
particolare p. 678. 39 J. MICHELET, Le Peuple, Paris, Comptoirs des Imprimeurs unis, 1846, pp. 13-14. 40 G. VOLPE, Prefazione a Medio Evo italiano, Firenze, Vallecchi, 1922, p. VIII. 41 G. CARDUCCI, Sul disegno di legge; Stato di previsione della spesa del Ministero dell’Istruzione pubblica per l’esercizio finanziario, 1892-1893. Senato del Regno, tornata del 17 dicembre 1892, in ID., Discorsi parlamentari, cit., p. 51: «La nazione italiana l’hanno fatta la nobiltà e la borghesia, quella che io direi cittadinanza. Le plebi, intendo specialmente le masse rurali, non ebbero parte al nobile fatto: non potevano capirlo: parteggiarono più d’una volta co’ nostri nemici. La patria ora la conoscono appena e non benignamente come una madre. Giustissimo dunque ed utile rinnovare e rialzare con l’educazione le plebi; ma altrettanto necessario mantenere calda e viva nella cittadinanza l’idealità che fece la patria».
22
GLI ANNI DELL’ATTESA
si ora come flagello d’Italia, definitivamente vinto dal connubio dei Franchi con la Chiesa di Roma, ora come soluzione unitaria venuta meno, prima di aver potuto realizzare il suo compito storico di offrire un quadro politico alla nascente nazione italiana)42 pareva optare per il primo corno di questo dilemma, fornendo una rappresentazione dell’età medioevale, tutta centrata sullo scontro tra latinità e germanesimo, che si articolava sul piano istituzionale nel conflitto tra «individualismo» germanico e tendenza all’«associazione» della tradizione latina. Nel 1860, il poeta inaugurava, infatti, i suoi corsi di eloquenza italiana con una significativa sintesi storica, imperniata sul contrasto tra l’elemento germanico «ordinatosi nella feudalità» e l’elemento latino, «che fattosi largo con l’industria e il commercio ebbe a fine la libertà de’ Comuni», quando nell’età comunale, appunto, l’elemento «straniero e feudale» fu vinto da quello «indigeno e popolano», pur restando annidato nelle città come «fazione dei ghibellini e dei grandi»43. Ad un solo anno di distanza, precisamente nel 1861, Pasquale Villari rilanciava compiutamente questa interpretazione, tratteggiando uno scenario dove tutto ruotava attorno alla lotta civile cittadina, tra mercanti e artigiani, che «conservano, più che possono, le leggi, le tradizioni, gli usi e il nome romano» e la nobiltà feudale di origine germanica, predatrice e oppressiva44. La tematica, mutuata da Sismondi ma anche da Thierry, della storia dell’età comunale in quanto storia della libertà italiana ed europea45, e quella già affrontata nel 1849 dell’«unità» della storia d’Italia, come individuazione di un elemento generale di carattere de-
42 Sul punto, G. FALCO, La questione longobarda e la moderna storiografia italiana, in Atti del Primo Congresso Internazionale di Studi Longobardi, Spoleto, 1952, pp. 155 ss., poi, in ID., Pagine sparse di storia e di vita, Milano-Napoli, Esi, 1960, pp. 11 ss. Si veda anche, G. TABACCO, La città italiana fra germanesimo e latinità nella medievistica ottocentesca, in Italia e Germania, Immagini, modelli, miti fra due popoli nell’Ottocento: il Medioevo, cit., pp. 23 ss. 43 G. CARDUCCI, Prolusione alle lezioni nella Università di Bologna (1860) in Opere. V. Prose giovanili, Bologna, 1936, pp. 490 ss., in particolare pp. 490-493. 44 P. VILLARI, L’Italia, la civiltà latina e la civiltà germanica. Osservazioni storiche, Firenze, Felice Le Monnier, 1861, pp. 13 ss. Sul punto, compiutamente, M. MORETTI, “L’Italia, la civiltà latina e la civiltà germanica” (1861). Sulle origini degli studi medievistici di Pasquale Villari, in Italia e Germania, Immagini, modelli, miti fra due popoli nell’Ottocento: il Medioevo, cit., pp. 299 ss., ora in ID., Pasquale Villari storico e politico, Napoli, Liguori Editore, 2005, pp. 77 ss. 45 J.-C.-L. SIMONDE DE SISMONDI, Storia delle Repubbliche italiane, Torino, Bollati Boringhieri, 1996, pp. 26 ss.; A. THIERRY, Essai sur l’histoire de la formation et des progrès du Tiers état, Paris, Furne, 1853, al capitolo I, pp. 1 ss. Sulla presenza di questi autori già nell’apprendistato giovanile di Villari, si veda M. MORETTI, Alla scuola di Francesco De Sanctis: la formazione napoletana di Pasquale Villari (1844-1849) in «Giornale critico della filosofia italiana», 1984, 1, pp. 27 ss., ora in ID., Pasquale Villari storico e politico, pp. 3 ss.
NASCITA DI UNO STORICO
23
mocratico e cittadino attorno a cui coordinare un ricco e apparentemente imprendibile passato46, venivano riprese ed esaurite nell’analisi del conflitto tra latinità e germanesimo. Non solo, la libertà e la civiltà italiana avevano tratto origine dalla storia dei Comuni, da intendersi come «la prima grande vittoria del sangue latino sopra il sangue germanico». Lo scontro etnico consentiva, infatti, di individuare anche «le leggi generali che guidarono il corso generale della civiltà italiana» e il ruolo, in esso determinante, del conflitto intestino (che, per tanta parte, aveva caratterizzato la storia dell’età mediana), tra nobiltà germanica, anch’essa penetrata nel Comune, e popolo latino, nel quale ardeva «la febbre della guerra civile» non mossa soltanto da «ambizioni o gelosie private» ma dalla «lotta feroce di razze nemiche» e paragonabile, quindi, a una vera e propria «guerra nazionale», attraverso la quale si doveva spegnere il «sangue tedesco»47. Presupposti, questi, che spingevano Villari a concludere, di lì a pochi anni, che, penetrato il feudalesimo nel municipio, il quale «come l’aveva dovuto combattere e distruggere nella campagna, così doveva ora combatterlo nella cerchia stessa delle mura», la guerra civile ritornava a essere inevitabile «non per odio o gelosie personali» ma ancora una volta «come guerra di razze avverse». Sebbene gli elementi che in essa contrastavano non fossero più di una stirpe geneticamente distinta, i nobili, «eredi delle tradizioni germaniche», facevano parte infatti d’una «società diversa dalla democrazia in cui sono entrati»48. La tesi «antilongobarda», se assecondava pienamente il risorgimentale patriottismo italiano e le sue immediate proiezioni storiografiche, contrastava però con l’ideologia neoghibellina di Carducci e di quanti con lui vedevano nello scontro tra Regno italico e Soglio di Pietro il primo momento del secolare conflitto tra Stato e Chiesa49. Lo sposare quella tesi configurava, allora, non soltanto un grave cedimento alla tendenza largamente presente nella vasta area culturale del guelfismo e nell’interpretazione di Manzoni in particolare50. Quella scelta infatti discordava anche con la possibilità di fornire una base di lunga e organica du46 P. VILLARI, Introduzione alla Storia d’Italia. Dal cominciamento delle repubbliche del
Medio Evo fino alla riforma del Savonarola, Firenze, Tipografia italiana, 1849, pp. 19 ss., dove Villari identificava la «storia d’Italia», al di sopra di ogni frammentazione regionale, nella «storia della civiltà italiana», nella misura in cui quella «civiltà» politica e culturale aveva costituito un elemento di raccordo dei vari Stati italiani, a partire dall’età comunale. 47 ID., L’Italia, la civiltà latina e la civiltà germanica, cit., p. 21. 48 ID., Le prime origini e le prime istituzioni della Repubblica fiorentina, in «Il Politecnico», II, 1866, pp. 1 ss., p. 14, per la citazione. 49 G. TABACCO, La città italiana fra germanesimo e latinità nella medievistica ottocentesca, cit., pp. 25 ss. 50 A. MANZONI, Discorso su alcuni punti della storia longobarda in Italia (1822) in ID., Tutte le opere, Milano, Mondadori, 1963, IV, in particolare pp. 200 ss.
24
GLI ANNI DELL’ATTESA
rata alla storia italiana. Non solo per il fatto che, chi poneva l’accento sulla violenza distruttiva dei Longobardi, correva il rischio di dover negare, poi, quella continuità di tradizioni civili e istituzionali, che proprio dall’alto Medioevo aveva preso origine. Ma anche perché l’identificazione della stagione comunale, in termini di prevalente conflittualità intestina, portava a concludere, già con Villari, che se le «discordie» avevano costituito l’«alimento» della primitiva storia del nostro paese, a partire dal crollo dell’Impero romano51, queste stesse contese intestine, ritenute necessarie, fino alla sconfitta del germanesimo, dovevano apparire invece rovinose nel momento in cui, proseguendo oltre quell’obiettivo, esse avevano innescato una serie di reazioni che avrebbero condotto alla crisi del sistema comunale e alla perdita della libertà, tramutandosi da fenomeno nazionale a fenomeno antinazionale. Debellato l’elemento straniero, aveva concluso Villari, sarebbero dovute cessare anche «le cagioni della guerra civile e la necessità di restare sparsi e divisi», mentre la «famiglia latina» avrebbe dovuto sentire «il bisogno di raccogliersi e costituirsi in nazione». Ma nel momento di questo trapasso storico epocale, «l’Italia, travagliata da tante lotte, agitata da una vita troppo rapida e quasi febbrile, si trovava già logora, nel momento in cui avrebbe avuto bisogno di raddoppiate forze, per continuare il suo cammino»52. Proprio nella genesi della moderna storia italiana era racchiuso, quindi, un germe di decadenza destinato a interrompere e poi a impedire il processo di unità nazionale, in conformità a una perversa dinamica che era stata già messa in evidenza da Sismondi ma soprattutto da Guizot che aveva visto nel mancato progresso istituzionale in direzione dell’accentramento statale e nei fattori dirimenti della inimicizia civile, prima di sangue e poi di ceto, la causa principale del declino e della caduta della società comunale e la sua conseguente, congenita estraneità al processo di formazione dello Stato moderno53. L’impasse costituita da questa compatta visione del passato in chiave di conflitto etnico veniva però superata da Carducci nell’ode La chiesa di Polenta del 1897, dove il poeta cantava l’«itala gente dalle molte vite»54. La pieve dell’Appennino romagnolo diveniva il simbolo dell’op-
51 P. VILLARI, Introduzione alla Storia d’Italia, cit., p. 14. 52 Ivi, p. 34. 53 J.-C.-L. SIMONDE DE SISMONDI, Storia delle Repubbliche italiane, cit., pp. 342 ss.; F.
GUIZOT, Histoire générale de la civilisation en Europe, depuis la chute de l’Empire romain jusqu’à la Révolution française, Bruxelles, Meline, Cans et Compagnie, 1846, pp. 184 ss. Tesi alla quale Villari controbatteva, con qualche difficoltà, sostenendo che «la discordia non fu cagione della sua rovina, perché l’Italia non è stata mai senza discordie». Si veda, ID., Introduzione alla Storia d’Italia, cit., p. 14. 54 G. CARDUCCI, Poesie, Bologna, Zanichelli, 1927, pp. 1010 ss.
NASCITA DI UNO STORICO
25
pressione del popolo latino, composto da «ignoti servi che morian tra la romana plebe», mentre «fuori stridea per monti e per piani il verno della barbarie ed il furor d’Odino». Ma la piccola chiesa era anche presentata come raffigurazione della fusione fra diverse etnie, che si sarebbe poi compiutamente realizzata nell’età comunale. Nelle sue mura, infatti, agli «schiavi, percossi e dispogliati», in un non lontanissimo futuro, si sarebbero uniti «percossi e dispogliati, anch’essi, i percussori e spogliatori un giorno» e «nel cospetto a Dio vendicatore e perdonante, vincitori e vinti» avrebbero creato una nuova comunità. Al di là delle ragioni del canto e in sede di più meditato approfondimento, Carducci aveva introdotto gli elementi di questa interpretazione già nelle lezioni bolognesi della fine degli anni Sessanta, dove, certamente, la storia dei Comuni veniva considerata come trionfo del «risvegliato elemento romano», che, con «l’opera sua di civiltà essenzialmente pratica», dava luogo a «un movimento ideale di restaurazione e continuazione delle tradizioni antiche»55, ma dove pure si assisteva a un superamento del principio di contrapposizione etnica nel «principio popolare», che fu in grado di realizzare «un acconcio temperamento dell’antico e del nuovo, del cristiano e dell’etnico, del latino e del medievale, tanto ne’ reggimenti e negl’istituti, quanto nella scienza e nell’arte; certo per quella facoltà di sapiente eclettismo e di artistica assimilazione, che fu della gente nostra»56. L’energia vitale del Comune fu tale, infatti, e tanto potente proprio perché «cresciuta dal consorzio del popolo romano con gli arimanni germanici» concludeva Carducci nel 189057. Indicazione generale e persino generica, questa, che Volpe avrebbe ripreso e articolato nel dettaglio nei suoi primi saggi, dedicati a smantellare i miti ottocenteschi a base etnica che aduggiavano l’analisi del passato. In quei lavori, Volpe interpretava i «Lambardi» toscani dei secoli XI-XIII, al di là di ogni connotazione di stirpe, unicamente come una classe sociale, inserita nel contesto completamente nuovo di una nazione nascente58, né latina 55 ID., Dello svolgimento della letteratura nazionale, cit., p. 283. 56 Ivi, p. 315. 57 ID., Lo Studio di Bologna, 15 aprile 1890, in ID., Prose, cit., p. 1172. 58 G. VOLPE, Lambardi e Romani nelle campagne e nelle città. Per la storia delle classi
sociali, della nazione e del Rinascimento italiano, XI-XV, in «Studi Storici», XIII, 1904, pp. 54 ss.; 167 ss.; 21 ss.; 369 ss.; ID., Emendamenti e aggiunte, ivi, XIV, 1905, pp. 124 ss. Si veda anche ID., Studi sulle Istituzioni comunali a Pisa, cit., pp. 24 ss. e 31 ss. In questi contributi (ricompresi, i primi tre, in ID., Origine e primo svolgimento dei Comuni nell’Italia longobarda. Studi preparatori, a cura di C. Violante, Roma, Volpe Editore, 1975, pp. 3 ss.) era esplicita la polemica con il paradigma razziale della vecchia scuola positivistica, bene rappresentato nel lavoro di C. CIPOLLA, Della supposta fusione degli Italiani con i Germani nei primi secoli del Medioevo, in «Rendiconti della R. Accademia dei Lincei. Classe di Scienze morali, storiche, filologiche», IX, 1900, pp. 329 ss., 369 ss., 517 ss.
26
GLI ANNI DELL’ATTESA
ormai né germanica ma semplicemente «italiana», che si manifestava come tale, tagliando il cordone ombelicale che, troppo strettamente annodandola al ricordo della civiltà romana e a quello più recente della conquista straniera, rischiava di soffocarne lo slancio59. In questo modo, la storia dell’età medioevale appariva non solo preludio, ma già parte integrante di una «storia italiana», come dimostrava plasticamente la chiusa del volume pisano del 1902, dove, questa volta, persino il tema del conflitto civile, rinnovatosi e ampliatosi nel confronto tra Guelfi e Ghibellini, veniva visto come elemento di un faticoso processo verso una maggiore e più estesa unità politica, capace di oltrepassare i ristretti confini di città e regioni, per interessare l’intera Penisola60. In questo modo, sicuramente, Volpe traeva dal suo apprendistato carducciano un pregiudizio storiografico «patriottico» (a volte felice nei suoi esiti, altre sicuramente ingombrante ma comunque comune a buona parte degli storici italiani ed europei di quel periodo), che legava strettamente mito delle origini e costruzione di una storiografia a impianto nazionale61, eppure non ancora nazionalistica, provenendo, in ultima analisi, quell’impulso dal «poeta educatore» nel quale riviveva «la gentilezza, la nobiltà, e lo spirito armonico di questa vecchia razza italiana», nella cui antica consapevolezza persino «l’ideale guerresco, coltivato dagli uomini del Risorgimento, non si convertì mai in quel coraggio da avventuriere e in quella ferocia di barbaro, che si son poi chiamati imperialismo e militarismo»62. Ma che tale pregiudizio «patriottico» potesse risultare anche sviante, proprio nell’analisi dell’età
59 G. VOLPE, Pisa e i Longobardi in «Studi Storici», 1903, XII, pp. 50 ss., dove era mes-
sa in rilievo la fusione tra conquistati e conquistatori, attraverso la serrata analisi degli originali aspetti economici, sociali, istituzionali del «popolo nuovo», che ne era risultato, i quali costituiranno i tratti distintivi della civiltà comunale. 60 ID., Studi sulle Istituzioni comunali a Pisa, cit., pp. 450-451: «Papato e impero combattono infatti per scopi propri e per riflesso della lotta che agitava e divideva in due grandi campi ogni città, ogni regione, in fine tutta quanta l’Italia, con un moto in apparenza disordinato, di fatto regolare e continuo, se si guarda alle idee ed ai fini che sono come il filo rosso che attraversa teso e diritto la storia nostra di quei secoli, combattono per scopi pratici e per il trionfo di idee nuove. È il rumore di vecchi edifici che crollano e di nuovi che l’inconscia forza della storia viene faticosamente innalzando. Il concetto dell’unità d’Italia si viene appunto formando in questo progressivo, reale coordinamento delle forze e dei partiti. Concetto astratto certamente, non ancora divenuto sentimento profondo e tanto meno capace di determinare una azione politica: ma pur tuttavia miraggio lontano, fra poco, di poeti e scrittori, delineantesi confusamente in parte come riflesso della realtà storica, che risospingeva le menti a certe forme della civiltà latina, intese ora e sentite in tutta la loro umanità». 61 E. DI RIENZO, Storia d’Italia e identità nazionale. Dalla Grande Guerra alla Repubblica, Firenze, Le Lettere, 2006, al capitolo primo. 62 B. CROCE, Giosuè Carducci, cit., p. 47.
NASCITA DI UNO STORICO
27
precomunale, lo dimostrava, alla luce di un’analisi più approfondita, che solo oggi è stata formulata compiutamente, la disinvoltura con la quale Volpe, fiso nella ricerca della fisionomia di quella «gente nuova italiana, venuta su dal coacervo della società feudale», ipotizzava uno iato troppo netto tra la tradizione longobarda e i «Lambardi», che non rispondeva a quella gradualità di sviluppo storico, effettivamente verificatasi, per liquidare poi, forse troppo frettolosamente, l’ipotesi di una continuità giuridico-istituzionale, nelle città dell’Italia centro-settentrionale, che implicava l’esistenza di una tradizione di potere locale, derivante da un lungo processo d’incivilimento, al quale non era restata estranea anche la dominazione germanica63. Intessuti di attivi e passivi ma sempre larghi e non accessori i debiti contratti dal giovane storico con l’autore del Comune rustico, in ogni caso. Sicuramente, come si è già visto, sul piano dei contenuti e dell’ispirazione tematica complessiva, se si pensa che nella recensione al saggio di Karl Neumann, apparsa sulla «Critica» del 190564, la confutazione della tesi, che, in ossequio al più rigido e gretto «chauvinisme teutonico», avrebbe voluto fare del Rinascimento italiano, deprivato dall’apporto rigenerante della spiritualità germanica, soltanto la piatta e servile ripresa dell’esausta «coltura bizantina dell’età di mezzo», riecheggiava anche il senso delle invettive carducciane contro il «bizantinismo» dell’Italia post-unitaria65. In maniera egualmente consistente, tuttavia, quei debiti formativi riguardavano il piano stilistico e gli insuperabili talenti della narrazione storica di Volpe, sulla quale esiste ormai una vera e propria letteratura critica che ha parlato di «una prosa ellittica, accalorata, rotta, evocativa, spesso e volentieri deverbata, che non ha avu63 G. VOLPE, Questioni fondamentali sull’origine e svolgimento dei Comuni Italiani. (Secoli X-XV), Pisa, Nistri, 1904, poi in ID., Medio Evo italiano, Firenze, Vallecchi, 1923, pp. 1 ss. Sul punto, ora, G. TABACCO, Fief et seigneurie dans l’Italie communale, in «Le moyen âge», 1969, 1, pp. 20 ss.; ID., Vescovi e Comuni in Italia, in I poteri temporali dei vescovi in Italia e in Germania nel Medioevo, a cura di C. G. Mor-H. Schmidinger, Bologna, Il Mulino, 1979; O. BANTI, “Civitas” e “comune” nelle fonti italiane dei secoli XI e XII, in «Critica storica», 1972, 3, pp. 568 ss. Volpe, tuttavia, aveva largamente riconosciuto «il valore del diritto longobardo come diritto comune e l’azione da esso esercitata su tutte le consuetudini e sulla legislazione statutaria» nella recensione al lavoro di Karl Neumeyer, apparsa nel 1903 su «Studi Storici», ora in ID., Origine e primo svolgimento dei Comuni nell’Italia longobarda, cit., pp. 237 ss. 64 G. VOLPE, Bizantinismo e Rinascenza. A proposito di uno scritto di Karl Neumann, Byzantinische Kultur und Renaissancekultur («Historische Zeitschriften», 1903, pp. 215 ss.) in «La Critica», III, 1905, pp. 47 ss., poi in ID., Momenti di storia Italiana, Firenze, Vallecchi, 1925, pp. 95 ss. 65 G. CARDUCCI, Per Vincenzo Caldesi. Otto mesi dopo la sua morte, marzo 1817, in ID., Poesie, cit, p. 463: «Ancor la soma ci grava del peccato: Impronta Italia domandava Roma, Bisanzio le han dato».
28
GLI ANNI DELL’ATTESA
to epigoni nella storiografia italiana del Novecento, tutta additivi sinonimici, anafore concettuali, preziosismi arcaizzanti, interrogativi retorici, costrutti nominali, effetti espressionisti»66. Un prosa tutta dannunziana, verrebbe da dire, di fronte a questa definizione che riprende quelle di quanti, sulla scorta o meno di un tendenziosissimo giudizio di Delio Cantimori sull’«irrazionalismo storicistico» e addirittura sul «bruto naturalismo» di Volpe67, hanno poi insistito sulla presenza di uno stile letterario ispirato alle categorie della «vitalità» e della «provvidenza non mistico-teologica, ma tutta naturalistica, immanente alle forze stesse della vita», all’«interesse per un dinamismo pieno di fermenti, che si arricchisce via via di nuovi fiori e frutti, che si moltiplica e si diversifica nelle attività e creazioni più varie, che pulsa potente per molte vene», poco interessato a mettere in evidenza l’elemento etico e razionale dell’azione umana68. A ben vedere, invece, la presenza, in Volpe, di una ricca fioritura metaforica tratta dal mondo naturale aveva poco a che vedere con la zoologia e la biologia decadentistica di un Barrès o di un D’Annunzio, ma si collegava strettamente, invece, al ruralismo carducciano, al canto delle «opere e i giorni», nel quale la natura si accampa, sul palcoscenico della storia, solo in virtù del lavoro umano, considerato il primo e fondamentale momento di civilizzazione69, e poi il principale fattore di coesione ed espansione nazionale70. Per Carducci, infatti, il mirabile edificio politico del Comune nasceva come sintesi di genti diverse, e un tempo irriducibilmente avverse, per «memore forza e amor novo spiranti»: allo stesso modo in cui «la spumeggiante vendemmia il tino ferve, e de’ colli italici la bianca uva e la nera calpestata e franta, sé disfacendo, il forte e redolente vino matura»71. E anche per Volpe al di sotto del 66 S. LANARO, Raccontare la storia. Generi, narrazioni, discorsi, Padova, Marsilio, 2004, p. 112. Si veda anche C. VIOLANTE, Gioacchino Volpe scrittore, in Atti del Convegno di studi su Gioacchino Volpe nel centenario della nascita, Roma, Volpe Editore, 1977, pp. 91 ss. 67 D. CANTIMORI, Federico Chabod, «Belfagor», XV, 1960, pp. 688 ss., poi in ID., Storici e storia, Torino, Einaudi, 1971, pp. 259 e 274-275. Si veda anche il parere editoriale inviato da Cantimori alla casa editrice Einaudi sul volume di F. BRAUDEL, Civiltà e imperi nel Mediterraneo nell’età di Filippo II, in ID., Politica e storia contemporanea. Scritti 1927-1942, Torino, Einaudi, 1991, p. 795-796. Giudizi che, ripetuti e amplificati, sono alla base del lavoro di I. CERVELLI, Gioacchino Volpe, Napoli, Guida, 1977. 68 E. SESTAN, Gioacchino Volpe storico e maestro, in «Bilancio. Rassegna bimestrale delle edizioni Sansoni», VII, settembre 1958, p. 14. 69 L. DAL PANE, Economia e storia nel “Medioevo italiano” di Gioacchino Volpe, in «Giornale degli Economisti e Annali di Economia», novembre-dicembre, 1963, pp. 867 ss.; ID., Gioacchino Volpe, in «Rivista di storia dell’agricoltura», XVI, 1976, pp. 3 ss.; ID., La storia come storia del lavoro. Discorsi di concezione e di metodo, Bologna, Patron, 1971, pp. 96 ss. 70 G. VOLPE, L’Italia in cammino, cit., pp. 55 ss.; ID., Italia Moderna, cit., III, pp. 143 ss. 71 G. CARDUCCI, La chiesa di Polenta, cit., pp. 1013-1014.
NASCITA DI UNO STORICO
29
conflitto determinato da forze istintive, difficilmente disciplinabili, tra sé confliggenti, che impetuose attraversano il corso delle società umane (dato questo che verrà sempre accettato in tutta la sua pienezza e durezza)72, il punto di equilibrio costante della dinamica storica veniva ravvisato nella lenta e paziente tenacia della «popolo italiano», nel suo senso di equilibrio e di moderazione, ma anche di testarda ostinazione a progredire nel futuro, dopo ogni caduta e al di là di ogni ostacolo, come le radici di una pianta ben coltivata riescono a forare il più duro terreno per impadronirsi delle essenze vitali, in un processo continuo che rifugge da salti, discontinuità, mutamenti repentini, interruzioni e deviazioni di un corso di crescita secolare snodantesi, sempre, per addizione di nuovi elementi che non cancellano gli antichi, ma li ricomprendono in una superiore unità73. Si delineava, in questo modo, un’interpretazione globale dello sviluppo storico, che in Volpe rimarrà immutata, nei suoi tratti qualificanti, nel futuro prossimo e più lontano, egualmente produttiva per interpretare le vicende della società medioevale come quelle dell’Italia contemporanea: dal moto risorgimentale all’Unità, alla «crisi di fine secolo», alla Grande Guerra, al fascismo. 2. Sotto il peso robusto ma non ingombrante di tale Bildung carducciana, Volpe inoltrava la richiesta di ammissione per un posto gratuito nella sezione di Lettere della Scuola Normale Superiore di Pisa, il 26 luglio del 189574. La domanda era redatta su impulso di Picciòla, come si è accennato, che in quell’istituto poteva contare ancora, forse, sull’amicizia di vecchi maestri, come D’Ancona. Delle prove, necessarie a varcare il portone del Palazzo dei Cavalieri, ci resta il componimento d’italiano da svolgersi, sulla seguente traccia: «Discorra il candidato della Gerusalemme liberata del Tasso, considerandola sì dall’aspetto dei tempi e delle condizioni della coltura nazionale, come da quello delle ragio-
72 G. VOLPE, Studi sulle Istituzioni comunali a Pisa, cit., p. 291: «Da per tutto frazionamento, tendenza a costituir nuovi gruppi disciplinati e trasformar gli antichi e sostituire ai naturali e necessari quelli volontari e giurati, quindi collisioni d’interessi e conflitti di prevalenza. I gruppi cercano raccogliere nelle proprie mani sempre maggiori attribuzioni a scapito del comune, agiscono come forze centrifughe e dissolventi, minano il potere consolare nel suo carattere fondamentale di collegialità e di unità. Venendo meno il rapporto vivo fra istituzioni pubbliche ed assetto sociale, non corrispondendo più quelle ai bisogni del paese, facendo ostacolo ad una pacifica e rapida trasformazione gli interessi di quelli che si sono consolidati al potere, nascono le discordie». 73 Ivi, p. 301: «In generale, in una nuova società che sorge, le istituzioni non scompaiono mai del tutto ma si trasformano, nel modo stesso che i bisogni da cui esse si svolgono non si sostituiscono gli uni agli altri ma si assommano». 74 Archivio della Scuola Normale Superiore di Pisa (ASNSP), fascicolo Volpe Gioacchino.
30
GLI ANNI DELL’ATTESA
ni dell’arte»75. Delle due indicazioni, Volpe privilegiava sicuramente la prima, amplificando le note pagine di Francesco De Sanctis sulla decadenza delle nostre lettere, dovuta al trionfo dello spirito controriformistico e all’assenza, nella Penisola, di una «totalità politica fortificata e cementata da idee religiose, morali e nazionali», che fosse in grado di promuovere il sentimento di una «patria italiana»76. Secondo il futuro normalista, infatti, «la letteratura nazionale, passata la splendida fioritura della prima metà del secolo XVI, declinava rapidamente nella seconda metà», approssimandosi al nuovo secolo che «se ci diede il Galilei e il metodo sperimentale, e non mancò di qualche buon poeta e prosatore, ci diede pur anco una corruzione pressoché universale delle forme dell’arte, derivata certamente dall’esser, per effetto del dominio straniero e dell’intolleranza religiosa, venute meno le energie intellettuali e adagiati gli spiriti sotto il peso del doppio giogo, sancito definitivamente e irremissibilmente col trattato di Cateau Cambrésis e col Concilio di Trento»77. Di questa «età di transizione», Tasso e la sua opera costituivano lo specchio fedele e quasi la plastica testimonianza dello spauramento di quanti, in Italia, si trovarono «sorpresi dall’uragano politico senza essere preparati a sostenerne l’urto, e abbattuti senza essersi prima provvisti di coraggio per tentare una riscossa», e che piuttosto preferirono «ripiegarsi su stessi, atterriti dalle sciagure, che, non sospettate così gravi, non avevano ancora dato spazio a quel lento lavorio di ricostruzione su altre e più ferme basi, che doveva condurre all’età moderna». Era un elaborato dunque, che esasperava e semplificava i contenuti laici e patriottici di De Sanctis, in una vulgata culturale fortemente ghibellinizzante78, la quale doveva costituire il patrimonio comune di molti altri giovani, allora usciti dalle scuole secondarie del Regno, come confermava il tema di ammissione di Giovanni Gentile, composto soltanto due anni prima, che costituiva, anche in questo caso con larghi prestiti dalla Storia della letteratura italiana79, una sorta di grido di dolore per la decadenza del nostro paese culminata nella stagione dello spagnolismo letterario e dell’Arcadia, alla quale, più tardi, avrebbe po75 Ivi. 76 F. DE SANCTIS, Storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1958, II, pp. 646 ss. 77 In questa e nella citazione successiva, il riferimento è alla prova di ammissione di
Volpe.
78 Si veda il severo giudizio dell’elaborato di Volpe sulle conseguenze del Concilio tri-
dentino, che «fu, se si riguarda dal lato puramente religioso una grande riforma: ma, politicamente e socialmente parlando, di quanto male non fu causa all’Italia! Ristabilita su solide basi l’inquisizione, riconosciuta la supremazia dei pontefici sui concili, sottomesso in tutto lo Stato alla Chiesa, la società laica alla ecclesiastica, resa più rigorosa la censura preventiva, umiliata insomma la coscienza, l’intelligenza, l’attività individuale e collettiva». 79 F. DE SANCTIS, Storia della letteratura italiana, cit., pp. 908 ss.
NASCITA DI UNO STORICO
31
sto rimedio il robusto ingegno nazionale di Parini e di Alfieri, rompendo i ponti con una tradizione culturale che «aveva non solo dimenticato ogni idea di patria e di libertà, ma s’era anche acconciata a fare a meno di ogni grande sentimento morale e civile»80. Guadagnato, il 3 novembre, l’ingresso alla Normale con il punteggio di quaranta cinquantesimi81, e contestualmente ottenuta l’iscrizione nella Facoltà di Lettere di Pisa82, Volpe trovava tra le antiche mura dell’Alma mater, adagiata sulle rive dell’Arno, un ambiente intellettualmente vivace, a partire dai suoi stessi compagni di studio (Giovanni Gentile, naturalmente, Fortunato Pintor, Giuseppe Lombardo Radice, Ferruccio Boffi, Giuseppe Manacorda, Nino Abd-el-Kader Salza)83: molti dei quali sarebbero poi divenuti gli inseparabili «old boys» di tutta la vita. Della stagione normalistica, lo storico ci ha tramandato un racconto vivace di sincero cameratismo, riunioni conviviali, esercizi sportivi, giovanili amori84, dove mai però lo sguardo retrospettivo troppo concede alla ricostruzione celebrativa, come accadrà a Gentile85, o all’umbratile nostalgia, come capiterà a Pintor86. Pisa fu nondimeno un momento importante della sua formazione politica, prima ancora che intellettuale, se non altro perché gli anni vissuti nella città toscana coincideranno, in buona parte almeno, con uno dei periodi più tormentati della giovane vicenda italiana, sospesa tra crispismo, reazionarismo, democrati80 La traccia da sviluppare era in questo caso: «Le lettere, e specialmente la poesia nel concetto del Parini e dell’Alfieri e nelle opere loro». Traggo la citazione da D. COLI, Il caso storiografico Giovanni Gentile, in «Studi Storici», 1986, 2, pp. 500 ss., in particolare pp. 507-508. 81 Registro esami normalistici, busta 65, registro 1, 1863-1896, in ASNSP. 82 La domanda, inoltrata al Magnifico Rettore, per ottenere l’ammissione alla frequenza del 1° corso universitario della Facoltà di Lettere e Filosofia, datata 28 novembre 1895, è anch’essa conservata in ASNSP. 83 Gioacchino Volpe a Giovanni Gentile, Milano, 2 febbraio 1920, AFG. 84 G. VOLPE, Ritorno al paese, cit., pp. 10-11; ID., Ricordi di scuola, di studi, di amici in «Archivio Storico Italiano», 1968, poi in ID., Nel regno di Clio (Nuovi “Storici e Maestri”), Roma, Volpe Editore, 1977, pp. 282-283. Si vedano anche i ricordi autobiografici raccolti da G. BENVENUTI, Gioacchino Volpe e la sua Pisa, in Atti del Convegno di studi su Gioacchino Volpe nel centenario della nascita, cit., pp. 39 ss. 85 G. GENTILE, La Scuola Normale Superiore di Pisa, in ID., La nuova scuola media, a cura di H. A. Cavallera, Firenze, Le Lettere, 2003, in particolare pp. 224 ss., dove è contenuto un ritratto del giovane Volpe: «ben piantato, tarchiato, con quel suo sorriso a fior di labbra, fermo, che pareva rispecchiasse sempre un pensiero chiuso e fisso: selvatico, piuttosto, e uso a poche cerimonie». 86 G. GENTILE-F. PINTOR, Carteggio, 1895-1944, a cura di E. Campochiaro, Firenze, Le Lettere, 1993, p. 17, dove, nella lettera del 3 ottobre 1895, inviata durante una breve interruzione delle attività didattiche, già si parlava con struggente rimpianto di «quei banchi, sfregiati dal vandalismo studentesco, e di quelle lezioni che ci annoiano talora mortalmente, ma per lo più ci procurano ineffabili palpiti d’entusiasmo e ci accendono l’animo di amore immenso alla vita».
32
GLI ANNI DELL’ATTESA
smo, iniziale ma decisa affermazione della propaganda socialista, con la sua indiscussa capacità di provvedere per la prima volta a un’efficace nazionalizzazione delle masse e di creare le condizioni di una maggiore coesione sociale87, necessità improrogabile di riforme istituzionali e sociali, prime affermazioni dell’Italia nel campo diplomatico e internazionale, rapidamente travolte dalla sconfitta di Adua, che servì da catalizzatore allo scontro politico, dentro e fuori il recinto parlamentare, nelle strade, nelle piazze, in ogni centro di aggregazione, nelle aule scolastiche e universitarie, e persino, avrebbe poi ricordato Volpe, negli aulici corridoi della Normale. Tra la gioventù studentesca cozzavano correnti diverse. Chi scrive queste pagine ricorda, da attore, le baruffe e i pugilati fra i contrapposti gruppi, “crispini” e “anticrispini”, “africanisti” e “antifricanisti”, “megalomani” e fautori del “piede di casa”, simpatizzanti per la Francia e odiatori di Francia i cui giornali, pieni di velenose vignette, facevano bella e impune mostra di sé nelle nostre edicole, persino lettori e ammiratori del “Secolo” e avversi a quel giornale, organo della radicaleria e massoneria milanese e lombarda, ferocissimo contro Crispi. Alla Scuola Normale Superiore, il comune gabinetto di lettura si scisse in due. Era la prima volta che la gioventù italiana si trovava davanti a problemi gravi e, in certo senso, propri, e prendeva caldamente posizione88.
Che Volpe avesse partecipato a quei tumulti, sicuramente nelle fila del partito crispino, rafforzandosi nella sua gallofobia carducciana89, ma anche brandendo un «corto e nodoso bastone» per tenere a rispetto gli avversari90, è poco dubbio. Come è ragionevole ipotizzare che quell’ar87 G. VOLPE, L’ultimo cinquantennio: l’Italia che si fa, in «La Nuova Politica Liberale», 1923, 1 e 2, pp. 30 ss.; 113 ss., poi in ID., Fra storia e politica, Roma, C. De Alberti, 1924, pp. 7 ss., in particolare pp. 32-33: «Duplice e contraddittoria azione del socialismo italiano, su quella parte delle masse con cui venne a contatto. Sorto contro lo Stato nazionale italiano, viceversa contribuì a portarvi dentro elementi che ne erano fuori, ad allargarne le basi, a rafforzarlo. Marciando dietro le bandiere della lotta di classe, portò una parte dei proletari a collaborare con la borghesia, vuoi alleandosi con essa, come fu attorno al 1900, vuoi lottando con essa». Si veda anche, ID., Italia Moderna, cit., I, pp. 172 ss. 88 Ivi, II, pp. 290-291. Sullo stesso punto, G. GENTILE, La Scuola Normale Superiore di Pisa, cit., p. 236, che parlava dei «pugni» che «vennero quando il cresciuto interesse politico, allora tenuto desto negli animi nostri dai luttuosi fatti d’Africa e dagli appassionati dibattiti intorno alla moralità e al valore politico del Crispi, fece nascere nella scuola una sala di lettura», dove si leggevano anche «i giornali politici, che accendevano allora il nostro animo, ed eran causa di fieri contrasti». 89 Si veda la lettera di Volpe a Cinzio Violante del 26 febbraio 1970, dove era ricordata la «certa mia non simpatia per la Francia, sorta in me dal ricordo e mio risentimento per i molti suoi atti di ostilità contro l’Italia». La corrispondenza è riprodotta in appendice a C. VIOLANTE, Appunti sulla formazione di Gioacchino Volpe, cit., p. 317. 90 G. GENTILE, La Scuola Normale Superiore di Pisa, cit., p. 233.
NASCITA DI UNO STORICO
33
ma impropria, utilizzata in primo luogo nelle spedizioni punitive dei normalisti contro la ragazzaglia pisana, non abbia riposato neppure in occasione dei disordini del 1898, in occasione della morte di Felice Cavallotti, sviluppatisi con occupazione di aule, abbandono delle lezioni, diffusione di volantini91. In questa cornice turbata, si sviluppava il tirocinio intellettuale di Volpe, poi sempre incline a instaurare un circolo rischioso, eppure a volte virtuoso, tra biografia del passato e biografia del presente, in sede di riflessione teorica come di concreta indagine storiografica92. Tirocinio, che poco frutto, tuttavia, sembrò ricevere dall’insegnamento della più parte dei suoi docenti: «Pullé, che insegnava noiosissimamente glottologia, il latinista Tartara, freddo e distaccato, Donato Jaia, che navigava troppo, almeno per noi, nelle nuvole del suo idealismo filosofico»93. I voti di esame di questo periodo («normalisti» e universitari) si limitano a essere buoni, infatti, senza mai raggiungere l’eccellenza assoluta, comportando anche la macchia di un 24 in Filosofia teoretica nel corso del primo anno94. Unica eccezione l’alto profitto registrato nelle materie letterarie e storiche, se si eccettua un 22 in storia antica, insegnate rispettivamente da Alessandro D’Ancona, direttore della Scuola, e da Amedeo Crivellucci. Da D’Ancona, Volpe avrebbe mutuato, al di là delle ristrettezze del metodo erudito, segnalate poi da Gentile e da Croce95, due tematiche di non piccola importanza, che avrebbero fruttificato all’interno della sua produzione futura. In primo luogo, l’interesse per l’impatto liberatorio della Grande rivoluzione in Italia, ma anche il giudizio fortemente critico per un progetto di «unificazione nazionale», introdotto nel nostro paese sulla punta delle baionette degli eserciti napoleonici, invece di essere realizzato per «virtù propria»96, e poi l’argomento degli italiani fuori d’Italia (del viaggio di apprendimento e dell’emigrazione intel-
91 ASPI, Università di Pisa, III versamento, busta 16. 92 G. VOLPE, Prefazione a Medio Evo italiano, cit., p. IX: «I documenti dell’oggi ci aiu-
tavano a ritrovare e vivificare e rendere attuale, magari per via di ravvicinamenti sommari che tenevan conto degli aspetti comuni a preferenza dei caratteristici e distintivi, il nostro Medio Evo, non più romano o germanico ma contadinesco, artigiano e borghese, rivoluzionario». 93 ID., Ricordi di scuola, di studi, di amici, cit., pp. 284-285. Sul punto, C. VIOLANTE, Gioacchino Volpe e il periodo pisano (1895-1906), in Studi e ricerche in onore di Gioacchino Volpe nel centenario della nascita (1876-1976), L’Aquila-Roma, Deputazione di Storia Patria per gli Abruzzi, 1978, pp. 153 ss. 94 Registro esami normalistici, cit. 95 M. MORETTI, Gentile, D’Ancona e la “Scuola” pisana, in «Giornale critico della Filosofia italiana», 1999, 1-2, pp. 66 ss. 96 A. D’ANCONA, Rinaldo Ruschi (1892) in ID., Ricordi ed Affetti, Milano, Treves, 1908, pp. 251 ss.; ID., Unità e federazione (1884), ivi, pp. 359-360.
34
GLI ANNI DELL’ATTESA
lettuale) come testimonianza dell’egemonia europea della cultura italiana ma anche come occasione di svecchiamento e progresso del nostro paese97. Da Crivellucci, invece, Volpe riceveva un’introduzione compiuta al lavoro storiografico, per quanto riguardava acribia e scrupolo filologico, capacità di analisi archivistica98, che pareva però non corrispondere alla pienezza di una lezione magistrale. Al di là del ricordo commosso e affettuoso del professore pisano, questi non fu mai per il promettente allievo un vero maestro. Spiaceva a Volpe di Crivellucci certo scolasticismo filologico-erudito, che ne contraddistingueva l’approccio alla ricerca99, e che gli impediva di cogliere l’effetto dirompente della storia politica di Oriani100, ma soprattutto la sua pregiudiziale «illuministica», laicista, anticlericale (di taglio giannoniano, risorgimentale e anche in questo caso crispino), che si rispecchiava nella specializzazione «longobarda» dei suoi corsi «dedicati, con spirito ghibellino, ai Rotari, agli Astolfo, ai Liutprando», dove sempre echeggiava «il dolore per quella nazione vittima del Papato romano»101. Un giudizio svalutativo, questo, che il Volpe maturo avrebbe sommessamente introdotto nella 97 ID., Federico il Grande e gli italiani (1901) in ID., Memorie e documenti di storia italiana dei secolo XVIII e XIX, Firenze, Sansoni, 1914, p. 13 ss. 98 G. VOLPE, Prefazione a Toscana medievale. Massa marittima, Volterra, Sarzana, Firenze, Sansoni, 1964, pp. VIII ss. Su Crivellucci, la voce di M. Tangheroni, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1985, pp. 162 ss. Sugli studi storici, alla Normale, in questo periodo, C. VIOLANTE, Un secolo di studi storici alla Scuola Normale Superiore di Pisa (1860-1963). I. Dall’attività pionieristica di Pasquale Villari alla polemica neoidealistica contro il Positivismo, a cura di Francesco Mattesini, Milano, Vita e pensiero, 1974, pp. 415 ss. 99 G. VOLPE, Prefazione a Medio Evo italiano, cit., p. VIII: «Noi uscivamo dalla scuola del nostro maestro Amedeo Crivellucci abituati alla ricerca coscienziosa ed all’uso delle fonti, ma piuttosto poveri di idee e senza neppure molti incitamenti a cercarle. Aveva egli certa antipatia e diffidenza per il filosofare. Traducendo per i suoi scolari il Lehrbuch der historischen Methode del Bernheim, egli si era limitato alla parte euristica, cioè tecnica, del volume ed aveva lasciato da parte le questioni generali su la storia come disciplina. Le sue ricostruzioni erano, quasi sempre, mirabili di sagacia interpretativa e di finezza filologica; e vi circolava dentro, anche, calore e passione. Ma nulla più». 100 A. CRIVELLUCCI, recensione ad A. ORIANI, La lotta politica in Italia, origini della lotta attuale (476-1887), Torino-Roma, Roux e Frassati, 1892. in «Studi Storici», I, 1892, 2, p. 286: «L’autore da una cattedra più alta delle torre Eiffel abbassa il suo sguardo sul gran fiume degli eventi umani, che egli vede e non vede, o li vede così in nebbie, in lontananza; e su tutto e su tutti pronuncia giudizi generici, indeterminati, monchi, esagerati, vecchi e nuovi, con molta sicurezza; con quella facile sicurezza che nasce appunto dal non conoscere con esattezza i fatti e che permette di generalizzare, di sintetizzare, e di spropositare senza accorgersene, anche ad uomini di ingegno com’è veramente Oriani. […] Dicono che l’autore abbia mostrato della capacità nello scrivere romanzi. Se è vero, noi lo consigliamo di tornare a quel genere letterario. Non sappiamo se ci guadagnerà il romanzo; certo non ci perderà nulla la storia». 101 G. VOLPE, Ricordi di scuola, di studi, di amici, cit., p. 11.
NASCITA DI UNO STORICO
35
corrispondenza con Gentile102, e poi manifestato pubblicamente nell’ampio necrologio del 1916103, che riceveva la piena approvazione di Croce, il quale si complimentava con l’autore scrivendo: Grazie dello scritto sull’opera del Crivellucci, che ho letto non solo con piacere, ma con entusiastico apprezzamento. In modo assai più particolare e convincente ho ritrovato in esso il giudizio che del libro del Crivellucci su Stato e Chiesa avevo scritto qualche anno fa in un articolo ancora inedito sulla storiografia italiana. Il Crivellucci considera la materia con intelletto da illuminista, e come così bene avete detto, si riallaccia ad uno scrittore illuminista, al Giannone. Come pensiero storico il suo libro è inferiore a quello del Malfatti, che l’aveva preceduto, e che mostra ben altra forza di mente104.
Ma, in questo caso, davvero, Volpe «storico di se stesso» compiva un forte errore di sottovalutazione e pareva non considerare almeno l’importanza del Crivellucci organizzatore di cultura, che con la rivista «Studi Storici», da lui diretta, insieme a Ettore Pais, e personalmente stampata in un’artigianale tipografia privata, aveva offerto la sede privilegiata, nella quale si sarebbe combattuta buona parte del «conflitto sul metodo», che avrebbe interessato la storiografia italiana nel crinale dei due secoli105. Quel fraintendimento, che faceva definire a Volpe il periodico un «organo, insomma, quasi da seminario storico»106, esclusivamente dedicato alle prime esercitazioni degli scolari pisani, era d’altra parte giustificato dalla modestia con cui Crivellucci si esprimeva nell’Avvertenza del primo numero, datata marzo 1892, affermando che la 102 Gioacchino Volpe a Giovanni Gentile, Milano, 19 giugno 1909, AFG: «Entreresti nel comitato promotore di un’onoranza da fare al prof. Crivellucci per il suo 25 anno di insegnamento universitario? Si tratterebbe di far un volume ma collaborandovi solo noi scolari di Pisa del Crivellucci. Le ragioni le capisci da te solo per i grandissimi si può dar fiato alle trombe e chiamar tutti a rendere onore». Meno chiaroscurato, in ogni caso, il giudizio di Gentile su Crivellucci, in La Scuola Normale Superiore di Pisa, cit., pp. 230-231. 103 G. VOLPE, Amedeo Crivellucci, apparso su «Rivista d’Italia» del marzo 1916, pp. 453 ss., ora in ID., Storici e maestri, Firenze, Sansoni,19672, pp. 31 ss., dove si sosteneva che «l’anticlericalismo del nostro storico» si trasformava in «debolezza, in quanto mette a capo ad una valutazione non sufficientemente storica o scientifica di uomini, e fatti e istituzioni». 104 Benedetto Croce a Gioacchino Volpe, 1 settembre 1916. Questa lettera, assieme ad altri documenti (d’ora in poi indicati come CV), mi è stata messa a disposizione dal compianto Vittorio Volpe. Il giudizio di Croce sul volume del Crivellucci, Storia delle relazioni tra lo Stato e la Chiesa, edito tra 1885 e 1886, si ritrova in ID., Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono. Seconda edizione riveduta con una Appendice sulla storiografia recente, Bari, Laterza, 19302, 2 voll., II, pp. 95-96. La prima edizione dell’opera è del 1921. 105 G. CACCIATORE, Il dibattito sul metodo della ricerca storica, in La cultura storica italiana tra Otto e Novecento, a cura di G. Di Costanzo, Napoli, Morano, 1900, pp. 161 ss. 106 G. VOLPE, Amedeo Crivellucci, cit., p. 59.
36
GLI ANNI DELL’ATTESA
nuova rivista «senza aver la pretensione di colmar grandi lacune e di aprir nuove vie alle ricerche storiche, ha come precipuo e modesto intento di avere a disposizione un mezzo per pubblicar lavori nostri e di qualche discepolo, e per dire liberamente la nostra opinione sulle questioni storiche, che sono oggetto dei nostri studi»107. Indirizzo ancora ribadito da Crivellucci nella lettera del gennaio 1898, dove si respingeva l’offerta di collaborazione di Salvemini, motivando quel rifiuto col fatto che «il programma del periodico non me lo permette; esso non stampa che lavori miei e di scolari miei, salvo repliche di estranei; è l’organo della nostra scuola e ci tengo a conservargli questo carattere»108. In quegli stessi anni, però, Crivellucci insisteva con Gentile perché, nonostante alcune forti resistenze del suo allievo, lo stesso potesse pubblicare proprio su «Studi Storici» un contributo di carattere squisitamente teorico sul materialismo storico109: su quella dottrina, cioè, che più tardi, sia Croce che Volpe, ritennero il più importante stimolo al dibattito sul rinnovamento degli studi storici italiani110. Aveva anticipato quella discussione lo stesso Crivellucci, in una recensione ai due saggi di Antonio Labriola, composti tra 1895 e 1896 , la quale poneva sul tappeto, seppure con qualche semplificazione, i dati essenziali della questione, accettando, sostanzialmente la lezione di Marx, per quello che riguardava la gran parte che la «produzione e la ripartizione della ricchezza» aveva avuto nel «determinare le istituzioni sociali, politiche, religiose, morali, artistiche, scientifiche, e in una parola tutte le istituzioni umane e tutta la società», ma obiettando anche che proprio Labrio-
107 A. CRIVELLUCCI-E. PAIS, Avvertenza in «Studi Storici», I, 1892, 1, p. VII. 108 Amedeo Crivellucci a Gaetano Salvemini, 22 gennaio 1898, in G. SALVEMINI, Car-
teggi, 1894-1902, a cura di S. Bucchi, Roma-Bari, Laterza, 1988, p. 147. 109 G. GENTILE, Una critica del materialismo storico, in «Studi Storici», VI, 1897, 3, pp. 379 ss., poi in ID., La filosofia di Marx, Firenze, Le Lettere, 2003, pp. 11 ss. Per le perplessità di Gentile, a veder ospitati i suoi contributi filosofici in quella sede, si veda Carteggio Gentile-D’Ancona, a cura di C. Bonomo. In appendice: Lettere di Amedeo Crivellucci a Giovanni Gentile, Firenze, Sansoni, 1973, pp. 275-276. 110 B. CROCE, Prefazione, settembre 1917 a ID., Materialismo storico ed economia marxistica, Bari, Laterza, 19275, p. XIII, dove si parlava della «larga e benefica efficacia esercitata dal marxismo sugli intelletti italiani tra il 1890 e il 1900» e si insisteva specialmente sul fatto che «per quella dottrina, penetrata nelle università col giovanile socialismo, gli studi storici furono, dopo lunga decadenza, ritolti alla incompetenza dei puri filologi e letterati e dettero buoni frutti di storia economica, giuridica e sociale». Il giudizio è ripreso e ampliato in ID., Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, II, 123 ss. Si veda anche G. VOLPE, Italia Moderna, cit., II, p. 320, sull’avversione, prodotta dal materialismo storico, per «una storiografia che se ne stesse ancorata al documento e si esaurisse nella erudizione gabellata per “Storia”, anzi essa sola vera Storia perché “obiettiva”, oppure si perdesse nel sociologismo dimenticando la individuata e circostanziata realtà, oppure si mutilasse nella contemplazione assoluta ed esclusiva del “fattore economico”».
NASCITA DI UNO STORICO
37
la, nonostante alcune sue cautele, rischiava di esagerarne la portata, presentandola, in ultima analisi, «come precorritrice dell’avvento del comunismo e come estremo limite di autocoscienza storica»111. Qui Crivellucci, pur con ineguale e anzi opposto apprezzamento, pareva anticipare l’interpretazione di Gentile, che faceva della meditazione di Labriola il fondamento dell’interpretazione del materialismo storico, in quanto «ultima e definitiva filosofia della storia»112. In Labriola, infatti, «la previsione storica, che sta al fondo della dottrina del Manifesto e che il comunismo critico ha poi ampliata e specificata in analisi del mondo presente» non era più semplicemente utopistica, ma scientifica, perché fatta dalla stessa società che «in un momento del suo processo generale scopre la causa del suo fatale andare, e, in un punto saliente della sua curva, fa luce a se stessa per dichiarare la legge del suo movimento»113. Il marxismo permetteva così di «riconoscere, nel corso presente delle cose una necessità, la quale trascende ogni nostra simpatia e ogni nostro subiettivo assentimento», e di sostenere che l’ulteriore sviluppo della società si trovava determinata «per le leggi immanenti del suo proprio divenire»114. Era, quella di Gentile, un’interpretazione sicuramente corretta nello specifico riferimento testuale di alcuni passi, ma forzata, o quantomeno unilaterale per quello che riguardava gli assunti generali, nella quale venivano passate sotto silenzio o piuttosto ridimensionate alcune affermazioni di Labriola che andavano in senso tutto contrario, come quando nelle pagine Del materialismo storico, si invocava la più ferma vigilanza nei confronti della «fantasia degli inesperti d’ogni arte di ricerca storica e dello zelo dei fanatici» che trovano «stimolo e occasione perfino nel materialismo storico a foggiare una nuova ideologia, e a trarre da esso una nuova filosofia della storia sistematica, cioè schematica, ossia a tendenza e a disegno». In questo modo, infatti, «anche la concezione materialistica della storia» correva il rischio di «esser convertita in forma di argomentazione a tesi, e servire a rimettere in nuove fogge pregiudizi antichi; come era quello di una storia dimostrata, dimostrativa e dedotta»115. Contro questo pericolo, Labriola insisteva, invece, nel ribadire che la dottrina del «comuni111 A. CRIVELLUCCI, recensione di A. LABRIOLA, In memoria del Manifesto dei comuni-
sti e ID., Del materialismo storico. Dilucidazione preliminare, in «Studi Storici», V, 1896, pp. 292-294. 112 G. GENTILE, Una critica del materialismo storico, cit., pp. 32 ss. 113 A. LABRIOLA, Del Manifesto dei Comunisti, in ID., La concezione materialistica della storia. Nuova edizione con un’aggiunta di B. Croce sulla Critica del Marxismo in Italia dal 1895 al 1900, Bari, Laterza, 19422, p. 35-36. 114 Ivi, p. 10. 115 ID., Del materialismo storico. Dilucidazione preliminare, in ID., La concezione materialistica della storia, cit., p. 159.
38
GLI ANNI DELL’ATTESA
smo critico» non doveva «esser volta a rappresentare tutta la storia dell’umano genere in una veduta comunque prospettiva e unitaria, la quale ripete, mutatis mutandis, la filosofia storica a disegno, come da Agostino a Hegel». Il nuovo paradigma storiografico non pretendeva, infatti, di trasformarsi nella «visione intellettuale di un gran piano o disegno» ma, proprio per conservare la sua fisionomia critica e scientifica, rivendicava la sua essenza, peculiare ed esclusiva, di «metodo di ricerca»116. Queste affermazioni sembravano potersi identificare, magari col pericolo di qualche nuova, più lieve forzatura, con una lettura semplicemente «realistica» e non più coerentemente «materialistica» delle tesi di Marx, che veniva ampiamente sviluppata in altri punti del saggio di Labriola, dove si sosteneva, appunto, la necessità di contrapporre, nella ricostruzione storiografica, ai vecchi e nuovi «convenzionalismi» («caso, fortuna, logica delle cose, che alcune volte si confonde con la nozione di progresso»), «i soggetti reali, ossia le forze realmente operanti, ossia gli uomini nelle varie e circostanziate situazioni sociali, proprie di loro». In questo traguardo consisteva «l’assunto rivoluzionario e la meta scientifica della nuova dottrina, la quale obiettivizza e direi quasi naturalizza la spiegazione dei processi storici»117. Di qui, la necessità di operare una critica preliminare delle fonti storiche, non in quanto semplice revisione filologica e più scrupoloso accertamento dei dati di fatto, ma come piuttosto critica di «quella fonte immediata, che sta più in là dei documenti propriamente detti, e che prima di esprimersi e di fissarsi in questi, consiste nell’animo e nella forma di consapevolezza, nella quale gli operatori resero conto a sé dei motivi dell’opera loro propria»118. Di qui, il superamento dell’economicismo volgare come fattore unilaterale di spiegazione storica, comportando l’analisi marxista correttamente intesa non lo sforzo di «ritradurre in categorie economiche tutte le complicate manifestazioni della storia», ma solo quello di «spiegare in ultima istanza ogni fatto storico per via della sottostante struttura economica; la qual cosa importa analisi e riduzione, e poi mediazione e composizione»119. Di qui, ancora, il progetto di «naturalizzare la spiegazione storica», senza però nulla concedere alle categorie del «darwinismo sociale», né alle ragioni di una aprioristica legalità mutuata dal paradigma delle scienze biologiche, la quale, pur intendendo giustamente procedere dai «moventi e le cause obiettive di ogni volere, che son da ritrovare nelle condizioni di ambiente, di terreno, di
116 Ivi, p. 166. 117 Ivi, p. 138. 118 Ivi, p. 141. 119 Ivi, p. 145.
NASCITA DI UNO STORICO
39
mezzi disponibili, di circostanzialità delle esperienze», fosse poi ridotta a ipotizzare la «negazione di ogni volontà, per via di una veduta teoretica, che vorrebbe sostituito al volontarismo, l’automatismo»120. Di qui, infine, sul piano delle più concrete indicazioni di metodo, la necessità di abbandonare il vecchio modello prevalente della storiografia politica, giuridica, soggettiva, per costruirne uno alternativo, in grado di operare l’«inversione dalla politica alla società» e la «risoluzione della società negli elementi del materialismo economico», per aprire quindi alla «sociologia», considerata, però, come «scienza delle funzioni e delle variazioni sociali», e non come metodo positivistico121. Da queste conclusioni di Labriola era ripartito Croce, nel saggio del maggio 1896, pubblicato negli Atti dell’Accademia Pontaniana di Napoli, dove la teoria del materialismo storico era ridotta a mero canone empirico di «interpretazione della storia»122. Per Croce, infatti, quella teoria non poteva costituire né un filosofia della storia, che presupporrebbe l’erronea ipotesi della «possibilità di una riduzione concettuale del corso della storia»123, né un metodo rigoroso di analisi del passato, fornito di capacità predittive per quello che riguardava l’evoluzione futura, ma soltanto «una somma di nuovi dati, di nuove esperienze, che entrano nella coscienza dello storico»124. Stabilito che «nel materialismo storico non bisogna cercare una teoria da prendere in senso rigoroso», in esso tuttavia andavano valorizzate le «feconde scoperte, per intendere la vita e la storia: l’affermazione della dipendenza di tutte le parti della vita tra loro, e della genesi di esse dal sottosuolo economico, in modo che si può dire che di storie ce n’è una sola; il ritrovamento della forza reale dello Stato (quale esso si presenta in certi suoi aspetti empirici) col considerarlo istituto di difesa della classe dominante; la stabilita dipendenza delle ideologie dagli interessi di classe; la coincidenza dei grandi periodi storici dai grandi periodi economici»125. Ma il dibattito metodologico, che la rivista di Crivellucci andava ac120 Ivi, pp. 147 ss.; pp. 156-157. 121 Ivi, pp. 205-206. 122 A. GRAMSCI, Quaderni del carcere. Edizione critica dell’Istituto Gramsci. A cura di
V. Gerratana, Torino, Einaudi, 2001, II, pp. 1213-1214. Sul «marxismo crociano», G. GALASSO, Croce e lo spirito del suo tempo, Roma-Bari, Laterza, 20022, pp. 127 ss. 123 B. CROCE, Sulla concezione materialistica della storia in Atti dell’Accademia Pontaniana di Napoli, XXVI, 3 maggio 1896 poi in ID., Materialismo storico ed economia marxistica, cit., p. 3. 124 Ivi, pp. 8-9: «Il Labriola ha detto benissimo che le stesse previsioni del socialismo sono semplicemente d’indole morfologica; e, invero, né il Marx né l’Engels avrebbero mai astrattamente affermato che il comunismo debba accadere per una necessità ineluttabile nel modo che essi disegnavano». 125Ivi, pp. 13-14.
40
GLI ANNI DELL’ATTESA
compagnando, non si era arrestato su questo solo e pure fondamentale nodo temotico, ma era già evoluto nell’analisi di una problematica più generale e cioè sulla possibilità di considerare la storia «come scienza». Questa ipotesi negata recisamente da Croce era invece ripresa da Gentile, nel contributo pubblicato nel 1897, sulle pagine di «Studi Storici»126. In quella sede, pur con molti distinguo, Gentile ridimensionava l’identificazione crociana di storia e arte contro quella di storia e scienza, «la quale è conoscenza che cerca il generale e che lavora per concetti». Lo stesso accadeva per il ripudio crociano della filosofia della storia, che si fondava sulla concezione della storiografia «come pura e semplice narrazione di fatti accaduti nella loro oggettiva concatenazione di mutua dipendenza», la quale, invece, secondo Gentile, andava integrata da una «metodica storica». A quel diniego, l’allievo di Crivellucci obiettava che se «lo storiografo ha adempiuto il suo ufficio nel rappresentare fedelmente ed efficacemente tutto ciò che dei fatti accaduti ha potuto accertare», quell’opera restava pure imperfetta e sarebbe toccato ad altri, e cioè al filosofo «accettata la narrazione incompiuta dello storiografo, compierla e integrarla, per renderla capace dell’elaborazione filosofica», senza per questo sottoporla ad «arbitri e manomissioni, per fini ad essa estranei» ma, al contrario, per riportare la narrazione dei fatti a «norme certe». Di questa metodologia rigorosa, si aggiungeva, era possibile ritrovare un modello nel «bel libro che di recente ha scritto il Lacombe, tentando di indicare le vie sicure da seguire per costituire una storia come scienza: una storia, cioè (come egli la definisce), che, occupandosi delle istituzioni e non degli avvenimenti, dell’elemento regolare e non dell’accidentale di tutti i fatti, ne ricerchi le cause scientifiche e le fissi in leggi che rendano possibile fin la previsione»127. In quel volume, infatti, lo studioso francese sosteneva senz’altro l’assimilazione della storia alla scienza, che poteva realizzarsi compiutamente grazie a un metodo comparativo in grado di isolare fatti costanti e generali, i quali soli potevano essere ricondotti alle proprie cause e, attraverso questa via, alla oggettività128. Conseguentemente a questo assunto, Lacombe intendeva la causalità della scienza storica del tutto omogenea alla causalità delle scienze fisiche e riteneva che l’obiettivo di entrambe consistesse nello stabilire rapporti costanti e verificabili. Di qui, la distinzione, tra 126 G. GENTILE, recensione a B. CROCE, Il concetto della storia nelle sue relazioni col concetto dell’arte, Roma, Loescher, 1896, in «Studi Storici», VI, 1897, pp. 137 ss. 127 Il riferimento era a P. LACOMBE, De l’Histoire considérée comme science, Paris, Hachette, 1894, p. 23 ss. 128 Sul punto, e per quel che segue, L. ALLEGRA-A. TORRE, La nascita della storia sociale in Francia, Torino, Fondazione Luigi Einaudi, 1977, p. 120-121.
NASCITA DI UNO STORICO
41
l’accidentale (l’événementiel) e il generale (l’institutionnel), secondo la quale la storia poteva essere scientifica, e quindi trovare le cause dei fenomeni, solo a patto di non prendere in considerazione i fatti singolari o irripetibili. In base a questa ipotesi, il «cambiamento» diveniva eccezione, non rigorosamente classificabile, mentre la «continuità» costituiva la regola generale del processo storico. Della seconda era possibile dar conto scientificamente, mentre il primo, per la sua accidentalità, costituiva un mero fattore di turbamento che impediva la previsione dei fatti futuri, che costituiva, invece, l’obiettivo ultimo della «storia-scienza». A distanza di tre anni, Gentile riproponeva i termini del dibattito sullo statuto epistemologico del sapere storico, ma in maniera molto più sfumata e tale in ogni caso da escludere ormai una perfetta assimilazione di scienza e storia, alla quale si domandava soltanto di limitarsi a non essere «aneddotica e personale, ma sociale» e quindi di trasformarsi «da narrativa in critica»129. Tale correzione di tiro era soprattutto funzionale a costituire una reazione contro il largo diffondersi di un malinteso scientismo storiografico, che, nell’analisi, ad esempio, di Corrado Barbagallo, si proponeva di «combattere le restrizioni storiografiche imposte al materialismo storico dal Croce e dal Labriola» e di «additarlo, al contrario, quale complesso di canoni direttivi delle scienze sociali»130. L’adeguamento del lavoro storico a un apparato concettuale, che si apriva agli apporti della scienza sociale dell’ultima età del positivismo, non dipendeva in linea diretta ed esclusiva da una lettura, seppur superficiale e semplicistica di Marx, come accadeva appunto in Barbagallo, né costituiva un caso isolato nel mondo intellettuale italiano, dove era largamente diffusa una visione «materialistica» della storia, operante più come generica categoria mentale che come rigido quadro di analisi filosofica, tale, quindi, da non dipendere né da doversi identificare con quella del materialismo storico propriamente detto e in grado di costituire, al contrario, una inclinazione compatibile con la storiografia erudita, non orientata dal marxismo, e anzi precedente la sua diffusione131. Questa tendenza interessava in primo luogo Pasquale Villari e, per 129 G. GENTILE, Il concetto della storia, in «Studi Storici», VIII, 1899, pp. 103 ss.; 169 ss., in particolare p. 173. 130 C. BARBAGALLO, Prefazione a ID., Pel materialismo storico, Roma, Loescher, 1899, p. 1. Se ne veda l’impietosa recensione di Gentile, in «Studi Storici», VIII, 1899, pp. 135137, che ironizzava sulla poca «cultura e disciplina mentale de’ socialisti italiani». 131 I. CERVELLI, Gli storici italiani e l’incontro con il marxismo, in Il mondo contemporaneo. Gli strumenti della ricerca. II. Questioni di metodo, I, Firenze, La Nuova Italia, 1983, pp. 588 ss., in particolare p. 593. Diversamente, P. FAVILLI, La formazione dell’identità marxista nel socialismo italiano: lineamenti e problemi, in «Società e Storia», 1988, 3, pp. 617 ss.; ID., Marxismo e storia. Saggio sull’innovazione storiografica in Italia, 1945-1970, Milano, Franco Angeli, 2006, pp. 86 ss.
42
GLI ANNI DELL’ATTESA
suo tramite e impulso, aveva influenzato l’attività di uno dei principali centri di elaborazione culturale della Penisola, costituito dall’Istituto di studi superiori e pratici di Firenze132. In quella sede, Villari aveva orientato la sua ricerca sul Medioevo italiano e soprattutto fiorentino, sostituendo, al tema dello scontro etnico quello del conflitto sociale come primum movens della dinamica politica. Come nel primo caso, anche nel secondo, si trattava però di rintracciare una legalità dello sviluppo storico rigidamente consequenziale, definibile, in qualche modo, come «prevedibile», in sintonia con una più generale filosofia positiva di riferimento133. Già nel 1866, Villari pretendeva di poter ritrovare nel caos incomposto di fatti slegati e disordinati, che costituiva il panorama della lotta fazionale a Firenze, una «successione logica di eventi», dato il primo dei quali, era possibile «prevedere con assoluta certezza tutti gli altri che debbono inevitabilmente seguire». Anche il corso degli eventi, apparentemente più disordinato e più inesplicabile, poteva assumere infatti «una chiarezza e precisione, quasi geometrica»134. Scopo dell’analisi scientifica del passato, infatti, era quello di «ritrovare nelle leggi storiche le leggi dello spirito umano»135. Un’indicazione, questa, che veniva riassunta e potenziata nel manifesto programmatico del 1868, secondo il quale, una volta riconosciuto che «le idee, le istituzioni, i monumenti si mutano con una legge, che non ci è sempre facile spiegare, ma che è pur sempre visibile», era possibile postulare l’esistenza di una «ragione storica», capace di prevedere e disciplinare la dinamica sociale, di una scienza del passato umano, in altri termini, la cui fisionomia era comune a «molte delle scienze nate o formate nel nostro secolo, come la geologia, la filologia comparata, l’etnografia»136. Il tono trionfalistico di queste affermazioni, che altrove e successivamente sarebbe stato ribadito senza esitazioni137, si ridimensionava
132 Sulla storia di questa istituzione, E. GARIN, L’Istituto di Studi superiori di Firenze. (Cento anni dopo), in La cultura italiana tra ’800 e ’900, Bari, Laterza, 1976, pp. 29 ss. Si veda anche, G. SALVEMINI, Una pagina di storia antica, in «Il Ponte», 1950, 2, pp. 116 ss. 133 E. ARTIFONI, Medioevo delle antitesi. Da Villari alla “scuola economico-giuridica”, in «Nuova Rivista Storica», 1984, 2, pp. 367 ss., poi rifuso in ID., Salvemini e il Medioevo. Storici italiani fra Otto e Novecento, Napoli, Liguori, 1990. 134 P. VILLARI, Le prime origini e le prime istituzioni della Repubblica fiorentina, cit., p. 26. 135 ID., La filosofia positiva e il metodo storico, in ID., Teoria e filosofia della storia, a cura di G. Cacciatore e M. Martirano, Roma, Editori Riuniti, 1999, pp. 111 ss. 136 ID., L’insegnamento della storia. Discorso inaugurale per l’anno accademico 18681869 dell’Istituto di Studi superiori e pratici di Firenze, pronunciato il 16 novembre 1868, ivi, pp. 164 e 166-167. 137 ID., I primi due secoli della storia di Firenze, Firenze, R. Istituto di studi superiori e pratici di Firenze, 1893, I, p. 13, dove si parlava della ricostruzione storica come «connes-
NASCITA DI UNO STORICO
43
parzialmente nel più famoso contributo del 1891, sintomaticamente intitolato La storia è una scienza?, dove, in ogni caso, restava immutato il nocciolo duro della petizione di principio relativo al valore di un metodo storico positivo e ai «grandi progressi che esso solo ha fatto fare alle scienze morali, sottoponendo i fenomeni sociali a indagini rigorose, dando una propria forma e un carattere scientifico a discipline, che per lo innanzi non l’avevano mai avuto, e non avevano potuto giungere a un’esistenza sicura di sé». Si riaffermava così l’obiettivo primario della ricostruzione storica: pervenire alla scoperta della «connessione logica dei fatti», al loro ordinamento secondo «leggi» che dessero conto di precisi vincoli causali, almeno per quanto riguardava un’indagine che avesse di mira contesti fortemente determinati. Su più larga scala, però, aggiungeva Villari, e soprattutto quando ci proponesse di conoscere «il disegno generale della storia e le relazioni, che pure esistono certamente tra i fatti storici e lo spirito umano, allora cominciano subito i dubbi infiniti e le divergenze»138. Quest’ultimo distinguo procurava al suo autore la decisa opposizione di quanti militavano a favore della piena identificazione, senza se e senza ma, tra storia e scienze naturali. Tra questi, Corrado Barbagallo139, ma soprattutto Achille Loria che al dubbio metodico formulato da Villari opponeva, senza esitazioni, le potenzialità di descrizione scientifica del passato e di previsione del corso delle cose future, insite nella nuova ars historica, una volta che essa avesse mutato il suo statuto, passando da «storia descrittiva, intesa come narrazione delle azioni umane a storia scientifica, la quale afferra, anziché le azioni umane, gli stadi successivi della forza evolvente, di cui esse sono il risultato». Così strutturata, infatti, l’analisi storica della società era in grado di predeterminare «il sistema delle azioni umane, che si deduce da uno stadio ulteriore della forza data, precisamente come dai primi termini di una serie si può, nella maggioranza dei casi, determinare l’ultimo termine della serie»140. Quesione matematica di cause ed effetti». Si veda anche, per la riaffermazione del carattere predittivo dell’indagine storiografica, ID., Il Congresso storico internazionale in Roma in «Nuova Antologia», 1 maggio 1903, ora in ID., Teoria e filosofia della storia, cit., 292: «La storia è l’unica base sicura della scienza sociale. Colui che ricerca le carte polverose negli archivi, raccoglie il materiale necessario per potere con sicurezza cominciare a studiare e conoscere il destino degli Stati, dei popoli, dell’uomo». 138 P. VILLARI, La storia è una scienza?, in «Nuova Antologia», CXV-CVII, 1891, pp. 209 ss., 409 ss., 609 ss. e p. 436, per l’ultima citazione. 139 C. BARBAGALLO, L’opera del prof. Villari quale filosofo e teorico della storia e quale storiografo. Studio critico, Catania, Tipografia sicula di Monaco & Mollica, 1901. 140 A. LORIA, La terra e il sistema sociale. Prolusione al corso di Economia politica nella R. Università di Padova, pronunciata il 21 novembre 1891, Verona-Padova, Drucker, 1892, pp. 36-37. Sul punto, R. FAUCCI, Revisione del marxismo e teoria economica della pro-
44
GLI ANNI DELL’ATTESA
sta titanica impresa, i cui obiettivi non si limitavano semplicemente a «ricostruire il passato e analizzare il presente» ma che giungevano anche a «tracciare le linee supreme della società futura», poteva essere realizzata a condizione di isolare la causa fondamentale dello sviluppo delle società umane, che andava individuata nell’intrecciarsi e nel reciproco condizionarsi di tre «fattori naturali». Il progresso della rendita fondiaria, l’incremento della popolazione, la quantità di terra disponibile per la messa a coltura costituivano i fenomeni determinanti del sistema economico, regolavano insieme salari e profitti, creando tensioni e squilibri ma anche nuove forme di composizione del tessuto sociale141. In questo modo, Loria, pur derivando le sue teorie da quelle del materialismo storico (in particolare per quello che riguardava la concezione marxista dello Stato come forma giuridica, che costituiva l’espressione degli interessi delle classi dominanti)142, ne tradiva profondamente il significato. Dove, per Marx, l’umanità, fattrice della propria storia, non era un fisso fenomeno naturale e anzi costituiva la molla del proprio cambiamento, per Loria essa era non solo sempre identica a se stessa, ma anche priva di ogni possibilità di attuare mutazioni significative del suo sviluppo storico. Obiezione, questa, che Croce aveva mosso a Loria, già nel 1896, in un’impietosa stroncatura delle sue opere, dove lo si accusava di aver semplicemente plagiato le teorie di Marx, deformandole ed estromettendone il «momento rivoluzionario». Loria, in questo modo, mentre da una parte esagerava «la forza del moto obiettivo delle cose, cangiandola quasi in una necessità esterna», dall’altra toglieva «forza al movimento stesso col privarlo dell’elemento volitivo e morale», non comprendendo che Marx non faceva della dinamica storica un processo automatico e che nella sua dottrina il nesso tra «fatto economico e l’azione rivoluzionaria» non si riduceva mai a «evoluzione naturale»143. In margine a questa confutazione impietosa, Croce ribadiva
prietà in Italia (1880-1900): Achille Loria e gli altri, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, Milano, Giuffré, 1978, pp. 587 ss.; G.L. CASANUOVI, L’Anti-Loria. Croce e Loria: due interpretazioni del materialismo storico a confronto, in «Archivio Storico Italiano», CXLIII, 1985, pp. 611 ss.; L. GALLINO, Achille Loria e la teoria dell’evoluzione delle società, in Il positivismo e la cultura italiana, a cura di Emilio R. Papa, Milano, Franco Angeli, 1985, pp. 259 ss. Si veda anche A. SPICCIANI, Il Medioevo negli economisti italiani dell’Ottocento, in Italia e Germania. Immagini, modelli, miti fra due popoli nell’Ottocento: il Medioevo, cit., in particolare pp. 385 ss. 141 A. LORIA, La legge di popolazione e il sistema sociale, Siena, Lazzeri, 1882, pp. 2930, poi in ID., La proprietà fondiaria ed il sistema sociale, Verona, Drucker, 1897, pp. 5 ss. 142 ID., Teoria economica della costituzione politica, Roma-Torino-Firenze, Bocca, 1886. 143 B. CROCE, Les théories économiques de M. Loria, «Devenir social», II, 1896, pp. 881 ss., poi in opuscolo Le teorie storiche del Prof. Loria, Napoli, Tipografia Giannini, settembre 1896, ora in ID., Materialismo storico ed economia marxistica, cit., in particolare pp. 46-47.
NASCITA DI UNO STORICO
45
l’impossibilità di identificare materialismo storico a filosofia della storia o a metodo storico, definendolo, invece, semplice «concezione storica, che vivifica tutta l’opera del Marx ed è stata da lui plasmata in alcuni opuscoli narrativi, singolarmente importanti come Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte e le due serie di articoli sulle Lotte di classe in Francia, e la Rivoluzione in Germania nel 1848-49»144. Né Marx né Engels, infatti, avevano mai ridotto «quella concezione a teoria rigorosa o saldamente ragionata, né potevano ridurvela, non essendovi in quel caso gli elementi costitutivi di una teoria». Ambedue gli autori si erano limitati a lasciare, sul punto, nulla altro che «aforismi generali e applicazioni particolari», quasi a voler testimoniare che «la loro concezione, per restare vera e feconda nei rispetti della storia, non deve uscire da codesti termini: dalla forma aforistica dell’enunciazione e dalla forma pratica dell’applicazione»145. Gli sforzi fatti, con diverso indirizzo, rischiavano di snaturare la funzione di un’ interpretazione che «deve servire soltanto di avvertenza e stimolo agli interpreti della storia, e deve vivere nelle opere storiche che ha ispirate e verrà ispirando». Del materialismo storico, l’analista del passato doveva sicuramente accogliere «in sé le suggestioni» ma ricordando sempre che «suggestione non vuol dire conclusione». La dinamica storica infatti, sosteneva più avanti Croce «s’interpreta e si descrive, ma non se ne cerca la legge; salvo che non si adoperi, come i positivisti, i quali raddoppiano il fatto e lo chiamano legge». Nonostante le innegabili debolezze concettuali, le teorie di Loria, avrebbe più tardi concluso Croce, suscitavano grande ammirazione nel mondo accademico italiano, che si era limitato a conoscere la dottrina marxista «alla lontana, per vie indirette, e poi in rapsodie, che le toglievano la forza peculiare» e che risultava «in ragione della stessa sua pedanteria, così ingenuo da lasciarsi abbagliare dai prestigiatori»146. Il semplicismo storiografico di Loria aveva infatti profondamente affascinato il giovane Salvemini, che ne avrebbe congiunto la lezione a quella proveniente da Villari nella ricerca delle leggi generali che disciplinavano il processo storico147. In Salvemini, l’accavallarsi di queste tendenze
144 Ivi, pp. 26-27 e 48. 145 ID., Materialismo storico e storia concreta. Prefazione a C. MARX, Rivoluzione e con-
trorivoluzione o il 1848 in Germania, Roma, Mongini, 1899, poi in ID., Pagine sparse, a cura di G. Castellano, Napoli, Ricciardi, 1919, II, pp. 308 ss., dove si definivano le teorie di Marx come semplici «prolegomeni, ma nel senso pedagogico, e non dottrinale, di preparazione allo studio della storia». 146 B. CROCE, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Bari, Laterza, 19345, p. 154. 147 E. ARTIFONI, Salvemini e il Medioevo, cit., pp. 112 ss. e pp. 124 ss.; M. MORETTI, Il giovane Salvemini fra storiografia e “scienza sociale”, in «Rivista Storica Italiana», 1992, 1, pp. 203 ss.
46
GLI ANNI DELL’ATTESA
dava luogo all’immagine di un Medioevo attraversato dallo scontro sociale e dal disordine, ma pure logicamente deducibile nei suoi tratti distintivi: perché il caos apparente, articolandosi in realtà secondo precisi meccanismi e leggi di sviluppo della società, era alla fine esattamente misurabile e commensurabile, una volta che la collezione dei dati archivistici avesse consentito di riconoscerne tutti gli elementi. Il conflitto sociale (la grande contrapposizione tra «magnati e popolani» a Firenze, nel XIII secolo, investigata nella sintesi del 1899) diveniva così «una conseguenza necessaria, saremmo per dire matematica, dello sviluppo demografico ed economico della città di Firenze», essendo quel conflitto una conseguenza dell’«intima costituzione sociale dei comuni»148. In questo punto, emergeva, senza equivoci, la sintonia d’impianto metodico tra Villari e Salvemini, animata dalla scelta verso una storia non descrittiva ma fortemente esplicativa, fondata sulla convinzione che «leggi» profonde guidassero la dinamica sociale. Secondo Salvemini, infatti, Villari aveva ridotto per primo a «luminosa unità» i frammenti sparsi della storia fiorentina, collegandoli, grazie a un’«alta attitudine sintetica» in una tessitura esplicativa coerente, da dove risultavano assenti indeterminatezze e accidentalità149. E l’esempio di Villari era presente, come motivo conduttore imprescindibile, proprio nella prolusione messinese del 1901, dove però i dubbi del maestro fiorentino, relativi alla piena integrazione della storia in una scienza geometricamente dedotta ed empiricamente dimostrata, erano risolti nella candida conclusione, secondo la quale «l’applicazione dei metodi scientifici ai fatti storici è soltanto molto meno agevole e richiede maggiori cautele che l’applicazione degli stessi metodi ai fatti della natura fisica»150. In quel discorso del metodo, che sarebbe stato significativamente ospitato l’anno successivo sulla «Rivista Italiana di Sociologia», Salvemini si dimostrava fortemente critico verso l’impostazione di Croce e di Gentile, ma anche nei confronti delle teorie di Lacombe e della Kulturgeschichte di Karl Lamprecht, le quali, pur avendo avuto il merito di reagire alle vecchie tendenze storiografiche che pretendevano di «circoscrivere le ri148 G. SALVEMINI, Magnati e popolani in Firenze dal 1280 al 1295, a cura di E. Sestan, Milano, Feltrinelli, 1966, pp. 40 e 51. 149 ID., Pasquale Villari, «Nuova Rivista Storica», 1918, 2, pp. 113 ss., ora in ID., Scritti vari (1900-1957), a cura di G. Agosti e A. Galante Garrone, Milano, Feltrinelli, 1978, pp. 57 ss., in particolare pp. 63 ss. 150 ID., La storia considerata come scienza, «Rivista Italiana di Sociologia», 1902, 6, pp. 17 ss., ora in ID., Scritti vari, cit., ivi, pp. 107 ss. Sul punto, e soprattutto per le contestazioni di Croce alle posizioni di Salvemini, si veda M. BISCIONE, Gaetano Salvemini e la polemica sulla storia come scienza, in «Rivista di storia della storiografia moderna», 1980, 1, pp. 29 ss. e G. COTRONEO, Croce e Salvemini: una polemica sulla storia, in «Rivista di studi crociani», 1980, 1, pp. 45 ss.
NASCITA DI UNO STORICO
47
cerche agli individui e alle vicende politiche degli Stati», escludevano però la possibilità di allargare la ricerca delle costanti storiche anche ai fatti individuali, non considerando che ogni individuo operava in un determinato assetto sociale, che lo condizionava e da cui veniva condizionato151. In questo modo, veniva a delinearsi, anche al di là degli orientamenti di Villari, una vera e propria dislocazione disciplinare della storia nell’ambito della scienza sociale. Tracciando una divisione fra la storia «scienza dei fatti» e la sociologia «scienza delle leggi», la prima incaricata di «investigare e rappresentare i fatti sociali passati e i loro rapporti», la seconda delegata a sceverare se negli eventi umani «esistano delle somiglianze, dalle quali risultino delle leggi sociali», Salvemini faceva ricadere nell’ambito sociologico ogni lavoro storiografico, carico di un forte valore esplicativo, in grado di cogliere la legalità intrinseca degli eventi e dei processi esaminati152. Dalla teorizzazione alla ricerca sul campo il discorso non mutava. Nella monografia dedicata al conflitto tra plebe e ottimati, si assisteva infatti all’inserimento sulla lezione di Villari, tutta proiettata a costruire la legge di una precisa deduzione dei fatti storici153, del determinismo economico-popolazionistico di Achille Loria, dal quale pareva possibile ricavare un paradigma consequenziale, esattamente controllabile e misurabile, della dinamica sociale e politica. Non dunque da Marx, e da un Marx interpretato alla luce della lettura di Labriola, si sviluppava, contrariamente a una più tarda indicazione dello stesso Salvemini154, lo scheletrato concettuale di Magnati e Popolani. Al di là dell’interpretazione in chiave di lotta sociale, mutuata da Villari, quello studio si rifaceva in tutto e per tutto, come è stato efficacemente sottolineato155, al 151 G. SALVEMINI, La storia considerata come scienza, cit., pp. 113 ss. 152 Ivi, p. 123. Dove a Salvemini appariva possibile ordinare tutte le azioni storiche, in-
dividuali o collettive, «con sicurezza, in serie secondo il principio di causalità, in modo che tutti i singoli fatti formino un insieme organico nella nostra coscienza, come a priori dobbiamo ammettere che l’abbiano formato nella realtà storica». Questa operazione era naturalmente possibile a condizione di «stringere nella categoria di causalità non solo i fatti delle singole serie, ma anche tutti i fatti successivi e concomitanti di tutte le serie» 153 P. VILLARI, Le origini del Comune di Firenze, in ID., Gli albori della vita italiana, Milano, Garzanti, 1941, p. 40: «La lotta fra Magnati e Popolani era una conseguenza necessaria, saremmo per dire, matematica, dello sviluppo demografico ed economico della città di Firenze». 154 G. SALVEMINI, Una pagina di storia antica, cit., pp. 120-121. Sul fondo positivistico della formazione di Salvemini, si veda invece, ID., I miei maestri, in Che cos’è la cultura?, Modena, Guanda, 1954, p. 57: «Conobbi la Rivista di filosofia scientica pubblicata dalla scuola positivista nel decennio precedente. In quei dieci volumi, deglutii articoli, note critiche, comunicazioni, resoconti di congressi e società scientifiche, rassegne bibliografiche, rassegne di periodici, dalla prima all’ultima parola. E capii ogni cosa». 155 E. ARTIFONI, Salvemini e il Medioevo, cit., p. 125.
48
GLI ANNI DELL’ATTESA
modello di Loria, secondo il quale la progressione demografica, mettendo in gioco la distribuzione delle risorse, si imponeva come meccanismo propulsore di ogni dinamica socio-politica. Intorno all’inevitabile conflitto fra produttori e consumatori, determinato dall’impeto demografico, si sviluppavano Les bases économiques de la constitution sociale di Loria156. E sull’asse della lotta tra «magnati» e «popolani», Salvemini costruiva il suo libro, confessando proprio a Loria nel 1895 che «sempre più vedevo che i fatti, che io avevo già trovato nella storia di Firenze, studiando gli Archivi, si trovano perfettamente d’accordo con quello che Ella diceva: anche qui la rendita fondiaria era in lotta col profitto industriale, anche qui il capitale e il lavoro improduttivo si comportavano appunto secondo le leggi, che Ella nel suo lavoro esponeva»157. Secondo Salvemini, dunque, i fatti dovevano sottomettersi alla teoria, che permetteva di articolare l’indagine storica in una «successione e connessione matematica di cause ed effetti»158, e non semplicemente essere interpretati da questa. Era un’affermazione che bene testimoniava la deriva scientista di una parte della storiografia italiana, a cavallo del vecchio e del nuovo secolo, la quale veniva censurata immediatamente da Gentile, in un intervento brusco e sbrigativo, anch’esso pubblicato sulla rivista di Crivellucci, dedicato a confutare le tesi della Storia considerata come scienza di Salvemini, dove si faceva osservare che: «La storia, se anche riesce ad essere la base della sociologia, non ha punto con questa la relazione che il processo sperimentale ha con la scienza della natura; perché la storia sta alla sociologia come la natura essa medesima sta alla scienza corrispondente»159. Molto più tardi, lo stesso Salvemini avrebbe riconosciuto la giustezza di questa critica, confessando che nella sua monografia di storia fiorentina troppo poco spazio era stato concesso a «tutti i necessari coefficienti di variazione» rispetto al modello interpretativo generale160. Ma, anche nell’immediato, la linea Croce (Gentile)-Labriola sembrava uscire vittoriosa da quel confronto, se persino Corrado Barbagallo, nel 1901, optava, contraddicendo apertamente la sicumera positivistica di Loria e dei suoi seguaci, per un drastico
156 A. LORIA, Les bases économiques de la constitution sociale, Paris, Felix Alcan, 18932, pp. 165 ss. 157 Gaetano Salvemini ad Achille Loria, luglio 1895, in E. ARTIFONI, Un carteggio Salvemini-Loria a proposito di “Magnati e popolani” (1895) in «Bollettino storico-bibliografico subalpino», LXXXIX, 1981, pp. 234 ss., in particolare pp. 245 ss. 158 G. SALVEMINI, La storia considerata come scienza, cit., p. 133. 159 G. Gentile, recensione a G. SALVEMINI, La storia considerata come scienza, «Studi Storici», XI, 1902, pp. 339 ss. 160 G. SALVEMINI, Firenze nel secolo XIII. Lezioni fiorentine dell’aa. 1923-1924, in appendice a E. ARTIFONI, Salvemini e il Medioevo, cit., p. 233.
NASCITA DI UNO STORICO
49
ridimensionamento del materialismo storico a metodo sociologico d’interpretazione storica, non in grado, in ogni caso, di fornire leggi generali, ma soltanto «nozioni approssimative» ed «esperienze generalizzate», suscettibili di conferma, di smentita e di variazione, compendiabili, per semplice comodità di lavoro, in una serie di «aforismi, frutto di esperienze generalizzate»161. Così interpretato, il materialismo si riduceva, come qualsiasi altra dottrina sociologica «ad una serie approssimativa di nozioni generali sul funzionamento sociale». Tali nozioni erano «tutt’altro che verità assodate, inconsuete, inoppugnabili» ma «semplicemente delle ipotesi, che la sociologia presenta allo storico, perché questo possa spiegarsi il nesso dei fatti, di cui si occupa». In questo modo, la lezione di Marx costituiva soltanto una superiore forma di storia economica, come più tardi avrebbe concluso quella parte della storiografia italiana maggiormente interessata all’analisi delle strutture sociali e dei rapporti di produzione162, e poteva tutt’al più rappresentare «l’occhio interno dello storico, la sua maniera di rappresentare la società, come determinata fondamentalmente, nel suo funzionare, dai suoi concreti rapporti economici»163. Da questo complesso e serrato Methodenstreit, che si era in buona parte combattuto sulle pagine della «rivista di casa», Volpe era sembrato tenersi discosto, più interessato forse a seguire il quasi coevo dibattito sulla Kulturgeschichte, che Croce ma anche Crivellucci avevano introdotto in Italia164, e quasi, poi, volendo già da ora accreditare la sua fisionomia di «storico senza filosofia», che si sarebbe manifestata a più riprese nella corrispondenza con Gentile165. Apparentemente, poi, più
161 C. BARBAGALLO, Storiografia, sociologia e materialismo storico, in «Rivista Italiana di Sociologia», V, 1901, 1, pp. 94 ss., in particolare p. 95. 162 M. BERENGO, Profilo di Gino Luzzatto, in «Rivista Storica Italiana», 1964, 4, pp. 879 ss. Si veda anche, P. FAVILLI, Marxismo e storia, cit., pp. 99 ss. 163 C. BARBAGALLO, Storiografia, sociologia e materialismo storico, cit., p. 105. 164 B. CROCE, Intorno alla storia della cultura. Memoria letta all’Accademia Pontaniana, il 1° dicembre 1895, in ID., Conversazioni critiche. Serie Prima, Bari. Laterza, 19504, pp. 201 ss., dove della Kulturgeschichte si valorizzava soprattutto la rottura del monopolio della storia politica, la funzione di allargamento del panorama storiografico, la capacità di intendere la «mutua dipendenza dei fatti sociali e i prodotti più alti dell’uomo, accanto a quelli che hanno minore dignità e appariscenza, ma non per questo restano meno efficaci». Sul contributo di Croce, interveniva Crivellucci nella nota pubblicata in «Studi Storici», V, 1896, pp. 438-43. Sul punto, anche, G. LUZZATTO, Storia individuale e storia sociale, a proposito di alcune recenti discussioni sul metodo storico, in «La scienza sociale», 1901, poi in ID., Per una storia economica d’Italia, Bari, Laterza, 1967, pp. 57 ss. 165 Gioacchino Volpe a Giovanni Gentile, 22 aprile 1943, AFG: « Ho letto con grande piacere – potrei dire emozione – il tuo articolo su Meridiano. È forse parte del discorso fiorentino? Bisognerebbe pure – ma non sono troppo vecchio – che cominciassi a studiare sul serio la tua filosofia». Il riferimento era alla conferenza di Giovanni Gentile, La mia re-
50
GLI ANNI DELL’ATTESA
che alla controversia sul materialismo storico e ai rapporti tra storia e sociologia, il Volpe degli anni pisani pareva interessato alla più modesta riformulazione di quelle problematiche, che si ritrovava nella storia sociale ed economica di Giuseppe Toniolo, da lui conosciuto personalmente quando lo storico cattolico teneva alcuni corsi liberi nella città toscana e il cui volume dei Dei remoti fattori, appare fittamente annotato dal giovane studente, nella copia ancora conservata nella biblioteca della Scuola166. In realtà, invece, il dibattito sul metodo di fine secolo influenzò non poco le sue scelte, come altre dichiarazioni autobiografiche testimoniano abbondantemente. Da queste risulta, infatti, un Volpe ben consapevole della portata generale degli interventi di Gentile apparsi su «Studi Storici», ma già precocemente disposto a uniformarsi alla riduzione del marxismo a semplice «concezione realistica della storia», secondo l’interpretazione di Labriola portata avanti da Croce, che aveva contribuito ad allontanarlo, invece, da Salvemini e dal suo «grossolano materialismo»167. Nel 1907, Volpe avrebbe ricordato l’influsso fondamentale del filosofo napoletano per aver introdotto, assieme alla conoscenza degli scritti del «maestro» di Cassino, «il convincimento della imprescindibile necessità di mettere un fondo solido di coltura e di ricerche economiche a base di ogni seria trattazione di fatti sociali: e ciò, indipendentemente da qualunque concezione rigida di materialismo storico che il Labriola, a forza di revisioni e riduzioni e temperamenti, intendeva molto a suo modo», in secca alternativa «alle formule, agli schemi, da qualunque parte venissero, da filosofi, sociologi, storici»168. Venti anni dopo, tuttavia, nel contesto del durissimo scontro politico che lo oppose a Croce, Volpe avrebbe ridimensionato o negato quell’influsso, sostenendo di non aver neppure letto la memoria sul materialismo storico del 1896, «quando scrissi il mio volume su le Istituzioni comunali a Pisa, in cui c’è presso a poco tutto quello, in bene e non bene,
ligione, pronunciata a Firenze il 9 febbraio 1943, presso la sede della sezione toscana dell’Istituto di studi filosofici. I primi due paragrafi della conferenza venivano pubblicati nel settimanale «Meridiano di Roma» dell’11 aprile. 166 A. SPICCIANI, Glosse di Gioacchino Volpe in margine a libri della Biblioteca della Scuola Normale Superiore di Pisa, in «Bollettino Storico Pisano», 1987, pp. 186 ss.; ID., Giuseppe Toniolo tra economia e storia, Napoli, Guida editori, 1990, pp. 52-53 e passim; Sul punto, si veda anche C. VIOLANTE, Il significato dell’opera storiografica di Giuseppe Toniolo nell’età di Leone XIII in Aspetti della cultura cattolica nell’età di Leone XIII, a cura di G. Rossini, Roma, Edizioni Cinque Lune, 1961, pp. 707 ss. 167 G. VOLPE, Ricordi di scuola, di studi, di amici, cit., p. 285; ID., Prefazione a Toscana medievale, cit., p. XIV. 168 ID., Rassegna di studi storici, cit., p. 681. Giudizio più ampiamente ripreso in ID., Antonio Labriola, in ID., Storici e maestri, cit., pp. 107 ss., dove erano rifusi due contributi del 1934 e del 1963.
NASCITA DI UNO STORICO
51
che sarei diventato»169. Ma a dimostrare che in questa testimonianza la vis polemica aveva rischiato veramente di falsificare la realtà dei fatti, ci soccorre un’altra corrispondenza inviata a Croce, nel febbraio del 1900, dove il giovane storico scriveva: Fin dall’anno scorso, quando io lessi La base economica della costituzione politica [sic] del Loria, con poca soddisfazione veramente, non ostante la mia scarsa coltura in fatto di economia politica, ho avuto grande desiderio di leggere il suo scritto col quale confutava lo strano materialismo storico del prof. Loria. A Pisa, non potei trovarlo; qui a Napoli un libraio mi ha detto di non averne più alcuna copia. Lei è così cortese, Signor Croce, che non vorrà privarmi di questa lettura. Ne ha ancora un esemplare? Io le sarò gratissimo del dono o del prestito che sia. Un’altra domanda: quale trattato di economia politica lei consiglierebbe ad un cultore di storia, il quale, pure avendo una lettura discreta e cognizione varia della materia, ha bisogno tuttavia di cominciare a dare un po’ d’ordine e un po’ di organismo a quelle membra disiecta?170
Poco o davvero nulla di questa autorevole padrinaggio intellettuale si manifestava ancora nella tesi di licenza, o meglio di abilitazione all’insegnamento secondario, incentrata sulle relazioni di Pisa con Alessandro VI e Cesare Borgia171, e in quella di laurea, discussa nel 1899, dedicata alla signoria di Pietro Gambacorta172. Due contributi, che già mettevano in evidenza le propensioni di Volpe a privilegiare il momento genetico del cambiamento istituzionale, considerato nel suo costituirsi «non di colpo, con un atto di violenza, ma per graduale generazione interna e quindi in rispondenza a un mutamento generale di istituti, di costume politico, di sentimenti»173, e valutato, in una visione realpolitisch, dove, nel trapasso dalla primitiva costituzione consolare del Comume al regime podestarile e poi da questo alla Signoria, poco conta169 Gioacchino Volpe a Benedetto Croce, Roma, 15 agosto 1927. Le lettere di Volpe a Croce sono conservate nell’Archivio Benedetto Croce, Biblioteca Benedetto Croce, Napoli, d’ora in poi ABC. 170 Gioacchino Volpe a Benedetto Croce, Napoli, 29 gennaio 1900, ivi. 171 G. VOLPE, Intorno ad alcune relazioni di Pisa con Alessandro VI e Cesare Borgia (1499-1504), in «Studi Storici», 1897-1898, VI-VII, pp. 495 ss. e 61 ss. 172 Poi pubblicata come ID., Pisa, Firenze, Impero al principio del 1300 e gli inizi della Signoria civile a Pisa, «Studi Storici», XI, 1902, pp. 193 ss. e 293 ss. 173 ID., Prefazione a Toscana medievale, cit., p. IX. Ma si veda anche, ID., Studi sulle Istituzioni comunali a Pisa, cit., p. 301: «Dato tutto ciò, s’intende come sorga il podestà, che cosa esso rappresenti. Gli elementi suoi costitutivi, i fattori suoi interni ed esterni, si sono venuti un po’ per volta accumulando, per cui, mano a mano che il consolato modificava la propria natura, contemporaneamente si plasmava, dirò così, la figura giuridica del podestà, rappresentante di un diritto nuovo, indice di un assetto sociale della cittadinanza diverso dall’antico e conseguenza della piena sovranità politica conquistata dentro di sé e nell’ambito del territorio del comune».
52
GLI ANNI DELL’ATTESA
va, infine, il ridimensionamento o la perdita delle antiche libertà civili ampiamente risarcite dall’accrescimento di potenza e dal costituirsi di un più ampio e meglio strutturato organismo politico174. Acerbe dunque, ma già tipiche, queste aurorali prove di Volpe e comunque tali da costituire un decoroso lasciapassare per il proseguimento ulteriore degli studi. Nell’ottobre del 1899, Crivellucci scriveva a Villari per raccomandare a un posto di perfezionamento dell’Istituto di studi superiori di Firenze il promettente normalista, «il qual, come Ella vedrà dai suoi lavori sulla Repubblica pisana, è giovine d’ingegno non comune e fa davvero sperar molto di sé»175. Il desiderio di Crivellucci sarebbe stato esaudito e Volpe avrebbe lasciato la Normale, non senza prima, però, aver dato dimostrazione di quel «cattivo carattere», che tante altre volte ritroveremo nella sua biografia. Nella corrispondenza, databile ai primi mesi del 1900, indirizzata a D’Ancona, troviamo un Volpe molto «accorato», che porgeva le sue scuse, per aver scritto al direttore della Scuola pisana una lettera «un po’ recisa, un po’ rude, forse anche un po’ scortese» e che aggiungeva, a mò di riparazione: «Immagina Lei che io mi potessi rivolgere con animo men che pieno di rispetto, d’affetto anzi e di venerazione, ad un mio maestro, al professor D’Ancona, al direttore della Scuola Normale, dove io ho passato gli anni più belli, più sereni, più fecondi che ricordi; ad un uomo del quale ho sempre detto, a Pisa e fuori, che, non ostante la salute malferma, era forse il più assiduo degli insegnanti della Facoltà letteraria pisana e uno di quelli che più era d’esempio di operosità ai giovani e più cortese di consigli e d’aiuti? Io ho tutti i difetti del mondo; sono un carattere rude, troppo rigido, talvolta quasi aspro; ma mi riconosco il merito di una grande sincerità». L’intero, spiacevole episodio era frutto di un equivoco: mentre D’Ancona si adoperava ad «appagare i miei desideri e a rimuovere gli ostacoli per la stampa della mia tesi di laurea», io, concludeva Volpe, «ero preoccupato di dover aprire una sottoscrizione per vederla pubblicata»176. A quella corrispondenza ne seguiva un’altra, inoltrata l’11 luglio, dove nuovamente l’allievo esprimeva i sentimenti di piena gratitudine per «il direttore della Scuola Normale, che, per quattro anni, ci ha ospitato: quattro anni che per noi sono stati i più belli e
174 Ivi, p. 291. Ma l’argomentazione era soprattutto sviluppata in ID., Pisa, Firenze, Impero al principio del 1300 e gli inizi della Signoria civile a Pisa, cit. Da quelle conclusioni sarebbe ripartito Federico Chabod nel suo Di alcuni studi recenti sull’età comunale e signorile in Italia, in «Rivista Storica Italiana», 1925, 1, pp. 29 ss. 175 Amedeo Crivellucci a Pasquale Villari, Rigoli, 19 ottobre 1899, in Carteggio Pasquale Villari, Biblioteca Apostolica Vaticana, d’ora in poi CPV. 176 Questa e la successiva lettera a D’Ancona, che mi sono state comunicate da Mauro Moretti, sono conservate in ASNSP.
NASCITA DI UNO STORICO
53
i più fecondi, e che nell’avvenire, in mezzo a quel misto di soddisfazioni, di dolori e di disinganni di che si comporrà la nostra carriera professionale, brilleranno, ne son sicuro, come vivida fiamma lontana»177. 3. Nell’Istituto di Firenze, che lo avrebbe ospitato fino al 1901, Volpe avrebbe trovato tutte le opportunità di un centro attivissimo di ricerca storica, alla cui costruzione Villari aveva contribuito in prima persona, rendendolo in grado di corrispondere all’obiettivo propostosi dal Governo provvisorio della Toscana nel 1859, al momento della sua fondazione, e cioè di preparare, senza scollamenti, «l’intelletto all’operare scientifico e civile»178. Volpe nel 1908, avrebbe riconosciuto a Villari questa capacità di organizzazione culturale, definendolo «l’uomo che in Italia, come studioso e come maestro, ha inteso più largamente la nostra disciplina e che ha insegnato in quell’Istituto Superiore ove le deficienze che io lamento altrove quasi non sussistono»179. Ma non si sbaglierebbe ad affermare che, per Volpe, le qualità magistrali del professore fiorentino fossero altre e che si ponessero al di là di alcune poco condivisibili scelte di metodo, comunque ascrivibili solo a un «moderato neopositivismo»180, e di una visione a tratti se non «piagnona», come avrebbe sostenuto Gentile181, almeno profondamente moralistica del processo storico, che affiorava nella sua dolorosa e ingenua descrizione della decadenzee italiana alla fine della fine del XV secolo, in buona parte comprensibile a partire dalla «concezione di un’Europa dominata dalla “corruzione” politica, perché alla politica degli istinti e delle passioni è succeduta la politica del calcolo e dell’astuzia»182. Villari fu «maestro», invece, soprattutto per la sua apertura al mondo della società e della politica dei propri tempi. E, in questo senso, il suo insegnamento permise a Volpe di «allargare gli orizzonti», di porre in stretto
177 La lettera si concludeva: «Ma alla memoria della Scuola Normale e degli anni giovanili, si accoppierà quella dei maestri che di essa sono l’anima e saranno sempre tali. Questo è il mio augurio, ancora per molti anni. Anche Lei si ricorderà qualche volta dei suoi scolari, ne son sicuro, anche se non le avremo dato tutti eguale materia di soddisfazione» 178 E. GARIN, L’Istituto di Studi superiori di Firenze. (Cento anni dopo), cit., p. 31. 179 Gioacchino Volpe a Pasquale Villari, Milano, 8 maggio 1908, CPV. 180 ID., Pasquale Villari, in «Rivista Storica Italiana», 1940, poi in ID., Storici e maestri, cit, pp. 171 ss., in particolare p. 178: «Accade così che il neopositivista non solo è pieno di riserve e limitazioni e buona volontà di transigere e conciliare: non solo di fronte all’aut aut dei positivisti e comtiani che gli intimavano il “tutto o nulla”, è piuttosto pronto a dir “nulla” che non “tutto”, e sembra abbia fretta di liberarsi da quella camicia di Nesso, che per un momento lo aveva alquanto avviluppato». 181 G. GENTILE, Gino Capponi e la cultura toscana del secolo decimonono, Firenze, Sansoni, 19732, pp. 178 e 256. 182 G. VOLPE, Pasquale Villari, cit., p. 180.
54
GLI ANNI DELL’ATTESA
contatto la ricostruzione del passato italiano con l’analisi, la denuncia, il tentativo di soluzione delle grandi questioni irrisolte che agitavano l’Italia contemporanea: il riscatto del Mezzogiorno, la necessità di riforme che assicurassero una prima forma di giustizia sociale, senza confondersi con la palingenesi predicata dai socialisti, e quelle che riguardassero la tutela materiale e spirituale della grande diaspora italiana nel mondo, la critica dell’idea liberale, che troppo spesso rischiava di snaturarsi e di confondersi con quella democratica, la serrata denuncia dei mali del parlamentarismo, l’antigiolittismo militante, e, infine, il mantenimento in vita e il rafforzamento di un orgoglioso patriottismo, da tenere vivo anche al di là del momento eroico del Risorgimento, in grado di rivendicare l’italianità del confine orientale «da Trieste alle bocche del Cattaro» e la «necessità nazionale» dell’espansione africana183. Su molte di quelle scelte politiche di fondo, Volpe avrebbe largamente concordato nella sostanza. Ma persino Salvemini, che dal dettaglio di alcune di quelle prese di posizione invece era assai più lontano avrebbe confessato di non potere scindere, in riferimento a Villari, l’elogio dello storico da quello dello «scrittore politico»184, perché proprio quell’impegno pragmatico permetteva di liberare la storiografia accademica dalle tradizionali strettoie del metodo filologico ed erudito per orizzontarla verso la «grande sintesi», sul cui tracciato lo storico doveva essere «guidato da un vigile sentimento della funzione che hanno i suoi studi nella coltura politica e nelle preoccupazioni del suo tempo»185. Da questa tensione tra storia passata e storia attuale derivavano anche gli infelici «anacronismi» di Salvemini e i felici «anacronismi» di Volpe sull’Italia medievale. Infelici i primi, perché sempre tendenti a schiacciare il giudizio del passato su quello dell’oggi, in nome di un sia pur generoso e sincero impegno militante186. Felici i secondi, nella mi183 Ivi, pp. 183 ss. Sul Villari politico, si veda M. MORETTI, Note sui tardi scritti politici e sociali di Pasquale Villari (1882-1907) in «Schema», 1985-1986, 1-2, pp. 43 ss. e 89 ss., ora in ID., Pasquale Villari storico e politico, cit., pp. 149 ss. 184 G. SALVEMINI, Pasquale Villari, cit., in particolare pp. 67 ss. 185 ID., Una pagina di storia antica, cit., pp. 121-122. Sullo stesso punto, in un contesto più generale, senza alcun riferimento al legato di Villari, si esprimeva Croce, sottolineando come l’innovazione storiografica del periodo avesse preso avvio al di fuori delle aule universitarie, «scemando l’autorità dei professori di storia». Si veda ID., Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, cit., II, p. 141. 186 ID., Magnati e popolani, cit., p. 98: «Dall’urto dei bisogni dei diversi ordini sociali nasce la vita pubblica, che è vita essenzialmente di lotte; e questo per chi preferirebbe un mondo pieno di pace e di giustizia è un male, ma è un male inevitabile; e, dal momento che c’è, il meglio che possa accadere è che ognuno prenda nella lotta il posto che gli spetta». Sulle analogie meccaniche tra ceto degli ottimati e odierna «plutocrazia», tra lavoratori esclusi dalle organizzazioni corporative e «proletari moderni», infine, tra serrata degli artigiani, in caso di contrasti con il Podestà, e «sciopero», si veda ivi, pp. 26, 30, 149.
NASCITA DI UNO STORICO
55
sura in cui il ricorso alle vicende e alle ragioni del presente costituiva un semplice stimolo a ripensare quelle del passato e viceversa, senza mai abbandonarsi al gioco sviante dell’analogia, ma lasciando aperta, nell’assenza di condizionamenti precisi di ordine ideologico e politico, la possibilità di «cogliere il segreto della gestazione oscura e del nascimento faticoso di forme, attività, rapporti nuovi della vita storica», quando «la coscienza nuova che traluce da quelli eventi, le aspirazioni torbide che affiorano risospingono con forza le menti nostre ad un’età che ce ne mette sotto i sensi i precedenti immediati, anche se lontani da secoli»187. E se quindi Salvemini aveva bollato con parole di fuoco le funeste conseguenze del diritto di espropriazione delle proprietà demaniali, agli inizi del XII secolo, che aveva condotto alla proletarizzazione e all’inurbamento delle plebi contadine188, Volpe, senza mettere innanzi giudizi di valore, avrebbe visto in quel fenomeno soltanto la perenne presenza della dialettica tra positività e negatività, che contraddistingue ogni fenomeno storico, ieri, come oggi, dato che, senza dimenticare la «degenerazione fisica e morale» degli humiliores, quella trasformazione comportava «il meraviglioso e rapido sviluppo industriale che non sarebbe avvenuto senza l’abbondanza e il buon mercato della mano d’opera entro le mura: due fatti ripetutisi quasi analogamente, su più larga scala, nel nostro secolo, che deve all’esodo dalle campagne e alla sovrabbondante popolazione della città, là dove l’officina recluta le sue braccia, la meravigliosa civiltà industriale che lo caratterizza»189. Questo impulso a intrecciare ricostruzione storica e biografia dell’oggi non esauriva il ricco bottino culturale del biennio di perfezionamento fiorentino, dal quale Volpe, dopo Crivellucci e più ancora che con Crivellucci, ricavava, in primo luogo, la possibilità di rinsaldare un 187 G. VOLPE, recensione a R. CAGGESE, Classi e Comuni rurali nel Medioevo italiano. Saggio di storia economica e giuridica, Firenze, Galileiana, 1907, I, in «La Critica», VI, 1908, pp. 263 ss.; 361 ss., poi in ID., Medio Evo italiano, cit., pp. 141 ss., in particolare p. 143. Sulla prima età medioevale come metafora delle crisi e dei progressi dell’Italia contemporanea, si veda, L’ultimo cinquantennio, cit., pp. 30-31; ID., L’Italia in cammino, cit., pp. 69-70; ID., Italia Moderna, cit., II, pp. 46-47, sugli scioperi bracciantili nel Mezzogiorno all’inizio del Novecento: «Spesso le questioni per cui si muovevano gli scioperanti erano antiche. Pareva ascoltar l’eco delle medievali contese tra “domini” o “milites” e loro “homines” o “rustici” […] E la giovane storiografia italiana, volta allo studio dell’età comunale e dei suoi problemi costituzionali e sociali, non poco di ispirazione e calore trasse in quegli anni dal coevo moto contadinesco, fosse rappresentato dai socialisti, fosse anche da non socialisti». 188 G. SALVEMINI, Magnati e popolani, cit., pp. 30 ss. 189 G. VOLPE, Studi sulle Istituzioni comunali a Pisa, cit., p. 119. Conseguentemente a questo modello, nel già citato saggio sul lavoro del Caggese, la sottomissione economica del contado, e lo sfruttamento delle plebi rurali, erano considerati l’inevitabile prezzo da pagare per il raggiungimento di superiori finalità, relative alla costruzione di un saldo assetto statuale del Comune.
56
GLI ANNI DELL’ATTESA
rapporto privilegiato con la grande storiografia germanica, da lui ritenuta incomparabilmente superiore a quella del nostro paese, almeno per metodo, approfondimento filologico, impostazione teorica190, con la quale proprio Villari aveva da tempo instaurato un legame profondo e diretto191, ora continuato e istituzionalizzato, all’interno dell’Istituto, dal docente di istituzioni medioevali, Alberto Del Vecchio, che forniva nell’«Archivio Storico Italiano» regolari segnalazioni degli studi tedeschi in tema di storia giuridica e istituzionale, indirizzando gli allievi a misurarsi con i testi della Verfassungsgeschichte192. Molta di questa «scienza tedesca» si trasfuse con puntualità nella tesi di perfezionamento, dedicata alle origini del Comune pisano, costruita a partire dai lavori sulla storia toscana e italiana di Julius Ficker e Robert Davidsohn193, ma anche di Overmann, Darmstädter, Sieveking, dai saggi di carattere teorico sparsi sulla «Historische Zeitschrift», dalle grandi monografie di storia economica, finanziaria, istituzionale dell’età di mezzo194, nei confronti delle quali, tuttavia, Volpe avrebbe poi dimostrato un crescente fastidio, per la rigidità categoriale e lo schematismo della tesi sulla gradualità dello sviluppo economico, ritmata in fasi cronologicamente e logicamente consecutive, secondo la cosiddetta «teoria degli stadi»195. Fasti190 Sul punto, ID., Insegnamento superiore della storia e insegnamento universitario, in «La Critica», V, 20 novembre 1907, poi in ID., Storici e maestri, cit., pp. 3 ss. Ma si veda, soprattutto, ID., Rassegna di studi storici, cit., p. 683: «Noi lo riconosciamo volentieri: gli storici di Germania entrano nell’agone più agguerriti e meglio provvisti di armi. La loro coltura paleografico-diplomatica, filologica, economico-giuridica è, in generale, più alta e sicura; coltura generale e coltura speciale insieme». 191 “Un anello ideale” fra Germania e Italia. Corrispondenza di Pasquale Villari con storici tedeschi, a cura di A. M. Voci, Roma, Archivio Guido Izzi, 2006. 192 I. DEL LUNGO, Alberto del Vecchio, «Archivio Storico Italiano», LXXIX/1, 1921, pp. 225 ss. 193 Gioacchino Volpe a Benedetto Croce, Napoli, 2 febbraio 1900, ABC: «Mi trovo in una grande città, piena di studiosi e di studenti che dir si voglia, ma senza poter molto approfittare dei mezzi di studio che essa fornisce: un po’ perché alcune di quelle ore che io potrei passare nelle biblioteche debbo impiegarle a rifarmi delle lunghe veglie notturne; un po’ perché, a volere ricorrere ai prestiti delle biblioteche stesse, non si va molto innanzi: solo con parecchio stento la Nazionale mi ha concesso due libri; altri che io chiedevo sono chiusi nelle famose stanze pericolanti. Vuol essere lei così cortese di veder se nella sua bella raccolta di libri si trovano le Forschungen zur Reichs- und Rechtsgeschichte Italiens del Ficker? Se poi avesse la raccolta completa dell’Historische Zeitschrift, potrebbe darmi per qualche giorno i volumi 14, 36 e 47? Mi riserbo poi più tardi di importunarla per la storia fiorentina del Davidsohn. Vede che non la risparmio, Signor Croce. Ma lei che è uno studioso sul serio non vorrà aversene a male». 194 Sul punto, I. CERVELLI, Gioacchino Volpe, cit., pp. 501 ss.; C. VIOLANTE, Gioacchino Volpe e il periodo pisano, cit., pp. 157 ss.; ID., Introduzione a G. VOLPE, Medio Evo italiano, Roma-Bari, Laterza, 2003, pp. V ss. 195 G. VOLPE, Per la storia giuridica ed economica del Medioevo, in «Studi Storici», 1905, poi in ID., Medio Evo italiano, cit., p. 217 ss.
NASCITA DI UNO STORICO
57
dio, che anticipava lo scetticismo, non disgiunto sicuramente da interesse, per l’opera di Sombart (Das Moderne Kapitalismus), che gli apparve rinchiusa in nessi causali troppo inflessibilmente consequenziali tra struttura cittadina ed espansione commerciale, tra ascesa del ceto borghese, capitalismo, sviluppo manifatturiero196. Ma quelle letture non furono solo fonti di dati e di puntuali ricostruzioni storiche, a volte accettate, altre, decisamente contestate, ma anche occasione di più penetrante approfondimento storiografico. Da Gierke, Volpe ricavava non solo la tesi dell’origine del Comune come «associazione volontaria giurata», derivante dal principio della «consociazione» (Genossenschaft), in quanto «ente di diritto che si fonda sulla libera unione delle parti contraenti»197, ma anche la più generale teoria, per altro già embrionalmente presente in Villari198, secondo la quale la polarità tra Stato e società doveva risolversi tutta a favore del secondo termine, risiedendo la dimensione giuridica pubblica assai più nel corpo sociale che nell’architettura istituzionale ed essendo la costituzione politica una semplice variabile della dinamica associativa dei gruppi privati199. Da Hintze, gli derivava invece l’indicazione a considerare lo sviluppo interno della società comunale nel quadro più ampio del movimento di espansione e di dominio fuori dai suoi confini, fino al punto da subordinare la «piccola politica» domestica alla «grande politica» internazionale, la quale, alla fine avrebbe determinato la costituzione stessa dello Stato, da intendersi in primo luogo come «garanzia di maggior vigoria all’esterno»200. Con Lamprecth, infine, si materializzava la possibilità di entrare in contatto con la «storia della cultura», arrivata ormai al punto più ampio dello sviluppo, nel tentativo riuscito di trasformare, al di là della lezione di Ranke e contro di essa, l’analisi del passato in storia di gruppi sociali, di collettività, di mentalità, di condizioni materiali, di grandi costanti psicologiche e biologiche, di cicli di lunga du-
196 ID., Il Moderno Capitalismo, in Raccolta di scritti in onore del Prof. Giacinto Romano, Pavia, Fusi, 1907, ivi, pp. 309 ss. 197 ID., Studi sulle Istituzioni comunali a Pisa, cit., p. 42. 198 P. VILLARI, Le origini del Comune di Firenze, p. 34: «Noi non dobbiamo immaginarci che un tal governo avesse l’importanza che hanno i governi delle società moderne, perché in Firenze il governo vero restava sempre nelle mani delle associazioni». 199 G. VOLPE, Studi sulle Istituzioni comunali a Pisa, cit., pp. 43 ss. Sul punto, S. MEZZADRA, Il corpo dello Stato. Aspetti giuspublicistici della Genossenschaftslehre, in «Filosofia Politica», 1993, 3, pp. 15 ss. 200 Ivi, pp. 179-180 e p. 307. Dove il rimando testuale è a O. HINTZE, Staatenbildung und Verfassungsentwicklung, in «Historische Zeitschrift», 1901, 1, pp. 1 ss. Correlate a questa tematica erano le pagine dedicate alla vocazione all’espansione mediterranea del comune pisano, in G. VOLPE, Studi sulle Istituzioni comunali a Pisa, cit., pp. 335 ss.
58
GLI ANNI DELL’ATTESA
rata, nel cui compatto tessuto individui ed eventi, considerati nella loro singolarità, «non sono che quello che sono, al movimento profondo e ripetuto delle maree, le spume che si elevano sulla superficie del mare, che si tingono per un momento di tutti colori dell’arcobaleno e poi si rompono sulla battigia senza nulla lasciare di esse»201. Parole, queste, che bene avrebbero potuto definire anche la storiografia di Volpe, sempre naturalmente inclinata a cogliere la peculiarità delle forze in gioco, la specificità dei singoli e dei gruppi in azione, la tipicità delle istituzioni, ma soprattutto, al di sotto di tutto questo, le grandi correnti sotterranee che determinano il significato ultimo degli eventi, in un processo di ricostruzione e di narrazione che privilegiava l’historia naturans rispetto all’historia naturata, il momento delle origini, contro quello del compimento, non la struttura ma la congiuntura germinale, nella quale era possibile scorgere «la compenetrazione e la fusione delle forze varie della vita», senza distinzione di «cause prime e seconde, sostanza e apparenza»202. Questa tendenza si manifestava già compiutamente nel volume sulla genesi del comune pisano del 1902. Grande libro di storia medioevale, si è spesso detto, ma in realtà grande libro di «storia generale», nel quale l’osservazione del microcosmo toscano offriva la possibilità di isolare, non leggi generali, ma processi esemplari, il cui carattere analogico permetteva di comprendere anche le fasi di sviluppo e di regresso di differenti comunità politiche e sociali, collocate in spazi e tempi diversi. Opera, dove Volpe, senza nulla concedere al classismo volgare della vulgata marxista203, si manteneva fedele alla «storiografia delle antitesi» di Villari, definendo addirittura il tempo della pace civile pure indispensabile alla crescita di un organismo politico, una «momentanea formula di concordia» pattuita tra le classi sociali, «le quali, come le nazioni, sono per loro natura esclusive e combattono sempre per la assoluta vittoria, poco sollecite di una giustizia distributiva che in generale, nella complessa dinamica della società umana, nella quale agiscono prevalentemente quelle che sono le forze elementari della storia, è certo un elemento
201 K. LAMPRECHT, Individualität, Idee und sozialpsychische Kraft in der Geschichte, in «Jahrbücher für Nationalökonomie und Statistik», XIII, 1897, pp. 30 ss., in particolare p. 42. Sulla lezione di Lamprecht, si veda G. CACCIATORE, Crisi dello storicismo e «bisogno» di «Kulturgeschichte: il caso Lamprecht, in «Archivio di Storia della cultura», I, 1988, pp. 257 ss.; ID., Karl Lamprecht und die «Kulturgeschichte», in «Geschichte und Gegenwart», XL, 1992, n. 2, pp. 120 ss.; I «Principi» della Kulturgeschichte, in «Archivio di Storia della cultura», V, 1992, pp. 315 ss. 202 G. VOLPE recensione a R. CAGGESE, Classi e Comuni rurali nel Medioevo italiano, cit., p. 175 203 ID., Studi sulle Istituzioni comunali a Pisa, cit., pp. 33 ss. e 37 ss.
NASCITA DI UNO STORICO
59
estraneo»204. Opera, soprattutto, nella quale ogni interpretazione o meglio ogni semplificazione di carattere giuridico, economico, sociale o sociologico elideva l’altra e si risolveva in narrazione, non esistendo per Volpe, fattori di sviluppo sovraordinati o subordinati, secondo una precisa gerarchia di cause, ma soltanto un fluire di eventi che testimoniavano, per dirla con Croce, l’impossibilità di «una riduzione concettuale del corso della storia»205. Opera, quindi, destinata, proprio per queste sue caratteristiche, a raccogliere più dissensi e imbarazzo che autentici consensi, come testimoniavano le recensioni di Arrigo Solmi e di Nino Tammasia206, e ancora una successiva nota di Solmi che forniva un severo giudizio del saggio Lambardi e Romani del 1906, e nella quale si affermava che «già altre volte, a proposito del libro sulle istituzioni pisane, ho lamentato che l’Autore abusa di generalità non sempre convincenti, di richiami e di spiegazioni non sempre risolutive, spinto dal desiderio di abbracciare in un fascio l’infinita varietà delle cause e delle produzioni sociali», mentre meglio arriverebbe al suo scopo «se, raccolte come in un ampio contorno le fila delle sue idee generali, procedesse poi per via diretta, con più rapida e serrata dimostrazione dei fatti»207. Era un giudizio che, pur nella disapprovazione, coglieva la specificità di una sensibilità storiografica «che non si lascia mai cogliere nella sua fissità e astrattezza e razionalità formale da quasi nessun documento, ma piuttosto si delinea nella sua comprensività attraverso tutta una casistica di applicazioni»208, la quale avrebbe poi affascinato, stupito, scandalizzato anche i suoi allievi diretti. Anzilotti, che seguì, tra 1905 e 1906, le lezioni di storia moderna svolte da Volpe nell’Istituto fiorentino, confessava di essere rimasto «spaventato dalla grande diversità di spiegazione, d’interpretazione dei fatti storici, quale sentivo dal mio professore», pur confessando che «il metodo che io ora dirò del prof. Volpe rispondeva a certe esigenze della mia mente più di ogni altro, mostrandomi la genesi d’un fatto storico dalle condizioni reali della società e i legami che uniscono i vari fenomeni sociali ad un unico fondamento»209. Stupore e 204 Ivi, p. 308. 205 B. CROCE, Sulla concezione materialistica della storia, cit., p. 3. 206 Contenute in «Rivista Italiana per le Scienze giuridiche», XXXVIII, pp. 412 ss. e
«Archivio Storico Italiano», XXXI; 1903, pp. 461 ss. 207 «Archivio Storico Italiano», XXXVIII, 1906, pp. 183 ss. 208 O. CAPITANI, Gioacchino Volpe, storico del Medioevo, in ID., Medioevo passato prossimo. Appunti storiografici tra due guerre e molte crisi, Bologna, Il Mulino, 1979, pp. 191 ss., in particolare p. 200. 209 Antonio Anzilotti a Carlo Cipolla, 13 giugno 1906, lettera citata in M. MORETTI, Carlo Cipolla, Pasquale Villari e l’Istituto di Studi superiore di Firenze in Carlo Cipolla e la storiografia italiana fra Otto e Novecento, Verona, Accademia di Agricoltura, Scienze e Lettere di Verona, 1994, pp. 33 ss., in particolare pp. 76-78.
60
GLI ANNI DELL’ATTESA
tremore che non avrebbero, invece, colto Giovanni Boine, discepolo di Volpe negli anni milanesi, che avrebbe ricordato quello stesso «metodo» con parole di indubbia efficacia rievocativa. Io non so, con rammarico come si insegni la storia, che senso si dia alla storia nelle altre scuole d’Italia, ma bene so come l’insegna Gioacchino Volpe. Storia calma, storia complessa di molti fattori e di molte correnti intrecciate; storia in cui il fatto (gli uomini, l’avvenimento) scompare in una marea piena di vita (economica, religiosa, civile), che sale, converge, cresce: storia senza scatti, senza bagliori. È un pullulare, un gorgogliare vasto di cose che non son cose (astratte, prese à sé), dove niente soverchia e niente è soverchiato. La vita, la storia vogliono essere abbracciate in tutta l’ampiezza loro, nella loro complessità, nella loro estensione. Non vedi la data, non vedi l’intreccio del particolare, non vedi nemmeno il racconto. Ti si fa vivo innanzitutto il generale carattere d’un tempo, d’un paese. Pare veramente che ti cresca davanti tutto il torbido muoversi d’un epoca nella sua vastità, tutto il torbido e tuttavia diritto e sicuro tendere, convergere della vita in un’epoca data. È una storia dove hai pieno il senso del molto di confuso, del molto d’imprecisabile, che si agita nella vita, dove non si procede con nette definizioni, per tracciati geometrici. Compenetrazione, fusione di tutte le cose, amalgama vario e confuso, come davvero nella vita. La sua è una storia, che par gonfiare, crescere, dal profondo, dal mondo crepuscolare dei bisogni elementari, dalle oscurità del sentimento e delle cieche necessità210.
Sul carattere fortemente atipico e assolutamente antiscolastico di questo approccio al passato avrebbe concordato, ma con diverso segno, anche Prezzolini, paragonando Volpe a Salvemini e insistendo sul fatto che «tanto questi è preoccupato di chiarire, e perciò di semplificare, altrettanto il Volpe è preoccupato di nulla trascurare della realtà e, perciò, di complicare», al punto da «non riuscire a trarre una visione generale, restando invece maestro nelle finezze e nelle complicazioni dei motivi storici»211. Ma al di là di questa e di altre valutazioni, resta il fatto che il volume dedicato al Comune pisano rappresentava già pienamente quella «storiografia inafferrabile»212, che sempre sarebbe sfuggi210 L’intervento di Boine appariva ne «La Voce», III, 28 dicembre 1911, pp. 723-724. Si trattava della recensione al volume di LUIGI ZANONI, Gli Umiliati nei loro rapporti con l’eresia, l’industria della lana ed i comuni nei secoli XII e XIII sulla scorta di documenti inediti, Milano, Hoepli, 1911. 211 G. PREZZOLINI, La cultura italiana, Firenze, Milano, Corbaccio, 19383, pp. 326-327: «Volpe dipinge a velature che si sovrappongono, e il lettore che lo assiste e lo accompagna nel suo lavoro, prova talora un senso di delusione quando ad ogni ripresa, mentre sembra aver raggiunto l’intento, lo vede riprendere il pennello, e dire: “ma c’è ancora questo, e poi quest’altro, e la eccezione della eccezione, e la complicazione religiosa e quella culturale”». 212 Per questa definizione della storiografia di Volpe, si veda G. ROSSETTI, Premessa a ID., Società e istituzioni nel contado lombardo durante il Medioevo: Cologno Monzese, secoli, VIII-X, Milano, Giuffré, 1968, p. 7.
NASCITA DI UNO STORICO
61
ta a ogni possibilità di esauriente catalogazione, a ogni inserimento in una precisa tendenza, ivi compresa quella di «scuola economico-giuridica», che era stata formulata da Croce nel famoso saggio pubblicato nel 1920213. Sempre secondo la ricostruzione crociana, di quella corrente, che aveva recepito, rielaborato, infine dissolto e oltrepassato la lezione del materialismo storico214, Volpe sarebbe stato il leader indiscusso, per poi distaccarsene bruscamente, dopo la Grande Guerra, optando per una interpretazione del passato tutta giocata in chiave politica, concentrata sulle vicende dello Stato come espressione della volontà di potenza nazionale215. Lo stesso Volpe, nei primi anni Venti, avrebbe accettato sostanzialmente questa scansione cronologica, che in qualche modo spezzava la sua produzione in due tronconi fortemente divaricati e quasi privi di una soluzione di continuità216. Ma quella lettura era, invece, contestata da Nicola Ottokar, uno studioso a lui molto legato217, che, in 213 B. CROCE, La storiografia economico-giuridica come derivazione del materialismo sto-
rico, dove si discutevano ampiamente i lavori di Volpe e Salvemini. Croce aveva terminato di redigere, il 18 febbraio 1915, questo contributo, che apparirà molto più tardi su «La Critica», XVIII, 1920, pp. 321 ss., e che poi entrerà a far parte di ID., Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, cit., pp. 143 ss. 214 Ivi, p. 153: «In molte delle loro pagine svanisce ogni ombra del materialismo storico, che in altre persiste, non come consapevole dottrina, ma certo come impronta di quella dottrina che prevaleva al tempo della loro prima formazione mentale». 215 ID., Filosofia e storia (1925), in ID., Teoria e storia della storiografia, Bari, Laterza, 3 1927 , p. 362. Il giudizio era ribadito in ID., Intorno alle condizioni presenti della storiografia in Italia. IV. La storiografia sociale e politica, in «La Critica», luglio 1929, 4, pp. 241 ss. Il saggio, datato agosto 1928, veniva ristampato in appendice a ID., Storia della storiografia italiana del secolo decimonono, cit., pp. 231 ss. 216 G. VOLPE, Premessa a Medio Evo italiano, cit, pp. XI-XII; ID., Prefazione a Momenti di storia Italiana, cit., pp. VII-VIII. 217 Su di lui, il profilo di E. SESTAN, Nicola Ottokar, in «Rivista Storica Italiana», 1959, 1, pp. 178 ss., ora in ID., Storiografia dell’Otto e Novecento, a cura di G. Pinto, Firenze, Le Lettere, 1991. Volpe era intervenuto direttamente presso Gentile, allora ministro della Pubblica Istruzione, per accelerare il conferimento della cittadinanza italiana ad Ottokar, esule dalla Russia a seguito della rivoluzione bolscevica. Si veda Gioacchino Volpe a Giovanni Gentile, Ministro della P. I., Roma, marzo 1924, AFG: «Prego la E. V. di voler prendere a cuore la causa del prof. Ottokar suddito russo, che aspira alla cittadinanza italiana. Conosco personalmente il prof. Ottokar che da molti anni si occupa di storia italiana con grande amore e competenza. Il prof. Ottokar parla correntemente l’italiano, ha una conoscenza grandissima anche della nostra storia dell’arte, ha familiarità con la lingua e la storia dei paesi slavi, ha finissima intelligenza, grande simpatia per l’Italia. Chi lo conosce a Firenze (fra gli altri, anche il prof. Anzilotti, il prof. Codignola ecc.) sa che non si è mai occupato di politica e non appare in nessun modo legato politicamente al regime presente di Russia. La cittadinanza italiana che egli chiederà regolarmente, quando abbia certa sicurezza morale che la sua domanda sarà accettata, potrà farlo uscire da una situazione finanziaria precaria, per la quale, recentemente, è stato costretto a vendere anche libri suoi». La richiesta veniva reiterata al nuovo ministro della Pubblica Istruzione, Alessandro Casati, il 16 agosto 1924: «Gentile aveva promesso a me e ad altri di interessarsi per la concessione della cittadinan-
62
GLI ANNI DELL’ATTESA
un denso articolo del 1930, confessava di «non aver mai potuto capire come il Volpe abbia potuto essere associato, come rappresentante di un indirizzo storico, agli esponenti della cosiddetta scuola giuridico-economica, tanto diversa è la sua mentalità, tanto diversa la sua impostazione dei problemi della storia comunale»218. Sicuramente anche Volpe aveva sentito e subito l’«influsso delle formule classistiche», ma nella sua analisi «questi contrasti non hanno mai esistenza propria, non sono mai fine e valore per sé, ma sono sempre concepiti come aspetti o come funzioni di un processo più ampio e complessivo; sono assorbiti e superati nella visione di un tutto, la cui vita e il cui sviluppo sono il vero e continuo oggetto dei suoi studi». A differenza di Salvemini, Volpe rappresentava, nella sua prima monografia, «il Comune primitivo non come centro borghese contrapposto al contado feudale», ma «come organismo più vasto e complesso a cui fin dall’inizio partecipa buona parte del contado e a cui fanno capo vari rapporti e interessi del mondo feudale circostante». Città e campagna, ottimati e nobiltà non erano visti come due elementi antitetici che potevano soltanto dominarsi alternativamente, ma come «vari aspetti di un unico complesso di forze che vanno sistemandosi e organizzandosi nel vasto mondo del Comune». In ogni fase della vita della città pisana, l’attenzione di Volpe era rivolta non tanto alle «antitesi e ai contrasti di classe», che per altri interpreti costituivano la ragion d’essere e il fine supremo della storia comunale, quanto al Comune come «insieme complessivo, come società, come Stato, come organismo pubblico». Anche in questo approccio, forse, poteva ritrovarsi l’eredità del materialismo storico, ma a condizione di ammettere che di quella teoria Volpe avesse recepito «la parte più profonda e più feconda, vale a dire l’idea dell’unità e dell’interdipendenza, e non l’esagerazione delle antitesi e dei contrasti che porta ad una visione isolatrice e materializzatrice». Quello che, da sempre aveva distinto Volpe dagli storici contemporanei era infatti «la visione più generale del processo storico, il senso dell’unità e dell’interdipendenza». E di conseguenza il suo passaggio za al Dott. Nicola Ottokar, suddito russo, ma da tempo dimorante in Italia, studioso di valore ecc. Date le condizioni della Russia presentemente, egli non ha uno o due dei documenti necessari. Ma un Consigliere di Stato, il commissario Giannini, dice che l’ostacolo non è insormontabile, specialmente se vi sarà una pressione del Ministro della P. I. Parlane con Federzoni, ti prego, fagli parola di Ottokar che a Firenze molti conoscono, che è socio della Deputazione di storia patria, che è intimissimo di Anzilotti e che sta per pubblicare un volume di storia fiorentina». La lettera è conservata, in ACS, Fondo Alessandro Casati, d’ora in poi FAC. 218 N. OTTOKAR, Osservazioni sulle condizioni presenti della storiografia italiana, in «Civiltà moderna», ottobre 1930, pp. 927 ss., ora in ID., Studi comunali e fiorentini, Firenze, Sansoni, 1948, pp. 92 ss.
NASCITA DI UNO STORICO
63
dalla storia comunale alla storia delle nazioni non poteva essere letto come un spostamento dalla storia sociale alla storia politica: «giacché la storia dei Comuni, così almeno come credo che sia stata concepita da Volpe, è anch’essa storia politica e non presuppone affatto nel suo cultore uno scarso senso dello Stato o un predominio del concetto di classe su quello di nazione (nazione comunale, s’intende)». Era una conclusione, questa, che Ottokar ribadiva nella lettera dell’agosto 1930, ancora una volta contro l’interpretazione di Croce ma ora anche contro alcune perplessità dello stesso Volpe. Vedo dalla Sua lettera che esiste realmente una divergenza fra noi nei riguardi della Sua opera prebellica. Ella dice infatti che opere storiche vere e proprie le ha scritte solo negli ultimi anni, mentre quelle di prima non erano storia di questo o quel periodo o paese, ma studi storici volti a lumeggiare certi momenti e certi aspetti ecc. Ho riletto recentemente alcune sue vecchie opere, e son più che mai disposto ad oppormi a simili limitazioni. Non sono momenti e aspetti, ma è sempre storia generale quella che Ella studia fin dalla sua prima opera giovanile sul Comune pisano. Se non si capisce questo, non si capirà mai la distanza che la separa da Salvemini e dagli altri coi quali l’hanno così impropriamente accomunato. Si metta un po’ nel mio ordine di idee (che consiste nel distinguere la materia degli studi, che può essere quanto mai limitata, dall’atteggiamento, dallo spirito che li informa): e dovrà ammettere che questi momenti e aspetti non la hanno mai interessati per se stessi, ma appunto come momenti e aspetti di un tutto più generale. I Magnati e Popolani di Salvemini (a parte i suoi errori e difetti, che qui non mi interessano) è una opera quanto mai “speciale”, limitata, particolare, mentre il Suo libro su Le istituzioni comunali a Pisa è una delle opere storiche più generali che esistano in Italia. Non capisco come questo fatto, che per me è di evidenza immediata e palmare, non sia stato messo in rilievo né da altri né da Lei stesso. Per questo mantengo quello che ho scritto nell’articolo intorno alla Sua prefazione al Medio Evo italiano: che Ella cioè ha “quasi denigrato” la Sua opera precedente, attribuendole i difetti ed i limiti della scuola economico-giuridica. E anche ora Ella dice nella sua lettera che opere storiche vere e proprie le ha tentate solo negli ultimi anni, mentre quelle di prima della guerra non erano storia di un periodo o di un paese, ma ne lumeggiavano solo certi momenti e aspetti. Ma nel trattare questi momenti e aspetti, Ella aveva sempre presente il tutto (e non solo in forma latente), la forma di vita storica di un periodo o di un paese, e questo, appunto, era il vero Suo obiettivo! A convincersene basterebbe leggere anche superficialmente qualsiasi dei Suoi scritti più apparentemente “particolari” di quegli anni. Questa è sintesi, è storia generale, non ostante le apparenze. Anzi direi (ma sarà forse una mia personale predilezione) che è la forma più viva, più perfetta di sintesi, se non per il gran pubblico (che non può leggere con profitto opere di questo genere), almeno per gli “iniziati”. Io mi trovo dunque in contrasto, riguardo al Suo “svolgimento spirituale”, non solo col Croce, ma anche un po’ con Lei stesso. Di Croce non accetto né la caratteristica del Volpe prebellico, né la critica del Medioevo, la quale per me non ha nessun valore, in quanto par-
64
GLI ANNI DELL’ATTESA
te da un determinato (e limitato) atteggiamento filosofico e non da un criterio di sensibilità storica. Con Lei il mio disaccordo è di altro genere. Accetto pienamente il Suo Medioevo, e in genere il Volpe post-bellico. Ma non lo voglio contrapporre al Volpe prebellico. Conosco un solo Volpe, e vedo il Medioevo (a parte naturalmente lo svilupparsi delle possibilità di produzione cogli anni e colle esperienze e anche coll’allargarsi delle conoscenze e dell’esperienza storica) delinearsi già nell’opera giovanile sulla costituzione pisana219.
Se dunque il volume pisano conteneva in nuce lo svolgimento ulteriore di tutta la storiografia di Volpe220, poco davvero potevano aggiungere a quella già compiuta formazione i due semestri di studio trascorsi a Berlino, dalla fine dell’ottobre 1902 all’agosto 1903. Durante quel soggiorno, Volpe riceverà, come meglio vedremo, una lezione che avrebbe interessato più la congiuntura politica attuale che la storia passata, nonostante il contatto diretto con i massimi studiosi tedeschi: Schmoller, Gierke, Brunner, Breysig, amico di Lamprecht ed esponente di punta della «storia della cultura»221, di cui gli spiacque però l’acceso nazionalismo, che emergeva con forza da un’indagine tutta concentrata sui temi della Völkerpsychologie222. Il grande o piccolo tour tedesco non distraeva comunque Volpe dalle prospettive e dalle preoccupazioni relative al suo futuro accademico, come dimostrava la lettera spedita a Fortunato Pintor nel marzo del 1903.
219 Nicola Ottokar a Gioacchino Volpe, Firenze, 25 agosto 1930, CV, dove il rimando era B. CROCE, Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, cit, II, p. 238, dove si definiva il Medioevo di Volpe del 1926 un «un medioevo economico-giuridico o, se piace, meglio, economico-politico», nel quale «non si ha non propriamente una realtà, ma una visione unilaterale, e perciò astratta, della realtà; quasi il corpo della storia senza l’anima, lo spettacolo della lotta e delle sue vicende, del cadere e del risorgere, del dividersi e del riunirsi senza che si conosca il dramma intimo che è sotto questo profilo esterno di dramma». 220 Alla stessa conclusione sembrava essere pervenuto anche Volpe nella lettera a Walter Maturi del 21 luglio 1928, ora in Gioacchino Volpe e Walter Maturi. Lettere 1926-1961, a cura di P. G. Zunino, in «Annali della Fondazione Einaudi», XXXIX, 2005, pp. 245 ss., in particolare p. 288, dove si parlava dei miei «primi lavori: nei quali son già quelle che poi saranno le mie caratteristiche. Rimando al volume su le istituzioni pisane del 1902, ai miei saggi su Bizantinismo e Rinascenza, su Arias ecc., 1904-1905». 221 Gioacchino Volpe a Benedetto Croce, Berlino, 6 novembre 1902, ABC. 222 Si veda la lettera di Gioacchino Volpe alla futura suocera, Maria Serpieri, Berlino, 3 marzo 1903, CV: «Parleremo poi a voce di questi tedeschi; ma sa che in questi quattro mesi ne ho avuto abbastanza di sentirli ripetere in tutti i toni e ad ogni proposito, i vanti della loro incontrastata grandezza, della loro potenza, della loro civiltà ecc. ecc.? Pochi giorni fa all’Università, il prof. Breysik [recte: Breysig] che fa un corso sulla civiltà germanica e civiltà dei popoli latini, in una assai discutibile analisi chimica degli elementi che costituiscono l’arte di Dante e dei maggiori pittori e architetti nostri del ’400 e del ’500, ha voluto dimostrare che quanto in essi è nuovo, è forte, è passione… (che cosa ci rimane ancora?) è germanico, l’altro è latino. Qui veniamo all’assurdo elevato all’ennesima potenza».
NASCITA DI UNO STORICO
65
Ora mi trovo a Dresda, dove mi tratterrò dodici o quindici giorni e cercherò di lavorare un po’, se pure è possibile con questo mio continuo muovermi. Sai che Dresda arieggia Firenze? A parte la grandezza (l’una è 3 volte più popolosa dell’altra); ma Dresda è pure essa la città elegante della Germania, col suo fiume in mezzo, i suoi ponti, i suoi colli, i suoi ricchi musei, la sua irregolarità. Pregio grandissimo, quest’ultimo, per noi Italiani che non amiamo troppo le città costruite sopra un foglio di carta prima che sul terreno, cioè con la riga ed il compasso. Ed io mi son trovato subito come a casa mia, dopo un giorno andavo da per tutto senza smarrirmi, mentre a Berlino per un mese mi sono smarrito come un provinciale, negli ampi e monotoni quartieri nuovi. Ma io non ti scrivo solo per chiacchierarti di Berlino e di Dresda. Ti dirò anche un’altra cosa e tu potrai darmi un consiglio. Da sei mesi, io sto sotto la persecuzione del Crivellucci che mi scrive e riscrive di chieder la libera docenza, a Pisa o a Firenze. Io nel dicembre scorso esposi ciò a Del Vecchio e ne ebbi la risposta che mi aspettavo e che più si accordava coi miei convincimenti: cioè, pur non dicendomi che questa licenza mi sarebbe negata, mi consigliava di aspettare ancora un po’ e pubblicar prima il lavoro a cui ora attendo. Il Crivellucci a cui io scrivo tale risposta non si dà per vinto e mi dice di far valere presso il Del Vecchio la ragione del prossimo concorso per Napoli a cui io dovrei, secondo lui, presentarmi per avere una eleggibilità. Ora francamente, io son grato al Crivellucci di questa sua premura per me e della stima che mi dimostra; ma questa stima è eccessiva ed egli si illude un po’ sulla mia possibilità di far presto grandi passi. Io di ciò son fermamente convinto e riconosco il consiglio del Del Vecchio che è anche quello del Villari, assai opportuno; per quanto sia anche convinto che questi due per certe loro idee e direi quasi preoccupazioni scientifiche siano propensi a quotare il mio lavoro sulle istituzioni pisane un punto meno di quel poco che la generalità degli studiosi potrà quotarlo. Ma è pur sempre vero che presentarsi ad una docenza e, anche peggio, ad un concorso di straordinario solo con il lavoretto del Valentino, con la memoria, abbastanza buona ma poca cosa, sui Longobardi, col magno lavoro sulle istituzioni e con l’altra memoria, ora pubblicata sugli «Studi Storici», su «Pisa, Firenze e l’Impero», mi pare non molto serio. Io che facevo risate e meraviglie di certi candidati che si presentavano al concorso universitario di Catania! Ora, oltre il lavoro sulle teorie politiche, ho in gestazione una memoria sui «Lambardi in Toscana nel XII secolo», che sarà uno studio sulla piccola nobiltà rurale, ed un articolo in cui cerco di porre le questioni fondamentali del sorgere del comune. Ma quando verranno alla luce? Questi due ultimi mesi ho lavorato poco e con poco profitto, ora non ho speranze di poter rimettere il perduto, e poi questo lavorare in fretta per giungere il giorno prima della chiusura di un concorso a presentare degli scritti abborracciati, a me non va ed è veramente una indegnità da cui io prego il buon Dio che mi preservi sempre perché tengo troppo a non confondermi con certi volgari ambiziosi. A te cosa pare di tutto questo? Aggiungi che ora la libera docenza si deve conquistare con un esame a cui io non so se sono preparato perché non so su che cosa verta. Lo sai tu? E sai quando scadano i termini per la presentazione delle domande? Se puoi rispondere a queste domande, mi sarà utile per prendere una decisione. Sei mai uscito in questi discorsi con Del Vecchio o Villari? Io starò qui a Dresda fin verso il 22 o 29 mar-
66
GLI ANNI DELL’ATTESA
zo, tu quindi hai tempo a rispondermi. Ti prego di non parlar con altri di queste cose, anche perché ci son di mezzo dei professori; e poi io non voglio per niente mettermi, agli occhi di chi mi conosce, nelle file degli aspiranti a cattedre ipotetiche, macerati dallo sdegno contro le commissioni dei concorsi!223
Nelle lettera, dove si parlava di nuovi lavori appena progettati o già in via di avanzata elaborazione, si faceva cenno anche alle perplessità dell’ambiente fiorentino, di Villari e in particolare di Del Vecchio, per una troppa rapida progressione di carriera dello scolaro pisano224, ma anche in generale sulla sua produzione scientifica. Perplessità, che lasciavano presagire quello che sarebbe stato l’infelice esito del concorso di abilitazione, che Volpe comunicava a Pintor, nell’autunno dello stesso anno, senza eccessive recriminazioni sul giudizio della commissione, ma con una punta di comprensibile amarezza. Ed il mio concorso di Firenze? È caduto, caro Pintor, è caduto, se non ignominiosamente, certo con ferite assai gravi. Il colpo è stato doloroso per me, quantunque non inaspettato del tutto: capivo più lucidamente che non il prof. Crivellucci quanto vi fosse di manchevole nei due miei lavori di laurea e di abilitazione, da cui principalmente doveva prendere norma il giudizio dei professori di Firenze. Questo è il fatto, ma io ho rimesso la rivincita ad un altro anno. Per ora penso a compiere i due lavori e perciò sono risoluto di rimanere a Pisa a tutti i costi. Mi hanno offerto un posto nel ginnasio di Pausula (Macerata), ma lo ho rifiutato. Ora ho concorso nel ginnasio di Pisa ed aspetto. Siamo una ventina di concorrenti, che io vinco tutti nei titoli scientifici; ma vi sono già dei professori che mi faranno la festa. Insomma tutto è andato maledettamente male, anche peggio di quel che io aspettassi e meritassi. Fortuna che io non sono animo da avvilirmi facilmente quantunque non sappia come farò a mantenermi un anno a Pisa. Ma è vero che una piccola particella dell’avvenire spetta a chi si sacrifica nel presente e sa attendere?225
223 Gioacchino Volpe a Fortunato Pintor, Dresda, s. d. [ma marzo 1903], in Archivio Centrale dello Stato (ACS), Fondo Fortunato Pintor, busta 9, fascicolo 401, d’ora in poi FFP. 224 Il 30 agosto 1903, Del Vecchio scriveva a Villari, esprimendo la sua contrarietà alla concessione della libera docenza a Volpe, che «è bravo ma ha troppa fretta». La lettera è conservata in CPV. 225 Gioacchino Volpe a Fortunato Pintor, s.l., s.d., FFP
2. PASSATO E PRESENTE 1. Continuavano, dunque, per Volpe gli anni dell’attesa, sia pure di attesa vigile, operosa, che si era intrecciata e ancora si intrecciava con un impegno didattico intenso ma discontinuo. Prima, nell’insegnamento secondario: a Città S. Arcangelo, in Abruzzo e a Pisa, nella Scuola magistrale Fibonacci, tra 1900 e 1903. Poi, ottenuta la libera docenza, ancora a Pisa, in quello universitario e normalistico, nel 1904, «in sostituzione di Crivellucci»; infine nell’Istituto di Studi superiori di Firenze, nell’anno accademico 1905-1906, come docente di un corso libero di storia moderna, insieme a Nicolò Rodolico1. In questo stesso periodo si consolidava il rapporto con Croce, conosciuto nel 1900 grazie a Giustino Fortunato2, nel breve periodo di lavoro nella redazione del «Mattino» di Edoardo Scarfoglio, figlio di una sorella di Giacomo Volpe3. Quel legame con l’inquilino di Palazzo Colamarino si faceva sempre più stretto grazie alla comune amicizia con Giovanni Gentile e diveniva in breve un dialogo inter pares sulla storia e sulle sue ragioni intellettuali e politiche, poi proseguito senza interruzioni fino al 1928, attraverso uno scambio epistolare di quasi un centinaio di lettere, che ci restituiscono perfettamente i termini di quel sodalizio. Da esse traspare, infatti, che se Volpe vedeva enunciato da Croce, a livello di alta consapevolezza teorica, il modello della sua storiografia imprendibile, anch’essa fondata su di una «concezione realistica della storia, la quale segna le opposizioni a tutte le teologie e metafisiche»4, Croce, per sua parte, come poi avrebbe sottolineato Gramsci, scorgeva in Volpe la possibilità di tradurre nel campo della ricerca concreta una profonda revisione del materialismo storico, in opposizione alle implicazioni più direttamente 1 G. VOLPE, Ritorno al paese, cit., p. 15-16. Si veda anche Gioacchino Volpe a Walter Maturi, 7 gennaio 1946, in Gioacchino Volpe e Walter Maturi. Lettere 1926-1961, cit., p. 322 2 ID., La “questione meridionale” oggi, in «Pagine Libere», gennaio-maggio 1959, p. 30. 3 ID., Ritorno al paese, cit., p. 13-14: «Si aggiunge, dopo la laurea, un anno passato a Napoli, presso “ Il Mattino”, addetto io, a modesti compiti: ora dar una mano al manipolatore del notiziario politico che veniva verso la mezzanotte; ora correggere bozze; qualche volta aiutare l’impaginatore». 4 B. CROCE, Sulla concezione materialistica della storia, cit., p. 20.
68
GLI ANNI DELL’ATTESA
politiche di quel metodo e contro la sua deriva in chiave di sociologismo positivistico5. La polemica crociana contro la sociologia «poco storica megera» avrebbe trovato in Volpe il suo indiscusso campione, come emergeva chiaramente nella prefazione alle Questioni fondamentali sull’origine e svolgimento dei Comuni italiani del 19056, che riprendeva ad litteram i contenuti della corrispondenza inviata da Berlino a Croce, alla fine del marzo 1903, per ringraziarlo dell’invio del primo fascicolo della «Critica», dove campeggiava una corrosiva recensione alla recente silloge di Loria dedicata alla dottrina di Marx7. Ho avuto questa mattina il 1° numero della sua rivista e voglio subito ringraziarla; ringraziarla del gentile pensiero e del piacere vivissimo che la lettura del fascicolo mi ha procurato. Non avviene tutti i giorni di leggere pagine sulle quali ogni rigo porti l’impronta di un pensiero robusto ed il pensiero sia con tanta lucidezza espresso. Non si potrà mai abbastanza lodare il proposito di risvegliare in Italia gli studi filosofici che soli danno la possibilità di rinvigorire tutta la nostra produzione scientifica, danno l’abitudine e l’attitudine di concepire largamente le cose, nel loro giusto valore, perché non staccate dall’insieme. Io, modestissimo cultore di studi storici, sento ogni giorno di più il danno che ci viene dalla mancanza di qualunque fondamento di studi filosofici. Con tanto maggiore interesse d’ora innanzi seguirò la sua Rivista in quanto già vedo che essa ingaggerà subito battaglia con certe modernissime tendenze sociologiche e pseudosociologiche che con facili generalizzazioni ed enunciazioni di leggi storiche ad ogni piè sospinto minacciano di farci tornare molto indietro, peg-
5 Si veda la lettera di Gramsci a Tania Schucht del 2 maggio 1931, in ID., Lettere dal carcere, Torino, Einaudi, 1965, p. 615: «Ho già accennato alla grande importanza che il Croce assegna alla sua attività teorica di revisionista e come, per sua stessa ammissione esplicita, tutto il suo lavorio di pensatore in questi ultimi venti anni sia stato guidato dal fine di completare la revisione fino a farla diventare liquidazione. Come revisionista, egli ha contribuito a suscitare la corrente della storia economico-giuridica (che, in forma attenuata, è ancora oggi rappresentata specialmente dall’accademico Gioacchino Volpe)». 6 G. VOLPE, Questioni fondamentali sull’origine e svolgimento dei Comuni italiani, Pisa, Nistri, 1905, poi in ID., Medio Evo italiano, cit., p. 39: «Mi sono guardato dal generalizzare. Nell’esposizione sistematica non sono stato proclive a costruire serie di sviluppo, o almeno non ho dato loro valore assoluto. Nella storia non dobbiamo vedere successione di fatti, di cui ognuno dipenda da quello che, cronologicamente, lo precede, ma interdipendenza di fatti, con reciproco rapporto di causa ed effetto. In altre parole ho cercato di essere più storico che sociologo, cioè costruttore di schemi. Contro certe intemperanze di metodo, così detto sociologico, io non posso che non aderire, a quanto son venuti scrivendo, negli ultimi anni, in Italia il Croce ed in Germania il Below, armati l’uno di pensiero filosofico, l’altro – pur non essendo giurista – di solida preparazione giuridica». 7 B. CROCE, recensione a A. LORIA, Marx e la sua dottrina, Milano-Palermo-Napoli, Sandron, 1902, in «La Critica», I, 1903, 1, pp. 148-149, nella quale così si concludeva: «La raccolta degli scritti del Loria intorno al Marx mi riesce, dunque, assai gradita, perché costituisce come un’appendice di pièces justificatives al mio saggio su le Teorie storiche del prof. Loria».
PASSATO E PRESENTE
69
gio ancora, di tutte le nostre idee in fatto di metodo storico e di ricerca. Certi giudizi, poi, espressi da lei qua e, là nello studio sul Carducci e nella recensione del Lisio, mi hanno raddoppiato il desiderio di conoscere la sua Estetica8.
Da questo momento, Volpe diveniva collaboratore fisso della «Critica», dispiegando un’attività di recensore che sempre più si sarebbe configurata come formulazione di precise indicazioni relative all’impossibilità di racchiudere l’analisi del passato in una visione rigidamente sistematica, composta da leggi, regolarità, occorrenze calcolabili o addirittura prevedibili in altri contesti storici. Dalla nota relativa al saggio di Hanauer, Das Berufspodestat im 13en Jahrhundert, che immediatamente ricevette l’apprezzamento di Croce9, Volpe passava a formulare, come si è già ricordato, la sua personale e radicale resa dei conti con la tendenza völkisch della storiografia teutonica, individuata nel volume di Neumann sul Byzantinische Kultur und Renaissancekultur, che veniva seccamente definito l’ultima degenerazione di «un peregrino metodo storico-critico, cominciato al principio del secolo scorso, quando gli storici tedeschi non videro nel mondo se non la loro razza e la loro civiltà, e quasi fecero coincidere i confini etnici della Germania con i confini fisici del globo»10. L’entusiastica accoglienza con la quale Croce riceveva quella recensione, definendola «stupenda»11, incoraggiava Volpe ad
8 Gioacchino Volpe a Benedetto Croce, Berlino, 25 marzo 1903, ABC. Nelle pagine che seguono tutta la corrispondenza, indirizzata da Volpe a Croce, s’intende riferita, senza ulteriori indicazioni, a questo insieme documentario. 9 G. VOLPE, recensione a G. HANAUER, Das Berufspodestat im 13en Jahrhundert, poi pubblicata nella «Critica», II, 1904, pp. 137 ss. Sul successo di quella prima prova, si veda Giovanni Gentile a Benedetto Croce, 21 dicembre 1903, in G. GENTILE, Epistolario II. Lettere a Benedetto Croce. Dal 1901 al 1906, a cura di S. Giannantoni, Firenze, Sansoni, 1974, p. 155 e la lettera di Volpe a Croce del 3 aprile 1904: «Son contento che la recensione sia piaciuta ad altri e più ancora, che sia piaciuta a lei. Ne farò altre, ove mi si presenti l’occasione di farlo; anche lei se ha qualche libro su cui crede possa io dire qualche cosa sensata – i miei studi maggiori non scendono pur troppo oltre il XV secolo – mi farà piacere mandarmelo o indicarmelo perché io me lo procuri. Vedo con piacere i progressi della sua Critica, per la quale io non ho parole di ammirazione che bastino» 10 G. VOLPE, Bizantinismo e Rinascenza, cit., p. 107. 11 Per il giudizio di Croce su quella nota, si veda la lettera a Volpe del 4 agosto 1904, CV: «Gentile Amico, lasci che le dica che la sua recensione al Neumann mi sembra semplicemente stupenda, e lasci che la ringrazi del prezioso lavoro che ella mi ha fornito per la Critica, e che è così bene intonato all’indole di essa. Vi sono cose che da un pezzo desideravo fossero inculcate agli storici italiani e stranieri; ed Ella ha fatto come non si poteva meglio. Lo scritto è troppo lungo perché si possa inserire nel fasc. di settembre che è già in tipografia; ma lo metterò senz’altro in quello di novembre. Sabato mi propongo di partire per la mia solita villeggiatura di Meana. Una cordiale stretta di mano dall’affezionatissimo suo B. Croce». Su quel giudizio, si veda anche Gioacchino Volpe a Giovanni Gentile, Pisa, 23 ottobre 1904, AFG: «Ti ringrazio delle belle parole che hai per me e godo che la mia piccola ricer-
70
GLI ANNI DELL’ATTESA
ampliare la sua collaborazione anche al piano editoriale, con la proposta, espressa nel giugno 1905, di pubblicazione, per la Biblioteca storica di Laterza, di un volume di Ricerche sull’origine e sul primo svolgimento dei Comuni nell’Italia longobarda (sec. IX-XII), del quale l’autore inviava un dettagliato sommario, da inserire, a mò di «annuncio», in uno dei prossimi numeri della «Critica». I. Fatti e condizioni precedenti e preparatorî al Comune: 1. La grande proprietà, specialmente ecclesiastica del IX e X secolo, considerata come fatto economico, sociale, politico. 2. Forma e limiti dell’ordinamento curtense in Italia. 3. Fuori della corte; le forme varie del lavoro artigiano, degli scambi, mercanti e porti attorno al 1000. 4. Laici contro chierici; disfacimento della grande proprietà ecclesiastica; formazione e sviluppo di nuove classi di proprietari e vassalli; la crisi fra i ceti servili. 5. Vecchi e nuovi centri di popolazione, le città, i castelli, i borghi, le ville; loro ordinamenti giuridici, attività, fisionomia sociale. 6. Vincoli e rapporti di vario diritto pubblico, feudale, curtense, familiare entro questi grandi e piccoli raggruppamenti di popolo; le terre comuni: diritti d’uso collettivo, possessi comuni, proprietà comuni, proprietà comuni di diritto privato e di diritto pubblico. II. Il Comune: 1. Il momento essenziale nella formazione del Comune. 2. Vincoli e rapporti esterni, indiretti, signorili e parentali, che diventano interni, volontari, personali. Quando, come e per quali impulsi. 3. Il Comune, fatto nuovo, associazione libera, giurata di carattere originariamente privato. 4. Forme varie di comuni e diversa struttura sociale loro; fondamentale divisione loro in due tipi, comune rurale e comune composto (città, castelli, borghi). 5. Origine e natura del potere consolare. 6. Vescovo, visconte, consoli. III. Questioni diverse per la storia dell’Italia comunale e della coltura italiana nel XI-XII secolo: 1. Gli albori delle teorie del diritto naturale, di sovranità popolare, di contratto sociale, nei pubblicisti dopo il 1000, e loro connessione con i fatti storici. 2. Il Comune e la sua storia sotto l’aspetto etnico. 3. Diritto romano e diritto longobardo, primi principi della Rinascenza quattrocentesca. 4. Fattori reali ed ideali della unificazione e del sentimento nazionale italiano. 5. Secoli XI-XII, secoli di origini; economia fondiaria ed economia del denaro; i principi del capitalismo moderno. 6. Associazioni mercantili e corporazioni di mestiere12.
ca abbia il tuo gradimento. Il giudizio tuo e di Croce è cosa di cui ogni scrittore deve tenersi onorato, se favorevole. Ma è ancora troppo povera cosa». Croce ritornava anche successivamente su quel giudizio, in ID., Storia della storiografia italiana del secolo decimonono, cit. II, p. 147: «Germanesimo e latinità e altrettali fantasmi, che visitavano ancora le storie del Villari e del Lanzani, e diventavano lotta dell’eroico contro l’abietto nelle pagine del Monfredini, sono nel Volpe esorcizzati e discacciati, non solo dalla storia delle origini comunali, ma anche da quella della genesi del Rinascimento, dove da taluni critici tedeschi erano stati introdotti». 12 Gioacchino Volpe a Benedetto Croce, Pisa, 22 giugno 1905, dove si concludeva: «Io credo di poterne cominciare la stampa ai primi mesi del 1906, contenendomi nei limiti delle 350-400 pagine da lei fissato». Il progetto del volume tornava anche nella corrisponden-
PASSATO E PRESENTE
71
Quel progetto non avrebbe avuto seguito13, come non si sarebbe realizzato il desiderio di Volpe di vedere commentato da Salvemini il suo lavoro sul Comune pisano, sulle pagine della rivista di Croce14. Andava a buon fine invece il proposito più volte annunciato di recensire lo studio di Gino Arias, Il sistema della costituzione economica e sociale italiana nell’età dei Comuni15, interamente costruito a partire dalle tesi
za con Gentile del 29 febbraio 1905, AFG: «Ho inteso quel che mi dici per la stampa del lavoro nella collezione del Croce. Io conto di finirlo entro l’anno corrente e cominciar la stampa al principio del 1906. Per l’ampiezza, credo che non farò fatica a tenermi sulle 350 pagine. Saluta il Croce, e sappimi dire qualche cosa». Si veda anche la lettera dell’aprile 1905, ivi: «Ti ringrazio con tutto l’animo dell’augurio che mi fai; ed io lo accolgo come il più corrispondente alle mie aspirazioni. Così mi bastasse la forza e l’ingegno di portare a termine anche una parte sola di quel che tu mi dici! Ho inteso del Croce; forse non ha torto e poi si andrebbe troppo per le lunghe. In quanto al lavoro cui attendo, io non ho impegni con editori. Già difficilmente potrei disporre delle centinaia di lire necessarie a stampar un volume di 300 o 400 pagine. E certo sarei contentissimo se il Croce me lo accogliesse nella sua Raccolta. Te ne ha parlato? Sappimene dire». 13 Del progettato lavoro ci resta soltanto l’introduzione, che costituiva il testo della prolusione al corso libero tenuto da Volpe a Pisa nel 1904: Questioni fondamentali sull’origine e svolgimento dei Comuni Italiani. (Secoli X-XV), Pisa, Nistri, 1904, poi in ID., Medio Evo italiano, cit., pp. 1 ss. Nella ristampa in volume, il saggio recava il sottotitolo: Disegno di un’opera… che non è stata mai scritta. Sul punto, Gioacchino Volpe a Giovanni Gentile, 25 gennaio 1905, AFG: «Io ti prego di gradire un opuscolo che ora ti spedisco. È la prima lezione – non dirò prolusione – tenuta a Firenze per il Corso libero che ora viceversa diventa il Corso ufficiale di Pisa, dove ho avuto l’incarico di supplire il Crivellucci. Quell’opuscolo è il programma di un lavoro che ora sto preparando. Io anzi avevo pensato di chiedere a voi se poteva per la sua indole comparire nella Critica; ma poi avevo fretta di farne un dono a persona amata e lo ho subito fatto stampare per conto mio. Del resto, se ti sembrasse opportuno, saremmo sempre in tempo. L’opuscolo non è diffuso. Ne ho date 3 o 4 copie ad amici. Naturalmente, per una rivista ci sarebbe da ritoccarlo. Leggilo e poi sappimi dire qualche cosa. E ti prego di far avere al Croce uno dei due opuscoli». 14 Si veda la lettera a Croce del 3 aprile 1904: «Desidererei che persona importante vi dicesse qualche cosa del mio lavoro sulle Istituzioni ecc. Se lei pregasse qualcuno, le sarei grato». Sul punto, Fortunato Pintor a Giovanni Gentile, 11 maggio 1903, in G. GENTILEF. PINTOR, Carteggio, cit. pp. 116-117: «Scrissi al Salvemini, secondo che si era convenuto. Mi ha risposto ieri che parlerà molto volentieri nella Critica del volume di Volpe: ma che bisogna gli diate tempo: dice che il volume sulla Rivoluz. Francese gli occupa tutto il resto dell’anno. Subito dopo il primo lavoro sarebbe per voi. Ma s’acconcerà il Croce a così lunga attesa? Comunicherò anche a lui la risposta del Salvemini». 15 Gioacchino Volpe a Benedetto Croce, Pisa 22 giugno 1905: «Io le manderò per il fascicolo dell’agosto-settembre la recensione del Mondaini e quella di un recente libro dell’Arias che si presta a molte critiche, se mai altri avesse impegnato questo libro, abbia la bontà di avvertirmene». Si veda anche la lettera del 7 luglio: «Io le scrissi parecchi giorni addietro, comunicandole il titolo del lavoro ed un sommario, nel caso lei avesse voluto darne annunzio; in più, chiedendole se potevo per la Critica recensire l’ultimo libro dell’Arias, Il sistema ecc. (lungo e roboante e misterioso titolo). Vi è altri che si è addossato l’incarico? In caso negativo, io le manderei questa e la recensione del Mondaini, per il numero del settembre-ottobre».
72
GLI ANNI DELL’ATTESA
di Loria, a cui Volpe dedicava uno stroncatorio resoconto che veniva infine consegnato a Croce alla fine di luglio del 1905, per apparire sulla «Critica» nel corso dell’anno successivo16. Il libro di Arias sicuramente si prestava a un giudizio severo, per la sua pretesa, che riprendeva con maggiore rozzezza e sicumera quella stessa espressa da Salvemini, di trovare, come criterio di obiettività scientifica della storia, una legge regolatrice unica di tutti i diversi e disparati fatti sociali, da rinvenire nella presunta razionale e naturale necessità di un’autotutela delle energie produttive, indipendente dall’azione umana17. In questo mondo, ogni evento storico, ogni istituto giuridico, politico, sociale, ogni creazione culturale era funzione primaria, secondaria o terziaria della «costituzione economica», secondo una chiave di lettura generale che degradava il materialismo storico a «naturalismo storico-sociale», letto in pura chiave biologica18. In conformità a questo metodo d’indagine, il lavoro dello storico perdeva la sua specificità e si riduceva a essere del tutto gregario da quello dell’economista e soprattutto del sociologo, come dimostrava, in quegli stessi anni, la vera e propria diaspora di molti giovani storici e storici del diritto dalle sedi specialistiche alla «Rivista italiana di sociologia»19. Di fronte a questa pericolosa tendenza, Volpe attuava un vigoroso contrattacco per tutelare le ragioni della pura storia e giudicava il lavoro di Arias, a cui intanto Loria aveva tributato un elogio incondizionato20, un tentativo mal riuscito, che, proprio per la sua smania di essere assieme «opera di storia e di ben intesa sociologia», conteneva «troppo apriorismo, troppo dogmatismo, troppo sistema, troppa geometria, troppo formulario», presumendo di poter restituire nell’analisi del passato una «precisa gerarchia di cause generali», senza rendersi conto 16 G. VOLPE, recensione a G. ARIAS, Il sistema della costituzione economica e sociale italiana nell’età dei Comuni, Torino-Roma, Roux e Viarengo, 1905, in «La Critica», IV, 1906, pp. 33 ss., poi in ID., Medio Evo italiano, cit., pp. 99 ss. 17 G. ARIAS, Il sistema della costituzione economica e sociale italiana nell’età dei Comuni, cit., pp. 381 e 391, dove si sosteneva la necessità di «dimettere l’orgoglioso e irragionevole preconcetto che l’uomo sia il creatore capriccioso della sua storia», essendo la dinamica sociale «un fenomeno tutto naturalista e, a mio modo di vedere, indipendente da ogni influsso dell’azione consapevole». Sul punto, A. SPICCIANI, Il Medioevo negli economisti italiani dell’Ottocento in Italia e Germania. Immagini, modelli, miti fra due popoli nell’Ottocento: il Medioevo, cit., pp. 373 ss. 18 G. ARIAS, Il sistema della costituzione economica, cit., pp. 379 ss 19 M. C. FEDERICI, Alle radici della sociologia in Italia. la “Rivista italiana di sociologia”, Milano, Franco Angeli, 1990. 20 Nel resoconto di Loria (apparso in «La riforma sociale», XII, 1905, pp. 409 ss.), si lodava l’ardimento concettuale del lavoro di Arias, che si fondava sull’indiscutibile principio che «le istituzioni sociali di un’epoca erano il prodotto necessario dell’assetto economico in esso vigente».
PASSATO E PRESENTE
73
che il tessuto storico poteva essere parzialmente ricomposto, invece, soltanto a partire dal «semplice coordinamento di fatti e studio di rapporti, che possono essere assai diversi nella società umana e, in special modo, in una determinata società, di un dato tempo e luogo». Procedere altrimenti, come Arias ambiva di poter fare, equivaleva, infatti, a perseguire «una riduzione e semplificazione dei fatti, fino all’assurdo, e tale da non farceli riconoscere più»21. A Volpe replicava Arias, con non minore asprezza, definendo le sue obiezioni come il risultato «del sovrano dispregio del letterato per l’economia classica e per tutti i suoi cultori, da Adamo Smith a Wilfredo Pareto», in virtù del quale «tutto il metodo dell’indagine positiva» veniva tacciato di irragionevolezza22. E ad Arias controbatteva ancora Volpe, in una nuova nota apparsa sulla «Critica», sempre nel corso del 1906, definendo la risposta di Arias «più spiritosa che esauriente», pervasa come era da «certo semplicismo e presunzione, ingenua credenza di tutto poter scoprire e tutto aver scoperto, incapacità di sentire quei tempi che vuole studiare, smania di filosofeggiare per diritto e per traverso»23. L’insofferenza di Volpe per ogni riduzionismo sociologico od economicistico, tendente a mutilare l’infinita varietà dei fattori attorno ai quali si articolava la dinamica storica, non era certo una novità, come dimostravano, tra 1903 e 1907, le non benevole recensioni ai lavori di Caggese e Rodolico24. Ma, per quello che riguardava l’attacco ad Arias, è possibile ipotizzare che dietro quella polemica si celasse anche la regia occulta di Croce, deciso a rinnovare, per interposta persona, un copione già messo in scena dieci anni prima con la riduzione ad assurdo delle teorie di Loria. Copione, la cui ripresa riguardava ora, soprattutto, la volontà di depurare l’orientamento economico-giuridico dai rimasugli dello scientismo positivista, arginandone la confluenza in atto verso la sociologia, come dimostrava la dura critica del 1908 al volume di Caggese dedicato a Classi e comuni rurali nel Medio Evo italiano (su cui 21 G. VOLPE, recensione a G. ARIAS, Il sistema della costituzione economica e sociale italiana nell’età dei Comuni, cit., pp. 104, 123-124 22 G. ARIAS, Di una ideale storia economica e giuridica liberata dalle leggi economiche, in «Giornale degli Economisti», II, 1906, 32, pp. 157 ss. 23 G. VOLPE, La storiografia semplicistica e il prof. Arias, poi in ID., Medioevo italiano, cit., pp. 129 ss. 24 ID., recensione a R. CAGGESE, Su l’origine della Parte Guelfa e le sue relazioni col Comune («Archivio Storico Italiano», XXII, 1903, pp. 265 ss.), in «Studi Storici», XIII, 1904, pp. 454 ss.; ID., recensione a N. Rodolico, La democrazia fiorentina nel suo tramonto (13781382), Bologna, 1905, in «Studi Storici», XIV, 1905, pp. 347 ss.; ID., recensione a R. CAGGESE, La repubblica di Siena e il suo contado nel secolo XIII («Bullettino senese di Storia Patria», XIII, 1906, pp. 3 ss.) in «Archivio Storico Italiano», XL, 1907, pp. 374 ss. I due ultimi resoconti erano ricompresi in Medio Evo italiano, cit.
74
GLI ANNI DELL’ATTESA
Volpe si era già espresso in termini fortemente negativi nella corrispondenza con Giustino Fortunato e Salvemini)25, la quale si concludeva con questa decisa rivendicazione della specificità irriducibile, se non addirittura del primato, della storiografia nei confronti delle altre scienze umane. Lo storico deve ad un certo punto mettere da parte le cose inanimate, la terra, il clima, il denaro, gli strumenti della produzione, anche le istituzioni giuridiche, e pigliar l’uomo così come è, così come è stato foggiato dai mille fattori già visti in precedenza. Altrimenti la storia se ne va, essa che ha il compito appunto di rappresentare la vita nella sua unità, di ristabilir la connessione fra fatti diversi; e lo storico, che deve comprendere nel suo campo d’indagine il diritto, l’economia, l’arte, la letteratura, il pensiero filosofico, ma che deve fare anche qualcosa di diverso e di più, abdica a questa sua peculiare e specifica attività e si risolve nel giurista, nell’economista, nell’indagatore delle vicende dell’arte, della filosofia, delle opere letterarie26.
La partnership, e quasi leadership storiografica, realizzata da Croce e da Volpe sulle pagine della rivista napoletana, comprendeva accanto 25 Gioacchino Volpe a Gaetano Salvemini, Milano, 3 giugno 1908, in G. SALVEMINI, Carteggio, 1907-1909, Roma-Manduria, Lacaita, 2001, pp. 212-214: «Desidero che tu mi scriva un giudizio tuo sul libro del Caggese Classi e comuni rurali ecc. A me ha fatto l’impressione di un libro ad effetto ma che non resiste ad un’occhiata penetrante. Se vi si metton le mani dentro, cade a pezzi. Questo è successo a me nella recensione che ne ho fatto i giorni scorsi e che vedrà la luce nella “Critica”, se al Croce non sembrerà troppo lunga e minuta e più adatta ad una rivista storica che non alla sua rivista. Io comincio a sentirmi scemare la fiducia per quel giovane che pure ha invidiabili qualità d’ingegno e di laboriosità. Ma è un facilone, un frettoloso, che crede di poter prendere d’assalto tutte le posizioni, anche quelle che richiedono un assedio paziente; e, peggio ancora, ha sempre l’illusione di aver riportato brillanti vittorie sull’inimico. Con tre o quattrocento documenti dell’archivio fiorentino e pistoiese e poche decine fra documenti lombardi e pugliesi crede di poter scrivere 400 pagine sulle Classi e Comuni rurali nel M. E., per lo spazio di mezzo millennio. Ma è cosa inaudita! Ho trovato quel libro d’una superficialità desolante se si guarda non alla vernice ma al modo con cui son poste e trattate le questioni». Si veda anche la lettera a Giustino Fortunato, Desenzano sul Lago 3 ottobre 1908, CV: «Son contento anche che lei condivida il mio giudizio sul libro del Caggese e sul suo autore. Avevo qualche scrupolo; temevo di aver trattato male quel giovane che pure mi è amico. Lei mi rassicura. Il Caggese è ancora in tempo per rientrare in sé e riacquistare il senso giusto dei suoi mezzi, delle difficoltà del lavoro che noi compiamo, della necessità di far un po’ maturare i fatti e le idee nel nostro spirito. Senza fermentazione riposata e temperatura adatta l’uva anche eccellente dà cattivo vino, forse frizzante ma non resistente». 26 G. VOLPE, recensione a R. CAGGESE, Classi e comuni rurali nel Medio Evo italiano, cit, p. 175. Sul punto, Gioacchino Volpe a Benedetto Croce, Milano, 1 giugno 1908: «Le ho spedito oggi il mss. della recensione Caggese. Se non le sembra troppo lunga e inadatta, avrò piacere che la pubblichi. È un libro di molto effetto, e che già corre parecchio per mani di studenti e studiosi; perciò ho creduto conveniente esaminarlo un po’ addentro, anche perché per la prima volta vi è trattata ampiamente la materia delle classi e comuni rurali».
PASSATO E PRESENTE
75
a una tagliente pars destruens, che imponeva un’impietosa strategia di selezione di metodi e di studiosi, anche una pars construens, con la quale si cercava di favorire, invece, il rapporto tra storici e storici dell’economia, a condizione che questi non intendessero la storia dei modi di produzione come storia dei sistemi economici, con l’esito di risolvere interamente il lavoro dello storico nella scienza economica. Così accadeva con Luigi Einaudi, che, nell’aprile del 1908, faceva pervenire a Croce i suoi più recenti lavori sulla finanza sabauda nel XVIII secolo, insieme a quelli di Giuseppe Prato di analogo argomento27, accompagnandoli da una lettera nella quale si esprimeva la profonda avversione per gli studi di storia economica che la «Critica» aveva recentemente «flagellato», nei quali «la storia degli istituti economici e finanziari in Italia, ancor non nata» era trattata «ciarlatanescamente». Cogliendo esattamente la chiara, elogiativa, allusione alla stroncatura di Arias, Croce individuava proprio in Volpe il recensore ideale della recente produzione di Einaudi e di Prato, e rispondeva a stretto giro di posta: «Grazie delle importanti pubblicazioni. Ho scritto al prof. Volpe per domandargli se è disposto a studiarle e farne una recensione. Il Volpe è valentissimo, ma assai lento. Speriamo che accetti e che mi mandi la recensione». Volpe non si sottraeva all’incombenza ed entrava in diretto contatto con Einaudi, al quale scriveva il primo maggio 1908: «Ho già scorso rapidamente i tre volumi e ammirato la copia e il valore delle informazioni e dei dati raccoltivi. Son volumi che fanno onore a codesta scuola di economia politica e che fanno nascere o rinascere in me idee melanconiche sulla incompiutezza della coltura che noi storici abbiamo ricevuto da scolari e che, divenuti maestri, diamo ai giovani avviantisi per gli studi della storia. La mia scarsa competenza finanziaria, tuttavia, non mi impedirà di ricavar profitto dai lavori suoi e del dott. Prato. Mi riservo di leggere con tutta diligenza specialmente la Finanza sabauda ecc., lavoro di storico oltre che di economista, e di riferirne sulla Critica, durante le vacanze autunnali»28. Dopo lungo indugio, nel maggio del 1910, Volpe avvertiva Croce di aver completato il compito
27 L’invio riguardava: L. EINAUDI, La finanza sabauda all’aprirsi del XVIII secolo e durante la guerra di successione spagnola, Torino, Società Tipografico-editrice Nazionale, 1908, che faceva seguito a ID., Le entrate pubbliche dello Stato sabaudo durante la guerra di successione di Spagna, Torino, Società Tipografico-editrice Nazionale, 1907; G. PRATO, Il costo della guerra di successione spagnola e le spese pubbliche in Piemonte dal 1700 al 1713, Torino, Fratelli Bocca, 1907. 28 Si veda rispettivamente, L. EINAUDI-B. CROCE, Carteggio, 1902-1953, a cura di L. Firpo, Torino, Fondazione Luigi Einaudi, 1988, p. 27 e 28. Le lettere di Volpe ad Einaudi sono conservate in Archivio Einaudi, Fondazione Luigi Einaudi (ALE). Sul punto, R. FAUCCI, Luigi Einaudi, Torino, Utet, 1986, pp. 117-118.
76
GLI ANNI DELL’ATTESA
assegnatoli29, non senza averne preventivamente annunciato a Einaudi la prossima comparsa sulle colonne della «Critica»: Ho scritto proprio in questi giorni una piccola rassegna di quei volumi suoi e del Prato e del volume di S. Pugliese. Non sono un economista e specialmente non sono un tecnico di scienza finanziaria, non sono quindi il giudice più adatto per libri così fatti, specialmente per il Suo. Ma li ho letti con animo e occhi da storico e come storico ne ho un po’ discorso. Del resto, fra gli storici, sono di quelli che più credono alla necessità di lavorare profondamente il terreno della vita economica per raggiungere quella intelligenza piena dei fatti che solitamente interessano noi. E specialmente credo quanto fecondo campo di indagini possa essere la storia della terra e dell’agricoltura, la gran forza che per secoli ha mosso tutta la macchina sociale, l’attività che forse più complessa che vi sia nell’ordine economico, esposta al gioco di tante forze, anche morali30.
Il ricco resoconto, intitolato Studi di storia economica italiana31, non si limitava a distinguere, in perfetta sintonia con Croce, la «buona» storia economica di Einaudi (perché autonoma, non sociologica e aliena dallo spirito di sistema) dalla «cattiva» e lorianesca storia economica di Arias, ma costituiva anche un ampliamento cronologico delle tematiche di Volpe. Il giovane autore, che nel 1904 confessava a Croce di «non poter scendere pur troppo oltre il XV secolo»32, si cimentava ora con un tema squisitamente contemporaneistico, almeno per quello che riguardava le premesse economiche e sociali che avrebbero condotto al moto risorgimentale analizzate nel lavoro di Prato, contava di esprimere un giudizio circostanziato sulla Rivoluzione francese di Salvemini33, 29 Gioacchino Volpe a Benedetto Croce, Milano, 12 maggio 1910: «La mia rassegna è già fatta, ma ero in forse se mandarla piuttosto all’Archivio storico o alla Rivista del Risorgimento, o alla Critica. È in parte esposizione del contenuto dei volumi (breve esposizione) e poi ricerca e dimostrazione di quanto libri cosiffatti contribuiscano alla intelligenza e visione complessiva della vita storica. Studiando bene la terra, i valori, le imposte, le vicende e ordinamenti contabili, viene molta luce alle caratteristiche morali, alla formazione ed azione delle classi sociali, a tutto ciò che è oggetto più comune e proprio dell’indagine storica. In tutto, ho scritto una ventina di facciate» 30 Gioacchino Volpe a Luigi Einaudi, 5 maggio 1910, ALE. 31 Il lavoro di Volpe (pubblicato nella «Critica», VIII, 1910, pp. 355 ss., con il titolo, Studi di storia economica italiana e poi ristampato in ID. Momenti di storia italiana, cit., pp. 177 ss.) comprendeva, oltre i già citati volumi di Einaudi e Prato, altri studi pubblicati nella ricorrenza del secondo centenario della liberazione di Torino dall’assedio francese: G. PRATO, La vita economica in Piemonte a mezzo il secolo XVIII, Torino, Fratelli Bocca, 1908; ID., L’evoluzione agricola nel secolo XVIII e le cause economiche dei moti del 1792-98 in Piemonte, Torino, Fratelli Boma, 1909; S. PUGLIESE, Due secoli di vita agricola. Produzione e valore dei terreni, contratti agrari, salari e prezzi nel Vercellese nei secoli XVIII e XIX, Torino, Fratelli Bocca, 1908. 32 Gioacchino Volpe a Benedetto Croce, Pisa, 3 aprile 1904. 33 Gioacchino Volpe a Benedetto Croce, Milano, 20 aprile 1908: «Carissimo amico, una
PASSATO E PRESENTE
77
e meditava persino di effettuare un’incursione nel campo della storia delle idee, con uno studio (composto ma mai pubblicato) dedicato alla Vie de Jeanne d’Arc di Anatole France34. Lo slargamento di interessi non si esauriva poi in questi soli punti. Il sodalizio con Croce fruttava a Volpe la conoscenza dell’opera di Pareto, seppur limitata ai problemi di revisione del marxismo35, e tramite essa un ulteriore stimolo a una riduzione fenomenologica del materialismo storico, da considerarsi ormai come mera «idea o dottrina della vita politica e sociale come lotta»36, importante e feconda per gli studi di storia, nella misura in cui questa interpretazione configurava una teoria della lotta di classe, ormai totalmente svincolata dal concetto di plus-valore, nella quale il conflitto tra capitale e lavoro perdeva la sua specificità capitalistica e si riduceva a contrasto perenne di forze antagoniste, privo di una peculiare definizione economica, nella prospettiva di uno svolgimento storico non determinato da una sola epoca né limitato ad essa37. Inoltre, per Volpe, corecensione è quasi pronta, scritta in questi giorni di vacanze pasquali. Anche quella del Salvemini (2° edizione della Rivoluzione francese) seguirà fra breve, giacché mi son procurato e sto rileggendo l’edizione ultima». 34 Gioacchino Volpe a Benedetto Croce, Bellaria di Rimini, 27 agosto 1908: «Le mando la recensione della Vie de Jeanne d’Arc, ma più per levarmela di torno che per altro. A me piace così così; mi par un po’ lunga e non troppo concludente. Si risente dell’averla io messa giù a spizzichi e bocconi, in questi ultimi due mesi, con intervalli di settimane, fra occupazioni varie ed altri studi che non mi hanno permesso di mettermi a tu per tu col mio autore ed afferrarlo nel vivo. Lei legga e giudichi; se non le piace me la rimandi, senza timore di recarmi offesa. La rifarò o la strapperò? Ma ora ho voluto inviarla perché troppo mi doleva rimandare e rimandar sempre l’attuazione di una promessa. Se mai, si può stampare come recensione o come varietà». Per quello che riguardava la nota sul volume di Anatole France (Vie de Jeanne d’Arc, Paris, C. Lévy, 1908, 2 voll.), si veda anche la lettera del 12 maggio 1910: « E poi vi chiedo che cosa debba io fare dell’altro mss. su Giovanna d’Arco. Forse due studi, come voi mi suggerivate nel settembre scorso, uno per esaminare i criteri dell’A., l’altro per veder qual contributo il suo libro rappresenta per la storia della Pulzella, in confronto alla letteratura precedente, non mi è possibile. Per questo secondo scopo, dovrei ingolfarmi nella letteratura di otto o dieci volumi di roba. Mi pare che il frutto non corrisponderebbe alla fatica; trattandosi, per il France, di un autore che pur avendo qualche pretesa di lavorare da storico, pure ha fatto opera che solo in un senso un po’ lato può chiamarsi storica. Io pensavo, invece, di stampar qualche pagina relativa al contenuto del libro e fermarmi ad un breve esame dei concetti storici informatori dell’A., quali specialmente risultano dalla prefazione. Ma è tardi, per stampare ora una tal cosa, a due anni da che il libro è comparso?» 35 B. CROCE, Sul principio economico. Due lettere al Prof. V. Pareto, in ID., Materialismo storico ed economia marxistica, cit., pp. 225 ss. 36 G. VOLPE, Italia Moderna, II, p. 315, dove si ricordavano i «Systèmes socialistes di Vilfredo Pareto, apparsi nel 1902, assai letti anche da noi». Più diffusamente sul punto, proprio per le implicazioni politiche delle teorie di Pareto, ivi, pp. 339-340. 37 V. PARETO, I sistemi socialisti, a cura di Giovanni Busino, Torino, Utet, 1974, pp. 787-788: «La lotta di classe non è che una forma della lotta della vita, e ciò che si chiama “conflitto fra il lavoro e il capitale” non è che una forma della lotta di classe. Nel Medio Evo
78
GLI ANNI DELL’ATTESA
me per molti altri intellettuali italiani dell’inizio del secolo38, la teoria delle élites di Pareto offriva più ampie suggestioni che quella di «classe politica» di Gaetano Mosca, per una definizione dei meccanismi del vivere associato. Mentre Mosca, infatti, «poneva e cercava di risolvere soltanto un problema di scienza politica», quello della formazione e dell’organizzazione del potere, Pareto presentava «un problema assai più generale di dinamica sociale e cioè il problema della formazione e della trasformazione delle aristocrazie», nell’età della democrazia e dell’avvento delle masse sulla scena politica39. Ma, da Croce, Volpe ricavava anche la consapevolezza dell’importanza di Alfredo Oriani o meglio la messa in situazione dell’opera del prolifico poligrafo romagnolo, all’interno del dibattito storiografico, da cui ricavare una proposta di storia politica e nazionale, in grado di superare l’invecchiato repertorio della storiografia risorgimentale e risorgimentista, che trovava nella Lotta politica ma anche nelle considerazioni di Labriola sulla storia d’Italia un possibile modello in grado di oltrepassare le strettoie del metodo erudito e della cultura accademica40. Se Gentile avrebbe più tardi puntato sulla valorizzazione dell’Oriani politico, in quanto profeta della Nuova Italia41, che poi il fascismo avrebbe ampiamente ripreso e contraffatto, Croce, nel saggio del 1908, che fu attentamente meditato da Volpe42, rivendicava l’importanza dell’Oriani storico, contro i distruttivi e liquidatori giudizi di Pasquale Villa-
si sarebbe potuto credere che, se i conflitti religiosi fossero scomparsi, la società sarebbe stata pacificata. Quei conflitti religiosi non erano che una forma della lotta di classe; sono scomparsi, almeno in parte, e sono stati sostituiti dai conflitti socialisti. Supponete che il collettivismo sia istituito, supponete che il “capitale” non esista più, è chiaro che allora non sarebbe più in conflitto col lavoro; ma non sarà che una forma della lotta di classe che sarà scomparsa: altre la sostituiranno». 38 E. GENTILE, La Voce e l’età giolittiana, Milano, Pan, 1972, pp. 172 ss. 39 N. BOBBIO, Saggi sulla scienza politica in Italia, Bari, Laterza, 1969, pp. 252-253 40 G. VOLPE, Impariamo la storia sapremo chi siamo, Prefazione a L’epopea degli Italiani. Dal tempo dei tempi all’era atomica, in «Candido», 2 marzo 1958, pp. 27-28: «Da una concezione della storia d’Italia, come questa, non era stato lontano Alfredo Oriani, quando scrisse e pubblicò, alla fine del 1800, La lotta politica in Italia, vera Storia d’Italia che, poco letta e poco apprezzata per un ventina di anni, Croce trasse attorno al 1910 dall’oblio. Non lontano era stato da tale concetto Antonio Labriola, filosofo e sociologo, ma ricco di senso storico, che non scrisse ma concepì che si potesse scrivere una Storia d’Italia». Il riferimento a Labriola rimanda a ID., Saggi intorno alla concezione materialistica della storia. IV. Da un secolo all’altro. Considerazioni retrospettive e presagi. Ricostruzione di L. Dal Pane, Bologna, Cappelli, 1925, p. 51 ss. Sul punto, G. GALASSO, Labriola e la storia generale d’Italia, in «Giornale critico della filosofia italiana», 2005, 1, pp. 49 ss. 41 G. GENTILE, La Rivolta ideale, in ID., Guerra e fede, Napoli, Ricciardi, 1919, pp. 309 ss. 42 Gioacchino Volpe a Benedetto Croce, Milano, 22 gennaio 1916.
PASSATO E PRESENTE
79
ri e Crivellucci43, che bene rappresentavano l’«inerzia mentale dei nostri studiosi di storia»44. Oriani, infatti, possedeva per Croce quella «non comune attitudine a guardare i fatti dall’alto, come soleva dire il De Sanctis», che rappresentava infine la «qualità essenziale dello storico». Da quella prospettiva aerea potevano sicuramente scomparire molte differenze e generarsi alcuni errori di dettaglio, provocando l’ostilità del «piccolo erudito», che è in parte «cautela e amore dei particolari precisi», ma che è sempre soprattutto «semplice incapacità a sostenere la vista di un oceano in burrasca o lasciare scorrere lo sguardo su un’ampia distesa, senza confondersi e smarrirsi». Se, nell’età del positivismo, gli studi storici italiani erano decaduti, questo era dovuto a questa «perdita della speranza dell’altezza», alla scomparsa del «coraggio» e della «forza di salire». E se essi erano destinati a risorgere, ora, lo potevano solo a condizione di ritrovare quelle qualità che in Oriani erano largamente operanti, nella misura in cui la sua storia d’Italia era stata suscitata dal «problema del presente»: dalla convinzione che «per sapere quello che essa è e può, bisogna sapere quello che essa è stata»45. Era un giudizio, che trovava conferma nel dibattito sull’Oriani storico poi sviluppatosi sulla «Voce», soprattutto ad opera di Luigi Ambrosini46, e che Volpe avrebbe ripreso nel 1934, confessando di aver derivato da Oriani, da un lato, il «senso storico» delle cose, al di là della piena aderenza ai «documenti», e, dall’altro, l’acquisizione della ragione politica da conferire al mestiere di storico, che consisteva nel compiere delle ricognizioni sul passato, anche plurisecolare, della storia nazionale, muovendo da ideali e principi generali, validi tanto come critica di situazioni di fatto che come indicazione di obiettivi da raggiungere47. 2. Importante dunque, se non davvero fondamentale, la presenza crociana nella biografia intellettuale di Volpe, come anche nella sua vita accademica. Intendiamo parlare del famoso concorso, conclusosi al43 Sul punto, W. MATURI, Interpretazioni del Risorgimento. Lezioni di storia della storiografia, Torino, Einaudi, 1962, pp. 377 ss. Replicava, nel 1914, l’ostilità per Oriani, Antonio Anzilotti, Di alcune pubblicazioni sulla storia del Risorgimento, in ID., Momenti e contrasti per l’unità italiana, Milano, Giuffré, 1964, pp. 307 ss. 44 B. CROCE, Note sulla Letteratura italiana nella seconda metà del secolo XIX. XXVIII. Alfredo Oriani, in «La Critica», VII, 1909, pp. 1 ss., in particolare p. 19. Sul punto, M. CILIBERTO, Una “scoperta” di Croce: Alfredo Oriani in Alfredo Oriani e la cultura politica del suo tempo, a cura di E. Dirani, Ravenna, Longo Editore, 1985, pp. 85 ss. 45 B. CROCE, Alfredo Oriani, cit., pp. 11-12. 46 G. PREZZOLINI, “La Voce”, 1908-1913. Cronaca, antologia e fortuna di una rivista, Milano, Rusconi, 1974, pp. 554 ss. Sul punto, anche, G. PENTIMALLI, Alfredo Oriani, Firenze, Società Anonima Editrice “La Voce”, 1921, pp. 345 ss. 47 G. VOLPE, Alfredo Oriani storico e politico, in ID., Storici e maestri, cit., pp. 123 ss.
80
GLI ANNI DELL’ATTESA
la fine di novembre del 1905, che fruttò a Volpe la cattedra universitaria, del quale il carteggio con Croce ci rivela alcuni particolari inediti. Del concorso, Volpe avrebbe cominciato a parlare al già molto influente intellettuale napoletano, nella lettera del 12 agosto 1904, nella quale era contenuta un’indiretta ma inequivocabile richiesta di aiuto: «Forse lei potrebbe sapere qualche cosa, poiché è amico del prof. Novati. Come provvederanno l’anno prossimo per la cattedra di storia all’Accademia scientifico-letteraria di Milano, rimasta vacante per la morte del prof. Antonio Rolando? Pensavo alla possibilità di poter esercitare là la mia libera docenza nel caso – fattomi intravedere giorni addietro – che io potessi trasferirmi in qualche scuola normale di Milano e provincia. A Napoli, vedo dal Bollettino che lo Schipa è già diventato ordinario. Che bel salto!»48. Il riferimento a Francesco Novati, ordinario di Letterature neo-latine e Preside-Rettore dell’istituto universitario milanese49, legato a Croce da un vivo e reciproco rapporto di stima e da un assiduo commercio epistolare50, ma anche quello al recente successo di Michelangelo Schipa, nel quale il direttore della «Critica» aveva probabilmente svolto un non piccolo ruolo51, confermano largamente questa ipotesi, che poi viene a essere ulteriormente ribadita dal tono delle lettere successive, dove Volpe pare soprattutto concentrato nella richiesta di affrettare la pubblicazione dei suoi contributi, per poter rimpinguare il qualificatissimo, eppure non corpulento, bottino di titoli, necessario a fronteggiare l’agguerrita e numerosa concorrenza degli altri partecipanti alla tenzone accademica52. In questo senso, le sollecitazioni di
48 Gioacchino Volpe a Benedetto Croce, Viserba, 12 agosto 1904. Antonio Rolando era stato, dal 1878, docente di Storia moderna nell’Accademia scientifico-letteraria di Milano. 49 G. MIRA, Memorie, Vicenza, Neri Pozza, 1968, p. 68: «Preside della Facoltà era Francesco Novati, professore di letterature neolatine, azzimato e glabro, ahimé un po’ vanitoso. La sua erudizione prodigata con eleganza sia nella scuola, sia nei circoli e salotti intellettuali, non sempre era sorretta da pari vigore di pensiero». 50 Sul punto, Carteggio Croce-Novati, a cura di A. Brambilla, Bologna, Il Mulino, 1999, in particolare per l’opera di riforma culturale portata avanti dal filosofo napoletano, pp. 65, 86, 82, 85, 90. 51 Michelangelo Schipa, libero docente di Storia Moderna dal 1890, incaricato all’università di Napoli dell’insegnamento di Geografia dal 1895 e di quello di Storia moderna dal 1900, ottenne infine nel 1904 l’ordinariato in quella sede accademica. 52 Gioacchino Volpe a Benedetto Croce, Pisa 25 gennaio 1905, dove il riferimento era al progettato volume, Ricerche sull’origine e sul primo svolgimento dei Comuni nell’Italia longobarda: «Staremo a vedere come andrà il concorso di storia moderna a Milano. Siamo in troppi e la cattedra è una sola; difficile anche esser messo nella graduatoria dei tre eleggibili. Quest’altro anno avrei avuto maggiori probabilità, dopo stampato il lavoro a cui attendo». Dello stesso tono la lettera del 7 agosto, in relazione alla pubblicazione della recensione di Arias: «La ringrazio della lieta accoglienza che lei ha fatto al mio piccolo articolo. Solo mi duole che non si possa stampare prima del gennaio. Vede: nel settembre scade il termine per
PASSATO E PRESENTE
81
Volpe si facevano via via più pressanti e talora quasi indispettite, di fronte all’impossibilità o alla presunta cattiva volontà di Croce di esaudire prontamente i suoi desiderata, per culminare nella corrispondenza di tono, quasi drammatico, del settembre 1905: Mi duole assai del contrattempo nella stampa del mio articolo su Arias, tanto più che io ci contavo con sicurezza. Lei dice bene che i commissari non leggono i titoli, ma in certi casi li debbono leggere, come quando la differenza di vedute mette in contrasto i giudici. Il concorso di Milano si svolgerà appunto in queste condizioni. Candidati in pectore già ve ne sono; ma vi è anche chi potrà far valere validamente la giustizia. Nascerà discussione e questa non potrà essere se non con i titoli alla mano. Di più, si deciderà contemporaneamente anche per la cattedra di Torino: il che vuol dire che se uno riesce a piazzarsi ora, bene, se no, può rinunciarvi per altri 10 o 20 anni. Io perciò voglio presentarmi con tutte le mie armi, per non aver rimpianti poi, per quanto si tratti di una piccola cosa che vorrei aggiungere ai miei lavori. Lei sa meglio di me che quando si è favorevoli ad un candidato, la commissione prende benevolmente in esame extra ordinem anche i titoli non presentati a tempo; ma in caso contrario, la legalità viene subito accampata. Perciò, se proprio non si può fare a meno, io desidererei riavere in mano, per una diecina di giorni, l’articolo. Ne farò fare delle bozze da servire ad uso esclusivo del concorso e poi se lei vuole, glielo rimanderò. Se la tipografia della Critica volesse essa stessa, con altri caratteri, stampare il mss. in bozze, a mie spese, tanto meglio, ma sempre con la massima sollecitudine. (Il concorso scade il 25 settembre). Mi scusi del disturbo che le do; ma come fare? È un momento grave della nostra vita, questo qui, per noi che oltre alla scienza ed alle soddisfazioni personali, dobbiamo pensare al pane. Io al principio d’anno conduco donna, perciò questa preoccupazione cresce53.
Tanta insistenza era almeno in parte giustificata dalla non facile situazione economica di Volpe, in relazione al futuro matrimonio con Elisa Serpieri (sorella del giovane ma già quotatissimo docente di economia agraria, Arrigo Serpieri, conosciuta fin dall’adolescenza, a Santarcangelo)54, ma anche da una complicata situazione finanziaria familiare, che di lì a breve si sarebbe ulteriormente e drammaticamente aggra-
il concorso di Milano a cui anche io mi cimenterò, ed io desideravo assai poter presentare anche questo piccolo scritto. Non son tanto signore da poter così far getto anche di soldini! E prima del novembre, tempo in cui il concorso sarà giudicato, avrei voluto che i commissari avessero letto magari sulla rivista l’articolo, dato che non sempre leggono le pubblicazioni a quintali che si inviano dai concorrenti. Lei mi dirà che avrei dovuto mandar prima il lavoro. Ed ha mille ragioni. Ma veda se non è possibile conciliare il desiderio mio e gli interessi della rivista». 53 Gioacchino Volpe a Benedetto Croce, Viserba 3 settembre 1905. 54 Su Serpieri, M. STAMPACCHIA, Ruralizzare l’Italia: agricoltura e bonifiche tra Mussolini e Serpieri, 1928-1943, Milano, Franco Angeli, 2000.
82
GLI ANNI DELL’ATTESA
vata55. La domanda di aiuto non restava comunque senza risposta. Non solo Croce autorizzava la stampa anticipata della nota di Volpe, che permetteva all’autore di effettuarne l’invio a Novati, mettendosi in diretta comunicazione con il futuro commissario56, ma sempre Croce era già intervenuto direttamente, presso Novati, con la lettera di «preghiera» del 10 settembre 1904, dove si parlava del «Dottor Volpe, che voi ben conoscete e che io stimo come una delle migliori speranze degli studi storici italiani» e si aggiungeva che questi lo aveva pregato di informarsi «su ciò che si propone di fare la Facoltà di Milano per la sostituzione del Rolando», avendo l’«intenzione di chiedere il trasferimento costà della libera docenza, che ha nell’Università di Pisa dove l’anno scorso ha sostituito il Crivellucci»57. Alla richiesta di Croce, Novati rispondeva, a distanza di qualche settimana, in modo molto incoraggiante per le speranze di Volpe. Non pensasse costui a subentrare a Rolando, con supplenze o incarichi interinali, e si orientasse invece a puntare sul concorso, che Novati era propenso a bandire, per far ricoprire la cattedra del collega scomparso a uno studioso di indiscusso valore, il quale inoltre avrebbe sbarrato la via ad altri docenti politicamente poco graditi come Salvemini, già straordinario a Messina dall’anno accademico 1901-1902. La morte del Rolando, seguita inaspettata quando già la Facoltà era sciolta, mi pone in grave imbarazzo. Finché i miei colleghi non si riuniscono, e ciò 55 Gioacchino Volpe a Benedetto Croce, Viserba 3 settembre 1905: «Gli ultimi due mesi ho fatto poco o nulla. Anche il lavoro dei Comuni si è arrestato, mentre contavo di cominciarlo a stendere ora a fin d’anno. È che mi son capitati addosso guai e preoccupazioni che mi han tolto tempo e serenità. Crisi finanziarie di famiglia, necessità di correre al riparo, di cercar mezzi a ciò, senza trovarli sempre, ecco quel che ho avuto e ho ancora. Proprio ora che mi trovavo vicino a prender moglie. Quest’anno poi bisogna che mi ingegni a scoprire qualche altra fonte di guadagno, classi aggiunte, collaborazione di giornali ecc. per turare le falle». 56 Gioacchino Volpe a Benedetto Croce, Santarcangelo di Romagna, 21 settembre 1905: «Le mando le bozze dell’articolo, da pubblicarsi nella Critica. Stia sicuro che nessuna divulgazione esse avranno, se, come lei già mi scrisse, entro l’ottobre potranno farsene le bozze e gli estratti, io ne sarò lieto». Si veda anche la lettera d’invio a Novati del 4 ottobre 1905, in Fondo Francesco Novati, Biblioteca Nazionale Braidense, 1256/1-16 (d’ora in poi FFN): «Mi permetto inviarle alcuni opuscoli miei, pubblicati nel 1905 o alla fine del precedente anno. A suo comodo, sarei lieto di aver un suo giudizio, specialmente su Lambardi e Romani, su cui la mia mente più si è travagliata per vincere le enormi difficoltà dell’argomento e su il sistema della costituzione economica ecc. Per quest’ultimo opuscolo vorrei pregarla di non parlarne con alcuno, fino a che non sia comparso sulla Critica del Croce, nel prossimo numero. È una stampa provvisoria che io ho fatto per mio conto, non potendomi il Croce dare gli estratti per il tempo a me utile». 57 Benedetto Croce a Francesco Novati, Napoli, 10 settembre 1904, in Carteggio Croce-Novati, cit, p. 110.
PASSATO E PRESENTE
83
non potrà seguire che ai primi di novembre, non è possibile a me far nulla. Notate poi che già l’anno scorso a supplire il Rolando infermo per desiderio di costui e annuente la Facoltà fu chiamato il Capasso, Preside del Liceo Manzoni e nostro libero docente di storia moderna. Ora, qualunque sia per essere la decisione che prenderà la Facoltà, è improbabile che essa non torni ad affidare l’insegnamento per incarico temporaneo al Capasso. Aggiungete che noi possediamo un altro libero docente di storia moderna nella persona di Calligaris; ottimo studioso ed insegnante valente. In questa condizione di cose, io non consiglierei mai il Volpe a chiedere il trasferimento della sua libera docenza da Pisa a Milano, giacché non saprei vedere quale utilità ne riceverebbe. Se la Facoltà deciderà di aprir il concorso – cosa che a me piacerebbe più di ogni altra, se non mi preoccupasse il pensiero che abbiano a ficcarsi avanti dei guastafeste in veste di straordinari – il Volpe potra concorrere; sarà la via più dritta, mi pare58.
La replica di Novati corrispondeva dunque a un’informale ma sostanziale promessa di appoggiare Volpe, quando il concorso fosse stato bandito e quando, come di diritto, il Preside dell’Accademia fosse entrato a far parte della commissione giudicatrice. Così, infatti, avvenne. Ai primi di novembre del 1905, Croce scriveva a Novati di sperare che tutto potesse andare «secondo i vostri desideri»59, e Novati, rispondeva, a metà mese, confermando quell’auspicio, per aggiungere però che la competizione si profilava aspra soprattutto per l’alto numero dei concorrenti (tra i quali, Pietro Fedele, Ferdinando Gabotto, Nicolò Rodolico, Agostino Rossi) e le pretese di alcuni straordinari, tra cui Salvemini, di ottenere il passaggio di ruolo sulla cattedra milanese restata vacante60. Al di là di ogni difficoltà e di ogni intralcio, Volpe, assicurava Novati, restava in ogni caso il candidato ufficiale dell’Accademia, come Croce aveva già comunicato all’incredulo interessato nell’ottobre del
58 Ivi, pp. 111-112. Il riferimento era a Giuseppe Calligaris, insegnante liceale, libero docente di Storia moderna presso l’Università di Torino e l’Accademia Scientifico-Letteraria di Milano. Durante l’espletazione del concorso, nell’anno accademico 1904-1905, la cattedra di Romano venne affidata per supplenza a Giovanni Oberziner (straordinario di Storia antica, nella Facoltà milanese), mentre Capasso svolgeva lezioni e conferenze come libero docente. 59 Ivi, p. 120. 60 Ivi, pp. 120-121: «Ma pur troppo questa commissione è la desolazione delle desolazioni. Dopo una settimana di lavoro improbo (soprattutto per me che ho dovuto assumere il segretariato) siamo ancora al sicut erat, perché se abbiamo deciso di proporre come ordinari i tre Anabattisti, per levarceli dai piedi, non abbiamo potuto però escluderli dal nuovo giudizio per il concorso di Milano. Sicché ora si ripresentano con gli altri 8 producendo un imbroglio da cui io non so davvero come si uscirà. Non so se a Voi l’argomento pare interessante. A me quest’ostruzionismo degli ordinari e degli straordinari sembra destinato non solo a corrompere l’istituzione dei concorsi ma a renderla cosa vana. Converrebbe far un po’ di campagna contro questi traslochi forzosi imposti alle Facoltà».
84
GLI ANNI DELL’ATTESA
190561, e come traspare, senza equivoci, dalla lettera che lo stesso Volpe avrebbe inviato a Novati, terminatisi i lavori concorsuali con una sua vittoria, in parte almeno sorprendente e inaspettata e tale da suscitare qualche clamore e qualche disappunto negli ambienti accademici. Spero che questa mia trovi lei a Milano, perché possano giungerle solleciti i miei ringraziamenti più vivi. Ho trovato la sua lettera iersera tardi, tornando da Lucca, e non so dirle con quale emozione ho appreso la lieta novella. Per quanto qualche speranza avessi già concepito negli ultimi tempi, dopo quel che mi scrisse il Croce un mese fa – assai probabilmente riferendosi a discorsi uditi da lei stesso – e dopo le notizie che l’altra sera portò qui il prof. Zanichelli da Roma, intorno alle voci circolanti alla Minerva in proposito, pur tuttavia il risultato è stato troppo superiore all’aspettativa perché io non ne rimanessi commosso e quasi confuso. Le mie speranze più audaci giungevano fino alla conquista del terzo posto nella terna, dopo due dei professori già straordinari. Ed anche ora non so spiegarmi come io possa essermi lasciati indietro insegnanti già affissi da 4 o 5 anni sulla cattedra universitaria e per di più operosi lavoratori. Comunque sia, io mi sento assai lusingato della stima e della fiducia che la commissione, e lei in particolar modo, ha avuto per me; spero che né quella né questa abbiano mai a venir meno in lei e che io possa contribuire degnamente al bene di quell’Istituto che lei dirige con tanta competenza. Io non voglio giudicare l’intrinseco valore della mia produzione storica; so tuttavia che vi ho messo molta passione, molta coscienza, e non mi sono mai appagato delle facili conquiste; ho passato, dopo la laurea, cinque anni di sforzi, di dubbi, di pentimenti, immancabili compagni delle più alte soddisfazioni dello spirito. Mi auguro che la lena duri ancora un pezzo e che la cattedra universitaria segni un progresso non una sosta. In questo, ogni giovane si riterrebbe fortunato di poter seguire il suo esempio; esempio di instancabile operosità dedicata alla scuola ed agli studi. Prima che il Consiglio superiore si sia pronunciato sugli atti del concorso, io spero di vederla e di conoscerla personalmente. Intanto la ringrazio ancora, anche per la cortese sollecitudine con cui ha voluto darmi la buona nuova62.
Contrariamente a quanto finora supposto63, dunque, la vittoria di Volpe non venne determinata da Crivellucci né da Monticolo, presenti in commissione assieme a Romano e Cipolla, ma da Novati, molto
61 Gioacchino Volpe a Benedetto Croce, Pisa, 6 ottobre 1905: «La ringrazio della cartolina e della notizia buona che mi dà. Aspetteremo e vedremo. Io per ora nulla so, da nessuna parte, per quanto so che per noi nulla può esservi nell’attuale concorso di Milano». Nella lettera ad Elisa Serpieri del 19 gennaio 1906, CV, Volpe si sarebbe dimostrato al corrente del fatto che Novati aveva ampiamente manifestato un giudizio favorevole alla sua produzione scientifica, «parlando con Croce e con altri». 62 Gioacchino Volpe a Francesco Novati, Pisa, 27 novembre 1905, FFN. 63 L. AMBROSOLI, La “carriera” di Gaetano Salvemini. Dall’insegnamento ginnasiale alla cattedra universitaria, in «Il Ponte», 1964, 8-9, pp. 1051 ss.
PASSATO E PRESENTE
85
sensibile, come si è visto, alla segnalazione di Croce, e vicino, per inclinazione e frequentazione, al gruppo dei cattolici moderati lombardi: quindi favorevole anche al devotissimo Pietro Fedele, ma del tutto ostile invece all’altro candidato, Salvemini, in odore di socialismo e di sovversivismo, che, per di più, nel suo saggio su I partiti politici milanesi nel secolo XIX, si era schierato dalla parte di Cattaneo, contro l’aristocrazia milanese, a proposito dell’interpretazione del 184864. Una dinamica, questa, che viene a essere confermata, oltre che da un più attento esame delle carte concorsuali65, anche dalla lettera di Volpe a Pintor del 29 novembre 1906: Che cosa debbo dirti del risultato di questo concorso? È stato inatteso, ecco tutto. Fino a qualche mese addietro non avevo alcuna speranza, immaginando non favorevole a me il Cipolla, desideroso di sollevare Segre e Calligaris; poi, varie voci circolanti nell’ambiente professorale, e certi discorsi del Novati al Croce, mi fecero credere di essere quarto fra cotanto senno, con molta probabilità di riuscire ad occupare, in un secondo concorso, il posto lasciato vuoto da uno dei tre straordinari. In questi ultimi giorni, notizie portate qui da Roma mi davano come certa la mia riuscita come terzo e poi come probabile la vittoria su tutti. Così è avvenuto, con mia gioia da una parte, con un certo rammarico dall’altra. Mi crederai se ti dico che avrei preferito Salvemini al mio posto, per giustizia? Forse i nostri lavori, più o meno, si eguaglieranno. Ma egli era straordinario da quattro anni, ha più vivo e pronto ingegno, ha più coltura, più varie attitudini, più eloquenza di noi tutti. E come lo avrei voluto avanti a me, così lo avrei voluto davanti a Fedele, bravo giovane, ma a cui manca quel tal lavoro che, indipendentemente dalle minori ricerche, dà la misura piena del valore di un uomo e segna una piccola data nella produzione di dieci o venti anni. Perciò ho approvato il voto del Crivellucci; io al suo posto avrei fatto lo stesso. Dirò di più: fin da quando seppi che avevo avuto 4 voti su 5 dissi subito: quell’uno
64 Gaetano Salvemini a Benedetto Croce, 15 dicembre 1914, in GAETANO SALVEMINI, Carteggio, 1914-1920, a cura di E. Tagliacozzo, Roma-Bari, Laterza, 1984, p. 95: «Conosce Ella un mio volumetto pseudonimo (Rerum Scriptor) sui Partiti Politici Milanesi? È una bazzoffa buttata giù in quindici giorni nella seconda metà del 1899, sotto l’odio contro i moderati milanesi. È una porcheria storica; ma ci sono idee interessanti e – credo – nuove e giuste su la storia del risorgimento». Sul diffuso pregiudizio politico sfavorevole a Salvemini, si veda la lettera di Novati a D’Ancona del 29 novembre 1905, in Carteggio D’Ancona-Novati. IV, a cura di L. M. Gonelli, Pisa, Scuola Normale di Pisa, 1990, p. 37 e quella di Villari a Salvemini del 6 dicembre 1905, Carteggio, 1895-1911, a cura di E. Gencarelli, Milano, Feltrinelli, 1968 p. 329. 65 ACS, Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione Generale Istruzione Universitaria, (d’ora in poi MPI-DGIU), fascicolo G. Volpe. Il giudizio finale della Commissione riconosceva a Volpe «doti di storico e pensatore insieme», che si univano a «solida dottrina attinta quasi sempre alle fonti, nonché eccellente preparazione in materia economica e giuridica». Sul punto, M. L. CICALESE, La luce della storia. Gioacchino Volpe a Milano tra religione e politica, Milano, Franco Angeli, 2001, pp. 17 ss.
86
GLI ANNI DELL’ATTESA
è il Crivellucci! E nessuno qui voleva crederci, scambiando il Crivellucci per uno dei soliti nepotisti, mentre nessuno è nepotista meno di lui fra i tanti professori universitari. Egli tuttavia è stato assai contento del risultato. “Mi rallegro con te”, mi disse, “sebbene io ti abbia combattuto, son lieto che tu sia riuscito, e son lieto io di aver votato secondo coscienza e, forse, secondo giustizia”. Ed ora aspettiamo il responso del Consiglio Superiore. Io come ho aspettato con molta calma il primo verdetto, così aspetterò il secondo, anche se il primato dovesse andarsene. Qui mi sarà confermato l’incarico in sostituzione del Crivellucci e farò il corso a Pisa. Se poi dovrò andare a Milano, vi andrò, si capisce molto lietamente. Anche la mia donna che è stata là due anni e vi ha il fratello straordinario di economia rurale alla Scuola d’Agricoltura, ha per Milano una straordinaria simpatia. Le mie nozze saranno nel febbraio o marzo. Se vedi qualcuno del Ministero, senza che tu vada a cercarli, sollecita che mi rimandino i titoli e i libri, possibilmente tutti. Così potrò mandare anche a te qualche scrittarello dei miei ultimi, quelli che han fatto trabboccar la bilancia66.
Come si accennava, la promozione di Volpe fu destinata a suscitare sorpresa e persino qualche dubbio sulla correttezza sostanziale di quanto avvenuto, nello stesso candidato favorito dalla sorte, come si legge nella lettera a Gentile del 3 dicembre 190567, ma anche una vibrata opposizione a quel verdetto da parte di chi, come Salvemini, già straordinario a Messina dal 1900, si sentiva escluso da un giudizio, che poteva apparire più politico che scientifico. Contro quella discriminazione partivano minacce di contestazioni legali e addirittura quella di una campagna pro-Salvemini, orchestrata dalla stampa progressista68, alla
66 Gioacchino Volpe a Fortunato Pintor, Pisa, 29 novembre 1906, FFP. Più seccamente, Volpe aveva confessato alla futura consorte, nella lettera del 24 novembre 1905, CV: «Crivellucci non sostiene i suoi scolari». 67 Gioacchino Volpe a Giovanni Gentile, Pisa 3 dicembre 1905, AFG, dove si rispondeva a un messaggio di congratulazioni per la vittoria concorsuale: «Ti ringrazio assai del biglietto tuo ultimo, che mi ti mostra sempre pronto a partecipare con l’animo a tutti i miei sforzi ed ai piccoli successi miei. Voi sapete quanto stima io abbia di voi, e quanto tenga alla vostra buona opinione di me. Ho anche ricevuto una bella lettera del Croce di cui gli sono gratissimo. E tutto dire si è ridestato all’antica amicizia anche il nostro ottimo Beppe Lombardo, di cui non avevo notizie da tanto tempo. Tuttavia io vorrei dire a questi buoni amici: piano piano, vi è uno scoglio ancora da superare e non sarà facile. Già le prime ventate della tempesta sono venute giù dal Piemonte. Avete letto della protesta della Società subalpina? Il nostro concorso viene ad acuire il dissidio tra nord e sud, chi l’avrebbe detto. In questi tempi in cui il Piemonte è così offeso nei suoi buoni vini dal famigerato modus vivendi, si aggiunge l’offesa alla sua cultura storica! Senza scherzi: io per primo riconosco ciò che di strano vi è stato in questo concorso: io stesso dico che forse il primo posto competeva ad altri, al Salvemini, che aveva al suo attivo anche quattro anni di straordinariato». 68 Gaetano Salvemini a Francesco Papafava, Messina, 26 dicembre 1905, in ID., Carteggio, 1895-1911, cit., p. 331: «Ti confesso che per quanto mi sforzi di non arrabbiarmi pel risultato del concorso di Milano, non mi riesce. Mi sento vittima di una tale prepotenza che
PASSATO E PRESENTE
87
quale Volpe dichiarava alla futura consorte di essere deciso a opporsi con tutti i mezzi. Ma ecco che ora cominciano a dire e a scrivere cose che mi seccano un poco: in un giornaletto scolastico di Milano ho letto stamani un annunzio del solito concorso “stranissimo” nel quale al prof. Salvemini, ordinario, autore di dotte pubblicazioni, e “un valore autentico”, sono stati preposti Fedele e Volpe, “insegnanti in una scuola normale”. Ripeto: nella sostanza hanno ragione, ma raccontano la cosa come se io sia il primo venuto, un qualunque Carneade. Quei signori conoscono il Salvemini per la politica, ma non hanno visto mai neanche la copertina dei suoi lavori, né dei miei. E così una prima ingiustizia se ne porta dietro un’altra in senso contrario, per cui degli incompetenti si mettono a fabbricare l’opinione pubblica. […] Da tanti segni vedo che si lavora assai, senza parere, da parte degli interessati e dei loro amici, per mandare a monte il concorso. L’altro giorno un articolo del Ciccotti sull’ultimo libro del Salvemini, nell’Avanti, pareva scritto apposta per ribattere alle obiezioni che la commissione gli aveva fatto. Io dico anche qui: lavorate pure se volete, ma io non debbo entrarci; non dovete ispirare la denigrazione a mio danno, perché allora mi muovo anche io per rimettere le cose a posto e dare a ciascuno il suo. Già lo prevedevo: meglio mi avessero messo terzo o primo dopo i tre. E seguito a dirlo anche ora, poiché le lettere e le parole scrittemi da Croce, da Monticolo e da Luzzatto e da altri non mi sono affatto montate al cervello69.
A vittoria proclamata non tutto dunque si era risolto, essendo pendente, infatti, il ricorso, presentato da Salvemini al Consiglio superiore della Pubblica Istruzione, sul cui esito Volpe, con animo comprensibilmente turbato, chiedeva lumi a Novati, il 28 dicembre. Nell’imminenza del verdetto del Consiglio superiore cresce l’ansia dell’attesa. Sa lei nulla degli umori dei giudici? Da ogni parte mi giungono notizie di lavorio intenso che altri compie per provocare l’annullamento del concorso; ed insieme esortazioni a contrapporre sforzi a sforzi per impedire che la questione esca dai suoi veri termini e che il risentimento degli interessi offesi trovi benigna corrispondenza nell’animo dei giudici. Io nulla ho fatto e nulla farò, perché non son solito brigare e mendicare voti. Ma ciò non toglie che il mio timore sia grande. So, ad esempio, che il prof. Mazzoni non è ben disposto; che anzi egli porterà al Consiglio Superiore i risentimenti della Facoltà fiorentina, offesa nel suo amor proprio per il posto non assegnato al Salvemini. I maligni po-
non mi ci so adattare. E non dubito che finirò per fare qualche grossa corbelleria. Certo che la cosa così non deve finire. E almeno un paio di schiaffi li consegnerò». Salvemini si limitò, poi, a ricorrere al Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione, che non trovò negli atti alcun vizio di forma, e interessò Turati per avere notizie di prima mano su quella verifica. Si veda la lettera di Salvemini a Turati a del 17 gennaio 1906, ivi, p. 183. 69 Gioacchino Volpe a Elisa Serpieri, s. l., s. d. ma dicembre 1905, CV.
88
GLI ANNI DELL’ATTESA
trebbero domandare perché l’Istituto Superiore non ha mai voluto saperne di accogliere nel proprio seno il Salvemini che pure vi godeva stima e simpatia personale grandissima e che ambiva raccogliere la successione del Villari. Questa opposizione certo si concilia poco con l’attuale malcontento dei professori fiorentini, i quali non vogliono riconoscere ora per buone ad altri quelle ragioni che essi hanno tacitamente o espressamente accampato da tanto tempo per conto ed utile proprio. Ma su ciò io non voglio giudicare. Solo prego lei, se sa qualche cosa o appena abbia qualche notizia, a volermela comunicare. Io torno a Pisa, il giorno stesso in cui si adunerà il Consiglio Superiore70.
Solo a metà gennaio, come Volpe comunicava al suo futuro Preside, ogni nube sembrava dissolta, con la notizia del ripudio del ricorso presentato da Salvemini. La buona novella è venuta finalmente dopo lungo attendere! La tempesta minacciata si è così disciolta senza danni; essa si è esaurita nelle schermaglie e nelle chiacchiere preliminari. Forse le buone intenzioni di annullare non saranno mancate in qualcuno, ma si son rotte dinanzi al verdetto dei primi giudici! Io debbo ringraziare ancora una volta lei che ha contribuito a questo fecondo risultato con non minore sollecitudine che al primo. Debbo dire che cercherò di meritare la fiducia riposta in me? Sarà un obbligo per me, sotto tutti i rapporti. La prova da superare non è facile ed io mi accingo ad essa con qualche timore; ma non manca la volontà ferma di superare gli ostacoli ed adempiere non indegnamente l’ufficio cui sono chiamato. Ed ora si tratta di attendere il decreto di nomina. Io non conosco le consuetudini: si può cominciare le lezioni prima che il decreto venga? Il prof. Cian mi accennava oggi alla possibilità che esso ritardi molto e che io venga perciò sollecitato a rimanere a Pisa per quest’anno, nella supplenza del prof. Crivellucci, per non tagliare in due l’anno scolastico. Potrà ciò avvenire? Sentirò il prof. Dini che sarà in grado di illuminarmi in proposito. Io debbo regolarmi anche per lasciare a tempo opportuno la Scuola Normale dove insegno. Attendo del resto anche un suo cenno, per mia norma. Io ho bisogno di conoscere presto quale sarà il mio destino in questo anno, perché ai primi di marzo mi unirò a donna che mi attende. La mia fortuna ha voluto che io potessi farle un prezioso dono di nozze, quale difficilmente io avrei potuto desiderare più degno. La prego di salutarmi i nuovi colleghi dell’Accademia71.
Lo scontro tra Volpe e Salvemini, sulle cui braci, come si è visto, aveva soffiato impietoso il chiacchiericcio accademico del gruppo fiorentino, ostile in realtà ad ambedue i concorrenti72, era stato evitato, an70 Gioacchino Volpe a Francesco Novati, Santarcangelo di Romagna, 28 dicembre, 1905, FFN. 71 Gioacchino Volpe a Francesco Novati, Pisa, 13 gennaio 1906, ivi. 72 Si veda la lettera di Volpe a Salvemini, il 9 febbraio 1906: «Ciò che mi ha indisposto in questa malaugurata faccenda è stata la condotta dei fiorentini. I quali prima hanno dato
PASSATO E PRESENTE
89
che se solo di misura. Il degenerare della frattura in contesa dispiegata fu scansato anche, in virtù del comportamento cavalleresco del vincitore, che, seppur con un certo tasso di innegabile ipocrisia (a proposito delle affermazioni relative al suo essersi tenuto lontano da ogni maneggio), aveva scritto allo sconfitto, poco dopo la chiusura dei verbali, condolendosi con lui per il risultato concorsuale e tentando di coinvolgerlo in un progetto culturale di ampio respiro: Volevo scriverti fin dal primo giorno che si diffuse la notizia del risultato, poi non lo feci, anche per l’incertezza della tua sede, in quel momento. Mi crederai sulla parola, che non ha mai mentito, se ti dico che io non aspiravo a questo primato e che meno ancora lo aspettavo? Se ti dico anche che desideravo la tua vittoria sopra tutti noi? Da troppo tempo siamo abituati a considerarti il primo, in ordine di tempo e di merito, della nostra schiera, perché potessimo temere di vederti indietro a qualche altro. Ciò che ho sempre pensato e detto in questi ultimi mesi è: forse nella produzione storica io non sono troppo al disotto, sebbene egli abbia maggiore varietà di lavori; ma egli possiede altre doti che io non ho ed ha per di più 4 anni d’insegnamento universitario. Invece a Roma la hanno pensata diversamente. Non serve io ti dica – fra persone per bene non ci sarebbe il bisogno – che non ho io né mosso un dito né speso una parola per cacciarmi avanti, non ho lavorato nessuno, non ho fatto nulla. Lo stesso mio maestro, prof. Crivellucci, è stato contro di me per te, pur credendomi il migliore fra gli altri rimanenti. Così come sono andate le cose, non posso se non augurarti di prendere presto una rivincita degna di te, per quanto tu, di fronte agli studiosi italiani, sei sempre quello che sei, anche a Messina, e l’insuccesso di questi giorni non ti ha abbassato d’una linea. […] Ora stiamo pensando a qualche modificazione da apportare a Studi Storici, per rianimarli un poco; e, chi sa, non sarebbe impossibile che si mutassero in una rivista più grande, diretta da noi due ed aperta ad una più larga collaborazione di persone, perché ormai di questa scuola pisana i vecchi si sono messi a dormire; i giovani, con tanta incertezza nell’insegnamento sballottato da una mano ad un’altra negli ultimi due anni, non danno più contributo sufficiente. E una rivista che debba poggiare solo sulle spalle di due tre persone è un fastidio per esse e per i lettori73.
un calcio a te, per timore della politica e del materialismo storico; poi hanno ripetuto la stessa operazione con me, per amor tuo. Quei signori procreano figlioli e poi se li mangiano, come Saturno». La lettera è citata in E. ARTIFONI, Salvemini e il Medioevo, cit., p. 149. Sullo stesso punto, Gioacchino Volpe a Elisa Serpieri, s. d., ma dicembre 1905: «Se c’era uno che potesse essere il successore di Villari a Firenze era il Salvemini: egli noto, stimato a Firenze, in piena simpatia, personalmente, di tutti i professori dell’Istituto. Ebbene essi non ne hanno mai voluto sapere e preferiscono il Cipolla che è quanto più opposto al Villari si possa immaginare. Ma viceversa, ora si sdegnano se altri, probabilmente per le stesse ragioni loro, non vogliono Salvemini». La lettera si concludeva sostenendo che ora che «la Facoltà di Firenze è fuori causa e non teme Salvemini, si riaccende di grande amore per lui, uscito dall’Istituto». 73 La lettera del 3 dicembre 1905 è pubblicata in appendice a E. ARTIFONI, Crivellucci, Salvemini, Volpe e una rivista che non si fece. Nota in margine a una ricerca su Gaetano Salve-
90
GLI ANNI DELL’ATTESA
Di quel progetto Volpe tornava a fornir lumi a Salvemini, nel dettaglio, in una nuova corrispondenza del 16 gennaio 1906, parlando della necessità di dar vita, in collaborazione con «Rodolico, Caggese, Solmi, Luzzatto, forse Arias, Roberti, Romano, Tamassia», a una «rivista diffusa che sia vivo organo di cultura storica anche presso i non specialisti e possa trovare accoglienza anche nella biblioteca delle persone colte e delle scuole secondarie», la quale fosse in grado di «specializzarsi specialmente negli studi della storia economica, storia giuridica, storia delle istituzioni, dei rapporti Stato-Chiesa ecc.», tagliando via «tutti i lavori in cui l’erudizione sia scopo a se stessa», per «agitare invece questioni larghe e vitali» e «lasciare tutto ciò che è caduco e transitorio nella storia e trattare invece di preferenza ciò che ne è la trama»74. Si trattava della messa in cantiere di un modello di collaborazione storiografica originale, che, mentre si sforzava di realizzare un equilibrio tra storici dell’economia e storici del diritto, ritenuti gli esponenti dei due filoni più innovativi della ricerca75, intendeva proiettare la rivista in una più ampia angolatura esterna, per oltrepassare i tradizionali steccati accademici e diffondersi nella borghesia provvista di formazione universitaria e comunque colta, sviluppando una specifica attenzione alla funzione della storiografia nel contesto della cultura nazionale, fino al punto di ipotizzare la possibilità di un circolo virtuoso tra analisi del passato e azione politica nel presente76. Ma nonostante l’interesse dimostrato da buona parte degli interpellati, il programma di svecchiamento della rivista pisana, e anzi la sua trasformazione in un nuovo organo di stu-
mini storico del Medioevo, in «Annali della Fondazione Luigi Einaudi», XIII, 1979, pp. 273 ss. Il saggio, ripreso in ID., Salvemini e il Medioevo, cit., pp. 145 ss., costituisce la migliore analisi del progetto di modernizzazione del periodico di Crivellucci e del suo fallimento. 74 La lettera è pubblicata in A. CASALI, Storici italiani fra le due guerre. La “Nuova Rivista Storica”, 1917-1943, Napoli, Guida, 1989, pp. XIII-XIV. Dello stesso tono la lettera a Elisa Serpieri del 6 dicembre 1905, CV: «La scuola pisana è decaduta; quella di Milano deve ancora nascere; avremo noi materiale sufficiente, in quantità e qualità, ad alimentare una rivista che non voglia contentarsi – come in questi ultimi anni – di stampare solo scritti miei e del Crivellucci? Perciò rinunciamo all’ambizione di avere un organo nostro proprio, che potrebbe riuscire anche un organetto; apriamo i battenti anche ad estranei, facciamo degli Studi Storici una diffusa rivista che raccolga il meglio che ora si scrive, che abbia un indirizzo non erudito ma storico nel senso ampio e moderno della parola». 75 Ivi. Dove si ipotizzava che la rivista potesse riunire «tutti i giovani più promettenti, di più lunga vista e più larga coltura, capaci di trattare le questioni storico giuridiche e storico economiche». 76 Gaetano Salvemini a Carlo Placci, Roma, 21 gennaio 1906, in ID., Carteggio, 18951911, cit., p. 337: «Stiamo trattando con altri due amici per la formazione di una Rivista storica, fatta con criteri veramente storici. Se, come sembra probabile, il nostro piano riuscirà, avrò molto da fare; e avrò trovato la via per contribuire al progresso della cultura del nostro paese».
PASSATO E PRESENTE
91
di, con mutato nome («Rivista critica di storia moderna»)77, si trascinò fino al 1908, per poi rimanere privo del risultato sperato e ridimensionarsi seccamente infine, portando, due anni più tardi, soltanto a un rimpasto della direzione, nella quale accanto a Crivellucci sarebbero subentrati Volpe, Salvemini, Giacinto Romano78. Né d’altronde le cose potevano avere esito diverso. L’ipotesi di riunire il gruppo dei giovani storici legati al metodo economico-giuridico, «senza intolleranza od esclusioni assolute», si scontrava, nonostante le buone intenzioni, proprio con quanto Volpe aveva compiuto, con le sue recensioni sulla «Critica», per disaggregare e disarticolare quell’indirizzo, distinguendo tra una tendenza «materialistica», da rigettare, per la sua apertura a un possibile ricongiungimento e quasi commistione tra storiografia e scienze umane, e una «realistica», destinata a fiancheggiare l’orientamento idealistico crociano, senza annullarsi in esso. Nonostante il fallimento, l’ipotesi di attuare una forma di collaborazione storiografica, estesa a studiosi di diversa formazione e indirizzo, costituiva un precedente importante nella biografia intellettuale di Volpe, che sarebbe stata poi ripresa sistematicamente nei decenni a venire, senza mai però registrare più ampio successo. Quel tentativo indicava soprattutto, però, la consapevolezza di dover arrivare, in tempi brevi, alla costruzione di un sapere storico di carattere nazionale, che non a caso coincideva con l’abbandono dell’orgoglioso ma provinciale municipio pisano, anche da un punto di vista squisitamente culturale, per la metropoli milanese. Eppure quel trasferimento fu segnato da dubbi, incertezze, rimpianti. Da una parte, i rumeurs insistenti, provenienti soprattutto da Salvemini e che poi il tempo avrebbe confermato, secondo i quali Novati avrebbe designato Volpe come proprio candidato, non per una preferenza oggettiva per il metodo e i risultati del suo lavoro, come Croce non cessava di ribadire, ma soltanto per sbarrare la strada all’autore di Magnati e popolani79. Dall’altra, ragioni più private, attinenti alla psicologia ruralistica di Volpe, a certa sua ostilità, che gli anni avrebbero solo parzialmente modificato, per la vita trafficata e dispersiva di una grande città, che lo spingevano a confessare alla fidanzata di aver infine quasi desiderato, nel recente concorso, «il secondo o il terzo posto per poter andare a Messina», in sostituzione di Salvemini. Aspirazione sicuramente ambivalente e contraddittoria, ma non retorica, dove duellavano, ad armi quasi pari, «le aspirazioni alla grande città,
77 Amedeo Crivellucci a Gaetano Salvemini, 12 novembre 1908, ivi., p. 250: «E per la nostra rivista non hai concluso nulla? La intitolerei Rivista critica di Storia moderna». 78 A. CRIVELLUCCI, Avvertenza, in «Studi Storici», XIX, 1910, p. 3. 79 Gioacchino Volpe ad Elisa Serpieri, 19 gennaio 1906, CV.
92
GLI ANNI DELL’ATTESA
sede di cultura, di un Istituto eccellente, ma fredda, nebbiosa, troppo popolata, senza campagna e quella alla silenziosa Messina, mite di clima, piena di frutta, di mare, di cielo sereno»80. Più tardi, dopo il disastroso sisma che avrebbe distrutto la «città dello Stretto», sconvolgendo l’esistenza di Salvemini, le ragioni che avevano tenuto in piedi quell’alternativa di desideri, quel «dualismo», sarebbero venuti definitivamente meno. Volpe che aveva accompagnato «una spedizione in Calabria, che portava soccorsi alle popolazioni colpite dal terremoto»81, scriveva infatti a Villari una lettera commossa che conteneva un’offerta d’aiuto per l’antico rivale accademico, sopravvissuto a stento, al prezzo della perdita dell’intera famiglia, a tanta sciagura82. In quei primi mesi del 1906, tuttavia, quel dilemma, ancora parzialmente irrisolto, si rifletteva ancora nella corrispondenza con Novati del 20 gennaio, nella quale Volpe tentava, in tutti i modi, di ritardare il suo cambiamento di sede, adducendo la necessità di non interrompere troppo bruscamente i suoi impegni didattici con la Normale e l’Università di Pisa e le sue ricerche negli archivi toscani. Oggi ho lasciato la Scuola Normale e le lezioni universitarie ed aspetto che il decreto di nomina per Milano mi autorizzi a cominciare il corso costà. L’altro giorno giunse qui al Rettore un telegramma da Roma con cui mi si chiedeva se ero disposto ad accettare la cattedra milanese ed a cominciare senz’altro le lezioni. Un telegramma siffatto mi pare che faccia ritener non lontano il decreto, per quanto tutti qui mi dicano che dovranno ancora passare parecchie settimane prima che esso venga fuori dalle lente fucine ministeriali. Certo io sarei lieto di poter coi primi di febbraio essere a posto. Rinuncerei anche a quei 15 o 20 giorni a cui si ha diritto dopo il decreto di nomina, pur di mettermi subito al lavoro costà; una rinuncia, tuttavia, non pienamente disinteressata, perché dovrà permettermi di chiedere a lei alcuni di quei giorni dopo le vacanze di Carnevale, quando io condurrò a nozze la mia donna. Intanto, io ho scritto a Roma sollecitando, ed impiego questi ultimi giorni di gennaio a far alcune altre ricerche per gli archivi vicini. Qui, in Facoltà, non sanno come fare per trovare un supplente al supplente, dopo la mia partenza. Il Preside crede ancora che io possa essere comandato a Pisa, per il rimanente anno scolastico ed insi80 Ivi. 81 G. VOLPE, Ritorno al Paese, cit, p. 19. 82 Gioacchino Volpe a Pasquale Villari, Milano, s d., CPV: «Leggo sui giornali che Sal-
vemini, la Dio mercè, è salvo. Piango con lui la perdita dei suoi figli e della moglie, ma lui, almeno, è scampato. E pare anche che venga a Firenze, non so se per fermarsi o come prima tappa per recarsi a trovar la madre, qui nell’alta Italia. Scrivo a lei per lui, non sapendo dove altrimenti indirizzare questa mia lettera. Gli chieda se e che cosa posso fare per lui, in questo momento. Accetterebbe qualche mese di modestissima ma fraterna ospitalità a casa mia, a Milano? Posso contribuire in qualche altra maniera ad alleviare (se pure può alleviarsi) la sua sventura? Io non so che cosa e in che modo ma vorrei pur fare».
PASSATO E PRESENTE
93
ste perché io mi adoperi a questo scopo. Io non ho dato un diniego assoluto, ma ho detto che solo se la Facoltà milanese consentisse a rinunciare per questo anno al suo insegnante, e si accordasse in questo senso con Pisa, io potrei rimaner qui. Ora penso che si potrà agevolare il compito alla Facoltà di Pisa, proponendole un altro supplente, che sarebbe il Rodolico, credo che egli desideri assai l’incarico. Io la ringrazio delle cortesi parole e degli auguri che ha per me nella lettera sua ultima. Certo, questi giorni sono lieti per me, sotto ogni rapporto. Spero anche che l’Insegnamento superiore aggiungerà a queste soddisfazioni delle altre ancora, non meno alte83.
Pretesto a questo indugio, che avrebbe finito per spazientire il Preside dell’Accademia, era anche la resistenza di Capasso, incaricato del corso di storia moderna a Milano, per l’anno accademico 1905-1906, ad abbandonarlo in media re, per far posto al vincitore. Una resistenza, questa, che era perfettamente funzionale al desiderio di Volpe di mantenere, almeno per un altro anno la supplenza dell’insegnamento a Pisa, come si evince chiaramente dalla nuova lettera inviata a Novati, nella prima settimana di febbraio. Iersera tornai da Siena, dopo una assenza di circa 10 giorni e trovai comunicazione del mio decreto di nomina. E feci subito disegno di partir di qui mercoledì prossimo, passare da casa mia a vedere mia madre malata ed essere costà lunedì o martedì per cominciare subito le lezioni. Ma questa mattina mi giunge una lettera del prof. Capasso, incaricato costà all’Accademia, con la quale mi dice che ha già cominciato il corso, che assai gli dorrebbe doverlo interrompere a metà, che i colleghi non avrebbero nulla da ridire se egli finisse l’opera incominciata ed io ritardassi fino ad anno nuovo la mia venuta a Milano. Io ricordo le Sue sollecitazioni di qualche mese fa; ma se il prof. Capasso mi scrive così, non ho alcuna ragione per non credergli. E realmente la scuola non ricaverebbe vantaggio da questo mutamento di insegnanti a metà d’anno. Di più, anche qui a Pisa, da tempo, insistono perché io rimanga nella supplenza del prof. Crivellucci; e se io ho messo difficoltà è stato specialmente per non piantare l’Accademia proprio quando questa aveva il suo insegnante regolare di storia moderna. Né credevo che si rinnovasse l’incarico al prof. Capasso, dato che nel novembre il concorso era già risoluto. Comunque sia, io non ho difficoltà ad accontentare il prof. Capasso, sempre che lei e la Facoltà milanese non abbiano nulla in contrario. Ma è possibile che io rimanga qui come straordinario comandato? Naturalmente non potrei accettare di stare a Pisa come incaricato, con la necessità, per ciò, di conservare l’insegnamento della scuola normale, cioè 15 ore settimanali. E se io rimango, mi vale questo anno per la carriera? E poi, a fin d’anno, chi mi confermerà, Pisa o Milano? Ecco le difficoltà d’indole legale. Se esse potranno risolversi, senza mio danno, lascerò il prof. Capasso nel suo incarico; altrimenti lei intende che sarebbe un chieder troppo da me. Ho 83 Gioacchino Volpe a Francesco Novati, Pisa, 20 gennaio 1906, FFN.
94
GLI ANNI DELL’ATTESA
scritto a Roma per sentire il Ministero ed aspetto per mercoledì la risposta. Sarei contento di aver anche il suo parere per quel giorno, prima che io lasci Pisa. Mi dica francamente se quanto il prof. Capasso mi chiede è di suo gradimento ed è fattibile, e non dannoso a me84.
A metà mese, Volpe appariva tuttavia determinato a recidere il cordone ombelicale che lo legava all’Alma mater pisana e comunicava a Novati il suo pronto arrivo nella nuova sede. Ho rotto finalmente gli indugi ed ho preso la via di Milano, dopo qualche incertezza dovuta alle varie pressioni fatte su di me perché rimanessi a Pisa, per quest’anno. Mi duole per il prof. Capasso, a cui avevo già scritto che non avrei avuto difficoltà a lasciarlo proseguire il suo corso all’Accademia. Ma vedo che le pratiche per il mio comando a Pisa sono lunghe e tutt’altro che sicure; tutti vanno avanti a forza di ‘credo possibile’, ‘credo probabile’, ecc.; io d’altra parte ho fretta di raggiungere la mia sede e di cominciare il corso: seguitando con queste schermaglie, verrebbe il marzo e l’aprile senza che io fossi professore né a Pisa né a Milano, lunedì o martedì sarò costà e mercoledì conto di fare la prima lezione. Ma la avviserò in proposito. Ora debbo fare una corsa a casa mia. Mi scusi presso il prof. Capasso che non mi vorrà male se ho preso una deliberazione che a lui sembrerà non troppo d’accordo con la mia lettera ultima. Ma io dovevo uscire da questa incertezza85.
Milano dunque non affascinava il giovane neo-ordinario. E se, secondo Prezzolini, quella metropoli si era presentata al romagnolo Mussolini come la «capitale elettrica» della modernità86, a Volpe, romagnolo anch’esso, ma anche in fondo «cafone» d’Abruzzo, che pure di quella modernità italiana, capitalistica, industriale, politica sarebbe stato attento analista e storico in presa diretta, il capoluogo lombardo sarebbe apparso piuttosto un dedalo informe di vie senza cuore e senza anima, al quale, avrebbe più tardi, quasi alla fine della sua esistenza, testi-
84 Gioacchino Volpe a Francesco Novati, Pisa, s. d., ivi. 85 Gioacchino Volpe a Francesco Novati, Firenze, s. d., ivi. Come appare dalla succes-
siva corrispondenza con Novati, Volpe, giunto a Milano alla fine di febbraio, ancora alla fine di marzo, non aveva iniziato le lezioni. Si veda la lettera al Preside dell’Accademia, datata Porto Ceresio, 23 marzo 1906, ivi: «Ieri ed oggi volevo venire a Milano per concordare il mio orario; ma ha fatto qui un tempo indiavolato e non mi sono mosso. Domani sabato sarò costà nelle ore pomeridiane e fisserò le ore delle mie due lezioni settimanali, da cominciar subito la settimana entrante». 86 G. PREZZOLINI, Quattro scoperte: Croce, Papini, Mussolini, Amendola, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1964, p. 166: «Milano è una delle poche, forse la sola delle città italiane, dove la vita moderna vibri e dove lo spirito capitalistico, nelle ridotte proporzioni che il nostro paese può avere, si faccia sentire. C’è una congenialità di spirito, di avventura, di individualismo, di dominio del più forte, di organizzazione, fra Mussolini e Milano».
PASSATO E PRESENTE
95
moniato ancora i sensi di una congenita disaffezione per i ritmi convulsi, per l’inclemenza del clima, per l’apparente freddezza caratteriale degli abitanti87. Ma forse, oltre il distacco emotivo («non della coscienza ma della natura»), pesava su quel giudizio anche il non eccelso livello scientifico dell’Accademia Scientifica-Letteraria, che secondo un testimone di quegli stessi anni, pur «provvista di uomini che facevano grande onore al nome d’Italia nel mondo» (Virgilio Inama, Carlo Salvioni, successore di Graziadio Ascoli, Paolo D’Ancona, figlio di Alessandro, Piero Martinetti), languiva quasi «nella metropoli delle industrie e dei traffici, la quale in fatto di istituti superiori di cultura menava vanto piuttosto del Politecnico, famoso vivaio d’ingegneri; o della giovane Università commerciale, costruita da un gran mercante per dar fuori altri mercanti e banchieri»88. 3. Dati questi presupposti, la capitale ambrosiana e la sua Accademia poco avevano per rappresentare degnamente il ruolo di centro attivo di un globale rinnovamento della storiografia italiana, al cui sviluppo Volpe pensava di poter contribuire attivamente, attraverso l’intervento pubblicato sulla «Critica», nel novembre del 1907, dedicato all’«insegnamento superiore della storia e insegnamento universitario», che faceva seguito ad alcuni interventi del 1902 dedicati ai problemi della scuola89. Il denso contributo, che la rivista di Croce ospitava, prendeva le mosse dal saggio di analogo argomento, pubblicato da Léon Barrau Dihigo, nel 1904, sulla «Revue de synthèse historique»: un periodico, che al suo primo apparire aveva attirato l’attenzione e l’apprezzamento di Croce90, e che Volpe aveva definito «una piccola rivista unica nel suo genere, utile ad ogni ordine di studiosi»91. Pur prenden-
87 G. VOLPE, Ritorno al Paese, cit, p. 19: «Io abruzzese, montanaro, “terrone”, stentai non poco ad acclimatarmi, a Milano: come stenta ad attecchire e crescere un alberello trapiantato in terreno non suo. Strapaese in Stracittà. Ci fu sempre, fra me e la grande Milano, come un tenue diaframma, fatto di nulla, ma pur fatto di qualche cosa: lo stesso diaframma che un uomo del Nord poteva avvertire scendendo al Sud». 88 G. MIRA, Memorie, cit., p. 68. 89 G. VOLPE, Per la scuola secondaria, in «Il Ponte di Pisa», 18 maggio 1902, pp. 4-5; ID., La federazioni degli insegnanti ed il Congresso di Firenze, in «Il Mattino», 6 ottobre 1902, p. 2. 90 B. CROCE, recensione a «Revue de synthèse historique», 1900-1902, 4 voll., in «La Critica», I, 1903, pp. 49 ss., dove pur opponendo forti riserve alla tesi della «sintesi di storia concreta» propugnata, da Henry Beer, la rivista era definita un «luogo d’incontro e un terreno comune», per quanti avessero voluto approfondire quella «importante sezione della logica delle scienze», che era appunto la teoria della storia. Sul programma del periodico francese, si veda L. ALLEGRA-A. TORRE, La nascita della storia sociale in Francia, cit., pp. 191 ss. 91 Gioacchino Volpe a Francesco Novati, s. l., s. d., FFN.
96
GLI ANNI DELL’ATTESA
do le distanze dai contenuti dell’articolo di Barrau Dihigo e dal dibattito che, in Francia, ne era scaturito, Volpe riconosceva che, al di là e al di qua della Alpi, la ricerca e la didattica storica si trovavano di fronte all’urgente necessità di realizzare un medesimo obiettivo, che, in primo luogo, avrebbe dovuto consistere nello «stabilire un più intelligente coordinamento degli studi storici e di quelli economici giuridici; di creare insegnamenti misti per le due categorie di allievi; di fondere magari le due Facoltà di Legge e di Lettere o almeno di erigere Istituti dove collaborino gli storici dell’una e dell’altra»92. In caso contrario, la storiografia italiana, ancora potentemente condizionata da una forte tendenza letteraria ed erudita, non sarebbe mai riuscita dal suo stato di minorità, restando incapace di cogliere il nesso tra evento e struttura, congiuntura e lunga durata, individualità e azione delle masse, la cui integrazione costituiva il tessuto oggettivo della dinamica storica, la quale, se sicuramente non poteva essere intesa solo a partire «dal comune, dal permanente, dal tipico», risultava, d’altra parte, incomprensibile, in assenza di un’analisi che fosse in grado di operare una sintesi generale, basata «sui punti fermi, sugli elementi costanti in mezzo al flusso perenne, spesso accidentale, delle cose», al fine di ricostruire «le energie elementari e fondamentali e inconsapevoli di questa che chiamiamo “società umana” nelle sue varie unità etniche, nazionali, politiche»93. In questo, gli studi storici del nostro paese, dove sorprendentemente era del tutto assente il grande tema dell’«origine del capitalismo moderno», avevano ancora moltissimo da imparare da quelli tedeschi, che nei settori della storia dell’economia agraria, delle finanze, del commercio, della proto-industria, grazie ai lavori di Darmastäder, Hartmann, Sieviking, Schulte, Schnedider e dello stesso Sombart, avevano abbattuto «quei confini fra territori e territori del sapere che a noi la tradizione accademica presenta come inviolabili», abituandosi a considerare, grazie soprattutto alle opportunità offerte dalla più elastica struttura dei loro ordinamenti universitari, «come compito e parte essenziale dell’ufficio di storico il dar precisa espressione giuridica a fatti relativi al diritto e alle istituzioni, l’analizzare minutamente un determinato ordinamento economico»94. Questi stessi argomenti erano rilanciati, l’anno successivo, nella rivista pedagogica, fondata da Giuseppe Lombardo e Giovanni Gentile,
92 G. VOLPE, Insegnamento superiore della storia e insegnamento universitario, cit.,
pp. 5-6.
93 Ivi, pp. 9-10. 94 Ivi, p. 11. Più diffusamente sullo stesso punto, si veda ID., Rassegna di studi storici,
cit., pp. 684 ss.
PASSATO E PRESENTE
97
«Nuovi Doveri», che si faceva portavoce dell’esigenza di cambiamento della scuola italiana, poi realizzata con la riforma del 192495. In quella sede, appariva un questionario, redatto da Volpe, dove si chiedeva agli studiosi italiani di esprimersi su tre quesiti di carattere generale: «quali insegnamenti nuovi si ritenessero necessari nella Facoltà di Lettere, per i giovani che si danno agli studi della storia antica e moderna»; «se devesi o non conservare la obbligatorietà e la durata attuale dei corsi ora prescritti»; «se fosse utile dare ai giovani libertà dopo il primo biennio, portando nell’ordinamento e nei rapporti attuali delle Facoltà quelle modificazioni che siano nel caso, oppure organizzare piena libertà di studi modificando radicalmente il regime dei corsi»96. Volpe chiedeva personalmente, sia a Villari che a Croce, di prendere posizione su questi interrogativi97. Ma senza successo. All’inchiesta però rispondeva una folta e differenziata schiera di intellettuali, che comprendeva storici puri, storici dell’economia, del diritto, della letteratura, ma anche economisti e scienziati della politica: Luigi Einaudi, Umberto Ricci, Achille Loria, Rodolfo Renier, Giuseppe Tarozzi, Giovanni Vidari, Amedeo Crivellucci, Francesco Coletti, Guido Mazzoni, Arturo Graf, Adolfo Faggi, Guglielmo Ferrero. Molte le reazioni interlocutorie, prive di mordente e di originalità, come quelle di Tarozzi, Mazzoni, Graf, che si concentravano sulla necessità di slargare semplicemente l’insegnamento storico al di là delle strettoie curriculari, superando la struttura didattico-scientifica della Facoltà in quella dell’Istituto98, alle quali si accodava Umberto Ricci, che rilanciava genericamente la proposta di Volpe, relativa a un fecondo connubio tra storici ed economisti99. Anche
95 Gioacchino Volpe a Giovanni Gentile, Milano, 23 febbraio 1907, AFG: «Ti sarei grato se volessi farmi un regalo. Ho bisogno dei tuoi studi sulla filosofia medievale. Ne hai una copia disponibile? Se mai, ti prego di mandarmela con la massima sollecitudine. E te ne ringrazio sin d’ora. Ebbi da Lombardo notizia di una nuova rivista vostra. Auguri al nascituro». 96 G. VOLPE, Ancora dell’insegnamento superiore della storia e della riforma universitaria, in «Nuovi Doveri», II, 15 aprile 1908, pp. 93 ss 97 Gioacchino Volpe a Pasquale Villari, Milano, s d., CPV: «Le sarei molto grato se volesse dirci il suo giudizio sulla questione che io ho sollevato nella Critica (fasc. 6° del 1907) ed ora di nuovo sui Nuovi Doveri. Io credo di averle mandato l’estratto della Critica ed ora da Palermo le avranno inviato quello dei N.D. […] Quello che lei scriverà a me sarà pubblicato nei N.D. con la altre risposte che perverranno; e poi tutto insieme in un volume a parte. La ringrazio fin d’ora, con affetto di discepolo»; Gioacchino Volpe a Benedetto Croce, Milano, 13 maggio 1908: «Mi manderebbe anche lei una risposta ai quesiti che ho posto nei Nuovi Doveri? Terrei al suo giudizio, come giudizio di persona che coltiva gli studi con tanto onore e che, essendo fuori dall’insegnamento ufficiale, può portare vedute ed esperienze proprie e diverse. Sarebbe anche da scrivere un breve articolo sul Giornale d’Italia. Ha mezza ora da buttar via? Sono indiscreto, è vero…» 98 «Nuovi doveri», II, 31 luglio-15 agosto 1908, pp. 206 ss. 99 Ivi, p. 243.
98
GLI ANNI DELL’ATTESA
Loria, ancora incattivito dalle ferite infertegli dall’aspra polemica crociana, evitava il problema e affermava addirittura di considerare impraticabile ogni tentativo di riforma, sostenendo che nell’università italiana era in atto una vera e propria «persecuzione accademica contro quanti osano affermare il substrato economico della storia»100. Non così reagiva Luigi Einaudi, che prendeva di petto la questione messa sul tappeto, analizzandola in tutta la sua complessità. Nel suo intervento, pur riconoscendo con Volpe, che l’insegnamento storico-economico era praticamente nullo nei circuiti universitari, Einaudi riteneva tuttavia un rimedio, peggiore del male, il voler istituire frettolosamente cattedre specifiche di storia economica, in assenza di docenti che fossero stati in grado di ricoprirle degnamente. Bisognava, quindi, opporsi al frettoloso «irrompere del diritto e dell’economia nel campo tradizionale della storia», se questo doveva avvenire attraverso semplificazioni pericolose come l’«interpretazione naturalistica della storia» o il servile ossequio alla «scuola tedesca dell’economia». Meglio era orientare gli storici attualmente operanti verso le problematiche giuridico-economiche, sollecitando una sensibilità largamente diffusa a seguito del «gran discorrere che nell’ultimo decennio si è fatto di materialismo storico, di interpretazione materialistica della storia», attraverso l’acquisizione di competenze tecniche peculiari provenienti dalla statistica, l’economia, la scienza delle finanze. Occorreva dunque, al di là dell’istituzione di nuovi, specifici insegnamenti, rafforzare la tendenza economico-giuridica, che si andava affermando negli studi storici e che, nei suoi esponenti migliori, puntava sul superamento dei nessi generici tra «i fatti politici e le istituzioni giuridiche e il cosiddetto substrato economico», e non si accontentava più dello studio delle fonti economiche ma si era impossessata invece della ricca strumentazione concettuale proveniente dalle «scienze giuridico-economiche», presente nelle opere di Marshall, di Pareto ma anche nelle «sottili disquisizioni sulla traslazione delle imposte del Pantaleoni, dell’Edgworth, del Seligman», che costituivano un necessario antidoto alla vulgata marxiana e all’orientamento della scuola economica tedesca, in molti casi digiuna dei principi teorici basilari dell’economia e rinchiusa nella gabbia di un mero positivismo documentario101. In linea con la proposta di Volpe, Gaetano Mosca suggeriva invece, come soluzione provvisoria, che gli studenti della Facoltà di Lettere, interessati agli studi storici, avessero potuto frequentare, in quella di Giurisprudenza, gli insegnamenti giuspolitici ed economici (Istituzioni di diritto romano, Storia del diritto romano e italiano, 100 Ivi, p. 244. 101 Ivi, pp. 240 ss.
PASSATO E PRESENTE
99
Economia politica, Diritto costituzionale) ma anche e soprattutto Scienza della politica, negli atenei dove era stato attivato il corso libero di questa disciplina. In questo quadro, Mosca formulava una definizione delle discipline storiche perfettamente congrua con quella di Volpe, in quanto queste dovevano essere strettamente irrelate allo studio delle «istituzioni politiche, economiche e giuridiche delle varie civiltà umane», con particolare riferimento allo studio dell’organizzazione politica e statuale102. Interveniva nel merito della questione anche Amedeo Crivellucci, con un contributo che oltrepassava largamente il piano pedagogico e culturale, approvando senza riserve l’apertura della storia alle scienze giuridiche ed economiche, che avrebbe potuto essere favorita da un mutato assetto dei corsi di laurea, ma dichiarandosi del tutto scettico riguardo a ogni possibilità di riforma, che avrebbe dovuto emanare dal vigente assetto politico, corroso dai mali del parlamentarismo e della partitocrazia. Quante buone ed utili riforme potrebbe fare nel campo degli studi un uomo di governo che fosse non d’oro o d’argento, ma semplicemente di legno buono, tagliato da sana pianta d’alto fusto. Pur troppo, Montecitorio dà solo ranuncolacee e cucurbitacee. La Nazione, che val meglio del suo Governo, passando attraverso il filtro avvelenato delle elezioni, diventa, nella sua rappresentanza, tutt’altro da quello che è. Ma la Nazione farà da sé, e sintomi a bene sperare non mancano. La Nazione vincerà le resistenze parlamentari e burocratiche, eliminerà l’anarchia impotente – intellettuale, morale, politica – che regna nelle alte sfere e che a nome suo la sgoverna. Tra 50 anni, la storia ne farà giustizia e la metterà alla gogna103.
In questo punto, la discussione lanciata da Volpe rivelava scopertamente il suo retroterra politico e si saldava al più esteso dibattito sulla necessità di contestualizzare il piano di riforma della pubblica istruzione nel quadro di un più ampio programma di rinascita culturale e civile, che riuniva, senza distinzioni, il pur composito partito antigiolittiano degli intellettuali determinato a battersi con la stessa energia contro il malgoverno dell’Università e contro quello dello Stato104. Nel corso del 1908, Giovanni Gentile, insoddisfatto della sede di Palermo, aveva tentato di trasferirsi, all’Università di Napoli, nella cattedra di Storia della filosofia, che era stata di Alessandro Chiappelli. Il tentativo falliva, per la chiusura corporativa del ceto accademico partenopeo e no-
102 Ivi, II, 30 novembre-31 dicembre 1908, pp. 349-350. 103 Ivi, II, 31 ottobre 1908, pp. 310-313. 104 E. DI RIENZO, Storia d’Italia e identità nazionale. Dalla Grande Guerra alla Repub-
blica, al capitolo II.
100
GLI ANNI DELL’ATTESA
nostante l’interessamento di Croce, che, stigmatizzando quell’episodio, scriveva una lettera aperta di protesta al ministro della Pubblica Istruzione, Luigi Rava, sulle pagine di «Nuovi Doveri», poi ristampata anche su «La Voce» e infine edita separatamente, da Laterza, nel 1909, con il sulfureo titolo: Il caso Gentile e la disonestà nella vita universitaria italiana105. La mancata chiamata di Gentile suscitava lo sdegno di gran parte del mondo della cultura106, e di Volpe in particolare, che scriveva all’amico: «Ho letto in questi giorni l’opuscolo del Croce sul tuo “caso” napoletano, che del resto già conoscevo. Io non te ne ho scritto mai; ma mi crederai se ti dico che sono stato solidale con te, in ispirito, e che ho profondamente deplorato la condotta di quei signori, per i quali l’Università è quasi patrimonio di famiglia da amministrarsi secondo i criteri del maggior tornaconto personale. Per disgrazia, gente così fatta è ancora l’arbitra della nostra vita universitaria, per la forza loro e per la debolezza della pubblica opinione italiana. Ma finirà, per Dio, anche questo!»107. L’anno successivo, Salvemini pubblicava un libello, destinato a restare famoso, che descriveva nel dettaglio la gestione «malavitosa» delle elezioni, nel collegio pugliese di Gioia del Colle, dove lo storico si era presentato, per ricevere una sonora bocciatura, in gran parte dovuta alle interferenze dei poteri prefettizi e alle minacce dei mazzieri del partito governativo108, che si erano rivelate decisive nel corso di una competizione impari, che sempre Salvemini, di lì a pochi anni, avrebbe rinnovato senza successo e che pure, commentava Volpe, aveva sortito il non piccolo risultato di «aver avuto il consenso di tutta la gente per bene, nell’aver seminato per il prossimo raccolto, nell’aver contribuito alla fine – che non potrà tardare – dell’assolutismo giolittiano»109. Pure divise e anzi contrapposte dalle vicende concorsuali del 1905, le biografie politiche dei due storici si mantenevano ancora fortemente unite,
105 Sul punto, G. TURI, Giovanni Gentile, cit., pp. 178 ss. 106 Si veda rispettivamente Giovanni Gentile a Benedetto Croce, 2 giugno 1908, in
Giovanni Gentile, Epistolario V. Lettere a Benedetto Croce, a cura di S. Giannantoni, Firenze, Sansoni, 1976, pp. 216-217 e Fortunato Pintor a Giovanni Gentile, 22 giugno 1909, in Carteggio Gentile-Pintor, cit., p. 196. 107 Gioacchino Volpe a Giovanni Gentile, 1 maggio 1909, in AFG. 108 G. SALVEMINI, Il ministro della mala vita. Notizie e documenti sulle elezioni giolittiane nell’Italia meridionale. A cura di S. Bucchi con una nota di G. Arfé, Torino, Bollati Boringhieri, 2000. 109 Gioacchino Volpe a Gaetano Salvemini, s. d., s. l. [ma 1913] in G. SALVEMINI, Carteggio, 1912-1914, a cura di E. Tagliacozzo, Roma-Bari, Laterza, 1984, p. 128. Sulla denuncia dei brogli e delle violenze che contraddistinsero le elezioni pugliesi del 1913, a cui Salvemini aveva partecipato, si veda la campagna di stampa organizzata dal periodico diretto da Salvemini, ora raccolte in L’Unità di Gaetano Salvemini, a cura di B. Finocchiaro, Venezia, Neri Pozza Editore, 1958, pp. 263 ss.
PASSATO E PRESENTE
101
non in questa sola vicenda. Nel giugno del 1908, Volpe si complimentava con Salvemini per un’anticipazione del suo volume dedicato alla riforma della scuola media, composto insieme ad Alfredo Galletti, che gli appariva un’opera la quale non poteva essere stata scritta «senza spirito di disinteresse» e che costituiva lo strumento più adeguato a denunciare «la vergogna della nostra felicissima repubblica storico-letteraria che è nelle mani di tre o quattro dittatori che entran sempre da per tutto – concorsi universitari, concorsi secondari, ispezioni, inchieste»110. In quel libro, Salvemini aveva fornito un’indiretta risposta agli interrogativi formulati su «Nuovi Doveri», concordando sulla necessità di orientare lo studio della storia «alla osservazione dei fatti politici sociali» per fornire «la coscienza sicura della continuità, complessità, causalità del processo storico», che avrebbe consentito di bandire l’inutile specializzazione di carattere erudito111. La replica rimandava, per il dettaglio della questione, «ai problemi sollevati dal Volpe nella “Critica” del 20 novembre 1907», nel punto in particolare dove si ipotizzava la possibilità che la ricerca storica, rinnovata dai suoi fondamenti, fosse in grado di colmare l’abisso che nella società italiana separava l’attività scientifica da quella pratica, con reciproco nocumento di questi due fondamentali settori della vita associata. Le nostre classi dirigenti, e bisogna dire anche chi studia le questioni attuali di economia e di politica, son povere di senso e di coltura storica. Per la gran maggioranza degli uomini che siedono nel Parlamento, l’Italia comincia con la breccia di Porta Pia, anche se nell’intingolo dei loro discorsi cacciano ancora Romolo e Remo. Abbiamo sulle spalle il peso di una questione di rapporti Stato-Chiesa, e pochi la conoscono oltre la data della legge delle Guarentigie; abbiamo tante altre questioni di economia agraria – sistemazione degli usi civici, razionale ordinamento collettivo di boschi e pascoli montani ecc. – per le quali il legislatore avrebbe molto aiuto dalla conoscenza storica di quei rapporti, tanto più che – lo riconoscono i più intelligenti fra i tecnici ed economisti rurali odierni – in molti punti, riformare vorrà dire ritornare all’antico in tutto o in parte. E viceversa: noi, storici, siamo poveri di cultura moderna, in genere; vediamo rincorrersi sotto i nostri occhi le ondate piccole e grandi della vita contemporanea, e raramente le sappiamo valutare per quel che valgono. Conosciamo troppo poco gli uomini, le istituzioni e le correnti intellettuali che ci si muovono attorno, come se essi fossero, qualitativamente, tutt’altra cosa da quelli consacrati e riabilitati dalla veneranda antichità. Noi incontriamo ad ogni passo uomini dottissimi nella conoscenza dei più minuti particolari del passato, ma
110 Gioacchino Volpe a Gaetano Salvemini, 3 giugno 1908, cit. 111 G. SALVEMINI-A. GALLETTI, La riforma della scuola media, maggio 1908, in G. SALVEMINI,
Scritti sulla scuola, a cura di L. Borghi e B. Finocchiaro, Milano, Feltrinelli, 1966, p. 553 e pp. 563 ss.
102
GLI ANNI DELL’ATTESA
che danno invece giudizi puerili e antistorici se si accostano ai viventi. Fanno professione di obiettività ed enumerano in bell’ordine, ogni momento, le qualità del perfetto storico obiettivo, mentre son trascinati e insudiciati dal fiumiciattolo dei loro pregiudizi di classe, di gruppo, di cenacolo accademico, ogni volta che si presenta ai loro occhi qualche scena di vita sociale che rompa certe linee tradizionali. In molti, tale ignoranza e tale inintelligenza del presente assumono addirittura le forme di una fobia, che li fa guardare con disprezzo a quanto si svolge sotto i loro occhi ed assumere continuamente l’aria dei soliti “laudatores temporis acti”. Cattivo segno! Uomini siffatti sono, nove volte su dieci, chiusi anche ad una retta intelligenza del passato, sono raccoglitori non ricostruttori, eruditi non storici; non vedono in atto quella continuità della vita storica senza di che il passato è un cimitero112.
Non che la storia potesse essere magistra vitae, ma che piuttosto la vita potesse essere magistra historiae, e che, in ogni caso, l’analisi del passato dovesse porsi necessariamente, per aver valore, il «problema storiografico» del presente era, infatti, la conclusione che scaturiva dal dibattito sull’insegnamento superiore della storia, che Volpe avrebbe ancora una volta rinnovato, nel 1913, nella relazione collettiva su Insegnamenti e studi, presentata al Congresso dell’Associazione Nazionale dei docenti universitari113. Quel dibattito, ricco e articolato, aveva visto, però, largamente assenti i colleghi milanesi, quasi a evidenziare gli scarsi rapporti tra essi e l’autore dell’inchiesta del 1908. Impressione, questa, forse non del tutto esatta, dato che l’integrazione di Volpe nell’ambiente accademico, e più generalmente intellettuale, di Milano aveva registrato dei progressi significativi, già a pochi anni dal suo trasferimento. A determinare quella modificazione dei rapporti servì certamente la sua partecipazione alle maggiori associazioni culturali della città: non solo e non tanto, alla Società storica lombarda114, nella quale Volpe fu sempre assai poco attivo, quanto piuttosto al Circolo filologico, di cui lo storico sarebbe divenuto presidente nel 1921, per commemorarne poi il cinquantenario della nascita con parole di non formale elogio, che lo definivano «come efficace integratore degli istituti superiori e, in parte medi di Milano, oltre che utile a quel vasto ceto medio che non bazzi-
112 G. VOLPE, Insegnamento superiore della storia e insegnamento universitario, cit., pp. 16-18. 113 Poi pubblicata in ID., Storici e maestri, cit., pp. 21 ss. 114 Gioacchino Volpe a Francesco Novati, Milano, 5 gennaio [1907], , FFN: «Egregio signor Preside, volevo venire a trovarla: ma le cure della paternità si sono aggiunte in questi giorni alle altre degli studi. E così le mando per iscritto il mio ringraziamento come presidente della Società Storica. Voglio augurarmi che questa non abbia fatto un acquisto inutile col nuovo socio che qui si sottoscrive. Comunque sia, grazie a lei ed agli altri della società che mi hanno voluto a consorte».
PASSATO E PRESENTE
103
ca le università ma non vuol rimanere estraneo alla coltura, anzi a volte la apprezza di più perché essa ai suoi occhi non prende colorazione scolastica»115. All’interno del Filogico, un po’ circolo di lettura, un po’ centro di conferenze qualificate, aperte a un ampio pubblico borghese escluso dalla formazione universitaria, il nuovo socio stringeva un forte sodalizio con Alessadro Casati, patrizio milanese di antica schiatta, legatissimo a Croce, ed esponente di punta dell’inquieta religiosità ambrosiana116, che Volpe avrebbe definito come la piccola eresia di coloro che «richiamandosi ad una per lo più genuina e più liberale tradizione cattolica, volevano restaurare il vero spirito del cattolicesimo storico, senza per questo distaccarsi dal grande corpo della Chiesa»117, con una definizione che bene racchiudeva le aspirazioni e i limiti di questa componente del movimento modernista, sulla cui rivista, «Il Rinnovamento», diretta da Casati, insieme ad Aiace Antonio Alfieri, Alessandro e Tommaso Gallarati Scotti, veniva pubblicato, nel corso del 1907, il lungo saggio, Eretici e sette ereticali nei loro motivi e riferimenti sociali118. Con la stesura di quel contributo, si configurava, per Volpe, un incontro con il Modernismo, che non fu né fortuito né casuale, né dettato da estrinseche ragioni di moda culturale, come invece venne ipotizzato da Gaetano Salvemini119, e,
115 G. VOLPE, Una grande istituzione di coltura. Il Circolo Filogico Milanese. Discorso
per la ricorrenza cinquantennale, in «La Lettura», XIII, 1 febbraio 1923, 2, pp. 107 ss., in particolare p. 113. 116 V. E. ALFIERI, Una famiglia lombarda di patrioti: i Casati, in ID., Maestri e testimoni di libertà, Milazzo, Spes, 1985. 117 G. VOLPE, Italia Moderna, cit., II, p. 322. Sul punto, si veda L. BEDESCHI, Modernismo a Milano, Milano, Pan, 1974. 118 G. VOLPE, Eretici e moti ereticali dall’XI al XVI secolo nei loro motivi e riferimenti sociali, in «Il Rinnovamento», gennaio-giugno 1907, I, pp. 633 ss.; luglio-dicembre, II, pp. 19 ss. e pp. 261 ss., poi in ID. Movimenti religiosi e sette ereticali nella società medievale italiana (sec. XI-XIV), edito da Vallecchi nel 1922. Il volume è stato recentemente riproposto nell’edizione a cura di C. Violante, Roma, Donzelli, 1997, da cui citiamo. Su quel saggio così Volpe si esprimeva nella lettera a Gentile del 1 maggio 1909, AFG: «Sono lieto che ti sia piaciuto quel mio lavoretto sugli eretici, che mi è venuto snocciolando sotto la penna, quasi senza intenzione, mentre attendevo a preparare due conferenze per la Società Dantesca, qui a Milano. Se lo scrivessi ora, avrei molte più cose da dire su quell’argomento; ma lo scrissi quasi d’un fiato ed ha forse i pregi che a certi lavori vengono dalla rapidità della concezione e della stesura. Se tu ne avessi scritto qualcosa sulla Critica ne avrei avuto molto piacere; se non sulla Critica altrove». 119 Gaetano Salvemini a Carlo Placci, 2 ottobre 1907, in ID., Carteggii. 1895-1911, a cura di E. Giancarelli, Milano, Feltrinelli, 1968, p. 370: «Gli articoli del Volpe sulle eresie sono molto solidi, molto nuovi e molto geniali. Io li ho letti con piacere e con profitto. Ma mi pare strano che il “Rinnovamento” li abbia pubblicati senza nessuna riserva: sono il frutto di un pensiero, se non ateo, certo indifferente di fronte al fatto religioso; il Machiavelli non tratta con metodo diverso la storia del Papato. Quei giovanotti del “Rinnovamento” mi
104
GLI ANNI DELL’ATTESA
sulla base di quel giudizio, da altri interpreti120. Se per Giovanni Gentile, infatti, pur nel contesto di un giudizio assai negativo121, quella moderna eterodossia appariva come «uno dei fatti di maggiore interesse spirituale e filosofico di questo momento storico» e «forse il più importante dal punto di vista storico generale o della Kulturgeschichte»122, se «La Voce» la poneva al centro dei suoi interessi, come essenziale fattore di modernizzazione della vita spirituale italiana123, Volpe l’avrebbe considerata, nel saggio del 1923, destinato a tracciare un profilo sintetico del progresso intellettuale dell’ultimo cinquantennio, come un esempio significativo della «fase di avviato rinnovamento della nostra coltura»124. Era un giudizio, molto diverso da quello espresso da Croce che bollava i nuovi profeti del «Cristianesimo perfettibile» di superficialità e di irrazionalità125. Un giudizio, che nasceva anche dall’assidua frequentazione, a partire dal 1906, all’informale cenacolo, che faceva capo Casati e a Giovanni Boine, allora allievo dello stesso Volpe, ambedue partecipi in quel periodo di un progetto di storia della Riforma in Ita-
sembrano ogni giorno più strani; sono anch’essi molluschi. Scrissero anche a me perché collaborassi alla rivista. Risposi che non mi sentivo di compiere questo atto di insincerità e di rendere omaggio alle idee cattoliche, che io rispetto, ma che non sono le mie, neanche nel figurino modernista». 120 R. MORGHEN, Medioevo cristiano, Roma-Bari, Laterza, 1984, p. 196, dove si sosteneva che l’interesse di Volpe per l’eresia «si esaurisce in astratti schemi a base di lotta di classe e di parte». Diversamente, G. CRACCO, Eretici ed eresie medievali nella storiografia contemporanea, in «Bollettino di Studi valdesi», 1994, 174, pp. 16 ss., in particolare pp. 21 ss., e ora soprattutto l’ampia introduzione di C. Violante a Movimenti religiosi e sette ereticali, cit., pp. VII ss. Sul Volpe studioso dell’eresia, si veda anche, O. CAPITANI, Introduzione a L’eresia medievale, Bologna, Il Mulino, 1971, pp. 13 ss.; ID., Da Volpe a Morghen: riflessioni eresiologiche a proposito del centenario della nascita di Eugenio Dupré Theseider, in «Studi medievali», 1999, 1, pp. 305 ss. 121 G. GENTILE, Il Modernismo e l’Enciclica “Pascendi” (1908), in ID., Il Modernismo e i rapporti tra religione e filosofia, Firenze, Sansoni, 1962, p. 75: «Il cattolicismo, liberatosi dai modernisti, rinverdirà ancora una volta sul suo tronco secolare, mettendo nuove fronde, determinando sempre più rigidamente la coscienza della propria logica. La quale non può morire, perché Platone non muore; perché, non saranno né il Loisy né il Tyrrell a farlo morire, ma ci saranno sempre anche troppi uomini ad aspettare la voce di Dio dall’alto del Sinai». 122 Ivi, p. 41. 123 G. PREZZOLINI, “La Voce”, 1908-1913. Cronaca, antologia e fortuna di una rivista, cit., pp. 344 ss. Sul lievito del modernismo, come momento di rinnovamento della coscienza nazionale italiana, si veda, in particolare, il giudizio di Antonio Anzilotti, La crisi spirituale della democrazia italiana. Per una democrazia nazionalista, Faenza, Novelli e Castellani, 1912, pp. 62 ss. e in particolare p. 69. 124 G. VOLPE, L’ultimo cinquantennio, cit., pp. 42-43. 125 B. CROCE, Di un carattere recente della letteratura italiana, apparso nel 1907 sulla «Critica», poi in ID., La letteratura della nuova Italia. Saggi critici, Bari, Laterza, 1973, IV, p. 190.
PASSATO E PRESENTE
105
lia126, che non escludeva interessi in grado di transitare dall’eresia religiosa a quella politico-sociale: visto e considerato che se, nel 1908, Boine pubblicava un saggio dedicato a Serveto e Calvino sulle pagine del «Rinnovamento»127, Casati nel 1910 intraprendeva una ricerca su Filippo Buonarroti128. Ma era soprattutto all’intenso scambio di opinioni con Boine, ricordato molto più tardi da Volpe in una commossa lettera a Giuseppe Prezzolini129, che va fatta risalire la consapevolezza, già manifestatasi nel 1907, della necessità di una storia della vita religiosa, indispensabile per portare a compimento un adeguato progetto di storia generale, che non poteva limitarsi al dato giuridico, economico, sociale. Vi è una certa fioritura di studi attorno alla storia del pensiero e delle dottrine religiose o aventi attinenza al fenomeno religioso. Anche l’Italia è un po’ trascinata dalla corrente. A differenza di altri popoli nella cui vita passata il fatto religioso occupa un alto posto e profondi problemi di religione segnano l’inizio della loro storia nazionale (parlo specialmente dei Tedeschi e di tutti gli Anglo-Sassoni in genere), noi finora non ci eravamo sentiti affatto attratti da questo ordine di ricerche. Tutto il nostro interessamento per quanto si riferiva ad istituzioni religiose, finiva con lo studio dei rapporti tra lo Stato e la Chiesa, la cui importanza pratica non isfuggiva a nessuno. Ma ora si sentono novità per l’aria anche da noi. Ultimamente, nello spazio di poche settimane, due nuove riviste sono sorte, il Coenobium che si stampa a Lugano ed Il Rinnovamento, che è una Rivista critica di idee e di fatti, diretta da tre giovani studiosi milanesi, A. Alfieri, A. Casati e T. Gallarati Scotti, rivolta “ad una generale elevazione della vita dello spirito del Cristianesimo”, mediante il rinnovamento della coltura italiana, “troppo estranea ancora a quella preoccupazione dei fatti dello spirito stesso senza cui ogni progresso esteriore è povera cosa”. Noi, che non siamo forse all’unisono col pensiero religioso e politico dei promotori, siamo lieti tuttavia che in essi si alimentino tali aspirazioni. Dal punto di vista nostro, anzi, ci ripromettiamo da questi moti di coscienze un po’ compenetrate di misti-
126 Giovanni Boine ad Alessandro Casati, 11 luglio 1908 e Alessandro Casati a Giovanni Boine, 24 luglio 1908, in G. BOINE, Carteggio III. Giovanni Boine-Amici del “Rinnovamento”, 1905-1917, a cura di M. Marchione e E. Scalia. Prefazione di G. Vigorelli, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1977, 2 voll., I, pp. 87 e 101. 127 ID., Serveto e Calvino, in «Il Rinnovamento», II, 1908, 5-6, pp. 297 ss. 128 Alessandro Casati a Giovanni Boine, 2 giugno 1910, in G. BOINE, Carteggio III, cit., I, p. 408: «Lavoro, un po’ alla stracca, intorno al Buonarroti. Questi dimorò qualche tempo, nel 1794, a Oneglia e nelle tue terre in qualità di agente politico presso l’esercito d’Italia, anzi di nominato governatore dei paesi tolti al Piemonte. Chissà se fra le tue cartacce non ve ne sieno che rechino la firma del famoso agitatore?» 129 Gioacchino Volpe a Giuseppe Prezzolini, 7 febbraio 1964, in Archivio Prezzolini, Biblioteca Cantonale di Lugano, d’ora in poi AGP, dove si ricordava il «povero Boine, che io non posso considerare e chiamare mio scolaro, perché venne all’Accademia già formato e con suo proprio modo di ordinare, chiarire, comunicare altrui; ma che io ricordo attento ascoltatore e acuto conservatore fuori della scuola».
106
GLI ANNI DELL’ATTESA
cismo, un impulso alle indagini di storia religiosa, delle quali vediamo vicino a noi, da vari anni, una promettente rifioritura130.
Il rapporto di Volpe con il circolo modernista di Milano non si esauriva, quindi, in quell’isolata collaborazione al «Rinnovamento», prima ricordata. Tra 1907 e 1912, si avviava e in parte si concretizzava il tentativo di promuovere una corrente di studi storico-religiosi, della quale sarebbero stati protagonisti gli allievi dell’Accademia scientificoletteraria131, tra i quali emergeva l’inquieta spiritualità di Clemente Rebora che si sarebbe dedicato all’analisi del Saggio su l’incivilimento umano di Romagnosi132. Nel 1910, Giovanni Amendola riceveva la proposta di Casati di assumere la direzione, assieme a Boine, di «una rivista trimestrale, prevalentemente storica per gli studi filosofici e religiosi, ma con intonazione teorica», che avrebbe dovuto impegnare parte dei vecchi collaboratori del «Rinnovamento», che aveva cessato le pubblicazioni, insieme a «qualche universitario come Martinetti, Volpe e Ruffini, e i migliori e più adatti che si trovino dappertutto»133. Al nuovo periodico, il cui disegno per un tratto parve potersi evolvere in quello di una rivista di storia generale, con Volpe e Salvemini134, si doveva130 G. VOLPE, Rassegna di studi storici, cit., pp. 690-691. 131 ID., Prefazione a Toscana Medievale, cit. p. XVII; ID., Ritorno al paese, cit., pp. 18-
19.
132 Gioacchino Volpe a Giovanni Gentile, Milano, 27 febbraio 1909, AFG: «Ad un mio scolaro laureando, che mi chiedeva un tema, ho consigliato di studiare il Romagnosi, il suo pensiero politico, la sua cultura storica ecc. Da quel poco che so del Romagnosi, mi son fatto l’idea che non molto si sappia di lui e molto meriterebbe si sapesse. Ti pare che l’argomento sia ben suggerito e che la ricerca possa approdare a risultati utili? Tu hai di questi uomini e di questi tempi una conoscenza assai maggiore che io non abbia e mi saprai dare qualche schiarimento, forse anche qualche indicazione bibliografica che arricchisca le mie e giovi a me ed al mio scolaro». Sui rapporti tra Volpe e Rebora, si veda la lettera a Carlo Martini del 19 febbraio 1960, AGP: «Caro e bravo Boine! Lo ho sempre presente; ho sempre negli orecchi, gli ultimi tempi, la sua dura tosse, l’accento della sua voce. La sua immagine e il suo ricordo si associano in me al ricordo e all’immagine di Clemente Rebora, coetaneo di Boine, mio allievo anche lui, spirito irrequieto e ansioso anche lui, l’uno più incline al filosofare, l’altro più al poetare». 133 Giovanni Amendola a Giovanni Papini, 3 settembre 1910, in E. KÜHN-AMENDOLA, Vita con Giovanni Amendola. Epistolario, 1903-1926, Firenze 1961, pp. 171-172. Si veda anche la lettera di Casati a Boine dell’agosto 1910, in G. BOINE, Carteggio III., cit., I, pp. 458-459: «La rivista e i corsi di storia religiosa italiana riempiranno la lacuna lasciata dal Rinnovamento. Era un obbligo morale per me il continuare un simile lavoro, in condizioni più libere e senza la responsabilità d’un programma che non potevo in tutto e per tutto accettare. La Voce e i Quaderni non ne scapiteranno affatto. Sono cose distinte. Tutto sta che Amendola si trasferisca davvero a Firenze come direttore della Biblioteca filosofica. Ma, ripeto, per ora la cosa è “segretissima”. Neppure Soragna e Jacini che dovrebbero partecipare alla cosa non ne sanno nulla». 134 Alessandro Casati a Giovanni Boine, 26 agosto 1910, in G. BOINE, Carteggio III.,
PASSATO E PRESENTE
107
no affiancare, sempre con la direzione di Amendola, una serie di corsi sulla «storia religiosa d’Italia», da tenersi presso la Biblioteca filosofica di Firenze. Questo progetto si sarebbe ampliato, sempre nel 1910, in un «corso di lezioni sul pensiero filosofico e religioso, e sull’origine e il valore dei movimenti democratici», grazie al contributo dei maggiori intellettuali italiani e stranieri: Angelo Crespi, Georges Dusmenil, Roberto Michels, Felice Momigliano, Giuseppe Prezzolini, Alberto Caroncini. In particolare, a Boine doveva toccare la Controriforma in Italia135, a Giovanni Papini le origini italiane della filosofia inglese, a Gaetano Salvemini la filosofia politica in Francia prima della Rivoluzione, a Gioacchino Volpe, Giovanni Gentile, Tommaso Gallarati-Scotti il pensiero e la vita religiosa in Italia dal X al XIII secolo: a) Rapporti tra Chiesa e Stato nell’Italia medievale; b) la filosofia scolastica; c) il misticismo»136. In quella sede, durante il 1912, Volpe pronunciava quattro conferenze dedicate a Chiesa e Stato di città nell’Italia medievale, dedicate al confronto e allo scontro tra potere civile e spirituale, nella stagione comunale, che erano definiti fecondi di «pratici insegnamenti, per chi abbia ancora di fronte, come ha il popolo italiano, una complessa questione di rapporti fra Stato e Chiesa da risolvere»137. In questo contesto, ricchissimo di stimoli intellettuali che il mondo
cit., I, p. 460: «Soragna e Jacini mi avevano appunto scritto tempo fa del loro proposito fermo di fondare una rivista di studi religiosi nel … 1914. Giustissimo prepararsi con tutta calma; ma intanto! Intanto lasceranno il campo a Minocchi o peggio a Crespi, e con che danno lo puoi immaginare. Io avevo pensato mesi fa a una rivista storica sintetica, con Volpe, Salvemini, ecc. Ma oltre le difficoltà pratiche di radunar gente diversa e quattrini (perché una rivista simile non può essere che monumentale), c’era il pericolo che gli studi religiosi fossero relegati in un cantuccio. Oggi quel che importa è di svolgere la storia religiosa che conosciamo poco o male e difendere così mediante i fatti un nostro determinato ordine d’idee, che non è il modernismo, ma nemmeno l’hegelianismo». 135 Giovanni Amendola a Giovanni Boine, 20 agosto 1910 in G. BOINE, Carteggio IV. Giovanni Boine-Amici della “Voce”-Vari, 1904-1917, a cura di M. Marchione e E. Scalia. Prefazione di G. V. Amoretti, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1979, p.190: «Ora avrei bisogno di interpellarti su di una cosa. C’è in progetto di organizzare una serie di corsi sulla Storia religiosa d’Italia; in gran parte da farsi. La difficoltà sta nel trovare le persone capaci. Ora io vorrei sapere da te se saresti disposto a impegnarti, per la primavera del 1914 a tenere cinque o sei conferenze sulla “Controriforma in Italia”. Dovresti, in cinque sei lezioni, tratteggiare le grandi linee di una Storia, che è da fare. Quinci ci vuole un notevole lavoro preparatorio: ma avresti più di tre anni. Se tu fossi disposto ad accettare, io potrei vedere se mi sarebbe possibile preparare la Riforma, in modo da poter combinare, se non il corso completo dalle origini ai nostri giorni, per lo meno un insieme di lezioni comprendente il periodo più importante e meno conosciuto». 136 G. AMENDOLA, Biblioteca Filosofica: suoi fini, sua azione, suo sviluppo (1910) in E. KÜHN-AMENDOLA, Vita con Giovanni Amendola, cit., pp. 171-172. 137 Le tracce delle conferenze, pubblicate nel 1912 nel «Bullettino filosofico», confluivano poi in ID., Movimenti religiosi e sette ereticali, cit., pp. 197 ss.
108
GLI ANNI DELL’ATTESA
accademico difficilmente avrebbe potuto offrire, si fortificava in Volpe la persuasione a considerare il fenomeno dell’«eresia», largamente inteso, come momento non accessorio della formazione della coscienza nazionale italiana, sottolineandone tutte le possibili ricadute sul piano economico, politico, sociale, nella convinzione che anche la manifestazione del dissenso religioso avesse contribuito alla formazione di quel «popolo nuovo», che, nell’età comunale, si era costituito «da una materia prima che cresce, si plasma, si individua, nelle linee esteriori e nella coscienza, mentre finora stava premuta sopra i solchi e dispersa nelle campagne, in piccoli aggregati senza moto e senza coltura»138. Ancora una volta appariva, così, un disegno della storia d’Italia, che individuava soprattutto le reazioni nascoste e profonde della società, e non le sue manifestazioni di vertice e di superficie, come fattori di crescita e di aggregazione, in grado di incanalare «quelle sorgenti donde scaturiscono senza posa, e in certi momenti a grandi ondate, le forze attive della storia»139. Nel saggio del 1907, che avrebbero ricevuto un significativo elogio da parte di Ernesto Buonaiuti140, Volpe non considerava, infatti, le eterodossie dell’età di mezzo «come un capitolo della storia del dogma o delle religioni», né come un mero intermezzo filosofico141, ma piuttosto come «un capitolo della comune storia», che intendeva analizzare «in quali situazioni politiche le eresie crescono e si diffondono, quali esigenze pratiche e sentimentali esse soddisfano, quali gruppi sociali ne sono più pervasi e perché, quali riflessi esse mostrano delle lotte di che l’epoca è tutta piena tra proletari e borghesi, tra contadini e cittadini; tra basso e alto clero, tra mondo feudale e mondo urbano»142. Una valuta138 Ivi, p. 41. 139 Ivi, p. 15. 140 Ernesto Buonaiuti a Tommaso Gallarati Scotti, 8 novembre 1907: «Nel comples-
so il fascicolo è magnifico: l’articolo di Volpe è senza dubbio il migliore dei tre, e sa di cultura e di sintesi». La lettera è pubblicata nel contributo di A. ZAMBARBIERI, Nuovi documenti per la storia del modernismo. Lettere di Ernesto Buonaiuti a Tommaso Gallarati Scotti e ad Alessandro Casati, in Scritti in onore di Gabriele De Rosa, a cura di A. Cestaro, Napoli, Ferraro, 1980, pp. 431 ss., in particolare p. 460. 141 G. VOLPE, Prefazione a Toscana Medievale, cit., p. XVII: «Erano gli anni del Modernismo e del milanese “Rinnovamento”; gli anni che anche io mi occupavo di movimenti religiosi nel Medio Evo, sia pure attirato più dal loro aspetto sociale e pratico, che non da quello religioso e dottrinario. Di ciò io ho avuto biasimo da taluni, come avessi disconosciuto la vera natura dell’eresia medievale; piuttosto lode da altri, come Croce, quello stesso che sorrideva al filosofo Tocco, autore de L’eresia nel Medio Evo». 142 ID., Chiarimento e giustificazione, Prefazione a Movimenti religiosi e sette ereticali, cit., p. 4. Significativamente Giuseppe Prezzolini avrebbe definito il volume di Volpe come un «frammento di storia italiana», in ID., Come nacque il libro. Cenni bibliografici su le più importanti opere della casa editrice, Firenze, Vallecchi, 1935, p. 83.
PASSATO E PRESENTE
109
zione, questa, che induceva necessariamente a un rinvio tra le tensioni e le aspirazioni sociali del mondo eterodosso dell’età comunale italiana e «quei riferimenti dal fatto economico e politico al religioso, quei richiami insistenti e appassionati al diritto divino, cioè all’insieme delle prescrizioni e degli ordinamenti che si potevan dedurre dalla Bibbia, che si ebbero poi nella plebe cittadina e ancor più agricola di Germania e che sono particolarmente visibili nei famosi Articoli dei contadini tedeschi del 1525»143. Era lo stesso itinerario che Antonio Labriola aveva sviluppato, nel corso romano di Filosofia della Storia del 1896-1897, dove l’approfondimento della situazione socio-economica italiana, tra fine del secolo XIII e principio del XIV, faceva perno sull’esame delle correnti cristiane apocalittiche, delle ricadute sulla società della predicazione gioachimitica e dell’eresia comunistica dolciniana, viste anche come remota anticipazione del moto anabattista dei primi decenni del Cinquecento144. L’interesse di Labriola per la persistenza degli ideali del cristianesimo delle origini, funzionale alla ricostruzione storica dei «primitivi del comunismo», rimandava all’attenzione per lo sviluppo, pratico e teorico, della questione sociale nell’Italia del primissimo Novecento, che si manifestava nella prolusione di Volpe all’anno accademico milanese, 1907-1908, significativamente titolata, Chiesa e Democrazia medievale; Chiesa e Democrazia moderna145. In quell’intervento, erano contenuti pesanti giudizi sulla mancanza di sensibilità del Papato, persino dopo l’emanazione della Rerum novarum, verso i nuovi problemi che la moderna società industriale imponeva di affrontare e di risolvere senza il facile ricorso a scomuniche e anatemi, i quali avvilivano in primo luogo «molti illuminati cattolici ed ecclesiastici», che, come i modernisti milanesi, «liberali in politica», alcuni ben disposti verso «certe conce143 G. VOLPE, Movimenti religiosi, cit., p. 171. 144 L. DAL PANE, Antonio Labriola nella politica e nella cultura italiana, Torino, Einau-
di, 1975, pp. 413-415. Nel corso universitario del 1893-1894, Labriola aveva dedicato una lezione al tema: «Firenze alla fine del secolo XIV (o la rivoluzione comunistica di Fra Dolcino)». Si veda, ID., Introduzione a A. Labriola, Saggi intorno alla concezione materialistica della storia. IV, cit., p. 15. Sulle ricerche dolciniane di Labriola, si veda anche ID., Lettere a Benedetto Croce, 1885-1904, Napoli, Istituto italiano per gli studi storici, 1975, pp. 95, 102, 195, 209. 145 Si veda la lettera, senza data, inviata da Volpe a Novati, FFN: «Ecco il titolo che mi chiede: Chiesa e democrazia medievale, Chiesa e Democrazia moderna. Ho dovuto pregarla di rimandar di qualche giorno l’inaugurazione perché questi ultimi quindici giorni, quando mi preparavo a far qualche ricerca per il discorso, dovetti mettermi a letto per una settimana; poi vennero le nozze di mia sorella, anticipate sulla data prima stabilita, cioè nel dicembre; poi necessità varie della mia famiglia che mi hanno costretto a venir qui a S. Giorgio. Ora mi son rimesso al lavoro; e sebbene vi sarà fra qualche giorno un’altra interruzione, per il ritorno nostro a Milano, pur tuttavia confido di essere pronto per il 9. Non illuminerò il mondo, ma spero di farmi ascoltare»
110
GLI ANNI DELL’ATTESA
zioni e certe forze più sane e manifestazioni di ordinata democrazia», avevano avuto il solo torto di apparire «avversari irriducibili, come credenti e come cittadini, del mercimonio fra cattolici politicanti e conservatori atei all’ombra delle sacrestie»146. Per congenita chiusura mentale, avrebbe poi aggiunto Volpe, Roma aveva così rifiutato di ascoltare il messaggio corroborante di coloro che «non predicando palingenesi sociali e promettendo terrene felicità, confidavano poter operare su le moltitudini, giungere attraverso la riforma delle coscienze a una riforma della coscienza italiana, contribuire a un arricchimento della coltura nostra ancora estranea a quei fatti dello spirito che soli sono indice di progresso»147. Nel consegnare, il saggio su potere spirituale e democratismo a Fortunato Pintor, perché ne facilitasse la pubblicazione sulle pagine della «Nuova Antologia», Volpe, tuttavia, esprimeva la speranza che esso non apparisse «intinto di pece rivoluzionaria e anticlericale» e aggiungeva: «Non è assolutamente così, ma un giornale, come la N.A., potrebbe dar corpo alle ombre»148. Quel post-scritto non manifestava un eccesso di guardinga e ipocrita cautela, che la probabile, insofferente reazione del cattolico ortodosso Novati ai contenuti della Prolusione milanese avrebbe potuto forse giustificare149. Né deve ingannarci, su questo punto, il blando e problematico riferimento ai possibili contenuti non ortodossi della predicazione francescana, in senso pauperistico, antimondano, antigerarchico, che Volpe riprendeva da una complessa polemica sulla quale sarebbe intervenuto anche Gentile150, quando si ponga mente che tutto questo si risolveva essenzialmente in un appello alla Chiesa di Roma, perché essa moltiplicasse e potenziasse le «associazioni parrocchiali, le cooperative di credito e di consumo, le piccole banche» e tutti i suoi mezzi di intervento nella società, alla luce delle proposte contenute nel «cristianesimo sociale» e nella «economia cristiana» di Toniolo, per poter sottrarre le «classi inferiori» alla deriva protestante e socialista, come in quel periodo andava facendo la Democrazia cristiana, che si presentava come «anelito verso una giustizia so146 G. VOLPE, Movimenti religiosi e sette ereticali, cit., p. 251. 147 ID., Italia Moderna, cit., p. 321. 148 Gioacchino Volpe a Fortunato Pintor, Milano, 26 febbraio 1908, FFP. 149 Ugo Guido Mondolfo a Gaetano Salvemini, 12 novembre 1907 in G. SALVEMINI,
Carteggio. 1895-1911, cit., p. 374: «Hai letto della prolusione del Volpe? Il Novati non deve essere molto contento». 150 G. VOLPE, Rassegna di studi storici, cit., p. 691-693. Per il riferimento ai successivi interventi di Gentile sulla questione francescana, si veda A. SCAZZOLA, Il manoscritto gentiliano della storia della filosofia italiana: Giovanni Gentile, l’Umanesimo e il Rinascimento, in Giovanni Gentile filosofo e pedagogista, a cura di D. Coli, Firenze, Le Lettere, 2007, pp. 169 ss.
PASSATO E PRESENTE
111
ciale maggiore e opposizione alla borghesia conservatrice, massonica, positivista»151. La simpatia per il modernismo spirituale e sociale del «Rinnovamento» e di Romolo Murri era infatti lontana dall’essersi risolta in una partecipazione intrinseca, tale da alimentare, al di là di qualche isolata citazione di maniera152, la speranza, che avrebbe affascinato Missiroli e Gobetti, di una rivoluzione luterana nel nostro paese, modernizzatrice e moralizzatrice153, ma del tutto incapace, avrebbe poi sostenuto Volpe, di cogliere quella dimensione nazional-popolare, che la Controriforma, in quanto fenomeno specificatamente autoctono, invece aveva saputo rappresentare, saldando identità cattolica e identità italiana154. Né, d’altra parte, l’interesse, dimostrato nello stesso periodo, per il socialismo e i suoi eretici processi di trasformazione interna agitati da Salvemini, volti a superarne e a negarne l’ortodossia dottrinale, non configurava alcuna adesione da parte di Volpe155. Nell’un caso e nell’altro, il professore dell’Accademia milanese sembrava piuttosto limitarsi a ricoprire un ruolo di puro osservatore, non disinteressato certo e anzi fortemente partecipe, ma comunque rigorosamente tale, nei confronti di moti di pensiero e di azione, che partecipavano, con ineguale energia e vigore,
151 Si veda rispettivamente G. VOLPE, Chiesa e Democrazia moderna, in ID., Movimenti religiosi e sette ereticali, pp. 245 ss.; ID., L’ultimo cinquantennio, cit., pp. 39 ss. 152 ID., Rassegna di studi storici, cit., p. 691: «Attorno ai riformatori religiosi, ai protestanti nostri, ai ribelli contro il dogmatismo cattolico, hanno speso le loro fatiche nobili ingegni, a volte non senza un fondo di rammarico che quei germi di vita interiore nuova da essi nutriti sian poi morti per mancanza di nutrimento, nello sterile suolo dei paesi latini. Alludo ai seguaci italiani delle dottrine calviniste e luterane, a Girolamo Savonarola, ad Arnaldo da Brescia, a San Francesco d’Assisi ed a tutto l’ampio movimento ereticale che fra il XII e XIII secolo sembrò un momento potesse rinnovare la coscienza religiosa nostra e dare al mondo una rivoluzione protestante italiana». 153 P. Gobetti, recensione a M. MISSIROLI, La monarchia socialista, in «La Rivoluzione liberale», I, 1922, 13, p. 47. 154 G. VOLPE, Programma e orientamenti per una Storia d’Italia in collaborazione e per una Collana di volumi storici, 1922. Il testo è riprodotto in appendice al mio, Storia d’Italia e identità nazionale, cit, p. 218, dove si definiva la Controriforma come «fatto universale che ha tuttavia il suo centro in Italia ed è, in certo senso, una specie di Riforma italiana». 155 Fausto Pagliari a Gaetano Salvemini, 24 novembre 1909, in G. SALVEMINI, Carteggio. 1895-1911, cit., p. 414: «La mia scuola per giovani socialisti è ancora una pura speranza, perché non ho ancora gli insegnanti. Il prof. Volpe pare che sia disposto fare un corso di lezioni e questo sarebbe già moltissimo». Si veda anche Gioacchino Volpe a Salvemini, 3 ottobre 1908, in G. SALVEMINI, Carteggio, 1907-1909, pp. 232-233: «Sono a Desenzano, commissario per esami di licenza, verso il 22 conto di esser libero e venire a Milano. Vi sarai ancora? Chi sa anche che non possa approfittare di un giorno intermedio, l’8 o 9 ottobre e venir costà. Così mi faresti conoscere Turati!». Su Volpe e i problemi del socialismo, compiutamente ora, A. RIOSA, Socialismo e classi subalterne tra esclusione ed integrazione nell’interpretazione storica di Gioacchino Volpe, in «Nuova Antologia», 138, 2003, 2228, pp. 116 ss.
112
GLI ANNI DELL’ATTESA
alla creazione della nuova coscienza spirituale italiana, pur risultando incapaci di fornire un momento di sintesi generale e superiore, a una nazione, che, esaurita la spinta propulsiva del Risorgimento, abbisognava di nuovi impulsi ideali156. Lo stesso sarebbe accaduto per l’altro fenomeno eterodosso del primissimo e inquieto Novecento italiano, che si costituiva attorno a Prezzolini e a «La Voce», del quale a Volpe sarebbe spiaciuto la mancanza di realismo politico, il troppo intellettualismo (lo stesso che avrebbe condizionato negativamente «L’Unità» di Salvemini), soprattutto l’eccessivo elitismo, la fastidiosa atmosfera di congrega letteraria, di circolo riservato, di coterie volutamente e sprezzantemente distante dal profanum vulgus, inconcepibile per chi era già persuaso che se la missione del dotto doveva corrispondere a un suo ruolo guida nei confronti delle masse, questa funzione poteva svilupparsi solo a condizione di non separarsi mai da esse né intellettualmente né emotivamente. Di quella diversità di orizzonte, Volpe avrebbe fornito attestazione, nel primo dopoguerra, rimproverando agli intellettuali vociani di aver creduto e di aver spinto a credere che «i problemi vitali di un paese si possano affrontare sempre nell’ordine logico, astrattamente gerarchico in cui noi li vediamo» e di aver supposto, infine, «che sia nostro arbitrio scegliere il momento opportuno per affrontarli, anziché affrontarli quando la storia li impone, sotto pena di morte a chi non ascolta»157. Una testimonianza, questa, che è utile a comprendere perché non avesse avuto esito concreto l’ipotesi di collaborazione attiva alla rivista fiorentina, che sembrava invece sul punto di attuarsi, quando Volpe, nel giugno 1909, inviava a Prezzolini questa corrispondenza. Grazie dei numeri della Voce che ha voluto mandarmi. Mi permetta che chiarisca un punto. Il dott. Casati l’altro giorno, parlando con me del suo giornale, mi chiedeva: ma Prezzolini te lo manda? No, lo compro, anzi voglio abbonarmi e solo per poltroneria ho rimandato la cosa da un giorno all’altro. È stato il dott. Casati a scriverle in proposito? Comunque, mentre la ringrazio, mi permetta di dirle che ci tengo a comprare il giornale. Perché vivere a sbafo, specialmente quando trattasi di un’impresa che vuol essere incoraggiata anche con quel piccolo obolo che è il prezzo di vendita? Sono alla fine degli esami e appena libero metterò mano a quel famoso articoletto. Intanto mi rallegro con lei del bel giornale che viene creando158.
Il promesso «articoletto», che forse avrebbe dovuto essere inserito 156 G. VOLPE, L’ultimo cinquantennio, cit., pp. 30 ss. 157 Ivi, pp. 63-64. 158 Gioacchino Volpe a Giuseppe Prezzolini, Milano, 20 giugno 1909, AGP.
PASSATO E PRESENTE
113
in un fascicolo monografico dedicato alla questione universitaria, che Salvemini aveva proposto159, non raggiunse mai il tavolo di lavoro di Prezzolini, né poi si arrivò ad altra forma di cooperazione, nonostante il fatto che molti tra i vociani avessero insistito sulla necessità di assicurarsi il contributo di Volpe, in modo sostanziale e continuativo. Nella circolare del direttore del periodico indirizzata a Carlo Placci, il 21 agosto 1908, dove erano indicati intellettuali e ambienti culturali che avrebbero potuto costituire il tessuto connettivo della «Voce», Volpe era considerato un potenziale collaboratore, accanto a Salvemini, che della rivista fu pilastro portante fino alla guerra libica, ad Arturo Graf, Gentile, al gruppo crociano di Napoli, al circolo modernista milanese di Casati e Boine, agli ex-aderenti del «Leonardo»160. Mentre Giovanni Amendola, in una lettera a Prezzolini dell’11 ottobre 1908, domandava, quasi con ostinazione, se si fosse tenuto nel debito conto la necessità di assicurarsi l’apporto dello storico del Comune pisano161. Queste manovre non sortirono però nessun effetto. «La Voce» non riuscì mai a pubblicare nulla di Volpe, se si eccettua una sua lettera di solidarietà, in occasione del duro contenzioso che, nel 1911, aveva opposto Prezzolini agli ambienti militari, in occasione di un articolo di critica e quasi irrisione alle abitudini di vita di alcuni ufficiali di cavalleria. A quell’articolo, era seguito un processo conclusosi con la condanna dell’autore per oltraggio, che aveva a sua volta provocato un vivace dibattito che aveva visto schierarsi a fianco di Prezzolini molti intellettuali italiani, tra cui Borgese e lo stesso Croce, che consigliava allo scrittore fiorentino di rivolgersi senza tema «ai magistrati d’appello, i quali probabilmente giudicheranno un po’ strana così l’ammessa costituzione del rappresentante dell’esercito italiano, come la qualifica di diffamazione, date alle parole che voi avete scritto e con le quali avete esercitato quel diritto di sindacato, che compete a ogni libero cittadino, timoroso delle sorti della patria»162. Assai più fredda la reazione di Volpe, che pure non faceva mancare la sua solidarietà a Prezzolini, con la corrispondenza del 28 giugno, dove però era contenuta anche qualche presa di distanza da159 Gaetano Salvemini a Giuseppe Prezzolini, 28 maggio 1909, G. SALVEMINI, Carteggio, 1907-1909, cit, p. 311: «Perché non fai un numero unico per la legge universitaria, invitando a collaborarvi alcuni dei professori universitari giovani più seri, per es. Volpe, Fedele, Gentile, Severi, Enriques, Crivellucci; e qualche non universitario come Croce?». 160 G. PREZZOLINI, Carlo Placci e «La Voce», in «Giornale di bordo», ottobre 1968, p. 5. 161 G. AMENDOLA, Carteggio 1897-1909, a cura di E. D’Auria, Roma-Bari, Laterza, 1986, p. 449. Sul punto, G. PREZZOLINI, Amendola e La Voce, Firenze, 1973, p. 83. 162 Benedetto Croce a Giuseppe Prezzolini, 4 giugno 1911, poi in ID., Pagine sparse, cit., II, pp. 304-305. La lettera era pubblicata nella «Voce» dell’8 giugno, nella sezione intitolata, Dopo la sentenza. Processo contro Giuseppe Prezzolini, accusato di antimilitarismo, con lettere di Croce, Borgese, ecc.
114
GLI ANNI DELL’ATTESA
gli atteggiamenti barricadieri, e se non propriamente tali, sicuramente oltranzisti, che troppo spesso avevano contrassegnato il procedere della rivista. Dichiaro subito che non conosco l’articolo famoso, perché quel numero del giornale non mi è giunto (sarei, anzi, lieto di poterlo avere); mi trovo quindi un poco imbarazzato a dirle senz’altro: lei ha ragione ed hanno torto gli altri, come pure vorrei dire, per la simpatia che ho verso il giornale. Francamente, non tutti gli atteggiamenti della Voce mi sono piaciuti; non ho trovato sempre di mio gusto certa eccessiva disinvoltura di taluni collaboratori giovinetti nel trinciar giudizi a destra e a manca, e criticar tutto e tutti e dir male di quanto non andava loro a verso. Ma ciò nonostante, mi son sempre parse cose belle ed utili l’ardore combattivo, la virtù eccitatrice, la capacità di toccar corde che in molti aspettavan l’eccitamento per vibrare, l’onesto desiderio di agitar questioni moralmente e politicamente vitali pel nostro paese, dimostrati dalla Voce. Perciò voglio credere che anche l’assalto alla cavalleria fosse determinato da quello stesso bene che anima, nel complesso, tutto il giornale. Anche se lei avesse ecceduto nella forma, voglio tener conto della sostanza, voglio ricordarmi delle altre venti, trenta, quaranta volte in cui ho aderito pienamente alle sue idee. Intendo l’eccedere, caso mai, per il generalizzare; per il non tener conto di certe particolari condizioni in cui la vita degli ufficiali, specie dei più giovani, si svolge; per l’adoperare un tono ironico e irritante. Quindi firmo la scheda-protesta e mi unisco al desiderio ed all’augurio degli altri per un verdetto che suoni assoluzione e riconoscimento della rettitudine dello scrittore163.
Ma se Volpe disertava le pagine della «Voce», questa, per contro, intraprendeva una sistematica campagna di stampa per valorizzarne il ruolo di principale modernizzatore della storiografia italiana, come Prezzolini avrebbe ricordato all’interessato, rammentandogli «di quando Anzilotti e io (di riflesso) cercavamo di far capire agli Italiani il valore dei tuoi studi» e come Volpe avrebbe rammentato a Prezzolini, riconoscendogli di essere stato «il primo ad incoraggiarmi a raccogliere i miei scritti e ad uscir dal chiuso delle riviste per specialisti»164. Già nel gennaio del 1909, Anzilotti dedicava un primo articolo a questo obiettivo, nel quadro di una violenta polemica contro la tradizione filogicoerudita, che aveva nell’Istituto di Studi Superiori la sua roccaforte, alla quale si andava contrapponendo Volpe, che, pure «eletto per dispetto al Salvemini», aveva avviato, nel suo insegnamento milanese, un
163 Gioacchino Volpe a Giuseppe Prezzolini, 28 giugno 1911, AGP. La lettera veniva pubblicata nel numero monografico della «Voce» del 2 luglio 1911, dedicato all’affare giudiziario, dove appariva anche un nuovo intervento di Croce. 164 Si veda rispettivamente la lettera di Giuseppe Prezzolini a Gioacchino Volpe, del 20 aprile 1961 (CV), e quella di Volpe a Prezzolini del 24 febbraio 1947, AGP.
PASSATO E PRESENTE
115
modo di fare storia capace di scuotere «uno dei più paludosi infossamenti del quietismo erudito e conservatore del nostro paese» e di battere in breccia l’ortodossia dei «professori fiorentini» (Mazzoni, Vitelli, Cipolla), dimostratisi tutt’al più capaci di offrire soltanto «la lezioncina fredda, obbligatoria, stantia, o la conferenzina da femmine eleganti»165. Seguiva, nel mese di marzo, un nuovo, più complesso, organico contributo, redatto su diretta sollecitazione di Prezzolini166, dedicato a celebrare la recentissima «rinascita intellettuale che ha reagito contro l’unilateralità del puro metodo storico, andatosi stemperando nella ricerca minuziosa, nella discussione bizantina, nell’aneddoto, nella curiosità e che si era imposto una vera rinunzia, quasi uno stato d’impotenza, tenendosi stretto gelosamente alle sole attestazioni formali delle fonti»167. Fino a quel momento, infatti, «lo storico si era troppo spesso racchiuso entro la sua nicchia di ricercatore paziente; non aveva vissuto intellettualmente in mezzo alla vita reale, era stato troppe volte asceta di ciò che è solo strumento primo e valido di una ricostruzione, la critica delle fonti; nel suo gabinetto non erano entrati mai l’aria, la luce della realtà vissuta». E fino ad allora, per necessaria conseguenza di quelle premesse, «la retorica, che spesso aveva rispecchiato il sentimento politico del nostro Risorgimento, la passione di nazionalità, l’erudizione, paurosa delle arditezze di certi voli» avevano oppresso l’analisi del passato, chiudendola in un vicolo chiuso privo di prospettive, dal quale Volpe aveva indicato la via di uscita con l’esemplare ricostruzione storica del suo Medioevo, che aveva saputo «risalire dalla conoscenza vasta e profonda dei rapporti di produzione, agli istituti di diritto, che su quelli si plasmarono, e al superiore mondo della cultura, che delle condizioni varie delle classi e degli antagonismi sociali fu il riflesso indiretto», evitando accuratamente ogni concessione
165 La nota polemica era pubblicata in «La Voce», I, 7, 28 gennaio 1909, p. 28. Su An-
zilotti, animatore del dibattito storiografico e politico della «Voce», si veda E. GENTILE, “La Voce” e l’età giolittiana, cit., pp. 170 ss.; G. SOFRI, Ritratto di uno storico: Antonio Anzilotti, in «Rivista Storica Italiana», 1961, 4, pp. 699 ss.; ID., Due lettere di Delio Cantimori su Antonio Anzilotti, in Dal mondo antico all’età contemporanea. Studi in onore di Manlio Bragaglia offerti dal Dipartimento di Storia dell’Università di Sassari, Roma, Carocci, 2001 pp. 859 ss. Si veda anche, B. FAROLFI, Sul “ritorno” di Antonio Anzilotti, in «Studi Storici», 1965, 1, pp. 120 ss. 166 Antonio Anzilotti a Giuseppe Prezzolini, s. d. [gennaio 1909], AGP: «Egregio direttore, Ella volle suggerirmi l’argomento d’un articolo per La Voce, e cioè una corsa nel campo della storiografia realistica da Salvemini a Caggese; ed io già lo avevo pensato e volevo proporglielo. Poiché mi occorre riguardare qualche cosa ho ancora bisogno di tempo per poter lavorare con serietà». 167 A. ANZILOTTI, La storiografia realistica, «La Voce», 15, 23 marzo 1909, 25, ora in ID., Momenti e contrasti per l’unità italiana, cit., pp. 333 ss., in particolare p. 335.
116
GLI ANNI DELL’ATTESA
allo spirito di sistema e alla supponenza sociologica, che aveva sedotto altri cultori delle discipline storiche. Nemico delle gerarchie nello studio dei fenomeni sociali, delle formule, care ad economisti e sociologi, Volpe ha messo in guardia contro le affrettate deduzioni dei semplicisti, sostenendo che far opera di storico non è costringere i fatti del passato entro caselle teoriche, ma studiare manifestazioni dell’attività umana, tutte quante rampollanti dalla struttura economica, ma poi differenziate, intrecciate, sottraentisi spesso al freno di una valutazione obiettiva e di una sistemazione. […] Non così è avvenuto per altri: il desiderio di ridurre a sistema e di assurgere alle grandi teorie con preconcetti intellettuali ha avuto certe volte il sopravvento. Così Gino Arias, che pur si è mostrato un sagace analizzatore di fenomeni economici, è passato dal campo dell’economia a quello della storia, con tutto il bagaglio del formulario scientifico, sotto il quale spesso la complessità dei fatti sociali è soffocata. I giovanissimi sono stati, insomma, più audaci teorizzatori: fra essi Romolo Caggese, che ha felicemente allargato le nostre conoscenze della vita economica del contado e dei più piccoli Comuni, si è fatto prendere la mano un po’ dalle facili generalizzazioni sociologiche e dal bisogno irrequieto di correre presto alla sintesi168.
Questa forma di raffinatissima promozione, e quasi di réclame, continuava, nel mese di agosto, con una dettagliato resoconto del lavoro sul Comune pisano, dove forse era contenuta la migliore definizione della storiografia di Volpe, tutta giocata «sull’intuizione rapida dei moventi intimi e realistici, il vittorioso sforzo di oltrepassare le spiegazioni empiriche, meccaniche, teoriche, l’abile tendenza ad evitare lo schematismo, i freddi formulari, che incatenano e soffocano la storia e la non comune maestria nel notare feconde connessioni e nell’abbracciare l’unità della vita storica»169. Una storiografia, avrebbe più tardo concluso Anzilotti, sicuramente originalissima e tale da non essere mai perfettamente definibile, secondo genealogie o tendenze di scuola, ma che pure molto doveva alla lezione dell’idealismo crociano, che aveva sollevato il livello degli studi fuori dallo «stadio più grettamente positivista e agnostico», per dare avvio a «una storia interiore, capace di mostrarci il ritmo dello spirito nostro e della nostra civiltà nel tempo»170. Se il non vociano Volpe era parso, dunque, poter essere lo storico della «Voce», egli non aveva mai cessato, però, di essere anche e soprattutto lo storico della «Critica», come confermava il suo carteggio con il 168 Ivi, pp. 337-338. 169 ID., Uno storico dell’Italia medievale: Gioacchino Volpe, in «La Voce», I, 5 agosto
1909, 15, p. 138 ss. 170 ID., Storia e storiografia d’Italia, in «La Voce», 22, 28 novembre 1914, pp. 18 ss., poi in ID., Momenti e contrasti per l’unità italiana, cit., pp. 353 ss.
PASSATO E PRESENTE
117
filosofo napoletano, sempre più intellettualmente vivace, ma a tratti anche assai cordiale sul piano delle relazioni personali e tale da lasciare spazio a sentimenti amichevoli, che coinvolgevano anche le famiglie dei due intellettuali171. Su tutto domimava però il problema della storia. E, a Croce, Volpe tornava a parlare dei suoi progetti di lavoro e ancora delle sue vicende accademiche, come accadeva nella corrispondenza dell’aprile 1910. Degli altri lavori miei non posso dirvi che siano molto avanti. Passano i mesi e gli anni, se ne allarga il disegno; ma ancora non sento venuto il momento di raccogliermi e stendere l’opera. Ora sto pensando ad un volume dedicato alle giurisdizioni ecclesiastiche e rapporti Stato-Chiesa nelle città toscane. Sarebbe una raccolta di documenti preceduta da articoli dedicati a ciascuna di quelle città. Per il suo carattere, questo volume forse sarà pubblicato fra le Fonti per la storia d’Italia dell’Istituto storico italiano, o in uno dei Bullettini dell’Istituto stesso. Così utilizzerò un materiale raccolto quando ero in Toscana e che non potrebbe trovar accoglienza se non in piccola parte in un lavoro d’insieme, come mi è venuto maturando negli ultimi due anni, in seguito a ricerche estese a tutta l’alta e media Italia. Il qual lavoro dovrebbe rivolgersi ad un pubblico un po’ più largo, pur essendo risultato di ampissime indagini e rappresentando un’opera originale. Se non fossi continuamente distratto o da altri lavori o da cure estranee al lavoro, queste “giurisdizioni” sarebbero ora già compiute. Ma dentro il 1911 io spererei di esserne fuori e di potermi riposare un anno, fra altre letture. Ho fiducia che l’opera non sarà senza qualche pregio; ma non sempre questa fiducia mi sorregge e quelli non sono i miei momenti migliori. Due mesi fa ebbi la tentazione di trasferire a Pisa le mie tende. Mi sollecitavano i colleghi ed anche il bisogno mio di conquistar l’ordinariato, qui non so quando raggiungibile. Ma poi… non ne feci nulla. Pisa non vale Milano e poi non volevo mettermi di nuovo sulla strada di Salvemini172.
Nessuno dei due progetti, né quello editoriale né quello accademico sarebbero mai venuti alla luce. Il lavoro annunciato, che avrebbe molto occupato Volpe negli anni a venire, si sarebbe ridotto, dopo innumerevoli difficoltà editoriali, soltanto a due monografie dedicate a Volterra e Luni completate alla fine del 1910173, che, insieme ai saggi su 171 Gioacchino Volpe a Benedetto Croce, Santarcangelo di Romagna, 16 luglio 1910: «Volentieri verrei a Cesena, se non fossi pressato ora qui da una folla di piccole faccende arretrate. Ma perché non manda lei ad esecuzione il disegno di una rapida corsa a S. Arcangelo? Scelga un bel pomeriggio, e anche senza avvisarmi in precedenza, venga qui, solo o, se ha costà la signora, con essa. Qui non v’è molta roba da vedere, ma varrà la gita come tale. Noi stiamo fuori paese, a 2 chilometri». 172 Gioacchino Volpe a Benedetto Croce, Milano, s. d. [ma aprile 1910]. 173 Si veda la testimonianza dello stesso Volpe, in Chiarimento e giustificazione, cit., pp. IX-XI, dove si parla di «una mia lunga fase di lavoro volto ad illuminare i rapporti tra Sta-
118
GLI ANNI DELL’ATTESA
Montieri e Massa di Maremma del 1908 e del 1913174, dovevano costituire le premesse di quella che avrebbe dovuto essere la ben più complessa indagine dedicata a Stato e Chiesa nelle città medievali, che non sarebbe mai stata realizzata175. Non si concretizzava, come comunicato a Croce, anche la possibilità di ottenere il trasferimento nella Facoltà pisana, dove Salvemini aveva ottenuto, nell’anno accademico 1909-1910, l’incarico di storia moderna, pur mantenendo la titolarità di Messina. Il rifiuto di Volpe di scendere in lizza contro il nobile sconfitto del 1905, annunciato nella corrispondenza con lo stesso Salvemini176, veniva meto e Chiesa nelle città italiane, vale a dire la società comunale tutta quanta, osservata da un particolare ma assai comprensivo punto di vista». Il passo così prosegue: «L’opera così ideata rimase nella penna: ma parte, piccola parte, dei materiali accumulati io utilizzai per una serie di studi su le minori città toscane, di cui il primo, Per la storia delle giurisdizioni ecclesiastiche, delle istituzioni comunali, dei rapporti Stato-Chiesa nelle città medioevali, dedicato a Massa di Maremma, vide la luce negli Studi Storici del compianto mio maestro Amedeo Crivellucci; ed altri due, accettati nel 1910 dalla R. Deputazione di Storia Patria per la Toscana, finiti di stampare fra il 1913 e il 1914, rimasti lì per colpa non mia anzi con molto mio cruccio a stagionare per otto anni, solo ora vedranno la luce per cura della Voce fiorentina, in due volumi dal titolo: il primo Volterra; il secondo Lunigiana medioevale (Storia di Vescovi-Signori, d’istituti Comunali, di rapporti Stato-Chiesa nelle città italiane nei secoli XIXV)». Sul disappunto di Volpe per quell’indugio, che si sarebbe interrotto solo nel 1923, con la pubblicazione dei due volumi, si veda la lettera a Prezzolini del 9 ottobre 1921, AGP: «Fra qualche mese apparirà anche il 2° volume di scritti vari, che tu, se ricordi, volevi pubblicare con la Voce. La Voce poi mi fece aspettare tre anni, e io mi rivolsi altrove. Ah quella Voce! Ah quel Baldasserani! Se fossero stati degli estranei o dei nemici non mi avrebbero trattato così male, così dispettosamente, come hanno fatto. Sai che da due anni hanno acquistato dalla R. Deputazione di Storia patria di Toscana due miei volumi di ricerche, già stampati dal 1913 e mai pubblicati per la guerra che sopraggiunse, e non hanno voluto metterli fuori? Fra Deputazione e Voce mi han fatto mangiare bile in quantità!» 174 G. VOLPE, Montieri: costituzione politica, struttura sociale e attività economica d’una terra mineraria toscana nel secolo XIII, in «Vierteljahrsschrift für Sozial-und Wirtschaftsgeschichte», 1908, pp. 108 ss.; ID., Per la storia delle giurisdizioni vescovili, della costituzione e dei rapporti tra Stato e Chiesa nelle città medievali, in «Studi Storici», XXI, 1913, pp. 240. I due saggi sarebbero entrati a far parte di Medio Evo italiano, cit. 175 Si veda la lettera a Giovanni Gentile del 30 maggio 1918, AFG: «Ho anche da riprendere in mano la mia mezza tonnellata di appunti intorno allo Stato e Chiesa nelle città medievali, cioè, intorno alla storia medievale delle città guardata da quell’angolo visuale: quindi laicato e sua coltura e sua economia e tutto quello per cui esso si mette in un certo determinato atteggiamento di fronte ai chierici e alla chiesa e trasforma vecchi istituti. In proposito, sul Bullettino della Biblioteca Filosofica di Firenze, è un riassunto delle mie conferenze, 5 o 6 anni fa. Da allora il lavoro è interrotto, per quanto abbia inteso svolgere alcuni punti particolari o, meglio, talune di quelle questioni in taluni ambienti circoscritti». 176 Sul rifiuto di Volpe di ostacolare Salvemini, si veda la lettera del 6 dicembre 1909 in G. SALVEMINI, Carteggio, 1907-1909, cit., p. 387: «Caro Salvemini, ieri mi giunse, respintami da Milano, la tua lettera. Oggi, poi, Gentile mi dice che l’8 tu verrai a Roma. Così parleremo a nostro agio. Ma fin da ora ho, dopo qualche tergiversazione, deciso: non ti attraverserò la via: se potrò, anzi, ti aiuterò». Sul punto, si veda anche Giovanni Gentile a Donato Jaja, Roma, 22 novembre 1909, in G. GENTILE-D. JAJA, Carteggio, a cura di M. Sandi-
PASSATO E PRESENTE
119
no più tardi, quando, Pisa decideva di procedere alla messa a concorso della cattedra177. In quella prova, Salvemini sarebbe risultato vincitore, con un giudizio che però non mortificava Volpe e che appariva quasi la riparazione per un antico torto piuttosto che esprimere una vera e propria preferenza scientifica nell’analisi comparativa del valore scientifico dei due candidati. La relazione finale, redatta da Crivellucci, Falletti, Romano, Fedele, insieme al paleografo Luigi Schiapparelli, faceva troppo scoperto riferimento, infatti, alla «terribile catastrofe che in un attimo distrusse la fiorente famiglia di Salvemini» e proseguiva, con qualche incongruenza, sostenendo che «se altri concorrenti possono gareggiare con lui in acutezza critica e profondità di cultura e taluno anche superarlo in abbondanza di produzione prettamente storica, egli è indubbiamente quello che tutti li supera per la larghezza della visione storica e per la maturità e la limpidezza del pensiero e per le doti insigni di scrittore»178. Volpe avrebbe ottenuto la nomina a ordinario, dopo un altro biennio, con non poco ritardo, rispetto alla tradizionale tabella di marcia accademica, essendo trascorsi addirittura quattro anni dalla conclusione del periodo di straordinariato. Nonostante i tentativi compiuti da Novati, nell’aprile del 1909 e poi nel giugno del 1910, per accelerare il passaggio di ruolo179, solo alla fine di marzo del 1913, l’evento si compiva. In quella data la commissione, composta da Cipolla, Fedele (in sostituzione di Crivellucci che, significativamente, aveva dichiarato la sua indisponibilità a valutare l’antico allievo), Romano, Schiapparelli, Camillo Manfroni, che figurava come relatore, esprimeva un giudizio collegiale, sicuramente lusinghiero, nel quale si riconosceva il «vasto e robusto ingegno» del candidato, si faceva riferimento alle «speciali condizioni dell’organico della R. Accademia scientifico-letteraria, che non gli permisero fin qui di chiedere la promozione», ma dove si evidenziava anche la non grande abbondanza dei titoli prodot-
rocco, Firenze, Sansoni, 1969, 2 voll., II, pp. 334-336: «Non so se a Pisa aspiri anche il nostro Volpe: ma sono certissimo che questi, sapendo che vi aspira il Salvemini, il quale, per motivi di carattere personale e politico, non sarebbe stato mai chiamato al suo posto a Milano, desisterebbe senz’altro dalla domanda». 177 Gioacchino Volpe a Benedetto Croce, 1 giugno 1910, ABC: « Non è difficile che io prenda parte al concorso aperto per Pisa (fino al 10 luglio), se qui, come pare, non si aprirà per me nessuna via all’ordinariato. A Pisa rifiutai nell’inverno scorso l’offerta che mi fu fatta di quella cattedra per non fare il gioco di quelli che ostacolavano colà la venuta di Salvemini. Ma col concorso è un altro paio di maniche». 178 Bollettino Ufficiale del Ministero della Pubblica Istruzione, II, n. 29, 6 luglio 1911, pp. 2391-2398. 179 Sul punto, M.L. CICALESE, La luce della storia. Gioacchino Volpe a Milano tra religione e politica, pp. 70-71.
120
GLI ANNI DELL’ATTESA
ti180. Manchevolezza, questa, che lo stesso Volpe, riconosceva, nella relazione inviata agli esaminatori, dove, nondimeno, se si ammetteva francamente di aver presentato una «mole non grande di lavoro», si affermava pure, con uno scatto di insofferenza, di ritenere di «aver fatto il suo dovere verso gli studi e la scuola più che lo Stato non abbia fatto il suo verso di lui!!!». Nel dettaglio dei singoli resoconti, tuttavia, l’apprezzamento dei giudici accademici appariva molto più chiaroscurato. Non piacque del tutto, infatti, o addirittura dispiacque agli esaminatori, il Volpe eresiologico, sebbene quel dissenso venisse espresso diversamente e con diversissime sfumature. Carlo Cipolla, in una relazione avara e ingenerosa, che metteva soprattutto in evidenza le differenze tra il giovane storico e i vecchi maestri della storiografia erudita, sosteneva, in relazione al saggio del 1907, che «non si può certo dire che vi siano dentro molte novità scientifiche, trattandosi più che altro di un lavoro compilazione». Anche Fedele prendeva qualche distanza dall’«ampio quadro sintetico sugli Eretici e moti ereticali», riconoscendo, in ogni caso, che «tra affermazioni non sempre dimostrate e accettabili, troviamo pure pagine splendide». Su quel giudizio ambivalente, si accordavano i pareri di Romano, di Schiapparelli, di Manfroni, il quale, da ultimo, parlava di «conclusioni un po’ ardite e non sufficientemente documentate». Maggiore apprezzamento ebbero i contributi, che meglio e in maniera più tradizionale si uniformavano al metodo dell’indagine economico-giuridica: i saggi di microstoria sui piccoli Comuni toscani, presentati ancora in bozze o in manoscritto, che, in buona parte, costituivano la premessa alla più ambiziosa sintesi sulle giurisdizioni ecclesiastiche, la quale avrebbe dovuto essere ultimata nel 1914, secondo il piano di lavoro futuro che Volpe aveva comunicato alla commissione. In riferimento a quei risultati e a quei progetti il giudizio dei commissari si faceva più generoso, come specialmente testimoniava la relazione di Pietro Fedele. Nei più recenti lavori sulla Storia delle giurisdizioni vescovili, della Costituzione comunale e dei rapporti fra Stato e Chiesa nelle città medievali, si rivela l’ingegno forte ed acuto dell’autore che, giovandosi di un’eccellente preparazione economica e giuridica indaga sottilmente, e spesso con una preparazione singolare, i rapporti fra il mondo dello spirito e quello dei fatti esterni della vita, fra le istituzioni e le condizioni economiche di una parte della Toscana nell’età comunale e precomunale. Fra questi lavori merita particolarmente di essere ricordato quello su Montieri, che ci svela nel Volpe un aspetto nuovo della sua
180 Estratto dal Bollettino Ufficiale del Ministero della Pubblica Istruzione, n. 44, 23 ot-
tobre 1913, in ACS, Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione Generale Istruzione Universitaria (d’ora in poi; MPI-DGIU), fascicolo G. Volpe, a cui si fa riferimento, per tutte le altre citazioni, riguardanti le carte concorsuali e i relativi allegati.
PASSATO E PRESENTE
121
personalità di studioso. Egli ha piegato qui l’ingegno dotato di una vigorosa forza di sintesi all’analisi minuta e paziente di documenti e di fatti che dimostrano in quella piccola terra di Toscana, ricca di miniere, come le vicende ed influenze politiche siano strettamente legate con l’economia mineraria della regione. Questo lavoro di argomento non facile e ricco di risultati nuovi e di documenti preziosi, anche per la storia della nostra lingua, basterebbe da solo a riconfermare al giovane studioso quella fama, che già gli studi precedenti e soprattutto la profonda ed originale monografia sulle Istituzioni comunali a Pisa gli avevano procurato. Gli studi sui rapporti fra Chiesa e Stato nelle città medievali, dei quali ora ha presentato i due notevolissimi saggi, che riguardano principalmente i rapporti tra Vescovi e Comuni in Volterra ed in Massa Marittima, si aggirano pur sempre intorno all’argomento prediletto dal Volpe: indagare nei secoli fondamentali per la storia d’Italia (XI-XIII secolo) i vari elementi e le varie correnti della nostra vita sociale. Ma nessuno può negare ad essi la lode più alta che uno studioso possa desiderare: quella di aver segnato, sia pure in un solo campo, una via non prima seguita e di aver proposto all’indagine e alla meditazione degli studiosi nuovi problemi.
Questa analisi, per molti versi condivisibile, aveva il grosso, ma inevitabile, limite di considerare Volpe unicamente come storico dell’età medioevale, proprio nel momento in cui i suoi orientamenti di ricerca andavano spostandosi in un panorama più largo e più vicino ai tempi presenti. Tra 1912 e 1914, mentre tentava di raccogliere presso la Biblioteca di Cultura moderna di Laterza una scelta dei suoi scritti medievistici, apparsi a partire dall’inizio del secolo181, Volpe andava progettando, per la libreria della «Voce», su impulso di Prezzolini e con la collaborazione di Anzilotti, il piano editoriale di una Storia d’Italia, che si sarebbe dovuto inoltrare fino alla fine del XIX secolo182. Costituiva la ba-
181 Gioacchino Volpe a Benedetto Croce, Milano, 9 luglio [1912]: «Ho avuto un’idea che voglio sottoporre al vostro giudizio. Dico meglio: l’idea è di Casati ed io l’ho fatta mia. Penserei di raccogliere in un volume alcuni piccoli scritti miei ora spersi in riviste, dei quali ricevo continuamente domanda, sebbene di estratti non ne abbia più da un pezzo. Di questi scritti lei ne conosce taluni, perché apparsi nella Critica: Bizantinismo e Rinascenza, le rassegne dell’Arias, Caggese, Einaudi e Prato, l’articolo su l’Insegnamento della storia ecc. Piccole cose, ma mi sembra che meritino di riapparire infine in un volume, perché vi sono là alcune idee informative di tutta la mia attività di studioso e di insegnante: modesta attività mia che mi pare tuttavia non sia stata invano per molti giovani che vengono su adesso, di 10 anni più giovani di me. Agli scritti che ho ricordato sopra ne aggiungerei altri 4 o 5 che pur non essendo rassegne e pur non indugiandosi su questioni generali, studiano talune istituzioni o taluni aspetti della società medievale». Il progetto non avrebbe avuto esito, come si evince dalla lettera del 12 novembre [1913], ivi: «Di quel volume che raccoglierebbe alcuni miei scritti apparsi su la Critica e altrove, non ne ho poi fatto più nulla. Il Laterza finì col dirmi che volumi di studi vari non vanno. Forse cercherò altrove». 182 E. DI RIENZO, Storia d’Italia e identità nazionale. Dalla Grande Guerra alla Repubblica, cit., pp. 15-16.
122
GLI ANNI DELL’ATTESA
se di questo mutato interesse, il commento ai saggi di Giovanni Prato, sulla fine dell’antico regime economico, al tramonto del XVIII secolo, apparso nel 1910, che preludeva, già decisamente, alle più estese conclusioni della nota-recensione sul lavoro di Italo Raulich del 1921 e alle lezioni milanesi di storia del Risorgimento per l’anno accademico 1919-1920183, dove, in ambedue i casi, l’età rivoluzionaria e il moto unitario venivano considerati, in alternativa alla vulgata interpretativa giacobina e risorgimentista, come eventi, che trovavano il loro autentico significato, unicamente a condizione di essere collocati nella secolare continuità della storia italiana184. L’interesse per la contemporaneità vicina e più distante era certamente comune a molti altri storici italiani di questo periodo, ma in Volpe si configurava come qualcosa di più di un semplice sfondamento cronologico, sia pure motivato, come in Salvemini, Pietro Silva, Raffaele Ciasca, lo stesso Giustino Fortunato, dalla necessità di rendere attivo il sapere storiografico nella costruzione politica e civile della nuova Italia, per quello che riguardava l’analisi delle «origini nazionali» e il contributo alla soluzione dei suoi problemi più antichi e odierni185. Per Volpe, quell’allontanamento dalla «storia lontana» e il sempre più deciso approssimarsi alla «storia recentissima» e addirittura alla «storia in divenire», che aveva già, a detta di un testimone oculare, contraddistinto il suo insegnamento, al di là della scelta tematica dei corsi, mai oltrepassanti il XIV secolo186, si presentava infatti come l’improcrastinabile necessità di realizzare una saldatura tra attività speculativa e attività pratica, tra storia e azione. La risposta a questa urgenza poteva venire da Croce, che, nella memoria del 1912, Storia, cronaca e false storie187, aveva intrapreso una dura polemica contro il «procedere senza verità e senza passione, che è proprio della storia filologica», definendo, per contro, «il concetto rigorosamente speculativo della storia attuale e contemporanea», in virtù della quale sembrava possibile annullare la differen183 Si veda. G. Volpe, recensione a ITALO RAULICH, Storia del Risorgimento politico d’Italia, Bologna, 1921, in «La Critica», 1922, in ID., Momenti di storia italiana, cit., pp. 223 ss.; ID., Lezioni milanesi di storia del Risorgimento, a cura di B. Bracco, Bologna, Cisalpino, 1998. 184 Sul punto, rispettivamente, E. DI RIENZO, Rivoluzione francese e storiografia italiana, in «Nuova Storia Contemporanea», 2007, 1, pp. 133 ss., in particolare pp. 144 ss. 185 M. SIMONETTI, Risorgimento e Mezzogiorno alle origini della storiografia contemporanea in Italia. Pietro Silva e Raffaele Ciasca fra “La Voce” e “L’Unità”, 1911-1915, in «Atti e memorie dell’Accademia toscana di Scienze e Lettere “La Colombaria”», XXXVIII, 1973, pp. 215 ss.; F. BARBAGALLO, Le origini della storia contemporanea in Italia fra metodo e politica, in «Studi Storici», 29, 1988, 3, pp. 567 ss. 186 G. MIRA, Memorie, cit., p. 70. 187 B. CROCE, Teoria e storia della storiografia, cit., pp. 3 ss.
PASSATO E PRESENTE
123
za tra passato e presente, nel senso che «il pensiero che pensa la storia», e che la fa presente e attuale, risolveva in sé medesimo il passato e ne disponeva fino al punto che il dato documentario diveniva una semplice occasione esterna e quasi un mezzo per attuare «quella vitale evocazione interiore», nel cui processo i presupposti estrinseci della ricerca (la «collection des faits») finivano per essere contenuti, risolti e oltrepassati. Da questo punto di vista, allora, la «storia contemporanea» non era veramente la «storia di un tratto di tempo, che si considera come un vicinissimo passato» ma soltanto quella «che nasce immediatamente sull’atto che si viene compiendo, come coscienza dell’atto». Remota o vicinissima, nel suo contenuto temporale, ogni vera storia, distinguendosi dalla falsa storia, che era soltanto «cronaca» e quindi «storia non più pensata ma ricordata nelle astratte parole», balzava direttamente dalla vita e direttamente dalla vita sorgeva, in quanto era evidente «che solo un interesse della vita presente ci può muovere a indagare un fatto passato, il quale, dunque, in quanto si unifica con un interesse della vita presente, non risponde a un interesse passato, ma presente». In Croce, comunque, questa esigenza di articolare la ricostruzione del passato intorno a un’intuizione dello spirito, che fosse in grado di rimandare costantemente alla «storia dei propri tempi», si circondava di tante e tali cautele, da riprodurre, seppur a livello di più alta consapevolezza, la tradizionale disgiunzione tra passato e presente, necessaria a evitare l’errore dell’anacronismo storico e a rivalutare, invece, in tutta la sua pienezza, il momento filologico, l’acquisizione e la verifica del documento, come fonte imprescindibile del lavoro storiografico. Se ogni vera storia, infatti, finiva per essere storia contemporanea, se essa era sempre, almeno implicitamente, «autobiografia del presente» dal quale si è mossi per ripensare il passato, pure, questa imprescindibile tensione ideale non poteva comportare l’assoluta e arbitraria plasmabilità del passato secondo una logica che derivava esclusivamente dai problemi e dalle esigenze della contemporaneità. Una «storia senza relazione con il documento», concludeva Croce, era una «storia inverificabile» e, dato che «la realtà della storia era in questa verificabilità», la narrazione storica poteva dirsi tale solo in quanto basata sull’«esposizione critica del documento (intuizione e riflessione, coscienza e autocoscienza)», senza la quale «ogni storia, priva di significato e di verità, sarebbe inesistente proprio come storia»188. Questa preoccupazione, in parte, almeno, non perfettamente congruente con i presupposti teorici più profondi, che il saggio del 1912 di188 Ivi, p. 6. Sul punto, G. GALASSO, Niente altro che storia. Saggi di teoria e metodologia della storia, Bologna, il Mulino, 2000, pp. 45 ss.
124
GLI ANNI DELL’ATTESA
spiegava189, era già emersa, nel 1903, quando Croce aveva preso le distanze dalle posizioni espresse da Karl Lamprecht, nella prefazione alla Deutsche Geschichte del 1881, tradotta e pubblicata sulla «Revue de synthèse». A Lamprecht, che sosteneva che il lavoro storico non poteva pretendere l’imparzialità, perché ogni epoca modellava il suo passato e costruiva il proprio punto di vista dal quale esaminare la propria storia, il direttore della «Critica», replicava, concordando con le premesse più generali, per quello che riguardava il rifiuto dell’identificazione rankiana tra erudizione e storia e la convinzione che, in ultima analisi, si potesse raggiungere «non la verità dei fatti, ma soltanto il vero dai fatti», ma mettendo in evidenza anche le incontrollabili linee di fuga che tale assunto comportava190. Dietro le affermazioni dello storico tedesco, Croce scorgeva infatti il bagliore lontano, ma ancora persistente, di una tendenza antistoricistica, che aveva germinato vigorosamente nella cultura tardo romantica, e che aveva trovato compiuta espressione nelle considerazioni Sull’utilità e il danno della storia della vita di Friedrich Nietszche, laddove, una volta postulato l’obbligo «di usare il passato per la vita e di trasformare la storia passata in storia presente», per consentire all’uomo di non disperdere la sua umanità nell’«eccesso di storia», si passava a sostenere che «il passato e il presente sono la stessa e identica cosa, cioè tipicamente uguali in ogni varietà, e costituiscono, come onnipresenza di tipi non transitori, una struttura immobile di valore immutato e di significato eternamente uguale»191 Ma cacciato dalla finestra, con Lamprecth e con Nietszche, il problema rientrava dalla porta con l’attualismo di Gentile e della sua scuola, che rimettevano in stretta comunicazione res gestae e historia rerum (storia agita e sua narrazione), come accadeva nell’omonimo saggio di Omodeo del 1913192. In quel contributo, si sosteneva appunto che «il
189 F. TESSITORE, Omodeo tra storicismo e storicismo, in ID., Storiografia e storia della cultura, Bologna, Il Mulino, 1990, pp. 171 ss., in particolare pp. 174-175. 190 B. CROCE, recensione a «Revue de synthèse historique», cit., pp. 52-53. 191 F. NIETSZCHE, Sull’utilità e il danno della storia della vita, a cura di G. Colli, Milano, Adelphi, 1974, pp. 11 e 14. 192 A. OMODEO, Res gestae e historia rerum, in «Annuario della Biblioteca filosofica» di Palermo, II, 1913, pp. 1 ss., ora riprodotto in «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Napoli», VI, 1975-1976, XVIII, pp. 147 ss. Si veda naturalmente, G. GENTILE, Sistema di logica come Teoria del conoscere, Firenze, Le Lettere, 19875, II, p. 278: «Uno dei riflessi della logica astratta del logo astratto è la distinzione corrente di storia (res gestae) e storiografia (historia rerum gestarum): della quale convien qui subito disfarsi per attingere nella logica del concreto la realtà, in cui sono solidamente impiantate, e devono impiantarsi, storia e storiografia». E ancora, ivi, p. 282-283: «Una distinzione c’è, ma non tra storia e storiografia: bensì tra la forma e il contenuto della storiografia, tra soggetto ed oggetto dell’attività storiografica: una distinzione cioè puramente interna alla storiografia, la
PASSATO E PRESENTE
125
fare nostro è il nostro creare simultaneo della nuova storia, della gesta nuova, ed è l’historia che in quella gesta si rivaluta», rimandando con precisione a Gentile che, già nel 1899, aveva annunciato la necessità di risolvere la storiografia nella storia, dispiegandosi ambedue quelle attività nell’unità produttiva dello spirito, per poi, senz’altro, sostenere che «la storia contemporanea è la storia di quel presente, che non si distende né nell’ultimo secolo, né nell’ultimo cinquantennio, né nell’ultimo lustro, e neanche nell’ultimo anno, o mese o giorno ora: ma si ritrae e raduna e unifica, consolidandosi nell’unità attuale del presente eterno, fuori del tempo, là dove si attua il pensiero»193. Nel punto delicatissimo, dove Croce sosteneva con forza che mai la storiografia avrebbe dovuto essere «giustiziera», ma sempre «giustificatrice», se non «facendosi ingiusta, ossia confondendo il pensiero con la vita, e assumendo come giudizio del pensiero le attrazioni e le repulsioni del sentimento»194, Omodeo ribatteva che un’analisi del passato, ispirata a questi principi, si sarebbe risolta nella passività e nel quietismo, non perché lo storico dovesse essere giudice o moralistico sentenziatore, ma in quanto «nella storia il giudizio non è vana parola contro vane ombre del passato, ma è la sentenza che si attua, il giudizio che incide perpetuo nella storia stessa»195. Che Volpe abbia potuto seguire questa tesissima polemica teoretica, che si andava svolgendo sotto i suoi occhi, in tutti i dettagli e in tutte le conseguenze, pare veramente impossibile. E milita in primo luogo contro questa ipotesi la sua estraneità alla filosofia di Gentile, la sua quasi ostilità alle teorie oscure del «filosofo-filosofo» totalmente incurante, a parziale differenza di Croce, dei «fatti grossi della storia» e tendente a configurare una concezione generale del divenire, necessariamente ingabbiata nel sistema di una filosofia della storia poco predisposta a cogliere, a differenza di Volpe, anche il valore dei momenti della decadenza, della caduta, del regresso, dell’involuzione, della difformità nei confronti di un decorso logicamente preordinato, della laceraquale non potrà mai autorizzare a distinguere in re la materia storica dal racconto che la rappresenta, e tanto meno dai momenti ulteriori dell’attività storiografica». 193 ID., Il concetto della storia, cit.; ID., Sistema di logica come Teoria del conoscere, cit., II, p. 284: «La storia contemporanea è la storia di quel presente, che non si distende né nell’ultimo secolo, né nell’ultimo cinquantennio, né nell’ultimo lustro, e neanche nell’ultimo anno, o mese o giorno o ora: ma si ritrae e raduna e unifica, consolidandosi nell’unità attuale del presente eterno, fuori, del tempo, là dove si attua il pensiero». Sul punto, A. NEGRI, Il concetto attualistico della storia e lo storicismo, in Giovanni Gentile: La vita e il pensiero, a cura della fondazione Giovanni Gentile per gli studi filosofici, Firenze, Sansoni, 1962, X, pp. 5 ss. 194 B. CROCE, Teoria e storia della storiografia, cit., p. 77. 195 A. OMODEO, Res gestae e historia rerum, cit., pp. 148 ss.
126
GLI ANNI DELL’ATTESA
zione di una precedente sintesi196. Nel rapporto tra i due compagni della Normale – testimoniato da un fitto, pluridecennale, scambio epistolare, dove mai, o molto raramente, trovava posto, però, la riflessione sull’analisi del passato e le sue ragioni – è Gentile a risultare debitore di Volpe, e mai viceversa, se non altro per l’interpretazione della «modernità» della Rinascenza, in quanto fenomeno non riducibile al solo riecheggiamento dell’«antico» ma comprensibile solo a patto d’inserirlo nella lunga durata del Medioevo comunale italiano197. Inoltre, se ci si concentra sulla congruità delle citazioni testuali, ogni volta che Volpe si troverà a riflettere sul rapporto tra passato e presente, questo avverrà sulla falsariga dei dicta crociani. E se Volpe, in un contributo di grande pregnanza politica prima che storiografica, avrebbe sostenuto che «anche la storia conchiusa si rifonde nella vita, se questa è fortemente vissuta»198, questa apparentemente spericolata affermazione trovava in realtà, un precedente in Croce che aveva concluso, appunto, che «la storia morta rivive e la storia passata si rifà presente, via via che lo svolgimento della vita così richiede»199. Più tardi, nella difficile battaglia contro la degradazione propagandista, che rischiava di investire il mestiere dello storico durante la stagione della dittatura fascista, Volpe sarebbe nuovamente tornato a Croce, non per negare in modo assoluto il rapporto tra storia e politica, ma piuttosto per ammonire che il primo termine rischiava di essere fagocitato dal secondo, «come molto spesso accade, quando al passato si vuol dare il nostro volto, che perciò diventa maschera»200. Ciò detto, tuttavia, la necessità di instaurare un rapporto, che poi sarebbe risultato, ora virtuoso ora vizioso, tra passato e presente, avreb-
196 E. DI RIENZO, Gentile, Volpe e la Storia d’Italia, in Giovanni Gentile filosofo e pedagogista, cit., pp. 183 ss. 197 G. VOLPE, Bizantinismo e Rinascenza, cit., p. 114: «Chi studia l’XI e il XII secolo vede che proprio all’inizio di quella che sarebbe la prima e legittima fase della Rinascenza, già si vedono più che in germe tutti quegli elementi di coltura, quelle forze ideali, quelle inclinazioni mentali che, poi, con maggiore rilievo, ma senza nessuna soluzione di continuità, appaiono in forma di prodotti riflessi e concreti, nella così detta seconda e malaugurata fase». L’influsso di questo saggio su Gentile, per la stesura della Storia della filosofia italiana: (fino a Lorenzo Valla) del 1915, è ampiamente analizzata, anche sulla base dell’esame del manoscritto originale dell’opera, da A. SCAZZOLA, Giovanni Gentile e il Rinascimento, Napoli, Vivarium, 2002, pp. 190 ss. 198 G. VOLPE, 21 aprile. Roma e l’Italia, in «Gerarchia», I, 25 aprile 1922, 4, pp. 173 ss. Il testo è riprodotto in appendice al mio, Storia d’Italia e identità nazionale, cit., pp. 220 ss. 199 B. CROCE, Teoria e storia della storiografia, cit., p. 15. 200 G. VOLPE, Motivi ed aspetti della presente storiografia italiana, in «Nuova Antologia», novembre-dicembre, 1932, ora in ID., Nel regno di Clio, cit., pp. 60 ss., p. 71.
PASSATO E PRESENTE
127
be interessato Volpe anche al di là del lecito e del necessario, o almeno di quel lecito e necessario che la dottrina crociana aveva inteso delineare. Mai Volpe avrebbe sicuramente prodotto quella che Croce definiva «storia oratoria», «praticistica», la quale si subordina «ad un fine e cioè ad un atto pratico, e che si vale della recitazione della storia come di un mezzo»201, estraneo alla sua vera funzione, tramutandosi in «filosofia della storia» che, nella sue versioni «moderne o modernissime» rappresentavano «il corso storico come la corsa verso il regno della Libertà», come poi sarebbe accaduto proprio al filosofo napoletano202, e in alternativa «come il passaggio dall’Eden del comunismo primitivo verso il comunismo restaurato» o che «s’ispiravano ai vari nazionalismi ed etnicismi (l’italico, il germanico, lo slavo)»203. Piuttosto, Volpe avrebbe molto, troppo, concesso, a partire dal primo decennio del nuovo secolo, alla sua già ben radicata pregiudiziale patriottica, fino al punto di cadere nella colpa, a volte comunque felice, di voler sanare, per usare ancora le parole di Croce, la «frigida indifferenza della storia filologica», surrogando al «mancante interesse del pensiero, l’interesse del sentimento» e consentendo, però, a una nuova forma erronea di storia che è la «storia poetica», come accade nelle «biografia affettuose che si tessono di persone care e venerate», o ancora nella «storie che innalzano le glorie e piangono le sventure del popolo al quale si appartiene»204. Questa tendenza si faceva evidente, nel 1913, nell’ampio e sistematico resoconto dedicato ai lavori del Congresso internazionale di studi storici di Londra di quello stesso anno, la quale si sarebbe voluta pubblicare anche nella «Critica», ma che, proprio per la sua abnorme estensione, era destinata a restar confinata nelle pagine di «Archivio Storico Italiano»205. In quella rassegna, Volpe forniva un’accurata rassegna dello stato della storiografia europea, dove almeno per una volta largo spazio era concesso, accanto alla germanica, anche a quella francese e 201 B. CROCE, Teoria e storia della storiografia, cit., p. 32 202 F. CHABOD, Croce storico in ID., Lezioni di metodo storico, Bari, Laterza, 1969, pp.
250 ss., che parlava, a proposito di Croce, di «provvidenzialismo o progressismo storicistico di origine hegeliana», 203 B. CROCE, Teoria e storia della storiografia, cit., p. 58. 204 Ivi, p. 26. 205 Gioacchino Volpe a Benedetto Croce, Torino, 12 novembre [1913], cit: «Abbia la cortesia di dirmi – e , se non sono indiscreto, con la maggiore sollecitudine – se gradirebbe e accetterebbe per la Critica nov.-gennaio una breve relanzioncella del congresso internazionale di scienze storiche tenutosi a Londra nell’aprile scorso. Essa uscirebbe contemporaneamente, sebbene un po’ mutata nell’Archivio Storico Italiano, che mi diede incarico di questa relazione». Volpe aveva partecipato al Congresso in rappresentanza della R. Deputazione di Storia Patria per la Toscana e dell’Accademia milanese.
128
GLI ANNI DELL’ATTESA
francofona, con particolare riferimento agli studi di Pirenne sui progressi «capitalistici» dell’economia medievale, analizzati in alternativa allo spirito di sistema che aveva negativamente contraddistinto la sintesi di Sombart. Ma quello che soprattutto aveva colpito Volpe in quell’«adunata di storici», che pure era sembrata realizzare una sorta di entente cordiale intellettuale e quasi testimoniare plasticamente l’esistenza di una «comune patria» tra le repubbliche letterarie dei vari Stati che l’imminente conflitto avrebbe tragicamente diviso206, era il fatto che le storiografie nazionali della grandi Potenze si fossero presentate perfettamente attrezzate a rappresentare e a sostenere la propria espansione coloniale, la propria politica di forza e di supremazia anche sul piano strettamente militare. Indicazione, questa, di una tendenza che anche l’Italia doveva recepire e fare propria, cominciando a riflettere, senza complessi d’inferiorità, sull’audace «passato marinaresco» dei suoi Comuni medievali e anche sulla propria tradizione guerriera, «non certo ricchissima come storia di eserciti e di ordinamenti nazionali, ma sì come storia di condottieri, di costruttori di fortezze, di armi ritrovate e perfezionate, di milizie combattenti sotto estranee bandiere». Al compito di rafforzare l’identità nazionale, sul piano interno come su quello internazionale, non dovevano, infatti, sottrarsi neppure i cultori del passato dei piccoli o medi Stati del continente, come aveva dimostrato nell’appuntamento londinese l’attività dello storico romeno, Nicolae Iorga, che aveva saputo coniugare, nella sua importante relazione dedicata alle «bases nécessaires d’une nouvelle histoire du Moyen Age», attenzione «per i bisogni scientifici e insieme per preoccupazioni di ordine pratico», essendo questo studioso in grado di «guardare anche il presente nella sua attività di storico». L’incontro di Volpe con Iorga costituiva l’inizio di un’approfondita relazione fondata su molte convergenze e quasi similarità: lo stile impressionistico della scrittura, il rapporto «affettuoso», avrebbe detto Croce, col passato della propria terra, la concezione organicista della storia, la predilezione per le formi medievali di autonomia locale, la volontà di valorizzare la secolare coesione interna delle rispettive patrie, la polemica contro i mali di democrazia e parlamentarismo, la sensibilità per i profondi fermenti ideali capaci di mettere in movimento grandi mutamenti sociali. Ma soprattutto Volpe ritrovava in Iorga la sua stessa attenzione per l’elemento popolare, al di là di ogni precisa definizio-
206 Su questa grande illusione, che l’incontro londinese parve rappresentare, si veda K.D. ERDMANN, Toward a Global Community of Historians. The International Historical Congresses and the International Committee of Historical Sciences, 1898-2000, New YorkOxford, Berghahn Book, 2005, pp. 58 ss.
PASSATO E PRESENTE
129
ne economicistica, sociologica, etnicistica, come fattore primario dell’evoluzione storica di una nazione, sviluppata dallo studioso romeno nella sua Storia del popolo romeno nel quadro della sue formazioni statali, composta in tedesco nel 1905, che conteneva anche un non larvato appoggio alle rivendicazioni territoriali nei confronti dell’Ungheria207. A tutto questo si aggiungeva un profondissimo sentimento di simpatia per il nostro paese, bene testimoniato, da Iorga, nella sintesi dedicata alla Breve storia dei Romeni, con speciale considerazione delle relazioni con l’Italia del 1911, dove si evidenziava la secolare e mai interrotta tensione occidentale della Romania, che si era rivolta verso Venezia, fino al XVII secolo, e che ora si rivolgeva verso la «terza Roma», considerandola l’anello di congiunzione indispensabile, di un’«intesa latina» che avrebbe dovuto collegare, anche sul piano diplomatico e politico, l’Est e l’Ovest europeo, in funzione di contenimento della pressione slava e tedesca208. Questo insieme di affinità cementava una solidarietà scientifica e ideale tra i due storici, che si rinsaldava, subito dopo la fine dei lavori londinesi, quando Volpe inviava a Iorga una corrispondenza, quasi integralmente incentrata sulla più bruciante attualità politica e sulle modificazioni dello scenario internazionale, che l’aggravarsi della situazione balcanica, tra 1912 e 1913, aveva comportato per Italia e Romania: la prima, intervenuta diplomaticamente contro la Serbia, per evitare l’annessione dell’Albania, la seconda, scesa in campo militarmente contro la Bulgaria, a fianco di Grecia, Serbia, Turchia, ma ambedue ormai già scioltesi o sul punto di sciogliersi dai vincoli che le legavano agli Imperi centrali. Ho ricevuto l’opuscolo contenente le vostre due comunicazioni al Congresso, ho ricevuto i primi tre fascicoli del Bulletin e ve ne ringrazio vivamente. Io conoscevo la vostra Breve storia dei Rumeni, cara al mio cuore d’italiano. Ma non altro. Ora il Bulletin mi permette di valutare più adeguatamente l’importanza della vostra attività di storico della Rumania e la connessione in cui mettete la vita del passato e la vita presente del vostro paese, e lo sforzo che state compiendo per ricollegare quella storia e quella vita di un paese giovane con la storia europea in genere, latina in ispecie ed italiana più ancora. È una attività che a me interessa come studioso e anche come italiano, convinto come sono che i vincoli passati possano e debbano accrescersi, stringersi nell’avvenire, da fatto di natura diventar fatto dello spirito, fatto di consapevolezza e di volontà.
207 Sul punto, B. VALOTA CAVALLOTTI, Nicola Iorga, Napoli, Guida, 1977; F. GUIDA, Nicolae Iorga e il compimento dell’unità nazionale romena, in Atti del Convegno italo-romeno N. Iorga organizzato all’Istituto Romeno di Cultura di Venezia. 9-10 novembre 2000, a cura di I. Bulei e S. Marin, Bucarest, Casa Editrice Enciclopedica, 2001, pp. 111 ss. 208 R. TOMI, Nicolae Iorga e l’Italia, ivi, pp. 82 ss.
130
GLI ANNI DELL’ATTESA
Minacciati voi e anche noi da maree slave e germaniche, potremo saldarci ancora, pur da lontano, e far catena per essere più forti. Il contrasto degli interessi, determinato da troppa vicinanza e da comuni aspirazioni sopra vicini obietti, può render vana la affinità etnica, così tra noi e la Francia. Ma dove nessun contrasto di interessi esista, dove il campo di azione di due popoli è diverso e nessuna concorrenza può manifestarsi, allora il sangue può far valere le sue ragioni e, col sangue, l’affinità morale e culturale. Io ho seguito un po’ sui giornali nei mesi scorsi ciò che voi avete fatto per rendere più stretti i rapporti della Rumania con l’Italia. E mi son chiesto se non sia il caso di lavorare metodicamente e tenacemente a questo scopo, tanto costì quanto qui. Gli eventi balcanici e la parte da voi presa nella guerra ultima mi hanno fatto sempre più persuaso di questa opportunità. Non dissimulo che a qualcuno, da noi, il vostro intervento contro la Bulgaria non è apparso simpatico. È parso come una piccola mietitura sopra un campo da altri arato e seminato. Ci siamo tuttavia resi ragione dei moventi della vostra azione. La condotta temperata, poi, che la Rumania ha tenuto, l’energia con cui ha infranto ogni eccessiva cupidigia propria ed altrui, ci ha del tutto riconciliati a voi e ci ha mostrato un’altra affinità tra noi e voi. Anche noi, se siamo intervenuti nei Balcani, lo abbiamo fatto per infrenar cupidigie altrui, pericolose a noi e all’equilibrio dell’Europa del sud-est. Vorrei che tutti al mondo fossero profondamente persuasi che noi Italiani non abbiamo nessun desiderio di conquistare l’Albania, ma vogliamo solo che essa non diventi in mano di altri (Austria o Serbia o Grecia) un’arma contro le vicine e mal difendibili coste Italiane; vogliamo solo che essa non diventi un pretesto e occasione per l’Austria a piantarsi da padrona nella penisola dei Balcani. Noi e voi siamo intervenuti nella recente guerra non per sopraffare altri ma per impedire sopraffazioni ai danni nostri ed ai danni di altri il cui destino è un po’ legato al nostro. Sarà il nostro senso di equità; sarà la nostra innata temperanza; sarà la particolar condizione geografica e politica nostra; saranno tutte queste cause insieme che hanno determinato e che spiegano la nostra condotta e la vostra; certo il fatto, innegabile, è questo209.
Erano parole queste che rappresentavano un Volpe, dubbioso e molto esitante sulla possibilità di rompere o di modificare, senza danni per l’Italia, lo justum potentiae aequilibrium rappresentato dalle due grandi coalizioni continentali, a favore di una lega latina, che avrebbe dovuto comprendere, di necessità, anche l’odiosissima Francia. Un Volpe, consapevole della debolezza non solo militare dell’Italia e quasi fautore di una politica del «piede di casa» e delle «mani nette», che forse poco doveva gradire i sempre più stringenti interventi di Iorga che invitavano il governo di Roma ad attuare, al più presto, «il disfacimento
209 Gioacchino Volpe a Nicolae Iorga, Santarcangelo di Romagna, 10 settembre 1913, in N. IORGA, Scrisori Câtre. III. 1913-1914. Editie ingrjitâ de P. Turlea. Studiu introductivu de A. Pippidi, Bucarest, Editura Minerva, 1988, pp. 117-120.
PASSATO E PRESENTE
131
dalla innaturale relazione con l’Austria-Ungheria, sua rivale naturale nei Balcani, per tornare alle grandi, gloriose tradizioni medioevali» di penetrazione nel mare Adriatico e in direzione del Levante. Prima ancora che lo storico romeno formulasse questo perentorio invito, in alcune conferenze svolte presso l’Ateneo veneziano, durante il marzo 1914, dedicate a Venezia e la penisola dei Balcani e Il problema balcanico e l’Italia210, il collega italiano obiettava in questo modo alla proposta di un così radicale rovesciamento delle alleanze, che avrebbe compromesso quell’egemonia asburgica, che costituiva, in fin dei conti, la più salda garanzia per la sicurezza di molti Stati piccoli e medi, minacciati da gruppi nazionali ed etnici più potenti e più determinati nei loro progetti di espansione. Voi mi toccate, nella Vostra lettera, questioni vive e vitali per noi Italiani e per quanti popoli attorno all’Austria attendono la fine del multiforme impero per raggiungere una più perfetta unità. Ora, finita la guerra balcanica, alcuni giudizi vostri e nostri potrebbero forse essere mutati: ma io convengo su molte cose con Voi. Solo che io rimango sempre molto dubbioso ogni volta che si accenna alla possibilità, nel futuro, di un’unione di quei popoli per compiere, ai danni dell’Austria, le loro rivendicazioni nazionali. E mi chiedo, e con me si chiedono molti Italiani, forse anche dei Rumeni, dei Serbi, ecc.: sarà per noi, sarà per le piccole e mezzane unità etniche che si specchiano nel Mediterraneo centrale ed orientale o nel mar Nero, un bene che l’Austria si sfasci e metta noi direttamente di fronte ad enormi compagini tedesche e slave organizzate in politica unità? O non sarà una minaccia grave all’avvenire politico ed economico nostro? Noi italiani già sentiamo ai confini la pressione della massa germanica che ha i suoi centri non già a Vienna, ma a Monaco o Lipsia o Berlino; i balcanici e forse anche i Rumeni già sentono o cominceranno a sentire egual pressione, destinata a crescere rapidamente con l’orientarsi della politica germanica, coll’attuazione dei vasti piani tedeschi nella Turchia asiatica. L’Austria ci fa molti mali grandi e piccoli; ci irrita tutti un po’; ma l’Austria ci reca anche questo servizio: tiene lontana altra gente più forte, più unita, più prepotente; contempera bene o male gli interessi o certi interessi dei vari elementi etnici di cui è composta, e bene o male li costringe a lavorare insieme. Io non so se questo servizio sia grande per la Rumania come per l’Italia. Certo, credo che per l’Italia è grande, come è grande, per la stessa ragione, quello che ci rende la Svizzera, sebbene anche essa ci tolga poco meno che un milione di italiani e il dominio di certi valichi alpini che sono le porte di casa nostra. Ma ciò vuol dire che Italia e Rumania non hanno infiniti interessi in comune, anche di fronte all’Au-
210 Le due conferenze, segnalate sull’«Archivio Storico Italiano», venivano pubblica-
te in opuscolo col titolo, Orizzonte italiano. Tradizione nel sud-est europeo e missione latina, nel 1914, in Romania. Consultiamo questo testo nella ristampa del 1940, Bucarest, Istituto per lo studio dell’Europa sud-orientale.
132
GLI ANNI DELL’ATTESA
stria? No. Ed io mi auguro che la nostra e la ventura generazione lavorino nell’ambito di questi comuni interessi. Comuni interessi italo-rumeni in ispecie; e comuni interessi italo-balcanici in genere. Io son pieno di fiducia sull’avvenire dei piccoli e non grandi stati e popoli dell’Europa meridionale; ma penso non senza preoccupazioni alla crescente invadenza tedesca, alle tendenze espansioniste dello slavismo russo211.
Neppure il radicato, ma mai velleitario, irredentismo di Volpe pareva, dunque, poter costituire la spinta sufficiente ad assecondare le pulsioni che congiuravano a scardinare lo status quo continentale, e che un consapevole realismo politico doveva, invece, proporsi di sopire, neutralizzare, deviare dal loro corso. Ma questa politica di prudenza non rischiava contestualmente di eternare la situazione di inferiorità dell’Italia sullo scenario internazionale, non la privava, una volta per tutte, della possibilità storica di realizzare il compimento del suo processo unitario, di conquistare un ruolo di grande Potenza nell’area adriatica e balcanica e persino di porre su nuove basi i processi della sua riforma interna? A chi, come Volpe, avrebbe poi sostenuto, che «la scelta del domani deciderà delle nostre sorti future per decenni e decenni», Giustino Fortunato, con non poche buone ragioni, poteva replicare, nel gennaio del 1915, che, se erronea, quella scelta avrebbe costituito «il primo atto di una tragedia di trenta e più anni», delineando una prospettiva tanto terribile, nei suoi effetti immediati e nelle sue conseguenze remote, da obbligare, ora, a un passo dall’abisso, a conservare il più possibile una «vigile aspettativa, senza preconcetti né di odi né di amori per le parti combattenti», e a tenere bene a mente quanto pericoloso potesse essere gettare nell’avventura bellica «un paese infinitamente debole, venuto su a galla per sola virtù del Caso», privo della coscienza precisa della sua «realtà morale ed economica»212. A queste considerazioni, era tuttavia possibile obiettare con altrettanta forza, anche da parte di chi, come Gentile, avrebbe poi esplicitamente rigettato il verbo nazionalista213, che il rifiuto, di quelle che a molti potevano apparire solo le ingannevoli seduzioni della «grande politica» equivaleva a prostrare per sempre l’Italia sotto il peso insopportabile di un «delitto di fellonia», che costituiva la «dimostrazione della nostra necessità e urgenza, politica e morale, di metterci sotto il protettorato della Germania o dell’In-
211 Gioacchino Volpe a Nicolae Iorga, Milano, 14 gennaio 1914, in N. IORGA, Scriso-
ri Câtre. III, cit., pp. 188-189. 212 Giustino Fortunato a Gioacchino Volpe, Napoli 8 gennaio 1915, in G. FORTUNATO, Carteggio, 1912-1922, a cura di Emilio Gentile, Bari, Laterza, 1979, p. 184. 213 G. GENTILE, Nazione e nazionalismo; ID., L’ideale politico di un nazionalista, poi in ID., Guerra e fede, cit., pp. 48 ss. I due scritti erano del 1917 e 1918.
PASSATO E PRESENTE
133
ghilterra» e della nostra rassegnazione «a vivere uso Spagna o Grecia», che ci avrebbero privati anche della lusinga di continuare «a sperare nel risorgimento morale, nella formazione di una coscienza, e quindi di una filosofia e di tutte le altre belle cose per cui lavoriamo»214. Nell’un caso e nell’altro, quella che è stata giustamente definita la «sindrome politica italiana», dei mesi che precedettero il nostro intervento215, poco rassomigliava alla marcia trionfante e impetuosa verso la liquidazione della «banale, pedestre politica amministrativa dell’ultimo cinquantennio», che aveva dilapidato «fin l’ultimo lembo dei veli poetici e mitici del Risorgimento carducciano», come in futuro sarebbe stata descritta da Camillo Pellizzi in un libro dal forte impatto emotivo ma che non avrebbe incontrato il pieno favore di Volpe216. Quel sofferto e non rettilineo approssimarsi alla prova delle armi non rappresentava soltanto la ripresa di un «contatto morale», necessario a «muovere verso la costruzione della moltitudinaria, progressiva, monumentale realtà che è la patria», come Pellizzi avrebbe supposto, ma rispecchiava, piuttosto, l’insicurezza nell’identificare i grandi interessi geopolitici nazionali, l’incertezza conseguente nel mantenere in piedi il sistema delle alleanze o nel mutarle radicalmente, la divisione strutturale sui grandi temi internazionali ma anche su quelli di politica interna, che ora con i primi si venivano a saldare in modo indissolubile, approfondendo conflitti e divisioni, più occultati che sopiti, ma mai neutralizzati e più probabilmente esasperatesi durante il decennio giolittiano.
214 Giovanni Gentile a Guido De Ruggiero, 16 maggio 1915, in Archivio Guido De
Ruggiero, Fondazione Giovanni Spadolini, Firenze, d’ora in poi, AGDR. Nella lettera, Gentile aggiungeva come postscriptum: «Non crediate che io sia divenuto nazionalista: tutt’altro! Essi hanno buona parte di colpa della situazione presente». 215 G.E. RUSCONI, L’azzardo del 1915. Come l’Italia decide la sua guerra, Bologna, Il Mulino, 2005, in particolare pp. 177 ss. 216 C. PELLIZZI, Gli Spiriti della vigilia. Carlo Michelstaedter, Giovanni Boine, Renato Serra, Firenze, Vallecchi, 1924, in particolare pp. 200 ss. Per il giudizio di Volpe su quel saggio, si veda la lettera a Pellizzi dell’8 novembre 1924 «Grazie anche – a due o più mesi di distanza – de Gli spiriti della vigilia. Lettura non agevole per un non filosofo; per colpa dei non filosofi innanzi tutto, ma un po’ anche dell’Autore che non da per tutto è giunto a quella chiarezza e limpidezza di pensiero che i non filosofi richiedono. E qua e là mi sono anche chiesto se l’Autore non abbia visto più cose che quegli spiriti contenessero… Ma, con tutto ciò, un bel vigore ricostruttivo e molti bei lampeggiamenti e ansiosa ricerca di sé stesso pur mentre si ricercano gli altri!». La lettera è riprodotta in appendice al mio, Gioacchino Volpe: fascismo, guerra e dopoguerra. Nuovi documenti, 1924-1945, in «Nuova Storia contemporanea», 2004, 2, pp. 101 ss.
3. SPIRITI DELLA VIGILIA 1. Nel 1928, Gioacchino Volpe pubblicava la raccolta Guerra dopoguerra Fascismo. Si trattava di una scelta di articoli politici, redatti tra 1916 e 1927, dotati di sostanziale omogeneità perché ideati «in uno spazio di tempo che si presenta come ben circoscritto e con caratteri di continuità, e da un uomo che non ha dovuto superare grandi “crisi” di animo o di pensieri per aderire alla nuova realtà italiana sollecitata dalla guerra»1. Per quanto Volpe riconducesse le ragioni della propria coerenza a quel «più energico e nazionale liberalismo o, se si vuole, nazionalismo non dogmatico e perciò associabile col primo», non trovò spazio nella raccolta nessuno degli articoli da lui scritti, nel 1914, per il settimanale «L’Azione», di cui proprio Volpe aveva assunto la direzione effettiva, anche se non nominale, negli anni immediatamente successivi2. Un periodico, ricorderà Volpe, nel secondo dopoguerra, che, fino al 1920, fu anche il nome «di un piccolo partito nato dalla scissione del partito nazionalista, al quale io mi accostai, collaborando al suo giornale e al quale ancora oggi, pur con tanto mutamento di situazioni mi sento vicino: perché non intendo nascondere il carattere fortemente nazionale del mio liberalismo»3. Forse la mobilitazione interventista, per le lacerazioni interne al movimento, per le forzature operate sulla maggioranza neutralista del Paese e del Parlamento, si presentava, agli occhi di Volpe, come l’atto finale di un’Italia, avviata sì verso il proprio de1 G. VOLPE, Guerra dopoguerra Fascismo, Venezia, La Nuova Italia, 1928, p. VIII. 2 Gioacchino Volpe a Widar Cesarini Sforza, Roma 5 dicembre 1939. La lettera è con-
servata nell’Archivio Widar Cesarini Sforza, Biblioteca U. Balestrazzi, Parma, d’ora in poi AWCS. 3 ID., Memoriale al Ministro della Pubblica Istruzione, 15 luglio 1946, in ACS, Presidenza del Consiglio dei Ministri, 1944-1947, f. 1126, n. 13503/15312, ora pubblicato da I. VALENTINI, Le interferenze politiche nell’epurazione universitaria. L’“esame di coscienza” di Gioacchino Volpe e la “carriera” di Luigi Salvatorelli, in «Nuova Storia Contemporanea», 2003, 2, pp. 123 ss.. Si veda anche ID., Il popolo italiano tra la pace e la guerra: 1914-1915. Introduzione di F. Perfetti, Roma, Bonacci, 1992, p. 116: «La piccola Azione nazionale-liberale, che accoglieva articoli di Caroncini, Arcari, Borgese, Volpe, Anzilotti, Grandi, Ansaldo, Cesarini Sforza, Solmi, lavorava per una borghesia più consapevole e politicamente educata, confidando appunto nella guerra».
136
GLI ANNI DELL’ATTESA
stino, ma ancora incompiuta. Forse, piuttosto, benché non disconoscesse il merito della minoranza politicamente attiva che aveva voluto l’intervento, preferiva non insistere sulla frattura allora prodottasi in seno alla società italiana per scongiurare il rischio, denunciato già durante il conflitto, di accreditare l’idea di una guerra «nata per il capriccio di pochi forsennati interventisti, per interesse dei signori, per odio alla povera gente», enfatizzandone invece il carattere di «necessità e inevitabilità»4. In questa drammatica vicenda, ciò che veniva messo in luce era proprio la fase della mobilitazione interventista, che non restava sommersa in quella categoria storiografica di «vario nazionalismo», che Volpe avrebbe poi elaborato5. Anche rispetto ad altri paesi europei, precocemente attraversati da un ampio entusiasmo patriottico, i dieci mesi di neutralità italiana rappresentarono infatti un tornante cruciale nella storia nazionale, soprattutto per l’esasperazione del conflitto politico e l’attivazione di motivi ideologici che avrebbero avuto largo seguito nel dopoguerra6. Proprio gli scritti politici di Volpe del 1914-1915 testimoniano della preesistenza nella cultura politica liberale di elementi di tangenza verso il «sovversivismo» nazionalista che la guerra avrebbe fatto poi precipitare: dal mito di un’Italia «giovane», destinata a nuova grandezza se solo fosse riuscita a comporsi in armonica e disciplinata 4 ID., Ricordi storici, in «Fatti e commenti», 16 settembre 1918, poi in ID., Per la storia della VIII armata. Dalla controffensiva del giugno alla vittoria del settembre-ottobre 1918, Milano, Mondadori, 1919, pp. 136-137. Con lo stesso titolo, stessa datazione e stesso editore veniva pubblicata una raccolta di discorsi alle truppe del generale Caviglia, redatti dallo stesso Volpe, che d’ora in poi indicheremo come Per la storia della VIII armata, bis. Il tema della guerra «necessaria», a compimento del Risorgimento, e come termine della secolare contesa tra Savoia ed Asburgo, ritornava in G. Volpe nell’opuscolo «Saluto» del 1 gennaio 1919, ora in ID., Per la storia della VIII armata, cit., pp. 170 ss. 5 Per questa definizione, ID., Italia Moderna, cit., III, pp. 274 ss. Sul punto, G. GAETA, Il nazionalismo italiano, Roma-Bari, Laterza, 1981, pp. 54 ss. Poco aggiunge, B. BRACCO, Il «vario nazionalismo» di Gioacchino Volpe, in Da Oriani a Corradini. Bilancio critico del primo nazionalismo italiano, a cura di R. H. Rainero, Milano, Angeli, 2003, pp. 217 ss. 6 Per un inquadramento generale: C. MORANDI, I partiti politici nella storia d’Italia, Firenze, Le Monnier, 1945, ora in ID., Scritti storici, a cura di A. Saitta, Roma, Istituto Storico Italiano per l’Età Moderna e Contemporanea, 1980, 4 voll., II, pp. 345 ss.; V. DE CAPRARIIS, Partiti politici e opinione pubblica durante la Grande Guerra, in Atti del XLI congresso di Storia del Risorgimento, Roma, Istituto di Storia del Risorgimento Italiano, 1965, pp. 172 ss.; B. VIGEZZI, L’Italia di fronte alla prima guerra mondiale. I. L’Italia neutrale, Milano-Napoli, Ricciardi, 1966; ID., L’Italia liberale – governo, partiti, società – e l’intervento nella prima guerra mondiale, in ID., L’Italia unita e le sfide della politica estera. Dal Risorgimento alla Repubblica, Milano, Jaca Book ,1997, pp. 105 ss.; G. PROCACCI, La neutralité italienne et l’entrée en guerre, in Les entrées en guerre en 1914, «Guerres mondiales et conflits contemporains», 1995, 2, pp. 83 ss.. Si veda anche la rassegna di L. CEVA, La neutralità dell’Italia unita, in «Rivista Storica Italiana», 1999, 1, pp. 280 ss.
SPIRITI DELLA VIGILIA
137
unità, per valorizzare le tradizioni e gli interessi del «paese reale» contro la demagogia democratica e parlamentare7, alla subordinazione, seppure temperata, della politica interna alla politica estera, sino all’adozione del principio della forza, e quindi della guerra, quale motore della vita delle nazioni8. Sebbene Volpe, insieme ad altri intellettuali legati all’esperienza del liberalismo nazionale, avrebbe dimostrato di saper resistere, come si vedrà, allo «spirito di crociata», ai toni da «guerra santa» della civiltà contro la barbarie agitati dall’interventismo democratico9, che provocarono la disfatta culturale e politica di quel movimento10, non altrettanta moderazione ritennero di adoperare nell’adoperare con disinvoltura parole d’ordine, per altro comuni a tutte le componenti favorevoli all’ingresso dell’Italia nel conflitto: dalla virtù morale della guerra, sicura artefice di un nuovo ordine nazionale, solidale e gerarchico, alla necessità di una più energica politica di potenza11. È la storia del così detto «equivoco nazionalista» in seno al liberalismo
7 Il mito della nazione «giovane» destinata a sopraffare le «vecchie» potenze globali,
come Francia e Inghilterra, è un motivo ricorrente della dottrina politica dello storico tedesco, Heinrich von Treitschke, da Volpe ben conosciuta. Sul punto, W. BUSSMANN, Treitschke als Politiker, in «Historische Zeitschrift», 1977, 2, pp. 249 ss.; P. WINZEN, Treitschke’s Influence on the Rise of Imperialist and Anti-British Nationalism in Germany, in Nationalist and Racialist Movements in Britain and Germain before 1914, a cura di P. Kennedy e A. Nicholls, Oxford, Oxford University Press, 1981, pp. 127 ss. 8 G. ARE, La scoperta dell’imperialismo, Roma, Edizioni Lavoro, 1985; B. VIGEZZI, Politica estera e opinione pubblica in Italia dall’Unità ai nostri giorni, Milano, Jaca Book, 1991. Si veda anche, E. ULLRICH, La classe politica nella crisi di partecipazione dell’Italia giolittiana, Roma, Camera dei Deputati, 1979. 9 J.-J. BECKER e S. AUDOIN-ROUZEAU, La violenza, la crociata, il lutto. La Grande Guerra e la storia del Novecento, Torino, Einaudi, 2002, e ora il non sempre condivisibile A. VENTRONE, La seduzione totalitaria. Guerra, modernità, violenza politica (1914-1918), Roma, Donzelli, 2003, in particolare, pp. 26 ss. 10 Un’analisi spesso apologetica dell’interventismo democratico è invece in R. VIVARELLI, Storia delle origini del fascismo. I. L’Italia dalla Grande Guerra alla marcia su Roma, Bologna, Il Mulino, 1991, pp. 124 ss. Sul punto, G. SABBATUCCI, La Grande Guerra come fattore di divisione: dalla frattura dell’intervento al dibattito storiografico, in Due nazioni. Legittimazione e delegittimazione nella storia dell’Italia contemporanea, a cura di L. Di Nucci e E. Galli della Loggia, Bologna, Il Mulino, 2003, pp. 107 ss. Più distaccato l’approccio di B. VIGEZZI, Da Giolitti a Salandra, Firenze, Vallecchi, 1969, pp. 111 ss. Sulla crisi di idee e di valori dell’ala democratica del movimento favorevole alla guerra, soprattutto a partire dalla fine del 1917, ancora insuperate restano le pagine di R. DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario, 1893-1920, Torino, Einaudi, 19952, pp. 362 ss. 11 Sul punto, M. ISNENGHI, Il mito della Grande guerra, Roma-Bari, Laterza, 1970, pp. 179 ss., ma soprattutto E. GENTILE, Un’apocalisse nella modernità. La Grande Guerra e il Mito della Rigenerazione della politica, in «Storia contemporanea», 1995, 5, pp. 733 ss. Per l’analisi di questo fenomeno, in un contesto europeo, G.L. MOSSE, Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, Roma-Bari, Laterza, 1990; R. WOHL, 1914. Storia di una generazione, Milano, Jaca Book, 1983.
138
GLI ANNI DELL’ATTESA
(da Giovanni Amendola a Umberto Ricci)12, del progressivo naufragio, nel dopoguerra, di tanta parte dell’intellettualità liberale verso una soluzione autoritaria degli antichi mali italiani, verso quella «rivoluzione» nella «conservazione», che a Volpe sarebbe poi apparsa parzialmente realizzata nel fascismo, soprattutto per quello che avrebbe riguardato la politica estera del regime13. Un naufragio che in Volpe non fu tuttavia mai definitivo, grazie al saldo ancoraggio a quella concezione dei rapporti internazionali, che, secondo la definizione di Hegel, aveva alla sua base la «volontà sovrana differenziata» degli «Stati indipendenti»14, e che costituiva, per Leopold von Ranke, un «sistema di diritto pubblico», sulle cui fondamenta riusciva a mantenersi l’«ordine» politico del sistema delle potenze europee, pur nella loro dinamica di confronto, di conflitto, di perenne antagonismo15. Si trattava di una lezione di antica saggezza politica che avrebbe sempre evitato a Volpe un deviamento su posizioni di carattere sciovinistico, se non addirittura francamente razzistico, dove l’avversario in armi perdeva il suo status di antagonista per assumere quello di «hostis humani generis»16. Posizioni, che sarebbero state invece fatte proprie, durante la guerra, da molti intellettuali dello schieramento democratico: dall’ex-neutralista Cesare De Lollis a Luigi Gasparotto17, ad Adolfo Omodeo. Questi, se alla fine del 1916 confessava a Vito FazioAlmayer, in una lettera impreziosita da citazioni di Kant e del Nuovo Testamento, che veramente era «affar lungo sterminare questi cani di austriaci e tedeschi», nell’ottobre del 1918, quando la prova delle armi volgeva ormai a favore dell’Italia, comunicava alla moglie che il frutto della vittoria non si sarebbe potuto esaurire solo nel riacquisto del territorio nazionale ma doveva portare all’annientamento totale dell’esercito
12 G. CAROCCI, Giovanni Amendola nella crisi dello Stato italiano 1911-1925, Milano, Feltrinelli, 1956, p. 22 ss.; G. BUSINO, Materiali per la bio-bibliografia di Umberto Ricci, in «Annali della Fondazione Luigi Einaudi», XXXV, 2001, pp. 323 ss. 13 G. VOLPE, Guerra dopoguerra Fascismo, cit., p. VIII. 14 G.G. F. HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto, Bari, Laterza, 1954, III, 3, § 330, p. 279: «Il diritto statale esterno deriva dai rapporti degli Stati indipendenti; quindi, ciò che, nel medesimo, è in sé e per sé, serba la forma del dover essere, poiché, che esso sia reale, dipende dalla volontà sovrana differenziata». 15 L. VON RANKE, Le Grandi Potenze, Firenze, Sansoni, 1954, p. 13. Su tutto questo, si veda il mio, Il diritto delle armi. Guerra e politica nell’Europa moderna, Milano, Franco Angeli, 2005. 16 A. VENTRONE, Il nemico assoluto nella Grande Guerra, in Il governo d’emergenza. Poteri straordinari e di guerra in Europa tra XVI e XX secolo, a cura di F. Benigno e L. Scuccimarra, Roma, Viella, 2007, pp. 259 ss. 17 C. DE LOLLIS, Taccuino di guerra, Firenze, Sansoni, 1955, p. 84; L. Gasparotto, Diario di un fante, Brescia, NordPress, 2002, p. 39.
SPIRITI DELLA VIGILIA
139
nemico. Opera a cui la batteria da lui comandata aveva partecipato attivamente, essendo riuscita a fare strage del «fiore dell’Ungheria»18. Le prime avvisaglie di questo atteggiamento di degradazione del conflitto a puro e semplice bellum internecium erano state individuate e stigmatizzate da Benedetto Croce già nel 1915. Pur fermissimo oppositore dell’intervento e dei metodi polemici di molti esponenti del nazionalismo italiano, simili a quelli utilizzati dai «demagoghi e piazzaiuoli politici di tutti i tempi»19, il filosofo, in una fitta serie di note e postille apparse sulla «Critica», intendeva fornire il suo contributo a illuminare, quando mai questa impresa fosse stata possibile, l’«ignoranza politica» della «democrazia italiana», tanto grande e tanto radicata che «forse nemmeno la lezione oggettiva e oculare degli avvenimenti che ora si svolgono la correggerà dal richiedere alleanze e guerre in forza di dottrine e raziocini». Al vano pigolare della propaganda bellicistica radicale e massonica, Croce chiedeva al paese, impegnato nello scontro, di rinvenire altre idee-forza, che ne indirizzassero gli sforzi, e in particolare quella della «moralità della dottrina dello Stato come potenza», così come era stata consegnata alla cultura europea da Ranke e da Treitschke. Per dire la cosa in breve e in termini popolari, la storia (nonché la logica stessa della vita) mostra che gli Stati e gli altri aggruppamenti sociali sono tra loro perpetuamente in lotta vitale per la sopravvivenza e la prosperità del tipo migliore; e uno dei casi acuti di questa lotta è ciò che si chiama la Guerra. Quando la guerra scoppia (e che essa scoppi o no, è tanto poco morale o immorale quanto un terremoto o altro fenomeno di assestamento tellurico), i componenti dei vari gruppi non hanno altro dovere morale che di schierarsi alla difesa del proprio gruppo, alla difesa della patria per sottomettere l’avversario o limitarne la potenza o soccombere gloriosamente, gettando il germe di future riscosse. Solo a questo modo l’individuo è giusto, sebbene, a questo modo, sia giusto anche l’avversario; e, per questa via, giusto sarà, per un tempo più o meno lungo, l’assetto che si formerà dopo la guerra. Non credo che il sano senso popolare abbia mai
18 A. OMODEO, Lettere 1910-1926, Torino, Einaudi, 1963, p. 161 e p. 332. 19 B. CROCE, Metodi polemici del nazionalismo italiano in ID., Pagine sparse. Serie se-
conda. Pagine sulla guerra, raccolte da G. Castellano, Napoli, Ricciardi, 1919, d’ora in poi citato come Pagine sulla guerra, pp. 31 ss. Più estesamente, per la polemica di Croce contro gli intellettuali interventisti, definiti politici «improvvisatori», si veda ID., Motivazioni di voto (6 dicembre 1914), ivi, pp. 9 ss. Sul dissidio tra Croce e Gentile sulla questione dell’intervento, si veda Giovanni Gentile a Giuseppe Lombardo Radice, 6 luglio 1915, AFG: «Con questa guerra comincerà la nuova storia d’Italia (benché Benedetto ancora non se ne accorga) […]». Importante è anche la lettera di Gentile a Croce del 15 maggio 1915, in G. GENTILE, Lettere a Benedetto Croce, 1915-1924, Firenze, Le Lettere, 1990, pp. 27 ss. Sul neutralismo «patriottico» di Croce, H. ULLRICH, Croce e la neutralità italiana, in «Rivista di studi crociani», 1969, 1-2, pp. 11 ss. e 155 ss. Si veda anche, G. GALASSO, Croce e lo spirito del suo tempo, cit., pp. 255 ss.
140
GLI ANNI DELL’ATTESA
concepito in altra guisa le guerre, e solo una falsa ideologia, un sofisma di letteratucci, può tentar di surrogare a questi concetti semplici e severi la ideologia del torto e della ragione, della guerra giusta e della guerra ingiusta20.
Una Realpolitik, che evitava ogni demonizzazione del nemico e che poteva condurre a un conflitto «senza odio» con l’antagonista di oggi, che sarebbe potuto divenire l’alleato di domani21, aveva costituito il quadro di riferimento delle prime prove giornalistiche di Volpe, apparse sul «Corriere della Sera». Erano articoli, che risentivano delle esperienze accumulate nel semestre di studio in Germania dal dicembre 1902 all’agosto 1903. Periodo certo importante per la formazione culturale del giovane storico, come si è visto. Ma soprattutto fondamentale per l’apprendistato politico di Volpe, posto per la prima volta di fronte, come avrebbe ricordato nel 1922, alla «visione d’insieme di una grande nazione», che forniva «il senso di una vita mondiale dal largo respiro, il presentimento di grandi urti di popoli che si preparavano, a dispetto di tutte le morbide ideologie, i quali avrebbero investito anche noi, volenti o nolenti»22. L’ammirazione per la Germania, per la sua cultura ma anche per i suoi impetuosi processi di modernizzazione, non era disgiunta dalla preoccupata valutazione per l’incontenibile espansionismo tedesco. Quell’imperialismo giovane e più aggressivo, scriveva Volpe nel marzo del 1903, avrebbe potuto in un vicino futuro volgersi anche contro l’Italia, il giorno in cui «sfasciatasi l’Austria, questi tedeschi correranno a Trieste e noi li avremo alle porte di casa, molto più temibili e forse più intolleranti dei croati stessi»23, per congiungersi o forse per scontrarsi con la spinta propulsiva delle nazionalità slave sul limes balcanico e adriatico. Questo motivo, appena accennato in quella lettera familiare, veniva amplificato nel lungo editoriale del 23 agosto 1903, che prendeva a pre-
20 B. CROCE, Pagine sulla guerra, cit., p. 86-87. Una riflessione che, per Croce, manteneva tutto il suo valore anche nel corso del secondo conflitto. Si veda, ID., Taccuini di guerra, 1943-1945, a cura di C. Cassani, Milano, Adelphi, 2004, alla data del 4 ottobre 1943 p. 29: «Sono stato a rimuginare la guerra, il diritto internazionale e altri concetti affini, cercando sotto la stretta terribile della passione di questi giorni la parte da condannare moralmente; ma la conclusione è stata la rassodata conferma della vecchia teoria che la guerra non si giudica né moralmente né giuridicamente, e che quando c’è la guerra, non c’è altra possibilità né altro dovere che cercare di vincerla». Indebita è in ogni caso l’annessione di Croce al movimento nazionalista, per i suoi interventi del 1915, operata da Volpe, Italia Moderna, cit., III, pp. 523-524. 21 B. SPINOZA, Trattato teologico-politico, Torino, Einaudi, 1980, XVI, p. 387: «Non è l’odio, infatti, ma il diritto dello Stato, quello che crea il nemico». 22 G. VOLPE, Prefazione a Medio Evo italiano, cit., p. X. 23 Gioacchino Volpe a Maria Serpieri, Berlino, 3 marzo 1903, CV.
SPIRITI DELLA VIGILIA
141
testo l’annuncio delle manifestazioni di protesta, promosse dai circoli radicali in occasione della prossima visita dello Czar in Italia. La notizia forniva a Volpe l’occasione più propizia per fornire una lezione di grande politica al partito socialista, allora pervaso grazie all’influsso di Bissolati da simpatie tripliciste, nelle quali egualmente contava il desiderio di stabilizzare il quadro internazionale e quello di rafforzare i rapporti di buon vicinato con i movimenti fratelli, operanti negli Imperi centrali24. Ad essere criticato, nel pezzo pubblicato sul foglio milanese, era l’atteggiamento astrattamente umanitario dell’opinione pubblica progressista: il suo sbandierato cosmopolitismo sotto cui si celava un atteggiamento di miope provincialismo, incapace di cogliere i grandi fattori della politica estera, e in particolare il pericolo imminente di un’esplosione dirompente della forza industriale e demografica tedesca fuori dai suoi confini. Questo popolo, con la sua forza, la sua coltura, la sua eccellente organizzazione è spinto irresistibilmente ad allargarsi, a cercar nuovi sbocchi al commercio, a raccogliere i grossi frammenti di popoli tedeschi che sono rimasti fuori dall’Impero; ed a tutto questo è risoluto di giungere senza scrupoli e riguardi di sorta, larvando con speciosi titoli di diritto quel diritto del più forte che credevamo morto, ma che è più vivo che mai, sempre più vivo quanto più cresce per i grandi Stati produttori dell’Europa il bisogno di un campo largo d’azione ove l’attività loro non trovi concorrenti; e quanto più desta e pugnace diventa la coscienza dell’affinità etnica di popoli che fino ad ora hanno avuto esistenza diversa e sorti diverse: come è il caso nei territori slavi e tedeschi25.
Nell’immancabile «gran cozzo fra queste due stirpi», si sarebbero infatti decise le sorti del continente. Alla valanga teutonica si opponeva non solo e non tanto l’Impero britannico e la civilisation francese quanto soprattutto il movimento nazionale slavo, che non solo corrodeva la vecchia impalcatura imperiale degli Asburgo, «in Slesia, nella Moravia, nella Boemia, fino all’Ungheria», ma che già minacciava e quasi stringeva d’assedio la Germania, proprio nei punti nevralgici della sua futura espansione nazionale. Di fronte a questi dati di fatto, toccava al governo italiano, alla società civile, alle organizzazioni politiche e sindacali tirare le conclusioni e porre all’ordine del giorno della futura agenda politica due possibili previsioni: 1° I tedeschi saranno forse i probabili nemici nostri nel Trentino e nell’I-
24 I. BONOMI, Leonida Bissolati e il movimento socialista in Italia, Roma, Sestante, 1929, pp. 110 ss. 25 G. VOLPE, Fischiatori che non riflettono, in «Il Corriere della Sera», 23 agosto, 1903, p. 1.
142
GLI ANNI DELL’ATTESA
stria, concorrenti sull’Adriatico; e non si è profeti dicendo che saranno un pochetto più potenti e pericolosi, se non più prepotenti, che non quel grigio impasto clerico-slavo-tedesco che ora ci fa carezze sul confine. 2° La Russia potrà essere la nostra alleata di domani.
E se certo il mantenimento dell’alleanza con la Germania sarebbe stato da preferire nei confronti di una futura e malcerta intesa con l’«enorme massa inorganica» dell’Est, questo auspicio sarebbe stato possibile solo con la rinunzia dei tedeschi a «scendere la Valle dell’Adige, a specchiarsi nelle acque del golfo di Trieste». In assenza di questa assicurazione, l’Italia non avrebbe potuto scegliere i suoi alleati, utilizzando il metro della convenienza democratica, né scartare l’ipotesi di imbracciare le armi a fianco dei massacratori degli ebrei nelle pianure polacche o dei responsabili del genocidio armeno. La futura catastrofe dell’ordine politico europeo imponeva decisioni e scelte che esulavano dalla sfera etica e risultavano incompatibili con i deliberati del Tribunale dell’Aja e della Società per la pace. Il groppo non sarà sciolto, ma tagliato con la spada. E noi non ci potremo neanche consolare imprecando alle ambizioni dei Governi, che pure hanno la loro parte di colpa nell’opera di eccitamento: sarebbe poco meno che citare all’Aja Attila e Gingiskan, per violazione della pace pubblica. Guglielmo e Niccolò non sono né Attila, né Gingiskan: qualche cosa di più e qualche cosa di meno, per quanto recenti discorsi imperiali abbiano un po’ riabilitato la memoria del “Nemico di Dio”. Ma certi movimenti e raggruppamenti di popoli si presentano ora con non minori caratteri di impellente necessità di quel che si presentassero allora le invasioni unne o mongole: ed ogni giudizio morale, che noi ci sentissimo invogliati di pronunciare, si dissolve prima ancora che noi riusciamo a formularlo.
Era una conclusione «politicamente scorretta», anche a volerla misurare con i termini di paragone di quell’inizio di secolo, che pure non degenerava né in uno scomposto bellicismo né in un asfittico nazionalismo, nonostante il fatto che alcuni contenuti dell’intervento di Volpe sarebbero stati riecheggiati ad litteram dalla propaganda di Corradini26. Lo testimoniava ampiamente un altro articolo pubblicato sul «Corriere», a un anno esatto di distanza27, dove, fornendo un resoconto dell’o26 E. CORRADINI, Le nazioni proletarie e il nazionalismo. Discorso letto a Napoli, nel gennaio 1911, in ID., Il Nazionalismo italiano, Milano, Treves, 1914, p. 39: «L’immane pangermanismo scende dal settentrione, già istiga il Tirolo contro il nostro Trentino, già è alle porte di Trieste austriaca. L’Austria stessa è fatta suo strumento di conquista». 27 G. VOLPE, Capitale americano in Europa, in «Il Corriere della Sera», 29 agosto 1904, p. 1.
SPIRITI DELLA VIGILIA
143
puscolo di Frank Vanderlip, The American “commercial invasion”28, Volpe considerava con favore la penetrazione «del capitale, della produzione industriale, del personale tecnico americano» in Europa, quasi a futura premessa della costituzione di un grande mercato internazionale euro-atlantico, considerato come libero canale di comunicazione di merci e tecnologie, dove l’Italia si sarebbe potuta meglio situare, liberandosi dalla stretta oppressiva delle più forti economie degli altri Stati del continente che pareva volessero bloccare l’incipiente sviluppo manufatturiero della penisola. Gli assurdi sistemi fiscali, le oscillazioni monetarie, il militarismo, l’ignoranza e la miseria cronica di molte province, ove il proletario italiano mangia in media il 25 per cento in meno del forzato inglese, non hanno potuto impedire un promettente sviluppo industriale italiano. […] Che manca dunque ancora? Manca capitale, pratica commerciale, organamento di forze singole; vi si deve render popolare la società per azioni, distruggervi la diffidenza verso lo chèque e l’impiego industriale del denaro. Questo potrà fare l’America e lo farà tanto più volentieri in quanto che dall’Italia non avrà mai da temere alcuna sorta di concorrenza, mentre se ne avvantaggerà accrescendone la capacità d’acquisto delle merci americane e mettendola in grado di fornire largamente merci che gli Stati Uniti non trovan vantaggio a produrre per proprio conto: sarà agevolata perciò la lotta contro l’Inghilterra, la Germania, la Russia nel campo dell’industria metallurgica, dei cereali, del petrolio. Gli Stati Uniti potranno davvero diventare il più grande paese del mondo. L’Italia avrebbe da capitali e metodi americani solo da guadagnare, senza tener conto di una più facile intesa nei trattati commerciali, pei quali invano noi chiediamo da anni di essere equiparati alle altre nazioni: tutto il nostro lento risorgimento economico potrebbe essere insperatamente accelerato29.
Argomenti, questi, che battevano in breccia non solo la propensione protezionista del socialismo di Turati e del riformismo giolittiano, «povero di ogni vero spirito riformatore e giovevole solo a particolari categorie di lavoratori e di determinate regioni»30. Sotto accusa era posto anche l’isolazionismo economico testardamente propugnato dal nazionalismo, fino alla riproposta della vecchia teoria dello «Stato commerciale chiuso» di Alfredo Rocco31, che metteva in evidenza l’indiffe28 L’opuscolo, apparso per la prima volta, sottoforma di articolo, nel 1903, sulle pagine dello «Scribner’s magazine», era stato stampato separatamente, in quello stesso anno, a New York. 29 G. VOLPE, Capitale americano in Europa, cit. 30 ID., Italia Moderna, cit., III, p. 252. 31 A. ROCCO, Economia liberale, economia socialista ed economia nazionalista, in «Rivista delle Società commerciali», 1914, ora in Il nazionalismo italiano, a cura di F. Perfetti, Milano, Edizioni del Borghese, 1969, pp. 143 ss.
144
GLI ANNI DELL’ATTESA
renza per qualsiasi tipo di riforma interna dello Stato32, malamente risarcita dall’insistenza sui motivi di un imperialismo mistico e letterario33. In questo modo, Volpe precorreva quel dissidio fra le diverse anime del nazionalismo italiano, che Prezzolini e Papini avrebbero poi compiutamente messo in luce, formulando, a partire dal 1910, l’invito ad abbandonare il vecchio nazionalismo, basato sull’«imprecisione di cognizioni sui fini e sui frutti della vita spirituale e materiale italiana», per costituire un nuovo nazionalismo in grado di considerare «i valori etici e ideali come assai più importanti per la vita degli italiani del brutale successo della forza, il miglioramento interno come più urgente di ogni ricerca di conquista esterna, il moto socialista e democratico con un senso di maggiore ed equanime storicità»34. Questo programma trovava qualche affinità in una componente minoritaria ed eterodossa del movimento nazionalista, quella del nazionalismo liberista, liberale, democratico, nelle cui fila militavano Paolo Arcari e Alberto Caroncini: due intellettuali, di diversa formazione culturale35, che, nel Congresso di Roma del 1912, convocato dall’Associazione Nazionalista Italiana (Ani), avrebbero attuato una clamorosa secessione dal resto dell’organizzazione, insieme a Emilio Bodrero a Lionello Venturi36. In stretta vicinanza alla pattuglia dei «Giovani turchi» del liberalismo, guidati da Giovanni Borelli, fin dal 1901, e riuniti attorno alla rivista «Idea liberale»37, e 32 E. CORRADINI, Principii del nazionalismo, dall’Ombra della vita, Napoli, Ricciardi, 1908, poi in ID., Il Nazionalismo italiano, cit., pp. 5 ss. 33 Sul punto, F. GAETA, Il nazionalismo italiano, cit., pp. 99 ss. 34 G. PREZZOLINI, Prefazione a G. PAPINI-G. PREZZOLINI, Vecchio e nuovo nazionalismo, Milano, Studio Editoriale Lombardo, 19242, p. IV e VI. La prima edizione del volume, che raccoglie interventi comparsi precedentemente, è del 1914. Sul punto, E. GENTILE, “La Voce” e l’età giolittiana, cit., pp. 87 ss. e ID., Il mito dello Stato nuovo. Dal radicalismo nazionale al fascismo, Bari, Laterza, 20022, pp. 83 ss. 35 Su di loro, rispettivamente: G. PONTE, «Arcari Paolo», in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1961, III, pp. 748-749; G. PARLATO, Il pensiero politico di Paolo Arcari da “L’Osservatore cattolico” all’uscita dall’Associazione Nazionalista, in Atti della commemorazione del centenario della nascita del Prof. Paolo Arcari, Tirano, Biblioteca Civica Arcari, 1979, pp. 25 ss.; R. MICHELS, Alberto Caroncini, in «La riforma sociale», XXIV, 1917, pp. 109 ss.; S. INDRO, «Caroncini Alberto», in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1977, XX, pp. 533 ss. 36 G. GAETA, Il nazionalismo italiano, cit., pp. 141 ss.; F. PERFETTI, Il movimento nazionalista in Italia, 1903-1914, Roma, Bonacci, 1984, pp. 138 ss. Sul Convegno di Roma, un’ampia sintesi è in A. ROCCUCCI, Roma capitale del nazionalismo, 1908-1923, Roma, Archivio Guido Izzi, 2001, pp. 110 ss. Sulla posizione di Caroncini, si veda la lettera ad Amendola del 26 novembre 1911, in A. CAPONE, Giovanni Amendola e la cultura italiana del Novecento, 1899-1914, Roma, Elia, 1974, p. 302: «Quanto ai nazionalisti, io credo che al prossimo convegno avverrà tra noi e loro una divisione clamorosa. […] Ad ogni modo, la mania di fare ora un partito nazionalista è tale fesseria che noi certo non aiuteremo a fare». 37 G. VOLPE, Italia Moderna, III, cit., p. 289. Su Giovanni Borelli, B. VIGEZZI, Da Gio-
SPIRITI DELLA VIGILIA
145
soprattutto grazie all’influsso di Caroncini, i liberal-nazionali si emancipavano compiutamente dalle posizioni del gruppo di Corradini, Coppola, Federzoni, e puntavano su di un’energica azione di riforma sul piano interno, improntata a una filosofia di riferimento neo-liberista, in grado di coinvolgere anche uomini di diverso orientamento come l’antiprotezionista radicale Antonio De Viti de Marco38. Riforma amministrativa, col fine di realizzare un decentramento delle attribuzioni pubbliche, in grado di ridimensionare i danni di un esteso «funzionarismo», di cui profittavano insieme conservatori e socialisti, apparentemente divisi da steccati invalicabili, ma in realtà egualmente interessati a favorire la metastasi e il conglobamento burocratico per estendere le proprie aree di patronage. Riforma tributaria, per limitare ogni sperequazione fiscale tra ceti diversi e diverse regioni del paese, e per impedire il logoramento degli strumenti d’imposizione e di controllo. Riforma dell’insegnamento per restituire alla scuola il suo contenuto educativo e attuarne una modernizzazione delle strutture e degli obiettivi. Riforma politica, infine, da realizzare tramite una lotta accanita contro la pratica del consociativismo giolittiano e la creazione di un bipartitismo rigoroso, che potesse dare luogo a una vigorosa pratica di governo condotta senza compromessi corporativi39. In questo quadro, le vecchie parole d’ordine di patriottismo e irredentismo, e i più nuovi slogans imperialistici, venivano riformulati, da Arcari e Caroncini, in un’ottica già precocemente «produttivistica»40, che valutava l’attivo dell’espansione internazionale in rapporto alla ricaduta sul mercato interno e sullo sviluppo economico e industriale. Con qualche concessione almeno al valore storico del movimento democratico, socialista, sindacale, per il loro indiretto ruolo di motori della nazionalizzaziolitti a Salandra, cit., pp. 32 ss.; 287 ss.; 318 ss. e ora la voce di A. RIOSA, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, XII, 1970, pp. 541 ss. Sulla rivista promossa da Borelli, M.M. RIZZO, Una proposta di liberalismo moderno. L’“Idea liberale” dal 1892 al 1906, Lecce, Milella, 1982; V. BAGNOLI, L’“Idea liberale”, 1891-1906, Roma, Carocci, 2000. 38 A. CARONCINI, Problemi di politica nazionale. Scritti scelti e presentati con una prefazione di A. Solmi, Bari, Laterza, 1922, pp. 620 ss.; A. DE VITI DE MARCO, Per un programma d’azione democratica, 2 giugno 1913, in ID., Un trentennio di lotte politiche, 1894-1922, Roma, Collezione Meridionale Editrice, 1929, pp. 317 ss. Sul «liberismo radicale», si veda L. TEDESCO, L’alternativa liberista in Italia. Crisi di fine secolo, antiprotezionismo e finanza democratica nei liberisti radicali, 1898-1904, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2002. 39 A. CARONCINI, Un paese senza conservatori, recensione a S. SPAVENTA, La politica della Destra, a cura di B. Croce, Bari, Laterza, 1909, in ID., Problemi di politica nazionale, cit., pp. 193 ss. 40 P. ARCARI, La patria nelle dottrine e nella coscienza italiana contemporanee (1909), parzialmente riprodotto in Il nazionalismo italiano, cit., pp. 61 ss.; A. CARONCINI, Il momento economico dell’irredentismo (1913), in ID., Problemi di politica nazionale, cit., pp. 89 ss.
146
GLI ANNI DELL’ATTESA
ne delle masse, la piccola pattuglia dei nazionali liberali intendeva realizzare compiutamente l’integrazione nazionale e consentire all’Italia lo sviluppo delle sue energie verso la penisola balcanica e l’area danubiana. Anche la questione coloniale doveva essere aggiornata alla luce di una realistica valutazione delle esigenze commerciali e industriali italiane, dislocando il flusso dell’emigrazione dalle mete tradizionali e avviandolo verso nuove zone di influenza e di egemonia nel Mediterraneo, nell’Asia Minore, nel continente africano41. Il «nuovo nazionalismo» confluiva, in questo modo, nel diversificato fronte del «riformismo laico» (da Salvemini a Prezzolini), non legato ai programmi dei partiti tradizionali42, di una «Giovane Italia» estranea od ostile all’attività dell’establishment politico, antisocialista ma soprattutto antigiolittiana, eppure ancora lontana da ogni ipotesi di soluzione autoritaria, le cui variegate componenti avrebbero potuto forse costituire un comune patto d’azione, che Giovanni Amendola proponeva, nell’agosto del 1911, a Salvemini, Caroncini e Prezzolini, per fissare alcuni punti fondamentali di «un programma politico da studiare», con particolare riferimento «all’Italia decentrata, alla morte della burocrazia, al rafforzamento dello Stato»43. Le troppo distanti premesse ideologiche di questa galassia politica rischiavano tuttavia di accumulare al suo interno equivoci e fraintendimenti che avrebbero costituito altrettanti punti critici di una futura rottura44. Questa appariva già latente nel dibattito, che «La Voce» avrebbe posto in essere dalla fine di giugno del 1910. In quella data, Prezzolini pubblicava il saggio Che fare?, dove si stendeva un quadro desolante della vita politica italiana, che il movimento nazionalista non avrebbe potuto modificare e che anzi rischiava di aggravare45. Quello schieramento di uomini e di idee, che si presentava con burbanzosa iattanza sullo scenario pubblico, non era pericoloso soltanto «per il lato materiale d’una possibile guerra contro l’Austria», ma perché «con la sua vaghezza e imprecisione magniloquente si presta soprattutto a dar materia alla nostra inclinazione retorica, e allontana il pensiero da quei problemi pratici, precisi, interni che
41 Ivi, cit., pp. 205 ss. 42 G. VOLPE, Italia Moderna, cit., III, pp. 252 e pp. 536-537. 43 Giovanni Amendola a Giovanni Boine, 30 agosto 1911, in G. BOINE, Carteggio. IV,
cit., p. 251. All’incontro dovevano essere presenti: Prezzolini, Borgese, Caroncini, Casati, Salvemini. Sulle simpatie di Amendola per il programma di Caroncini, si veda Giovanni Amendola a Giovanni Boine, 15 dicembre 1910, ivi, p. 206: «Hai visto il Congr. Nazionalista? Gran miseria, mi sembra, se ne togli la tendenza Caroncini». 44 G. VOLPE, L’ultimo cinquantennio, cit., pp. 62 ss. 45 G. PREZZOLINI, Che fare?, «La Voce», 23 giugno 1910, in ID., La Voce, 1908-1913, cit., pp. 266 ss.
SPIRITI DELLA VIGILIA
147
avevano cominciato a preoccupare gli italiani, senza aver risolto i quali non saranno mai una nazione: come il problema del mezzogiorno, il problema dell’istruzione (primaria, secondaria, universitaria, normale e personale), il problema di stato e chiesa; e come base e sfondo di questi quattro la riforma del nostro carattere». L’Italia, concludeva Prezzolini, aveva certamente bisogno di una spinta propulsiva per attuare quel vasto programma riformistico, ma questa doveva servire a organizzare mentalmente dei cittadini «capaci di tecnicamente operare: non nel preparare delle teste gonfie di bugie e assurdità». Alla provocazione, replicava Caroncini in una lettera aperta al direttore della «Voce», che la rivista ospitava il 21 luglio46. In quell’intervento il leader della pattuglia nazionalista liberale sosteneva che la risposta al «Che fare?» non poteva limitarsi a «eccitare la trovata di soluzioni tecniche» ma doveva porsi l’obiettivo di «persuadere il prossimo a cercare sempre il massimo profitto generale», di «diffondere la coscienza collettiva, o nazionale», di consolidare «la fede nell’avvenire della patria» e con quella fede convincere le élite e le masse ad accettare la soluzione «autenticamente nazionale delle questioni nazionali». Una soluzione che non poteva non essere che quella del «liberalismo economico»: la sola ideologia in grado di fornire alla «coscienza collettiva la forza fatale delle necessità economiche». Le riforme all’interno tuttavia dovevano essere considerate non solo per il loro valore intrinseco, ma come preparazione a una guerra futura e necessaria contro l’Austria. Guerra specificava Caroncini non patriottica né irredentistica, ma nazionale: condotta al fine di interrompere gli sforzi dell’Impero asburgico per «rassodare la sua posizione europea e balcanica», che una volta consolidata avrebbe fatalmente compromesso i destini italiani. Prezzolini edulcorava le differenze e puntava sulle affinità nella lettera di risposta, che veniva pubblicata sullo stesso numero del periodico47, dove si ribadiva che «il nazionalismo come il protezionismo sono i sofismi di organismi troppo deboli per accettare i conflitti in modo naturale». Replica, piena di aperture, che pure non avrebbe soddisfatto il suo interlocutore, che lo avrebbe accusato di attestarsi su posizioni di sterile terzismo48. La profonda differenza tra le due posizioni – nono-
46 A. CARONCINI, Lettera a Prezzolini, 21 luglio 1910, ivi, pp. 274 ss. Sul punto, La cultura italiana del ’900 attraverso le riviste. III. “La Voce”, (1908-1914), cura di A. Romano, Torino, Einaudi, 1971, pp. 206 ss. 47 G. PREZZOLINI, Ancora del Nazionalismo, in ID., La Voce, 1908-1913, cit., pp. 278 ss. 48 Alberto Caroncini a Giuseppe Prezzolini, 10 agosto 1910, AGP: «Alla questione posta da me, volevo una risposta netta: chi risponde sì è nazionalista, voglia o non voglia: chi no, non lo è. Lei doveva rispondere no e buona notte; e ogni altra discussione con me diventava inutile. Voleva rispondere sì? E allora doveva riconoscere di aver comune, sia pure con
148
GLI ANNI DELL’ATTESA
stante il comune denominatore della condivisa opzione liberista – era invece colto e messo in evidenza da Giovanni Boine, in una lettera a Prezzolini, che conteneva una dura requisitoria contro il nazionalismo italiano, definito una copia e anzi una copia peggiorata di quello francese, dalla quale poco si distingueva anche il movimento di Caroncini. Permettimi che un poco in ritardo, io ti confessi di non aver ben capito perché tu ci abbia dichiarato di esser così d’accordo con la lettera nazionalista di Caroncini. Infatti tu non rispondi nemmeno all’obiezione fondamentale che in essa ti è fatta (essere cioè le conoscenze tecniche di per se stesse non bastevoli ad un’opera profonda d’educazione nazionale, ecc.), mentre poi esplicitamente (e logicamente) rifiuti l’irredentismo e la guerra all’Austria che ti vengon proposti come completamento e incitamento a quest’opera. Ma se tu ne togli queste due cose, che cosa rimane dunque, fatta parte ad una cert’aria di schiettezza e d’onestà, che anche io ci sento, della lettera di Caroncini. Forse che t’è piaciuto codesto liberalismo economico e questo frequente uso della parola economia che nei nazionalisti guerrafondai e sentimentali non trovi? O t’è piaciuta la nobile ricerca del “massimo benessere economico di tutti gli Italiani”? Cosa positiva parecchio specialmente se ci sforziamo d’arrivarvi con la guerra all’Austria. […] Parliamo d’una fattoria o parliamo d’una nazione? Perché l’economia va bene e tu hai ragione di ricordarla a quelli della “Grande Italia” quando parlano d’invasione croata a Trieste ecc., ma questa del liberalismo nazionalista invade essa da sola tutta quanta l’Italia e l’accaparra a sé soffocandoci. E che nel Caroncini non sia cosa seria lo vedi del resto dalla praticità delle proposte guerresche che ti mette dinanzi. […] Ora ciò che testimonia della superficialità di codesto nazionalismo italiano, è che dell’ideologia di quello francese ha preso la cosa meno faticosa a prendersi: la guerra. Guerra alla Germania per la Lorena, guerra all’Austria per il Trentino. Ma non ha invece preso la volontà netta e tenace, e non in Barrès soltanto, di dare alla Francia coscienza di se stessa, coscienza precisa della propria tradizione. Per i nazionalisti nostrani la tradizione, come tu dici, consiste nell’aquila romana e nei leoni di S. Marco, od è per avventura una fede che quando la si sente, dice il Caroncini, etc. etc. Ma uno sforzo per chiarire questa fede, per analizzare le basi di essa e farla ragionevolmente cosciente e più forte, nessuno di loro l’ha fatto, finora. Segno chiaro dunque che non è venuto mai a codesti nazionalisti il dubbio che la fiacchezza morale e materiale d’Italia abbia ad es. per radice profonda la non consistenza di essa come nazione49.
soluzioni tecniche e con uomini detestabili, quel principio». 49 Giovanni Boine a Giuseppe Prezzolini, 10 agosto 1910, in G. BOINE-G. PREZZOLINI, Carteggio, 1908-1915, a cura di M. Marchione e E. Scalia, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1982, pp. 30 ss. La lettera veniva pubblicata nella «Voce» del 25 agosto. Diversamente, sulle radici autoctone del nazionalismo italiano. G. VOLPE, Italia Moderna, cit., III, pp. 309-310 e L. FEDERZONI, Italia di ieri per la storia di domani, Milano, Mondadori, 1967, pp. 7 ss. Sul punto, F. PERFETTI, Il nazionalismo italiano dalle origini alla fusione col fascismo, Bologna, Cappelli, 1977, pp. 26 ss.
SPIRITI DELLA VIGILIA
149
Erano parole che testimoniavano una discrasia profonda, che avrebbero trovato conferma nell’immediato50, e negli anni successivi. Quando Prezzolini e Papini e altri collaboratori del periodico sarebbero evoluti verso posizioni di dura critica per tutte le componenti del movimento nazionalista, che non risparmiava neppure la metamorfosi sciovinista e imperialista, antislava del vecchio irredentismo51. A cadere sotto la sferza polemica della «Voce» erano i maggiorenti dell’Ani, accusati esplicitamente di voler costituire una nuova camarilla parlamentare52, mentre si mantenevano cordiali, ma solo su questioni di dettaglio, i rapporti con uomini vicini ai liberal-nazionali come Giovanni Borelli53. Il contraddittorio toccava il suo culmine nel 1911, quando Prezzolini, già impegnato in un giro di conferenze sui limiti e le contraddizioni del nazionalismo54, si schierava in aperta contestazione all’impresa di Libia, confortato su questo punto dall’opinione di Boine e altri vociani55. In
50 Giovanni Boine ad Alessandro Casati, 13 ottobre 1910, in ID., Carteggio III., cit., I, p. 512: «Prezzolini m’ha mandato un Carroccio dove Caroncini risponde alla mia lettera. Difende l’irredentismo e la guerra, ma in sostanza aderisce alla parte positiva delle mie idee e le loda. Gli pare tuttavia che l’Italia non possa aspettare di aver piena coscienza di essa per operare. Ciò che in verità io non ho mai voluto. Ma non capisco perché si debba operare facendo delle guerre quando abbiamo tante cose, in casa nostra, da fare. Ho letto questa notte le Lettere meridionali del Villari: sono del 75, ma sono d’oggi. Facciamo il mezzogiorno invece che la guerra, sciocconi!» 51 S. SLATAPER, Sentimento antiaustriaco, «La Voce», 15 dicembre 1910, in La Voce, 1908-1913, cit., pp. 777 ss. 52 G. PAPINI, Nazionalismo, «La Voce», 22 aprile 1909; G. AMENDOLA, Il Convegno nazionalista, ivi, 1 dicembre 1910, pp. 677 ss. e 685 ss. 53 G. PREZZOLINI, I fatti di Romagna. Giovanni Borelli, la retorica di Roma e il nazionalismo, «La Voce», 11 agosto 1910, pp. 9 ss. All’articolo seguiva l’apertura di un dialogo tra Borelli e Prezzolini, nel quale sarebbe intervenuto anche Amendola, che si sarebbe sviluppato nei numeri successivi. Sul punto, A. CAPONE, Giovanni Amendola, cit, pp. 270-271. 54 Giovanni Boine a Alessandro Casati, 13 marzo 1911, in ID., Carteggio III, cit., II, p. 586: «Ieri ho avuto Prezzolini tutto il giorno qui. Ottima, efficacissima conferenza […] Il nazionalismo non ha niente da fare col patriottismo del risorgimento: non si può riattaccare ad esso. In Italia risale al Regno. Proteiforme aspetto del nazionalismo al congresso di Firenze per cui è difficile criticarlo etc. Disamina dell’irredentismo, critica del protezionismo (Prezzolini è un liberista feroce) e critica della corrente contraria all’emigrazione del mezzogiorno. Questa m’è parsa la parte nuova della conferenza: è stata vivacissima e precisa. L’emigrazione è combattuta soprattutto dalla piccola borghesia che si vede mancare così braccia a buon mercato e la possibilità di esercizio dell’usura. Inoltre gli emigrati che ritornano, ritornano civili e dan dei fastidi etc. In ultimo, al programma di parole del nazionalismo, contrappose un programma che è quello un poco della Voce per questo lato – liberismo – mezzogiorno come unica questione italiana sul serio –suffragio – ed anticlericalismo economico. Cioè non guerra alla religione per se stessa ma guerra alla potenza economica della chiesa facendo rispettare e rassodando le leggi nelle congregazioni che già esistono». 55 G. PREZZOLINI, L’illusione tripolina, «La Voce», 18 maggio 1911, in La Voce, 19081913, cit., pp. 704 ss. Si veda Giuseppe Boine ad Alessandro Casati, 27 settembre 1911, in
150
GLI ANNI DELL’ATTESA
questo modo, «La Voce» si attestava su di una collocazione vicina a quella di Salvemini56, seppur con molti distinguo, che il tempo avrebbe aggravato fino alla rottura57, e opposta, invece, a tutti coloro che vedevano in quella prova militare il doveroso «esame di riparazione» al quale l’Italia doveva sottomettersi dopo la sconfitta del 1866 e le prime disastrose prove nell’oltremare. Tra questi Volpe, che il 29 settembre 1911, scriveva: Abbiamo la guerra e bisogna pensare all’Italia che fa ora il suo esame di riparazione. Vedremo se e quanto ha profittato in 40 anni, se può far dimenticare la bocciatura d’altre volte, se è degna del suo passato, se noi possiamo avere fiducia in essa, cioè in noi. L’importanza del momento è in questo, più che in Tripoli di per sé. Potremmo anche andare alla conquista di uno scoglio battuto dal mare, e sarebbe lo stesso: un esame, che bisogna superare ad ogni costo e che, superato, darà alla nazione italiana un po’ di quello che ora le manca: fiducia in sé, slancio per osare, possibilità maggiore di tracciare un programma di politica estera. E poi, chi sa: la Turchia si rinforzerà e noi torneremo suoi amici, per fronteggiare altra gente58.
Molto più tardi, a proposito della posizione «anti-africana» di Prezzolini, proprio Volpe avrebbe stigmatizzato il «torto o ingenuità di chi nella politica accentuava il momento culturale o morale o moralistico», pensando di poter opporre «il miglioramento interno alla propaganda ID., Carteggio III, cit., II, p. 637: «È per inerzia ch’io non riesco ad appassionarmi alla questione di Tripoli? Né pro né contro. […] Ho come l’impressione che sia un diversivo d’origine ministeriale: offra da masticare al popolo d’Italia perché non pensi ad altra roba più grave e più seria. Tripoli ci costerà un miliardo dicono: un miliardo è qualcosa per la mia nazione e m’importa parecchio che si spenda in un modo piuttosto che in un altro […] Ambrosini ha ragione, teoricamente parlando, che oltre l’economia c’è pure la politica: ma questa Tripoli è politica buona o politica cattiva? La Voce non sente affatto le ragioni extraeconomiche dell’occupazione e questo mi irrita». 56 G. SALVEMINI, Il trabocchetto tripolino, in «La Voce», 24 agosto 1911; ID., Tripoli e Triplice, ivi, 21 settembre 1911, in ID., Come siamo andati in Libia e altri scritti dal 1900 al 1915, a cura di A. Torre, Milano, Feltrinelli, 1963, pp. 90 ss. e pp. 99 ss. Continuavano la polemica salveminiana, G. LUZZATTO, Le spese della conquista, «L’Unità», 10 febbraio 1912 e A. DE VITI DE MARCO, Il parassitismo tripolino e il Mezzogiorno, ivi, 16 marzo 1912, ora in L’Unità di Gaetano Salvemini, cit., pp. 303 ss. 57 Giovanni Amendola a Giovanni Boine, 7 novembre 1911, in G. BOINE, Carteggio IV, cit., p. 269: «Nella Voce ho scritto le note in corsivo per cinque o sei numeri (da quella sui socialisti) nell’intento di aiutare Prezzolini di fronte alla sorpresa della questione tripolina e di salvarlo dalla china su cui l’avrebbe trascinato Salvemini. […] Quanto a Salvemini hai ragione. Il Convegno non si farà più. All’Abetone avevo constatato qualche concordanza di idee con Salvemini, ma l’affare di Tripoli ha messo in evidenza un tale abisso di sentimenti, che è inutile pensare a collaborare nella vita pratica». 58 Gioacchino Volpe a Elisa Serpieri Volpe, 29 settembre 1911, CV. Sul valore nazionale della guerra di Libia, si veda G. VOLPE, Italia Moderna, cit., III, pp. 315 ss.
SPIRITI DELLA VIGILIA
151
per una più attiva politica internazionale e per l’espansione coloniale», illudendosi di «poter in assoluto subordinare e condizionare le faccende di fuori ad una perfetta sistemazione della vita interna, mentre le due cose hanno una loro interdipendenza e mutuamente si promuovono»59. Né il momento dell’intervento sarebbe riuscito a riannodare lo sfilacciato tessuto del dialogo tra gli uomini del «nazionalismo vocajolo»60, per dirla con Caroncini, e quelli del movimento liberal-nazionale, che nel 1914 avrebbero ulteriormente accentuato la loro presa di distanza dall’ideologia nel nazionalismo ufficiale. Nel maggio di quell’anno, il Convegno dell’Ani convocato a Milano, dominato dalle posizioni di Francesco Coppola e Filippo Carli dichiarava esaurite le ragioni del liberalismo, del liberismo e della democrazia e approvava tre ordini del giorno che insistevano sull’incompatibilità del nazionalismo con «l’individualismo economico tanto dell’economia liberale, quanto dell’economia socialista» che si basavano «su una concezione atomistica, cosmopolita e materialistica della società e dello Stato». Da quel primo assioma derivano come postulati necessari il rifiuto del libero scambio e il perseguimento di una strategia rigorosamente protezionistica nel mercato esterno. In quello interno, la costituzione di organizzazioni padronali e operaie dovevano limitare e indirizzare il libero gioco delle parti economiche in una prospettiva già precocemente corporativa61. 2. La dottrina nazionalista, di un nazionalismo che proprio in quell’occasione abbandonava la sua fisionomia di movimento per costituirsi in partito, trovava così la sua definitiva sistemazione. Questa urtava violentemente, nondimeno, con le posizioni delle componenti liberali che ripugnavano a quel «sacrificio totale dell’individuo e a quella concezione trascendente dello Stato», che negavano l’identificazione e la condanna di liberalismo e socialismo, considerando l’uno, lo strumento di bilanciamento dell’altro ed entrambi «un mezzo di elevazione del popolo, cioè di potenza della nazione», che proprio il dogma protezionista avrebbe non favorito ma anzi ostacolato62. L’inconciliabilità di
59 Ivi, p. 303. 60 Sulla partecipazione di Prezzolini alla propaganda interventista, R. DE FELICE, Prez-
zolini, la guerra e il fascismo, in ID., Intellettuali di fronte al fascismo. Saggi e note documentarie, Roma, Bonacci, 1985, pp. 62 ss. Si veda anche, Mussolini e “La Voce”, Firenze, Sansoni, a cura di E. Gentile, Firenze, Sansoni, 1976, pp. 23 ss. 61 F. GAETA, Il nazionalismo italiano, cit., pp. 151 ss.; F. PERFETTI, Il movimento nazionalista in Italia, 1903-1914, cit., pp. 163 ss. Si veda anche, Il nazionalismo italiano, cit., pp. 95 ss., dove è contenuto il testo degli interventi di Luigi Federzoni e Maurizio Maraviglia all’assise milanese, larvatamente favorevole al recupero dei liberali. 62 G. VOLPE, Italia Moderna, cit., III, pp. 617 ss.
152
GLI ANNI DELL’ATTESA
questi riferimenti teorici provocava un «esodo di gregari che unendosi anche con altri liberali, di più antico stampo o di stampo borelliano, o di nessuno stampo, istituirono Gruppi nazionali liberali», e non più quindi liberali nazionali, che reclutavano, tra ottobre 1914 e gennaio 1915, a Milano, Firenze, Roma, Ferrara, Bologna e in varie altre città italiane, con l’esclusione del Mezzogiorno, numerosi esponenti della classe intellettuale: lo stesso Giovanni Borelli, Amendola, Borgese, Emilio Bodrero, Scipio Slataper, Giustino Arpesani, Alessandro Casati, Francesco Ercole, Lionello Venturi, Antonio Anzilotti, Arrigo Solmi, Widar Cesarini Sforza, Ugo Monneret de Villard, Maffio Maffi, Luigi Valli, Lionello Venturi, ai quali si aggiungeranno i più giovani Nello Quilici, Concetto Pettinato, Dino Grandi63. I nazionalisti dissidenti si aprivano a una politica di larghe intese con socialisti riformisti, radicali, repubblicani, democratici cristiani dell’attivissimo cenacolo di Cesena, sulla base di un comune credo antiprotezionista. Pochi giorni prima dell’apertura dell’incontro romano, questa associazione, che avrebbe contato nell’immediato futuro anche sull’appoggio del «Resto del Carlino», un quotidiano politicamente eclettico ma che rispecchiava, dal punto di vista economico-sociale, gli interessi degli agrari padani64, fondava un suo organo di stampa, «L’Azione». Un settimanale politico-culturale, stampato a Milano, su iniziativa di Amendola, Giulio Bergmann, Paolo Arcari, Alberto Caroncini65, che Casati definiva «l’Unità di destra», 63 Il Gruppo milanese de “L’Azione”, in «L’Azione», 8 novembre 1914, p. 2; Il Gruppo milanese de “L’Azione”costituito, ivi, 6 dicembre 1914, p. 3; Il Gruppo nazionale-liberale di Firenze, ivi, 24 gennaio 1915, p. 2; Programma nazionale-liberale esposto dal Gruppo di Roma, ivi, p. 3; Il Gruppo nazionale liberale di Ferrara per la mobilitazione civile, ivi, 10 gennaio 1915, p. 3; La grande riunione di Bologna per la guerra, ivi, 4 ottobre 1914, p. 4. 64 Giuseppe Prezzolini a Giovani Boine, 6 ottobre 1914, in G. BOINE-G. PREZZOLINI, Carteggio, 1908-1915, cit., p. 125: «Nel Carlino regna una grande confusione. […] Chi può è Caroncini, amministratore […]». Sul punto, il giudizio di G. CAROCCI, Giolitti e l’età giolittiana. Dall’inizio del secolo alla prima guerra mondiale, Torino, Einaudi, 1961, p. 155, dove si parla del quotidiano bolognese, che cercò di «muoversi sul terreno del liberalismo conservatore ed immettergli un nuovo vigore di energie giovani, che dovevano avere la loro piena espansione soprattutto in una politica estera più dinamica e sensibile al problema dell’irredentismo», mettendo in evidenza «gli aspetti nazionali della tradizione liberale e le sue origini autoctone». Al giornale, che si presentava come la tribuna rappresentativa della borghesia emiliana, collaboravano Borelli, Caroncini, Arcari, Amendola, insieme a De Ruggiero, ma anche nazionalisti come Francesco Coppola, Maurizio Maraviglia. Interessante anche la presenza di Virgilio Gayda, Nello Quilici, Arturo Labriola. 65 Sulla collaborazione di Volpe a questa rivista, rimando al mio Gioacchino Volpe tra la pace e la guerra, 1914-1915, in «Clio», 2005, 2, pp. 229. Più in generale su questo periodico, G. SOFRI, Ritratto di uno storico: Antonio Anzilotti, cit., pp. 721 ss.; G. BELARDELLI, “L’Azione” e il movimento nazionale liberale, in Il partito politico nella belle époque, a cura di G. Quagliariello, Milano, Giuffré, 1990, pp. 293 ss. e, ora, compiutamente, C. PAPA, Intellettuali in guerra. “L’Azione”, 1914-1916, Milano, Franco Angeli, 2006.
SPIRITI DELLA VIGILIA
153
con scontato riferimento al taglio antigiolittiano del giornale di Salvemini, e Boine «una Voce fatta da Amendola»66. Tra maggio e ottobre, il periodico articolava il suo programma in una serie di editoriali a firma dei due direttori (Arcari e Caroncini) e di Antonio Anzilotti. In essi, si ribadiva la stretta fusione tra ideali nazionali e ideali liberali: di quel liberalismo «tradizionale», «italiano», già affermatosi nella stagione riformistica settecentesca, compiutamente elaborato e tradotto in azione nel corso del secolo XIX, poi soffocato e stravolto dalle esigenze della costruzione dello Stato unitario, che troppo spazio aveva concesso all’apparato burocratico, agli interessi di gruppi parassitari e monopolistici67. Al di là delle dichiarazioni programmatiche, è pero difficile considerare «fuorviante» una lettura della vicenda dell’«Azione» che finisca «col ridurre a “costola” del nazionalismo un’esperienza che ebbe a suo centro un tentativo di rinnovamento del liberalismo italiano»68. Agli occhi di un osservatore attento come Boine, lo stesso lavorio preparatorio che, tra 1913 e 1914, portava alla costituzione del periodico rivelava la difficoltà di disincagliarsi effettivamente da una prospettiva in cui gli elementi nazionalistici finivano per assorbire e snaturare quelli liberali e liberistici. Pressato da Amendola e da Casati69, Boine avrebbe fornito la sua adesione al foglio di Caroncini, ma solo nominalmente e più sulla base della stima di alcuni singoli collaboratori70, che su quella della fiducia 66 Alessandro Casati a Giovanni Boine, 20 marzo 1914; Giovanni Boine ad Alessandro Casati, 1 novembre 1913, in G. BOINE, Carteggio III, cit., II, p. 827 e p. 790. 67 P.M. ARCARI, Propositi; A. CARONCINI, Individualismo e nazionalismo, in «L’Azione», 10 maggio 1914, pp. 1-4; P. ARCARI, Il nazionalismo italiano alla vigilia del Congresso, ivi, 17 maggio 1914, pp. 1-2; A. ANZILOTTI, La tradizione liberale, ivi, 24 maggio 1914, pp. 1-2; ID., La monarchia riformista, ivi, 18 ottobre, 1914, pp. 1-2 68 G. BELARDELLI, “L’Azione” e il movimento nazionale liberale, cit., p. 293. 69 Giovanni Amendola a Giovanni Boine, 28 dicembre 1913, in G. BOINE, Carteggio IV, cit., p. 364; Alessandro Casati a Giovanni Boine, 20 marzo 1914, in G. BOINE, Carteggio III, cit., II, p. 827. Si veda la risposta di Boine del 13 maggio 1914, ivi, p. 838: «Arcari mi mandò la circolare dell’Azione con su il mio nome. Amen. Risposi che dove è il tuo e quello di Amendola mi sento onorato ci sia il mio. In verità collaboratore è difficile, e più che promotore io mi sento gregario in una impresa simile. Sono nazionalista liberale non per entusiasmo trascendentale, ma perché credo sia utile esserlo. Perché cioè in un paese dove idee come quelle dell’Azione trionfassero, la coltura e la contemplazione han modo di campare». 70 Giovanni Boine a Paolo Arcari, 8 maggio 1914, in ID., Carteggio IV, cit., pp. 354355: «Mi si era già accennato all’opera loro. Sebbene io non possa promettere d’esserne collaboratore assiduo, mi terrò sempre ad onore che il mio nome figuri fra i promotori, di un’impresa a cui han dato il loro Alessandro Casati e Giovanni Amendola. Nell’agire pratico le persone valgono a designare i gusti e gl’intenti sempre assai meglio che i programmi e le etichette. Ora io mi son sentito troppe volte completamente concorde con i due uomini che dico per non aderire con entusiasmo a ciò che essi siano per giudicare utile e buono.
154
GLI ANNI DELL’ATTESA
sulle possibilità di dar vita a un nazionalismo autenticamente liberale e non pregiudizialmente chiuso alla cultura politica democratica. Dai redattori dell’Azione mi sarebbe piaciuto sentir svolgere le loro idee in fatto di liberalismo. La corrente loro è buona ma son contento di aver scritto all’Arcari quando scrissi aderendo, che io più che ai programmi badavo qui dentro alle persone e che le persone, con cui per lunga esperienza mi sentivo fra i promotori affiatato, erano Alessandro Casati e Giovanni Amendola. Io non vedo ben chiaro nel democratismo dell’Azione, né dai numeri usciti s’intende bene la base logica di questo suo liberalismo. Anzilotti ad un certo punto parla dello spaventismo hegeliano come se in esso il liberalismo avesse raggiunto “coscienza di se stesso”; e prima aveva detto dell’individuo come spirito che si attua. Perché non espongono chiare le loro idee: liberalismo tradizionale italiano sono parole vaghe: liberalismo hegeliano non me la sento di accettarlo. Io ho delle idee mie. Ma vorrei sentire le loro. Perché non discutono Missiroli? L’articolo di Amendola era buono: ma son prolegomeni e problemi71.
Così Boine a Casati, nella lettera del 7 giugno, che esprimeva soprattutto una preoccupata attenzione per le possibili derive di quel raggruppamento, che sarebbe stata ribadita a poco meno di una settimana di distanza: Per completare il mio giudizio su l’Azione ti dirò che trovo inutili completamente le cronache di coltura fatte così come sono. Manca una direttiva, una sintesi. […] Del resto io son d’opinione che la sintesi manchi anche quanto al liberalismo. Non si può essere coerentemente liberali senza essere decentralisti. Cavour così era. Ondeggiano tra la destra hegeliana e i cavourriani stampo inglese. Io sono del parere che le direttive politiche non sono filosofie, e piuttosto empirie. Ma dev’esservi una filosofia che giustifichi questa empiria liberale; e questi dell’Azione non l’hanno. Credo che nemmeno Amendola l’abbia72.
In realtà, all’interno dell’«Azione», proprio Amendola avrebbe contribuito a tenere accesa la fiamma del dissidio con il nazionalismo corradiniano, nella sua breve collaborazione al periodico che si interrompeva a partire dal giugno 1914. Nell’articolo del 17 maggio, venivano contraddetti puntualmente i capisaldi ideologici dell’Ani: la sopravvaEd ho ferma speranza che lei ed il Caroncini, per i quali io ho sempre avute vive simpatie, possano rendere efficace, come pochi altri in Italia lo potrebbero, l’opera che annunciano». 71 Giovanni Boine ad Alessandro Casati, 7 giugno 1914, ivi, p. 842. Il riferimento è al volume di M. MISSIROLI, La monarchia socialista. Si veda, Alessandro Casati a Giovanni Boine, 20 marzo 1914, cit.: «Il Missiroli della sua Monarchia Socialista ha fatto un volume per Laterza, credo con qualche aggiunzione. Il partito liberale ha così dietro sé un pensiero conservatore cattolico: il che era già un desiderio dello Spaventa». 72 Giovanni Boine ad Alessandro Casati, 11 giugno 1914, Carteggio IV, cit., pp. 843-844.
SPIRITI DELLA VIGILIA
155
lutazione della guerra di Libia, la pregiudiziale antisocialista e antigiolittiana, il valore della guerra per la risoluzione dei problemi interni, l’omaggio feticista per il dottrinarismo di Maurras e del nazionalismo francese, le mai sopite simpatie per l’autoritarismo e l’imperialismo tedesco. A tutti coloro che parlavano dell’inevitabilità del prossimo conflitto, che avrebbe interrotto l’indifferenza dei governi dell’ultimo decennio per «l’urgente realtà del contrasto internazionale», Amendola obiettava che «alla guerra progettata e voluta, una nazione non può giungere se non quando abbia composto tutte le sue energie – ideali, morali e materiali – in un ordine organico corrispondente al massimo del suo valore», aggiungendo che «non si crea quest’ordine col volere la guerra prima che la sua necessità sia matura». Più gravi erano poi le conseguenze che il facinoroso interventismo nazionalista poteva creare all’interno del paese, proponendosi di sostituire il sistema di Giolitti con la pratica di «una competizione faziosa, sostanzialmente cooperante con coloro che pretenderebbero imporre alla politica italiana le categorie del clericalismo e dell’anticlericalismo»73. Ad essere battuta in breccia con queste parole era l’ipotesi della nascita di un nuovo blocco di potere (salandrino e filocattolico oppure sonniniano e anticlericale) che, stipulando un’alleanza con il nazionalismo, intendesse monopolizzare lo scenario politico italiano74. Era un contraddittorio ribattuto, ai primi di giugno, contro le alleanze spurie di un «grande partito liberale» ingrossato dall’apporto dei nazionalisti, di una forza politica, cioè, estranea alla «tradizione italiana» e all’«anima più autentica del Risorgimento», dalle quali il gruppo dell’«Azione doveva restare assolutamente estraneo, rivendicando la propria fisionomia di movimento di centro». Un programma d’azione nazionale liberale porta come pratica conseguenza il tentativo di una concentrazione di centro. Un programma nazionalista non può effettuarsi se non attraverso una concezione di Destra. Noi affermiamo la possibilità e la necessità di una politica nazionale che sia liberale nei mezzi d’attuazione; i nazionalisti invece vogliono una politica nazionale che rompa con la tradizione liberale, e che si attui mediante una concentrazione conservatrice. […] Non è qui il caso di svolgimenti teorici, dai quali risulti se la nostra azione possa considerarsi come funzione storica della borghesia liberale, o se quest’onore non spetti piuttosto al nazionalismo protezionista75.
Anche Anzilotti si sarebbe fatto alfiere orgoglioso dell’identità na73 G. AMENDOLA, L’ordine italiano, in «L’Azione», 17 maggio 1914, pp. 1-2. 74 B.VIGEZZI, Da Giolitti a Salandra, cit., pp. 72 ss. 75 G. AMENDOLA, Dissidio ideale?, in «L’Azione», 7 giugno 1914, p. 3.
156
GLI ANNI DELL’ATTESA
zional-liberale, in un articolo dai toni tuttavia molto ambigui, redatto in risposta all’articolo di un seguace di Salvemini, Pietro Silva, apparso sulla «Voce»76, che accusava Corradini e i redattori dell’«Idea nazionale» di essersi trasformati da triplicisti in antitriplicisti «per fiuto della piazza» e non per intima convinzione. Qui non si tratta di sostenere che Corradini è l’apostolo precursore della guerra contro l’Austria; ma di riconoscere che la sua propaganda per la preparazione morale alla guerra, a qualsiasi guerra, deve essere oggi ben altrimenti apprezzata. La democrazia non ha mai capito la guerra; ha chiuso gli occhi, credendo così di abolirla. Le è sfuggito il valore enorme di questo fenomeno, che sembra superiore alle stesse forze umane. Corradini che è apparso certe volte un retrogrado, da questo lato è stato più moderno dei democratici. Egli ha affermato il valore morale della guerra, la sua necessità immanente, la sua funzione di grande giustiziera dei popoli, di organizzatrice della società umana, di suscitatrice di virtù nazionali e individuali. La storia procede per antagonismi, dal dolore e dallo spasimo di questi nasce una nuova realtà. Chi non lotta dolorando rinuncia alla vita: l’unico pacifista resta Tolstoi. Chi combatte afferma dunque la propria esistenza di fronte agli altri; perciò una nazione vive in quanto lotta. Diamo così la mano a Corradini; siamo d’accordo con lui. E allora: perché allora non siamo nazionalisti? La risposta è semplice: perché siamo veramente liberali. E mi spiego. La preparazione alla guerra non può essere disgiunta dal lavoro riorganizzatore di tutta la vita nazionale. Noi liberali, appunto perché tali, avevamo potuto permetterci il lusso di aspettare dalla democrazia e dal socialismo una classe politica migliore della presente. La nostra speranza di gente nuova, che esprimesse valori più alti, è stata delusa. Come liberali comprendiamo perfettamente la democrazia; essa è un fatto e la storia non va a ritroso. La questione più grave è dunque questa: come organizzare la democrazia? Di fronte alla guerra attuale la domanda si fa più insistente. Essa investe tutta la concezione della vita: da politico il problema diventa filosofico. Le colpe qui non si distribuiscono più alla borghesia o al proletariato, a questo o a quel partito: è la vita morale che è sotto processo e che s’impone. Non si tratta soltan-
76 P. SILVA, Il nazionalismo corradiniano nell’ora presente, «La Voce», 28 ottobre 1914, pp. 4-5. Identiche critiche erano contenute nell’intervento di G. DE RUGGIERO, Il pensiero italiano e la guerra, pubblicato in versione francese nella «Revue de Métaphisique et de Morale», 1916, 5, pp. 749 ss., ora in ID., Scritti politici, 1912-1926, a cura di R. De Felice, Bologna, Cappelli, 1963, p. 138: «In un primo momento, il nazionalismo è stato partigiano dei tedeschi; ma più tardi, trascinato dal sentimento popolare anti-austriaco, si è pronunciato per una guerra irredentista, mettendo da parte il suo realismo politico, che gli aveva ispirato la sua precedente politica triplicista. Di modo che ha finito, in maniera, impreveduta, col dover rompere con i clericali e unirsi con i democratici, con i quali esso ha in comune il gusto di sommuovere le passioni di piazza e l’abilità di riuscirvi. Ma d’altra parte, non volendo rinunciare alle sue tendenze imperialiste, che sono in disaccordo violento con i principi democratici, esso non ha nemmeno la coerenza grossolana dei suoi alleati e si sfianca in un continuo sforzo di rappezzare la tunica multicolore delle sue idee».
SPIRITI DELLA VIGILIA
157
to della strombazzata mancanza di disciplina in noi italiani, del concetto cioè della necessaria subordinazione dell’individuo alla funzione collettiva che deve compiere; ma si tratta specialmente di sostituire ai vecchi simboli, nei quali più non crediamo, simboli di fede nuova. Questa è un’altra ragione per la quale noi teniamo a distinguerci dalla democrazia. Essa non ha coscienza di queste esigenze spirituali: allarga il numero dei responsabili nella vita pubblica ed è incapace poi a dare loro il senso di responsabilità. Proprio come ora: vuole la guerra e prende in giro chi ne ha affermato da tempo la necessità; vuole battere l’Austria ed ha spregiato in piazza l’esercito; fa le tirate contro la disorganizzazione della nostra classe dirigente ed è essa stessa un principio ed un elemento di disgregazione77.
La violenta tirata bellicista e antidemocratica di questo passo poteva facilmente suscitare dubbi consistenti sulla possibilità per il gruppo dell’«Azione» di effettuare un autentico rinnovamento liberale, senza restar impastoiato nel vecchio armamentario ideologico della destra protezionista, autoritaria, guerrafondaia. E se anche Rocco, già nel luglio del 1914, aveva parlato dell’impossibilità di conciliare il programma nazionalista con gli ideali del liberalismo «moderato» o «conservatore»78, questi dubbi, tuttavia, non sfioravano Volpe, che il 7 giugno aveva chiesto ad Arcari di poter aderire con una pubblica dichiarazione al programma politico della rivista. Leggo L’Azione – salvo i due ultimi numeri, usciti mentre ero lontano di qui. So che farete presto costì un convegno, come dice Il Resto del Carlino. Aderisco in ritardo e l’adesione mi è piaciuto motivare un po’ largamente. Se le pare, stampi le sei facciate che le invio, circa tre colonne di giornale. In occasioni come queste mi pare che disinteressarsi sia colpevole79.
In quello stesso periodo, «L’Azione», dopo aver rapidamente superato la pregiudiziale filo-triplicista, comune all’intero schieramento nazionalista80, entrava a militare attivamente nel movimento favorevole al-
77 A. ANZILOTTI, Nazionalisti e liberali di fronte alla guerra, in «L’Azione», 15 novembre 1914, p. 1. Si veda la ripresa di questi temi in ID., Perché non siamo nazionalisti, ivi, 21 febbraio, 1915, pp. 1-2. Sul nazionalismo di Anzilotti, E. GENTILE, La Voce e l’età giolittiana, cit., pp. 170 ss. 78 A. ROCCO, Che cosa è il nazionalismo e cosa vogliono i nazionalisti, poi in ID., Scritti e discorsi politici, con una Prefazione di Benito Mussolini, Milano, Giuffré, 1938, 3 voll., I, pp. 67 ss. 79 Gioacchino Volpe a Paolo Arcari, s. d. La lettera, conservata nell’Archivio Epistolare Arcari (AEA) della Biblioteca Civica Paolo e Maria Arcari di Tirano, mi è stata gentilmente segnalata da Giuseppe Parlato. 80 In generale sul punto, R. MOLINELLI, I nazionalisti italiani e l’intervento a fianco degli Imperi centrali, Urbino, Argalia, 1973, pp. 65 ss. Amendola entrava in polemica contro
158
GLI ANNI DELL’ATTESA
l’intervento a fianco delle potenze dell’Intesa81, mobilitando, per la realizzazione di quell’obiettivo, intellettuali già affermati (da Borgese a Solmi, a Cesarini Sforza, ad Anzilotti, ad Amendola), ma anche giovani esordienti che si troveranno, nel futuro, su diversissime e contrastanti posizioni, come Dino Grandi e Ferruccio Parri82. Su quella rivista, il 4 ottobre 1914, Volpe pubblicava un articolo significativamente intitolato: Ora o mai più. Ho notizia di un convegno che, per iniziativa dell’Azione, è stato tenuto a Milano. Vi giunga, amici, sebbene tardi, la mia adesione. Io non milito nella politica; ma come studioso e come cittadino, la seguo e la sento. Ora poi è difficile, impossibile non essere presi, trascinati, sommersi nel gorgo. Ora più che mai la politica è storia e grande storia; è non ripiego, espediente, accorgimento, manovra, ma forza e sforzo, moto e creazione. Muoiono gli individui a migliaia, ma si esaltano, anche se sconfitte, le nazioni; si accentua il differenziamento fra i gruppi e la omogeneità e solidarietà fra gli uomini di uno stesso gruppo, insomma, progredisce la organizzazione della umanità. […] Dico solo e semplicemente questo: sono – per quel poco che vale la mia voce – con voi; come sono con tutti quelli che reputano fatale all’Italia isolarsi al momento presente. La politica di una nazione vive di continuità: vive di coerenza. Fu necessario e utile andare in Libia perché da tanti anni si era orientata verso quella direzione la politica estera italiana; sarà ora necessario e utile andare… Compia la frase chi vuole. A me preme solo insistere sulla necessità di un’azione: perché noi non potremmo più nulla di fronte a una coalizione vittoriosa, sia pur logora dalla guerra. Di fronte a questo pericolo io invocai magari un’azione con gli antichi alleati. Tutto, tutto, insomma, fuorché lasciar risolvere dagli altri questioni che toccano così da vicino anche noi: dagli altri, cioè per gli altri non per noi, anzi contro di noi. E la soluzione di oggi, di domani, sarà probabilmente la soluzione definitiva. La vittoria del blocco austro-ungarico, cioè del germanesimo, sarebbe la fine del Trentino italiano, sarebbe il nostro schiacciamento politico, militare, economico nell’Adriatico; la vittoria degli altri sarebbe l’annichilimento etnico dell’elemento italiano in Dalmazia, Fiume, in Istria e, per-
l’articolo intriso di umori triplicisti di M. Rosazza, (La Triplice sino ad oggi, pubblicato su «L’Azione» del 9 agosto 1914, pp. 1-2), con l’editoriale, Agli amici de “L’Azione”, ivi, 16 agosto 1914, p. 1. 81 B. VIGEZZI, L’Italia di fronte alla prima guerra mondiale. I., cit., pp. 257 ss.: 442 ss.. Sul «vario interventismo italiano», A. ROCCUCCI, Roma capitale del nazionalismo, cit., pp. 574 ss.; G. BEDESCHI, La fabbrica delle ideologie. Il pensiero politico del Novecento, Roma-Bari, Laterza, 2002, pp. 83 ss. Un utile contributo è anche in U. SERENI, Notizie intorno alla guerra per il Liberato Mondo, in La Grande Guerra degli artisti. Propaganda e iconografia bellica in Italia negli anni della prima guerra mondiale, Catalogo della mostra di Firenze, Museo Marino Marini, 3 dicembre 2005-25 marzo 2006, a cura di N. Marchioni, Firenze, Pagliai Polistampa, 2005, pp. 95 ss. 82 P. NELLO, Dino Grandi, Bologna, Il Mulino, 2003, pp. 15-16; L. POLESE REMAGGI, La nazione perduta. Ferruccio Parri nel Novecento italiano, Bologna, Il Mulino, 2004, pp. 45-46.
SPIRITI DELLA VIGILIA
159
ché no?, l’affacciarsi dello slavismo in casa nostra, tra quei 40 o 50.000 slavi del Friuli italiano. Quasi quasi peggio questa ultima eventualità. In ogni modo, tristi eventualità l’una e l’altra … Avremo salvato la pelle, ma nulla più. Vorrei che gli Italiani rivivessero questi giorni la semplice verità, la paurosa verità: ora o mai più. La nostra generazione – governanti e governati – si addosserà, di fronte a quelli che verranno, la responsabilità di quel mai più?83.
Era un intervento, destinato a incontrare il gradimento di Salvemini84, che ne avrebbe addirittura ribattuto qualche argomento in un articolo apparso su «L’Unità», dove si sosteneva, distaccandosi, per una volta, dalle tradizionali petizioni di principio della «guerra democratica», che la scelta dei futuri alleati dell’Italia doveva essere affidata soprattutto a ragioni di calcolo politico85. Ma era anche una presa di posizione, quella di Volpe, che, forse, nonostante le intenzioni del suo autore, conteneva maggiori punti di affinità con i temi della propaganda schiettamente popolar-imperialista, che Alfredo Rocco andava sviluppando in quegli stessi mesi, sulla falsariga di un machiavellismo politico, che, se considerava per il momento necessaria l’alleanza con le potenze occidentali, non nascondeva la necessità di continuare nel futuro la contesa internazionale per assicurare la «supremazia dell’Italia nel Mediterraneo» contro l’egemonia franco-inglese, magari a fianco di una Germania che, fattasi consapevole dei suoi reali interessi, avrebbe marciato insieme al nostro paese per realizzare «l’espropriazione delle nazioni plutocratiche, ricche di capitali, ma povere di uomini»86. Agli inizi di novembre del 1914, si costituiva, a Milano, il gruppo nazional-liberale, presieduto da Volpe87. L’associazione, che agiva senza contatti diretti con i liberal-conservatori del capoluogo lombardo88,
83 G. VOLPE, Ora o mai più, in «L’Azione», 4 ottobre 1914, pp. 1-2, da cui si cita. L’ar-
ticolo era datato Santarcangelo di Romagna, 20 settembre. 84 Gaetano Salvemini a Pietro Silva, 14 ottobre 1914, ID., Carteggio, 1914-1920, a cura di E. Tagliacozzo, Roma-Bari, Laterza, 1984, pp. 52-53: «Io non riesco ancora a trovare un motivo per riprendere “L’Unità”. […] Ma sta il fatto che, se durante questo mese avessi dovuto continuare a pubblicare il giornale, sarei stato alla disperazione per non saper che dire: avrei potuto solo chiamare carogne i nazionalisti e scemi i socialisti. Ma ne sarebbe valsa la pena? Gli stessi giornali quotidiani non sanno che dire. Parlano solo gli spudorati e gli incoscienti. Se qualcuno, come il Volpe, che ha mandato un ottimo articolo all’“Azione” di Milano, scrive, lo fa per una volta sola: parla a scanso di scrupoli, e poi ritorna a tacere». 85 G. SALVEMINI, Per l’indipendenza d’Italia, «L’Unità», 4 dicembre 1914, in L’Unità di Gaeatano Salvemini, cit., pp. 358 ss. 86 A. ROCCO, Armiamo l’Italia per tenerla pronta agli eventi, «Il Dovere nazionale», 1 agosto 1914; ID., Noi e la Germania, ivi, 9 novembre 1914, poi in ID., Scritti e discorsi politici, cit., I, pp. 129 ss. e p. 210. 87 Il gruppo milanese dell’“Azione”, «L’Azione», 8 novembre 1914, p. 1 88 B. VIGEZZI, Da Giolitti a Salandra, cit., pp. 262 ss.
160
GLI ANNI DELL’ATTESA
nonostante il comune antigiolittismo e l’appoggio alla politica estera di Salandra, pubblicava nel mese successivo alcuni interventi programmatici, redatti dal suo presidente89. In essi, Volpe, mentre rivendicava la matrice integralmente liberale della compagine da lui diretta, pur diversificandola dalle forze del liberalismo tradizionale, contraddistinte da un’ottica municipalistica e dall’indifferenza per i «supremi interessi nazionali», non celava neppure le differenze con il partito nazionalista che aveva recentemente accentuato le sua ostilità per l’ipotesi di una riforma liberale propugnata da Borelli90. Il progresso sociale e la politica di potenza sullo scenario internazionale, la necessità di riforme all’interno, il rafforzamento dell’autorità dello Stato e il libero sviluppo delle organizzazioni di partito e di classe, la lotta contro il protezionismo, la messa all’ordine del giorno del problema dell’emigrazione (non senza consonanze, in questo caso, con le argomentazioni di Corradini)91, e finanche una valorizzazione in senso nazionale del socialismo, erano altrettanti nodi inscindibili del programma dei nazionali liberali milanesi, che sarebbe stato ribadito, di lì a un anno, nella dichiarazione di intenti del novembre 1915. Nel breve opuscolo, firmato tra gli altri da Paolo Arcari, Giustino Arpesani, Arrigo Solmi, Alessandro Casati e naturalmente da Volpe, si dava conto del proliferare dell’associazionismo nazionalliberale nelle principali città italiane e se ne esponevano gli obiettivi. Raccolti attorno al giornale L’Azione, questi gruppi vogliono lavorare e lavorano per un ravvivamento delle idee liberali, per una accentuazione in senso nazionale della politica interna ed esterna del Paese. Essi chiedono e vogliono un’Italia armata per la sua difesa, per la sua integrazione nazionale, per la sua espansione. Vogliono uno Stato forte di fronte a chiunque, entro i confini, attenti alla sua sovranità e libertà. Vogliono che l’Italia, superata la crisi internazionale del momento, rivolga ogni suo sforzo a risolvere il problema arduo dell’ordinamento amministrativo, ad aver cioè migliori servizi e meno ferreo accentramento. Vogliono una politica economico-sociale che, senza disperdere ricchezza, senza addormentare anche nei più umili la coscienza del valore delle prove iniziative e dei propri sforzi, assicuri alle masse la maggior somma possibile di beni materiali e morali. Vogliono infine che ogni attività e riforma utile a promuovere la vita della nazione come unità, ad equilibrare gli interessi del-
89 Il gruppo milanese dell’“Azione” costituito, in «L’Azione», 6 dicembre 1914, pp. 12; La propaganda nazionale liberale. A Milano, il discorso di G. Volpe, ivi, 20 dicembre 1914, pp. 1-2. 90 E. CORRADINI, Liberali e Nazionalisti. Discorso letto a Venezia nel dicembre 1913, ora in ID., Il Nazionalismo italiano, cit., pp. 97 ss. 91 G. VOLPE, Per i nostri emigranti, in «L’Azione», 31 gennaio 1915, p. 2. Sullo stesso punto e con argomenti non diversi, E. CORRADINI, La patria lontana, Milano, Treves, 1910; ID., Le nazioni proletarie e il nazionalismo, cit., pp. 40-41.
SPIRITI DELLA VIGILIA
161
le varie regioni e delle varie classi, a rinsaldare i vincoli tra la patria e chi emigra, siano oggetto, nei governanti e nei governati, di vigile culto, di pratica costante. E poiché nel momento presente i grandi problemi della Nazione italiana, cioè quello delle sue frontiere, quello della sua piena unità, quello della sua autonomia nell’Adriatico ed, eventualmente, quello della sua affermazione nel Mediterraneo orientale, soltanto con la guerra possono essere risolti, così ora essi vogliono anche la guerra e la concordia nazionale per la guerra92.
Molto significativamente, nel patrocinare l’ingresso nel conflitto, Volpe non faceva nessuna concessione alle ragioni ideologiche dell’intervento. Né sposava alcun atteggiamento costituzionalmente ostile agli Imperi centrali, dando piuttosto prova di una residuale ma ancora viva germanofilia, condivisa, per altro, da molti ambienti politici e intellettuali italiani fino alla vigilia della presa d’armi93. Sotto assoluto silenzio, passavano le dichiarazioni di fede circa il trionfo della democrazia e il superamento dell’autoritarismo militarista. Solo un’attenta e spregiudicata analisi degli interessi in gioco aveva spinto Volpe a caldeggiare la guerra a fianco dell’Intesa, dopo aver a lungo soppesato la possibilità di mantenere in vita l’antica alleanza94. Posto che l’Italia doveva iniziare il confronto bellico, al fine di tutelare i propri essenziali bisogni di consolidamento ed espansione, la sua iniziativa militare non poteva che volgersi a Oriente, verso la frontiera adriatica e balcanica. Bisogna compiere l’Italia, almeno laddove l’incompiutezza è più grande e dolorosa e pericolosa; bisogna creare nell’Adriatico una situazione tale che quel mare e le sue sponde non siano per noi un incubo e ci permettano di guardare e marciare dinanzi a noi, nel più vasto Mediterraneo e, se l’Italia sarà da tanto e ne avrà le forze, nel vastissimo oceano. Perché io non mi sento malato né di francofilia né di anglomania congenita. Mi son liberato di questi avanzi 92 CV. 93 R. ROMEO, La Germania e la vita intellettuale italiana dall’Unità alla prima guerra
mondiale, in ID., L’Italia e la prima guerra mondiale, Roma-Bari, 1978, pp. 109 ss. 94 Sull’iniziale atteggiamento triplicista, condiviso dall’intero schieramento del nazionalismo italiano, si veda ID., Ottobre 1917, dall’Isonzo al Piave, Milano-Roma, Liberia d’Italia, 1930, p. 50-51: «Giornali come L’Idea nazionale di Roma e Il Popolo d’Italia di Milano, i giornali tipici dell’interventismo (quello, fra luglio e agosto ’14, disposto anche – e giustamente – ad appoggiar una guerra della Triplice; questo, sorto proprio per spingere all’intervento antigermanico), conducevano una serrata, instancabile battaglia». Sul punto, il severo giudizio di Croce, Storia d’Italia, cit., pp. 293-294: «I nazionalisti volevano la guerra per giungere attraverso la guerra al successo e alla gloria militare, al soverchiamento del liberalismo e al regime autoritario […] Erano perciò indifferenti contro chi e come si dovesse muovere la guerra, purché guerra ci fosse, e, nelle prime settimane, essi soli, fra tutti i partiti italiani, si mostrarono propensi all’entrata in guerra dell’Italia a fianco della Germania e dell’Austria, e si disponevano a promuovere l’irredentismo di Nizza e della Corsica, di Malta e dell’italianizzante Tunisia».
162
GLI ANNI DELL’ATTESA
della nostra servitù secolare, dei tempi in cui il centro di gravità dell’Italia non era in Italia ma fuori. E poi all’incirca tutti sappiamo che cosa significhi la parentela in latinità e la tradizionale amicizia. Non ho soverchia simpatia per certi prodotti della francese democrazia, son ben lontano dal mettere di fronte Germania e Francia in aspre antitesi, come dispotismo e libertà, tenebre e luce, principio del male e principio del bene… Ancor meno mi commuove la tenera sollecitudine degli amici dell’ultima ora per il compimento della nostra integrità nazionale verso le Alpi del nord-est95.
Questo solo, dunque, era l’obiettivo della guerra. Il realizzarsi della «più grande Italia», di un’Italia coesa all’interno e potente all’esterno96, fino all’Asia minore, secondo una strategia di larga egemonia economica sul bacino mediterraneo, già propugnata da Caroncini97. Un progetto, che intanto poteva accomodarsi ai minori obiettivi del programma espresso da Salandra: rafforzare la posizione dell’Italia nel «concerto europeo», risolvendo il problema della sicurezza dei nostri confini nord-orientali e realizzando una salda presa sul bacino adriatico; consolidare la tenuta delle istituzioni, attraverso un processo di amalgama nazionale messo in moto dalla guerra patriottica, che avrebbe soddisfatto le antiche aspirazioni irredentistiche verso Trento e Trieste98. Che il paese avesse le forze per raggiungere questi obiettivi, attraverso il recursus ad arma, era per Volpe questione indubitabile, poiché l’Italia era una nazione «giovane» e, in quanto tale, bisognosa e desiderosa di crescere, anche a dispetto delle potenze cosiddette «democratiche». Sulla stessa linea di non demonizzazione dell’avversario, in virtù 95 G. VOLPE, Ora o mai più, cit., p. 2. 96 E. GENTILE, La grande Italia. Il mito della nazione nel XX secolo, Roma-Bari, Laterza, 20062; ID., Il mito dello Stato nuovo, cit., pp. 31 ss. e 171 ss. 97 A. CARONCINI, L’Asia minore e l’Italia, «Rivista delle Società commerciali», 1913; L’I-
talia e l’Asia minore. La lotta per la terra, «Il Resto del Carlino», 27 giugno 1913, ora in ID., Problemi di politica nazionale, cit., pp. 205 ss. Si veda anche, Oltre l’Adriatico, in «L’Azione», 20 settembre 1914; Marciare, ivi, 11 ottobre 1914, dove si profilava l’ipotesi, a guerra terminata, di una partecipazione italiana alla spartizione delle colonie tedesche e di una penetrazione nel Mediterraneo orientale. Ipotesi ampiamente ribadita in La propaganda nazionale liberale. A Milano. Alberto Caroncini, ivi, 20 dicembre 1914, p. 2. 98 A. SALANDRA, La neutralità italiana, 1914, Milano, Mondadori, 1928, pp. 86 ss. Il volume sarebbe stato recensito da Volpe, La neutralità italiana nella seconda metà del 1914, in «Il Corriere della Sera», 20 marzo 1928, p. 3 (poi in «Bibliografia fascista», 1928, 1, p. 4-5), in un resoconto animato dai sensi di un sentito apprezzamento per l’operato dello statista, dove si scriveva: «Libro interessante e promettente. E anche libro da ispirar fiducia. Molto studio di obiettività e sincerità […] Non tuttavia che non lo animino, insieme col proposito di dare ragione dell’azione sua di governo, anche il desiderio e l’ambizione di giustificarla, di procurarle riconoscimento e lode. Egli rivendica a sé e ai suoi più vicini collaboratori la pronta decisione della neutralità e il proposito dell’intervento con l’Intesa».
SPIRITI DELLA VIGILIA
163
della riconosciuta legittimità di ogni nazione a perseguire una politica espansionista, si erano già decisamente posti Guido De Ruggiero, nei suoi editoriali del «Resto del Carlino» e dell’«Idea Nazionale»99, nonostante i forti toni della sua polemica contro la Kultur germanica100, insieme ad altri collaboratori dell’«Azione», come Borgese101, e Dino Grandi che, riprendendo l’interpretazione dei processi storici, in chiave di dialettica tra «giovinezza» e «vecchiaia» dei popoli, proposta da Volpe, ne inaspriva forse indebitamente i contenuti anti-intesisti, in una polemica che poco si distaccava dai temi della «guerra proletaria e rivoluzionaria» di un Corridoni e di un Mussolini102. La democrazia latina con quella disinvoltura e con quell’antiveggenza di cui ha il monopolio, dopo gli anatemi di prammatica e le proteste verbali contro la guerra, si è decisa finalmente ad affidare a quest’ultima – proprio alla guerra – ciò che da principio doveva essere risultato esclusivo della sua facile e naturale vittoria. E adesso spera (nei primi giorni, sperava perfino il disarmo universale) da essa un assetto duraturo e quasi definitivo delle cose di questo mondo. La guerra che si combatte oggi è invece il risultato necessario, logico e fatale dell’assetto economico e storico della società moderna. Una guerra tra opposti imperialismi, e tale sarebbe nei suoi termini perfetti se ad essa non fosse purtroppo riservato l’ulteriore compito di risolvere una buona volta e per sempre il problema delle unità nazionali. Problema che non è affatto la causa e l’origine di questa guerra ma ne è piuttosto un incidente. Incidente di tale importanza tuttavia
99 Il riferimento è a G. DE RUGGIERO, Il pensiero italiano e la guerra, cit., pp. 125 ss., dove si polemizzava contro l’ideologia della «guerra democratica», che «non guarda al movimento storico delle nazioni, alla esigenza del loro sviluppo né alla forza della loro espansione». 100 ID., Da Emanuele Kant al mortaio da 420, «L’Idea Nazionale», 12 ottobre 1914, in La stampa nazionalista, a cura di F. Gaeta, Bologna, Cappelli, 1965, pp. 73 ss.; ID., Storia di oggi e storia di domani, «L’Idea Nazionale», 5 dicembre 1914, in Scritti politici, cit., pp. 73 ss. A questi interventi, seguiva la replica di Croce. Pagine sulla guerra, cit., pp. 5 ss. Più tardi Croce avrebbe ribattuto anche al saggio di De Ruggiero, Il pensiero italiano e la guerra, ne «La Critica», 20 marzo 1917, poi, ivi, pp. 153 ss. 101 G.A. BORGESE, Avversari, non odiatori della Germania, in «L’Azione», 30 agosto 1914, p. 1; ID., Alcune semplici verità, ivi, 6 settembre 1914, pp. 1-2, in particolare contro la demonizzazione della Germania, da parte dell’interventismo democratico: «Se questo fosse, come voi credete, un duello fra Francia e Germania, tra democrazia e impero, tra la “santa repubblica” e la “barbarie”, temo, ahimé, che ci sarebbe poco da dubitare sull’esito. Ma per fortuna ci sono altre idee e altre forze che collaborano a salvare i nostri popoli: v’è il rigido self-government inglese, v’è la rassegnata capacità di morire dei russi. V’è anche l’anonima e silenziosa furia giapponese». Si veda anche, ID., La responsabilità del partito liberale, ivi, 20 settembre 1914, pp. 1-2, dove si insisteva sulla possibilità che il popolo tedesco, del quale «bisogna ammirare le grandiose virtù», potesse tornare a esserci «amico». 102 B. MUSSOLINI, Il proletariato è neutrale?, «Il Popolo d’Italia», 3 aprile 1915 e ID., Guerra di popolo, ivi, 4 luglio 1915, in ID., Scritti e discorsi adriatici. I. Dalla neutralità al Piave, a cura di E. Susmel, Milano, Hoepli, 1942, pp. 89 ss.; 157 ss.
164
GLI ANNI DELL’ATTESA
da capovolgere per un momento il significato etico di questa conflagrazione. Nella guerra d’oggi vi è un difetto per così dire, d’impostazione. Infatti oggi soltanto un predominio s’intende: il predominio che viene dalla produzione e dal lavoro. Le guerre mondiali, le guerre di domani avverranno fatalmente fra le nazioni povere e le nazioni ricche, fra le nazioni che lavorano e che producono e le nazioni già padrone del capitale e della ricchezza. Guerra di carattere eminentemente rivoluzionario. Guerra di chi può di più contro chi ha di più. Lotta di classe fra le nazioni. Dato questo nuovo carattere della guerra mondiale, ciascun profano a prima vista può osservare che le pedine del grande scacchiere non sono al loro posto naturale. La guerra d’oggi doveva essere naturalmente combattuta fra Germania, Russia e Italia da una parte, Inghilterra e Francia dall’altra. Fra la gioventù e la vecchiezza. Fra la cassaforte e il lavoro. Per tutte queste ragioni, la pace che seguirà non potrà essere duratura. La vera guerra delle nazioni povere contro le nazioni ricche, naturale e necessaria, la guerra proletaria e rivoluzionaria, dovrà avvenire presto in questi termini precisi103.
Il tema della guerra come resa dei conti contro il predominio della plutocrazia internazionale sarebbe stata, poi, nuovamente riformulata da Volpe nei primi mesi del 1918, in un brevissimo opuscolo, di appena quattro facciate, pubblicato in forma anonima, nei fogli di propaganda del Comitato Lombardo dell’Unione Generali Insegnanti, presieduto da Arrigo Solmi e dal romanista Ugo Bonfante104. Un testo, nel quale, in ogni caso, nonostante la veemenza dei toni, si provvedeva, con accortezza, a smussare ogni pretesto socialmente eversivo, che avrebbe potuto destabilizzare lo status quo interno. Hanno parlato in tanti al popolo, da tre anni: ma non so di alcuno che gli abbia parlato nel suo linguaggio e in modo da esserne inteso. Né la sicurezza dell’Adriatico, né la ricongiunzione di Trento e Trieste alla patria, né la ragione suprema della difesa della civiltà, che non si credeva minacciata, potevano essere “scopi di guerra” veramente sentiti dal nostro popolo. Tanto più che questi scopi non raccolgono che una parte delle nostre aspirazioni. Bisogna invece dire al popolo la grande verità. Si fa la guerra per il soldato: per il contadino, per l’operaio, per l’impiegato. Si combatte per tutti coloro che pensano e
103 D. GRANDI, La guerra non risolverà nulla, in «L’Azione», 6 dicembre 1914, p. 4. L’articolo recava in calce questa nota redazionale, che si sforzava di normalizzare l’intervento di Grandi: «Combattere per la libertà, contro la libertà; pei popoli giovani, contro i popoli vecchi; per le braccia contro la ricchezza oziosa: formule seducenti, non da disprezzare perché contengono gran parte di vero, perché muovono all’azione le forze del nostro popolo mai pronto a motivi egoistici. Ma, per carità, non abusiamo. C’è una vecchia formula, non ancora esaurita, di politica nazionale, che salva il futuro e approfitta del presente: quella essenzialmente italiana e sabauda dell’equilibrio. Non è brillante, ma ha fatto sue prove non inutili. I giovani e Dino Grandi tra loro, ci consentano di ricordarla». 104 Sull’attività del Comitato milanese, G. MIRA, Memorie, cit., p. 112.
SPIRITI DELLA VIGILIA
165
stentano la vita nelle campagne e nelle città, in Italia e fuori d’Italia. Si fa la guerra per i proletari: questa è la guerra dei proletari. Solo pochi pericolosi imbecilli possono parlare di imperialismo. L’Italia non poteva fare e non avrebbe mai fatto una guerra imperialista: l’Italia poteva fare solo la guerra del pane quotidiano. E questa è la guerra del nostro pane quotidiano. Perché si fa la guerra per creare delle eguaglianze al posto di altrettante disuguaglianze. Per mettere a paro coloro che avevano di meno con coloro che avevano di più. Noi non vogliamo ci sia ancora domani qualcuno in Europa cui il proprio lavoro frutti di più che a noi il nostro. Combattiamo per l’Internazionale: non per quella politica, inutile, ma per quella economica, indispensabile, improrogabile. Combattiamo per trar fuori il nostro popolo dalla sua grigia fatica di eterno bracciante, di eterno servo. Vogliamo che ogni italiano valga domani quanto ogni altro europeo, e non viva peggio di un tedesco, di un inglese, di un francese, di un belga. Ecco il nostro irredentismo: redimerci. Emanciparci. Levarci in piedi. Non dobbiamo più essere nel mondo i tollerati, i cinesi, le bestie da soma, coloro che penano di più e che si pagano di meno. Non dobbiamo più essere i lustrascarpe, i barbieri, i menestrelli e i prosseneti degli altri. Non ci si deve più camminare sui piedi. Non dobbiamo più trascinare e lordare per le terze classi dell’orbe terracqueo i nostri fagotti, i nostri marmocchi e le nostre lacrime. Per questo si fa la guerra, per questo si piange, per questo si digrignano i denti, per questo si muore. Ecco quanto bisogna dire al popolo. Il popolo avrà tutto questo: poiché esiste una logica, ad onta di tutte le violenze perpetrate contro di essa, e la guerra non può non finire con quella perequazione dei valori nazionali, delle libertà e delle condizioni di vita in Europa per cui si combatte – o non finire. Ma avrà tutto questo – ecco il punto – solo dallo Stato, dall’autorità dello Stato e dalla forza che a questa autorità avrà saputo conferire. Nessuna speranza all’infuori di qui. La libertà di domani è l’obbedienza di oggi, la signoria di domani è la servitù di oggi. Lo Stato rende quel che riceve, non diversamente dal cielo, il quale torna alla terra quanta acqua ne ha bevuta. Non c’è altro da fare, non c’è altro da chiedere105.
Taluni argomenti di questa polemica, che il proseguimento delle ostilità avrebbe reso sempre più stringente e urgente, erano, d’altra parte, già attivi in Volpe fin dal 1911. Anno a cui datava, in coincidenza emblematica con la guerra di Libia, la sua iscrizione alla «Dante Alighieri»106. La scelta di associarsi al sodalizio patriottico-irredentista, durante l’impresa coloniale, non esprimeva, a dispetto delle apparenze, una contraddizione politica. L’irredentismo della «Dante Alighieri» aveva già perso da tempo, in tutto o in parte, i riferimenti ideali alle na-
105 Come si deve parlare al nostro popolo?, Unione Generali Insegnanti. Comitato Lombardo-Università Commerciale L. Bocconi – Milano, Bollettino n. 29. 106 Società «Dante Alighieri», Comitato di Milano, Atti e documenti. Luglio 1912, Milano, G. Agnelli, 1912, p. 63.
166
GLI ANNI DELL’ATTESA
zionalità oppresse107, operando piuttosto a favore di un’espansione italiana che avrebbe dovuto configurare una radicale trasformazione degli equilibri geopolitici dalla frontiera orientale fino al Levante. Già prima dell’approssimarsi del conflitto, il tradizionale patrimonio del vecchio patriottismo risorgimentale veniva profondamente trasformandosi108, per arrivare nell’esperienza di Giovanni Giurati a congiungersi con gli «orizzonti di gloria» del nazionalismo di Corradini109. Questa metamorfosi aveva toccato in profondità anche un personaggio di indiscussa ascendenza democratica come Scipio Sighele: uno dei più importanti interpreti del sentitissimo irredentismo delle popolazioni del Trentino110. La difesa dell’italianità di quella regione, da ottenersi attraverso una serie di riforme e la concessione di una larga autonomia amministrativa da contrattare con il governo viennese, corrispondeva alla prima fase della sua attività tra fine secolo e 1908111. Dopo quella data, in coincidenza quindi dell’annessione della Bosnia Erzegovina da parte dell’Impero austro-ungarico, le cui ripercussioni in Italia costituirono un profondo spartiacque nel modo di intendere la realtà dei rapporti internazionali112, Sighele appariva convinto della necessità di saldare l’aspirazione al ricongiungimento alla madrepatria delle regioni, ancora da essa separate, al tronco della «novissima pianta della vita politica italiana che si chiama nazionalismo»113. Di qui, ma 107 B. PISA, Nazione e politica nella Società “Dante Alighieri”, cit., pp. 279 ss. 108 Sul punto, G. VOLPE, Italia Moderna, cit., III, pp. 174 ss.; G. SABBATUCCI, Il pro-
blema dell’irredentismo e le origini del movimento nazionalista in Italia, in «Storia contemporanea», 1970, 3, pp. 467 ss.; 1971, 1, pp. 53 ss.; B. DI PORTO, Il nazionalismo tra continuità e rottura con il Risorgimento e S.B. GALLI, Dall’irredentismo al nazionalismo: appunti sul pensiero politico di Gualtero Castellini, in Da Oriani a Corradini, cit., rispettivamente pp. 25 ss. e pp. 161 ss. 109 G. GIURATI, La Vigilia, gennaio 1913-maggio 1914, Milano, Mondadori, 1930, pp. 253 ss. Ma sul precoce deragliamento dell’irredentismo verso l’ideologia nazionalistica, già in età crispina, si veda F. CHABOD, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896. I. Le Premesse, Bari, Laterza, 1951, pp. 72 ss. 110 M. GARBARI, Il pensiero politico di Scipio Sighele, in «Rassegna storica del Risorgimento», 1974, 3-4, pp. 391 ss.; 523 ss.; ID., Introduzione a L’età giolittiana nelle lettere di Scipio Sighele, Trento, Società di Studi Trentini di Scienze Storiche, 1977, pp. 9 ss.; F. PERFETTI, Il movimento nazionalista in Italia, 1903-1914, cit., pp. 125 ss.; N. GRIDELLI VELICOGNA, Scipio Sighele. Dalla criminologia alla sociologia del diritto e della politica, Milano, Giuffré, 1986, pp. 61 ss. 111 S. SIGHELE, Pagine nazionaliste, Milano, Treves, 1910, pp. 16 ss. 112 L. ALBERTINI, Le origini della guerra del 1914. I. Le relazioni europee dal Congresso di Berlino all’attentato di Sarajevo, Milano, Bocca, 1942, pp. 199 ss.; G. VOLPE, Italia Moderna, cit., III, pp. 29 ss.; F. PERFETTI, Il movimento nazionalista in Italia, 1903-1914, cit., pp. 47-48. 113 S. SIGHELE, Risveglio italico, agosto 1909, in ID., Pagine nazionaliste, cit., p. 214. Sui veri obiettivi della Triplice alleanza, che in quel momento appariva comportare di ne-
SPIRITI DELLA VIGILIA
167
anche a partire dal suo antigiolittismo, dalla spietata critica delle degenerazioni del sistema parlamentare e partitico, dalla condanna dello scarso o inesistente spirito patriottico del socialismo114, dalla valorizzazione della guerra come «necessità» e come «dovere», in occasione dell’impresa di Libia115, il suo avvicinamento a Corradini, la sua nomina alla presidenza del Congresso nazionalista di Firenze del 1910116 e la sua partecipazione al Consiglio centrale dell’Ani. Un idillio di breve durata, che si infrangeva per Sighele, come per Arcari e come per Borelli117, nell’impossibilità di tradurre il credo nazionalista ufficiale in una strategia, in grado di coniugare una politica estera né passiva né rinunciataria con la riforma interna del paese e di mantenerne in vita l’anima liberale, democratica e persino radicale senza contaminazioni con il movimento «retrogrado, clericale, antisemita, legittimista» di Maurice Barrès118. Nel 1912, Sighele usciva dagli organi dirigenti dell’Ani ed esprimeva l’inconciliabilità delle sue posizioni con un partito «del quale è sempre più palese l’attitudine reazionaria-clericale»119, aggiungendo, in una lettera al nipote Gualtiero, la sua soddisfazione per quella rottura pubblica e senza possibilità di riconciliazione. Il pubblico ha avuto la sensazione che c’era nell’Associazione Nazionalista qualche cosa di ambiguo e di gesuitico – e questa impressione non si perderà più. Io sono contentissimo e serenissimo, non solo e non tanto per me, quanto perché credo che sono stato lo strumento inconscio di un’opera di sincerità del nazionalismo. Adesso il pubblico sa veramente che cosa sia il nazionalismo: vedremo chi andrà da lui. Per fortuna si può essere buoni patriotti anche senza essere nazionalisti – e devo aggiungere francamente che il modo della polemica mi ha rivelato ciò che per tanto tempo non volevo credere e che pure mi si diceva: vale a dire che sono degli egoisti e degli arrivisti coloro che s’attaccano al nazionalismo, non per puro ideale, ma per manifestare i loro istinti di violenza e il loro orgoglio di superuomini. Noi, cioè tu ed io siamo al di fuori e al di
cessità «l’egemonia in Europa della Germania e l’abbandono dei Balkani alla monarchia austro-ungarica», una spietata diagnosi è già in A. LABRIOLA, Storia di dieci anni, 1899-1909, Milano, Il Viandante, 1910, pp. 149 ss. 114 S. SIGHELE, La patria e i socialisti, aprile 1909, ivi, pp. 173 ss. 115 ID., La dottrina nazionalista, in Il nazionalismo e i partiti politici, Milano, Treves, 1911, pp. 34 ss. 116 Sul Congresso di Firenze, P.M. ARCARI, Le elaborazioni della dottrina politica nazionale fra unità e intervento (1870-1914), Firenze, Il Marzocco, 1934-1939, 2 voll., II, pp. 606 ss.; F. PERFETTI, Il movimento nazionalista in Italia, 1903-1914, cit., pp. 61 ss. 117 F. GAETA, Il nazionalismo italiano, cit., pp. 126-127. 118 S. SIGHELE, Nazionalismo italiano e nazionalismo francese, agosto 1909, in ID., Pagine nazionaliste, cit., pp. 217 ss. 119 Scipio Sighele al cognato Orsini, s. d., ma maggio 1912, in L’età giolittiana nelle lettere di Scipio Sighele, cit., p. 247.
168
GLI ANNI DELL’ATTESA
sopra: perché – volere o no – il nostro pur diverso nazionalismo è nato da un’unica fonte l’irredentismo120.
Era un distacco che arrivava però troppo tardi, quando ormai l’eredità risorgimentale dell’irredentismo si era in larghissima parte snaturata a contatto di altri valori e altre ideologie, anche in virtù delle prese di posizioni di Sighele, che nel luglio del 1910 aveva sostenuto, proprio a proposito dell’impatto rivoluzionario delle teorie di Corradini, la necessità di non concepire la vita politica interna «come scopo a se stessa», e l’esigenza di porre «il fine della nazione fuori della nazione» in un processo di espansione della patria italiana che poteva fregiarsi senza timori e senza riserve del nome di «imperialismo»121. 3. Un saggio di questa violenta torsione nazionalistica dell’irredentismo lo avrebbe fornito anche Volpe nella primavera del 1914, in occasione della pubblicazione di un opuscolo dedicato alla «Dante Alighieri» affidato alle sue cure, nel quale chiamava a raccolta sotto le insegne di quell’associazione tutti coloro che percepivano «il senso di certi bisogni sempre più urgenti della nostra vita nazionale»122. Quali fossero questi bisogni era presto detto: la custodia del patrimonio storico e culturale italiano, ovvero la rinnovata promozione «di ricchezza, di civiltà nostra, di forza politica e militare» nel quadro di un’agguerrita competizione internazionale. Dal XII secolo, da quando si era «affacciata alla storia come nazione», l’Italia aveva conosciuto un’epoca di «meravigliosa forza espansiva», nella quale «aveva agito sul mondo col fiore della sua gente». Allora l’intero bacino del Mediterraneo, con le valli alpine, aveva delimitato il perimetro della civiltà italiana. Poi era venuta la decadenza, l’Italia si era ritratta «dai mari lontani». Il Canton Ti120 Scipio Sighele al nipote Gualtiero, 12 maggio 1912, ivi, p. 249. 121 ID., Che cosa è e che cosa vuole il nazionalismo, in Pagine nazionaliste, cit., pp. 237-
238.
122 G. VOLPE, La «Dante Alighieri» e la vita italiana fuori dai confini, introduzione a Per la Dante Alighieri nel XXV anniversario della sua fondazione, numero unico a cura del Comitato di Milano, 19 aprile 1914, p. 1, da cui si cita. Il contributo di Volpe, ora ristampato in appendice al mio, Storia d’Italia e identità nazionale, cit., costituiva l’apertura di un numero unico dedicato alla «Dante Alighieri» nel XXV anniversario della sua fondazione, al quale collaboravano: S. JACINI, Emigrazione e lingua italiana; E.G. PARODI, Dante Alighieri; C. SALVIONI, Le condizioni della cultura italiana nel Ticino; G. MIRA, Il sottocomitato studentesco di Milano della Dante Alighieri; S. BENCO, L’Università italiana a Trieste; A. TAMARO, Trieste e la Dalmazia per la coltura italiana. Sul punto, Gioacchino Volpe ad Alessando Casati, Santarcangelo di Romagna, 28 febbraio 1914, in FAC: «So che sei stato fuori d’Italia per vari giorni. Ci racconterai qualche cosa, e forse mi darai qualche buon consiglio per un numero unico che la sezione milanese della Dante Alighieri vuol pubblicare il 21 aprile».
SPIRITI DELLA VIGILIA
169
cino, il Trentino e l’Istria, «fatti italiani dalla natura e dalla storia, si saldavano a organismi politici ed etnici d’Oltre Alpe». Malta, la Corsica e infine Nizza passavano anch’esse in mani straniere, e così pure la Dalmazia, la Tunisia e l’Egitto, «paesi fuori dal cerchio segnato da natura attorno alla penisola», ma italiani «per antichi legami politici e culturali e demografici». In questo modo, «la nostra cultura da per tutto, poco o molto, cedeva», fino a essere messa in pericolo dal fenomeno dell’emigrazione – «poco più che forza bruta di lavoro» dispersa nel mondo – e dall’aggressività di altri nazionalismi. Alla «nuova Italia» non si poteva certo chiedere di invertire il corso della storia, «lo spostamento di centro della vita europea e mondiale» era ormai «definitivo»; e tuttavia qualcosa poteva ancora essere salvato, soprattutto ma non esclusivamente sulle sponde dell’Adriatico. Il destino dell’Italia era legato a una rinnovata e più consapevole fiducia, dentro i confini nazionali e ovunque vi fossero italiani, nel valore delle proprie tradizioni e nella forza della propria civiltà: Questa conservazione e difesa dell’italianità nel mondo, sia essa inconsapevole e latente o consapevole e spiegata come una bandiera, noi la dobbiamo volere per un senso di fraterna solidarietà con chi ci è affine di sangue, di memorie, di linguaggio. Noi la dobbiamo volere per attaccamento quasi filiale a ciò che ci fa nazione, cioè al nostro patrimonio ideale in se stesso, per coerenza quasi con noi stessi, col nostro passato, con la nostra storia che sarebbe quasi rinnegata o perduta se noi rinnegassimo o perdessimo la nostra lingua.
In questo passo, la valorizzazione degli aspetti più propriamente culturali della nazionalità – la condivisione di una lingua, di tradizioni, usi e costumi sedimentatisi nel tempo – si giustapponeva semplicemente all’appello ai vincoli secolari di parentela e di sangue. L’aspirazione a fondare su basi etniche la comunità nazionale non era un tratto distintivo peculiare della riflessione di Volpe, e neanche la spia lontana di un rigido determinismo razziale123. Volpe era infatti poco disposto a formulare una rigorosa teoria della nazione, e inoltre, in ossequio al suo pur particolare liberalismo, evitava di attribuire al dato biologico un’influenza decisiva nel divenire storico, col rischio di negare ogni valore al libero concorso degli individui. A sostanziare di pensieri e attitudini l’organismo nazionale non era la somma di alcuni tratti distintivi organici, bensì la progressiva naturalizzazione di un insieme di elementi culturali. La nazione era un’entità storico-naturale, e non biologica, co123 Sulla «banalità» del discorso razziale nella cultura europea tra ’800 e ’900, non sempre necessariamente razzista, si veda G.L. MOSSE, Il razzismo in Europa, Roma-Bari, Laterza, 1980.
170
GLI ANNI DELL’ATTESA
me Volpe avrebbe sostenuto con vigore all’interno della sua intera produzione storiografica124. Nazione equivaleva quindi a un legame comunitario, reso attivo dal vincolo etnico, al cui interno era ancora possibile salvaguardare l’autonomia della ragione individuale, grazie alla quale il singolo poteva riconoscersi parte del destino collettivo. In questo modo, veniva esaltato il ruolo delle aristocrazie intellettuali, le sole depositarie, davvero consapevoli, «dell’intima natura e delle necessità vitali di razze e di nazioni»125. L’intero opuscolo della «Dante Alighieri» portava il segno di questi convincimenti. Se quella pubblicazione accoglieva un intervento di Attilio Tamaro sulla cultura italiana a Trieste e in Dalmazia, non privo di motivi schiettamente imperialistici126, Volpe aveva chiesto ad Arcari di poter utilizzare, in quella stessa sede, un intervento, sulla Corsica di Tencajoli, molto più moderato nei toni, già apparso sull’organo ufficiale dell’Ani, «L’Idea Nazionale». Il signor Tencajoli mi scrive che non ha tempo ora di scrivere l’articolo. Vuol dire che riassumerò io o farò riassumere da altri ciò che egli stesso scrisse nell’Idea Nazionale e ciò che può essermi fornito da altre fonti. Se lei conosce altri articoli di riviste o giornali su la Corsica e Nizza e anche Malta, mi farà piacere grandissimo ad indicarmeli. Per es. le indicai un numero dell’Idea Nazionale posteriore al 7 settembre con un articolo del Tencajoli su Nizza127.
Tra i collaboratori di quel fascicolo Volpe avrebbe voluto avere anche Boine, con il quale si era mantenuta una stretta frequentazione128, con un intervento sugli italiani a Nizza. Da questi riceveva invece un garbato, ma fermo e molto significativo rifiuto, che batteva sull’impossibilità di fare dei propri scritti un «cordiale nazionalista»129, come ve124 E. DI RIENZO, La storia d’Italia di Gioacchino Volpe, in «L’Acropoli», 2005, 4, pp. 423 ss. 125 G. VOLPE, Italia Moderna, cit., II, p. 333. 126 A. TAMARO, Trieste e la Dalmazia per la cultura italiana, in Per la Dante Alighieri, cit., p. 5. 127 Gioacchino Volpe a Paolo Arcari, 9 marzo 1914, in AEA. Si veda la pronta risposta di Arcari, nel giorno successivo, ivi: «Eccole il numero che Ella desidera. Mi dispiace di non poterglielo lasciare, tenendo io la raccolta dell’Idea nazionale; me lo restituisca però con tutto suo comodo». 128 G. BOINE, Carteggio III, cit., I, pp. 330, 360, 485; II, p. 667; ID., Carteggio IV, cit., p. 105. 129 ID., Carteggio III, cit., p. 839: «Mi aveva scritto Volpe chiedendomi uno studio su gli italiani a e di Nizza per la Dante. Gli risposi che l’avrei fatto ma che non poteva essere un cordiale nazionalista. Non me ne disse più niente. Uno studio su Nizza non può essere un cordiale nazionalista perché i Nizzardi son contenti di essere francesi e gli italiani che ci vanno contenti di diventar nizzardi».
SPIRITI DELLA VIGILIA
171
niva ribadito nella lettera a Casati del 23 marzo. Ho paura che la mia gita a Milano sfumi. Se venivo avrei chiacchierato volentieri personalmente con i direttori dell’Azione e con vari altri. Per es. con Volpe ch’io temo di avere irritato per la faccenda su Nizza. Ti ho spiegato che avendomi egli chiesto uno studio sugli italiani di Nizza per il futuro numero unico della “Dante Alighieri” milanese io cominciai col manifestargli il mio malumore verso la Dante in genere: e gli dissi ch’io avrei fatto lo studio sebbene non credessi potesse servirci per scopi di eccitamento nazionalistico. Che i nizzardi son felicissimi di essere francesi, che gli italiani di questa parte della Liguria trovano troppo spesso nell’emigrazione in Provenza l’unico rimedio alle loro miserie per essere eccessivamente italiani, e che infine qui si sono sentite persino delle voci invocanti una annessione alla Francia. E citavo fatti d’incuria governativa che fomentano questi sentimenti e facevo confronti fra il benessere economico che la Francia ha saputo se non creare, secondare sulla riviera, oltre il confine, ed il malessere nostrano. Ciò non deve essergli andato a genio. Non m’ha più risposto. Vuoi un po’ informarti di questa cosa? E se mai assicurarlo ch’io sono un buon patriota e che il malumore per la Dante è una faccenda minima ed in gran parte locale e sentimentale130.
Una presa di distanza, questa, che non restituisce integralmente la complessità delle questioni in gioco, considerato che lo stesso Boine, aderendo pochi mesi prima al progetto dell’«Azione», aveva proposto alla rivista una riflessione sul nazionalismo incentrata su una sorta di «razzismo spiritualista», teso proprio a spiegare come il pensiero potesse incarnarsi in una razza rimanendo nondimeno pensiero131. Per indole e formazione, Volpe non tentò mai comunque di dare sistematicità alle sue idee su cosa fosse la nazione o il nazionalismo. Il paradigma etnico orientava però le sue analisi politiche, tanto da indurlo a salutare la guerra, quale opportunità per abbattere quei «corpi politici misti» (l’Impero austro-ungarico e la Russia zarista), ormai sul punto di perire di fronte all’imperioso emergere delle diverse nazionalità. Questa pur relativa etnicizzazione della comunità nazionale e le ambizioni espansionistiche, ad essa fatalmente connesse, non erano elementi tra loro in contrasto: l’ancoraggio all’italianità, a una cultura divenuta tratto naturale col susseguirsi delle generazioni, non aveva una valenza «statica». La nazione così intesa poteva, anzi doveva evolversi e quindi espandersi in ragione dello stadio raggiunto dalla propria civiltà. Tuttavia, Volpe preferiva parlare di nazionalismo e colonialismo piuttosto che di
130 Giuseppe Boine ad Alessandro Casati, 7 giugno 1914, cit. 131 ID., Carteggio IV, cit., p. 346. Sul punto, G. BENVENUTI, Boine, Gobineau e la let-
teratura, in Nel nome della razza, a cura di A. Burgio, Bologna, il Mulino, 1999, pp. 115 ss.
172
GLI ANNI DELL’ATTESA
imperialismo, che mal si adattava alle tradizioni del liberalismo, e quindi di nazionalismo orientato semmai a tutelare l’equilibrio tra grandi potenze e a favorire la «civilizzazione» di altri popoli attraverso una politica culturale ed economica di «assorbimento» e non per mezzo di «violenze governative», esattamente come aveva sostenuto Caroncini polemizzando con Ruggero Fauro sull’«Azione»132. Una distinzione, questa, che pesava nel dialogo con i nazionalisti ufficiali, dai quali i nazionali liberali intendevano distinguersi nel rifiutare – secondo il programma esposto da Volpe nel dicembre 1914 – il semplicismo di alcune indicazioni teoriche, e la tendenza a «formulare una dottrina della nazione» che, negando le classi, finiva quasi per «dimenticare il popolo», annullando del tutto la politica interna nella politica estera. Ma nel rifiuto del verbo del nazionalismo ortodosso contavano anche le insopprimibili ragioni del realismo politico, la considerazione del calcolo preciso delle forze in gioco, che spesso la provincialistica retorica di quel movimento aveva finito per dimenticare: I nazionalisti si sono immobilizzati quasi obbligati nella politica estera e nella contemplazione di un’Italia signora delle genti, di un’Italia non solo arbitra delle sue genti, ma anche di altre genti. E concepiscono la preparazione militare un po’ semplicisticamente come accumulazione di molti soldati, di molti fucili e cannoni, senza per avventura pensar molto se è possibile e può dar frutti un tale esercito dove siano cattive finanze pubbliche, un popolo che è ancora in parte plebe, malessere e scontento. […] Da essi ci separano certe loro esagerazioni e lo sviluppo ipertrofico di taluni organi; noi non crediamo di poter formulare una dottrina della nazione e del nazionalismo; non ci sentiamo di annullare le questioni sociali nelle questioni della politica estera e dell’espansione; ci pare contrario e alle nostre tradizioni e ai nostri interessi alimentare in noi e quindi incoraggiare negli altri uno spirito di sopraffazione imperialistica, che è un po’ l’antico Faustrecht germanico rammodernato e che rappresenterà un pericolo per le nazioni meno numerose e più deboli come noi siamo e certamente rimarremo relativamente ad altre nazioni133.
Ciò nonostante, i punti di contatto tra i due movimenti rimanevano molti, essendo i nazionali liberali «cordialmente» d’accordo con i nazionalisti: nel credere alla necessità urgente che sia corroborata, tonificata la vita del-
132 A. CARONCINI, Italiani e slavi nell’Adriatico, in «L’Azione», 11 ottobre 1914, p. 3. Si veda anche, ID., La minaccia slava e il dovere italiano, ivi, 2 agosto 1914, p. 1.; ID., Il problema italiano nell’Adriatico, ivi, 8 novembre 1914, pp. 1-2. Sulle stesse posizioni, W. CESARINI SFORZA, Il problema della Dalmazia, ivi, 21 marzo 1915, pp. 1-2. 133 La propaganda nazionale liberale. A Milano, il discorso di G. Volpe, cit.
SPIRITI DELLA VIGILIA
173
la nazione come unità; che essa acquisti il senso della sua continuità, che cacci da sé il morbido pacifismo e dia ai giovani virile educazione; che essa compia se stessa e giunga ai confini etnici che sono anche i confini storici e naturali; che sostenga i milioni di emigranti perché non siano snaturati e dirazzati e imbastarditi; che essa non si apparti dal campo delle competizioni coloniali che sono pur sempre scuola di energia, mezzo di accrescer la ricchezza complessiva della nazione; che governanti e governati sentano e pratichino il sacrificio degli interessi individuali, locali, regionali a quelli generali e nazionali. Ma detto questo, noi diciamo anche che la libertà economica deve essere il mezzo per distruggere in Italia molti contrasti regionali e di classi e quindi rafforzare la vita della nazione; deve essere il mezzo per eliminare forze non pure, dar la vittoria all’intelligenza, alla volontà, alle abilità tecniche e di organizzazione nel campo industriale, creare delle élites134.
Secondo Volpe, tutti questi motivi erano in realtà già presenti nel pensiero liberale della Destra storica, in quei «liberali generosi che avevano fatto l’Italia» seguendo i dettami di un equilibrato ma non imbelle realismo, la cui eredità era stata purtroppo dispersa dalle classi dirigenti successive, fino a Giolitti. Di fronte a quel depotenziamento del «vero liberalismo», solo la guerra avrebbe potuto corroborare davvero l’organismo nazionale, mettendo ogni suo membro «al cospetto della rude realtà»: il primato della forza nella storia e, dunque, l’inevitabilità della solidarietà e coesione sociale per rafforzare la continuità storica della nazione. Era una continuità radicata nella tradizione dei rapporti sociali, nella «costituzione materiale» del paese, come Volpe aveva tenuto a ribadire di fronte alle spinte sovversive che parevano aver contagiato anche lo schieramento interventista moderato e «d’ordine» all’inizio della primavera del 1915, quando, ad esempio, il gruppo dei «liberali monarchici» avrebbe dato la propria disponibilità al Comitato interventista di Roma ad aderire, in caso di mancato intervento dell’Italia in guerra, ad un moto rivolto anche contro la corona135. Assurdo e incomprensibile era invece per Volpe che anche costoro si associassero alla minacce del fronte democratico e addirittura a quelle della propaganda sovversiva, anarchica e socialista136, racchiuse nella formula «o guerra o repubblica!», senza capire che con la monarchia sarebbe crollato l’intero ordine sociale sul quale era stata edificata l’Italia. Il pretesto per un nuovo fendente contro tali sgraditi compagni di strada era offerto a Volpe dal commento all’assemblea promossa, il 6 aprile a Mila-
134 Ivi. 135 ACS, A5G, PGM, b. 89, f. 198, sf. 14, Notizie di un fiduciario repubblicano, 13
marzo 1915. 136 M. ANTONIOLI, Nazionalismo sovversivo?, in Da Oriani a Corradini, cit., pp. 177 ss.
174
GLI ANNI DELL’ATTESA
no, dalla Lega nazionale italiana, che aveva visto l’intervento di tre deputati: De Capitani, Gasparotto e Agnelli137. Soprattutto contro questi esponenti parlamentari, Volpe utilizzava tutta la sua vis polemica per biasimare l’attendismo del primo e il vacuo democratismo e la retorica filointesista del secondo: De Capitani non ha preso una posizione chiara e precisa, essendosi limitato a dire che se il governo chiamerà egli è pronto all’appello. Egli non ha voluto compromettersi, come la grandissima maggioranza dei deputati italiani: così un domani potrà indifferentemente, senza pericolo di troppa contraddizione, esaltare la desiderata e vittoriosa guerra, maledire chi abbia condotto il paese alla sconfitta, rinfacciare ai governanti l’occasione perduta per le sacre rivendicazioni, gridare tre o più volte a mo’ di conclusione: Italia, Italia, Italia. Più espliciti, pur con qualche nota che tradiva, in essi, l’abitudine di bazzicare con le società per la pace, gli on. Agnelli e Gasparotto. Specialmente il secondo: egli è contrario alla guerra ed alle guerre, ma questa volta bisogna farla. Oggi che, bene o male, la guerra c’è, noi possiamo approfittarne per la causa dell’umanità e dell’italianità, per vendicare le offese fatte alla legge universale della solidarietà, per affrettare la pace e renderla definitiva, per risolvere i problemi nazionali… Con maggiore robustezza ragionò l’Agnelli. Piacque anche, in lui, quella sua ripugnanza a pappagalleggiare sull’ormai famoso “cultura tedesca”, come è diventato obbligo di tanta gente che perché è interventista si sente di dover essere germanofoba e, peggio, perché è germanofoba, vuole dispregiare il nemico, anche se fino a ieri l’adorava. Ieri servi, oggi liberti, mai uomini liberi.
La vera e propria ratio politica dell’intervento era però altrove. Nella fermissima replica contro l’ordine del giorno, votato dall’assemblea, il quale mentre ammoniva «che se mai alla lunga attesa seguissero delusioni quali che siano, sarebbero inevitabili profondi rivolgimenti politici», poneva automaticamente in essere l’inaccettabile alternativa «o guerra, o rivoluzione». Finora noi chiamavamo “mentalità giacobina” (e anche “repubblicana”) questo svuotar le forme di governo di ogni contenuto reale, disconoscere tutte quelle forze storiche che in un dato momento – per noi assai vicino – hanno condotto un paese a sistemarsi monarchicamente o repubblicanamente, negar ogni legame organico fra la struttura sociale, le condizioni culturali ecc. di un popolo e le sue istituzioni politiche. Ma il bacillo giacobino acquista forza diffusiva, come pare!
Questo stesso «rappel à l’ordre» era stato già formulato da Gioac-
137 G. VOLPE, I costituzionalisti milanesi per l’intervento, in «L’Azione», 18 aprile 1915, pp. 1-2. L’articolo era datato 8 aprile.
SPIRITI DELLA VIGILIA
175
chino Volpe nella lettera del 16 maggio 1915, indirizzata al Cavalier Gandolfi, un esponente di rilievo del Comitato interventista di Milano. In quella comunicazione, si minacciavano le dimissioni da quell’associazione, nella quale anche il gruppo nazional-liberale, presieduto da Volpe, era entrato a far parte, per collaborare, superando le passate pregiudiziali, con socialisti riformisti e radicali favorevoli all’entrata in guerra138. Si tratta di chiedere una volta per sempre se è possibile ad uomini di nostra parte di collaborare con quella che ormai, dopo una lenta infiltrazione di rappresentanti di gruppi e gruppetti, è diventata la grande maggioranza del comitato e che, mi pare, è cresciuta anche di esigenze col crescere di numero e forse non sarebbe dolente di far da sé, solo da sé. […] Come norma per l’avvenire io dichiaro: noi siamo dei monarchici, è risaputo; siamo tali non nel senso di amar la monarchia più della nazione – nessuno è autorizzato ad attribuirci questa scempiaggine – ma nel senso di credere la monarchia utile e necessaria all’Italia, ad un’Italia ancora così povera di suoi propri organici elementi coesivi e così ricca di tendenze particolaristiche e di squilibri regionali e priva di coscienza nazionale autonoma; utile e necessaria, forse, anche se per avventura alla monarchia toccasse, per cecità o deficienza del suo attuale o di un suo qualunque rappresentante, di venir meno ad un suo altissimo dovere. Anche in questo caso non sarebbero annullate le altre e più generali ragioni per le quali crediamo alla utilità e necessità della monarchia in Italia, a 50 anni dalla sua costituzione. Si vuol considerare questa fede come cieca? Sia pure: farà il paio con la fede cieca dei repubblicani nella virtù miracolosa della repubblica, che è, viceversa, una cosa da fabbricare, mentre l’altra è una forza che esiste e ha radici, sia pur non profondissime, nel paese. […] Noi eravamo disposti a scendere in piazza, magari a trascendere ad una agitazione violenta contro il pericolo di un ministero Giolitti. Siamo disposti ad insistere energicamente perché alla guerra si arrivi, perché sia, se non svalutato il parlamento, esautorata la camera attuale e magari bastonato per le vie d’Italia il suo creatore e capo. Siamo disposti a lavorare per tenere su, durante la guerra, lo spirito pubblico del paese. Noi ci arrestiamo alle soglie della rivoluzione. E non solo se si tratta di farla, ma anche se si tratti di minacciarla139.
A distanza di più di un decennio, Volpe avrebbe elogiato il fermo
138 ACS, A5G, PGM, b. 105, f. 225, sf. 11, Ordine del giorno dei Comitati interventisti milanesi. Sulla fusione delle parole d’ordine dell’interventismo nazionalista, democratico, repubblicano, socialista rivoluzionario, si veda, B. CROCE, Storia d’Italia, cit., p. 294. Sullo slittamento dell’interventismo d’ordine su posizioni eversive dello status quo istituzionale, B. VIGEZZI, Da Giolitti a Salandra, cit., pp. 175 ss.; E. PAPADIA, Nel nome della nazione. L’Associazione Nazionalista Italiana in età giolittiana, Roma, Archivio Guido Izzi, 2006, pp. 205 ss. 139 CV.
176
GLI ANNI DELL’ATTESA
atteggiamento del governo italiano nel 1914 contro la mobilitazione popolare dei diversi schieramenti favorevoli a un immediato intervento140. Nessuna presa di distanza stimò tuttavia di dover opporre ai bellicosi editoriali dell’«Azione» delle giornate di maggio, nei quali all’esaltazione della violenza di piazza si sommò la celebrazione della dittatura del monarca141, di una dittatura non più costituzionale142, ma egualmente legittima, in quanto suffragata dal volere di una nuova «aristocrazia» nazionale. Ancora una volta la Monarchia plebiscitaria chiama a sé quanto di più vivo e di più caldo è nel popolo italiano e ne fa la sua milizia. È una nuova élite politica e militare che si stringe intorno al trono e plasma di sé lo Stato; una aristocrazia di audaci che doveva pur un giorno sostituirsi alla oligarchia giolittiana generata nell’atto elettorale, cioè nella negazione di ogni coraggio e di ogni rigidità intellettuale e morale. La dittatura del Re, questa ha voluto il popolo italiano contro la dittatura del politicante. La guerra che noi imprendiamo sarà lunga e ostinata. Una parte del popolo ha bisogno di essere trascinata dall’esempio di coloro che la guerra sentono e vogliono intensamente. È questa l’ora della borghesia italiana143.
Nessuna presa di distanza dalla virulenza di questi accenti, che avrebbero contraddistinto l’attivissima presenza nazional-liberale nelle manifestazioni interventiste di maggio, a Roma, Bologna, Genova e in Toscana144, da parte di Volpe, si diceva, ma anzi una sua diretta partecipazione al carattere ormai antisistema dei moti di piazza antigiolittiani in favore della guerra, che era testimoniato dalla stesura di questo manifesto indirizzato alla popolazione milanese, il 23 maggio: Il governo di Antonio Salandra avviava l’Italia alla sua maggiore impresa nella storia, alla liberazione dei fratelli tutti, minacciati di sterminio, alla inte-
140 G. VOLPE, La neutralità italiana nella seconda metà del 1914, cit.: «Il Governo italiano, come non cedé a qualche pressione interventista di chi giurava sulla vittoria tedesca (Guido Fusinato) o temeva che la neutralità ci precludesse ogni politica da grande Potenza (Sonnino, 1° agosto), così non ebbe a piegarsi a correnti antitripliciste, tanto meno a pretese minacce di rivoluzione, come poi in Francia si scrisse, sotto ispirazione di Barrès». 141 A. CARONCINI, La parola al Re, «Il Resto del Carlino», 14 maggio 1915, in ID., Problemi di politica nazionale, cit., pp. 274 ss. 142 L’ultima speranza, in «L’Azione», 16 maggio 1915: «La nostra ultima speranza è nel re. Se essa fallirà, la vendetta popolare cadrà inesorabile sulle istituzioni vuotate d’ogni residuo di funzione e di decoro italiano». Si veda anche, a crisi terminata, A. CARONCINI, Viva il Re!, «Il Resto del Carlino», 17 maggio 1915, in ID., Problemi di politica nazionale, cit., p. 276: «Re e Popolo si sono intesi, al disopra di tutti gli intermediari costituzionali». 143 Intorno al Re, in «L’Azione», 23 maggio 1915, p. 1. 144 La campagna contro Giolitti dei Nazionali Liberali, ivi, 23 maggio 1915, p. 2.
SPIRITI DELLA VIGILIA
177
grazione del confine naturale, alla sicurezza dell’Adriatico romano e veneziano, alla partecipazione nell’opera di salvezza dei minori popoli brutalmente aggrediti. Una banda di uomini senza fede e senza onore, trescando con lo straniero, col nemico, ha tentato di attraversare il destino della nuova Italia, destino di dignità e di gloria. Contro questo delitto è scoppiato e cresce di ora in ora lo sdegno. Se l’eccesso di scrupolo in un Re costituzionale può giustificare un attimo di esitanza di fronte alle manifestazioni di una falsa maggioranza parlamentare, la volontà popolare oramai palese e unanime dice alla Maestà del Re: “Scacciate gli uomini rei del tradimento della Patria”145.
Più tardi, a guerra già iniziata, al ricorso della dittatura provvisoria, per affrontare lo stato di emergenza, si sarebbe addirittura sostituito l’ipotesi di una soluzione eversiva in grado di debellare definitivamente l’idra multiforme del «vario neutralismo italiano». Ora è tornata la fiducia che la guerra possa finir bene per noi; la battaglia non è ancora cessata, nonostante il silenzio dei comunicati; ed è possibile che da un momento all’altro giunga qualche notizia grande intorno alle azioni presso l’Hermada. Chi sa! Sarebbe il modo migliore per scompigliare l’oscena propaganda giolittiana papalina che si sta facendo contro la guerra, magari a costo di provocarla un’altra guerra, quella civile146.
Già nel luglio del 1914, Alfredo Rocco aveva parlato di una «pratica rivoluzionaria» che doveva sancire la fine irreversibile del sistema liberale e parlamentare, che troppo a lungo si era identificato con il «giolittismo»147. Allora, infatti, avrebbe più tardi ricordato Gentile, «giolittismo si disse la malattia da cui la guerra avrebbe guarito l’Italia»148. E a quasi un trentennio dal «maggio radioso» del 1915, Volpe, infine, non si nascondeva che la discesa del paese nel teatro bellico era stata da alcuni considerata l’occasione rivoluzionaria per rovesciare i risultati rovinosi di «dieci anni di politica nefasta», arrivando a dichiarare che, solo considerando questo presupposto, si sarebbe potuti arrivare a capire l’«interventismo del 1914-15 che invocò la guerra, fra l’altro, come un mezzo per liberar l’Italia da Giolitti»149. Anche Salvemini, d’altra par145 G. VOLPE, I Liberali Nazionali di Milano per la guerra, ivi. Dello stesso tono, I Nazionali Liberali milanesi e le dimostrazioni per la guerra, ivi, 16 maggio 1915, p. 1. 146 Gioacchino Volpe a Elisa Serpieri Volpe, 31 settembre 1917, CV. 147 A. ROCCO, In piena pratica rivoluzionaria, «Il Dovere nazionale», 11 luglio 1914, poi in ID., Scritti e discorsi politici, cit., I, pp. 117-118. 148 G. GENTILE, La crisi morale, «Politica», 15 ottobre 1919, in ID., Dopo la vittoria, Roma, La Voce, 1920, pp. 69 ss., in particolare p. 73. 149 G. VOLPE, Italia Moderna, III, cit., p. 253. Sul punto, si veda anche ID., Gabriele D’Annunzio. L’Italiano, il Politico, il Combattente, Roma, Volpe Editore, 1981, p. 57: «Molti finirono per essere interventisti perché antigiolittiani e veder nella guerra non solo e non
178
GLI ANNI DELL’ATTESA
te, avrebbe seriamente considerato, alla vigilia del conflitto, la possibilità di una «rivoluzione» per determinare l’ingresso del Paese nel teatro bellico150. E sempre Salvemini, con mutato giudizio di valore, avrebbe poi parlato, per definire la prova di forza del partito della guerra, dell’«anomalia di una manifestazione pseudo-rivoluzionaria, favorita e persino provocata dagli uomini che erano al potere per forzare la mano al Parlamento», che aveva costituito la prova generale «per quell’altro colpo di stato dell’ottobre 1922, che doveva essere la marcia su Roma»151. Più precocemente, un esponente liberal-nazionale, Arrigo Solmi, aveva individuato invece, già nel 1919, il carattere genuinamente rivoluzionario del progetto di sospensione della legittimità costituzionale propugnato dal blocco interventista, che, in tutte le sue diverse componenti, si arrogava la rappresentanza della minoranza attiva della nazione, la sola deputata ad agire e decidere anche contro i voti della maggioranza legale, guidata dal vecchio notabilato politico. Per il sospetto, che, sotto il pretesto di un gioco parlamentare, si volesse condurre l’Italia all’ultima abiezione, il popolo italiano insorse con ammirabile energia. Dimostrazioni popolari percorsero tutte le maggiori città italiane e anche moltissime minori; a Roma, i più noti neutralisti furono pubblicamente mostrati a dito e alcuni insultati; a Roma, a Milano, a Genova, a Napoli, tutti i partiti interventisti, da quel momento, pronunciarono apertamente la formula: “o guerra o rivoluzione”; e gli incerti, i pacifici, gli assenti, fino ad allora silenziosi, uscirono nelle piazze e nelle strade, e aggiunsero la loro voce a quella dei dimostranti. Le “giornate di maggio” furono una vera rivoluzione, poiché, risvegliando le energie sopite della grande maggioranza del popolo italiano, rivelarono che questo era ormai cosciente della sua forza e geloso della sua dignità nazionale, era ormai capace di levarsi concorde contro le speculazioni politiche tese nell’ombra152.
tanto il mezzo di avere Trento e Trieste o assicurare pace perpetua o far trionfare il Diritto e la Giustizia e la Civiltà contro la “barbarie teutonica” e il “militarismo prussiano”, ma anche e forse più per liberare l’Italia da Giolitti». Il giudizio tornava in ID., Giolitti e la Monarchia, «Il Tempo», 10 febbraio 1950, p. 2, dove si invitava a «registrare questo stato d’animo di tanti Italiani d’allora, e specialmente della gioventù, invocante un rinnovamento, cioè partiti e classi dirigenti oltre che governo; registrarlo, dico, per capire poi l’interventismo del 1914-1915 che fu, tra l’altro, rivolta antigiolittiana, e gli avvenimenti che in Italia seguirono alla prima grande guerra, cioè l’“infausto ventennio”». 150 Gaetano Salvemini a Pietro Silva, 14 ottobre 1914, cit. 151 G. SALVEMINI, “Lezioni di Harvard”. L’Italia dal 1919 al 1929, in Scritti sul fascisno, a cura di R. Vivarelli, B. Valeri, A. Merola, Milano, Feltrinelli, 1966, 2 voll., I, p. 385. 152 A. SOLMI, Il Risorgimento italiano, 1814-1918, Milano, Biblioteca della Università Popolare Milanese e della Federazione Italiana delle Biblioteche Popolari, 1919, p. 173. Sul carattere eversivo del «radiosomaggismo», si veda anche la testimonianza di P. VITA-FINZI, I radiosimaggisti, in ID., Le delusioni della libertà, Firenze, Vallecchi, 1961, pp. 211 ss.
II.
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
1. IL FILO DELLA SPADA 1. Smorzato ma non esaurito il clima di guerra civile fredda, che aveva contraddistinto i mesi del moto interventista, Volpe, a quasi due anni esatti dall’entrata in guerra, restava fermissimo nel suo atteggiamento di guardinga attenzione, se non davvero di profonda sfiducia verso i partner dell’alleanza. Questa si manifestava con toni taglienti nella lunga lettera, inviata a Corrado Barbagallo nel giugno 1916, in risposta all’invito a partecipare all’attività del Comitato internazionale franco-italiano1, che si prefiggeva di sostenere, in comunità di intenti con l’Istituto francese di Firenze diretto da Lucien Luchaire, lo sforzo bellico congiunto delle due «sorelle latine», illustrando le comuni matrici intellettuali e politiche dei due paesi e promuovendo un programma culturale unitario, in grado di respingere l’egemonia della Kultur tedesca2. All’ingenua francofilia di Barbagallo, Volpe contrapponeva un giudizio politico di fermo e scettico attendismo nei confronti delle reali intenzioni delle potenze alleate, non dimentico della sistematica avversione, dimostrata nel passato dai gabinetti di Parigi e di Londra alle naturali mire espansionistiche italiane. Ambizioni, ieri, sempre frustrate in Africa, per mantenere il controllo di quel quadrante strategico nelle mani di un condominio franco-inglese, oggi, ostacolate in Levante, per favorire la Grecia, e, nel futuro prossimo, destinate a esser forse disattese nuovamente al fine di assecondare il giovane imperialismo slavo. Io appartengo a quegli Italiani che, senza accampar di fronte alla Francia pregiudiziali di nessun genere, pure sono sempre sotto l’impressione di quello che è stata la politica francese verso l’Italia da molti anni. Fra i più vivi ricordi,
1 Per il giudizio non favorevole su quell’associazione, G. VOLPE, Il popolo italiano nella Grande Guerra, 1915-1916, a cura di A. Pasquale. Prefazione di G. Belardelli, MilanoTrento, Luni, 1998, p. 138. 2 ID., Italia Moderna, cit., III, pp. 412 ss.; S. MASTELLONE, La rivista “France-Italie” (1913-1914) e la corrispondenza Ferrero-Luchaire, in «Il Pensiero Politico», 1978, 1, pp. 58 ss. Sull’attività di Barbagallo, per il rafforzamento della «solidarietà latina» tra Francia e Italia, si veda, R. BRACCO, Storici italiani e politica estera. Tra Salvemini e Volpe, 1917-1925, Milano, Angeli, 1998, pp. 50 ss.
182
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
direi fra le più dolorose ferite della mia giovinezza, vi è la lettura di certi, di molti giornali francesi al tempo della guerra d’Abissinia, venti anni fa, al tempo della disfatta di Adua. Non ho potuto dimenticare; non abbiamo, molti di noi Italiani, potuto dimenticare! E le molte parole di fratellanza latina che da allora in poi, quasi con ricorsi periodici, si sono pronunciate e tutti i principî e tentativi di ravvicinamento mi hanno trovato scettico, mi hanno fatto scuotere il capo. E l’ultimo due anni fa crollò, in modo da rinfrescare dolorosamente i ricordi. Ora stiamo combattendo una comune guerra, è vero; ora siamo alleati. Ed è già qualche cosa. Ma è ancora poco per poter alimentare una fiducia ben fondata sull’avvenire. La nostra è, per ora, più un’alleanza negativa che propositiva: abbiamo bisogno gli uni degli altri contro un egual nemico e basta. Ma i nostri rapporti, i nostri normali rapporti come si stabiliranno? Vi saranno dei fatti, per piantarli su basi diverse che nel passato, o si seguiterà a chiacchierare, a rievocar la latinità ecc. ecc.? L’accordo sarà fatto mettendo noi lo spolvero su tutto ciò che è avvenuto nell’Africa settentrionale negli ultimi 30 anni, là dove noi avevamo interessi superiori alla stessa Francia (Tunisia), relazioni politiche felicemente avviate e assai promettenti (Marocco)? La Francia ci ha compiutamente soppiantato, giovandosi di quella sua forza superiore alla nostra che adesso tutti rimproverano alla Germania, giovandosi di certe diffidenze inglesi verso di noi, delle manovre di Bismarck per legar noi alla Triplice. Rimase la Tripolitania: ma quanto non l’avete, voi e gli Inglesi, tagliuzzata da tutte le parti, pigliandovi le oasi, deviando le carovaniere! È rimasto uno scheletro e lo avete lasciato all’Italia, dicendo sì, alcune belle parole quando l’Italia vi stese su le mani, ma soffiando sopra gli Arabi contro di noi, chiudendo un occhio o tutti e due al contrabbando, agendo insomma, sostanzialmente, non molto diversamente dall’Austria e dalla Germania. Allora avemmo l’impressione che proprio dovessimo mettere gli stranieri tutti in un mucchio e non valesse la pena di far distinzioni. Venne poi l’inizio della crisi d’oriente, venne la politica ellenofila ed italianofoba o quasi della Francia e dell’Inghilterra. Come potevamo noi amare la Francia, amare l’Inghilterra? Lasciammo questo compito alla nostra radicaleria massonica ed ai vecchi spasimanti del “tradizionale amico”, gli inglesi. Adesso quindi ci chiediamo ancora: dovranno seguitare questi due paesi a stuzzicare la Grecia contro di noi, ad alimentare le sconfinate ambizioni dei greculi moderni per farsene degli amici contro di noi? E anche ora, forse, le direi una bugia se le dicessi che vedo del tutto chiari i rapporti Francia-Serbia-Italia, che trovo rassicurante per l’avvenire delle nostre relazioni l’atteggiamento di accentuata jugoslavofilia di molti scrittori e uomini politici francesi, proprio mentre voi dite che bisogna iniziare il blocco latino e anglosassone contro gli Imperi centrali. Si direbbe che volete tenervi insieme Italiani e Serbi, lusingare gli uni con una bella parolina all’orecchio e gli altri con altra parolina, anche se e dove gli interessi degli Italiani e dei Serbi possono essere in contrasto… Dunque, egregio amico, aspettiamo. Vedremo i fatti. E dai fatti ci lasceremo subito disarmare. Non chiediamo di meglio che di essere disarmati. “La Francia dovrà apparire ai nostri occhi ed essere una migliore alleata della Germania”. Ecco, semplicemente, il nocciolo del problema; il quale si presenta, del resto, sempre e a tutti così. Non è la maggiore o minore affinità etnica, di linguaggio o altro che può determinare le alleanze. Non vedete ora unite Inghilterra e Russia? E
IL FILO DELLA SPADA
183
la Francia non è da 20 anni alleata dell’Impero moscovita fatto di Slavi e di Mongoli? Viceversa Spagna, Italia e Francia si sono piuttosto guardate in cagnesco. E ora la nostra sorella in latinità, la Romania, si muoverà … solo se noi vinceremo. Ma queste sono banalità, tanto risultano essere chiare e semplici, né serve insistervi sopra3.
Come Guido De Ruggiero, anche Volpe pensava che i legami tra i popoli non potevano avere altra ragione che una transeunte e continuamente ridefinibile comunanza di interessi, e che lo scoglio del realismo politico costituiva l’insormontabile ostacolo, contro cui avrebbe sempre naufragato malamente qualsiasi intesa basata su una presunta affinità etnica o razziale o sull’equivoco concetto di una immaginata «democrazia universale»4. Queste conclusioni erano già formulate, nell’autunno del 1914, quando lo storico non soltanto si dichiarava estraneo a qualsiasi sentimento francofilo e anglofilo, e quindi alla retorica corrente che opponeva la Germania alla Francia nei termini antitetici di «dispotismo e libertà, tenebre e luce, principio del male e principio del bene», ma andava anche oltre, prospettando la possibilità, in un domani remoto o prossimo, di una futura alleanza italo-tedesca. Potrà essere anche che sia per venire un tempo forse preveduto e invocato da qualcuno degli artefici della Triplice alleanza, in cui noi, popolo che è sul crescere, ci dobbiamo trovare con altri popoli giovani e bisognosi, ad esempio… i tedeschi, contro vecchi accaparratori e sfruttatori del mondo: vecchi e perciò mezzo esauriti e destinati fatalmente a cedere ad altri il posto. Di questo conflitto tra giovani e non più giovani, tra ricchi di beni e ricchi di uomini c’è già qualche cosa nella guerra attuale. Direi anche che esso ne formi il noc-
3 Gioacchino Volpe a Corrado Barbagallo, 16 giugno 1916, CV. La lettera si concludeva in questo modo: «Ma giusto per farle vedere che sono assai ben disposto a lavorare per il futuro aggruppamento dell’Europa antiteutonica, le ricordo ciò che lei un anno fa mi disse a proposito del futuro congresso storico da tenere a Pietroburgo. Ha trovato altri che voglia preparare una partecipazione degli studiosi italiani a quel congresso? Se no, e se la persona di un non-francofilo come sono io le pare adatta, io sono disposto ad occuparmene. Andai a Londra, quattro anni fa, e feci di quel convegno di storici un’ampia relazione per l’Archivio Storico Italiano (credo la più ampia che ne sia stata fatta): volentieri andrò a Pietroburgo e stenderò un’altra relazione, forse con tanto maggiore piacere». Il documento è conservato nel Fondo Volpe della Biblioteca comunale di Santarcangelo di Romagna, d’ora in poi FV. Sulla «gallofobia» di Volpe e il suo atteggiamento di diffidenza per «una Francia, sempre pronta ad attraversare ogni avanzamento dell’Italia» si veda, ID., Italia Moderna, cit., III, p. 10 ss., pp. 386 ss. 4 G. DE RUGGIERO, Il pensiero italiano e la guerra, cit., p. 133: «L’alleanza italo-francese rischierà di svanire tra le nubi di un vago idealismo, se, una volta cessata la minaccia del pericolo comune, non si cercherà di fondarla su basi più solide del facile apriorismo dottrinario della democrazia che tende a subordinare questa alleanza alle esigenze estranee di una pretesa democrazia internazionale».
184
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
ciolo. E con ciò abbiamo anche un po’ la giustificazione della Germania, l’attenuazione della sua colpa di aver provocato, almeno in apparenza, la guerra: la giustificazione e l’attenuazione stessa che per avventura potremmo ricercar noi italiani fra 100, fra 1000 anni se, Dio piacendo, seguiteremo a proliferare e a trovare il mondo ostinatamente occupato da altri. Germania e Inghilterra sono un imperialismo in formazione che lotta con un imperialismo già costituito da tempo. La differenza non è poi tanto grande. E se la Germania avesse negli ultimi decenni conservato una maggiore misura, contegno, calma, apprezzamento degli altri; se non avesse sentito bisogno di teorizzare anche sopra la sua mondiale azione pratica, seccandoci con le mille proclamazioni della provvidenziale superiorità del suo sangue e con la pretesa di missioni da compiere, a spese di tutti noi, quella differenza sarebbe ancora minore! Non dunque anglofilia o francofilia; anzi, se piace, eventuale collaborazione futura Italo-germanica. […] Ma ad ogni generazione il suo lavoro. Ed ora il nostro compito è un altro; è più vicino a noi; è, se si vuole, più modesto. Ma è indispensabile compierlo prima. E sta sull’Adriatico. Il sentimento nazionale e la invincibile attrazione che spinge l’un verso l’altro quelli che, nell’incrociarsi delle favelle, parlano la stessa lingua; la difficoltà di raggiungere o conservar a lungo andare equilibrio ed uguaglianza di fatto tra nazionalità diverse e diversamente forti di uno stesso Stato; la tendenza agli ingrandimenti territoriali che è propria di tutti i popoli in un certo momento del loro sviluppo, per la spinta delle forze capitalistiche e per la difficoltà di soddisfare altrimenti tanti bisogni culturali; tutto questo porterà – come ha già portato da un secolo o due – alla risoluzione di quei corpi politici misti nei loro elementi ed alla fusione di questi con le nazioni cui appartengono. Non vedete? Anche il socialismo, moto internazionale per eccellenza, si è svolto in quei paesi nazionalmente. […] Contare sulla gratitudine di quelli a cui la nostra neutralità avesse agevolato e forse dato la vittoria, sarebbe pericoloso e vergognoso. Da ingenui e da accattoni. E poi una colonia si potrebbe comprare o barattare, non un lembo di patria. In questo sentimento il popolo italiano è ormai, si può dire, concorde. […] È vero che non ci seduce molto avere a fianco tali che ieri sputacchiavano o lasciavano sputacchiare ufficiali e soldati; tali che voglion guerra perché da essa, nel peggior dei casi, potrebbe nascere una Repubblica italiana. Ma la concordia è sempre concordia, cioè forza. È la nazione nella sua unità che ricompare quando si avvicinano i momenti decisivi. Facciano in modo i nostri governanti che noi fra un anno, fra un mese non dobbiamo chiamarli in causa per non aver capito, per non aver provveduto5.
Volpe avrebbe ulteriormente sviluppato questa tematica, per delineare il significato che doveva assumere l’esperienza bellica, alla luce di una realismo molto distante dai contenuti ideali degli scritti di Gentile sul conflitto, dove quell’evento si rivestiva ancora del vecchio involucro teologico di «guerra giusta»6. Nell’articolo I maestri e la nazione, pub-
5 G. VOLPE, Ora o mai più, cit., p. 2. 6 G. GENTILE, La filosofia della guerra, in ID., Guerra e fede, cit., p. 14. Sul punto, G.
IL FILO DELLA SPADA
185
blicato nel maggio 1916, sempre sulle pagine del periodico nazional-liberale7, si calcolava infatti l’«attivo della guerra», in riferimento alla situazione interna ed esterna degli Stati europei e in rapporto all’invigorimento dell’identità nazionale dentro e fuori dei loro confini, che il conflitto avrebbe determinato. Se, al termine della «guerra che da due anni impegna tutte le risorse dei popoli», la vita delle nazioni come organiche entità ne uscirà rafforzata, al di là degli acquisti territoriali, «perché la loro consapevolezza si farà più profonda, perché la morale linea di demarcazione fra esse diverrà più nitida, con vantaggio di tutti», eguale acquisto ne verrà per la vita economica, sociale, intellettuale, «dato che la guerra per sé ravvicina, entro le varie unità nazionali, individui e gruppi, classi e partiti, funzioni e organi di vita pubblica, Stato e nazione, e stabilisce continuità dove erano jati, solidarietà dove erano contrasti». I frutti del conflitto non si sarebbero limitati a qualche acquisto territoriale per i membri dell’alleanza vincitrice o all’affermazione di qualche principio ideologico ma avrebbero provocato un’autentica «rivoluzione» dei rapporti interni e di quelli esterni per tutti i paesi impegnati nella prova delle armi. Il binomio di «guerra» e «rivoluzione» sarebbe tornato in Vittorio Emanuele Orlando, nel discorso Per la Vittoria!, del 20 novembre 1918: «Questa guerra è al tempo stesso la più grande rivoluzione politico-sociale che la storia ricordi, superando la stessa Rivoluzione francese». Pochi giorni più tardi, anche Antonio Salandra sosteneva che il conflitto era stato «una grande, grandissima rivoluzione», tanto grande che nessuno doveva supporre che «passata la tempesta, sia possibile un pacifico ritorno all’antico»8. Non costituiva, quindi, una voce isolata, quella di Volpe, quando affermava che il titanico scontro tra i popoli europei poteva e doveva divenire un mezzo di «perfezionamento delle nazioni e quindi dell’umanità», strumento indispensabile di «organizzazione internazionale», nel corso della quale l’avversario perdeva la fisionomia di nemico totale e acquistava invece lo statuto di «antagonista», fornito delle stesse motivazioni ad agire, provvisto della stessa legittimità dinnanzi al giudizio del supremo tribunale dei popoli. Era questo un argomento cardinale della polemica di Volpe, già apparso in un intervento
GALASSO, Il debutto politico di Gentile. Introduzione agli scritti sulla prima guerra mondiale, in «Giornale critico della filosofia italiana», 1994, 2, pp. 409 ss. 7 G. VOLPE, Il congresso dei maestri, in «L’Azione», 1 maggio 1916, poi in ID., Guerra Dopoguerra Fascismo, cit., col titolo I maestri e la nazione, pp. 3 ss., da cui si cita. 8 Si veda rispettivamente, V.E. ORLANDO, Per la Vittoria!, in ID., Discorsi parlamentari, Roma, Tipografia della Camera dei Deputati, 1965, IV, pp. 1430 ss.; A. SALANDRA, Il discorso della Vittoria, in ID., Discorsi parlamentari, Roma, Colombo Editore, 1969, pp. 1446 ss.
186
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
del febbraio 19169, dove si smontava l’abusato feticcio ideologico del «militarismo prussiano», le cui tematiche erano filtrate sporadicamente nello stesso gruppo nazional-liberale10. In alternativa a questa costruzione ideologica, che aveva costituito la parola d’ordine dell’interventismo di sinistra11, e che aveva finito per conquistare anche parte del fronte neutralista12, lo storico riportava il fenomeno dell’espansionismo tedesco, la lenta, inarrestabile «conquista metodica» della nazione d’oltre Reno alle sue cause effettuali13. La «furia teutonica» trovava, così, le sue radici nelle autentiche motivazioni finanziarie, industriali, commerciali ma anche di egemonia culturale che l’avevano generata, in quegli elementi di lunga durata aggregatisi «per lento processo sedimentario e per azione statale». Non ritroviamo, oggi, questi elementi nella massa dei suoi figli che la Germania manda da cinquant’anni per il mondo a piantare industrie, a dirigere banche, a costruire ferrovie, a fondare o guadagnare giornali e opinioni pubbliche, a frugare archivi, a raccogliere informazioni, ad… agitare o terrorizzare paesi neutrali, a far insomma da ingegneri, da commessi viaggiatori, da impiegati di banca, da archeologi ed eruditi, da spie, da dinamitardi, solidali fra di loro, perfettamente affiatati con il loro governo e con chi lo rappresentava all’estero, innegabili suscitatori e coordinatori di energie locali ma per rivolgerle al proprio individuale e collettivo vantaggio, e quindi pericolosi all’autonomia morale e materiale del paese che li ospita? Nessuno mi persuaderà che non siano tagliati sullo stesso legno il “militarismo prussiano”, in ciò che è ad esso essenziale, da una parte, ed i Rathenau, i Ballin, i Krupp, tutti i grandi capitani della banca, dell’acciaieria, delle miniere di ferro, dall’altra. Non solo: ma anche i capitani e caporali del socialismo tedesco che ha foggiato a sua immagine i vari socialismi eu-
9 G. VOLPE, Il militarismo prussiano, in «L’Azione», 15 febbraio 1916, in ID., Guerra Dopoguerra Fascismo, cit., pp. 17 ss. 10 La solita civiltà teutonica. Lettera dell’onorevole Gallenga, in «L’Azione», 31 gennaio 1915; Alleanza e concordia, ivi, 1 aprile 1916; M. BILLIA, Le ceneri di Lovanio e la filosofia di Tamerlano, Milano, Edizione de “L’Azione”-Rassegna nazionale liberale, 1915. 11 Sulla giustificazione della guerra come lotta contro il militarismo tedesco, da parte dell’interventismo democratico, si veda, I. BONOMI, Leonida Bissolati, cit., pp. 153 ss. Sul punto, G. VOLPE, Il popolo italiano tra la pace e la guerra, cit., pp. 55 ss., pp. 138 ss., 151 ss.; ID., Il popolo italiano nella Grande Guerra, cit., pp. 138 ss.; pp. 222 ss. 12 F.S. NITTI, La Guerra e la Pace. Il discorso a Muro Lucano del 25 ottobre 1916, a cura di V. Claps, Rionero in Vulture, Calice Editori, 2002, pp. 29 ss. 13 P. VALÉRY, Une conquête méthodique, in ID., Oeuvres, Paris, Gallimard, 1957, I, pp. 971 ss., in particolare p. 972: «On apprend que les victoires par lesquelles l’Allemagne s’est fondée sont peu de choses auprès des victoires économiques que déjà elle emporte; déjà bien des marchés du monde sont plus à elle que les territoires qu’elle doit à son armée. On aperçoit ensuite que l’une et l’autre conquête font partie du même système». L’articolo pubblicato per la prima volta, nel 1897, su di un periodico inglese, veniva ristampato nel «Mercure de France» del primo agosto 1915.
IL FILO DELLA SPADA
187
ropei, li ha guidati, comandati, frustati, da quell’energico e battagliero pedagogo che è stato nei rapporti internazionali, per burlarli in ultimo, dissolvendo e annullando sé nella sua azione, identificando sé col “militarismo”, cercando di addormentare i compagni d’Europa, specialmente d’Italia!
Ma anche questa lunga tirata contro la minaccia prussiana, in parte forse mutuata da un intervento di De Ruggiero14, non escludeva l’interpretazione del conflitto attuale, come «guerra parallela», che l’Italia doveva combattere sul terreno militare, contro gli Imperi centrali, e su quello diplomatico contro le potenze occidentali, conformemente alle ipotesi espresse da Sonnino15. In questo periodo, Volpe ripicchiava con insistenza su questi argomenti16, anche in due articoli del «Corriere della Sera», apparsi tra marzo e aprile del 1916, dedicati ai problemi internazionali della Romania, sicuramente sollecitati da Iorga e redatti per favorire l’entrata in guerra di quel paese contro l’Austria17, e in una serie di editoriali dell’«Azione», che per il loro radicalismo erano incorsi prima nel sospetto e poi nelle ire della censura, come lo storico comunicava a Benedetto Croce nella corrispondenza del 26 marzo 1916. Mi scrivete del mio articolo sulla Romania. Ahimé, era composto dall’agosto scorso e solo ora trovano modo di stamparlo; e a 21 giorni di distanza debbono ancora pubblicare la seconda parte! Non è incoraggiante, per chi voglia occuparsi un po’ di questioni del giorno. Rimane la piccola Azione, e qualche volta scrivo anche lì. Avete letto il Militarismo prussiano, e Italia e Francia di due o tre numeri addietro? Ma ora cominciano a censurarci. L’ultimo numero di due mie colonne sono rimasti 20 righi ed hanno cambiato anche il titolo che era I due fronti. Dimostravo che l’Italia ora combatte due guerre, diverse sì ma due: con i nemici e gli alleati e che è appunto in questa duplicità e negli incerti rapporti con gli alleati la ragione del riserbo del governo e del mancato “fervore”, 14 G. DE RUGGIERO, Il pensiero italiano e la guerra, cit., pp. 131-132: «Il “militarismo prussiano” ecco la grande parola coniata dalla democrazia italo-francese, per esprimere una chimerica entità destinata a ricevere i fieri colpi democratici. La democrazia afferma di combattere il militarismo tedesco, e non lo spirito tedesco, l’industria, la cultura tedesca; vuol fiaccare l’uno e lasciare intatto tutto il resto. E non vede che il militarismo e lo spirito tedesco sono una sola e medesima cosa, una sola fisionomia mentale e non già due chimeriche ed isolate entità. Con la sua tendenza a livellare le menti e le coscienze, così degli uomini come dei popoli, non intende che quel che chiama militarismo prussiano non è il fatto materiale di posseder molti cannoni e molti fucili, ma il tono, lo spirito stesso della mentalità tedesca, che si esplica nell’organizzazione dell’industria, della scuola, della scienza, così come degli eserciti». 15 C. SFORZA, Costruttori e distruttori, Roma, Donatello de Luigi, 19452, pp. 299 ss. 16 G. VOLPE, Nei Balcani e oltre, in «L’Azione», 15 gennaio 1916, pp. 3-4. 17 ID., La Romania e i suoi problemi, in «Corriere della Sera», 6 marzo e 6 aprile 1916, poi in ID., Fra storia e politica, cit., pp. 117 ss. L’uscita dalla neutralità della Romania, e il suo ingresso in guerra a fianco dell’Intesa, sarebbero avvenuti il 27 agosto 1916.
188
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
e che non si deve forzar la mano al governo e toglierli così il ruolo di regolare rapporti vitali con gli alleati, per il dopo-guerra. Del resto il sugo dell’articolo è nello stesso numero dell’Azione, nel resoconto di un nostro convegno bolognese18.
Nel numero del 15 marzo, Volpe aveva infatti steso un ampio resoconto del convegno nazionale liberale di Bologna19, svoltosi dieci giorni prima, del quale lo storico aveva assunto la presidenza, e al quale avevano partecipato Amendola, Anzilotti e altri rappresentanti dei Gruppi nazionali liberali di Roma, Firenze e Milano. Scopo della riunione era quello di discutere della guerra e della condotta del governo, dell’organizzazione dei Gruppi e delle linee della loro propaganda, in vista di un allargamento dell’impegno italiano anche contro la Germania e dei rischi di una possibile crisi politica, in modo da «fissar la linea di condotta pratica, anche nei rapporti con quegli altri membri delle varie federazioni interventiste, la cui attività sembra ora entrata in una fase nuova in seguito ai dubbi, alle discussioni, alle critiche di cui il Ministero Salandra è fatto oggetto da parte loro». Su questo specifico aspetto interveniva proprio Volpe, in un discorso che immediatamente insisteva sul quesito che i nazionali liberali dovevano rivolgersi: «se seguitar a rimanere uniti con quanti invocano una più grande guerra, una incondizionata ed esplicita unione con gli alleati» e quindi aderire all’obiettivo di «quanti lavorano per determinare una crisi ministeriale da cui debba uscire un ministero non solo ricco di maggiori competenze ma disposto in ispecie ad attuare questo più energico piano d’azione». Certo, continuava Volpe, anche i liberali, raccolti intorno all’«Azione», condividevano i dubbi sull’opera del governo: su alcuni ministri, tra cui quello della Guerra, e sul gabinetto in generale, «poco capace di orientare e guidare l’opinione pubblica nazionale, e tanto meno quella dei paesi amici e neutrali». Soprattutto preoccupava la visione del conflitto in corso, adottata dalla compagine ministeriale: «troppo circoscritta materialmente, angusta nella visione degli scopi». Un’ottica ancora municipalistica, incerta, eccessivamente guardinga e timorosa, manchevole di una strategia globale, che per molti coinvolgeva la responsabilità specifica di Sonnino e, più ancora, di Salandra, cui si faceva addebito di «civettare col giolittismo» e di volerlo disarmare adottandone idee e crite18 Gioacchino Volpe e Benedetto Croce, Milano 26 marzo 1916, ABC. Nella corrispondenza, il riferimento era a G. VOLPE, Il militarismo prussiano, cit.; ID., Francia e Italia, «L’Azione», 15 febbraio 1916; ID., Guerra e diplomazia, ivi, 15 marzo 1916, che appariva quasi totalmente censurato. 19 Il convegno nazionale liberale a Bologna. Il discorso di Volpe, in «L’Azione», 15 marzo 1916, pp. 1-2.
IL FILO DELLA SPADA
189
ri: «donde appunto il mancato slancio della guerra, il perdurante equivoco nei rapporti con la Germania, la mancanza di fiducia piena degli alleati verso di noi, il quasi isolamento e l’oscurità nostra nella quadruplice, il pericolo di vederci negato ora e dopo la guerra il riconoscimento dei diritti nostri e la soddisfazione di esigenze vitali». Pur non dissociandosi completamente da queste critiche, i nazionali liberali conservavano la loro fiducia nella «fermezza, nella rettitudine, nella serietà di Sonnino», senza perdere la speranza di recuperare lo stesso Salandra ai propri programmi. Quanto all’utilità o meno di provocare una crisi di governo, essi rifiutavano, oggi come ieri, l’ipotesi di forzare la mano all’esecutivo, con moti di piazza o campagne di opinione, per imporgli i «criteri direttivi della guerra» e «insomma considerarlo un po’ come una specie di comitato esecutivo delle federazioni interventiste». Tanto meno credevano che si dovesse, almeno per ora, esigere una dichiarazione di guerra alla Germania, che pure appariva inevitabile nel medio o nel breve termine di uno spazio temporale, che l’Italia doveva utilizzare per rafforzare la sua posizione nei confronti di avversari e alleati. Certo ci si verrà: è fatale. Ma del momento non può esser giudice ed arbitro se non chi sa molte cose che noi non sappiamo e che forse non si devono sapere. Certo la Germania, almeno fino a che non si verifichino certe condizioni e circostanze che la spingano direttamente contro di noi, ha interesse a non avere anche noi fra i suoi nemici dichiarati. Ebbene, nulla ci vieta di sfruttare temporaneamente questo interesse anche esso temporaneo della Germania; di sfruttarlo sino a che non si sia alla nostra frontiera determinata una situazione militare tale che ci permetta di sentirci sicuri, sull’Isonzo e verso la Svizzera, da ogni tentativo di invasione; sino a che non si sia, nei rapporti con i nostri alleati, giunti a una situazione diplomatica nella quale, insieme con i nostri doveri, siano chiaramente specificati anche i nostri diritti e i nostri vantaggi, proporzionati agli sforzi che si esigono da noi e che noi siamo disposti a fare. Nessuno deve dimenticare che più di una volta, negli ultimi anni, abbiamo trovato Francia e Inghilterra contro di noi quasi quanto l’Austria (alla quale non è un segreto che esse hanno sempre guardato con occhio molto benevolo). Siamo noi sicuri che il nostro governo sia riuscito ad ottenere assicurazioni e garanzie sufficienti per quanto riguarda i nostri interessi nell’Adriatico, nei Balcani e più in là, a non voler contare metalli e carbone, noli e cambi? Ora, sarebbe malaccorto, con una intempestiva pressione della opinione pubblica, disarmare il governo di questo mezzo che ha non dico per contrattare con gli alleati ma almeno per trattare con essi20.
20 Ivi, p. 2.
190
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
Naturalmente, Volpe pensava che le ostilità dovevano proseguire in «perfetta comunione con i nostri alleati», ma avendo chiara in mente questa semplicissima verità: che l’obiettivo primo della guerra italiana, «cioè l’Istria e il dominio strategico dell’altra sponda adriatica», doveva essere raggiunto in perfetta autonomia, «con la diretta forza delle armi», in mancanza della quale, «nessun appoggio diplomatico di alleati, frutto della nostra incondizionata solidarietà con essi, ce lo procurerà nelle future trattative di pace». Era proprio su questo punto, che replicava Amendola nel suo intervento, tutto teso a evidenziare la necessità di tenere unito il fronte interventista, per supportare il governo, che altrimenti «potrebbe essere attratto dai giolittiani». La questione della dichiarazione di guerra alla Germania era sì ininfluente, nell’immediato, ma solo «se la sua mancanza non contribuisce a paralizzare la nostra guerra, a rendere impossibile l’intima collaborazione militare coi nostri alleati». Esistevano, infatti, due modi di condurre la guerra: in autonomia, perseguendo la conquista territoriale, in modo da guadagnare unicamente «tutto il territorio che avremo potuto conquistare con le armi»; oppure in collaborazione militare con le potenze dell’Intesa, partecipando dunque alla guerra più generale. La seconda ipotesi era la sola plausibile sul piano bellico e diplomatico, nonostante la malcelata ostilità di Salandra e di tutti coloro che reputavano giusto schiacciarsi sulle sue posizioni. Interpellato da Volpe, che domandava quale poteva essere il frutto della vittoria, che gli alleati avrebbero concesso all’Italia, Amendola replicava che, attraverso un più attivo lavorio diplomatico e una rinnovata e intensificata fraternità d’armi con le potenze occidentali, il paese avrebbe guadagnato molto di più di quello che avrebbe potuto ottenere, con una semplice guerra di conquista, allargando i suoi confini fino ma non oltre Trieste. Risposta insoddisfacente per Volpe, come per molti dei partecipanti al convegno bolognese, che lasciava le due parti reciprocamente distanti, sancendo la fine definitiva di una intesa liberal-nazionale, come metteva in luce lo sbiadito ordine del giorno che poneva fine ai lavori, dove si riaffermava «la necessità che i partiti interventisti si mantengano sempre più uniti per ottenere che la guerra, condotta in pieno accordo con gli alleati, affretti il conseguimento delle rivendicazioni nazionali dell’Europa combattente contro l’egemonia germanica», e nel quale si esprimeva il voto «che il Governo sappia intendere il suo dovere di tenersi in permanente e intimo contatto con le energie morali e intellettuali della nazione». Al di là dei dubbi e dei tentennamenti della «politique politicienne», Volpe non aveva dimenticato, tuttavia, di tratteggiare i futuri effetti della guerra sulla fisionomia morale dell’intera Europa, nel già ricordato discorso dedicato agli insegnanti della scuola prima-
IL FILO DELLA SPADA
191
ria21. In questo caso, il fuoco dell’analisi tendeva a dimostrare l’inconsistenza di qualsiasi teoria che negasse la nazione quale realtà immanente agli individui e alle classi, e, dunque, il «diritto e dovere» di tutti i cittadini, organizzati in qualunque associazione professionale, a rafforzare la «solidarietà» e «fedeltà» nazionale. Ai maestri, come a qualsiasi altro ceto sociale, non si chiedeva «un certificato di particolare fede politica, dinastica, ministeriale, religiosa», ma soltanto che non sposassero l’ideologia socialista e neppure quella clericale, perché entrambe si ponevano fuori e all’occorrenza anche contro la nazione. Dall’inizio del conflitto, l’Italia aveva infatti visto la «massa dei suoi figli, rimasti assenti dai conati del primo Risorgimento e apprezzati poi solo come bruta forza da lavoro e come strumento di politicanti», entrare «nella storia della nazione» e generosamente battersi per essa. Dopo il conflitto, quelle stesse masse popolari avrebbero saputo affermare, «con più disciplinata fermezza» rispetto all’anteguerra, i loro peculiari bisogni, misurandoli e subordinandoli a quelli dell’organismo nazionale. Si sarebbe allora compiuto, attraverso la mobilitazione bellica e ideologica guidata dalle rinnovate élite nazionali, il tanto auspicato processo di nazionalizzazione delle masse, il loro coinvolgimento, in posizione comunque subalterna, nella vita dello Stato moderno, affinché al suo interno «tutti avessero un loro posto e una loro funzione attiva». Ed era in questo inserimento dei ceti popolari nell’orbita della nazione, che Volpe vedeva attuarsi la vera «democrazia». Questa la sfida che, seppure in ritardo, l’Italia doveva al più presto raccogliere per uscire vittoriosa dal conflitto e garantirsi così un avvenire di grandezza. A tal fine l’intera comunità, nelle trincee, nelle città e in parlamento, doveva mutare mentalità, stringersi in un «maggiore affiatamento» e muoversi all’unisono verso l’obiettivo comune. Volpe accoglieva quindi con sconcerto, in quello stesso 1916, l’ennesima crisi di governo, che viva preoccupazione avrebbe destato anche a Londra e a Parigi22, aperta dallo «schiamazzo» di tanti deputati che sedevano alla Camera, in ossequio alle abituali logiche di potere, mentre sulle Alpi «si resisteva» e si moriva «dimentichi di sé». Questa agonia di ministero, questa settimana di sede-vacante e di cronaca romana non sono state molto edificanti. Noi italiani abbiamo guardato con orgoglio e con fiducia alle Alpi, ma con alquanto tedio, insofferenza ed anche sdegno a quel piccolo bivacco di 500 e tanti. Lassù si resiste, si assale, si opera, si
21 G. VOLPE, Il congresso dei maestri, cit. 22 P. DE QUIRIELLE, De Salandra à Boselli. La crise italienne, in «Le Correspondant»,
10 juillet 1916, pp. 140 ss.
192
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
dimentica se stessi, si muore, si costruisce per l’oggi e pel domani; ma qui si chiacchiera, si briga, si intriga, si maligna, si contratta, si disanima, si demolisce: non l’Italia, ma il Parlamento, la fede nel Parlamento! Melanconie di tutte le crisi. Ma questa volta c’era il “ministero nazionale” da formare, quel tal ministero in cui debbono aver posto i rappresentanti di tutti i partiti, gruppi e sotto-gruppi e quasi-gruppi, come se ogni partito, gruppo e sottogruppo portasse avvolta nel lembo della toga una sua particolare e grande concezione della guerra europea, dei suoi fini, dei mezzi per meglio combatterla e vincerla; come se ogni partito, gruppo e sottogruppo si sentisse di lavorare per il paese, impegnato in una lotta morale, solo se e in quanto qualche uomo o più d’uno partecipa al potere. Evidentemente, la generazione guerriera degli Italiani è già nata e si sta temprando, ma la generazione politicamente intelligente e politicamente educata deve ancora venire23.
Alla nuova compagine ministeriale veniva ripetuto l’ormai abituale avvertimento: quella italiana era una guerra «su due fronti», la prima contro l’Austria e l’espansionismo germanico, la seconda, da combattere con le armi della diplomazia, contro gli «amici e alleati» per «ottenere il riconoscimento concreto della nostra esistenza e del nostro diritto di svilupparci». Era indispensabile prevalere in entrambe, pena il rischio di «perdere anche vincendo». Con questo monito, si concludeva la collaborazione di Volpe all’«Azione»24, che di lì a poco, nel mese di luglio, avrebbe interrotto definitivamente le pubblicazioni. La grande prova che l’Italia stava attraversando richiedeva, in ogni caso, un impegno più diretto, che avrebbe modificato profondamente la sua biografia intellettuale e le stesse coordinate attorno alle quali si sarebbe mosso il suo lavoro di storico. Quella tendenza era tuttavia già evidente, nella lettera indirizzata a Croce, il 22 gennaio del 1916, dove si faceva riferimento a un nuovo progetto di rivista storica, da realizzare assieme a Corrado Barbagallo25, e al
23 G. VOLPE, Da un ministero all’altro, in «L’Azione», 15 giugno 1916, poi in ID., Guerra dopoguerra Fascismo, cit., pp. 25-33, col titolo Crisi di ministero. Su quella congiuntura politica, A. FIORI, Crisi e caduta del secondo governo Salandra, in «Rassegna Storica del Risorgimento», 2003, 4, pp. 537 ss. Il quotidiano «La Sera» aveva tramutato questa polemica contro le debolezze del governo italiano in un sistematico attacco al regime parlamentare. Si veda l’anonimo editoriale, L’origine dell’attuale crisi, pubblicato il 30 aprile 1917: «Senza voler negare la ragion d’essere del sistema parlamentare e i suoi parziali vantaggi in mancanza di altre forme più perfette, è indubitabile che anche in tempi normali esso induce pure debolezze nel governo e non di rado ne rende meno fattiva l’azione; ne valga da esempio la difficoltà di realizzare vere riforme organiche, anche non istituzionali, e l’abdicazione divenuta praticamente effettiva della vera attività legislativa». 24 Sempre nell’«Azione» del 15 giugno, era contenuto un altro articolo di VOLPE, Per bene ricordare, che ribadiva il programma che aveva condotto i Gruppi nazionali liberali a domandare l’intervento. 25 Dal 1915, si andava elaborando il progetto editoriale di quella che sarebbe divenu-
IL FILO DELLA SPADA
193
saggio sulla «storiografia economico-giuridica», che il direttore della «Critica» aveva elaborato, tra 1914 e 1915, nello stesso momento in cui si era palesata la sua fermissima posizione neutralista. Ma, in quella corrispondenza, dove largo spazio era dedicato a Francesco Novati, la cui sottile erudizione non era riuscita a superare le angustie del metodo positivo, si manifestava, soprattutto, la necessità di non farsi rinchiudere in quello stesso circuito difettoso e di costruire, piuttosto, un’indagine del passato nutrita di forti idee-guida, per passare ormai dalla piccola storia dei piccoli municipi della Toscana medioevale alla storia dell’Italia nazione. Voi conoscete meglio di me le virtù e le deficienze di Novati: quelle dello studioso e quelle dell’uomo. E mi duole che egli sia morto con la persuasione che io sparlassi di lui, che io gli fossi stato ingrato ecc. ecc. Ogni volta che ho parlato di lui, ho detto che avrei voluto possedere una metà della sua coltura. Talora aggiungevo: peccato che egli non la sa o può sistemare in opere organiche. Era un giudizio, non una malevolenza, da cui io rifuggo sempre. Era forse – dentro di me – lo spunto di un’idea orgogliosa: che cioè io, forse, con quella vasta coltura mi sarei sentito capace di far qualcosa di più. Perdonatemi questa confessione che io fo a voi solo. Certo una volta avevo speranze ed ambizioni e fiducia grande, ora un po’ meno, dopo che da alcuni anni la mia attività di studioso è come impantanata, cioè si muove a rilento, con molta fatica e scarso frutto. Ma spero di riprendermi ancora, appena avrò liquidato il mio recente passato. Sto finendo ora di stampare il 3° dei lavori sulle minori città toscane (il 1° su Massa è uscito negli Studi storici, il 2° su Volterra è stampato e non pubblicato, il 3° su Luni-Sarzana si sta finendo di stampare) scritti 4 o 5 anni fa, ma tali che hanno seguitato a pesarmi sulle spalle fino ad ora. Voi conoscete forse il 1° – mi pare di avervene mandato una copia – e vi farò conoscere anche il 2° e il 3° fra qualche settimana o mese. Credo siano – dato il genere – migliori; con alcuni capitoli forse belli. Ma io non so più, veramente, come giudicarli: forse perché vi ho vissuto troppo dentro e mi ci sono stancato e tediato troppo. Sono quindi molto curioso di vedere quale sia il vostro giudizio, che mi
ta, due anni più tardi, la «Nuova Rivista Storica», il cui comitato direttivo doveva essere composto da Corrado Barbagallo e Volpe, promotori dell’iniziativa, insieme ad Arrigo Solmi, Guido Porzio, Antonio Anzilotti, Francesco Ercole. Il periodico vedrà invece figurare tra i direttori, rispetto alla rosa originale, soltanto Barbagallo, Anzilotti, Porzio, insieme ad Ettore Rota. Sul punto, A. CASALI, Storici italiani fra le due guerre, cit, pp. 1 ss. Sul venir meno di Volpe da quella iniziativa, si veda Gioacchino Volpe a Benedetto Croce, Santarcangelo di Romagna, 8 luglio 1916, ABC: «Il nostro progetto di rivista è andato in fumo: non mi sono accordato col Barbagallo o, meglio, mi sono convinto che non era facile collaborare con lui in una comune opera. Questione di temperamento o di altro! Ma io non ho abbandonato l’idea della rivista: mi sembra possibile raccogliere l’eredità dei vecchi Studi Storici e rinfrescarli e rinnovarli, dirigendoli io solo o con la cooperazione di qualche altro ben affiatato con me. Ma l’editore? Mattei di Pavia non fa più al caso. Qualche anno fa, feci egualmente questa ricerca e fu invano. Credete voi che Laterza sarebbe disposto?».
194
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
dite già scritto in uno dei saggi sulla storiografia. Forse prima che sia pubblicato, lei potrebbe avere gli altri due volumi che possono o confermare o mutare qualche vostra impressione. Del resto, si tratta di lavori a cui io tengo sicut et in quantum. Riconosco che, in un certo senso, possono anche servir di modello a indagini monografiche di storia locale. È la piccola città vista nei suoi nessi con la più grande storia attorno. E in Italia, non si può dire che la piccola storiografia di questo genere sia ad un livello così alto da non potersi avvantaggiare da quei miei lavori. Tuttavia, non hanno gran valore per quello che è la coltura storica di un paese; per quel che sono idee direttive; impulsi a batter nuove vie ecc. Da quel punto di vista hanno più valore certi miei scrittarelli di alcuni anni fa. Ora si sta qui a Milano pensando ad una rivista storica che dovrebbe proporsi di penetrare non fra i circoli degli eruditi, ma fra le persone che hanno altre e più larghe aspirazioni in fatto di coltura storica. Se l’idea si concretizzerà, pensiamo che possa venire utile al paese. Il guaio è che io solo non mi sento di addossarmene la direzione, e la codirezione di più persone non dà sufficienti garanzie di omogeneità, unità, organicità ecc. Certo, il momento è buono, sotto molti rapporti; anche se è cattivo sotto altri: che cosa accadrà in primavera? Forse si richiederà uno sforzo grande di tutti gli uomini, anche dei professori; sforzo di guerra oltre che di pacifica attività. E se questo sforzo sarà necessario, noi di gran cuore lo faremo. Questa guerra bisogna vincerla. E pur di vincerla tutti i sacrifici saranno ben fatti. Sarà vittoria di fronte a nemici e di fronte ad amici. Voi so che avete o avete avuto in proposito idee un po’ diverse dalle mie: la storia ci unisce e la realtà politica ci divide un poco. Pazienza!26
2. Dal dicembre 1916, Volpe aveva ottenuto la nomina a sottotenente della milizia territoriale. Nomina, senza chiamata, in virtù delle disposizioni ministeriali, che esentavano momentaneamente dal servizio attivo i funzionari statali della sua classe27. Nel maggio 1917, finalmente richiamato, assumeva il comando di un distaccamento addetto alla sorveglianza di un complesso di impianti bellici a Castellazzo di Bollate, vicino Milano, incarico che lasciò presto, essendosi infortunato a causa di una caduta28. Nel mese di agosto, veniva assegnato all’Ufficio Storiografico della Mobilitazione, creato a Roma, nell’aprile di quello stesso anno, da Giovanni Borelli, che poi ne assunse la direzione29. L’ente secon26 Gioacchino Volpe a Benedetto Croce, Milano 22 gennaio [1916], cit. 27 Gioacchino Volpe a Fortunato Pintor, 25 dicembre 1916, in FFP: «Le persone oc-
cupate in un pubblico ufficio, dal giugno in poi, non potevano essere assunte in servizio. A me per esempio è successo così: ho la nomina, ma non la chiamata, la quale verrebbe solo se chiamassero la mia classe 1876, terza categoria. E allora tu? E come te, Salvemini e altri? Io non so. So solamente di aver atteso fino ad agosto che rispondessero alla domanda presentata a fin di maggio. E poi disperavo ormai, quando, nel novembre, la nomina venne. Ma al distretto di Milano, presa visione del mio stato, mi rifiutarono, conforme ai Decreti ministeriali dell’estate scorsa, comparsi anche sul Bollettino della Pubblica Istruzione». 28 G. VOLPE, Prefazione a Toscana Medievale, cit. p. XVIII. 29 M.U. MIOZZI, La mobilitazione industriale italiana, 1915-1918, Roma, La Goliardi-
IL FILO DELLA SPADA
195
do le ipotesi del suo ideatore avrebbe dovuto fornire «la letteratura scientifica e la storia documentale» dell’Italia impegnata nella prova bellica, «di cui l’indagine e il pensiero sorgenti dalla realtà, ricostruiranno per i testimoni e per i posteri la grande trasformazione», assicurando in questo modo «con la vittoria sul nemico, la vittoria riepilogatrice e costruttiva dentro di noi, il raggiungimento, dalla potenza all’atto, dell’unità reale e ideale nella razza e nella nazione»30. L’Ufficio era potuto sorgere grazie soprattutto alla protezione del generale Dallolio, sottosegretario al Ministero delle Armi e Munizioni31, il quale aveva avuto ragione di innumerevoli difficoltà di ordine politico e amministrativo, poste ad ostacolo all’iniziativa di Borelli32. In questa sede, la Serie o Sezione statistico-economica e tecnica, coordinate rispettivamente da Corrado Gini e Giuseppe Belluzzo, e quella sociale-politica-giuridica, diretta da Prezzolini insieme a Enrico Redenti33, impegnavano il fiore dell’intellettualità italiana, al fine di redigere una storia politica, sociale e materiale del conflitto in corso. La presa di servizio di Volpe datava alla fine di settembre, come risulta dalla lettera di Giovanni Borelli. La corrispondenza anticipava alcuni dei problemi (difficoltà di rapporti con le autorità ministeriali, con università e istituti di cultura; conflitti di competenza tra diverse Sezioni e all’interno della stessa Sezione), che avrebbero afflitto lo Storiografico per tutta la sua durata, ma prospettava anche la possibilità di compiere un’analisi di tipo assolutamente nuovo della realtà italiana, a metà tra storia in diretta e sociologia, nella quale l’elaborazione teorica si sarebbe sempre dovuta intrecciare strettamente con la ricerca sul campo.
ca, 1980; B. BRACCO, Memoria e identità dell’Italia della grande guerra. L’Ufficio Storiografico della Mobilitazione, 1916-1926, Milano, Unicopli, 2002. 30 G. BORELLI, Piano generale del “Corpus” della Mobilitazione e dell’ordinamento dell’Ufficio Storiografico, Roma, marzo 1917, pp. 4-5, in ACS, Pres. Consiglio, Prima guerra mondiale, b. 19. 4. 4, fasc. 131. 31 Su di lui, si veda la voce di M. BARSALI, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXIII, pp. 128 ss. Su Dallolio e lo Storiografico, dati interessanti in E. MORELLI, La prima guerra mondiale nelle carte Alfredo Dallolio, in «Rivista Storica del Risorgimento», 1976, 2, pp. 235 ss. 32 G. PREZZOLINI, Diario, 1900-1941, Milano, Rusconi, 1978, p. 260, alla data del 27 aprile 1917: «Dopo varie settimane di agitazioni e minacce di dimissioni, Borelli ha vinto la partita. Il ministro lo accredita presso il Comando Supremo e Boselli, ed annunzia ufficialmente l’istituzione dello Storiografico. Lo Stato Maggiore ostile non l’ha spuntata. La Società del Risorgimento non l’ha spuntata. L’Università non l’ha spuntata». 33 Gini era docente di Statistica all’Università di Padova, Redenti, di Procedura civile nell’ateneo bolognese. Belluzzo era direttore della Scuola Motori, presso il Regio Istituto tecnico-superiore di Milano, dove insegnava Meccanica.
196
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
Hai inteso perfettamente, caro Volpe. Occorre rielaborare, concretare, fissare la nuova terza serie, e subito. Ti ho detto nella cartolina che domenica ti attendo qui. Allo Storiografico troverai aria e modo di vivere, con l’intelligenza e la passione necessarie, la guerra. Anche muovendoti dentro di essa. I ritardi, le tristi mie disavventure quotidiane sono inezie di fronte ai possibili risultati; e la volontà avrà ragione del maltalento e del malcostume burocratico. Me ne fanno di tutti i colori. Pazienza pur di andare avanti. Vedrai che lo spirito, e una grandiosa parte del piano generale, rimarranno nella nuova elaborazione. Occorre soltanto che ve ne persuadiate voi. Comincia tu dal chiedere al Belluzzo che cosa mai gli salta in mente: mi scrive rinunziando, perché il Ministro della Guerra ha ceduto l’organo al Dallolio limitandoglielo. Ma che c’entra la serie tecnica nella limitazione non riesco a vedere: ché anzi del piano rielaborato la tecnica acquista un posto protagonistico e di rilievo luminoso. Gli scrivo: ma fagli capire che se gli ostacoli mi vengono aumentati proprio dagli uomini di cultura, niuna meraviglia che il generoso e tenace mio volere anch’esso una bella mattina pianti in asso gente e paese cui non si confanno le migliori iniziative. Trascinalo con te qui; in un giorno avremo combinato e veramente fermato tutto. Poi apriremo l’Ufficio a Milano, senza un’ora di indugio34.
Volpe arrivava tardi nella Sezione sociale-politica, anche per sue titubanze personali ad abbandonare Milano, cui si accennava nella corrispondenza. Tardi e sicuramente dopo che Prezzolini aveva pensato di collocare al suo posto Giovanni Amendola35, e di impegnare nell’organizzazione dei lavori Ardengo Soffici con la lettera del 10 maggio 1917 Ti prego di prendere in esame la proposta che ti faccio, riflettendoci su. Non posso ancora garantirti che da proposta amichevole divenga ufficiale. Ma d’altra parte non potrebbe mai diventare ufficiale se prima non fosse amichevole e il tuo consenso sicuro. Si tratta di questo. Fra le monografie che più mi danno pensiero, nella mia sezione, di cui ti accludo un piano provvisorio e schematico, ce n’è una: l’anima del soldato. E mi dà pensiero perché per essa occorre uno scrittore, dico un uomo che sappia vedere e far vedere, sentire lui e far sentire agli altri, abbia umanità profonda e senso della nostra razza. Ti domando: ti sentiresti tu di scrivere questo lavoro? Si tratta di un’opera che deve escire sotto l’egida dello Stato. È un’opera storica e quindi di verità. Ma si capisce bene che il momento in cui escirà (un paio d’anni dopo la pace) non sarà tale da permettere questa completa libertà nei particolari che sarà possibile, per esempio, fra cento anni. Capisci? Sottolineo nei particolari perché nelle linee ge-
34 Giovanni Borelli a Gioacchino Volpe, 27 settembre 1917, in ACS, Ministero Armi e Munizioni. Sottosegretariato per le Armi e Munizioni. Ufficio Storiografico per la Mobilitazione Industriale, (d’ora in poi, USMI), busta 10, fascicolo «Volpe». 35 Amendola aveva partecipato alla riunione preparatoria dei lavori dello Storiografico del 29 gennaio, come risulta dal verbale della riunione, in USMI, busta 1.
IL FILO DELLA SPADA
197
nerali e nei suoi fatti costitutivi anche ora la storia deve essere rispettata. Occorrerà soltanto un certo tatto, qualche misura negli apprezzamenti. Ma tu queste limitazioni sei in grado di sentirle mi pare e non avresti difficoltà ad aderire, se mai, ai miei consigli. Che bel libro potresti fare! Il materiale te lo forniremo noi e penso che otterrei per te larga libertà di lavoro anche ora facendoti girare un poco il fronte. Tu dovresti leggere molte relazioni di ufficiali, impossessarti di dati magari statistici che ti preparerebbe il nostro ufficio, e su quelle, con l’intuito che hai, con la ricca tua umanità, costruire un bel libro che accompagnasse il soldato da casa sua al deposito, di lì al fronte, poi negli ospedali o in prigionia ecc. Rispondimi e non dir nulla a nessuno36.
Il tentativo non avrebbe avuto esito. Soffici, dopo aver espresso un elogio non formale del progetto di lavoro, aggiungeva un categorico rifiuto, per ogni ipotesi di collaborazione. Diniego fondato soprattutto sul timore di dover collaborare a un opera che correva il rischio di configurarsi come paludata ed encomiastica storiografia di Stato, incapace, quindi, di corrispondere al dramma della nazione in guerra. Trovai interessantissimo l’insieme del progetto e credo che potrà essere un’opera, una volta compiuta, di grandissima utilità ed importanza. È quanto dirti che anche io sarei felice di lavorarci e che presi in molta considerazione la tua proposta. Tanto più che essa coincideva con un’ombra di progetto che mi va girando in testa da un pezzo di uno scritto sull’Italia o sul popolo italiano, così mal capiti l’una e l’altro non solo dagli stranieri, ma dagli stessi nostri compatrioti – e dai migliori. Tuttavia davanti alla proposta precisa mi son domandato: è un lavoro, quello che mi si propose, che io possa fare, come sarebbe necessario fare? Sono rimasto molto nell’incertezza, fra il desiderio di accontentarti, di approfittare dell’occasione, e il sentimento di che un mio scritto non potrà mai rispondere allo scopo che vi proponete voialtri. Mi dispiace di constatarlo, ma è così. Il grande, l’insormontabile inconveniente è che la pubblicazione debba essere fatta, sotto l’egida dello stato. Lo stato è qualche cosa che contraddice alla profonda verità delle cose, che non si adatta con la sincerità, che non può, né deve, ammettere una visione originale, sebbene l’originalità di ogni modo di concepire le cose sia, in ultima analisi, ciò che costituisce la bontà del modo stesso. Insomma è certo che le ragioni per le quali io posso trovare grande e nobile il nostro popolo non sono quelle che lo stato può trovar buono di render note. Credo anzi che sia il contrario37.
36 Giuseppe Prezzolini ad Ardengo Soffici, 10 maggio 1917, in G. PREZZOLINI-A.
SOFFICI, Carteggio. I. 1907-1918, a cura di M. Richter, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1977, p. 284.-285. 37 Ardengo Soffici a Giuseppe Prezzolini, 16 maggio 1917, in A. SOFFICI, Lettere a Prezzolini, 1908-1920, a cura di A. Mannetti Piccinni, Firenze, Vallecchi, 1988, p. 117. Prezzolini tornava ad insistere nella proposta con lettera del 30 maggio, in G. PREZZOLINI-A. SOFFICI, Carteggio. I, cit., p. 286.
198
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
Erano perplessità che la realtà avrebbe esattamente verificato. Soprattutto la Sezione sociale-politica era esposta al rischio di essere paralizzata, per quello che riguardava l’approfondimento di alcuni temi, dal veto incrociato di interdetti censori, che sempre più si infittivano dopo il primo anno di ostilità38, e dalla naturale ritrosia delle superiori autorità, dettata da un tradizionalismo e da un perbenismo, ormai veramente incompatibile con la brusca accelerazione modernizzatrice che il conflitto aveva imposto al paese, disgregando e riaggregando su basi nuove il vecchio tessuto sociale. Su questo nodo, precisamente, si divaricavano, fino al punto di rottura, gli intendimenti degli intellettuali in grigioverde e quelli degli ambienti politici e militari, come testimoniava ad abundantiam questa lettera di Prezzolini a Borelli. Il lavoro su “La donna mobilitata. Parte prima: la salariata” fu da me concepito nelle sue relazioni con la vita sociale, etica, politica del paese, perché la Sezione che ho l’onore di dirigere fu appunto così concepita e chiamasi “Sezione sociale-politica”. Non comprendo come tale lavoro possa far dubitare, in qualunque modo, della legittimità e della necessità della nostra guerra. Questo è anzi il fondamento di tutta la nostra inchiesta. Si tratta di tracciare un quadro rapido di tutto quello che la donna ha fatto per la guerra e per la vittoria. E prima di tutto, perché di più facile studio, la donna salariata, negli stabilimenti ausiliari, negli uffici, nei pubblici servizi. Il presentare alcuni inconvenienti che possono essere nati dalla mobilitazione della donna, mostrando insieme con quanta spontaneità il sano corpo sociale italiano cerchi di porvi rimedio, non è un dubitare della guerra. Ma è un collaborare ad un’opera nazionale, già iniziata, di risanamento. Quanto poi all’obiezione che non tutta la famiglia sia rappresentata da quella operaia, volentieri dedicherei a quella contadina, magari in alcune province tipo, un supplemento di inchiesta, per il quale avrei già pronto apposito questionario e scelti collaboratori, in numero non soverchio che mi riservo di indicare. Ma il lavoro limitato alla “donna mobilitata nell’industria”, senza referenze sociali ed etiche, non può rientrare nel campo della mia Sezione. Esso fa bensì parte di quello della Sezione statistico-economica ed è già oggetto di una inchiesta del prof. Dettori. Scientificamente non posso accettare limitazioni dettate da ragioni estranee alla ricerca propostami, mentre riconosco il diritto alle competenti autorità di definire i limiti, per ragioni politiche, di quello che dovrà, a suo tempo, essere reso pubblico. La cosa è ben diversa e di ciò non mi sembra tenga conto la Sua risposta. Militarmente, posso fare “La donna mobilitata nell’industria” oggetto di una relazione. In tal caso, domando ordine preciso per scritto, contenente istruzioni sui problemi ai quali debbo risponderne (e che non vedo nella Sua risposta), sul numero e sulle località
38 P. MELOGRANI, Storia politica della Grande Guerra, 1915-1918, Milano, Mondadori, 19982, pp. 55 ss.
IL FILO DELLA SPADA
199
degli stabilimenti ausiliari da visitare39.
Lo stesso Volpe non si nascondeva né il peso di questi intralci amministrativi né i rischi e le difficoltà dell’impresa, per quello che riguardava le possibilità di una fattiva collaborazione tra intellettuali di diversa matrice ideologica. Il nostro lavoro è, per ora, poco conclusivo. Lo Storiografico non ha ancora basi. Solo Dallolio lo approva senza riserve, ma non egualmente il nuovo Ministro della Guerra. E i miei colleghi, alcuni che stanno benissimo a Roma son disposti a mettersi a lavorare anche senza la certezza di andare in fondo; altri invece vogliono prima la garanzia che l’istituzione sorgerà. Tuttavia ora stiamo cercando noi di accordarci e dividerci i compiti. E speriamo che non vi sia discordia. Domani sarà giornata decisiva, perché dovremo tirar i confini io e Prezzolini; e Prezzolini dovrà rientrare nei limiti più ristretti di quelli che egli si era tracciato da sé, dovrà rinunciare a qualche tema a cui tiene molto. Io non avevo nessuna prevenzione sul conto suo; ma iersera, tornando a casa dopo cena, egli mi fece tali discorsi e mi rivelò una tale concezione della guerra che non mi par possibile di lasciare a lui la trattazione di alcuni argomenti40.
Erano discrasie e idiosincrasie reciproche, che trovavano perfetta corrispondenza nel diario di Prezzolini41, uomo, come si è visto, di ben diverso nazionalismo di quello di Volpe, e maggiormente aperto al dialogo con i gruppi dell’interventismo democratico con i quali lo storico intensificava, invece, proprio in questo momento, una già accesa polemica. I rapporti tra i due si irrigidivano al punto da provocare un intervento mediatore dello stesso Borelli, il 4 dicembre 1917, che invitava i due collaboratori a ritrovare una concordia d’intenti indispensabile al proseguimento del comune lavoro. Prendo atto, caro Prezzolini, della sua comunicazione sopra l’accordo da Lei stabilito con il prof. Volpe per la singola orbita di lavoro e di competenza. Superfluo ripeterle che è mia viva e maggiore speranza vedere fondato l’accordo tra i membri dello Storiografico meglio che sui limiti di competenza formale, sopra uno spirito comune di fervore e d’amore all’opera insigne42. 39 Giuseppe Prezzolini a Giovanni Borelli, 12 settembre 1917, USMI, busta 17, fasci-
colo 2.
40 Gioacchino Volpe a Elisa Serpieri Volpe, 31 settembre 1917, cit. 41 G. PREZZOLINI, Diario, cit., p. 275, alla data del 3 dicembre 1917: «Volpe trova osta-
coli a concluder qualunque cosa nella sua estrema finezza che lo fa dubitare di tutti e di tutti. Sembra aver la testa sempre qualche centimetro sopra la realtà. Gli passano inosservate cose che dovrebbero fermarlo, e vuol mettere insieme cose che fanno a pugni. È una mente storica straordinaria, ma come uomo pratico difficile da sopportare». 42 Giovanni Prezzolini a Gioacchino Volpe, 4 dicembre 1917, USMI, busta 10, fasci-
200
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
Alla data di questo messaggio, Volpe, sicuramente appoggiato da Borelli, a cui lo legava la comune militanza nei Gruppi nazionali liberali, aveva comunque avuto partita vinta per quello che riguardava l’essenziale delle sue richieste, che erano state largamente accettate da Prezzolini con la lettera del 3 dicembre. In seguito ai nostri colloqui di questi giorni passati, resta così fissata la divisione del lavoro nella nostra Sezione. Grossamente parlando io mi occuperò degli argomenti sociali e tu di quelli politici. In particolare restano sotto la mia direzione, dell’elenco da me stabilito nella relazione del 1 maggio 1917, i seguenti temi: Le classi sociali. La mobilitazione femminile. I ragazzi e la guerra. Il folklore. L’assistenza civile. Le associazioni di turismo e di sport. La Nazione in armi con i seguenti sottotemi: Come il paese ha risposto alla mobilitazione. La propaganda fra i soldati. L’anima del soldato. Lettere di soldati. La vita sessuale. Prigionieri in Austria. Passano invece al tuo gruppo: il Papato e la sua politica. Il clero italiano. I partiti. Il parlamento. La neutralità. Il governo. Lo spionaggio. La censura. Le colonie. L’emigrazione. La politica estera. Gli irredenti. Il conflitto ideale. Rimane altresì inteso che il prof. Buonaiuti, chiamato da me, passerà alle tue dipendenze. Però egli mi coadiuverà per la Bibliografia facendo lo spoglio di riviste e quotidiani cattolici. Gli impegni presi da me con il prof. Granello (Trentini) e con il Ferrari (Partito repubblicano) saranno sciolti di comune accordo. L’inchiesta della mobilitazione militare sarà anche compiuta di comune accordo, e cioè io accetterò tutti gli elementi che tu mi potrai indicare, quali ufficiali informatori nei depositi, e introdurrò nei questionari e nelle norme quelle domande e quelle istruzioni che ti parranno necessarie per il tuo lavoro. Però il tema resterà al mio gruppo e sarà trattato da un collaboratore mio43.
Timori di perdita d’indipendenza, presenti anche in altri collaboratori, rivalità personali e più profonde dissonanze non avrebbero impedito alla fine il lavoro comune in quel «laboratorio della memoria», il cui principale traguardo era quello di valorizzare il conflitto in corso come atto fondativo della nazione, in tutte le sue componenti sociali, politiche, culturali, confessionali, sessuali, generazionali, secondo un ampio
colo «Prezzolini». 43 Giovanni Prezzolini a Gioacchino Volpe, 3 dicembre 1917, ivi, busta 17, fascicolo 1. L’originale di questa comunicazione è conservata in CV. Sul punto, si veda anche Gioacchino Volpe a Giuseppe Prezzolini, 24 ottobre 1917, AGP: «Siamo, presso a poco, sempre allo stesso punto. Io avevo preparato un piccolo schema di lavoro, che il nostro Borelli avrebbe dovuto presentare o notificare al Ministro, con alcuni quesiti a cui questi avrebbe dovuto rispondere. Ma ieri e oggi non mi è stato possibile veder Borelli. Forse è in giro per il questionario degli statistici, che incontra qualche difficoltà? I giorni scorsi sono un po’ andato anche io con lui e mi son convinto che questo lavoro di approccio è necessario. Spero vederlo riapparire prossimamente e concordare con lui il da fare».
IL FILO DELLA SPADA
201
sommario, inviato da Prezzolini a Benedetto Croce, già alla fine del febbraio 1917. Si è costituito qui un Ufficio Storiografico della Mobilitazione, con lo scopo di preparare il materiale per una Storia della nostra mobilitazione in quanto questa non sarà soltanto sforzo di uomini e di industrie ma anche responsabilità di partiti, cooperazione di classi, collaborazione di organismi sociali, previdenza legislativa di governi. Di questa idea, merito di Giovanni Borelli, le avrei scritto prima se il Borelli non mi avesse promesso di venire con me da lei a parlarne; tanto più che sapeva che lei desiderava appunto ciò. Ma vedo che il Borelli tarda a tornare ed in attesa del colloquio, le scrivo per domandarle consiglio. Le accludo lo schema degli argomenti che vorrei fossero trattati nella sezione sociale-politica a me affidata, e le chiedo di indicarmi lacune che ci veda e di suggerirmi nomi di possibili collaboratori, i quali devon essere tutti soggetti al vincolo militare. Un piccolo gruppo sarà qui a organizzare; uno stuolo nelle fila dell’esercito, sul fronte, nelle fabbriche, nei depositi dovrà investigare, cercare, rispondere alle nostre inchieste44.
L’attività di quella sezione dello Storiografico, che poi avrebbe previsto la partecipazione di Achille Bertarelli, Francesco Baldasseroni, Antonio Anzilotti, Giuseppe Stefanini, Giorgio Falco, Enrico Finzi, Roberto Michels, si articolava secondo questo schema complesso e per molti aspetti assolutamente innovativo. I° Il Popolo italiano. 1. Le classi: a) I contadini. b) Gli operai. c) La gente di mare. d) La piccola borghesia. e) I grossi capitalisti (mobiliari, immobiliari). f) Burocrazia. g) Aristocrazia. 2. Le regioni. 3. Le popolazioni di confine prima e durante la guerra. 4. Gli irredenti in Italia prima e durante la guerra: a) Trentini. b) Adriatici. 5. La donna: la sua mobilitazione, la sua nuova condizione nella famiglia. 6. I ragazzi e la guerra. 7. Le organizzazioni religiose: a) Cattolica: Le direttive del Papato e il clero. L’azione dei Vescovi. L’azione delle minori autorità ecclesiastiche nelle città e nelle campagne. Il
44 Giuseppe Prezzolini a Benedetto Croce 16 febbraio 1917, in B. CROCE-G. PREZZOCarteggio. II. 1911-1945, a cura di E. Giammattei, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1990, pp. 455-456.
LINI,
202
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
Vescovo castrense e i cappellani militari. I preti soldati. b) Israelita. c) Protestante. d) Massonica. II° I Partiti. 1. Monarchici, Interventisti (compresi i Radicali), Nazionalisti. 2. Neutralisti. 3. Repubblicani. 4. Cattolici. 5. Socialisti e Anarchici. III° Preparazione ed Assistenza. 1. L’Italia dall’agosto del 1914 al Maggio del 1915: come e perché siamo arrivati alla guerra. 2. Azione del Parlamento prima e durante la guerra. 3. Assistenza morale e pratica: delle Prefetture, dei Comuni, dei Comitati, delle Associazioni, distribuzione dei sussidi e dei soccorsi, Case del soldato, Uffici pacchi, lana, corrispondenza. Ricreatori. Rifugi. Posti di ristoro nelle Stazioni. L’Opera dello “Scaldarancio”. Iniziative varie. IV° La disciplina del Paese. 1. La disciplina dei consumi e dei risparmi. 2. La disciplina del lavoro. 3. La disciplina dell’esercito. 4. Lo sport e la guerra. 5. Movimenti popolari. V° La difesa dello Stato. 1. Spionaggio. Internati. Profughi dei paesi occupati o sgomberati. Polizia. 2. Gli stranieri in Italia prima e durante la guerra. 3. I prigionieri e i disertori austriaci. 4. La censura. VI° La Nazione in armi. 1. Mobilitazione militare: a) Come il paese ha risposto alla mobilitazione (i volontari, gli intellettuali, gli emigrati, gl’imboscati, i renitenti, i disertori, i simulatori di malattie). b) Come il Governo è riuscito a mobilitare le competenze tecniche e le energie individuali. 2. La propaganda tra i soldati: Circolari del Comando Supremo, del Governo, dei Corpi d’Armata, ecc. Conferenze degli Ufficiali ecc. 3. L’anima del soldato: La recluta. Nei Depositi. In zona d’Operazioni. A riposo. In licenza. Negli Ospedali (feriti, ammalati). Il ritorno al fronte dopo la degenza negli Ospedali. Il prigioniero. 4. Raccolta di lettere dei soldati. 5. Vita sessuale del soldato: Come sopporta l’astinenza. I postriboli in zona di guerra. La prostituzione libera. Le malattie veneree. VII° Le Colonie e la guerra. 1. Le Colonie di dominio diretto. 2. I centri di emigrazione permanente.
IL FILO DELLA SPADA
203
3. I centri di emigrazione temporanea. VIII° L’Italia e le altre Potenze. 1. L’Italia nell’opinione pubblica delle Potenze ora alleate. 2. L’Italia nell’opinione pubblica delle Potenze ora nemiche, nel periodo della neutralità. 3. L’Italia nell’opinione pubblica delle Potenze neutrali. 4. Il Papato e l’Italia. La Questione Romana, ecc. IX° La coltura. 1. La coltura e le idee del paese: a) la scuola, b) il libro, c) riviste e giornali, d) il dibattito ideale. 2. Folklore di guerra (con raccolta di materiale): a) Letteratura popolare (canzoni, leggende, gerghi, ecc.). b) Superstizioni. X° Bibliografia della Guerra. 1. Pubblicazioni ufficiali italiane. 2. Pubblicazioni ufficiali dei nostri alleati. 3. Pubblicazioni ufficiali dei nostri nemici. 4. Pubblicazioni ufficiali dei neutri. 5. Pubblicazioni di coltura superiore. 6. Pubblicazioni popolari. 7. Iconografie, cartoline satiriche, stampe, musiche, canzonette45.
Erano argomenti che Volpe avrebbe fatti propri e ripresi sistematicamente nel grande ciclo dedicato alla «storia civile, interna del popolo italiano durante la guerra»46, e nella straordinaria sintesi di storia nazionale che poi sarebbe divenuta L’Italia in cammino, la cui genesi deve essere datata al periodo bellico, precisamente a ridosso dei lavori dello Storiografico. Naturalmente L’Italia in cammino sta viceversa fermissima, quasi inchiodata in terra. E ci rimarrà chi sa quanto, non ostante la voglia di spingerla avanti! Ci terrei molto in verità. E se c’è poi un momento buono per mettere al mondo un libro così, il momento è questo. Ora che tu, come mi scrivi, non hai più ambizione per i miei lavori, ce l’ho io, guarda un po’! Essa rimane come sempre in me, quando sono nel periodo conclusivo di qualche cosa… Mi dispiace solo di non poter dedicare a te il mio volume…quando si stamperà. E ho pau-
45 Ufficio Storiografico della Mobilitazione. Sezione sociale-politica. Programma, USMI, busta 17, fascicolo 2. 46 Gioacchino Volpe a Giovanni Gentile, Roma, 3 giugno 1943, AFG. Su Volpe storico del primo conflitto, C. GHISALBERTI, Gioacchino Volpe e la Grande Guerra, in «Clio», 2000, 2, pp. 201 ss.
204
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
ra che neanche lo dedicherò a Nanni, salvo qualche dedica sottaciuta o sottointesa. Un libro così al giorno che corre bisogna consacrarlo ai combattenti, ai vivi ed ai morti. Essi ne sono la materia ideale, da essi mi è venuta l’ispirazione al lavoro47.
Sono parole vergate nell’agosto 1918. Quando la ripresa dell’iniziativa italiana aveva allontanato ma non fatto dimenticare la rotta disastrosa di Tolmino, Plezzo, Monte Nero, che aveva provocato un punto di rottura nella continuità della storia italiana, di cui Ardengo Soffici avrebbe immediatamente individuato il significato profondo di crisi generale della nazione e soprattutto delle sue vecchie classi dirigenti48. Anche per Ojetti, la disfatta portava il segno inconfondibile degli antichi mali del paese: «L’egoismo, la discordia, l’indifferenza, la paura dei fastidi che son le piaghe della nostra vita nazionale si ripetono, anche in questa tragedia, nell’azione militare, e ammazzano l’Italia»49. Una diagnosi, condivisa anche da Mussolini50, e da Salvemini, in una più tarda analisi politica della sconfitta, egualmente impietosa nei confronti degli errori del partito neutralista e di quello interventista. Dello sfacelo di Caporetto è innegabile che tutti siamo stati, più o meno, responsabili. Le classi dirigenti, spezzatesi tra neutralisti e interventisti nel periodo della neutralità, tali rimasero anche durante la guerra. E, in una prova così terribile e lunga, la disunione delle classi dirigenti intensificò il disorientamento e la mala volontà di un popolo, per cui questa guerra era la prima guerra nazionale dopo quindici secoli di abiezione servile e di frazionamento politico. E fra gli interventisti, troppa gente s’immaginò che la guerra si potesse vincere con la retorica degli ordini del giorno e con le goffe e balorde mistificazioni dei giornali; e considerò il soldato come bestia da soma senza pensiero, che avesse l’ob-
47 Gioacchino Volpe a Elisa Serpieri Volpe, 31 agosto 1918, CV. «Nanni» è il diminutivo del primogenito di Gioacchino Volpe. 48 Ardengo Soffici a Giuseppe Prezzolini, 28 novembre 1917, in A. SOFFICI, Lettere a Prezzolini, cit., p. 123: «Dopo la ritirata ho avuto modo di sapere, di parlare, di veder chiaro in molte altre faccende e il mio giudizio si precisa sempre di più. Il soldato è innocente in gran parte di tutto: la colpa di ciò che è successo va divisa fra tutti coloro che sono sopra il popolo». 49 U. OJETTI, Lettere alla moglie, 1915-1919, a cura di N. Rodolico, Firenze, Sansoni, 1969, pp. 423-424. 50 Benito Mussolini a Silvano Fasulo, 30 ottobre del 1917: «Il nostro torto grave ed imperdonabile è stato quello di aver consegnato la nostra guerra a gente che non la sentiva, non la voleva, non l’accettava, e l’ha subita come una corvée penosa e pesante più delle altre. Siamo stati degli ingenui. Sono d’accordo con te, non appena quest’ora tragica sia passata, bisogna fare risolutamente il processo al modo col quale abbiamo fatto la guerra e agli uomini, nessuno escluso, nemmeno gli altissimi». Lettera citata in R. DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., p. 379. Sullo stesso punto, B. MUSSOLINI, Unità d’animi, «Il popolo d’Italia», 29 ottobre 1917, in Mussolini giornalista, 1912-1922, a cura di R. De Felice, Milano, Rizzoli, 2001, pp. 201-203.
IL FILO DELLA SPADA
205
bligo di farsi ammazzare sempre senza ragionare mai. Gli uomini di governo o non vollero la guerra (giolittiani, socialisti, clericali), e quanto più questa si rivelava lunga e difficile, tanto più essi si compiacevano di non averla voluta, preparando le vendette contro gl’interventisti, e così contribuivano a intensificare la fiacchezza del paese. Oppure, dopo aver voluto la guerra, riconoscendone la necessità, ne temevano le responsabilità (Orlando), e speravano di attenuarle, mostrandosi remissivi verso gli avversari della guerra; e così contribuirono anch’essi al progetto di infiacchimento dello spirito pubblico. Oppure, ancora, ebbero il coraggio di assumere le proprie responsabilità (Salandra, Sonnino), ma non sentirono la guerra che come “guerra di sacro egoismo”, parentesi nella storia della Triplice, dopo la quale, ottenuti i territori contestati, nulla avrebbe impedito all’Italia di ritornare nella Triplice, se l’Intesa non avesse pagato una sufficiente mancia coloniale51.
Volpe si risolveva, immediatamente dopo la «strana disfatta», ad abbandonare l’incarico di retrovia, per raggiungere il teatro delle operazioni. Quella decisione si presentava già come irrinunciabile nella lettera del 6 novembre 1917: un drammatico documento dello sconcerto del fronte interventista di fronte alla gravità della sconfitta militare, da cui emergeva la debolezza congenita di un popolo che, già a partire dalle sue élite, appariva, proprio nella suprema prova delle armi, incapace di identificarsi in una «mal conosciuta patria». Sono stato tentato di piantare la baracca e tornarmene a Milano, ma poi? Dovrei di nuovo dopo una settimana riprendere la via di Roma, perché certo anche se volessi sciogliermi dallo Storiografico dovrei aver spiegazioni col mio o con i miei superiori. Intanto, ho parlato con varia gente assillato dal desiderio, dal bisogno, dalla passione di vedere un po’ chiaro in questo enorme sfasciamento che è successo fuori di noi e che può accadere dentro. Certo si sta modificando sotto la pressione di quella terribile esperienza di dieci giorni un complesso di nostre idee! Ho visto fra gli altri Borgese, che venne da me allo Storiografico con sua moglie, una giovane e mi parve graziosa donna. Da Mina, l’altra sera, c’era la moglie di un giornalista reduce da Udine, ex giornalista essa stessa. Oggi ho visto gli altri. E così sono passato di angoscia in angoscia. Poiché ad ogni colloquio in cui ci si arrovella per capire, per afferrare qualcosa, si stuzzica la piaga ed è un’angoscia. Ma ho anche incontrato il mio compagno del 246°, burlone, epulone e dissipatore, il tenente Pavesi che mi ha abbordato con la solita faccia, con la solita filosofia, con il solito finale: “Che ci vuoi fare? Quel che è stato è stato?”. E forse questa è proprio la conclusione, a cui, pur contro animo, dobbiamo venire anche noi e a cui raccontano che sia venuto anche Cadorna: quel che è successo spezza il cuore ma bisogna pensare al domani e salvare il paese. Disgraziatamente io non posso salvare il paese ma ognu51 G. SALVEMINI, La rotta di Caporetto, «L’Unità», 21 agosto 1919, in ID., Scritti vari, 1900-1957, cit., pp. 536-537.
206
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
no di noi può e deve vedere se si può uscire da questo disastro nel modo meno rovinoso possibile. Ci troviamo come dei naufraghi che cercano di salvare dalla nave sconquassata il più che si può, per riprendere il mare appena possibile! La mia posizione attuale mi dà tuttavia qualche imbarazzo. In questi giorni, trovo assurdo stare a ponzare storie mentre da un giorno all’altro potremmo tutti trovarci nella necessità di salvare l’esistenza materiale nostra e del paese. Nel tempo stesso non mi pare neanche bene piantare tutti in asso e abbandonare una attività, che si stava organizzando, che in parte già cominciava a svolgersi e che riconosciamo utile per l’avvenire, vuoi per trarre i frutti della vittoria, vuoi per aiutarci a capire la sconfitta e rimediarci un poco. Per questo io cercavo una soluzione media, ma dubito si possa trovare. E un bel momento bisognerà decidersi per l’una o per l’altra. Tieni presente che lasciando lo Storiografico, non rimane che rientrare al battaglione e chiedere di andare al fronte. […] In ogni modo, fra qualche settimana, gli avvenimenti potranno essi stessi consigliare o imporre una soluzione. Potranno metterci davanti ad un imperativo categorico davanti a cui passa in sottordine ogni privata preoccupazione. Io non sono senza fiducia ma non ne ho troppa. Chi ci può assicurare che non si ripeta quel che è successo nel medio Isonzo? Senza nostra colpa dobbiamo passare da un grande, forte, forse eccessivo ottimismo ad un grande, forse eccessivo pessimismo. Per fortuna mia adesso sono preparato a tutto con abbastanza tranquillità. Notizie anche cattive non mi turban più gran che. Perché? Perché il peggio è avvenuto. Il peggio non era la perdita di una provincia o una grande sconfitta52.
Sulla necessità di un rapido trasferimento nella zona d’operazioni, Volpe insisteva, poco più tardi, con Giovanni Borelli, in una comunicazione dove i lavori dello Storiografico erano considerati inattuali, se non addirittura superflui, almeno momentaneamente, a petto della gravità della situazione politica e militare. La questione è sempre quella che ti esposi: in questo momento, per lo Storiografico non si può se non preparare il lavoro per il poi. Ed io non mi sento di far di più. Forse è assurdo pensare di far di più. Non si hanno punti d’appoggio per lavorare idealmente. Essi si formeranno, ma non ci sono ancora. E poi io ho bisogno di qualche esperienza diretta della guerra e degli uomini che la fanno. Quindi io desidero ciò che sai. Intanto, io ho scritto a Casati se è possibile, nel caso che io non possa pel tramite dello Storiografico, che egli mi chiami. Caro Borelli, non dolerti. Ma bisogna che io provveda in qualche modo a far ciò che reputo utile e doveroso53.
52 Gioacchino Volpe a Elisa Serpieri Volpe, 6 novembre 1917, CV. 53 Gioacchino Volpe a Giovanni Borelli, 18 dicembre 1917, USMI, busta 10, fascico-
lo «Volpe». Alessandro Casati, arruolatosi come sottotenente nell’aprile del 1917, veniva promosso capitano e, il 21 maggio, maggiore, per meriti di guerra conseguiti sull’altopiano di Asiago. Ferito nella battaglia della Bainsizza, era decorato con la medaglia d’argento e otte-
IL FILO DELLA SPADA
207
Restata momentaneamente inesaudita questa richiesta, non restava a Volpe che contentarsi di un incarico, più vicino al campo di battaglia, sempre nell’ambito dello Storiografico. Modesto risarcimento che in ogni caso lo allontanava dal lavoro delle scartoffie, e soprattutto dall’atmosfera viziata di una Roma «bizantina»: «città di parlamentari, cioè di conventicole politiche e di commedie politiche; città di aristocrazia grigionera e di prelati inclini a germanofilia; città di imboscati e perdigiorno e vociferatori e strateghi da caffé e sollecitatori di affari nei ministeri»54. Di una capitale, incapace di elevarsi all’altezza del momento e idealmente sempre più lontana dal teatro dell’azione, al quale Volpe sentiva la necessità di avvicinarsi. Dunque, caro Borelli, preparami questo foglio di via. Comincerò dalla Vª Armata, cioè Modena, mi pare. Di lì, per Bologna e Ferrara, andrò a Padova, donde mi dislocherò per tutta la linea del fronte. Quanto rimarrò nei vari luoghi, ora non saprei. Se lì troverò da fare, tanto meglio. Anzi, mia intenzione sarebbe proprio questa. Il lavoro di corrispondente col gruppo dei miei collaboratori lo potrò fare anche da lì. Ma vedi di non tardare l’invio del foglio. Temo che vi possano essere mesi di tregua o quasi tregua al fronte ed io vorrei invece trovarmi da quelle parti in una fase attiva. Quanti mesi sono che parliamo di questo viaggio? Dall’estate… Bisogna che lo Storiografico, se deve esistere, non tema di apparire in pubblico, di smascherare la sua presenza anche là dove si diffida di essa. Non può vivere a dispetto di Dio e dei santi! Anche perché se le opposizioni dovessero essere tenaci e irriducibili, è meglio che si rivelino sul principio e non a lavoro iniziato. Fatto sta che io ho trascorso quattro mesi neghittosi, badando più alle mie cose che a quelle della collettività. Per quanto sia piccola l’azione di un uomo solo, la mia è stata ancora più piccola… E il mio amor proprio, il mio senso civico ne soffre. Mi pare di non poter neppure parlare come si deve parlare in questo momento, se l’azione è tanto al di sotto non solo delle necessità ma anche delle stesse possibilità della mia modesta persona55.
Il congiungimento con la nazione impegnata in prima linea appariva, dunque, come un obbligo necessario a tutti coloro che si erano impegnati per favorire l’intervento, come lo storico aveva già sostenuto nella corrispondenza del 25 dicembre 1915, indirizzata a Fortunato Pintor. Un obbligo che diveniva impegno d’onore proprio di fronte alneva il grado di tenente colonnello, per poi partecipare attivamente alle operazioni militari immediatamente successive alla rotta di Caporetto. Sul punto, A. GATTI, Caporetto. Diario di guerra (maggio-dicembre, 1917), Bologna, Il Mulino, 1997, pp. 4, 10-12, 17-18, 159-161 e passim. 54 G. VOLPE, Ottobre 1917, cit., p. 62. 55 Gioacchino Volpe a Giovanni Borelli, 28 dicembre 1917, USMI, busta 10, fascicolo «Volpe».
208
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
la grande effusione di sangue e ai tanti lutti, che avevano colpito personalmente anche Volpe con la scomparsa del fratello minore, morto a causa di una «malattia di guerra» contratta durante la sfibrante avanzata che aveva impegnato le armate italiane. Ti sei ricordato dell’amico lontano, nel giorno della sua disgrazia ed egli ne ha provato un po’ di conforto. Sì quel giovane che portava il mio stesso nome, andato a morire a S. Arcangelo presso il padre, era mio fratello e un po’ mio figliolo perché aveva fatto con me una parte dei suoi studi, a Pisa e a Milano, e da me aveva ricevuto – buona o cattiva – qualche impronta. Ed è morto sconsolatamente. Risparmiato per tre mesi dai proiettili del Carso, ha ceduto ad un male contratto durante i terribili giorni delle intemperie e della battaglia. Forse, se fosse rimasto in un ospedale militare, dove ormai hanno la cura sempre sicura delle “malattie della guerra”, o almeno dei mezzi per vincerla, se la sarebbe cavata. Ma sentendosi meglio, volle venire a S. Arcangelo ed i medici civili hanno brancolato nel vuoto. Quando pareva che avessero scoperto la causa specifica del male, era troppo tardi. Le sue risorse organiche erano esaurite. Vedi bene che non si può morire peggio di così, lasciando più strascico di rammarichi, di pentimenti, di responsabilità. Ma tu dici bene. Bisogna sperare che queste vite stroncate non siano un sacrificio vano. Io ne sono anzi persuaso. E seguito a credere che noi non potevamo e non dovevamo sottrarci alla guerra; e seguiterò a crederlo anche se domani chiameranno me a impugnare un fucile. Sono prontissimo anche a pagar di persona, pur con cinque figli alle mia spalle! E fra parentesi, perché morire è nascere e nascere è morire, ti dirò che mi è nato, quattro mesi fa un altro bimbo, Vittorio, benissimo accetto anch’esso, non ostante che abbia impedito alla mamma di attendere ad altre faccende più consone al momento presente!56.
Il destino di diverse generazioni si sarebbe intrecciato ancora nella tragedia della guerra, quando Volpe, raggiunto il fronte, al principio del 1918, veniva aggregato nell’VIII Armata, comandata dal generale Caviglia, per essere utilizzato nel Servizio Propaganda. Quel «Servizio P», organizzato da Giuseppe Lombardo Radice, con l’ausilio di Pietro Jahier, Ardengo Soffici, Massimo Bontempelli, Piero Calamandrei, Emilio Cecchi, Giuseppe Prezzolini, che di questo organismo avrebbe fornito la più convincente descrizione. Il servizio P, per chi non lo sappia, era il servizio della propaganda nell’esercito: necessario come quello dei viveri e delle munizioni. Si combatte con i sentimenti e si uccide con le idee, più spesso, che non con i cannoni. Servizio P, ufficiali P, sezione P erano parole che facevan sorridere e ridere gli increduli e i nemici delle novità. Ma si imposero. Servizio P non fu la “propaganda” soli-
56 Gioacchino Volpe a Fortunato Pintor, 25 dicembre 1915, cit.
IL FILO DELLA SPADA
209
ta: fu l’espressione più aperta del dovere dei Comandi di tenersi a contatto, di curare, di dirigere, di tutelare, di educare il popolo soldato. E per dire tutta la verità, il servizio P fu la creazione degli ufficiali di complemento contro la mentalità degli ufficiali di carriera; fu la creazione degli educatori e degli uomini che eran stati prima guide di uomini. Il servizio P rese ottimi servizi soltanto perché affidato a elementi non stretti dal professionalismo militare, e perché ruppe la trafila della gerarchia militare, coll’inviare i suoi rapporti direttamente e non attraverso i comandi: così soltanto la verità poté arrivare in alto, donde fino ad allora, il rispetto ufficiale l’aveva tenuta lontana. Il servizio P fu propaganda, assistenza, vigilanza. Ma in fondo queste tre funzioni furono una sola attività, e soltanto la pratica e la burocrazia le divisero. Chi assiste fa opera di propaganda, poiché propaganda non è altro che assistenza spirituale; e chi vigila, assiste per il semplice fatto che esercita una tutela ed una sorveglianza. Sono tre nomi d’una sola cosa. […] Il servizio P è nato da Caporetto. Caporetto ci ha insegnato che bisognava badare al soldato. Il soldato era stato trascurato. Armi, munizioni, istruzioni, tutto andava; ma non andava considerar gli uomini come numeri, come schede, come materiale. Gli uomini rivelarono che le linee strategiche, che le fortificazioni artificiali, che le macchine da guerra non contano nulla, se dietro non c’è l’uomo deliberato a vincere o a morire. E rivelarono che dove gli strateghi negavano ci si potesse difendere, dove si erano fatti pochi lavori, dove scarseggiavano le macchine da guerra, bastava l’anima bene armata di volontà per resistere. Da Caporetto si venne al Grappa e al Piave57.
Nel Servizio P, Volpe avrebbe diretto, ma di fatto redatto personalmente, il bollettino «Fatti e commenti» destinato agli ufficiali subalterni58, per poi assumere direttamente, in assenza di Lombardo Radice, la direzione di quel ramo del Psychological Warfare Branch, che anche l’esercito italiano, grazie al contributo decisivo di un altro «intellettuale in guerra», come Ugo Ojetti59, aveva costituito per sostenere il morale delle truppe profondamente scosso dal recente disastro militare e per
57 G. PREZZOLINI, Tutta la guerra. Antologia del popolo italiano sul fronte e nel paese, Firenze, Bemporad, 1921, pp. 359 ss., in particolare pp. 359-360, per la citazione; ID., Vittorio Veneto, Roma, La Voce, 1920, pp. 9 ss.; M. SIMONETTI, Il Servizio “P” al fronte (1918), in «Riforma della scuola», 1968, 3, pp. 24 ss.; G.L. GATTI, Dopo Caporetto. Gli Ufficiali P nella Grande Guerra: propaganda, assistenza, vigilanza, Gorizia, Leg, 2000. Si veda anche, A. FAVA, Assistenza e propaganda nel regine di guerra, 1915-1918, in Operai e contadini nella Grande guerra, a cura di M. Isnenghi, Bologna, Cappelli, 1982, pp. 174 ss. 58 G. PREZZOLINI, Tutta la guerra, cit., p. 361: «Bisognava parlare agli ufficiali perché parlassero ai soldati; istruire l’ufficiale perché facesse valere, con il suo prestigio, gli argomenti che in bocca di altri perdevano forza; fornire all’ufficiale, che aveva fra tutte le necessità di servizio appena il tempo di scorrere le notizie del giornale (quando lo trovava), il modo di discutere le riflessioni dei soldati, di rialzarne il morale, se occorreva, di aiutare i migliori a trovare la verità». 59 U. OJETTI, Lettere alla moglie, cit., pp. 49-50; 55-56; 64-65; 84-86; 92-93; 510; 529 e passim.
210
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
portare l’offensiva propagandistica nelle stesse linee del nemico60. Avrai avuto le mie lettere e cartoline degli ultimi giorni, anche quella di ieri da Padova dove andai per l’adunanza dei capi delle sezioni P. Discussione, comunicazioni fino a mezzodì passato e poi colazione, ospiti dell’On. Comandini che aveva presieduto l’adunanza. Sto così imparando un poco che cosa è il funzionamento di un ufficio. Chi lo avrebbe pensato! Non era neppure una mia aspirazione, in verità, ma la malattia di Lombardo mi ha costretto a fare anche questo. Avendo quarant’anni suonati e già una professione non posso neppur dire: impara l’arte e mettila da parte! Tuttavia ci provo anche un certo gusto: il gusto che dà l’agire, lo sbrigare una cosa, il vedere nello spazio di 24 ore il principio, lo svolgimento e la fine di una certa pratica o iniziativa, tutte cose di cui io non ho mai gustato bene il sapore, specie negli ultimi anni, donde un senso di insoddisfazione, di sfiducia, di impotenza quasi doloroso. Fra un paio di giorni spero di cominciare a girare per la linea. Mi muovo anche ora, ma per andare al comando: 8 chilometri da qui, e la mensa, altri tre chilometri. Ieri poi a Padova, 40 km divorati in mezzora, ma il mio desiderio è di andare fra i combattenti. Ho una macchina a mia disposizione e in un giorno è possibile recarsi ai battaglioni, visitare un bel tratto di fronte, conoscere un certo numero di ufficiali P nostri corrispondenti. […] Eppure qui vedi atmosfera di guerra se ne respira poca. Chi ne parla mai? Chi sa nulla di ciò che accade? Abbiamo qualche giornale, pochi in verità e basta. Altrove l’Ufficio P è unito con l’Ufficio informazioni e lì la guerra si vive e si segue ora per ora. Così alla Terza Armata. Ma noi siamo dieci km, distanti gli uni dagli altri. Fra noi non circolano neppure le dicerie che ruzzolano per le vie di Milano… I miei due compagni di lavoro se ne interessano poco. E lo stesso Lombardo è tanto assorbito dalla propaganda che le questioni vicine o lontane dalla guerra come fatto politico o militare gli si annebbiano davanti agli occhi61.
Proprio le ricadute politiche del conflitto, presenti e future, sulla linea del fuoco e sul fronte diplomatico, avrebbero invece costituito il contenuto essenziale della redazione di «Fatti e commenti», attraverso editoriali e più spesso «spunti di conversazione», che gli ufficiali avrebbero dovuto sviluppare nei loro dialoghi con la truppa62, dove lo storico avrebbe elaborato ampiamente la sua «filosofia della guerra», questa volta, rivolta a contrastare l’apostolato neutralista, pacifista, disfattista con argomenti più convincenti della vecchia retorica patriottica. Per tutti, popoli, società, singoli, il conflitto presente sarebbe stato «buon maestro», sosteneva Volpe, rovesciando una famoso dictum di 60 G. PREZZOLINI, Tutta la guerra, cit., pp. 382 ss.; P. MELOGRANI, Storia politica della Grande Guerra, cit., pp. 460 ss.; N. ISNENGHI, Giornali di trincea: 1915-1918, Torino, Einaudi, 1977. 61 Gioacchino Volpe a Elisa Serpieri Volpe, 31 agosto 1918, cit. 62 G. PREZZOLINI, Tutta la guerra, cit., pp. 367 ss.
IL FILO DELLA SPADA
211
Tucidide63. Ancora una volta pólemos sarebbe stato «padre di tutte le cose», in quanto «il conflitto accomuna e il diritto nasce dalla contesa»64. E, quindi, guerra come principio di sviluppo e di civilizzazione: «morte ma anche vita, distruzione di beni, ma anche acceleramento di attività, stimolo di forze produttive; abisso fra uomo e uomo, ma anche più saldo legame fra cittadino e cittadino»65. Guerra come rinnovamento e dislocazione del vecchio «ordine gerarchico delle nazioni», forza di rottura degli antichi equilibri diplomatici, dinastici, strategici, che «è nei rapporti internazionali, ciò che nella vita interna di un paese è rivoluzione»66. Guerra come «artefice di democrazia», in quanto momento finale del processo di nazionalizzazione delle masse, guerra come «forza rivoluzionaria» nella vita interna degli Stati, come fattore di drastico ridimensionamento delle antiche divisioni giuridiche ed economiche, anche senza il ricorso all’apparato ideologico giacobino, socialista, bolscevico. La guerra è da segnalare come grande artefice di democrazia. Essa ha fatto di cento plebi altrettanti popoli. Essa ha demolito o contribuito a demolire, dove esistevano, privilegi di caste superiori, anche di caste guerriere che pur avevano mosso la guerra e inquadrato i combattenti. Piacciono tutti questi beni e mutamenti e progressi? Ed allora bisogna abituarsi, non già invocare la guerra, che potrebbe apparire grottesco, ma vedere in essa una potente forza rivoluzionaria del mondo; che ferisce, ma ha pure virtù medicatrici delle ferite che essa procura; che esige dagli uomini sacrifici estremi, ma anche apre dinanzi ai loro passi una via più ampia e libera. Forza rivoluzionaria dico: anche senza la “Rivoluzione”, cioè ghigliottine e lanterne e giornate di ottobre, guardie rosse e anarchia. Tutti elementi accessori e non essenziali di una rivoluzione, per quanto possano piacere a chi latinamente professa il culto della dea “Rivoluzione”67.
Guerra, dunque, come volano sociale ed economico della modernizzazione della vecchia Europa, e per l’Italia soprattutto delle sue aree meno sviluppate: il Meridione e le zone alpine e appenniniche68. Guerra, come occasione di riforma politica radicale, da attuarsi immediatamente dopo la fine delle ostilità.
63 TUCIDIDE, La guerra del Peloponneso, VIII, 66. 64 Eraclito, frammenti 53 e 80. 65 G. VOLPE, Il congresso dei maestri, cit., p. 9. 66 ID., Vittoria, «Fatti e commenti», 5 novembre 1918, in Per la storia della VIII Arma-
ta, bis, cit., p. 33. 67 ID., Le attività della guerra. I. Guerra e democrazia, in «Saluto», 1 gennaio 1919, ora in ID., Guerra Dopoguerra Fascismo, cit., p. 95. 68 ID., Nord e sud; Per gli Alpini, in «Saluto», 1 gennaio 1919, in ID., Per la storia dell’VIII Armata, cit., pp. 186 ss.
212
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
In fondo, si tratterrà di governare il paese, domani, meglio di ieri, di mettersi tutti più seriamente di fronte ai vecchi problemi nazionali, acuiti dalla guerra, ed a quelli che la guerra ha posto; di sostituire, nel governo, uomini migliori ad uomini logori ed a politicanti di professione; di aver un’opinione pubblica illuminata che sia stimolo e controllo efficace; di dar vita e funzioni ad organismi e sindacati industriali e agricoli, fatti di capitalisti e di operai, che portino all’opera legislativa dello Stato un contributo di più alta competenza e realizzino un più largo esercizio di effettiva sovranità da parte della nazione69.
Ma, soprattutto, guerra integralmente nazionale. E dunque, necessariamente, guerra impegnata su di una duplice linea, per respingere, dopo Caporetto, le lusinghe dell’«offensiva pacifista degli Imperi centrali», e per non subordinare, con una strategia militare rinunciataria, la ripresa delle armi italiane ai successi degli alleati. In caso di vittoria acquisita con le altrui forze, o peggio di sconfitta, la perdita di prestigio sul campo militare avrebbe innescato un processo di disfacimento sociale della compagine nazionale, che avrebbe incrinato l’egemonia del ceto borghese e reso di fatto ingovernabile il paese, come lo storico ricordava ad Alessandro Casati, in una lettera dei primi mesi del 1918, dove si tornava a insistere sulla necessità di potenziare il Servizio P, soprattutto per la ricaduta politica della sua attività anche sul fronte interno. Molti borghesi, ora, in quanto vestono divisa di ufficiale, non sentono il pericolo che incombe su la loro classe se la guerra va male. La sfiducia antica delle masse crescerà, ricevendo come un nuovo sugello o conferma. E chi governerà l’Italia avrà fra le mani un compito ancora più difficile da assolvere, uno spirito di indisciplina ancora maggiore da fronteggiare, una diffidenza più accentuata da vincere. Basta, basta. La fiducia che la guerra la vinceremo è in me ancora alta; ed anche la fiducia che gli Italiani di domani possano essere migliori di quelli di ieri. Addio, caro Casati, a te e alla 7ª . Delle novità dell’ex tuo ufficio P, saprai. Le sue proporzioni materiali stanno crescendo. Speriamo che i suoi compiti e funzioni siano grandi anche essi, e bene assolti70.
Erano temi che Volpe avrebbe ribadito a più riprese, stigmatizzando il carattere anti-nazionale della polemica antiborghese, ormai propagatasi tra le stesse truppe di linea, che non soltanto dimenticava «che la borghesia ha dato all’esercito italiano la grande massa degli ufficiali, i quali hanno pagato di persona quanto e più i semplici soldati» ma che a quella stessa classe non riconosceva la capacità di aver organizzato la guerra nelle retrovie, ponendo, allo stesso tempo, le basi di un dopoguer-
69 ID., Le attività della guerra. I. Guerra e democrazia, cit., p. 79. 70 Gioacchino Volpe ad Alessando Casati, s. l., s. d. [1918], FAC.
IL FILO DELLA SPADA
213
ra il più possibile florido per l’intera comunità nazionale71. Nell’ultimo periodo del conflitto, le preoccupazioni di Volpe si concentravano tuttavia ancora sullo scenario internazionale, nello sforzo di contrastare le lusinghe contenute nella proposta di pace dell’Austria-Ungheria72, che costituiva, come avrebbe testimoniato una postuma ricostruzione biografica, il nocciolo duro della sua attività di propaganda. Era largamente diffuso un senso come di preoccupazione che non dovesse la guerra essere decisa in ultimo senza di noi, risultandone poi nelle trattative di pace una situazione non troppo diversa per l’Italia da quella del ’59 e ’66. Di tale preoccupazione ci facemmo in parte eco, in parte suscitatori anche noi, coerentemente all’idea più volte manifestata che c’era, entro la guerra dell’Intesa, una guerra italiana e che la guerra italiana solo l’Italia, non l’Intesa, poteva vincerla73.
Ancora nel luglio del 1918, in una lettera al figlio Arrigo, rispuntavano i tenaci sospetti di Volpe nei confronti degli alleati di oggi, dei quali non si doveva dimenticare l’antica ostilità dei decenni e dei secoli passati, neanche in considerazione dell’afflusso dei magri e simbolici aiuti confluiti sul fronte italiano dopo Caporetto. Oggi abbiamo avuto la festa francese a Milano: rivista sfilata, fiori, discorsi alla Scala, fiaccolata questa sera… Molta, forse, troppa roba, in tempo di guerra. Io poi che ricordo come Italia e Francia si guardassero in cagnesco fino a pochi anni fa, proprio non mi posso commuovere, anche se molto mi piacciono quei bravi poilus che sfilavano per le vie di Milano, col loro passo marziale, al suono di quella loro fanfara, che anche tu hai sentito74.
In coerenza con questi convincimenti, lo storico tornava a ribattere sulla necessità di isolare gli obiettivi della guerra nazionale, tra tutti gli altri che si andavano profilando nella grande mischia delle nazioni. Più si susseguono su altri fronti le vittorie dell’Intesa, più questa segreta ansia che noi avvertiamo, sotto la gioiosa fiducia che ci invade, cresce. Sì, vi è 71 G. VOLPE, Idee da diffondere (La guerra, i contadini, i borghesi), in «Fatti e commenti», 27 settembre 1918, in Per la storia dell’VIII Armata, cit., pp. 121 ss.; ID., Diritti-Doveri, in «Saluto», 1 gennaio 1919, ivi, pp. 178 ss. 72 ID., La proposta austriaca di pace, 17 settembre 1918; ID., Ancora la proposta austriaca di pace, 24 settembre 1918; ID., Perché è doveroso diffidare, 11 ottobre 1918; ID., La spada e solo la spada taglierà il nodo della Grande guerra, 12 ottobre 1918; ID., Manifesti affissi nel territorio dell’VIII Armata a difesa dell’offensiva pacifista del nemico nell’ottobre 1918, in ID., Per la storia dell’VIII Armata, cit., pp. 80 ss., 147 ss., 150 ss. 73 ID., Propaganda nell’VIII Armata, in Fra storia e politica, cit., pp. 145-146. 74 Gioacchino Volpe ad Arrigo Volpe, 14 luglio 1918, CV.
214
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
un’Intesa, ma vi è un’Italia, come vi è una Francia e Inghilterra e America; sì vi è un fronte unico, ma vi son anche singoli fronti, moralmente oltre che militarmente individuati; sì, vi sarà una vittoria del blocco occidentale ed americano, ma vi dovrà essere anche una vittoria italiana. Le sue vittorie ogni popolo se le deve conquistare da sé. E solo se conquistate da sé fruttano. Nessuno può vincere per gli altri. Sono semplici verità, queste, ma su esse non si batterà mai abbastanza, specialmente agli orecchi di chi crede che le questioni particolari stiano veramente per annegare nel nuovo mare magnum delle questioni generali, europee, mondiali, di civiltà o giustizia astrattamente intese75.
Nella redazione degli opuscoli «Collegamento morale» e del foglio «Fatti e commenti», in quell’attività di «giornalismo di guerra», dunque doppiamente militante, Volpe scorgeva la più ampia possibilità di diffusione delle sue idee, in funzione di un programma di educazione permanente della classe media76. E dell’importanza di questo strumento pedagogico di massa lo storico era ben conscio, come testimoniava la pure ironica lettera inviata alla consorte il 26 ottobre 1918. Ti mando un pacco di carte. Ci sono dei libri per te e per Nanni, vi sono delle cartoline per la tua collezione, dei giornali illustrati per divertire i ragazzi, da conservare. […] Troverai anche altri fogli di roba stampata da noi: dei “Fatti e Commenti”, il primo numero ha riscosso consensi entusiastici. Ormai facciamo testo. Ieri il Corpo d’Armata di Milano ci ha chiesto 500 di quei “Fatti e Commenti”; giorni fa, altri chiese centinaia di “Intervento americano”. Ho trovato, come vedi, un giornale che è sempre aperto. Non paga, è vero, ma non c’è bisogno di pregarlo! Alcune cose vengono riprodotte anonime sui giornali del Veneto, che più vanno ai soldati. E così il mio verbo, che sarebbe veramente rivolto agli ufficiali, scende anche al minuto pubblico. A volte viene il dubbio di no. Oggi, è stata qui una processione di ufficiali di cavalleria accantonati in paese, dal generale in giù. Ma tutti chiedevano… cartoline illustrate. A loro scusa sia detto che non conoscevano il nostro lavoro e che sono… ufficiali di cavalleria, cioè senza troppi obblighi intellettuali77.
75 ID., Fiducia, certezza, ansia in «Fatti e commenti», 18 ottobre 1918, p. 2. 76 ID., Congedo, «Collegamento morale», n. 5, 24 novembre 1918, p. 5. L’articolo, fir-
mato dal generale Caviglia, era stato in realtà redatto da Volpe. Su di esso, si veda l’elogiativo commento di G. GENTILE, Il programma del ministro Caviglia, «Il nuovo Giornale», 23 gennaio 1919, ora in ID., Pagine di diario, appendice alla nuova edizione di Dopo la vittoria, a cura di H.A. Cavallera, Firenze, Le Lettere, 1989, pp. 180. Nell’articolo, Gentile parlava di «parole di alto patriottismo e di acuta percezione dei problemi morali e politici», che erano state indirizzate ai «giovani ufficiali dell’esercito vittorioso e prossimo a smobilitarsi», ma che erano in realtà rivolte a «tutta la giovane Italia, a tutta la nuova grande Italia rivelatasi in tutta la sua possente mirabile vigoria». Egualmente redatto da Volpe, ma firmato da Caviglia, era l’articolo, La Vittoria nel pensiero dei suoi artefici, «L’Idea Nazionale», 3 dicembre 1918, p. 1. 77 Gioacchino Volpe a Elisa Serpieri Volpe, 26 ottobre 1918, CV.
IL FILO DELLA SPADA
215
Sulla scarsa ricaduta di questa attività propagandistica, avrebbe insistito anche Giovanni Mira, dopo un incontro con il maestro degli anni milanesi, nelle retrovie del fronte78. Ma, in ogni caso, resta importante sottolineare come, anche in questo momento di attività intensa, vissuta a ridosso delle trincee, le ragioni dell’azione immediata e quelle del lavoro di storico riuscivano a saldarsi in un circolo virtuoso. Il 30 aprile, anche Volpe, come già precedentemente Prezzolini, riepilogava a Benedetto Croce il piano di lavoro dello Storiografico e forniva notizie della sua attività nel Servizio P, in una lunga corrispondenza, che costituiva, al tempo stesso, un’agenda del proprio futuro impegno di ricerca, che aveva trovato il suo principio ispiratore dall’esperienza della nazione in armi. Da quella lettera, balzavano già ben formate in idea le opere maggiori di Volpe (dal grande compendio di storia italiana, poi ridottosi al volume di Italia in cammino, a Ottobre 1917, alla storia del popolo italiano nella Grande Guerra), ma anche i progetti per un’analisi del passato, frutto della collaborazione di studiosi diversi, di diversa competenza disciplinare e di diverso orientamento ideologico, che si svilupperanno compiutamente negli anni ’20 e negli anni ’30, in un’ottica di apertura europea tanto più autentica quanto più radicata in un contesto nazionale e quanto più lontana avrebbe saputo mantenersi, occorre dirlo, dai fremiti nazionalistici, sciovinistici, imperialistici del loro ideatore. Sapete dell’Ufficio Storiografico e di quello che si propone, se non sarà travolto da un qualche colpo di vento, ora che ha le radici ancora a fior di terra. Ricordo anzi qualche vostro dubbio e qualche parola non certo incoraggiante. Dubbi ne ho avuti e ne ho anche io, di vario genere, riguardanti l’esecuzione e l’ideazione. Ma penso che tutto, in fondo, dipenderà dal trovare un manipolo di studiosi seri, un po’ affiatati spiritualmente, persuasi dell’utilità di conoscere e far conoscere bene, studiando la guerra e i precedenti ed i connessi e annessi suoi, l’Italia moderna, la quale, appunto in questo sforzo di guerra, si rivela in ogni sua parte, mette allo scoperto ciò che era nascosto, ci presenta vivo e frammentario ciò che noi sapevamo per sentito dire o per intuizione approssimativa, ci permette di intender meglio tutta la storia d’Italia del XX secolo. Se questo manipolo di studiosi si troverà, se da ognuno di essi uscirà fuori uno studio coscienzioso sopra taluni aspetti dell’Italia contemporanea (poiché nella guerra italiana c’è tutta l’Italia), noi non diremo di aver la storia della guerra, che deve essere opera unitariamente concepita e scritta, ma avremo dei 78 G. MIRA, Memorie, cit, p. 114: «Ai comandi di corpo d’armata e di divisione e altri che erano dislocati nella zona, il Volpe sostava per visitare i rispettivi uffici di propaganda e rendersi conto di come fossero adoperati i fogli e gli opuscoli che lui e i suoi collaboratori avevano preparati e distribuiti. Dovette purtroppo constatare che per lo più non si adoperavano affatto, in alcuni casi anzi si ignoravano».
216
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
saggi storici: e non saranno inutili per la coltura e la educazione nazionale nostra e per una miglior conoscenza dell’Italia fra gli stranieri. Non vi dirò qui tutto il piano del lavoro, come io lo concepirei. Vedo uno studio su Italia e Francia nell’ultimo cinquantennio (rapporti politici, rapporti di coltura, francofilia italiana, legami di partito, nostra accettazione di ideologie francesi, ecc., ecc.); altri di egual numero, su Germania e Italia, Inghilterra e Italia; su I problemi balcanici e adriatici dell’Italia nell’ultimo cinquantennio; su la Formazione e sviluppo della coscienza nazionale italiana nei paesi politicamente non italiani; su Il papato, la chiesa e il clero italiano di fronte alla guerra italiana; su La guerra e le maestranze operaie; su L’opinione pubblica dei paesi amici, neutrali, nemici su l’Italia durante la guerra; su Gli Italiani all’estero (gli emigranti) e la guerra nostra, ecc. ecc. E poi una ricostruzione degli avvenimenti ottobre-novembre 1917 (non come storia militare ma come crisi italiana, dell’esercito e del paese, come reazione dell’opinione italiana ecc.), una serie di profili o medaglioni degli uomini che meglio hanno rappresentato in questi tre anni l’Italia in guerra, che meglio hanno operato, che meglio incarnavano certe capacità nuove o riaffiorate ora del nostro popolo. Nessuno si illude di poter dar giudizio storicamente esatto in ogni sua parte su questi avvenimenti che ora ai nostri occhi si presentano più o meno grandi o più piccoli di quello che non sono in realtà, di quello, cioè, che non si presenteranno di qui a 10 o 20 o 50 anni, a svolgimento compiuto o avanzato. Ma intanto si raccoglieranno e si sistemeranno materiali storici (per quel tanto che le due operazioni del raccogliere e dell’elaborare sono distinte e possono farsi da distinte persone) e si darà una prima valutazione dei fatti: la quale per un verso sarà più imperfetta di quella che sarà data fra 50 anni, ma per un altro avrà certe condizioni di superiorità… A voi ora chiedo qualche consiglio su le persone. Chi vi sembra che possa essere capace (e più disposto ad accettare) di studiare ad es. Italia e Germania? Si tratta, come dicevo, di veder dentro i fatti della politica, dell’economia, della coltura; si tratta di veder chiaro e giudicar serenamente su fatti che in questi ultimi tre anni sono stati maledettamente strapazzati da gente d’ogni natura, non esclusi i professori universitari, tutti cascati dalle nuvole, tutti accortisi ad un tratto che “quella Germania che essi reputavano maestra ecc. ecc….”, tutti affrettatisi a battersi il petto davanti all’opinione pubblica anglo-latina. Egualmente Italia e Francia ecc. Penso anche fra me a chi potrebbe bene illustrare la coltura italiana durante la guerra (o il pensiero politico italiano durante la guerra, ecc.) o collaborare in medaglioni o magari raccogliere in uno i problemi del Mezzogiorno e la guerra. Io ho già assicurato qualche collaboratore; da altri aspetto risposta; man man bastano e poi spero sempre di trovarne migliori di quelli pensati da me. Per la coltura o pensiero politico, De Ruggiero? O Lombardo? O altri? Se anche ora fossero impegnati nella milizia, non sarebbe nulla. Lavorerebbero dopo. Anche io, adesso, do poco o nulla. Mi trovo in zona di guerra al comando della 5ª Armata, e passo di brigata in brigata: servo così l’Ufficio di propaganda e informazione, nel tempo stesso che raccolgo osservazioni e materiale di studio. Se lo Storiografico dovesse andar male, non dovrò rimproverarmi di aver inutilmente passato questi mesi, vuoi per la mia coltura vuoi per le necessità pratiche del
IL FILO DELLA SPADA
217
momento. Conosco, ad esempio, abbastanza bene le divisioni che ora sono andate in Francia. Non c’è battaglione presso il quale non mi sia trattenuto un giorno, conversando con gli ufficiali, parlando ai soldati, avvicinandomi ad essi negli accantonamenti, se si faranno, come spero, onore, oso rivendicar a me 1/999 parte del merito. Domani riparto per lassù. Conto di andare alla Vª e poi ad altre armate. Ho desiderio vivo di esser vicino ai combattenti nei giorni vicini del cimento. Gli studi, naturalmente, languono ora. Tuttavia nel corso del 1917, quando comandavo il distaccamento nelle solitudini di Castellazzo, ho disteso la materia di un volumetto della Biblioteca rossa dell’Università popolare milanese. E non è riuscito male: appena pubblicato, ve lo manderò. Ed ho anche schizzato un quadro succinto dello svolgimento storico del popolo e della nazione italiana nell’ultimo millennio. Lo avevo fatto per Vallardi e doveva già essere uscito ora; ma Vallardi si è fatto morto e il ms. è sempre qui: effetto della crisi della carta? Spero che i giovani vi troveranno quella linea di sviluppo che non trovano nei libri di testo. È tutto qui. Ho riletto qualche capitolo del vostro volume sulla storiografia. Io non sono filosofo, caro amico! E qualche volta stento a rendermi conto di taluni pensieri vostri attinenti alla mia disciplina. Ma nelle vostre pagine trovo sempre tanto succo e sostanza, tante vive suggestioni, tante vive verità che non mi rammarico troppo se qualche linea dell’insieme mi sfugge. Non so quali correzioni la vostra filosofia avrà subito fra 50 anni, come sistema. Ma non dubito che la vostra attività di scrittore, complessivamente presa, sarà per un pezzo nutrimento vitale per gli Italiani di questi ultimi venti anni79.
3. Dei programmi di lavoro contenuti in questa corrispondenza, Volpe ritornerà a parlare a Croce e Gentile, a proposito di uno studio sul pensiero politico «durante la guerra»80. Nel maggio del 1918, ancora in una lettera a Gentile, lo storico esponeva il piano di quello che sarebbe stato il volume sulla nazione italiana, dall’età di mezzo ai giorni odierni, poi pubblicato in versione ridotta, solo nel 1927. Giorni fa ho avuto occasione di leggere – mi capita così di rado – il tuo articolo su la Nuova Antologia. Bellissimo! Io tanto più mi son rallegrato di averlo letto in quanto vi ho trovato più di una rispondenza con cose da me pensate e scritte in un lavoretto che è in ordine già dall’estate del ’17 ed aspetta la stampa, quando verrà: si tratta di una veduta panoramica o, meglio, di un disegno molto alla buona di quello che può considerarsi il processo di formazione del popolo italiano, della sua unità morale ecc. A lavorarci altri tre o quattro anni – io ci ho lavorato 6 mesi, in parte mentre ero al comando di un distaccamento e la notte inframmezzavo letture con ispezioni alle guardie! – potreb-
79 Gioacchino Volpe a Benedetto Croce, 30 aprile 1918, ABC. Il riferimento è al volume di B. CROCE, Filosofia dello spirito. IV. Teoria e storia della storiografia, Bari, Laterza, 1917. 80 Si vedano la lettera a Gentile del settembre 1921 (AFG), e quelle a Benedetto Croce del 16 ottobre 1921, 15 novembre 1921, 16 marzo 1922 (ABC).
218
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
be mutare il suo titolo e diventare una Storia d’Italia; quella storia che, contenuta in un volume di tre o quattrocento pagine, sarebbe, credo, ottima cosa fornire al popolo italiano. Lo farò? Chi lo sa. Sarebbe nei miei desideri, se non proprio nei progetti. […] E poi e poi… avrei altri disegni di lavoro. Ma roba sospesa per aria, ora come ora. Ne riparleremo in tempo di pace, se questa sarà tale da incoraggiarci. Per adesso i tempi sono gravi ed io cerco di far altro. Ho visto ieri e rivedrò domani Casati: ormai mi sembra che non abbia fatto mai altro che il tenente colonnello81!
Da Alessandro Casati, infatti, a Giuseppe Lombardo Radice, a Fortunato Pintor, a Soffici, tutti gli intellettuali della «nuova Italia», legati da sentimenti di amicizia che l’urgenza del momento avrebbe cementato ulteriormente82, erano attivamente impegnati nello sforzo bellico. Impegno, che non contrastava con l’attività pubblicistica di Volpe, la quale continuava sul quotidiano «La Sera», che poi si sarebbe collocato, per le sue posizioni sempre più radicali, politicamente vicino al movimento dei Fasci d’azione rivoluzionaria83. Su quel giornale, il 30 ottobre 1917, nella tragica temperie dell’immediato dopo Caporetto, era comparso l’articolo, Grande onore e grande onere, dedicato all’analisi delle conseguenze politiche e militari dell’intervento tedesco sul fronte italiano. Un evento, questo, che trasformava la guerra «patriottica» contro l’Austria-Ungheria in guerra europea, in conflitto totale, nel quale l’Italia rischiava di soccombere non solo sul piano militare, in caso di vit-
81 Gioacchino Volpe a Giovanni Gentile, 30 maggio 1918, cit. L’articolo di Gentile ricordato è La profezia di Dante, in «Nuova Antologia», 279, 1 maggio 1918, pp. 3 ss. Per la genesi dell’opera a cui si fa riferimento, si veda G. VOLPE, Prefazione a Il Medio Evo, Firenze, Vallecchi, 1927, p. I: «Questo volume, iniziato nel 1917 in certe mie notti insonni, fra un giro d’ispezione e l’altro attraverso il dedalo delle sentinelle vigilanti (e spesso dormienti) sopra le officine di guerra di Castellazzo di Bollate, venne alla luce quattro o cinque anni addietro come smilzo “volumetto della Biblioteca Rossa” di Milano (rossa, giusto per intenderci, dal colore della sua copertina)». Era del 1921, infatti, l’edizione della prima stesura dell’opera, con il titolo di Il Medio Evo nel primo millennio D. C., Milano, Biblioteca di cultura popolare pubblicata dalla Biblioteca della Università Popolare Milanese e della Federazione Italiana delle Biblioteche Popolari. 82 Fortunato Pintor a Gioacchino Volpe, 30 ottobre 1919, FV: «Nella dedica del caro volume, Per la storia della VIII Armata, mi scrivesti: “ricordando gli ultimi d’ottobre 1917”. Abbiamo veramente in comune grandi ricordi (ed io in particolare ne ho qualcuno, della tua dimestichezza verso di me, in certe visite che mi facesti: l’ultima a Castagnole, presso Treviso, il 25 e il 26 d’ottobre, prima del gran “varco”). Sono tanti ricordi che commuovono profondamente a richiamarli». Si veda anche, Ardengo Soffici a Gioacchino Volpe, 29 maggio 1949, ivi: «Ti ringrazio del tuo ricordo, assicurandoti che anche io nutro per te gli stessi sentimenti e conservo il ricordo non solo di Castiglione dello Stiviere, ma anche di quella notte di battaglia sul Piave dove io, ufficiale di collegamento della Quinta Armata, venuto a prendere notizie circa l’esito dell’azione, ti trovai addetto al Comando di Caviglia». 83 R. DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., p. 340.
IL FILO DELLA SPADA
219
toria delle armi tedesche, ma anche su quello diplomatico, nel momento in cui il Reich guglielmino, contenuto o battuto sul versante occidentale, avrebbe potuto rivalersi di quelle sconfitte, tramite un accordo diplomatico con Francia e Inghilterra, che potevano consentirgli un’espansione meridionale e mediterranea lesiva della sopravvivenza stessa della nazione italiana. In questo modo, la piccola guerra, che proseguiva il moto ideale del Risorgimento contro il tradizionale nemico, si trasformava nel conflitto assoluto che impegnava nazioni e continenti. La piccola politica estera delle «mani nette» e delle minime avventure africane, ristrette allo scarso spazio del cortile di casa, diveniva non per nostra scelta, ma per quella di avversari e alleati, geopolitica dei grandi spazi. Tutti sanno che gli obiettivi territoriali, per cui noi combattiamo, sono uno dei punti vitali e più gelosamente guardati non solo dall’Austria che li possiede, ma anche dalla Germania che li appetisce o meglio li pone nel quadro della più grande Germania di un avvenire non lontano, li considera una delle sue grandi porte, forse la più importante, sul libero mare, la via maestra verso il Levante. Tradizioni marittime triestine, ben orientate verso i paesi della Turchia asiatica e aspirazioni imperialistiche tedesche combaciano perfettamente. Danubio, penisola balcanica con suo centro a Salonicco, Adriatico sono, per la Germania della ferrovia di Bagdad, un grande territorio che costituisce politicamente unità. Per due anni, la Germania si è contentata di osservare da lontano il duello italo-austriaco. Bastava l’Austria a fronteggiare il comune avversario. E il governo di Berlino poteva trovar opportuno non mettersi proprio allo scoperto contro il popolo italiano, in vista del giorno, chi sa!, di un paese meno irriducibilmente nemico da servir come porta d’ingresso per rientrare nel mondo. Ma si intende che la Germania sarebbe stata materialmente assente, o quasi, solo fino al momento in cui le forze dell’Austria bastassero alla difesa del Carso, cioè di Trieste e Pola, cioè l’Adriatico. Ora che l’Austria vacilla, la Germania interviene. Ed interviene non per dovere di alleata, ma per la difesa di una sua posizione, di una sua ambizione, di una necessità del suo imperialismo europeo e orientale. Noi quindi abbiamo di fronte, in questo momento, non più l’Austria, aiutata dai tedeschi, ma la Germania che costruisce a spese dei popoli mediterranei il suo avvenire. E non dubitiamo neppure che essa non sia per impegnarsi fino a fondo in questa sua impresa meridionale; che essa non vi si dedicherà con quante forze ha disponibili; che non le ritirerà da tutti i fronti pur di poter alimentare la guerra quaggiù, anche dal fronte franco-inglese se necessario. L’ultimo uomo e l’ultimo marco, che non siano necessari per difendere i centri vitalissimi dell’Impero, possiamo esser quasi sicuri che essa li impiegherà per conservare all’Austria, cioè a se stessa, Trieste e l’Adriatico. Se non potrà tener testa ai nemici da tutte le parti, arretrerà, come sta facendo, dal fronte russo; arretrerà dalla province francesi invase, sgombrerà il Belgio; abbandonerà al suo destino l’Alsazia e la Lorena o una parte di esse; ma non arretrerà, salvo quando venisse a mancar il calore della vita nel gran corpo ed esso si raccogliesse tutto nel cuore, dal fronte sud che l’Austria da sola non può più tenere. È molto verosimile – anche se le dicerie relative non circolassero da un pez-
220
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
zo per l’Europa –; è molto verosimile che domani la Germania entrerà in trattative con l’Inghilterra per il Belgio e con la Francia per le province invase; verosimile anche che sarebbe disposta a qualche transazione per l’Alsazia-Lorena; ma non entrerà mai in trattative con noi e con l’Intesa per i territori italiani della monarchia austro-ungarica; non certamente per Trieste e l’Istria, neppure forse per Trento che è un grande punto strategico ed è anche una grande tradizione imperiale germanica non mai scomparsa del tutto e combaciante ora col più moderno imperialismo della Germania industriale e militare84.
Accanto allo spettro dell’imperialismo teutonico, affiorava precocemente in questa pagina anche il tema di una possibile «vittoria mutilata» al tavolo delle trattative di pace, che già largamente circolava negli ambienti politici e militari italiani85. Ma ritornava, più forte, la messa in guardia contro il pericolo di una «Grande Germania» non più ristretta al centro del continente, ma tale da divenire nella sua dinamica espansionistica la protagonista del «gran cozzo» di due stirpi in ascesa, tedeschi e slavi, che Volpe aveva già considerato con preoccupazione, ben prima dell’inizio della guerra, come fattori di dissoluzione della nazione italiana e della sua funzione di antemurale dell’occidente europeo. Con ciò il compito dell’Italia, la responsabilità dell’Italia, cresce e s’aggrava. La storia forse assegna a noi quello che un giorno assegnò alla Francia di Carlo Martello, che salvò l’Europa dagli arabi; quello che assegnò alla Polonia di Sobiescky che la salvò dai turchi. Grande onore, ma anche grande onere. Bisogna essere disposti a tutto. Bisogna andare incontro con l’animo risoluto a tutti i sacrifici. Affrontarli oggi potrà voler dire risparmiarli domani o, meglio, impedire che si crei in Europa e nell’Italia nord-orientale una situazione che domani neppur con i sacrifici di oggi potremo più modificare. Perché è bene persuadersi di questo: ciò che oggi si edifica nella storia d’Europa avrà la durezza e la resistenza del granito, sia conforme o contrario a quel che è o noi riteniamo giustizia, diritto ecc. ecc. La conseguenza della guerra e della vittoria avranno un’ampiezza ed una ripercussione nel tempo proporzionale all’immane sforzo sostenuto per combatterla o per vincerla. Senza contare che oggi nazioni e governi hanno ben altri mezzi che una volta per consolidare una situazione creata dalla guerra, per far scomparire le tracce delle situazioni precedenti, per render difficile così ogni restante reazione, anzi per distruggere quasi ogni titolo di diritto antico. Un grande Impero delle genti germaniche che si protendesse fino all’Adriatico, attraverso la barriera alpina, e gravitasse verso il sud, con i suoi commerci, le sue ferrovie, la sua navigazione, la sua espansione demografica, sarebbe cosa che nessuna coalizione europea potrebbe distruggere. La coalizione europea ha solo la possibilità di impedire che ora si costituisca. Che tutti
84 G. VOLPE, Grande onore e grande onere, «La Sera», 30 ottobre 1917, p. 1. 85 P. MELOGRANI, Storia politica della Grande Guerra, cit., pp. 451 ss.
IL FILO DELLA SPADA
221
compiano la loro parte nel lavoro comune. E la compiano specialmente gli italiani, il cui avvenire è in ginocchio più che non quello degli inglesi o dei francesi o dei russi. Solo i ciechi oggi possono non vedere quel che prima per molti era una affermazione di carico interventista: noi oggi combattiamo non per un pezzo di terra ma per la nostra esistenza. Si tratta per noi, come per i nostri padri, di essere o non essere come nazione autonoma: di rimanere vivi e liberi al posto che la storia ci ha assegnato, oppure di avvizzire all’ombra della grande Germania e scomparire assorbiti da essa86.
Anche nell’editoriale immediatamente successivo, Volpe insisteva sul possibile, futuro assetto internazionale, successivo alla fine del conflitto, lasciando, questa volta, trapelare nuovamente il suo scetticismo nei confronti di un’alleanza, che avrebbe potuto incrinarsi, a guerra ultimata, consentendo all’Austria di mantenere gran parte dei suoi domini meridionali, in funzione dichiaratamente anti-italiana. Di qui la necessità di uno sforzo bellico, che doveva avere per obiettivo non il ridimensionamento ma la distruzione del sistema imperiale austriaco. Di uno sforzo, che l’Italia doveva compiere in larga autonomia, senza attendere e senza nemmeno augurarsi un intervento risolutivo di alleati, incerti e molto ben disposti, ancora tra primavera ed estate del 1917, alla firma di una pace separata con l’Austria, anche a costo di sacrificare gli obiettivi italiani della guerra e forse addirittura la sua stessa integrità territoriale87. Sarà più grande il merito nostro se l’Austria sarà insieme con la Germania vinta: ma sarà più grande il nostro danno se l’Austria e la Germania vinceranno. E per quel che riguarda l’Austria, essa vincerà solo che riesca a fare partita patta. Bisogna persuaderci noi italiani che o l’Austria sarà ridotta al suo nucleo centrale tedesco-magiaro: o se no, essa, sanate come gli altri le sue ferite, si sentirà e sarà più solida di prima. Le forze che avranno resistito fino all’ultimo e salvato l’Impero dalla catastrofe: cioè la monarchia, l’esercito e i funzionari, si troveranno ad avere un rinfrescato orgoglio, una più alta coscienza di sé, tanto maggiore quanto maggiore il pericolo corso. E saranno energia, orgoglio, coscienza non fondati solo su la forza materiale. Avranno a sostegno una idea: l’idea della legittimità ed intrinseca bontà dello Stato plurinazionale. […] In questo caso, l’Austria forse potrebbe ripetere, con più audacia, che il mutamen-
86 G. VOLPE, Grande onore e grande onere, cit. 87 Sull’austrofilia di Francia e Inghilterra, disposte ad accogliere la proposta di pace che
il gabinetto di Vienna aveva inoltrato, il 5 marzo 1917, attraverso il principe Sisto di Borbone, si veda, L. ALBERTINI, Venti anni di vita politica. II. Dalla dichiarazione di guerra alla vigilia di Caporetto, maggio 1915-ottobre 1917, Bologna. Zanichelli, 1952, pp. 546 ss.; A. GATTI, Caporetto, cit., pp. 58 ss., alla data del 6 giugno 1917. Sul punto concordava anche Leonida Bissolati, in un articolo del febbraio 1920, citato in I. BONOMI, Leonida Bissolati, cit., pp. 201-202. Sulle trattative per un pace separata con l’Austria, L. VALIANI, La dissoluzione dell’Austria-Ungheria, Milano, Il Saggiatore, 1966, pp. 350 ss. e 451 ss.
222
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
to della carta politica europea dal 1859 al 1866 non è definitivo e che essa allora fu vittima di una sopraffazione, dovè cedere ad una ventata di effimere ideologie della cui debolezza darebbe testimonianza la presente guerra, non provocata ma certo alimentata e colorita da esse. E chi sa: poco poco che l’Austria mettesse un piccolo fosso tra sé e la Germania potrebbe riguadagnare le vecchie simpatie dell’Europa, ora appena e non da per tutto coperte da un leggero strato di cenere calda. E chi sa ancora noi ci troveremo dinnanzi al bivio antico in presenza dell’Austria: o alleati o nemici88.
Soprattutto nella tragica congiuntura provocata dall’«autunno nero» del 1917, l’Italia doveva ancora una volta «fare da sé», come Volpe sottolineava in un nuovo articolo redatto alla vigilia del luttuoso Natale di guerra di quello stesso anno, nel quale si invitava a considerare la poderosa violenza dell’offensiva nemica come la conferma postuma e definitiva del carattere necessario e ineluttabile dell’intervento italiano nel conflitto attuale. Un così grande e vario e meditato sforzo nemico, in vista di risultati non contingenti o transitori per colpirci e demolirci, vuol dire che la guerra fra noi ed essi era implicita e sottintesa anche durante la neutralità: vuol dire che essa non è stata un’avventura da noi leggermente cercata e facilmente inevitabile, quasi perché fuori dalla natura delle cose, ma la manifestazione di un fatto organico, malamente dissimulabile entro le pieghe della vita europea. Noi non abbiamo fatto se non scegliere il momento migliore, e prendere l’iniziativa per non doverla subire. Noi non abbiamo di un amico fatto un nemico, ma prevenuto il nemico. Noi potevamo starcene fermi, ed esso ci avrebbe in qualche momento cercato. O forse no! Potevamo evitarlo: ma rinunciando a tutto, consentendo a tutto, assentandoci, dichiarandoci vinti prima di combattere e senza combattere. Facendo astrazione dai modi particolari con cui la guerra si è svolta e guardando solo al suo nocciolo, noi avremmo potuto più facilmente concepir neutrale la Francia che non l’Italia – un’Italia che voglia essere viva naturalmente! – il paese che, insieme con la Russia e l’Inghilterra, era più in mezzo ai problemi centrali della presente guerra89.
Ma la necessità vitale di uscire vincitori sul campo doveva provocare, pena la «morte della patria», uno sforzo di mobilitazione nel paese, sul fronte militare come su quello interno, e, nel governo, una funzione di guida, di stimolo, di indirizzo, che, allo stato delle cose, ancora non appariva adeguata alla gravità dell’ora. I punti oscuri della nostra situazione presente sono molti. Ma il più oscu-
88 G. VOLPE, Con l’Italia e contro l’Austria, «La Sera», 4 novembre 1917, p. 3. 89 ID., Le due offensive, ivi, 20 dicembre 1917, p. 1.
IL FILO DELLA SPADA
223
ro è, per ormai generale consenso, lassù, dove seggono il timoniere e i vari timonieri del paese in guerra. Più i giorni volgono e si aggravano e più noi dubitiamo che del potere loro conferito facciano un uso adeguato alle necessità della guerra. Anche certi loro recenti discorsi parigini e romani, vuoti, scialbi, senza nessuna eco degli eventi gravi che il paese ha vissuto, senza segni rivelatori di una personalità, senza propositi, senza idee direttive che abituino anche la nazione ad orientarsi; certe recenti interviste, in cui l’Italia era presentata umile e contrita, nell’atto di stendere le mani supplici agli alleati, dimentica di quanto pur ieri proclamava suo diritto; questi discorsi e queste interviste hanno malamente inaugurato l’ultima e più terribile fase della guerra italiana. Bisogna che le azioni valgano più delle parole. E fra esse, questa si impone, sopra tutte, ora: incoraggiare, guidare, illuminare le forze di resistenza che nel paese ci sono; tener testa alle forze interne di dissoluzione su cui il nemico ha fatto assegnamento. Noi non vogliamo essere semplicisti. Sappiamo che talune di queste forze di dissoluzione sono impersonali, impalpabili, diffuse: si chiamano la “storia d’Italia”. Ma altre ve ne sono sufficientemente individualizzabili. E il governo le conosce, le ha vicino e le può, comunque, dominare. Deve dominarle90.
Era un nuovo atto d’accusa contro i difetti di un sistema parlamentare e di una classe politica discutidora, poco incline ad assicurare una gestione «autoritaria» dello stato di emergenza e quindi incapace di assicurare quella salda catena di comando all’interno del paese, che la nuova dimensione della guerra, come «attività totalitaria»91, rendeva indispensabile, frantumando la tradizionale separazione tra fronte civile e fronte militare92. Un atto di accusa che Volpe avrebbe riprodotto e amplificato, all’interno di Ottobre 1917, che alla sua comparsa, nel 1930, suscitava la risentita reazione del massimo responsabile del governo di guerra, Paolo Boselli. Questi inviava a Volpe, una circostanziata analisi del volume, che esprimeva il suo dissenso sulle osservazioni relative alla mancata capacità del governo di rafforzare la tempra morale del paese, già a partire dalla primavera-estate del 191793. Ma le obiezio-
90 Ibidem. 91 G. VOLPE, Ottobre 1917, cit., p. 55. 92 Sul carattere del primo conflitto mondiale, come «guerra totale», nella prospettiva
delle varie nazioni impegnate nello scontro, si vedano: R. CHICKERING, Imperial Germany and the Great War, 1914-1918, Cambridge, Cambridge University Press, 2004; S. ADOUINROUZEAU-A. BECKER-L. V. SMITH, France and the Great War, Cambridge, Cambridge University Press, 2004; M. HEALY, Vienna ad the Fall of the Habsburg Empire. Total War and Every Life in World War, Cambridge, Cambridge University Press, 2004. 93 Paolo Boselli a Gioacchino Volpe, 1 marzo 1930, FV: «L’accusa è grave. Tocca la moralità. Chi si strinse nelle spalle? Per un fatto simile non provato con serietà di precisione, io ho ragione di dolermi». Dove il rimando è a G. VOLPE, Ottobre 1917, cit., pp. 54-55: «Ma, in un paese di scarsa compattezza morale come il nostro, tutte le cause di debolezza agivano con più vigore che altrove. Molte voci si levarono ad invocare austerità di vita. Vi furo-
224
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
ni di Boselli si soffermavano soprattutto sul passo di Volpe, dove si criticava l’operato del suo ministero, nei giorni immediatamente successivi il disastro militare, il quale «ormai non si reggeva più, corroso dai dissidi interni, dalla sfiducia del Comando Supremo, dalla stessa sua incertezza di direttive, portato come era dal suo patriottismo a dare ragione ai gruppi interventisti reclamanti una politica di guerra, e dal suo liberalismo a dar ragione a chi gridava alto i diritti del parlamento e dei partiti»94. A quelle accuse, Boselli rispondeva dettagliatamente in un lungo paragrafo della sua lettera, dove si insisteva sul carattere ancora tutto «parlamentare» della gestione del conflitto. Qui la parola non solo eccede, ma di certo non rappresenta il pensiero. Si può dar giudizio di mancata repressione, ma che siasi data ragione a chi “alto” gridava, non fu mai detto perché troppo diversa è la verità. Ella non ebbe tempo a vedere i miei discorsi nel Parlamento e nel Paese. Di certo non fu grido che siasi passato senza energica condanna. Mai si fu indulgenti o pieghevoli verso le affermazioni, i voti, le pretensioni dei nemici della Patria. Mancò l’animo della guerra… Ma si contarono i milioni, si crearono tutti gli strumenti di guerra, in fretta, largamente. Si eccitò il Paese tanto che se ne rifece in gran parte il sentimento. Un Dittatore, non Guerriero, a che avrebbe giovato? E l’Italia nel ’17 era costituita nelle libertà. E la forza era al campo. Il “Caporetto” attribuito alla condizione interna del Paese, fu uno di quelli alibi che Cadorna avea costume di inventare nel suo orgoglio egoistico. Caporetto fu un errore militare tecnicamente e moralmente. Non si previde ciò che era prevedibile. Il morale dell’esercito, capi e soldati, fu alterato, confuso, stancato, guasto al campo. In somma, il Ministero ch’io ho presieduto evitò i conflitti interni che avvennero in altri paesi. Guardate quale fu il paese dopo Caporetto. Se avessimo inasprite le irose contese fino alla guerra civile, si sarebbe serbata quell’Italia che vinse?95
Sulle «debolezze della vita italiana», impari a misurarsi con le esigenze di un nuovo secolo ferreo, Volpe sarebbe ritornato in un articolo del gennaio 1918, dedicato a stigmatizzare «gli sforzi pacifisti della Curia, così rispondenti alle necessità degli Imperi centrali, così ben inquadrati nei loro sforzi di pace, così sfruttati se non anche sollecitati da loro»96. Debolezze, che anche il fronte democratico-interventista stigno interpellanze al governo nel luglio; misure disciplinari in taluni stabilimenti dello Stato, a carico del personale femminile; una lettera dell’Episcopato lombardo a Boselli, perché provvedesse contro la stampa immorale, gli spettacoli pubblici, ecc. Generalmente, il Governo si stringeva nelle spalle: “c’è poco da fare!”. E adduceva anche i bisogni del fisco, che non poteva rinunciare a notevoli cespiti d’entrata, anche se dati dal vizio». 94 Ivi, pp. 89-90. 95 Paolo Boselli a Gioacchino Volpe, 1 marzo 1930, cit. 96 G. VOLPE, Debolezze della vita italiana, «La Sera», 17 gennaio 1918, p. 1. La polemica contro il neutralismo cattolico sarebbe continuata in ID., Ottobre 1917, cit., pp. 44 ss.
IL FILO DELLA SPADA
225
matizzava97, ma che a Volpe apparivano inconcepibili in una nazione che non solo doveva vincere la guerra ma prepararsi anche ad affrontare le difficili sfide del dopoguerra. La finis Austriae, che ormai appariva imminente dai tanti sintomi di dissoluzione dell’antica compagine interetnica e sopranazionale, poteva ancora essere scongiurata o rimandata in virtù degli sforzi del governo di Vienna per una pace separata, «senza indennità e senza annessioni», e grazie alle «persistenti simpatie americane ed europee per la veneranda monarchia degli Asburgo», al malinteso «ottimismo di molti circoli politici neutrali e intesisti sull’avvenire di un’Austria federale e liberale», all’azione sotterranea delle «influenze bancarie e di quelle clericali»98. Ma anche evitato questo rischio, la scomparsa di quel sistema politico millenario dalla carta geografica del continente non poteva costituire il solo guadagno della competizione bellica, assicurando la libera espansione delle nazionalità e delle dinamiche democratiche nell’Europa orientale, così come aveva auspicato, con ingenuo ottimismo, Salvemini, a nome del fronte democratico nel 191599. La realtà, insisteva Volpe, era ben diversa dal sogno di questa diplomazia democratica. Per molti è formula nuova della guerra questo delenda Austria, la accettino o no. Ma è idea vecchia per altri, vecchia quanto la guerra, implicita anzi nella guerra stessa dell’Europa e, più dell’Italia, per i noti fini di difesa anti-germanica e di rivendicazioni nazionali. E veramente riusciva difficile credere che si potesse colpire la Germania durevolmente e costruire qualcosa di non effimero nel cuore dell’Europa, senza accompagnare o trasformare ab imis l’AustriaUngheria. Difficile fare buon viso, come l’Intesa ha fatto, ai vari irredentismi austriaci, prendere in considerazione i vari problemi nazionali dell’Austria-Ungheria, in attesa di risolverli secondo principi diversi e opposti a quelli su cui l’Austria si regge, senza dare origine ad un problema nuovo e diverso, non somma, ma sintesi, se pure non enunciata: il problema dell’Austria-Ungheria e dell’assetto politico della regione danubiano-carpatica100.
Il collasso dell’Impero asburgico, che non avrebbe certamente determinato la fine delle competizioni internazionali con un’«immancabile reazione pacifista», come sempre Salvemini ipotizzava101, poteva in-
97 A. CRESPI, Le illusioni dei pacifisti, «L’Unità», 20 marzo 1918, in L’Unità di Gaetano Salvemini, cit., pp. 425 ss. 98 G. VOLPE, Il quarto d’ora dell’Austria, «La Sera», 16 febbraio 1918, p. 1. 99 G. SALVEMINI, Finis Austriae, «L’Unità», 12 marzo 1915, in ID., Opere complete. III. 1. Come siamo andati in Libia, cit., pp. 491 ss. 100 G. VOLPE, Il quarto d’ora dell’Austria, cit. 101 G. SALVEMINI, La guerra per la pace, «L’Unità», 28 agosto 1914, ivi, pp. 359 ss.; ID. Le garanzie della futura pace, «L’Unità», 28 maggio 1915, ivi, pp. 525 ss.
226
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
vece fare dell’Italia l’attore privilegiato di un riassetto complessivo dello scenario internazionale, nel quale antichi equilibri di potenza sarebbero scomparsi solo per esserne sostituiti da nuovi, in funzione dell’avanzata di nuovi popoli che si affacciavano, per la prima volta o con rigoglioso vigore, alla ribalta della storia. Tra questi, i romeni, i cecoslovacchi, i boemi, i polacchi e soprattutto le popolazioni slave meridionali. Nei confronti di queste ultime, l’opinione pubblica italiana, della quale si faceva portavoce autorevole il «Corriere della Sera»102, si sforzava di cogliere una «concordanza di interessi» e «una facilità d’intesa», con un eccessivo e colpevole ottimismo, davvero smemorato nei confronti di quella che era stata la sfida secolare della Slavisierung sul nostro confine nord-orientale. Visione ottimistica delle cose, dunque, in taluni addirittura rosea. Un ottimismo così fatto è certamente eccessivo. Comunque esso poggia più sopra certe presunzioni, sulla fede nella mirabil virtù di taluni “immortali principi”, su effettive necessità e convenienze dell’immediato presente che non sopra esperienze già fatte o sentimenti un poco già consolidati. Tuttavia l’ottimismo è sempre buon viatico a chi si mette in cammino, se esso non è disinvoltura e facilismo, se esso ha il senso di certi suoi propri limiti. Aiuta a vincere gli ostacoli che sempre si presentano lungo la via. Quali per noi gli ostacoli? Non sono insuperabili, ma pure bisogna rendersene conto103.
Su questa esigenza di realismo verso i rischi di una possibile «minaccia slava», che aveva costituito uno dei punti qualificanti del programma liberal-nazionale104, Volpe tornava a insistere, e questa volta senza eufemismi, alla fine di febbraio del 1918, in un articolo, che intendeva porre le basi della discussione per la risoluzione dei futuri rapporti italo-slavi, rintracciando nel passato prossimo e remoto gli elementi di scontro e di incontro tra i due popoli. Maggiori i primi dei secondi, soprattutto, a partire dalla metà del XIX secolo, quando l’Austria aveva utilizzato quell’etnia in funzione dichiaratamente anti-italiana, all’interno del complesso gioco del «divide et impera» che costituiva uno dei punti di forza della politica imperiale. Lungo il margine occidentale e adriatico, gli slavi del sud si urtavano con l’Italia: essi, numero e impulso un po’ istintivo, come di genti primitive, marcianti nella direzione del sole e degli astri; noi cultura e storia. Essi, spirito ag102 L. ALBERTINI, Venti anni di vita politica. II, cit., pp. 532 ss. 103 G. VOLPE, Italiani e slavi austriaci contro l’Austria, «La Sera», 21 febbraio 1918,
p. 1.
104 La minaccia slava e il dovere italiano, in «L’Azione», 2 agosto 1914, p. 2: «Nella guerra europea il segno alle nostre armi sarebbe ad oriente, e non a occidente».
IL FILO DELLA SPADA
227
gressivo, noi istinto e sforzo di conservazione. Da una parte, l’appoggio aperto degli organi di uno Stato per il quale contrapporre nazionalità a nazionalità è sistema e forse condizione di vita; dall’altra, quasi solamente le proprie forze, alimentate tuttavia dal senso di un diritto e di un dovere a conservar posizioni ricevute dai padri, dalla coscienza di derivare da Roma i propri istituti cittadini e di essere stati parte del gran moto municipale italiano nel Medio Evo, dal ricordo di un secolare legame strettissimo con la più gloriosa di queste repubbliche, Venezia, e pel suo tramite con l’Italia105.
Dopo la fine del conflitto, ultimato l’Italia il proprio processo di unificazione e di consolidamento nazionale, e iniziato questo stesso processo le popolazioni slave, tale strisciante conflittualità, che a tratti ricordava il bellum perenne tra barbarie e civiltà, poteva e doveva certamente cessare, con mutua soddisfazione delle due parti. Anche altri popoli, infatti, avevano diritto al loro «Risorgimento», alla piena soddisfazione di loro interessi e obiettivi di lunga data. Ma non con la rinuncia, da parte dell’Italia, a una sua naturale espansione verso Oriente, non soprattutto al costo del sacrificio delle sue esigenze di sicurezza in un continente, che la guerra avrebbe lasciato fortemente destabilizzato, in preda a vecchi e nuovi egoismi nazionali, ad antichi e recenti sentimenti di rivalsa, e forse a moti di sopraffazione reciproca e di reciproco annientamento. Noi Italiani siamo disposti a inquadrare le nostre particolari questioni entro le più vaste e generali questioni; disposti a veder accanto a problemi vitali della nazione italiana, problemi vitali di altre nazioni che si affacciano ora alla storia: ma non a subordinare le prime alle seconde. Qui ci si può parare di un diritto nostro a non metterle e non vederle messe tutte sullo stesso piano in nome di una astratta giustizia. Specificare qui è utile. Gli Italiani intendono ed intendono gli jugo-slavi. Sono disposti essi ad ammettere come legittima questa nostra esigenza? La base di ogni discussione e di ogni intesa è qui, anche se in questo momento una bell’aria di rinuncia tira per il nostro paese, e si giudicano con serena indulgenza le manifestazioni del giovane e promettente nazionalismo jugo-slavo, riserbando tutti gli strali per colpire il nazionalismo italiano, nutrito di midolla prussiana. Questi tre anni di guerra – a non parlare che di essi – non ci lasciano ricordi molto buoni. Quasi tutti i capi del movimento jugoslavo si sono profusi in una dura propaganda italofoba per le capitali dell’Intesa e dei paesi neutrali, hanno suscitato antipatie e sospetti contro di noi, si sono affiatati con quei circoli politici che erano assai meglio disposti verso l’Au-
105 G. VOLPE, Gli slavi dell’Austria contro l’Austria, «La Sera», 28 febbraio 1918. Sulla slavizzazione del litorale orientale adriatico, promossa dall’Austria, Volpe sarebbe tornato a più riprese nelle sue opere. Si veda, ID., L’Italia in cammino, cit., pp. 105 ss.; ID., Italia Moderna, cit., III, pp. 114 ss. e 145 ss.
228
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
stria che verso l’Italia. Certo qualcosa è mutato nel loro atteggiamento. Ma nei rapporti nostri finora è cambiato più il suono che la sostanza delle parole. La lettera dell’on. Trumbic!, al Secolo di giorni addietro aveva accenni fraterni. Ma davanti agli occhi dello scrittore era solamente la sua Slavia del sud. A proposito della Dalmazia, per esempio, “chi consiglia l’Italia a cercar misure di sicurezza strategica contro di noi jugoslavi, piccolo popolo non ancora costituito, fa l’interesse non dell’Italia, ma della sua grande nemica”. Non contro gli jugoslavi, on. Trumbic!, ma per l’Italia. L’avvenire è nella mani di Dio, e neppure dopo questa guerra le spade saranno convertite in aratri!106.
Ancora una volta, a guerra ormai quasi terminata, ma senza ancora una vittoria decisiva delle armi italiane, ombre minacciose si addensavano sull’antico limes dell’est, come Volpe tornava a ripetere, fino al dicembre del 1918, in altri interventi giornalistici107. Ed erano minacce provenienti da alleati malcerti, da antichi e nuovi antagonisti, come avrebbe dimostrato l’andamento del Congresso dei popoli soggetti all’Austria-Ungheria, svoltosi a Roma nella seconda settimana di aprile e conclusosi con un nulla di fatto proprio per quello che riguardava un possibile accordo tra i rappresentanti italiani e la delegazione guidata dal leader nazionalista slavo Ante Trumbic!, a proposito del futuro possesso di Istria e Dalmazia108. Erano sintomi premonitori di un «nuovo 1866»109, e peggio avvisaglie di una sconfitta diplomatica, contro la quale il fronte interno pareva incapace di reagire, come Volpe avrebbe comunicato alla moglie nella lettera della fine di agosto. Ora spero di assistere da vicino al periodo conclusivo della guerra. Il quale sembrerebbe, a lume di naso, piuttosto vicino, almeno relativamente, per esempio non più di un anno dal tempo presente. È difficile poi credere che l’estate finisca senza che vi sia nulla sul nostro fronte. Si è col cuore sospeso! Da una parte si pensa che l’ultima fase della guerra avrà una violenza estrema anche da noi, anzi io credo specialmente da noi; dall’altra, si è incalzati dal desiderio di far presto. Che cosa accadrebbe se la guerra mondiale dovesse risolversi sul fronte francese, senza che noi riuscissimo ad oltrepassare il Piave? Rifiuto anche solo di pensare che si debba ripetere il 1866, non dico la sconfitta, ma l’acquisto del Veneto per l’effetto della vittoria altrui, e di trattative diplomati-
106 ID., Gli slavi dell’Austria contro l’Austria, cit. 107 ID., Quadretti di maniera. L’Italia prepotente e l’Italia saggia, «La Sera», 14 dicem-
bre 1918, p. 1; ID., Duello mortale, ivi, 31 dicembre 1918, p. 1. 108 I. BONOMI, Leonida Bissolati, cit., pp. 206-207; L. VALIANI, La dissoluzione dell’Austria-Ungheria, cit., pp. 393 ss. 109 A. SOLMI, Il Risorgimento italiano, cit., p. 193: «La fine della guerra minacciava di trovare l’Italia sul Grappa e sul Piave; sicché anche le giuste rivendicazioni italiane pareva dovessero venire, come nel 1866, non già a titolo di dovuto premio, ma come un dono di circostanze favorevoli».
IL FILO DELLA SPADA
229
che! Ci scommetto che questo è, oltr’Alpe, l’ideale di molti, di amici e nemici. Certo, se fossi francese, lo desidererei. Ma sarebbe un disastro mortale per noi, quasi quasi preferirei rimaner come ora e rimettere alla generazione che verrà il compito di ricominciare. Hai seguito il pasticcio jugoslavo? Mi pare che diventi o ridiventi sempre più pasticcio. Sarebbe la prima grande delusione degli idealisti ad oltranza. Ma che cosa buffa che ci sia in Italia tanta gente che si sbraccia a far dichiarazioni amorose, a stender braccia verso l’altra sponda, a confidare in un eterno idillio, e, dall’altra parte, rispondono picche, rispondono, ammiccando a Trieste, a Gorizia, e magari a Udine; parlando di parità di diritti e di equiparazione delle lingue. Dove? Di fronte a chi? Certo in Austria di fronte a tedeschi e magiari. Dunque, si vogliono accomodar cogli Asburgo! E il delenda Austria? È proprio sempre vero che di nemici dell’Austria ce n’è uno solo: l’Italia. Che Dio non voglia che gli Alleati non ritornino alla vecchia amicizia anche essi. Certo che ora in Francia han ripreso a stampare gli esuli jugoslavi la solita letteratura a base imperialistica. Si intravede una rete formidabile di intrighi di ogni genere, in mezzo a cui deve essere terribilmente difficile non rimanere impigliati. Certo Sonnino lo vede o sospetta, perché sta zitto non ostante l’abbaiare della muta italo-jugoslava110.
Stessi angosciosi interrogativi ed eguali preoccupazioni, presenti anche nella corrispondenza di Ojetti111, erano stati trasmessi in chiaro nella campagna di stampa, intrapresa da Mussolini a partire dal dicembre 1917, contro l’«aggressivo imperialismo jugoslavo che giunge sino a Cividale, sino al Friuli e un po’ più in là»112. Campagna di stampa e di opinione, che capovolgeva radicalmente le ragionevoli conclusioni sul problema dalmata, a cui il direttore del «Popolo d’Italia» era pervenuto nella primavera del 1915, per frenare le «infatuazioni imperialistiche» del nazionalismo italiano, da lui definite inconciliabili con l’«orbita delle idealità socialiste» alle quali dichiarava di voler restar le110 Gioacchino Volpe a Elisa Serpieri Volpe, 31 agosto 1918, cit. Sull’attività degli esuli slavi anche in funzione anti-italiana, attiva già dal 1914, poi consolidatasi con la creazione del Comitato jugoslavo, alla fine di aprile del 1915, un quadro eccessivamente simpatetico è in L. VALIANI, La dissoluzione dell’Austria-Ungheria, cit., pp. 157 ss.; 195 ss. 111 U. OJETTI, Lettere alla moglie, cit., pp. 606-607, alla data del 12 ottobre 1918: «In quel gioco tutto di uomini e di caratteri, di simpatie, di energie individuali che sarà il Congresso della Pace, noi verremo dopo la Grecia, dopo la Serbia, dopo la Boemia. La quale sta per avere i suoi ministri presso ogni capitale dell’Intesa, e siederà alla pari a quel Congresso. E così avverrà della Jugoslavia, se Sonnino non si convincerà di farla rappresentare dalla Serbia». 112 B. MUSSOLINI, Al cittadino Mouet, «Il Popolo d’Italia», 30 dicembre 1917; ID., Il motivo, ivi, 10 gennaio 1918; ID., Dopo il grande messagio di Wilson, ivi, 11 gennaio 1918; ID., I popoli contro l’Austria-Ungheria, ivi, 17 gennaio 1918; Problemi, ivi, 24 gennaio 1918; ID., Problemi dell’ora, ivi, 28 gennaio 1918; ID., In margine alla polemica, 28 agosto 1918 in ID., Scritti e discorsi adriatici. II. Dal Piave alla Vittoria, a cura di E. Susmel, Milano, Hoepli, 1943, pp. 120-121; 137-140; 141-145; 157-160; 169-172; 173-178; 325-329.
230
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
gato113. Campagna ormai tutta sciovinista, che sarebbe culminata, il 2 settembre 1918, nel violento articolo di ripulsa alla proposta inglese, contenuta in una rassegna dello «Spectator», che invitava l’Italia a non insistere sulle sue rivendicazioni relative alle coste della Dalmazia, non essendo, in alcun modo, in gioco, con quell’acquisto territoriale da parte del nuovo Stato jugoslavo, la sicurezza della Penisola in quel quadrante dello scacchiere mediterraneo. A quel suggerimento, Mussolini reagiva senza mezzi termini invocando non soltanto l’essenziale «valore strategico» di quelle terre, che proprio l’esperienza del recente conflitto doveva aver insegnato ad apprezzare, ma anche i principi della «politica delle nazionalità», che non potevano essere chiamati a sostegno e a beneficio esclusivo di altri popoli, per conculcare la profonda e secolare italianità di Zara, Traù, Sebenico e Spalato114. Si trattava di argomenti, contraddetti già da Prezzolini115, e poi con maggior convinzione da Gaetano Salvemini nel volume La questione dell’Adriatico, pubblicato nei primi mesi del 1918, ma redatto già nell’estate del 1916116. Volume che avrebbe dato luogo a una vivace polemica giornalista ingaggiata con Mussolini e gli esponenti dell’ala nazionalista e imperialista dell’opinione pubblica117, che si rifacevano alle tesi dell’aggressiva crociata antislava, agitate da Virginio Gayda fin nel 1914. Bisogna esaminare più da vicino il movimento degli slavi del sud. Non si può astrarne parlando del problema adriatico. La sua importanza risulta da questi principi: esso è una corrente storica di popolo che precipita fatalmente verso una soluzione: nessuna forza può più arrestarla o deviarla definitivamente: qualunque sia la soluzione, ne uscirà mutato l’aspetto interno dell’Austria,
113 ID., Italia, Serbia e Dalmazia, «Il Popolo d’Italia», 6 aprile 1915, ivi, cit., pp. 95 ss. 114 ID., Opinioni inglesi, «Il Popolo d’Italia», 2 settembre 1918, ivi, pp. 331 ss. 115 G. PREZZOLINI, La Dalmazia, in «La Voce», 7 maggio 1915, pp. 7 ss.; ID., Letture
sulla Dalmazia, ivi, 7 giugno 1915, pp. 10 ss., poi raccolti in ID., La Dalmazia, Firenze, Libreria della Voce, 1915. Sulla lunga storia della «questione dalmata», si veda L. MONZALI, Italiani in Dalmazia. Dal Risorgimento alla Grande Guerra. Firenze, Le Lettere, 2005. 116 G. SALVEMINI, La questione dell’Adriatico, in ID., Dalla guerra mondiale alla dittatura, 1916-1925, a cura di C. Pischedda, Milano, Feltrinelli, 1964, in particolare pp. 395 ss. Ma sul «trabocchetto dalmatico» e la propaganda nazionalista, si veda il precoce pronunciamento, La Dalmazia, in «Il Secolo», 9 novembre 1914, in ID., Come siamo andati in Libia, cit., pp. 370 ss. 117 ID., Austria e Dalmazia, «L’Unità», 17 gennaio 1918, in ID., Dalla guerra mondiale alla dittatura, cit., pp. 147 ss. In replica, B. MUSSOLINI, Discussioni, «Il Popolo d’Italia», 22 gennaio 1918, in ID., Scritti e discorsi adriatici. II., cit., pp. 161 ss., in particolare pp. 163-164: «Insomma: se gli sloveni, i croati e i serbi hanno diritto di non essere italianizzati per forza, lo stesso diritto di non essere violentemente serbizzati o croatizzati lo hanno o non lo hanno anche gli italiani delle città e dei villaggi lungo il litorale dalmata? Perché questi italiani esistono. Diciamo: esistono. Non solo, ma rappresentano l’elemento indigeno».
IL FILO DELLA SPADA
231
ne sarà profondamente toccato il sistema politico-nazionale della costa orientale dell’Adriatico, con una immediata ripercussione sugli italiani d’Austria e su tutta l’italianità adriatica118.
118 V. GAYDA, L’Italia d’oltre confine. Le provincie italiane d’Austria, Torino, Fratelli Bocca, 1914, p. 311.
2. DOPO LA VITTORIA 1. Tra Mussolini e Salvemini, in mezzo al guado di queste due contrastanti posizioni, che sulla questione orientale dividevano l’intero schieramento politico italiano fin dalla vigilia della guerra1, sembrava collocarsi Volpe, che, nell’intervento pubblicato sulla «Sera» del 26 marzo 1919, pur dichiarandosi non disposto a sacrificare sull’altare degli «immortali principi» la politica di potenza nazionale, si dichiarava contrario ai contenuti del memoriale del 7 febbraio, che la delegazione italiana aveva presentato al tavolo delle trattative di pace, domandando l’annessione di Fiume e l’ampliamento della parte della Dalmazia attribuita all’Italia prima dell’entrata in guerra2. Richieste che si basavano non solo e non tanto su ragioni di carattere strategico quanto sulla necessità di contenere l’irredentismo slavo sui territori giuliani, che avrebbe potuto innescare un nuovo conflitto nella regione. Anche all’infuori della sicurezza militare e della compattezza geografica indispensabili per un confine di transazione, un confine che non si appoggiasse ad elementi di terreno ben definiti, non potrebbe né risolvere completamente il conflitto nazionale che si teme dall’inclusione di minoranze slave nel nostro confine, né avrebbe alcuna solidità economica. Gli sbocchi naturali delle zone slavizzate (del resto poco densamente abitate) sono la pianura veneto-friuliana e i porti italiani della Venezia Giulia, da Trieste a Fiume. Se codeste zone abitate ora prevalentemente da slavi, appartenessero ad uno Stato diverso dal nostro, esse diventerebbero inevitabilmente centri di nazionalismo esasperato contro gli italiani, tenderebbero inevitabilmente al mare, potrebbero esercitare con grande energia, soccorsa anche dal retroterra sloveno e croato, una pressione minacciosa sulle nostre terre di confine, tenendo questo in continua agitazione e i due Stati confinanti in continua tensione3.
1 R. VIVARELLI, Storia delle origini del fascismo, cit., pp. 159 ss. 2 G. VOLPE, Ancora Fiume e Dalmazia, in «La Sera», 26 marzo 1919, p. 1. 3 Memoriale della Delegazione italiana alla conferenza della pace, 7 febbraio 1919 (sun-
to pubblicato dall’Agenzia Stefani, il 12 febbraio), in appendice a L. FEDERZONI, Il Trattato di Rapallo, Bologna, Zanichelli, 1921, pp. 209-210. Il testo integrale delle richieste italiane è in A. GIANNINI, Documenti per la storia dei rapporti fra l’Italia e la Jugoslavia, Roma, Istituto per l’Europa Orientale, 1934, pp. 13 ss.
234
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
Forse per un’insufficiente conoscenza dei dissidi etnici di quelle zone, Volpe sembrava sottovalutare queste minacce, e, pur tenendo fermo sull’esigenza dell’acquisto di Fiume, paragonava gli orientamenti dei delegati italiani a una manifestazione di sorpassato «irredentismo», se non addirittura di «imperialismo sentimentale». Chiedere la Dalmazia, solo perché in essa l’opinione pubblica italiana ravvisava «un bel frammento d’italianità e di romanità minacciato di brutale sterminio da quei vecchi croati di trista memoria», costituiva grave errore politico. Se accordata, infatti, la concessione di quel territorio sarebbe stata usata dagli Alleati contro l’Italia, al momento di discutere i più importanti compensi coloniali. Il problema dalmato restava, tuttavia, al centro dell’attenzione di Volpe, che il 22 marzo, da Milano, aveva informato la moglie di una sua prossima missione a Trieste e oltre Trieste. Nella lettera, si prendeva ormai coscienza del cattivo andamento delle trattative di Versailles, proprio per quello che riguardava le ambizioni adriatiche italiane. Queste rischiavano di venir travolte da un uso largamente strumentale del principio wilsoniano dell’«autodeterminazione dei popoli»4, soprattutto da parte della Francia, anche in spregio alla lettera e allo spirito del Patto di Londra del 26 aprile 19155, ai cui protocolli l’Italia aveva subordinato il suo appoggio all’Intesa, ottenendo, in virtù del quinto articolo del trattato, «la province de Dalmatie dans ses limites administratives actuelles». Debbo andare a Trieste. Ed è possibile che faccia un viaggio solo con la Dalmazia. I tempi stringono. A Parigi stanno per decidere e, pare, negativamente per noi. Tutto il patto di Londra è in questione. Gli Americani vogliono casi vergini. Per loro non esiste la storia ma le esigenze della pace e dell’umanità. Sotto l’apparente bellezza, quanta ingiustizia e violenza non c’è in questo atteggiamento: tanto più che, per far valere questo punto di vista, essi hanno lì, a portata di mano, il mezzo coercitivo: il grano, il cotone, il ferro. I tedeschi ti dicevano: cedi o ti ammazzo. Gli Americani (e soci) non dicono ma fanno capire (Oh progresso!) che ti faran morire di fame (Oh progressissimo!). Se le cose di Dalmazia non si mettono bene, neanche le colonie pare che godamo buona salute. Intanto niente più Anatolia occidentale e Smirne. Sarà della…Grecia, della piccola ma magnanima Grecia, che tanto ha fatto per il trionfo della giustizia e della civiltà…al tempo di Pericle e Socrate! Vedrai che ci assegneranno qualche magnifico osso da sgranocchiare. Noi qui cerchiamo di muovere la Ca-
4 Sulle simpatie di Wilson, per le rivendicazioni nazionali slave, L. VALIANI, La dissoluzione dell’Austria-Ungheria, cit., pp. 355 ss.; D. ROSSINI, L’America riscopre l’Italia. L’Inquiry di Wilson e le origini della Questione Adriatica, 1917-1919, Roma, Edizioni Associate, 1992. 5 P. PASTORELLI, Dalla prima alla seconda guerra mondiale. Momenti e problemi della politica estera italiana, 1914-1943, Milano, Led, 1998, pp. 68 ss.
DOPO LA VITTORIA
235
mera di Commercio a manifestarsi. Ho parlato col direttore del Museo commerciale e col segretario generale della Camera. Ma sono tardi. Simili iniziative le dovevano prendere essi! Con Bergmann e Porro si ventila anche l’idea di un viaggio in Dalmazia per rendersi conto della situazione vera laggiù e regolare la nostra condotta nel caso che le cose si risolvessero negativamente per noi. Converrà considerare chiuso il ciclo delle rivendicazioni nazionali o ricominciare per preparare… l’avvenire6.
In questo periodo, l’autore della lettera non aveva quindi ancora svestito il grigioverde e lo stimolo dell’azione aveva decisamente la meglio su quello della meditazione, dello studio, della docenza, se il Preside dell’Accademia Scientifico-Letteraria di Milano comunicava, con qualche irritazione, al Ministero dell’Istruzione Pubblica, alla data del 6 febbraio, che «il Prof Gioacchino Volpe, ordinario di Storia moderna e incaricato di Storia del Risorgimento per la Scuola Pedagogica e delle conferenze di Magistero, attualmente sotto le armi, non è più tornato a iniziare il suo insegnamento di quest’anno, come in seguito alle mie premurose richieste aveva lasciato sperare». Nella corrispondenza, dove si faceva istanza di poter provvedere tempestivamente alla temporanea sostituzione del docente, con un incarico di supplenza, essendo impossibile il protrarsi di quella situazione «negli interessi degli studi e della scolaresca, come anche per la dignità della Scuola», si aggiungeva che il poco scrupoloso docente «era stato chiamato, in questi stessi giorni, a prestar servizio presso il Gabinetto del nuovo Ministro della Guerra»7. Il viaggio di Volpe, che avrebbe toccato Trieste (dove lo storico avrebbe tenuto una conferenza sugli esiti politici del conflitto)8, Fiume, Zara, Spalato, Sebenico, al fine di meglio organizzare la Sezione P del governo militare della Dalmazia, avveniva ufficialmente su incarico del generale Caviglia, nel quadro dell’intensificarsi della propaganda italiana, rivolta alle truppe e alla popolazione civile all’interno e oltre il territorio giuliano, per contrastare ogni possibile «infiltrazione slava» sull’intero litorale adriatico, e per garantire, invece, grazie anche al controllo militare diretto di quelle regioni, il processo politico-istituzionale dell’«italianizzazione»9. Questa strategia d’intervento, predisposta dal
6 Gioacchino Volpe a Elisa Serpieri Volpe, 22 marzo 1919, CV. 7 MPI-DGIU, fascicolo G. Volpe. 8 G. VOLPE, Conferenza sulla guerra italiana, in «Il Lavoratore», 28 marzo 1919, pp. 2-
3. La sede de «Il Lavoratore», quotidiano socialista di Trieste, sarebbe stata devastata nel corso di un’azione squadristica nell’ottobre 1920. 9 A. VISENTIN, L’Italia a Trieste. L’operato del governo militare italiano nella Venezia Giulia, 1918-1919, Gorizia, Leg, 2000, in particolare pp. 139 ss.
236
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
Governo e dal Comando Supremo e condotta sul territorio direttamente dalle armate mobilitate, pur sviluppandosi in linea di principio in ottemperanza a un quadro di riferimento politico di stampo liberale, se si rivelava capace di frenare, con largo uso degli strumenti di controllo e di coazione, le punte più aspre delle tensioni etniche e sociali di questa difficile zona di frontiera, non riusciva a governare completamente alcune dinamiche eversive che da quelle stesse tensioni si originavano, e rischiava al contrario di potenziarne gli sviluppi. Dimostravano bene questa dicotomia i contenuti di alcuni quaderni pubblicati a cura della Sezione P del governo militare dalmata, editi nella serie «Collegamento morale». L’iniziativa di questa pubblicazione era dovuta soprattutto all’impulso di un gruppo d’intellettuali, in parte già attivi nei servizi di propaganda (Arrigo Solmi, Giotto Dainelli, Adolfo Venturi, Vladiro Zabughin, Lucio Mariani, Lombardo Radice naturalmente Gioacchino Volpe) e a quella di qualche personaggio proveniente dalla militanza irredentista: Ettore Cozzani, Annibale Sprega, presidenti de «La Giovane Italia» di Milano e del Comitato «Pro Dalmazia» di Milano, Maria Rigyer segretaria del Comitato di agitazione dalmata10. Dall’agosto del 1918 al marzo dell’anno successivo, il nucleo promotore pubblicava sei fascicoli, che contenevano soprattutto schemi di conferenze che i giovani ufficiali subalterni avrebbero dovuto sviluppare nel corso delle loro conversazioni con la truppa, ma anche con i civili, al fine di realizzare «un programma di penetrazione e diffusione politica ed economica nelle regioni orientali». Questo era infatti l’obiettivo principale della pubblicazione, come si evinceva dalla lettera circolare, che il capo della Sezione Propaganda del Regio Governo della Dalmazia e delle isole dalmate e curzolane, Ettore Vanni inviava, all’inizio del 1919, a numerose personalità politiche e intellettuali, a enti e istituti di cultura, chiedendo collaborazione e sostegno, al fine di «ravvivare quel fuoco d’italianità mai spento, nelle provincie dalmate, traverso i secoli»11. Messaggio a cui faceva riscontro la pronta adesione di tutti gli interpellati, tra i quali si contavano numerosi senatori e deputati, il Vice Presidente della Camera e quello del Senato, il Ministro della Pubblica Istruzione Adolfo Orvieto, molti insegnanti medi e universitari, semplici combattenti ma anche i dirigenti delle maggiori case editrici nazionali (da Treves a Bemporad), l’Associazione Nazionale «Dante Alighie10 “Collegamento morale”. Quaderni editi dalla Sezione P del Governo della Dalmazia. “Buoni segni”. Quaderno n. 4, Zara, Stabilimento Tipografico Schönfeld, aprile-maggio, 1919, p. 6. 11 Una copia della lettera inviata al Ministro della Pubblica Istruzione, Adolfo Orvieto, priva di data, è conservata nella Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea di Roma.
DOPO LA VITTORIA
237
ri» che, lodando il programma fin qui sviluppato, in quanto «ispirato da un’esperienza sicura dei bisogni dell’ora», prometteva un ausilio morale e materiale, soprattutto relativo all’invio di materiale librario12. La Sezione P attiva in Dalmazia, rivolgeva tuttavia la sua attenzione anche alla situazione interna italiana, diffondendo, presso i soldati in attesa della smobilitazione, indirizzi di carattere politico, tendenti ad arginare presso di essi i frutti perniciosi di un possibile condizionamento ideologico di marca sovversiva. Nel fascicolo di «Collegamento morale» del gennaio-febbraio 1919, con grandissima verosimiglianza redatto integralmente da Volpe, appariva un intervento di commento ai recenti scioperi, dimostrazioni, disordini che avevano avuto per teatro Roma, Torino, Milano13. Ristabilitasi provvisoriamente la calma, l’articolo invitava i soldati, in attesa di congedo, a riflettere sul fatto che tanto sarebbe perdurato quello stato di agitazione, tanto più «sarà lunga e laboriosa la trasformazione delle industrie; più lento l’inizio dei lavori pubblici già ideati e preparati in ogni provincia, per opera dello Stato, degli enti locali, dei privati; più difficile il passaggio graduale dallo stato di guerra allo stato di pace». La stagione post-bellica prometteva di garantire a tutti i lavoratori, che avevano imbracciato le armi in difesa della patria, importanti e durevoli conquiste sociali ed economiche («orari ridotti di lavoro, il sabato inglese, alti salari»), ma questo non sarebbe potuto avvenire se la «nostra industria in conseguenza di agitazioni troppo prolungate, non fosse in grado di reggere alla concorrenza forestiera che d’ora innanzi sarà sempre più energica», potendo contare su «materie prime più abbondanti, mercati interni più vasti, impianti industriali enormemente ingranditi durante la guerra». Il perdurare delle agitazioni, inoltre, non solo avrebbe compromesso la ripresa economica, ma avrebbe indebolito anche la posizione politica internazionale, insidiata a Parigi, da Jugoslavia, Francia e Inghilterra: «insomma da nemici e alleati: da quanti sono lì sulla breccia per negarci il frutto della vittoria». La resistenza attiva al clima di disordine da parte degli ex-combattenti appariva poi soprattutto necessaria a scongiurare la minaccia di una sovversione sociale, che trovava i suoi più entusiasti promotori tra tutti coloro che le necessità dell’industria bellica avevano tenuto comodamente al riparo dai rischi e dalle sofferenze della vita di trincea.
12 La lista completa dei messaggi di adesione è in “Collegamento morale”. Quaderni editi dalla Sezione P del Governo della Dalmazia. “Buoni segni”. Quaderno n. 6, cit., pp. 7 ss. 13 ANONIMO, I combattenti vogliono pace, lavoro, ordine, in “Collegamento morale”. Quaderni editi dalla Sezione P del Governo della Dalmazia. “Battute di Propaganda”, gennaiofebbraio 1919, pp. 5-6.
238
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
I disordini dei giorni scorsi, che del resto son poca cosa e limitati a poche città, son venuti da masse operaie che non hanno fatto la guerra, perché o addetti alle officine o minorenni. La maggioranza era di ragazzi sui diciassette. E la opposizione a loro è stata fatta da combattenti, ufficiali e soldati. Essi, più dei carabinieri e guardie, hanno reagito a chi gridava viva Lenin e viva l’anarchia. Vogliono, finalmente, pace, lavoro, ordine. E sono risoluti ad imporre tutto questo anche con la forza. Essi attendono un’Italia migliore; chiedono e più chiederanno, domani a pace conclusa, che lo Stato dia agli italiani più istruzione, combatta più energicamente la malaria, assicuri una amministrazione migliore, garantisca una giustizia più sbrigativa, aiuti i contadini a diventar proprietari della terra che coltivano, protegga energicamente il lavoro degli emigranti, provveda a certi vecchi mali delle province meridionali e insulari, agevoli lo sfruttamento intensivo di tutte le risorse economiche del paese. Ma sono persuasi che tutto questo non si otterrà con un grande sconquasso ad uso russo. Si otterrà solo con una energica ma ordinata pressione del paese sopra gli organi di governo; con una volonterosa e intelligente cooperazione di tutti gli italiani.
Riposte le divise, ufficiali e soldati avrebbero dovuto intraprendere una nuova guerra contro il nemico interno, dare il via a un vero e proprio «antibolscevismo combattentistico», con la violenza, se necessario, ma soprattutto cooperando con le autorità civili, stimolandole a realizzare un vasto programma di coesione nazionale, assolutamente necessario ora che, deposte le armi, la vecchia ragione di Stato risorgeva potentemente tra i membri dell’Intesa, che gareggiavano nel sottrarre all’Italia acquisti coloniali, risorse, canali commerciali, mercati, nel restringere e nel chiudere i consueti sbocchi dell’emigrazione italiana, in Francia e negli Stati Uniti, «per dar soddisfazione ai loro sindacati operai, che non vogliono concorrenza di operai forestieri». Questa aggressione economica verso il nostro Paese non era, sottolineava Volpe, il frutto della congiura mondiale della borghesia e del capitalismo, come alcuni volevano supporre, ipotizzando di poter contrastare questa minaccia attraverso la fratellanza proletaria internazionale, ma consisteva, piuttosto, nel risorgere impetuoso del «sacro egoismo» connaturato al principio di nazionalità, di cui lo stesso presidente Wilson aveva dato prova14. La solidarietà internazionale delle borghesie non esiste. La solidarietà internazionale del proletariato è, si e no, sulla carta. Rimane solamente, per ora,
14 G. VOLPE, Sacro egoismo, cit., p. 10: «Difenda dunque Wilson l’interesse, vero o presunto del suo paese; faccia comunella coi fratelli anglo-sassoni d’Europa, dia pure mano libera ai francesi di trattare i tedeschi, solo perché son tedeschi e concorrenti pericolosi, come carne da macello ma non si chiacchieri più di giustizia e di diritto, non se la prenda col così detto imperialismo italiano, chiami pane il pane e vino il vino».
DOPO LA VITTORIA
239
la solidarietà entro i vari elementi sociali di ciascuna nazione, la solidarietà nazionale. Essa esiste anche se noi non la vediamo e ci ostiniamo a non riconoscerla. Esiste nei rapporti col di fuori. Il bene o il male che ci viene dagli altri paesi è bene o male per tutte le classi della nazione. Se le materie prime necessarie alle industrie dovessero esserci negate o noi le dovessimo acquistare in regime di monopolio cioè a prezzi altissimi, avremmo non solo la rovina dei nostri industriali ma anche delle maestranze, anche dei contadini, che non troverebbero più nelle città industriali della Penisola un mercato favorevole ai prodotti della terra. Se ora dovessimo uscire dalla guerra umiliati dal malvolere dei nostri antichi soci, battuti nella navigazione adriatica dalle società inglesi o francesi, privati delle indennità che gli altri vorrebbero riservare tutte a se stessi, tenuti lontani da ogni possesso coloniale che ci dia un po’ di materie prime; tutti gli italiani si risentirebbero del danno, specialmente i più deboli e i più poveri. Bisogna persuadersi che questi sono i maggiormente interessati ad avere una patria forte e rispettata. La sua forza e il suo credito si risolverà in loro forza e loro credito. Per essi vale al massimo grado il vecchio proverbio che l’unione fa la forza. Ora, la Patria è appunto l’unione di tutte le energie nazionali. Nel momento presente, così come è ordinata, essa non assicura a tutti gli italiani o, almeno alla maggior parte di essi, ai volenterosi e ai laboriosi, oneste condizioni di esistenza? Ebbene, facciamo in modo che le assicuri. Riformiamola. Che essa sia veramente la patria di quaranta milioni d’italiani. Che nessuno la monopolizzi o la sfrutti per ristretti interessi personali o di classe, non i borghesi, non gli operai delle officine, non altre categorie di lavoratori o non lavoratori. Ma questa unione di forze che si chiama patria conserviamola. I conflitti di classe sono naturali, inevitabili, necessari, forse benefici. In Italia e da per tutto essi hanno, negli ultimi cento anni, promosso i processi tecnici del lavoro, l’ordine sociale, l’educazione politica delle varie classi. Hanno anche aiutato il formarsi delle varie coscienze nazionali. Masse di lavoratori si sono sentiti prima uomini e solidali con la loro classe e poi italiani o francesi o tedeschi. Ma non dimentichiamo mai, che questi conflitti debbono avere un limite: oltre il quale essi si risolverebbero nella rovina di tutti, a beneficio di altre nazioni più unite e coerenti. Il genere umano è e sarà, forse ancora per molto tempo, organizzato non per classi ma per nazioni15.
Era, questa, in sintesi, sia pure con una maggiore sottolineatura relativa all’effetto positivo della fisiologica competizione tra diversi ceti, una conclusione che arieggiava, in qualche misura, il programma economico nazionale, «produttivistico» e «collaborazionistico», che di lì a poco Mussolini avrebbe formulato, sulla scorta delle teorie elaborate da Corradini e da Rocco16. Solo a partire da questo presupposto, è possibile comprendere il significato politico dell’incarico in cui lo storico sarebbe stato impegnato nella missione dalmata. Sebbene anche Caviglia 15 ID., Solidarietà nazionale, cit., pp. 7 ss., in particolare p. 9. 16 R. DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., p. 465.
240
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
intrattenesse in quel momento cordiali rapporti con i Fasci17, tanto da felicitarsi con Mussolini e Marinetti per la riuscita incursione contro la tipografia e la redazione milanese dell’«Avanti» dell’aprile 191918, i veri referenti di Volpe per la missione sul confine orientale erano, infatti, i due attivissimi leader dei circoli del combattentismo milanese, ricordati nella corrispondenza alla moglie. Giulio Bergmann, già vicino ai Giovani liberali di Borelli, fondatore nel gennaio 1911 della sezione milanese dell’Associazione Nazionalista Italiana e successivamente esponente di spicco del Gruppo nazionale liberale di Milano, era all’epoca un esponente di primo piano dell’Associazione nazionale combattenti di quella città. Eliseo Porro era invece il presidente dell’Ufficio tecnico di propaganda, personalmente impegnato, dopo Caporetto, in un’azione di energico contrasto contro il sovversivismo socialista19, che un rapporto di polizia dell’agosto 1919 indicava come uno dei maggiori finanziatori, tramite l’ente da lui diretto, dei Fasci di combattimento, delle associazioni degli Arditi, del «Popolo d’Italia»20. Pur inquadrato in questo contesto politico, il tour dalmata non riusciva però a modificare in modo sostanziale le opinioni di Volpe, che appariva convinto, nella lettera del 7 aprile, spedita da Zara, che la campagna di opinione adriatica aveva provocato un garbuglio difficilmente risolvibile, suscitando una ventata irredentistica presso le minoranze italiane della regione, alla quale sul piano dei fatti sarebbe stato difficile dar soddisfazione, ma che intanto aveva creato uno stato insopportabile di tensione e di attrito con l’etnia slava, che da ostilità latente avrebbe potuto degenerare a breve in scontro aperto. Un situazione di difficile soluzione, dunque, al cui acuirsi in grossa parte aveva contribui17 M. LEDEEN, War as Style of Life, in The War Generation: Veterans of the First World War, edited by S. R. Ward, Port Washington-London, Kennikat-Press, 1975, p. 115. 18 G. SALVEMINI, “Lezioni di Harvard”, cit., p. 440. Caviglia faceva parte della delegazione ministeriale inviata nella città lombarda per compiere un’inchiesta sugli incidenti. 19 A. VENTRONE, La seduzione totalitaria, cit., pp. 222-223 20 Nota informativa sul Fascio di combattimento di Milano e sulla associazione arditi e loro rapporti con socialisti e anarchici (18 agosto 1919), riprodotto in R. VIVARELLI, Storia delle origini del fascismo, cit., pp. 624 ss., in particolare p. 626. Si veda anche, Rapporto dell’ispettore Generale di P.S. G. Gasti su Mussolini e i Fasci di combattimento, 4 giugno 1919, in ACS, Ministero dell’Interno. Direzione Generale di Pubblica Sicurezza. Affari generali e riservati 1922, b. 62, f. 7: «A Milano, i Fasci di combattimento sono un tessuto molecolare di un più vasto aggregato patriottico, nella cui trama non può dirsi che siano contenuti, ma dalla cui influenza non si sono, almeno fino ad ora, interamente emancipati, subendone un certo freno ed un certo temperamento di cui non si può peraltro prevedere la continuità e l’efficacia. S’intende parlare del Fascio delle associazioni patriottiche rappresentato dal comm. Somasca, in cui figurano i nomi dell’on. Candiani, Marco Praga, senatore Greppi, senatore Colombo, Visconti di Modrone, dell’Associazione antibolscevika [sic] dell’avv. Pesenti, dell’Ufficio di propaganda patriottica rappresentato dal dott. Correggiari».
DOPO LA VITTORIA
241
to l’azione francese, interessata a indebolire la posizione italiana sui confini orientali, anche a costo di una più generale destabilizzazione dell’area. Mi confermo sempre più nell’idea che alla Dalmazia dobbiamo annettere un’importanza non eccessiva e che abbiamo avuto torto; siamo stati non so se troppo idealisti, troppo politicamente ignoranti ad ingaggiare battaglie polemiche per la Dalmazia. Questo scrissi nel mio ultimo articolo per “La Sera” e questo oggi mi si conferma come vero adesso. Vuol dire che siamo impegnati; questa gente non vuole più essere abbandonata. Capisce che prima della guerra potevano forse andare avanti alla meno peggio ma ora, in avvenire, non avrebbero altre prospettive che o espatriare o croatizzarsi. Sono presi in mezzo fra gli agitatori jugoslavi e la massa dei contadini che vedono i nostri come tutti i contadini vedono i cittadini, con l’aggravante del fanatismo religioso e della diversità di razza. Ho una lettera di presentazione per una famiglia di qui e stasera mi presenterò. Ma più curioso sarei di conoscere gli ambienti slavi, per spiegarmi tante cose di dettaglio. Non è facile, sono chiusi, dissimulano ora, di fronte a noi che siamo i più forti; e sono anche un po’ disorientati. Odiano noi, ma neppure amano i Serbi. Ma prevale quell’odio o questo non amore? Da certi segni potrebbe apparire quello maggiore di questo, da altri viceversa. Mi sono fatto una vaga impressione che, ora come ora, se noi transigessimo, potremmo staccare i Croati dai Serbi. Ma dovremmo transigere, e poi fra venti, trent’anni, forse anche prima, Serbi e Croati finirebbero con l’intendersi ai nostri danni. Non c’è che dire, la Francia ha tenuto e tiene a battesimo questa nuova Austria ai nostri fianchi, e ha calcolato giusto, pur avendo fatto una cosa sporca. Io vedo dileguarsi sempre più nella lontananza l’amicizia italo-francese. Faremo dei contratti, questo può essere ma nulla di più. Sono irriducibili. Per fortuna si sono anche alquanto screditati. Anche la loro vecchia reputazione di cavalleria ha fatto miseramente naufragio21.
Altra mina vagante di quell’inquieto dopoguerra, era la situazione di Fiume, dove i contrasti, fino alle vie di fatto, tra militari italiani e francesi stanziati nella città22, le incontenibili aspirazioni degli abitanti al ri21 Gioacchino Volpe a Elisa Serpieri Volpe, 7 aprile 1919, CV. Sullo stesso punto, ID., Solidarietà nazionale, cit., pp. 7-8: «Noi abbiamo sanguinato quattro anni per buttare a terra l’Austria, per assicurarci da quella perpetua minaccia che ci stava sospesa sul capo. Ed ecco che gli ottimi alleati nostri lavorano sotto mano a ricostituirla, perché sperano di poter far con essa buoni affari e di metterla un’altra volta a montar la guardia ai nostri fianchi. Noi abbiamo combattuto per ricuperare terre nostre e per assicurarci da ogni nemico nell’Adriatico; siamo riusciti a farci garantire tutto questo con un trattato… Ed ora l’Intesa mette contro noi Croati e Sloveni e Serbi, vuol dare loro città italianissime come Fiume, si affretta a mandar nell’Adriatico per sorvegliarci quei soldati che durante la guerra non aveva mai mandato che con tanta parsimonia e cautela, riserba ai nostri nemici tutte le grazie, ed a noi lesina fino al centesimo i frutti della vittoria». 22 U. OJETTI, Lettere alla moglie, cit., p. 669, alla data del 23 novembre 1918: «Tra Po-
242
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
congiungimento con l’Italia, accolte da manifestazioni di violenta xenofobia da parte slava, il mescolarsi di fremiti patriottici alle ragioni concrete di un poco trasparente affarismo, egualmente presente nelle due etnie, apparivano come altrettanti ingredienti di una miscela esplosiva che avrebbe poi puntualmente detonato nell’impresa dannunziana, in quella «festa della rivoluzione»23, che Marinetti avrebbe descritto con tanto compiacimento nei suoi diari24, ma nella quale poco veramente sarebbe restato dell’interventismo d’ordine di Volpe e dei Gruppi nazionali liberali. I fiumani non fanno che dire della grossolanità e malcreanza degli ufficiali francesi, specie nei primi tempi, e della lazzaronaggine dei loro soldati. Sono invece ammirati dalla condotta dei nostri, perché veramente siamo lì benissimo rappresentati. Il reggimento dei granatieri è fior di ragazzi ed anche bersaglieri e fanti non fanno cattiva figura. Anche fra gli slavi mi hanno detto che i francesi hanno perso e noi abbiamo guadagnato. Ora forse la modestia e la discrezione (accompagnate al bisogno da buoni pugni e da qualche rottura di teste) hanno anche esse un valore. Costruiscono più lentamente, ma più solidamente. […] E poi forse in questi giorni verranno novità da Parigi. Mi piacerebbe essere a Fiume in quel momento. Preparano dimostrazioni nostre, a cui dall’interno potrebbero fare eco parole di ira, propositi di vendetta tanto più grandi in quanto più i croati si dichiarano sicuri della loro causa. Eppure, mentre scrivo, qui nel tavolo davanti a me dei signori contan gran pacchi di corone, parlano di cambi, guadagni e perdite… Una quantità enorme di gente si ingegna a speculare sulla moneta specie a Fiume, ma anche qui. E ciò anche i più caldi patrioti. Ciò che ad altri potrebbe suggerire un sorriso ironico della gente, a me fa pensare che, nei più, affari e sentimenti d’altro genere, anche del più alto valore, vanno avanti, ognuno per conto suo senza incontrarsi e influenzarsi25.
Nella lettera, da Spalato, del 12 aprile, Volpe dava ancora una volta prova del suo realismo politico, pur dimostrandosi non dimentico dell’antica romanità della città, che ospitava «le grandi rovine del palazzo di Diocleziano», né insensibile all’insofferenza del contingente militare italiano che ormai si orientava verso una soluzione di forza. Un saluto da Spalato dove venni ieri. Ed oggi riparto. Ormai sono alla vigilia del ritorno nella vecchia Italia! E allora ti racconterò tutto. Qui ti dirò so-
la e Fiume sono avvenute gravi offese al nostro diritto e al nostro sentimento di italiani da parte di ufficiali francesi di marina, tutti pei jugoslavi bolscevichi, pronti a difenderli e aizzarli contro noi, fingendo di non vedere il loro bolscevismo». 23 C. SALARIS, Alla festa della rivoluzione. Artisti e libertari con D’Annunzio a Fiume, Bologna, Il Mulino, 2003. 24 F.T. MARINETTI, Taccuini, 1915-1921, Bologna, Il Mulino, 1987, pp. 432 ss. 25 Gioacchino Volpe a Elisa Serpieri Volpe, 7 aprile 1919, cit.
DOPO LA VITTORIA
243
lo che bella città è Spalato, e che città italianissima essa è nel suo aspetto…Gli abitanti saranno italiani… se la città sarà nostra, saranno jugoslavi anche di sentimenti se sarà jugoslava: salvo la minoranza degli autentici italiani dei quali non si sa che cosa avverrà se la Jugoslavia trionfi! […] Sono tutti cortesissimi e ospitalissimi e ora ansiosissimi. Noi dell’altra sponda non ne abbiamo un’idea: bisogna risalire a 60 anni indietro. Fanno pena se si pensa che le sorti di Spalato difficilmente si risolveranno a nostro favore. Non ti dico poi degli ufficiali e dei marinai nostri che sono qui e rodono il freno. È meglio non scriverne e parlarne a voce26.
Ma questo tono commosso, eppure sempre tenuto sotto governo da un calcolo razionale, veniva bruscamente meno al suo ritorno a Milano, quando, a poco più di dieci giorni di distanza, Volpe pubblicava l’articolo Tornando dalla Dalmazia27. In quel pezzo, lo storico comunicava i risultati del suo viaggio adriatico, presentando lo spettacolo di una isola di latinità, stretta dal minaccioso assedio di genti semi-barbare ad essa estranee, per lingua, tradizione, religione, che faceva della Dalmazia il «punto di incontro non solo di Italiani e Slavi, ma di due costumi, di due mentalità, di due civiltà». Questo dato rendeva impossibile una divisione dei territori dalmati fra Italia e Jugoslavia, come pure era stato richiesto dai nostri rappresentanti a Versailles, a meno di non voler porre le condizioni di un futuro scontro tra i diversi gruppi di quella regione. Croati, serbi, morlacchi, «popolazioni arretrate e, per giunta balcaniche e mezzo orientali», divise da differenze «non di religione ma di setta» e da secolari e mai sopite rivalità, costituivano certamente la maggioranza aritmetica della regione ma non una maggioranza qualificata ad assumerne il governo, come sosteneva Volpe, riecheggiando uno dei motivi ricorrenti della propaganda nazionalista28. Gli slavi dalmati non erano infatti una nazione, ma solo un coacervo di etnie, che sempre più spesso ormai domandavano, soprattutto per quello che riguardava la componente croata, l’intervento dei militari italiani «che per essi significa ordine, sicurezza, di persone e di beni, liberazione dai soldati serbi». L’annessione della Dalmazia rappresentava così non solo il frutto necessario di una guerra vittoriosa ma anche una soluzione indispensabile al consolidamento di una delle aree più turbolente del continente, in assenza della quale il nostro paese avrebbe potuto ricredersi «dalla persuasione di aver combattuto per la “libertà e per la giustizia”».
26 Gioacchino Volpe a Elisa Serpieri Volpe, 12 aprile 1919, CV. 27 G. VOLPE, Tornando dalla Dalmazia, «La Sera», 21 aprile 1919, p. 1. 28 Avrebbe riepilogato criticamente queste posizioni, M.A. LEVI, La politica estera del
Nazionalismo, in «La Rivoluzione liberale», I, 20 settembre 1922, 27, p. 100. Sul punto, R. VIVARELLI, Storia delle origini del fascismo, cit., pp. 241 ss.
244
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
Lo storico avrebbe ribattuto questi temi, di lì a una settimana, sempre sulle colonne del quotidiano milanese29. Il 7 maggio, lo stesso giorno in cui la delegazione italiana abbandonava il tavolo della pace, «La Sera» presentava un fermo memoriale d’accusa, forse ispirato dallo stesso Volpe, contro le manovre degli alleati di ieri, che oggi erano intenzionati a ridurre la nazione italiana a «puissance de troisième degré». L’acquisto di Fiume e delle terre dalmate non doveva essere visto secondo la logica del vecchio «irredentismo» ma come un problema squisitamente strategico, decisivo per la definizione dell’architettura geopolitica europea, nel cui quadro l’Italia non poteva essere diminuita di un ruolo centrale, conquistato con grande tributo di sangue sui campi di battaglia. Eppure, proprio a questo obiettivo tendeva l’imbroglio diplomatico di Versailles, al cui diktat l’Italia non poteva sottostare, per lasciare libero il campo, senza resistenza, «ai banchieri anglo-franco-americani (e anche tedeschi), all’imperialismo e marxismo inglese, alle gelosie morbose della sorella latina, alle troppe comode idealità e ai puntigli del prof. Wilson, del moralista che sta massacrando ogni moralità, dacché pretende mietere lui dove altri ha seminato, raccogliere quattrini dove altri hanno combattuto con uno spirito idealistico e una lealtà che non sappiamo quanto esaltare o e quanto nel tempo stesso rimpiangere»30. La liquidazione delle ambizioni adriatiche non sarebbe stata poi senza conseguenze sugli equilibri politici interni, come metteva in evidenza il minaccioso appello alla fermezza, rivolto al presidente del Consiglio, Vittorio Emanuele Orlando, con il quale si concludeva l’editoriale. Chi regge ora l’Italia, chi ha l’onore e l’onere di tutelarne a Parigi gli interessi, onore e onere che per noi sono una cosa sola, consideri seriamente lo stato d’animo di molti Italiani che vedono in gioco ed in pericolo, ora, non qualche piccolo frutto chilometricamente computabile della vittoria, ma tutta la vittoria: i fini ultimi della guerra, imponderabili ma appunto per ciò assoluti e non suscettibili di compromessi. Questi Italiani protesterebbero con ogni energia contro chi a queste transazioni piegasse. Questi italiani che ora, almeno in parte, forse in gran parte, non elevano pregiudiziali dinnanzi all’ordine costituzionale ora vigente nel nostro paese, potrebbero domani non solo aver motivo di chiedere conto a taluni uomini di governo del vano sforzo di 40 milioni di cittadini ma anche sentir rallentarsi il legame che li tiene uniti a quell’ordine costituzionale, potrebbero essere indotti a chiedersi se, per avventura, il difetto non sia solo di persone, di talune persone… Si rendono conto i governanti e i negoziatori d’Italia di questa possibilità, che noi per primi addolora ma che noi spieghiamo? Si rendono conto del pericolo di accumulare nel nostro paese
29 G. VOLPE, Momento grave, «La Sera», 30 aprile 1919, p. 1. 30 ID., Attendendo la soluzione della vertenza italiana, ivi, 7 maggio 1919, p. 1.
DOPO LA VITTORIA
245
materia infiammabile a materia infiammabile, di indebolire la capacità e volontà di resistenza al fuoco di una parte grandissima degli Italiani?31
Solo pochi giorni prima un infuocato articolo del «Popolo d’Italia» consigliava la delegazione italiana di tornare al tavolo delle trattative, per minacciare a Belgrado almeno una «dichiarazione platonica di guerra» e per porre la Conferenza per la pace «davanti all’aut aut: o il riconoscimento del patto di Londra con Fiume, o il decreto di annessione»32. Di lì, a poco, respinte le richieste italiane a Versailles, quando a molti parve che fosse stato decurtato anche l’attivo della guerra pattuito prima dell’inizio delle ostilità33, Mussolini, con una mossa di spregiudicata tattica politica, ultimava la prima fase della sua marcia di avvicinamento al nazionalismo34, che gli avrebbe assicurato, più tardi, persino il consenso di una parte consistente dell’ala liberale di quel gruppo politico, che aveva precedentemente stigmatizzato, con durezza, la venatura socialista, cosmopolita, universalistica del suo interventismo35. L’alleanza si cementava definitivamente sulla base del mito della «vittoria tradita», fatto immediatamente proprio da Mussolini36, che, per quanto si sia ripetuto esser fondato unicamente su apparenze contestabili o fallaci, come aveva già proclamato «L’Unità» di Salvemini, sventolando l’ormai sbiadita bandiera della «politica delle nazionalità»37, fu
31 Ibidem. 32 B. MUSSOLINI, Annessione, «Popolo d’Italia», 4 maggio 1919, in ID., Scritti e discor-
si, a cura di V. Piccoli, redattore del «Popolo d’Italia», Milano, Stucchi, 1934-1939, 13 voll., II, pp. 15 ss. 33 Sui risultati conseguiti dall’Italia, si veda P. PASTORELLI, Dalla prima alla seconda guerra mondiale, cit., pp. 75 ss.; E. GOLDSTEIN, Gli accordi di pace dopo la Grande guerra, 1919-1925, Bologna, Il Mulino, 2005, in particolare pp. 44 ss. 34 R. DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., pp. 528 ss.; R. VIVARELLI, Storia delle origini del fascismo, cit., pp. 315 ss. 35 Radicali e socialisti di fronte alla guerra. “Il Popolo d’Italia”, in «L’Azione», 22 novembre 1914, pp. 1-2: «Mussolini invoca la guerra per quel tanto che il nostro intervento può contribuire a creare in Europa un ambiente politico più adatto allo sviluppo del socialismo. Uno scopo dunque che supera la nazione, un interesse che supera anzi finisce per contrastare gli interessi della nazione». 36 B. MUSSOLINI, Dopo il voto, «Popolo d’Italia», 29 settembre 1919; ID., I diritti della Vittoria. Discorso all’inaugurazione dell’Adunata fascista di Firenze, 9 ottobre 1919, in ID., Scritti e discorsi, cit., II, pp. 27 ss. e 31 ss. Sull’utilizzazione di quel mito nella strategia fascista di conquista del consenso, A. BARAVELLI, La vittoria smarrita. Legittimità e rappresentanza della Grande Guerra nella crisi del sistema liberale, 1919-1924, Roma, Carocci, 2006. 37 Si vedano gli editoriali di Salvemini, polemicamente durissimi contro Orlando e Sonnino («un vecchio e un leguleio, due disgraziati a cui non intendiamo concedere alcuna solidarietà»), e acriticamente favorevoli alla diplomazia wilsoniana e all’atteggiamento francese, contrabbandato come «posizione di potenza direttrice e protettrice dei popoli sorti a libertà dallo sfacelo della Monarchia d’Asburgo»: La camicia di nesso, 3 maggio 1919, «L’U-
246
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
l’elemento principale della difficoltà nazionale di vivere la condizione italiana (e il tanto auspicato ma poi mancato ruolo di grande potenza) ed ebbe un suo ruolo determinante nella congiuntura politica immediatamente successiva, accelerando la crisi dello Stato liberale e determinando l’avvento del regime fascista. Levato il tavolo della conferenza di Versailles, tirate le somme di quegli accordi, «molti italiani ebbero l’impressione che tutti gli sforzi compiuti durante la guerra fossero misconosciuti e cominciò a circolare una espressione molto significativa: «la vittoria mutilata»38. La propaganda nazionalista e poi fascista ebbe facile partita, quindi, a eccitare il risentimento su questo punto, a propagarlo dagli studenti e dagli ufficiali appena tornati dal fronte nei più diversi settori della società. E miglior gioco avrebbe avuto D’Annunzio a lanciare e a diffondere la sua imprecazione contro «l’Italia incaporettata che misura e riconosce la convenienza del suo Governo dalla rotondità più adatta a ricevere i calci dei nuovi padroni»39, a riprenderla poi, quasi alla vigilia del nuovo conflitto mondiale, ricordando lo smisurato e generoso tributo del sangue italiano, decisivo per piegare le sorti della guerra a favore dell’Intesa, mal ripagato dalla cattiva fede dei nostri cobelligeranti. Eppure, l’accostamento tra gli «interventisti d’ordine» del 1915 e il nazional-populismo dannunziano e poi mussoliniano non poteva essere definito come un evento determinato soltanto dalla «force des choses». Occorre, infatti, ricordare che, già nell’agosto del 1914, Alberto Caroncini aveva insistito sulla necessità di una conquista militare di Pola, Sebenico, Cattaro, Vallona al fine di bloccare l’avanzata slava verso uno sbocco marittimo, che sarebbe stata non «una vittoria sull’Austria», ma «una sconfitta nostra»40. Nell’ottobre di quello stesso anno, sempre Caroncini, ribatteva questi assunti, parlando di una «guerra di conquista, o meglio di riconquista» dell’Istria e della Dalmazia, che avrebbe dovuto dar luogo a una «colonizzazione con scopi nazionali», simile a quella perseguita dalla Prussia verso i polacchi delle province orientali, unicamente ma pienamente giustificata dalla «superiorità schiacciante dei conquistatori»41. Nel giugno del 1915, il leader dei nazionali libenità»; Cinque domande, ivi, 17 maggio 1919; I nodi al pettine, ivi, 25 maggio-1 giugno, 1919; Le cinque proteste, ivi, 25 maggio-1 giugno, 1919, ora in L’Unità di Gaetano Salvemini, cit., pp. 545 ss. 38 F. CHABOD, L’Italia contemporanea, 1918-1948, Torino, Einaudi, 1961, p. 24. 39 G. D’ANNUNZIO, Ordine del giorno ai Legionarii per la fine dell’anno 1919, 23 dicembre 1919, in ID., Italia e vita, Roma, presso la Fionda, 1920, p. 52. 40 A. CARONCINI, Guardiamo all’Adriatico, «L’Azione», 30 agosto 1914, p. 1-2. 41 ID., Italiani e Slavi nell’Adriatico, cit., p. 3. In questo punto, l’intervento di Caroncini riprendeva le tesi del volume di V. GAYDA, L’Italia d’oltre confine. Le provincie italiane d’Austria, cit.
DOPO LA VITTORIA
247
rali, collegava questione adriatica e questione meridionale, sostenendo che lo «sviluppo economico dei mercanti di olio e di bestiame, dei braccianti e dei falciatori» della Puglia poteva essere reso possibile a patto di liberare l’Adriatico dalla «pirateria dei nuovi Uscocchi», aggiungendo inoltre che il litorale italiano di quel mare poteva essere difeso solo «dalla sponda dalmata, dalle colonie latine e italiche che la sapienza di Roma e di Venezia vi piantò»42. Un motivo, questo, che ritornava anche in Volpe, nel gennaio del 1919, quando ipotizzava, a sollievo dei mali e dell’arretratezza del Mezzogiorno, il rinnovamento della spinta espansionistica e commerciale verso l’Adriatico e l’Oriente, per imboccare ancora, dopo un intervallo secolare, «la vecchia strada delle genti italiane», ora resa sgombra e libera da quelle che avrebbero dovuto essere le nuove acquisizioni territoriali43. 2. L’acrimonia e lo spirito di revanche per il buon esito della prova bellica, umiliato dall’avarizia degli alleati, non facevano quindi che ingigantire una sensibilità, già ben radicata prima dell’inizio del conflitto. Questi sentimenti erano, per altro, comuni a buona parte dello schieramento politico liberale44. Né erano estranei a molti esponenti del fronte intellettuale. Croce, che già nell’ottobre del 1918 prevedeva che «le teorie della giustizia, le quali abbiamo tanto gridato» avrebbero nuociuto all’Italia nelle future trattative di pace45, avrebbe poi espresso le più ampie riserve sul voler trasportare di peso «nella vita internazionale quel meccanismo ideale di eguaglianza, che non si è riuscito mai, nonché di attuare, nella vita stessa dei singoli Stati»46. Gentile, inflessibile critico del pacifismo wilsoniano e risolutamente contrario ai principi ispiratori della Società delle nazioni47, aveva sostenuto che il pos-
42 A. CARONCINI, Le prime cannonate, «Il Resto del Carlino», 25 giugno 1915, in ID., Problemi di politica nazionale, cit., pp. 280 ss. 43 G. VOLPE, Nord e sud, cit., pp. 191-192. 44 R. VIVARELLI, Luigi Luzzatti e la crisi dello Stato liberale, in Luigi Luzzatti e il suo tempo, a cura di P.L. Ballini e P. Pecorari, Venezia, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, 1994, pp. 181 ss., in particolare pp. 192 ss. 45 Benedetto Croce a Giovanni Gentile, 7 ottobre 1918, in ID., Lettere a Giovanni Gentile, 1896-1924, a cura di A. Croce. Introduzione di G. Sasso, Milano, Mondadori, 1981, p. 567. 46 B. CROCE, La Società delle Nazioni. Intervista concessa a «Il Tempo» di Roma, 17 gennaio 1919, in ID., Pagine sulla guerra, cit., pp. 296 ss.; G. GENTILE, La Società delle Nazioni. Intervista concessa a il «Tempo» di Roma, 26 gennaio 1919, in Guerra e Fede, cit., pp. 371 ss. 47 G. GENTILE, La filosofia di Wilson, in ID., Dopo la vittoria, cit., pp. 120 ss.; ID., La Società delle Nazioni. Intervista concessa a «Il Tempo» di Roma, 26 gennaio 1919, in ID., Guerra e Fede, cit., pp. 371 ss.
248
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
sesso delle rive orientali dell’Adriatico era ampiamente giustificato anche dalle soli ragioni «dell’utile e della difesa»48. Omodeo, infine, considerava la sconfitta diplomatica di Versailles come la catastrofe delle aspirazioni del «partito nazionale», nella quale era possibile scorgere la longa manus di Giolitti49. Lo stesso Ojetti, che pure insieme ad Amendola e a Borgese, aveva fornito i motivi ispiratori alla campagna contro le pretese italiane sulla Dalmazia intrapresa dal quotidiano di Luigi Albertini50, irrideva alle virtù taumaturgiche della diplomazia di Wilson («tiranno assoluto o dio; mistero, fra incenso e genuflessioni, di là dall’oceano, di là dal cielo»)51, la cui «correttezza politica» forniva un incoraggiamento ad alleati, sicuramente ostili, per perseguire un’opera di diminuzione dell’Italia nel concerto europeo52. Volpe, prima di ogni altro, aveva anticipato la sua polemica contro il wilsonismo, nei suoi articoli di propaganda redatti per il Servizio P, nei quali si invitava a non sottovalutare, anche dopo l’intervento statunitense, lo sforzo militare dell’Intesa che restava il coefficiente decisivo della vittoria53, e dove soprattutto si metteva nuovamente in guardia contro la «grande illusione» della «guerra democratica» madre di una futura «pace universale» europea e mondiale Dunque la guerra è stata e sarà anche pace. Guerra, pacifista, come anche guerra democratica. Ma se altri intende con maggiore assolutezza questa parentela, fra la pace di domani e la guerra d’oggi, allora è un altro paio di maniche. Si entra in materia di fede, e la fede non si discute. Certo nulla oggi lascia intravedere che siasi scoperto l’antidoto alla guerra, lo specifico che dovrà togliere vigore al virus bellico dell’umanità. Nessuna delle grandi forze che nel passato hanno provocato alla guerra pare che sia scomparsa, o stia per scomparire, tolta di circolazione dai nuovi eventi o dalla volontà degli uomini. Anche la democrazia a venire, quando avesse cessato di essere partito d’opposizione a classi e istituti oggi dominanti, non è detto che sarebbe incondizionatamente pacifista nei rapporti internazionali: dato che, per affermazione anche di socia-
48 ID., Equivoci e profezie, in «Il Resto del Carlino», 2 ottobre 1918, ivi, pp. 330 ss. 49 A. OMODEO, Lettere, cit., pp. 325, 347, 362, dove era forte la polemica contro la
«doppiezza» degli alleati. 50 G.A. BORGESE, Golia. Marcia del fascismo, Milano, Mondadori, 1946, pp. 142 ss. 51 U. OJETTI, Lettere alla moglie, cit. p. 607, alla data del 13 ottobre 1918. 52 Ivi, p. 626, alla data del 29 ottobre. 53 G. VOLPE, Wilson, Wilson, Wilson! America, America, America!, in «Saluto», 1 gennaio 1919, poi in ID., Per la storia dell’VIII Armata, cit., pp. 199 ss. Sul guardingo favore con cui Volpe aveva accolto la presa d’armi americana, si veda ID., L’intervento americano, 21 settembre 1918, ivi, pp. 93 ss., in particolare p. 97: «L’aiuto americano deve essere inteso per quello che esso può essere ed è: cioè, appunto, come un aiuto. Gli Americani collaboreranno ad un’opera il cui peso maggiore grava, per forza di cose, su le spalle nostre, cioè degli Italiani in Italia, dei Francesi in Francia, degli Inglesi nel Belgio».
DOPO LA VITTORIA
249
listi genuini, nazioni e Stati e patrie, particolari e distinti, ci saranno sempre, con relativi contrasti di interessi ed urti violenti. I popoli e gli individui di domani apprezzeranno forse meno i beni di questo mondo, quei beni che si acquistano con la pace, quando basta la pace a procurarli, ma certo anche con la guerra, quando la guerra è, oppure gli uomini, la credono necessaria? Rinunceranno al desiderio o bisogno di aver colonie da sfruttare, mercati da controllare, materie prime da possedere sotto mano, concorrenze da escludere? Sarà tutto il mondo di domani liberamente aperto a tutti, senza mio e senza tuo, senza differenze fra primi e ed ultimi venuti, senza privilegi economici di chi ha il dominio politico, a danno di chi non lo ha? Si rassegneranno i popoli a che quelli fra essi che ora sono in alto rimangano in alto per l’eternità, quasi per un diritto acquisito (una nuova forma di legittimismo pacifista!); oppure aspetteranno tranquillamente che i crolli avvengano da sé, che le nuove gerarchie di nazioni si sostituiscano alle vecchie col pieno loro consenso, come una nuova ad una vecchia ditta, nella gestione di un’azienda? Oh placidi tramonti, oh belle albe radiose di popoli! Una concezione francescana di rinuncia sostituita a quella che significava concorrenza e lotta! E non più politica, specialmente. Poiché nessun dubbio che la guerra sia come una continuazione della politica, sia una cosa sola con la politica. Badate: non si vuole qui nulla affermare e nulla negare a priori di ciò che sarà il domani; non urtare altrui fedi, non togliere a chicchessia il piacere di fantasticare, di attendere il suo vagheggiato mondo, di interpretarne come crede i segni precursori. Si vuole solo dire, semplicemente, che, se si hanno, oggi, fra mano, delle questioni politiche da risolvere tra nazione e nazione, è bene attenersi alle esperienze recenti, alla pratica universale. E se un amico, per caso, ti suggerisce soluzioni ultraidealistiche, di quel certo idealismo che è fantasticamento, tu digli: abbi pazienza, aspetta ancora qualche giorno o qualche anno, poi vedremo…Intanto, prendo norma dalle tue azioni54.
A distanza di qualche decennio, Carl Schmitt avrebbe anch’egli ripreso e modificato il dictum di Von Clausewitz, sostenendo che la guerra «non è scopo o meta o anche contenuto della politica, ma ne è il presupposto, sempre presente come possibilità reale, che determina in modo particolare il pensiero e l’azione dell’uomo provocando così uno specifico comportamento politico»55. Ma già da ora, appena deposte le armi, nonostante il sovvertimento di antichi regimi e il ridimensionamen54 ID., Guerra pacifista, in «Saluto», 1 gennaio 1919, ivi, pp. 211-212. Sulla precoce opposizione di Volpe alla diplomazia democratica di Wilson, si veda la lettera di Fortunato Pintor del 30 ottobre 1919, cit.: «Dopo il “Mezzogiorno” di Giustino Fortunato, io non conosco altre pagine, di educazione politica, più sagge e più schiette, di queste tue: che potrebbero essere lette con profitto anche dai candidati: anche dai candidati “combattenti” a cui, quasi prevedendo (come vedesti giusto per Wilson) hai parlato così liberamente e degnamente». Il riferimento era al volume di Volpe, Per la storia dell’VIII Armata, cit. 55 C. SCHMITT, Il concetto del politico, in ID., Le categorie del “politico”. Saggi di teoria politica, a cura di G. Miglio e P. Schiera, Il Mulino, Bologna, 1972, p. 117. Il saggio citato è del 1932.
250
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
to di vetuste formazioni politiche, non era difficile presupporre, aggiungeva Volpe, in un altro intervento del 1919, che il futuro avrebbe visto ancora slavi e tedeschi premere minacciosamente sui malcerti antemurali orientali, per irrompere verso Mezzogiorno («terra promessa degli uomini forniti di istinti predatori e avventurieri»), per puntare «verso l’Adriatico e l’Italia», perseguendo una tendenza espansionistica, «così antica e ininterrotta, da apparir quasi come rispondente a una ferrea necessità di natura: tale che non si lascerà influenzare da nessun effimero o sostanziale mutamento in senso democratico e repubblicano»56. Sarebbe toccato, in ogni caso, ad Arrigo Solmi, un altro esponente dei Gruppi Nazionali Liberali, che si erano ricostituiti, come meglio vedremo, nel settembre del 1919, a trarre tutte le conseguenze di questa situazione, in un opuscolo edito nell’anno successivo, significativamente intitolato L’Adriatico e il problema nazionale, sul cui retro di copertina campeggiava lo slogan, «Italiani! Difendete l’Adriatico», e i cui contenuti in poco o nulla si differenziavano dai coevi interventi parlamentari dello schieramento nazionalista57. Nel breve scritto, edito nella «Biblioteca di propaganda del Gruppo Nazionale Liberale», poi ristampato dal Comitato «Pro Adriatico» dell’Ani, Solmi tornava a considerare il problema della Dalmazia, «come il problema assillante e angoscioso dell’Italia Combattente e Vittoriosa» e alla stregua del «principale ostacolo al raggiungimento della pace e dei frutti del successo militare». Ridotta ad un semplice fattore linguistico la presunta connotazione etnica slava della maggioranza delle popolazioni della Dalmazia, che avrebbero invece tratto le loro origini da un «antico fondo illiro-dalmata che non si confonde con l’elemento slavo»58, quella terra appariva, per Solmi, «psicologicamente e storicamente italiana», a partire dal suo antico status di «provincia latina dell’Impero romano d’Occidente»59. Tutti elementi, questi, necessari a giustificare l’annessione italiana di quella marca adriatica, che inoltre la nuova configurazione politica del continente, determinata dal conflitto, rendevano urgenti e sufficienti. La questione dell’Adriatico non verte soltanto sull’assegnazione di una piccola parte di territorio, necessaria al compimento dell’unità nazionale e alla
56 G. VOLPE, Moniti. I. Non dormire, in ID., Per la storia dell’VIII Armata, cit. pp. 216 ss., in particolare p. 220. 57 L. FEDERZONI, Dopo San Germano. Discorso pronunciato nella tornata parlamentare del 9 agosto 1920, in ID., Il Trattato di Rapallo, cit., pp. 93 ss. 58 A. SOLMI, L’Adriatico e il problema nazionale, s. l., Biblioteca di propaganda del Gruppo Nazionale Liberale. Ristampa a cura dell’Associazione Nazionalista Italiana-Comitato “Pro Adriatico”, 1920, pp. 18 ss. 59 Ivi, pp. 26 ss.
DOPO LA VITTORIA
251
difesa strategica del paese, ma investe un alto principio morale e politico. Si tratta di decidere se, non soltanto le piccole nazioni balcaniche, favorite dai nostri Alleati, ma anche l’Italia, che pure ha contribuito sanguinosamente alla vittoria, abbia il diritto di raggiungere le sue rivendicazioni nazionali, garantite da patti solenni; oppure, se, nonostante il contributo alla vittoria comune e la determinazione dei patti, l’Italia debba cedere al desiderio più o meno illegittimo dei nostri Alleati di ingrandire oltre misura una piccola nazione, che solo parzialmente ha aiutato la guerra e che rivela ambizioni imperialiste più sfrenate e più violente. Si tratta di decidere se l’Italia abbia guadagnato il diritto di dare compimento alla sua unità nazionale e di garantire sulle Alpi e sul mare la sua difesa strategica, oppure se, per quella improvvisa indulgenza verso un imperialismo straniero e forse nemico, l’Italia debba rimandare ad altro momento il raggiungimento delle sue aspirazioni nazionali e perdere sulle Alpi e sul mare la linea delle sue barriere naturali, obbligandosi a costosi armamenti e a rinunciare ad ogni libertà nella politica adriatica. È una questione di giustizia e di fedeltà ai patti, non soltanto una questione territoriale; e dalla soluzione di questa deve risultare se l’Italia meriti il trattamento di una nazione appena sopportata, cui si vuole chiudere quanto sia possibile le strade del suo avanzamento civile o se abbia meritato il premio di una elementare giustizia e di una pace sicura60.
Altri componenti del movimento politico in cui Solmi era tornato a militare – e Borgese, tra i primi, come si è visto – erano tuttavia sintonizzati su una diversa linea d’onda, nel tentativo di evitare alla componente liberale del nazionalismo l’abbraccio mortale con il sempre più incattivito revanscismo delle altre frange nazionaliste61, ormai vicinissime a stilare, almeno per la politica estera, un comune programma d’azione con il movimento fascista, pur tra titubanze e reciproci, radicati sospetti, che continuarono fino alla marcia su Roma62. I Gruppi Nazionali Liberali, scriveva Corrado Barbagallo nel 1920, «hanno fede profonda nella realtà storica e vitale della nazione, ma non sono dei nazionalisti nel senso corrente di questa parola». Essi non lo sono, continuava, «perché in economia si dichiarano decisamente antiprotezionisti e perché in politica sono fautori delle più larghe libertà comunali e provinciali, del più largo decentramento amministrativo, che essi invocano anche per le nuove contrade che la guerra ha fatto entrare nell’orbita del nostro Stato»63. Coerentemente a questo programma, Antonio Anzilotti pareva disposto a rinunciare a quella corsa italiana verso Oriente, pu-
60 Ivi, pp. 41-42. 61 A. ROCCUCCI, Roma capitale del nazionalismo, cit., pp. 293 ss. 62 F. GAETA, Il nazionalismo italiano, cit., pp. 219 ss. 63 C. BARBAGALLO, Note di vita politica. I Liberali-Nazionali, «La Sera», 8 settembre
1920.
252
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
re da lui preconizzata dopo Vittorio Veneto64, in cambio di una estesa decentralizzazione burocratica, nelle zone di frontiera, che avrebbe dovuto dar luogo a larghe deleghe di potere concesse alle minoranze slave e tedesche65. Questi convincimenti venivano ripresi da Anzilotti nell’opuscolo, Italiani e Jugoslavi nel Risorgimento, edito nelle edizioni della «Voce» nell’anno successivo66. In quelle pagine, veniva smontata la leggenda diffusa negli ambienti nazionalisti, secondo la quale la Jugoslavia sarebbe stata poco più che «una creazione politica artificiale e improvvisata della guerra europea». Risolutamente avverso a queste tesi, Anzilotti riconosceva, invece, la consistenza etnica e culturale della nuova formazione politica e dimostrava che l’esistenza della «nazionalità slava» era stata ampiamente riconosciuta dai maggiori interpreti del nostro Risorgimento. Erano conclusioni violentemente contestate da Giovanni Gentile67, e che certo non potevano convincere Volpe ormai disposto, proprio sul filo del risentimento per la guerra «malamente vinta», ad avvicinarsi al raggruppamento dei Fasci con la lettera aperta inviata al direttore del «Popolo d’Italia» nel novembre del 1920. Lettera di «compiacimento» e di «ringraziamento» per la battaglia sostenuta da quel quotidiano in favore della «restaurazione civile del paese», per il suo appoggio all’impresa di Fiume, più tardi considerata l’alba del risveglio nazionale nello squallido panorama del dopoguerra68. Ma soprattutto testimonianza di adesione al fascismo per la sua ferma tutela delle rivendicazioni nazionali tradite alla Conferenza di Parigi, alle quali il Trattato di Rapallo, sostanzialmente approvato da Mussolini ma ferocemente criticato dal nazionalista Federzoni69, aveva fornito, ora, qualche parziale e co64 Antonio Anzilotti a Giuseppe Prezzolini, 2 novembre 1918, in AGP. 65 G. SOFRI, Ritratto di uno storico: Antonio Anzilotti, cit., pp. 734 ss. 66 A. ANZILOTTI, Italiani e Jugoslavi nel Risorgimento, Roma, «La Voce», 1920. Il te-
sto rielaborava un precedente intervento di Anzilotti, pubblicato, insieme ai contributi di Prezzolini, Salvemini, Trumbic#, Arcangelo Ghislieri, nella raccolta Italia e Jugoslavia, Firenze, Vallecchi, 1918, pp. 29 ss. 67 G. GENTILE, Il problema adriatico. Da Tommaseo a Cavour, «Il Resto del Carlino», 27 agosto 1918, in ID., Guerra e fede, cit., pp. 323 ss. La polemica riguardava il contributo di Anzilotti, pubblicato in Italia e Jugoslavia, a cui si contrapponevano le conclusioni di A. TAMARO, La Dalmazia e il Risorgimento nazionale, in «Rassegna italiana», 1918, 8, pp. 12 ss. 68 G. VOLPE, Gabriele D’Annunzio, cit., pp. 79 ss. 69 L. FEDERZONI, Le rinunzie di Rapallo. Discorso pronunziato nella tornata parlamentare del 26 novembre 1920, in ID., Il Trattato di Rapallo, cit., pp. 133 ss., dove la polemica coinvolgeva direttamente Salvemini, «che è stato il teorizzatore e l’apostolo della politica adriatica che chiameremo nittiana…». Con quell’accordo diplomatico, l’Italia rinunciava alla Dalmazia, esclusa la città di Zara, a Fiume (che era eretta a Stato Libero), alle isole di Lagosta e Pelagosa, in cambio del pieno riconoscimento dei suoi diritti territoriali sull’Istria. Il Trattato, poi presentato come un capolavoro di abilità diplomatica, dall’allora ministro de-
DOPO LA VITTORIA
253
munque insufficiente soddisfazione, nonostante l’atteggiamento disfattista di alcuni organi di stampa e di una parte della pubblica opinione. Rimarrà a vanto del “Popolo” aver fedelmente, dal primo giorno all’ultimo, fiancheggiato Fiume e Gabriele d’Annunzio e i suoi legionari. Di questa fedeltà è stato premiato. Oggi, assicurata la salvezza dell’Istria e di Fiume, può esaltare il poeta-soldato con assai maggiore coerenza di chi fino a ieri lo ha vituperato e offeso. Più in generale, tutti debbono riconoscere che voi avete potentemente aiutato, con l’opera quotidiana, a che non andasse perduta nello scontento, nella delusione, l’anima di tanti combattenti. Molti debbono a voi se non si sono del tutto smarriti nel caos ideologico del dopo guerra ed hanno potuto consolidarsi quel tanto di virile coscienza che dovrebbe essere di un popolo uscito onorevolmente da una grande prova. Se ai nostri egregi alleati è stato più di una volta detto il fatto loro, questo lo dobbiamo, qui a Milano, quasi solo al “Popolo d’Italia”. Gli altri hanno calzato, per la bisogna, i loro più morbidi guanti, riservando le manopole di ferro per i veri o presunti “imperialisti” o “nazionalisti”, italiani, per chiunque non fosse disposto ad ammettere che l’Italia si dovesse dissanguarla e impoverirla per la nebulosa wilsoniana o per la “giustizia”… degli altri70.
Da questo momento, e poi nel prossimo e più lontano futuro, Volpe, che intanto aveva ricevuto un alto riconoscimento per il suo impegno sulla linea del fronte, durante l’offensiva dell’ottobre 191871, avrebbe sempre considerato il movimento fascista come il solo garante della possibilità di acquisire per l’Italia uno status se non egemonico, almeno non di semplice subordinazione, nel concerto internazionale. Questa fiducia nelle capacità di Mussolini di personificare il «master and commander» della nuova Italia, impegnata a continuare attivamente il suo confronto con vecchie potenze e nuovi Stati, costituiva il nocciolo duro di tutte le sue successive prese di posizione politiche, dove, fatto salvo il riconoscimento al fascismo di aver promosso la sacrosanta rea-
gli Esteri, Carlo Sforza, era stato duramente contestato da larghi settori del mondo politico e intellettuale italiano, di orientamento nazionalista ma anche liberale. Sul punto rispettivamente, C. SFORZA, L’Italia dal 1914 al 1944. Quale io la vidi, Roma, Mondadori, 1944, p. 89 ss.; B. BRACCO, Carlo Sforza e la questione adriatica. Politica estera e opinione pubblica nell’ultimo governo Giolitti, Milano, Unicopli, 1998, pp. 101 ss. 70 G. VOLPE, Per la nuova Italia. Lettera aperta a Benito Mussolini, «Popolo d’Italia», 21 novembre 1920, ora in ID., Fra storia e politica, cit., pp. 241-242. 71 Con Regio Decreto del 30 novembre 1919 (conservato in CV), lo storico veniva insignito della medaglia d’argento, con questa motivazione: «Dopo aver contribuito efficacemente alla preparazione dell’offensiva diffondendo fra i giovani ufficiali sane idee ed elevandone lo spirito combattivo, nelle notti del passaggio del Piave, si trattenne lungamente sotto i ponti sotto il fuoco nemico, continuando l’opera sua per infiammare con la parola l’entusiasmo dei soldati. Piave (Montello), 26-29 ottobre 1918».
254
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
zione borghese contro la sedizione socialista, si insisteva essenzialmente sulla capacità del nuovo gruppo politico ad assicurare una ferma gestione della politica estera. Nel giugno del 1921, Volpe sosteneva che i Fasci si identificavano originalmente, tra tutte le altre formazioni politiche, per la consapevolezza della necessità «di serrare le file del popolo italiano, di raccogliere attorno all’insegna della patria gli Italiani dispersi per il mondo, di organizzare il fronte unico della nazione nei rapporti col di fuori, agli scopi di una pacifica espansione e affermazione: pacifica, ma, è ovvio, consapevole, anche, che, nel grembo di Giove, c’è, con la pace, anche la guerra»72. Su questa stessa linea, già nel 1920, il capo del fascismo aveva proclamato che, dovendo essere «il popolo italiano necessariamente espansionista», «il nostro imperialismo» non poteva che essere di necessità «romano, latino, mediterraneo»73. Sul filo di queste affermazioni, sarebbe nato, negli anni a venire, la leggenda di Mussolini, legittimo erede della «passione mediterranea» del vecchio Crispi, come più tardi Volpe e molti si affannarono a ripetere74, dando corpo storiografico e più spesso pseudostoriografico a un paragone, assai gradito al figlio del fabbro di Predappio, che, nel 1921, aveva considerato lo statista siciliano come il solo uomo politico che «seppe proiettare l’Italia nel Mediterraneo con anima e pensiero imperialistico» e che fu in grado di assicurare nuova linfa a un programma di crescita della nazione fuori dei suoi confini che, come nel passato, doveva tornare a essere non tanto e soltanto conquista di territori, quanto «imperialismo economico di espansione commerciale»75. Ma su questo mito pesava soprattutto la recentissima esperienza della guerra guerreggiata, quando il tradizionale quadro di riferimento politico interno apparve inadeguato alla nuova
72 G. VOLPE, Consensi e dissensi, «Popolo d’Italia», 7 giugno 1921, ora in ID., Fra storia e politica, cit., p. 253. 73 B. MUSSOLINI, Discorso per la seconda adunata fascista, in «Il Fascio», 29 maggio 1920, citato da A. Del Boca, L’Impero, in I luoghi della memoria. Simboli e miti dell’Italia unita, a cura di M. Isnenghi, Roma-Bari, Laterza, 1998, pp. 419 ss. 74 G. VOLPE, Francesco Crispi, Venezia, La Nuova Italia, 1928, pp. 31 ss.; F. CHABOD, Lineamenti della concezione politica di Francesco Crispi, in «Annuario del R. Istituto tecnico di Piacenza», 1927-1928, pp. 1-4. Per un tipico esempio della retorica fascista, sullo stesso tema, G. POLICASTRO, Crispi e Mussolini, s. l., Mussoliniana-Paladino Editore, 1928. Sul punto, l’ampia rassegna di F. BONINI, Francesco Crispi e l’unità. Da un progetto di governo ad un ambiguo “mito” politico, Roma, Bulzoni, 1997, pp. 181 ss. Sulla più precoce apologia di Crispi nella pubblicistica nazionalista del primo dopoguerra, R. BRACCO, Storici italiani e politica estera, cit., pp. 168 ss. 75 B. MUSSOLINI, Discorso all’Augusteo, 7 novembre 1921, in ID., Scritti e discorsi, cit., II, pp. 201-202. Più ampiamente sul tema, ID., Francesco Crispi. Discorso per l’inaugurazione della lapide a Francesco Crispi, eretta in Roma il 12 gennaio 1924, ivi, IV, pp. 13 ss.
DOPO LA VITTORIA
255
congiuntura, tanto da lasciar presupporre che il vecchio regime parlamentare, inabile a guidare la nazione in armi, dovesse essere sostituito da un’autorità integralmente sovrana, almeno provvisoriamente legibus soluta. Se «nell’Italia democratica e parlamentare», avrebbe scritto più tardi Volpe, «sotto l’azione anche del positivismo e materialismo storico che riconosceva solo la virtù dell’ambiente, era venuto a mancare, insieme con gli uomini che fossero vere e alte personalità, anche il senso e l’apprezzamento delle personalità», durante il conflitto, «questo senso e apprezzamento accennava a ricostituirsi, e gli Italiani, non trovando un capo, un vero capo, fra i politici, lo cercavano altrove, lo trovarono in Cadorna»76. All’ombra di Cadorna, al cui operato pure Volpe non avrebbe risparmiato anche critiche non marginali in sede di giudizio storico77, cresceva tuttavia un’altra figura, che sembrava in grado di meglio costituire «dopo Dio, il più necessario punto d’appoggio», allorché «un paese è impegnato in uno sforzo mortale», per la sua capacità di rappresentate una «più organica concezione del governo di un paese in guerra»78. Il rapporto tra Volpe e il futuro Duce del fascismo iniziava infatti nel tragico autunno del 1917, come lo storico avrebbe ricordato proprio a Mussolini nell’agosto del 1924. Uno stupido incidente mi ha impedito ieri di muovermi di qui, dalla campagna dove mi trovo a riposare e a lavorare, e di recarmi alla piccola adunanza di Predappio, dove erano idealmente invitati tutti gli amici vostri, in ispecie di Romagna. E mi ha impedito anche di telegrafare in tempo. Poco male per l’adunata; molto dispiacere per me. Ma Voi vogliatemi credere se vi dico che sono stato tutta la giornata lassù in spirito e mi è parso di vedere quei luoghi a Voi cari e cari ormai a tutti noi. Pensavo poteste esservi anche Voi. Invece no! E questo ha addolcito il mio rammarico. Ormai non accade più facilmente d’incontrarvi, fuori delle strettoie ufficiali, e parlare liberamente, come qualche volta ricordo aver fatto nella redazione del Popolo d’Italia, cominciando da un giorno memorabile, poco dopo Caporetto, quando, ignoto a voi, venni a cercarvi. E non sapevo neppure perché! Ma in quei momenti, ovunque si vedeva una speranza, lì ci volgevamo quasi per istinto!79
Lo stesso Mussolini avrebbe testimoniato come quel sentimento di fiducia nei suoi confronti si era consolidato, tra 1919 e 1920, ed esteso ai molti intellettuali (da Gentile, ad Alceste De Ambris, a Maffeo Pan76 G. VOLPE, Il popolo italiano nella Grande Guerra , cit., p. 170. 77 Ivi, p. 190. 78 Ivi, pp. 171 e 205. 79 Gioacchino Volpe a Benito Mussolini, S. Arcangelo di Romagna, 31 agosto 1924, in
ACS, Segreteria particolare del Duce, Carteggio riservato, (1922-1943), fasc. W/R, «Volpe Gioacchino», sottof. I., b 97, d’ora in poi, SPD.
256
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
taleoni), fermamente intenzionati a opporsi con ogni mezzo al «clan dei rinunciatari» (Bissolati, Borgese, Albertini, Amendola), e fortemente convinti che persino «l’Italia di Nitti, che era poi l’Italia di Giolitti, fosse legittimamente chiamata a portare i propri confini nord-orientali a livelli di politica accettabilità»80. Di lì a qualche anno soltanto, Carlo Delcroix, fervente interventista, eroe della Marmolada, rimasto gravemente mutilato nel 1917, avrebbe evocato l’immagine di Zara «santuario in Terra Santa», che domandava alla nuova Italia «libertà per tutta la Dalmazia»81, sancendo definitivamente il connubio tra reducismo, combattentismo e fascismo. Eppure, quella tra Mussolini, il «vario nazionalismo» italiano, e soprattutto le sue correnti liberali, era un’unione in gran parte non naturale. Non certamente un’organica fusione, a differenza di quanto avrebbe sostenuto Salvatorelli con un giudizio estemporaneo, che sarebbe poi divenuto infrangibile vulgata storiografica82, nel quale si tracciava questo quadro dell’evoluzione politica italiana dal 1915 al 1922. L’atteggiamento demagogico, con cui il nazionalismo si era presentato nell’agone politico, non era puro espediente pratico ed occasionale, ma rispondeva invece al suo carattere più profondo. I nazionalisti erano essenzialmente una piccola minoranza, ben decisa a divenire padrona, ad ogni costo, della vita pubblica, violentando la resistenza passiva della maggioranza. Occorreva a loro, per questo, la sospensione dei rapporti politici normali, la lotta rivoltosa, il colpo di mano a danno dei poteri costituiti. Ed ecco, la propaganda per la guerra intesista fornire loro l’occasione di tutto questo: l’occasione di scendere in piazza, di esautorare il parlamento, di dominare il governo, di stabilire insomma la loro dittatura, a favore della propria forza politica e di quegli interessi economici di cui erano aperti sostenitori. La rivoluzione reazionaria e plutocratica: ecco quello che offriva la guerra al nazionalismo italiano. Tuttavia, da solo esso non bastava all’impresa. Minoranza, cercò altre minoranze, decise come lui, a prepotere. Trovò i repubblicani, ben lieti di rispolverare, dopo cinquant’anni di oblio, il programma del “partito d’azione”: i sindacalisti-anarchici della settimana rossa; i veri transfughi del socialismo, che avevano bisogno di qualche altra cosa per far loro fortuna; quei radicali che, impazienti di non essere stati prescelti da Giovanni Giolitti, volevano gustare la torta del potere, e servire, in80 Y. DE BEGNAC, Taccuini mussoliniani, a cura di F. Perfetti, con una Prefazione di R. De Felice, Bologna, Il Mulino, 1990, pp. 68 ss. 81 C. DELCROIX, Guerra di popolo, Firenze, Vallecchi, 1923, p. 332. 82 S. LUPO, Il fascismo. La politica in un regime totalitario, Roma, Donzelli, 2000, pp. 125 ss.; A. D’ORSI, I chierici alla guerra. La seduzione bellica sugli intellettuali da Adua a Bagdad, Torino, Bollati Boringhieri, 2005, pp. 113 ss. Diversamente e nella giusta prospettiva, si veda, invece, F. Perfetti, Il nazionalismo italiano dalle origini alla fusione col fascismo, cit., pp. 5 ss. Sullo stesso punto, J. DE GRAND, The Italian Nationalist Association and the Rise of Fascism in Italy, Lincoln, University of Nebraska Press, 1978.
DOPO LA VITTORIA
257
sieme, il Grande Oriente francese. Tutti costoro si trovarono, si squadrarono, si pesarono, conclusero che si poteva mettersi insieme per l’unica vera rivoluzione che valesse la pena di fare: la conquista del potere. E così dal nazionalismo nacque il nazional-fascismo, che nelle giornate del maggio radioso seppe persuadere il paese, piegare il parlamento. Fra un nazionalismo più vero e maggiore, che, sublimando la sua intima essenza, si spogliava di tutte le scorie. Fra la sottomissione del parlamento, la messa in disponibilità della costituzione, la dittatura militare e poliziesca, e, dietro tutto questo, “la marcia dei produttori”83.
La categoria di «nazionalfascismo», proposta per la prima volta in questo intervento del maggio 1923, pubblicato su «Rivoluzione liberale», era tuttavia, come emerse nel dibattito immediatamente successivo alla sua formulazione, troppo ampia, da un lato, e, dall’altro, troppo ristretta, inadatta in generale e inadeguata nel particolare per definire un fenomeno ben altrimenti complesso. Troppo ampia perché rischiava di includere nella definizione di «sovversismo conservatore» tutto il movimento interventista, anche nella sua corrente democratica, come a Salvatorelli rimproverava un articolo pubblicato sulla rivista di Gobetti, dove si sosteneva che «il parlare con tanto altezzoso disprezzo di tutti coloro che hanno riconosciuto la necessità della guerra è stata una delle cause che più hanno legittimato la reazione fascista post-bellica, e l’attribuire al nazionalismo una parte direttiva e di gran lunga predominante nel proclamare quella necessità giustifica il monopolio che il fascismo si è assunto del merito della guerra vittoriosa»84. Troppo ristretta, secondo il giudizio di Attilio Monti, anch’esso apparso sul periodico torinese, che poneva l’accento anche sul vasto fenomeno del «neutralismo nazionale e costituzionale» non socialista, capeggiato da Giolitti e da Croce, che poi sarebbe largamente confluito nel movimento fascista, soprattutto per quelle sue componenti che derivavano da «una nuova borghesia dedita al piccolo e medio commercio, alla piccola industria e all’agricoltura»85. Inoltre quella categoria era inadatta per definire il nazio-
83 L. SALVATORELLI, Lineamenti del Nazionalfascismo, in «La Rivoluzione liberale», II, 1923, 12, pp. 49-50. Si veda anche, ID., Politica estera e politica interna, ivi, II, 1923, 16, p. 65. 84 Un unitario [G. PERELLI], L’interventismo, ivi, 1923, 14, pp. 60-61, dove era anche contenuta la replica di Salvatorelli: «Non il fatto dell’intervento, e tanto meno la convinzione di “chi ha accettato la guerra come un tragico dovere”, ma l’incremento e la trasformazione del nazionalismo e la nascita del fascismo nell’ambiente della campagna interventista erano oggetto del mio studio […] La guerra è una cosa; le “radiose giornate” sono un’altra. E la connessione fra le “radiose giornate” e il fascismo, sino alla marcia su Roma compresa, non l’ho certo inventata io, anche se io sono stato uno dei primi a riconoscerla e proclamarla». 85 A. MONTI, Interventismo-Neutralismo e Fascismo, ivi, II, 1923, 33, pp. 135-136. A conclusioni assai simili era pervenuto G. ANSALDO, La piccola borghesia, ivi, II, 1923, 18,
258
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
nalismo vero e proprio, che proprio in quegli stessi anni, si sforzava di mantenere la sua identità nei confronti del fascismo, con una serie di ben articolate prese di posizione, che insistevano, se non altro, sul carattere di indiscusso lealismo monarchico del primo e sulla permanenza nel secondo di «troppi residui di concetti e di idee e di presupposti democratici e liberali, da un lato, e socialisti, dall’altro»86. Questi presupposti venivano a confliggere, come avrebbe evidenziato non solo Federzoni87, ma anche Salvemini, con il carattere di forza autenticamente autoritaria e conservatrice del nazionalismo (evidente soprattutto per la sua base di reclutamento sociale), se paragonato a quello eversivo e rivoluzionario del movimento dei Fasci, che si sarebbe conservato come tale almeno fino al 1922. Il movimento fascista non fu un movimento di difesa contro i frutti rivoluzionari della guerra, ma fu esso stesso un frutto rivoluzionario; senza dubbio Mussolini combatté contro i socialisti e i comunisti, ma anche gli anarchici combatterono contro di loro, e persino i comunisti furono continuamente in conflitto con i socialisti, per quanto sino alla fine del 1920 siano stati nello stesso partito. Queste non erano lotte di conservatori e rivoluzionari, ma tra uomini che sostenevano di essere uno più rivoluzionario dell’altro. Il solo gruppo politico che in quegli anni ebbe il coraggio di dichiararsi completamente conservatore e antirivoluzionario, sostenendo apertamente la repressione, fu il partito nazionalista. Gli intellettuali delle classi abbienti e gli ufficiali dell’esercito regolare, che si occupavano di politica, non aderirono al movimento fascista ma al movimento nazionalista; allora nessuno avrebbe sospettato che un giorno Mussolini sarebbe diventato il capo di un partito le cui idee erano prese quasi tutte dal nazionalismo. Che cosa ci poteva essere in comune tra la grave e pedante dottrina autoritaria dei nazionalisti e gli sbrigativi clamori di Mussolini? A quel tempo l’abisso che si apriva tra i nazionalisti e i fascisti appariva incolmabile88.
Infine, la tipologia inaugurata da Salvatorelli appariva inadeguata a comprendere l’evoluzione della corrente liberal-nazionalista, che aveva sì perso gran parte delle sue specificità durante gli anni del conflitto, ma non fino al punto di annichilire definitivamente la sua identità originaria. A questo riguardo estremamente significativo risultava il tenore della collaborazione alla rivista «Politica», fondata nel dicembre del
p. 75. Chiudeva la polemica, L. SALVATORELLI, Risposta ai critici di Nazionalfascismo, ivi, II, 1923, 35, p. 143. 86 F. ERCOLE, Lettera aperta al Direttore dell’“Idea Nazionale”, 20 dicembre 1921, in F. PERFETTI, Il nazionalismo italiano dalle origini alla fusione col fascismo, cit., pp. 267 ss. 87 L. FEDERZONI, Italia di ieri, cit, pp. 15-16. 88 G. SALVEMINI, “Lezioni di Harvard”, cit., p. 461.
DOPO LA VITTORIA
259
1918 da Francesco Coppola e Alfredo Rocco, da parte di uomini come Volpe, Gentile, lo stesso Croce, che definiva «utilissima» la campagna che il periodico intraprendeva «in un momento in cui gli ideologi democratici operano da veri (e quel che è peggio inconsapevoli) traditori d’Italia»89. In nessuno dei loro interventi, si trovava infatti un’organica adesione al patrimonio culturale del nazionalismo, a cui il foglio di stampa si ispirava, che poi si sarebbe in parte travasato nella dottrina fascista: dalla proposta di un’organica teoria imperialista, all’organizzazione corporativa dell’economia e della società, alla polemica intransigente contro la concezione liberale dello Stato90, che toccava punte di inaudita veemenza già nel manifesto programmatico di «Politica»91, e attraverso la quale Rocco avrebbe giustificato la convergenza assoluta tra nazionalismo e fascismo, fino a parlare di un «fascismo nazionalista», nel quale «lo stesso carattere eminentemente nazionale della sua funzione pratica» aveva eliminato «le originarie scorie pseudo-rivoluzionarie e pseudo-democratiche»92. Né alcuna affinità sistematica è possibile riscontrare tra i contenuti delle prose di guerra e di dopoguerra di questi intellettuali di estrazione liberale e il «nazionalismo proletario» (e non più soltanto populistico, come quello di Corradini), presente nei «discorsi fiumani» di D’Annunzio, che si faceva alfiere della lotta delle «nazioni povere e impoverite» contro «l’impero vorace che s’è impadronito della Persia, della Mesopotamia, della nuova Arabia, di gran parte dell’Africa», bandendo una crociata che doveva congiungere «l’indomito Sinn Fein irlandese alla bandiera rossa che in Egitto unisce la Mezzaluna e la Croce, a tutte le insurrezioni dello spirito contro i divoratori di carne cruda e gli smungitori di popoli inermi»93, aggiungendo poi, come monito e presagio, che «la novità di vita non è a Odessa è a Fiume; non è sul Mar Nero è sul Carnaro»94. Su questo punto, in particolare, vanno attentamente valutate le divergenze e le convergenze politiche, attive in questo momento, anche 89 Benedetto Croce a Guido De Ruggiero, 29 novembre 1918, in B. CROCE, Epistolario I. Scelta di lettere curata dall’autore, 1914-1935, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi storici, 1967, p. 32. Sul punto, R. PERTICI, Croce e il “vario nazionalismo” post-bellico, 1918-1921, in Studi per Marcello Gigante, a cura di S. Palmieri, Bologna, Il Mulino, 2003, pp. 575 ss. 90 A.J. GREGOR, Mussolini’s Intellectuals. Fascist Social and Political Thought, Princeton-Oxford, Princeton University Press, 2005, soprattutto ai capitoli II e III dedicati ad Enrico Corradini e Alfredo Rocco. 91 Manifesto, in «Politica», I, 15 novembre 1918, 1, pp. 1 ss., ora riprodotto in Il nazionalismo italiano, a cura di F. Perfetti, cit., pp. 235 ss. 92 A. ROCCO, Il Fascismo verso il nazionalismo, «L’Idea Nazionale», 6 gennaio 1922, ora in ID., Scritti e discorsi politici, cit., II, pp. 693 ss. 93 G. D’ANNUNZIO, Italia e vita, 14 ottobre 1919, in ID., Italia e vita, cit., pp. 41-42. 94 ID., Ordine del giorno ai Legionarii, cit., p. 58.
260
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
per quello che riguarda Volpe, che pure aveva dimostrato, e più tardi dimostrerà, qualche non solo episodica simpatia per i temi di una politica estera che avrebbe dovuto risolversi nella lotta a coltello del «sangue contro l’oro». Dato, questo, che non autorizza però a ipotizzare un organico avvicinamento dello storico alla dottrina di Rocco e Corradini, sulla base della sua estemporanea collaborazione ad alcuni organi di stampa nazionalisti, tra 1918 e 192095. E dimostrava bene questa impossibilità l’editoriale di apertura, intitolato La vittoria nel pensiero dei suoi artefici, che appariva appunto sulle pagine de «L’Idea Nazionale» il 3 dicembre del 1918. Articolo che costituiva un «commento ai suoi ufficiali», firmato dal generale Enrico Caviglia, «che sfondò a Vittorio Veneto», ma che in realtà era redatto da Volpe come rivelava un lungo inciso che riprendeva il motivo ricorrente della guerra come fattore di civilizzazione, di progresso e persino di intesa tra i popoli96. Un contributo, questo, dove si affermava che il prevalere delle nostre armi, prima che nei frutti di una possibile espansione, andava valutato per la capacità di portare a compimento il difficile processo di «nascita della nazione» italiana, che, come era accaduto a tutti gli altri popoli europei, aveva avuto bisogno del battesimo del fuoco, del sudore, delle lacrime che precedono ogni guerra vittoriosa. Una vittoria interna soprattutto «morale», e non soltanto una vittoria contro l’avversario esterno, quella era stata la «prima vittoria» dell’«Italia in cammino» nella storia d’Europa e in quella del mondo. L’animo nostro è afferrato da una commozione profonda. Questa di oggi non è soltanto la vittoria di un esercito contro un altro esercito. Non è solo la cacciata di un vecchio nemico della nostra gente. Ma è il felice esito di una grande prova del popolo italiano, della prima grande prova, del primo grande sforzo collettivo che la nazione italiana abbia mai compiuto. Vi ha impegnato tutte le sue risorse. Vi ha saggiato sull’incudine tutte le sue forze di resistenza. Ha mostrato a tutti le buone qualità di fondo, sotto quel tanto di schiuma sudicia, che più o meno è dappertutto e che molti credevano fosse l’Italia, ha costitui-
95 G. VOLPE, La vittoria nel pensiero dei suoi artefici, in «L’Idea Nazionale», 3 dicembre del 1918, p. 1; ID., Ricordare, in «Il Dovere nazionale», 22 gennaio 1920, p. 1, fortemente critico contro il «tradimento degli alleati». Molto più tardi, con una dichiarazione di carattere assai dubbio, Volpe avrebbe ricordato la sua intenzione di iscriversi, nel 1921, all’Ani. Si veda, «Bollettino d’informazioni del Centro Studi Adriatici», 18 ottobre 1971, p. 5. 96 ID., La vittoria nel pensiero dei suoi artefici, cit.: «La guerra sembra sia solo distruzione di beni, ma essa affina anche ed accelera il processo di ricostruzione dei beni stessi. […] Attraverso la guerra le genti lontane si avvicinano, cimentano le loro forze l’una in cospetto dell’altra, si conoscono, si eguagliano, iniziano o intensificano la loro collaborazione. Essa accelera quel coordinarsi delle umane attività in che consiste l’incivilirsi del mondo. Essa attua perennemente un po’ la “Società delle Nazioni”».
DOPO LA VITTORIA
261
to sopra solide basi, senza possibilità di cavillazioni o di equivoci, di riserve, il suo diritto all’esistenza. Da un secolo, questa prova e questo sforzo auguravano e attendevano i nostri uomini migliori, quasi come un mezzo per dare e ridare la tempra ad un popolo troppo giovane e troppo vecchio, uscito da secoli di astioso municipalismo. E questa prova e questo sforzo non esitarono ad invocare o accettare con fiducia, quattro anni addietro, quanti di noi, pur non sottoscrivendo formule irredentiste o imperialiste o umanitarie, ma mettendosi da un punto di vista altamente nazionale, credettero dovesse l’Italia affrontare i rischi e di danni della guerra. Essi hanno avuto ragione. La nostra vittoria è anche vittoria degli uomini che allora ebbero fede! Chi, d’ora in avanti ripeterà lo stornello dello “stellone” e conterà sulle dieci dita i morti delle guerre d’indipendenza e dirà che l’Italia è stata fatta a Solferino, a Sadowa, sotto le mura di Parigi? Tutto questo era, già prima, non storia ma pettegolezzo. Domani, non sarà possibile neanche il pettegolezzo! Lungi da noi ogni megalomania e ogni retorica. Ma neanche ogni viltà, ogni autodenigrazione, ogni debolezza che nasce da eccesso di sfiducia. Facciamo vivere nella nostra fantasia l’immagine di un popolo che in cammino da decenni e da secoli sopra una difficile strada, spesso cadendo e spesso rialzandosi, affrontando a poco a poco non solo gli ostacoli della malevolenza e della forza altrui, ma anche e non meno le proprie inesperienze, passioni, male abitudini mentali, tuttavia avanza; si riorganizza sempre più moralmente, cioè acquista sempre più di coscienza di sé; trova un suo proprio assetto politico; comincia a ricostituire la sua ricchezza e a rinnovare la sua coltura; si propone obiettivi sempre più alti e lontani di vita collettiva; cerca di battere il passo con altri popoli più maturi e fortunati; diventa o ridiventa parte viva ed attiva della società civile; riceve e dà contributi onorevoli al comune patrimonio morale del mondo; guarda in sé con l’onesto proposito di bene conoscersi e più rapidamente avanzare. Questo popolo è il popolo italiano negli ultimi secoli. Vicenda dolorosa e vicenda lieta: vicenda, in ogni modo, di un popolo che ha radici profonde ed è abbarbicato alla sua terra97.
La deriva di molti intellettuali italiani verso una soluzione autoritaria della vita politica italiana non si muoveva quindi tra i due poli del fascismo e del nazionalismo, già attivi e pulsanti immediatamente dopo la fine delle ostilità, ma si sviluppava innanzitutto, come meglio vedremo, all’interno del quadro di riferimento dell’ideologia liberale, pur con tutte le sue debolezze, anomalie, disfunzioni, ed era piuttosto la conseguenza diretta della ricaduta catastrofica di una crisi internazionale mal manovrata, mal risolta e malissimo vissuta all’interno del paese, come Volpe confidava a Giustino Fortunato nel marzo del 1920. Quella che era crisi di guerra ora è crisi della società italiana, nella sua totalità, con manifestazioni in parte generali, di tutto il mondo, in parte nostre di
97 Ibidem.
262
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
noi Italiani. Certo qualche cosa sta maturando e non solo in male. Qualche cosa sta nascendo, e porta, come ogni nascimento, dolore. Ma quel che ci mozza il respiro è il pensiero di come il nostro paese potrà tollerare un’epoca di vaste agitazioni, in un momento in cui più che mai esso è legato e subordinato ad altri stati e ad altre economie; in un momento in cui gli altri occupano in ressa le ricchezze del mondo, le materie prime, i migliori mercati ecc. Quello che anche io molto temevo prima e durante la guerra che noi potessimo uscire vincitori sì, ma relativamente retrocessi nella scala delle potenze europee, e contare a guerra finita meno di prima; questo timore mi pare si stia dimostrando fondato. È probabile che oggi, domani, per un pezzo, la distanza fra noi e chi ci precedeva sia molto aumentata. Colpa di nessuno, ma un po’ anche di noi Italiani. E non tanto per aver fatto la guerra, quanto per non averla diplomaticamente ben fatta; non aver avuto gli Italiani tutti ben chiara l’idea che il fronte della nostra guerra era duplice: verso le Alpi Giulie e verso… le Alpi Marittime e Cozie e Graie, cioè verso gli Alleati. Abbiamo fatto loro un credito illimitato e senza garanzia; abbiamo sempre accettato ogni loro atto come rivolto alla tutela di una causa e quasi affatto indipendente dai consueti impulsi della politica degli Stati98.
3. All’insoddisfazione per la conclusione di una guerra, che, nonostante l’enormità dei sacrifici, aveva visto diminuita quasi, anziché incrementata, la posizione diplomatica e strategica dell’Italia, si aggiungeva poi quella relativa alla congiuntura interna, che il comportamento del governo Nitti aveva determinato, con la creazione di un clima che apparve, a Volpe e a Omodeo, di frettolosa e incauta svendita del patrimonio ideale che si era accumulato nel corso del conflitto99, e, a Gentile, come la manifestazione di un malessere profondo della società italiana, provocato da chi, sostituitosi a Giolitti nella guida della nazione, senza in nulla aver mutato la tattica politica del suo predecessore, riteneva «si dovesse governare senza fede, senza idealità, senza programma che non fosse praticabile agevolmente, indulgendo agli istinti più bassi degli individui e del popolo, senza richiedere sacrifizi ritenuti impossibili, e sen-
98 Gioacchino Volpe a Giustino Fortunato, s. d. [ma marzo 1920], in G. FORTUNATO,
Carteggio, 1912-1922, cit., pp. 321-322. 99 Adolfo Omodeo alla moglie, 24 giugno 1919, in ID., Lettere, cit., p. 365: «La crisi nittiana fa pena: continua la dilapidazione della nostra vittoria, che è poi il nostro sudore, il nostro pianto, il nostro sangue, gli anni di giovinezza marciti nelle trincee e nel fango. Ma questa è la storia d’Italia: procede sempre ad impulsi irregolari, a cui seguono pause e ristagni. Del resto, il giolittismo l’avevamo represso, non distrutto. Giolitti, è bene metterselo in testa, è più che un uomo: è un male nazionale. Del resto, il fallimento della pace significa un rovescio del partito nazionale». Più secco, ma egualmente acerbo, era il giudizio di Volpe sul governo Nitti. Si veda, ID., Gabriele D’Annunzio, cit., p. 85: «Nitti, già tiepido per la guerra, ora voleva liquidarne il più presto possibile gli avanzi, fossero finanziari e sociali, fossero anche psicologici».
DOPO LA VITTORIA
263
za avventurarsi a rischi, certamente mortali a chi non sia capace di affrontarli animosamente con ferma volontà di superarli»100. Se molti avevano sperato che la guerra avrebbe saputo fare giustizia definitivamente del «politicantismo faccendiero» della vecchia Italia, ora la realtà dei fatti dimostrava che quella vecchia Italia era invece sopravvissuta, anche dopo la vittoria, e aveva nuovamente determinato un’atmosfera di disarmo etico e politico, che anche Alfredo Rocco aveva denunciato con asprezza, parlando, a proposito della lunga agonia del gabinetto Orlando, di un’azione di indirizzo politico «insufficiente, imprevidente, disorganica», che rischiava di paralizzare l’«opera di ricostruzione economica, politica, sociale» e di annichilire addirittura «l’istinto della conservazione e della reintegrazione nazionale»101. Questo clima di ripiegamento si riverberava sulla stessa attività intellettuale, attraverso la definitiva liquidazione delle attività dell’Ufficio Storiografico della Mobilitazione, per la cui sopravvivenza erano nate forti preoccupazioni già dopo Caporetto, quando sia Volpe che il fondatore della «Voce» si erano sforzati di porre il malcerto futuro di quell’istituzione sotto l’indiretto patronage del più illustre e influente intellettuale italiano, con le lettere del febbraio 1917 e dell’aprile 1918. Ma né la corrispondenza di Prezzolini, né tanto meno quella di Volpe ricevettero risposta adeguata da parte di Croce. Segno inequivoco, questo, di un malcelato fastidio del filosofo napoletano, che, se aveva abbandonato il suo atteggiamento neutralista a favore di un leale e convinto sostegno alla nazione impegnata nel conflitto102, restava concettualmente contrario a una «storia della guerra» e soprattutto a una storia di quell’evento che così tanto si distaccava dai suoi convincimenti in materia di ricostruzione del passato. Ad una storia, in altri termini, che Volpe e Prezzolini vedevano non più unicamente come storia dello Stato italiano, delle sue élites intellettuali e delle sue classi dirigenti, ma come storia nazionale à part entière, che doveva essere costruita a partire dall’analisi dei grandi movimenti di struttura nell’economia, nella società, nella mentalità. Era un’insuperabile diversità di concezione, che era già emersa tra Croce e Prezzolini subito dopo Caporetto, quando quest’ultimo aveva esposto al direttore della «Critica» il prospetto di «un’An-
100 G. GENTILE, La crisi morale, cit., p. 71. 101 A. ROCCO, Mentre non si fa la pace, «Politica», 10 marzo 1919, ora in ID., Scritti e
discorsi politici, cit., II, pp. 569 ss. 102 P. MELOGRANI, Le “Pagine sulla guerra” di Benedetto Croce (e una sua lettera a Vittorio Emanuele Orlando), in «Il nuovo osservatore». Luglio-agosto 1966, pp. 643 ss. Si ricordino, a questo proposito, i fermi inviti alla riscossa indirizzati da Croce al popolo italiano, dopo Caporetto: Parole di un italiano, «Giornale d’Italia», 5 novembre 1917 e Un mondo da ricostruire, «Vita italiana», dicembre 1917, in ID., Pagine sulla guerra, cit, pp. 233 ss.
264
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
tologia, dove raccolgo le pagine che mi paiono migliori sulla guerra nostra», chiedendogli di poter «accogliervene alcune sue, fra le meno amare»103. Non solo alla sua personale partecipazione ma anche al progetto intero di quel volume, che nel 1918 avrebbe visto la luce con il titolo di Tutta la guerra. Antologia del popolo italiano sul fronte e sul paese104, Croce opponeva un violento rifiuto. Nel quale appariva ancora traccia del suo passato atteggiamento di fermo oppositore di quell’avventura bellica, in cui un’Italia, a suo avviso malamente preparata, si era andata a cacciare sull’onda di un’emotività letteraria che neanche i tanti drammatici eventi, che avevano attraversato il conflitto, erano riusciti a cancellare. Desidererei consentire alla vostra cortese richiesta; ma non posso. Le pagine che io ho scritte sulla guerra, e a proposito della guerra, hanno una intima unità e coerenza, che forma il loro qualsiasi valore. Staccarne alcune e, come voi dite, le meno amare, sarebbe falsare il mio pensiero. Anche oggi mi vedo lodato, sui giornali francesi, come un convertito, per aver rivolto alcune parole di esortazione agli Italiani, ricordando ad essi l’onore nazionale e la dignità di uomini: – e quelle parole non sono una conversione, ma una diretta conseguenza delle mie vecchie idee politiche. Dunque, non voglio accrescere l’equivoco. Del resto, vi pare che la nostra guerra sia materia di antologie? Antologia significa raccolta di fiori; e vogliamo raccogliere fiori dalle parole che ci scambiammo intorno al letto della madre gravemente ammalata? Saremo sempre italiani, cioè letteratucci?105
A quelle parole sconfortanti, replicava Prezzolini, insistendo sulla sua richiesta e caratterizzando con maggiori particolari il disegno del lavoro. In esso non avrebbe trovato posto nessuna estrapolazione retorica, nessun dannunzianesimo deteriore, nessuna mistica del sangue e della morte, ma piuttosto gli scritti di quelle «anime religiose» (da Jahier a Soffici), che avevano rivelato il «vero volto della guerra» e insieme a esse le «lettere sgrammaticate di nostri soldati e non Benelli e altri del genere»106. Nella raccolta, dove doveva raccogliersi «il minimo possibile di letteratura», potevano ricevere la loro giusta collocazione anche le pagine «su la Storia d’Italia, che è quella moderna» recentemente redatte da Croce, senza nessun trionfalismo, ma solo «in quanto storia non antica e secolare, ma recente, non strepitosa ma modesta, non radiosa ma 103 Giuseppe Prezzolini a Benedetto Croce, 9 dicembre 1917 in Carteggio. II, cit., pp. 457-458. 104 G. PREZZOLINI, Tutta la guerra, cit. 105 Benedetto Croce a Giuseppe Prezzolini, 10 dicembre 1917 in Carteggio. II, cit., p. 458. 106 Giuseppe Prezzolini a Benedetto Croce, 10 dicembre 1917, ivi., pp. 458-459.
DOPO LA VITTORIA
265
stentata»107. Si trattava, in definitiva, di una visione della vicenda nazionale, ispirata al massimo realismo, ricca forse più di ombre che di luci, nella quale Prezzolini pensava di poter distillare l’essenza delle attività dello Storiografico, ma che non incontrava l’approvazione del filosofo che tornava a esprimere la sua contrarietà nella lettera del 16 dicembre, dove si ribadiva la sua «intima riluttanza a tutto ciò che è manipolazione letteraria della guerra»108. Riluttanza che pure contrastava, avrebbe obiettato Prezzolini con una punta di veleno, con le fiere e severe prese di posizione formulate da Croce, immediatamente dopo la rotta dell’Isonzo, che «le hanno conquistato molte simpatie e han fatto del bene assai su persone che si credevano autorizzate, da quello che sembrava loro il suo pensiero, a un contegno equivoco e antitaliano»109. Era un dialogo tra sordi. Da una parte Prezzolini, che aveva colto precocemente il carattere rivoluzionario della guerra in corso110. Dall’altra, Croce nel quale si profilava già l’atteggiamento da tenere dopo la fine del conflitto: chiudere la parentesi del grande disordine e ritornare «dopo la guerra sovvertitrice», per dirla con Giustino Fortunato111, al normale e ordinato decorso del vivere civile112. Dominava nel filosofo la volontà di arrivare, il prima possibile, a un ripristino del vecchio status quo ante, che trovava un esatto riscontro politico nell’azione del governo Nitti, intenzionato a procedere a una frettolosa smobilitazione materiale e morale dell’apparato bellico, non senza larghe concessioni a una routine opportunistica, che ricalcava il vecchio modello d’intervento giolittiano113. Conseguenza immediata di questa strategia sareb-
107 Si trattava di alcune postille, apparse sulla «Critica» durante il 1916, poi raccolte
con il titolo di Sulla storia d’Italia, in ID., Pagine sulla guerra, cit., pp. 131 ss. 108 Benedetto Croce a Giuseppe Prezzolini, 16 dicembre 1917 in Carteggio. II, cit., p. 459-460, dove si obiettava: «Ora occorrerebbe solo gente che afferrasse per gli orecchi gli Italiani e li costringesse a pensare alla serietà della nostra situazione e a fare il loro dovere». 109 Giuseppe Prezzolini a Benedetto Croce, 18 dicembre 1917 in Carteggio. II, cit., p. 460. Il riferimento è a B. CROCE, Parole di un italiano, cit. 110 G. PREZZOLINI, Diario, cit., pp. 239-240, alla data del 3 dicembre 1916: «Parlo con Guido Slataper. Gli dico che la rivoluzione sociale che è avvenuta è più importante dell’esito della guerra. Vinca l’Intesa o la Germania, né l’una né l’altra potranno modificare il collettivismo che è entrato nelle abitudini e nelle menti degli uomini. Un agricoltore, che paga 90% del suo reddito in tasse, non è che un impiegato dello Stato». 111 G. FORTUNATO, Dopo la guerra sovvertitrice, Bari, Laterza, 1921. Sul punto, M. GRIFFO, Profilo di Giustino Fortunato. La vita e il pensiero politico, Firenze, Cet, 2000, pp. 58 ss.; pp. 75-76. 112 B. CROCE, Il nostro dovere presente, in Pagine sulla guerra, cit., pp. 248 ss. Sull’evento bellico, come frattura nello sviluppo dell’Italia liberale, si veda ID., Storia d’Italia, cit., pp. 293 ss. 113 Sull’incapacità del governo Nitti di cogliere la frattura, che la guerra aveva porta-
266
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
be stato il progressivo depotenziamento della struttura dei Servizi P, che per Prezzolini avrebbero potuto invece essere mantenuti utilmente in vita e trasformati in un servizio civile, mutando la loro fisionomia da «espediente straordinario», funzionalizzato alle esigenze del conflitto, a «normale attività educativa» indispensabile a superare l’inevitabile crisi sociale del dopoguerra114. In questa congiuntura, avveniva la liquidazione dello Storiografico, nonostante la disperata resistenza di Borelli115, che tuttavia poteva esibire come unico attivo della sua creatura un certo numero di monografie in fase di preparazione, tra le quali anche un volume di Volpe sulla «mentalità della guerra (storia delle idee e delle correnti d’opinione)»116. In questo caso, al malvolere o all’indifferenza del governo si aggiungeva l’ostilità di vasti settori della pubblica opinione per quel frutto del conflitto. Il 30 maggio 1919, l’edizione romana dell’«Avanti», nel contesto di una violentissima campagna anti-militarista, dipingeva quell’ente come un covo di «ufficiali imboscati», che ora si apprestava a divenire «una prospettiva magnifica di pappatoria per tutta una legione di giornalisti falliti, di professori bocciati e di politicanti patriottardi»117. Con toni più moderati, la «Nuova Antologia» chiedeva a sua volta lo scioglimento dell’istituzione e ne domandava il passaggio delle funzioni e delle attribuzioni a un «Istituto di scienze storiche e sociali»118, rivendicando così all’alta cultura universitaria e accademica il monopolio esclusivo della storia nazionale. Su questa stessa posizione si era già attestato Croce, fin dal gennaio 1918, che, alla richiesta di collaborazio-
to nel sistema politico italiano, si veda N. VALERI, Da Giolitti a Mussolini. Momenti di crisi del liberalismo, Firenze, Parenti, 1958, pp. 249 ss. R. DE FELICE, Mussolini, il rivoluzionario, cit., pp. 428 ss.; R. VIVARELLI, Storia delle origini del fascismo, cit., pp. 460 ss. Sul governo Nitti, un giudizio meno liquidatorio, ma non sempre condivisibile, è in F. BARBAGALLO, Francesco Saverio Nitti, Torino, Utet, 1984; S. D’AMELIO, Francesco Saverio Nitti, Roma-Bari, Laterza, 2003. 114 G. PREZZOLINI, Tutta la guerra, cit., p. 366; ID., Vittorio Veneto, cit., p. 20: «Il servizio P continua nel paese, per opera di quelli che ne hanno ereditato lo spirito e cercano di mantenere il contatto fra la classe dirigente ed il popolo senza l’aiuto del governo. I governi non si persuadono di queste cose che sotto il peso della necessità e questa sembra cessata. Ma non è». 115 A. CARACCIOLO, L’“Ufficio Storiografico della Mobilitazione” e l’intervento di Croce per il suo scioglimento nel 1919-1920, in Studi storici in onore di Vittorio De Caprariis, Roma, Tombolini, 1970, pp. 279 ss.; B. BRACCO, Memoria e identità dell’Italia della grande guerra, cit., pp. 149 ss. 116 Giovanni Borelli alla Sezione Milanese dell’Ufficio Storiografico della Mobilitazione, 3 luglio 1920, USMI, busta 13, fascicolo 2. 117 A. CARACCIOLO, L’“Ufficio storiografico della mobilitazione”, cit., p. 280. 118 Per un Istituto di scienze storiche e sociali, in «Nuova Antologia», 19 marzo 1919, pp. 118 ss.
DOPO LA VITTORIA
267
ne di un membro dello Storiografico, rispondeva seccamente: Io non intendo come in questi tempi si possa pensare a raccolte storiche sulla guerra che si svolge. Non bastano gli archivi dello Stato? In verità, codesto “ufficio storiografico” mi pare werth dass es zu Grunde geht, e vorrei che voi ed altri amici che siete ora costà, aiutaste a liquidarlo, perché è il meglio che si possa fare119.
Era una condanna già senza appello, che prefigurava il ruolo di liquidatore ufficiale dell’organismo di Borelli, che sarebbe stato attribuito ufficialmente a Croce, nel settembre del 1919, con la nomina di presidente della «Commissione pei provvedimenti da adottare per l’Istituto Storiografico della Mobilitazione»120. Annotando più tardi la sua risposta favorevole all’incarico propostogli da Nitti, Croce avrebbe fatto riferimento non solo a un suo precedente giudizio secondo il quale «lo Storiografico non concluse nulla e servì soltanto a spreco di danaro e a collocare in posti comodi alcuni che volevano oziare, o profittare, o illudersi di fare»; ma anche al fatto che, in vista di un possibile «stabilizzarsi» dell’ente dopo la guerra, «io richiamai su di esso l’attenzione del Presidente del Consiglio che mi diè incarico di liquidarlo»121. Delle manovre di Croce non era d’altra parte all’oscuro Borelli che avrebbe parlato del pregiudizio del filosofo, riguardo al fatto che «da noi si sia avuta la balorda idea di stampo nettamente imperiale tedesco di commettere allo Stato la scrittura della propria storia»122. Pregiudizio, o intima e motivata convinzione, che in ogni caso molto doveva contare nel giudizio finale della Commissione, che Croce inviava a Nitti il 12 gennaio, con questa lettera di accompagnamento. Eccoti la relazione della Commissione di cui mi nominasti presidente, incaricata di provvedere alla liquidazione dell’Ufficio Storiografico della Mobilitazione. Vedrai che abbiamo procurato di non ferir nessuno e di essere indulgenti e benevoli. Ma le miti ed eque proposte da noi fatte sono da adottare nell’interesse della pubblica amministrazione e della serietà delle sue opere. Se avessi scritto in nome mio soltanto, e cioè non in via ufficiale, avrei dato più vivo risalto al mio profondo scetticismo sull’opera di quell’Istituto, passata, presente e futura123.
119 Benedetto Croce a Roberto Palmarocchi, 20 gennaio 1918, in B. Croce, Epistolario I, cit., p. 22. 120 Benedetto Croce a Francesco Saverio Nitti, 22 settembre 1919, ivi, pp. 36-37. 121 Ibidem. 122 Lettera di Giovanni Borelli a Francesco Saverio Nitti, s. d., ma fine del 1919, citata in B. BRACCO, Memoria e identità dell’Italia della grande guerra, cit., p. 159. 123 Benedetto Croce a Francesco Saverio Nitti, 12 gennaio 1920, in B. Croce, Episto-
268
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
Ferito a morte da quella sentenza, lo Storiografico sarebbe comunque riuscito a continuare stentatamente la sua esistenza fino al 1923. Ma intanto con quella relazione che ne decretava lo scioglimento, e dove erano pure contenuti opinioni difficilmente accettabili sul carattere accessorio del fattore economico per la ricostruzione del conflitto124, si era scavata una grave frattura, tra due diversi modi d’intendere l’analisi del passato. Una frattura che il tempo avrebbe ingigantito, ponendo le premesse di un dissidio incolmabile che sarebbe venuto alla luce nel decennio successivo. Lo Storiografico non era, in ogni caso, la sola vittima della congiuntura post-bellica. Nei primi anni Venti, cessavano anche i lavori relativi al programma di una Storia d’Italia degli ultimi cinquant’anni, varato, subito dopo Caporetto, dal Comitato per l’Esame Nazionale, presieduto da Romolo Murri, composto da intellettuali provenienti dalla militanza interventista di vario colore che, se aveva potuto contare sulla collaborazione di Antonio Anzilotti, Ettore Ciccotti, Pietro Silva, Sergio Panunzio, Salvemini e Prezzolini, e sull’appoggio di Gentile, Croce, Ubaldo Comandini, Leonida Bissolati, si era scontrato con le difficoltà opposte dagli ambienti governativi125. Al fallimento di questi progetti facevano seguito altre iniziative editoriali, attive già nel primo anno di pace, che recavano ancora l’impronta della nuova atmosfera morale che la guerra aveva impresso sulla cultura italiana. Alla fine del 1918, prendeva avvio l’iniziativa di Giacinto Romano di una Storia d’Italia in quattordici volumi, da affidare a diversi specialisti (tra cui, Barbagallo, Solmi, Caggese, Rota, Ferrari, Luzzatto) che, elaborata alla luce dell’esperienza del conflitto, ma anche sulla falsariga di un precedente tentativo della «Voce», doveva fornire «un possente rincalzo della nostra coscienza etnica e nazionale» e «senza voler essere, sonante di frasi o gonfia di tirate patriottiche, riuscire a un tempo scientificamente severa e altamente nazionale»126. Era Antonio Anzilotti a informare Giuseppe Prezzolini della proposta editoriale di Romano, nella corrispondenza del 2 novembre 1918, che terminava con questo passo, che molto bene testimoniava il clima politico da cui prendevano il via questi progetti di storia nazionale. lario I, cit., pp. 43-44. La relazione della Commissione è pubblicata in A. CARACCIOLO, L’“Ufficio storiografico della mobilitazione”, cit., pp. 282 ss. 124 Ivi, p. 282: «Il materiale archivistico, invece, non concerne se non alcuni aspetti della guerra italiana, e particolarmente quello industriale, escludendone il fondamentale, cioè quello politico militare» 125 Sul punto, E. DI RIENZO, Storia d’Italia e identità nazionale. Dalla Grande Guerra alla Repubblica, cit., pp. 34 ss. 126 G. LUZZATTO, Una Storia d’Italia…, in «Nuova Rivista Storica», III, settembre-dicembre 1919, V-VI, pp. 664-665. Sul punto anche, Gaetano Salvemini a Pietro Silva, 12 febbraio 1919, in G. SALVEMINI, Carteggio 1914-1920, cit., pp. 446-447.
DOPO LA VITTORIA
269
Ti avverto che a Milano hanno già preso l’iniziativa della “Storia d’Italia” con collaborazioni di Volpe, Salvemini, Rota, Fedele, etc. Mi hanno scritto perché firmi il contratto con l’editore per un volume sul ’500. L’editore è Vallardi: il piano dell’opera è come l’avevamo pensato noi. Anche il Battistelli prepara una serie di volumi sui grandi pensatori italiani (Machiavelli, Sarpi, Cattaneo, etc). Che ne dici? Ti scrivo sotto l’impressione della nostra grande vittoria. Abbiamo – se Dio vuole – vinto da soli (questo forse dispiacerà a qualcuno). Siamo non un piccolo popolo, ma un grande popolo e questa fede vale più, mio caro, di tutte le formulette massoniche, che si stanno riverniciando. Ormai ci siamo guadagnati non solo l’Adriatico, ma anche il Mediterraneo orientale. Si deve andare in Asia minore non per noi, ma per i nostri figli! W l’Italia127.
Il tentativo di Romano non sarebbe restato un esperimento isolato. In quello stesso inquieto periodo, prendeva avvio, all’interno delle iniziative della Biblioteca dell’Università Popolare Milanese128, una collana di «Nozioni di storia» di chiaro intento divulgativo (massicciamente distribuita in migliaia di copie anche tra le truppe ancora mobilitate), ma di impianto innovativo, per tematiche e scelta degli autori, il cui catalogo era stato parzialmente redatto da Volpe insieme a Ugo Guido Mondolfo già nel 1913129. In quella collezione, dove Volpe avrebbe pubblicato la prima versione del suo Medio Evo (progettando altri volumetti su Età di mezzo ed Età moderna, Comuni, regime economico feudale, Rinascimento) si annunciavano anche altre piccole monografie, ad opera di Niccolò Rodolico (Le civiltà antiche), di Ferruccio Quintavalle (La rivoluzione religiosa del secolo XVI), di Ugo Guido Mondolfo (La Rivoluzione francese e Movimenti nazionali e rivoluzioni del secolo XIX) di Leone Gaetani (L’Islamismo), di Giuseppe Ricchieri, (La Guerra Mondiale). Tra gli opuscoli della cosiddetta «Biblioteca rossa», dove compariva anche il titolo di Gaetano Salvemini, La questione del mezzogiorno, per la serie «Questioni sociali e di attualità», rappresentava un elemento di originalità, fortemente legato alla nuova congiuntura ideale e politica, la monografia di Arrigo Solmi, edita nel 1919 e dedicata al127 Antonio Anzilotti a Giuseppe Prezzolini, 2 novembre 1918, cit. Sulla Storia d’Italia, promossa da Prezzolini, si veda, E. DI RIENZO, Storia d’Italia e identità nazionale. Dalla Grande Guerra alla Repubblica, cit., p. 15. 128 Sull’Università Popolare di Milano, gli interventi di D. Pinardi e M. L. Cicalese in, La cultura milanese e l’Università popolare negli anni 1901-1927, a cura di U. A. Grimaldi, Milano, Franco Angeli, 1983. Sull’irradiamento delle Università popolari a livello nazionale, F.L. PULLE, Venti anni di vita delle Università popolari : (Federazione Nazionale delle Università popolari, scuole libere e associazioni pro coltura popolare. Comitato federale), Bologna, Azzoguidi, 1921; M.G. ROSADA, Le Università popolari, 1900-1918, Roma, Editori Riuniti, 1975. 129 Catalogo ragionato per una Biblioteca di cultura generale, Storia, Milano, Federazione Italiana delle Biblioteche Popolari, s. d. [ma 1913].
270
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
la Storia del Risorgimento italiano, che infrangeva completamente le tradizionali paratie cronologiche in cui era stato rinchiuso quell’evento, facendo arrivare la spinta propulsiva del moto unitario fino al 1918, con epicentro nelle «giornate di maggio» del 1915130. A questi programmi si sarebbe aggiunto, a breve, quello della «Storia d’Italia in collaborazione», da pubblicare presso Zanichelli, che Volpe, nel corso del 1921, annunciava in una serie di lettere indirizzate ad Alessandro Casati, Giovani Gentile, Fortunato Pintor, Benedetto Croce131. Una corrispondenza, dove alla concisa esposizione dei criteri della nuova collezione storica, che avrebbe dovuto dare alla luce i primi volumi tra 1923 e 1924, per concludersi nel triennio successivo, si accompagnava un urgente e a volte imperioso «call for book» rivolto ai futuri collaboratori, del quale uno dei primi destinatari era stato Guido De Ruggiero, il 18 marzo 1921. L’amico Casati mi dà il suo indirizzo napoletano ed io le scrivo nella speranza di trovare in lei un collaboratore ad un’opera che mi sta molto a cuore. Ecco di che cosa si tratta. Vorremmo pubblicare una serie di volumi in cui fossero lumeggiati i momenti o fasi più importanti della storia d’Italia: l’età barbarica e feudale, quasi vestibolo della storia d’Italia vera e propria; le città e borghesie di città; signorie principali e relativa coltura del Rinascimento; l’Italia e l’Europa, dal cozzo, alla fine del XV, al principio del XVIII secolo; il rinnovamento del XVIII, fino al 1815; l’azione e il pensiero politico dal 1815 al 1861 circa, cioè alla morte di Cavour; l’Italia di oggi. Vagheggerei volumi di storia, nel senso pieno della parola, in cui tutti gli elementi della vita storica si fondessero in una esposizione meditata, precisa, organica, chiara capace di interessare lo studioso e nel tempo stesso entrare nella biblioteca della semplice persona colta, dello studente universitario, del professionista che abbia qualche curiosità fuori della sua professione. Accanto o attorno a questo nucleo, un’altra serie di volumi in cui si riprendano motivi già toccati nei volumi precedenti, ma per dar loro maggiore svolgimento. Ad esempio: l’economia italiana e l’economia europea alla fine del Medio Evo; il Rinascimento italiano in Europa; l’Italia e l’Oriente europeo; Italia e Germania nel XIX secolo (rapporti di colturapolitica-economia); Italia e Inghilterra, nel XIX secolo; Italia e Francia dopo la Rivoluzione francese (specie durante il Risorgimento italiano); l’emigrazione italiana e le colonie italiane in America latina dalla seconda metà del XIX secolo. Ora io ho pensato anche a Lei. Lo conosco serio studioso di filosofia e, di recente, anche di problemi di storia politica. Cerco, poi, persone non troppo disformi nel modo di concepire la realtà storica, in modo che la loro sia, entro certi limiti, una “collaborazione”. Mi sono consigliato anche coll’amico Casati e lui mi ha incoraggiato a rivolgermi a lei (il Casati sarà uno del gruppo, sebbene non
130 A. SOLMI, Il Risorgimento italiano, 1814-1918, cit., p. 71 ss. 131 Sul punto, E. DI RIENZO, Storia d’Italia e identità nazionale, cit., ai capitoli III e IV.
DOPO LA VITTORIA
271
professi studi storici; ma non mi dispiace cercar fuori dei professionisti, che potranno aver pratica maggiore ma hanno anche abiti professorali!). Lei conosce l’Inghilterra. Non potrebbe addossarsi il volume su Italia e Inghilterra nel XIX secolo? Vi sono da lumeggiare i rapporti con la Sicilia e i Borboni nel primo XIX secolo, la politica inglese nei vari scacchieri del Paese (in ordine al Piemonte e all’Austria, allo Stato della Chiesa, al Regno di Napoli), le correnti dell’opinione pubblica inglese durante il Risorgimento, ciò che i nostri (cito Cavour) hanno preso o aspettato dall’Inghilterra e sua coltura e sue istituzioni politiche. La posizione delle due nazioni, l’una di fronte all’altra negli ultimi decenni ecc. Oppure la Francia e l’Italia nel XIX secolo. Rapporti, in certo senso più complicati. Gli italiani sono vissuti nell’orbita del pensiero politico francese, nel tempo stesso che avevano o acquistavano la consapevolezza di questa loro scarsa autonomia e cercavano di liberarsene, anche per giungere alla indipendenza politica (Balbo, Gioberti, lo stesso Mazzini, che tuttavia dipende molto dall’89, pur mentre considera la Francia del suo tempo come non più capace di dire la parola nuova, riservata invece all’Italia). E poi il 1859, la politica napoleonica del decennio successivo, la Francia degli ultimi tempi in rapporto a noi, certi influssi del socialismo francese sul pensiero dei nostri sulla metà del secolo (Gioberti, Pisacane, ecc.). Tutte cose che già i due scrittori dei volumi di storia toccano, ma che meritano poi una trattazione a sé. Ho in mente dei volumi su le 400 pagine, del formato della sua storia della filosofia o presso a poco, con un piccolo ma succoso corredo di erudizione bibliografica in fondo al volume o ai capitoli. L’editore fa condizioni piuttosto buone ed è Zanichelli. Ci pensi qualche giorno: ma, la prego, non troppo, perché avrei fretta di conchiudere, e poi mi risponda affermativamente. E se ha qualche nome da propormi per uno di quei due volumi e magari anche per un volume su la monarchia meridionale dall’XI al XIV secolo (fino a che, cioè, cessa di rappresentare un mondo piuttosto a sé nell’Italia cittadina e borghese e sfocia nell’Italia dei principati), che potrei desiderar di inserire nella 1° serie dei volumi, mi farà piacere132.
A questa invito, faceva seguito una risposta interlocutoria di De Ruggiero, che, se rifiutava l’offerta di redigere il titolo proposto da Volpe (sicuramente affine per la materia ai suoi precedenti lavori, ma considerato ormai lontano dai suoi attuali interessi)133, offriva un’ampia disponibilità di massima a lavorare per la collana in gestazione. Volpe ritornava immediatamente alla carica, suggerendo un nuovo argomento: il Rinascimento italiano in Europa134. A quel punto, De Ruggiero scioglieva ogni riserva. Suggeriva d’inserire tra i nomi dei collaboratori anche quello di Omodeo per uno studio sulla Controriforma e accettava di impegnarsi per un volume su Il movimento liberale in Europa nel se132 Gioacchino Volpe a Guido De Ruggiero, Milano 18 marzo 1921, AGDR. 133 Nel 1921, De Ruggiero aveva pubblicato, presso Vallecchi, L’Impero britannico do-
po la guerra. 134 Gioacchino Volpe a Guido De Ruggiero, Milano 14 aprile 1921, AGDR.
272
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
colo XIX. Un tema in qualche misura non estraneo a quella sua ricerca «sul movimento storico-politico napoletano, da Vico a Cuoco»135, ampliatasi e poi edita in volume nel 1922136, che tra 1918 e 1920 aveva preso forma per la prima volta in tre puntate su «Politica». Ambedue le offerte trovavano l’immediato consenso di Volpe nella lettera del 22 maggio 1921: Mi piace il tema che lei mi propone e che in parte contiene quegli altri proposti da me: Il movimento liberale in Europa nel secolo XIX: cioè, dottrine, con le loro radici nel XVIII secolo; atteggiamento o fisionomia varia che prendono nei vari ambienti e nazioni europee, specie nei più vicini, a noi più connessi; fatti sociali di cui il liberalismo trae alimento; rapporti con i movimenti nazionali ecc. Così, siamo intesi: lei lavorerà su questo tema e non ho dubbi che debba e possa riuscire un volume di molto interesse e non solo per i cultori di studi storici, ma per quanti cercano orientamenti nel campo delle idee e della azione pratica. Questo tutti dovremmo proporcelo e ce lo proporremo: ma vi sono problemi che si presentano subito e direttamente come problemi di vita presente, anche agli studiosi di vita pratica137.
135 Guido De Ruggiero a Benedetto Croce, 23 agosto 1918, in ABC. 136 G. DE RUGGIERO, Il pensiero politico meridionale nei secoli XVIII e XIX, Bari, La-
terza, 1922. 137 Gioacchino Volpe a Guido De Ruggiero, Milano, 22 maggio 1921, in AGDR.
3. IL VARIO LIBERALISMO ITALIANO 1. L’argomento scelto da De Ruggiero reclamava con urgenza la parte che la politica si sarebbe ritagliata all’interno del progetto della «Storia d’Italia», che Volpe aveva messo in cantiere. Nel primo dopoguerra, il problema del liberalismo, la sua definizione storica e teorica, le sue prospettive di sviluppo, i suoi progetti di riforma costituivano uno dei maggiori punti controversi per saggiare l’identità e la continuità della vita nazionale, in vista della rapida modificazione del sistema post-risorgimentale che il grande conflitto, con le sue ricadute eversive sul quadro sociale, politico, istituzionale, aveva provocato. Tutto questo già appariva con nettezza, tra febbraio e marzo del 1919, a partire dalla polemica tra Mario Missiroli e Giovanni Gentile sulla possibilità, sostenuta dal primo, di una trasformazione dell’idea liberale in semplice «molla di progresso, che era passata ormai di esclusiva competenza dei socialisti», considerato «il conservatorismo reazionario proprio del partito liberale». Ipotesi alla quale il secondo obiettava non soltanto la duplice funzione del liberalismo in quanto «concezione dello Stato come libertà e della libertà come Stato», inconciliabile quindi con la dottrina socialista, ma anche e soprattutto con i rischi insiti in un sistema di «liberalismo conciliatore, che accosta e accorda le idee rappresentative degli interessi sociali», quale quello pervertitosi nella pratica trasformista del «giolittismo» che «per un ventennio fu, o parve, l’espressione più adeguata della vita politica italiana; ma che merita nondimeno d’essere battezzato dal nome di chi fu l’esponente più cospicuo di codesta vita, e più fece per sostenerla contro tutti i tentativi di ribellione e contro l’opposizione delle minoranze più sane e pensose dell’avvenire nazionale»1. In questo contesto, la reintegrazione del «vero liberalismo» poteva richiedere anche il ricorso a una soluzione extra legem, come era già avvenuto nel maggio del 1915, quando, avrebbe ricordato Gentile, la vo-
1 I testi della polemica sono raccolti in M. MISSIROLI, Polemica liberale, Bologna, Zanichelli, 19543, pp. 3 ss. e in G. GENTILE, Dopo la vittoria, cit., pp. 162 ss. Per le citazioni, si veda rispettivamente, p. 18 e p. 186.
274
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
lontà popolare aveva debellato il sistema di potere di Giolitti2. Ma tutto questo forse non significava fino ai primi anni Venti, e sicuramente prima di quella data, come poi spesso è stato suggerito3, che la richiesta di un nuovo liberalismo associato a un fascio di forze costituzionali e nazionali, capace di concepire e far agire la compagine statale come un complesso organico, fosse irrimediabilmente situata sul piano inclinato che portava alla completa dismissione delle garanzie statutarie e all’instaurazione di una piena dittatura4. Non era, o meglio non era ancora, quella la strada indicata, ad esempio, nel Proemio, che apriva il primo numero de «La Nuova Politica Liberale» del gennaio 1923, a firma di Carmelo Licitra, il redattore di quel nuovo periodico, promosso da Croce, Gentile, Lombardo Radice5. Né quella era la soluzione proposta da Volpe che aderiva a quell’iniziativa, affermando di condividere assolutamente «il senso di quelle necessità, che nella fase attuale della coltura italiana» avevano suscitato una salutare reazione «dopo il caos mentale di quattro anni di guerra: caos tuttavia da cui dovrebbe venir fuori un po’ di ordine e di vita, appena i pensieri ricominciano a filtrare purificati attraverso una più calma meditazione»6. Nel preambolo programmatico, elaborato da Licitra, si sosteneva la necessità di un avvicinamento al movimento di Mussolini che non doveva recidere ma anzi rafforzare i legami con la tradizione della Destra storica, «che sembrò si spezzasse nel ’76», e con «quella corrente liberale antidemocratica che 2 ID., La crisi morale, cit., p. 73. 3 G. CAROCCI, Giovanni Amendola nella crisi dello Stato italiano, 1911-1925, cit.,
p. 22 ss. 4 R. DE FELICE, Introduzione a Il fascismo e i partiti politici italiani, a cura di R. De Felice, Bologna, Cappelli, 1966, pp. 17-18 (poi Firenze, Le Lettere, 2005), dove si sosteneva che per dare valutazione storiografica dei limiti e degli errori della classe dirigente liberale, nei confronti dell’avvento del fascismo, era «necessario domandarsi, anche al di là della sostanza, quale era allora l’apparenza del fascismo, cosa cioè esso apparisse ai suoi contemporanei, che idea essi ne avessero e dove credessero sarebbe sboccato». Insisteva, sullo stesso punto, B. VIGEZZI, Introduzione a 1919-1925. Dopoguerra e fascismo. Politica e stampa in Italia, a cura di B. Vigezzi, Bari, Laterza, 1965, pp. V ss. 5 Così Adolfo Omodeo annunciava la comparsa della rivista sul «Giornale critico della Filosofia italiana», III, 1922, p. 41: «La Nuova Politica Liberale è il titolo d’una nuova rivista che inizierà a Roma le sue pubblicazioni il 1 gennaio 1923. Ne sono promotori G. Gentile, B. Croce, G. Volpe, G. Lombardo-Radice: segretario di redazione C. Licitra. Programma: riprendere la tradizione liberale del nostro Risorgimento, smarritasi nell’evoluzione democratica dell’ultimo cinquantennio, e dando pieno sviluppo ai suoi presupposti idealistici, inserirsi fattivamente nel presente problema politico d’Italia. In sostanza non una pigra affermazione di tutte le libertà sino al suicidio della libertà, ma la libertà come metodo perenne di politica». 6 Gioacchino Volpe a Giovanni Gentile, novembre 1922, in AFG. Su «La Nuova Politica Liberale», Volpe avrebbe pubblicato, nel 1923, L’ultimo cinquantennio: l’Italia che si fa, cit.
IL VARIO LIBERALISMO ITALIANO
275
fa capo al nostro Gioberti»7. Queste indicazioni venivano ripetute nell’articolo del luglio di quello stesso anno, che, commentando l’iscrizione di Gentile al Pnf, motivata dal riconoscimento dello «spirito liberale che anima il governo fascista», tornava a fare il punto sul concetto storico di liberalismo italiano, sulla sua peculiarità originaria, sulle sue più autentiche matrici e sulle sue nuove incarnazioni. Oggi la parola liberalismo copre tutta una confusione di idee. Il liberalismo, in senso largo, del nostro Risorgimento oggi non può più rappresentare un particolare partito, e nella comune accezione si riduce a qualcosa di vago, nel quale tutti i partiti possono in qualche modo entrare. Ma dentro il vecchio liberalismo del Risorgimento era pure una corrente liberale con caratteri propri, sin dal principio in opposizione con altre correnti che si dicevano pure liberali e lo erano certamente per tanta parte dei problemi di allora, poco intesa perché informata al grado più elevato della cultura contemporanea, poco intesa anche perché schiettamente italiana, in un periodo in cui il pensiero nazionale incominciava appena a riaffermare la propria originalità dopo la più vasta importazione di idee e di programmi stranieri. Quel pensiero politico del Gioberti, del Cavour e del più intimo Mazzini, che dopo la formazione del regno si continuò nella dottrina e nell’opera della Destra, era certamente un liberalismo con caratteri suoi, che oggi riusciamo a vedere più chiaramente nella loro antitesi con quelli delle altre correnti liberali. La loro fu vera politica, cui seguì il lungo periodo della democrazia a caratteri sociologici più che politici, che se per un verso rappresenta una decadenza nello sviluppo della vita nazionale, per un altro verso fu la liquidazione di una residuale trascendenza e una prima ammissione alla vita politica di quella massa del popolo che fino allora ne era rimasta fuori del tutto. Oggi, pur facendo tesoro delle conquiste democratiche, si torna a un liberalismo concreto e adeguato ai nostri tempi8.
Erano l’invito, dopo il decennio della «grigia prosa» giolittiana, a far ritorno, nel solco della memoria nazionale, ai momenti alti della grande politica, che veniva esteso anche a tutti coloro che, certamente sinceri fautori dell’idea liberale ed «elementi di valore sotto ogni rispetto» ma «ancora legati alla concezione astrattistica e naturalistica della libertà», non avevano saputo e voluto cogliere, spesso in base a motivi puramente dottrinali, «lo spirito del Fascismo», così come rischiavano di non comprendere «come il Gentile possa appoggiare con l’autorità del nome e della dottrina una politica che ai loro occhi resta sempre una politica antiliberale, perché lesiva di libertà particolari, di diritti acqui-
7 C. LICITRA, Proemio, ora in ID., Dal Liberalismo al Fascismo, con prefazione di G. Gentile, Roma, De Alberti, 1925, p. 10. L’articolo era significativamente datato «Novembre 1922». 8 ID., Giovanni Gentile e lo sviluppo del Fascismo, ivi, pp. 41-42.
276
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
siti e persino delle nostre istituzioni»9. Per questo aspetto particolare, la presa di posizione di Licitra era destinata ad avere largo seguito, proprio nei punti che costituivano quasi una parafrasi delle dichiarazioni di Gentile, apparse sempre sul primo numero de «La Nuova Politica Liberale». In quell’intervento, l’accordo tra liberalismo e fascismo si risolveva integralmente e in apparenza soltanto nella condivisione della «necessità di uno Stato forte», tante volte nel passato invocato da molti riformatori liberali, in grado di portare «un senso di misura e di determinatezza politica, cioè di concretezza sociale e storica nello sviluppo etico-religioso dell’individuo»10. Il programma di rifondazione liberale della rivista di Licitra non era distante dalle posizioni di Croce, che aveva guardato con favore al risveglio nazionale del dopoguerra, visto come proseguimento della battaglia da lui condotta negli anni del conflitto per «la difesa dell’autorità e forza dello Stato, contro le ideologie democratiche, e della politica in quanto politica»11, e che, dopo aver a lungo sostenuto che l’autentica ispirazione del liberalismo non si poteva riconoscere nel vecchio partito liberale, come in ogni altra tradizionale formazione politica12, ammetteva pure che gli ideali di quella dottrina potevano trovare un’indiretta forma di rinvigorimento dalla discesa in campo del movimento di Mussolini13. Questa posizione veniva più tardi ampiamente ribadita, in una serie d’interviste concesse tra ottobre del 1923 e luglio del 1924, dove il filosofo dichiarava che il nucleo vitale del fascismo si riconosceva in alcuni ideali non estranei a quelli del pensiero di Spaventa e della vecchia Destra: «l’amore della patria italiana», «il sentimento della sua salvezza e salvezza dello Stato», «il giusto convincimento che lo Stato senza autorità non è Stato». Ideali, ora fatti propri da una nuova forza politica, in grado di accrescere, nell’attuale congiuntura, «il numero di coloro che, scotendo il tradizionale indifferentismo italiano, sentono la passione della politica e prendono profondo interesse alle cose dello Stato»14. 9 Ivi, pp. 43-44. 10 G. GENTILE, Il mio liberalismo, ora in ID., Politica e cultura, a cura di Hervé A. Ca-
vallera, Firenze, Le Lettere, 1990, 2 voll., I, pp. 115-116. 11 B. CROCE, Contributo alla critica di me stesso, a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi, 1989, p. 82. 12 Ipotesi poi compendiata in ID., La concezione liberale come concezione della vita, in ID., Etica e politica, a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi, 1994, pp. 331 ss. 13 Sul punto, P. VITA-FINZI, Le delusioni della libertà, cit., pp. 159 ss. e ora G. BEDESCHI, Croce e il fascismo. Un caso esemplare di rimozione storica, in «Nuova Storia Contemporanea», 2002, 2, pp. 7 ss. 14 B. CROCE, Pagine sparse, Bari, Laterza, 1943, 2 voll., II, pp. 480-481. Sull’apologia fatta da Croce in relazione a quei pronunciamenti, si vedano i «ricordi» del settembre 1944, contenuti in ID., Relazioni o non relazioni col Mussolini, in Nuove pagine sparse, Bari, Later-
IL VARIO LIBERALISMO ITALIANO
277
Volpe, da parte sua, sempre nel primo numero del periodico diretto da Licitra, considerava le prove sostenute contro l’autocrazia giolittiana, fino alla vigilia del conflitto, da una minoranza intellettuale consapevole e virtuosa, come un potenziamento dell’idea liberale, che avrebbe poi accompagnato il cammino dell’Italia nella contesa vittoriosa contro i suoi nemici esterni e interni15. Sincronizzato sulla stessa frequenza, era Carlo Curcio, quando nel 1924, avrebbe definito Mussolini, come il «vero capo della restaurazione liberale, che riprendeva, sulla linea della sua tradizione, la sua forma, la sua logica, la sua dirittura, pur nell’esperienza nuova che la storia dettava»: esperienza, «questa volta sì, veramente liberale»16. Mentre Gaetano Mosca, nella seconda edizione dei suoi Elementi di scienza politica, stampati a Torino soltanto l’anno precedente, non esitava a considerare come utile rimedio alla corruzione del vecchio Stato liberale «un breve periodo durante il quale un governo forte e onesto eserciti molti poteri e abbia molta autorità», al fine di preparare quelle condizioni che potevano rendere possibile «il normale funzionamento del sistema rappresentativo», così come era accaduto a Roma «nei migliori tempi della Repubblica, quando qualche volta si ricorreva, per brevi periodi, alla dittatura»17. Un’ipotesi che comportava l’ammissione della liceità all’utilizzazione strumentale di un regime politico d’eccezione, «provvisorio» e «conservatore» dell’ordine liberale, che molti allora condividevano e al quale anche Croce avrebbe fatto riferimento, durante la crisi politica aventiniana, ammonendo l’opinione pubblica italiana a non «lasciar disperdere i benefici del fascismo, e di non tornare alla fiacchezza e alla inconcludenza che lo avevano preceduto»18. All’incrocio di queste linee di forza divergenti e convergenti, che tra breve sarebbero entrate in violenta rotta di collisione, si situava dunque il progetto della storia del liberalismo di De Ruggiero, così fortemente voluta da Volpe. Dell’immediatezza politica di questo lavoro, il direttore della «Storia d’Italia in collaborazione» non solo era benissimo consapevole, ma sembrava ricavare un motivo di ulteriore compiacimento, visto e considerato che quell’interrogarsi sull’idea liberale in rapporto
za, 1966, 2 voll., I, pp. 61 ss., che non compensano le reticenze del Contributo alla critica di me stesso, cit., pp. 87 ss. 15 G. VOLPE, L’ultimo cinquantennio: l’Italia che si fa, cit., pp. 7 ss. 16 C. CURCIO, L’esperienza liberale del fascismo, Napoli, Morano, 1924, pp. 69 ss. Riprodotto in R. DE FELICE, Autobiografia del fascismo. Antologia di testi fascisti, 1919-1945, Torino, Einaudi, 20043, pp. 170 ss. 17 G. MOSCA, Elementi di scienza politica, con una Prefazione di B. Croce, Bari, Laterza, 19534, 2 voll., II, p. 240. 18 B. CROCE, Pagine sparse, cit., II, p. 485.
278
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
alle esigenze dell’oggi, era stata parte costitutiva del suo impegno militante, nel passato prossimo, quando, dopo la fine del conflitto, si sarebbe assistito alla rinascita dei Gruppi Nazionali Liberali, della quale esistono alcune precise testimonianze, a partire dalla stringatissima circolare, che Antonio Anzilotti inviava a Giovanni Gentile, alla metà di aprile del 1919. La S. V. Ill.ma è vivamente pregata d’intervenire alla riunione che si terrà sabato 26 aprile p. v. alle ore 9 pomeridiane nella sede della Trento-Trieste, gentilmente concessa (Via del Leone, 15) per costituire un gruppo di azione liberale in Roma e prendere gli opportuni accordi per riorganizzare in Italia il movimento nazionale liberale, già iniziato prima della guerra. Si prega di non mancare19.
Alla lettera d’invito firmata da un gruppo promotore, nel quale spiccavano i nomi dello stesso Anzilotti, di Giovanni Borelli e di Umberto Ricci20, era allegato un manifesto programmatico di quattro pagine dattiloscritte, intitolato Per riorganizzare le forze liberali, diviso in quattro paragrafi. L’idea liberale La borghesia dinnanzi ai formidabili problemi, che oggi premono da ogni parte lo Stato e alla minaccia dell’assurdità comunistica – idealizzata incoscientemente dai giornali dell’alta finanza internazionale – pare che voglia, con le sue incertezze e le sue gretterie conservatrici, rinunciare al suo posto di lotta e di sacrificio. Noi, che volemmo la guerra non soltanto per il completamento territoriale della Nazione, ma anche perché fosse rinvigorita e dilatata la coscienza politica di chi aspira a dirigere le sorti del Paese, noi non crediamo che ormai sia suonata l’ora del tramonto dello Stato liberale. A differenza perciò di quei partiti, che hanno creduto di modernizzarsi ed evolversi col dirsi “democratici”, noi dichiariamo innanzi tutto che non abbiamo nulla a che fare né coi conservatori né coi democratici, ma che siamo soltanto liberali. Ben sappiamo quanto sia stato screditato questo appellativo da tutti i circoli di quel partito liberale, che solo in virtù della resistenza d’interessi di classe e locali ha potuto materialmente sopravvivere – corpo inerte e pigro – alla sua morte ideale. Ma noi non possiamo rinunciare a questo appellativo, noi, che di fronte alle astrattezze democratiche e alle parzialità demagogiche, sentiamo tutta la forza innovatrice e dinamica dell’idea liberale, che diresse Cavour nella gigantesca opera
19 Il documento privo di data è conservato in AFG. 20 Gli altri firmatari erano gli avvocati G. Gobbi e A. Pasquali, il dott. P. Mengarini, il
ragionier G. Pizzabiocca.
IL VARIO LIBERALISMO ITALIANO
279
di ricostruzione del Regno ed ebbe per interpreti – primi fra tutti i due Spaventa – i più alti pensatori del nostro Risorgimento. Quest’idea oggi che lo Stato viene assalito dagli appetiti egoistici di tutte le categorie e deve, pur divenendo istituto di tutti, mantenere la sua saldezza e la sua tradizione; oggi – noi diciamo – quest’idea soltanto può comporre l’apparente dissidio fra libertà e disciplina, fra autorità e popolo, fra espansione all’estero ed elevamento popolare all’interno, fra l’azione conservatrice dello Stato e il moto ascensionale progressivo delle classi. Questa mentalità liberale si è andata perdendo in Italia attraverso i compromessi fra interessi particolaristici, rivolti a sfruttare lo Stato (dispensatore conteso di favori) sia sotto etichetta socialista, sia sotto la bandiera di un sedicente liberalismo. Ritornare quindi all’idea liberale significa voler proseguire una politica nazionale nel senso più schietto e più vero, in quanto lo Stato deve tendere continuamente – pena il decadimento e la sua debolezza – a rinvigorirsi con la spontanea adesione dei consociati e a organizzare entro di sé tutte le libertà. I capisaldi del programma Noi crediamo perciò doversi oggi riaffermare nel campo del pensiero e della pratica quei principi di politica liberale, che, dimenticati da gran tempo dalle nostre classi dirigenti, sono i soli capaci, dopo lo sforzo di tutti i ceti nella guerra, a salvare lo Stato nazionale dalla minaccia bolscevica. Giova qui ricordarli. Innanzi tutto vano è il parlare di “aumento della produzione” – senza il quale il benessere promesso al proletariato è ignobile menzogna – se il campo economico non è liberato dalla burocrazia incompetente, dalla minaccia dei monopoli statali e dall’arbitrario favore politico concesso a certe industrie a danno di altre, agli interessi industriali del nord contro quelli agricoli del sud. Lo Stato, in Italia, in Francia, nella Germania, si è dimostrato per l’ennesima volta pessimo produttore e incapace approvvigionatore. Lo sforzo dell’industria individuale, la responsabilità personale sono ancora – contro le ubbie della statolatria paternalistica e contro le bugiarde millanterie dell’eden comunista – le uniche forze veramente feconde nel mondo dell’economia. Oggi l’iniziativa individuale si viene integrando e corroborando mediante l’organismo del sindacato sia per gli imprenditori che per gli operai. Ebbene, noi crediamo che difetti del regime parlamentare e incompetenza dei politicanti dovranno trovare un sano antidoto nei corpi consultivi ove siano rappresentate le grandi organizzazioni degli interessi. La politica, infatti, ha bisogno ogni giorno di più di elementi tecnici, non di retori. Borghesia imprenditrice, operai, agricoltori e impiegati potranno in tal modo influire più direttamente sulla vita politica della Nazione, dare allo Stato gli elementi migliori, e, pur lottando liberamente per il proprio elevamento economico e spirituale, trovare i punti di una possibile collaborazione di classe. Ma tale libertà di azione per ogni gruppo e categoria sarebbe pericoloso per la compattezza e per l’indipendenza dello Stato, se questo non fosse forte di fronte agli interessi parziali che si contendono. Noi perciò ci dichiariamo monarchici, in quanto la monarchia popolare è tutrice per necessità e per istinto degli interessi nazionali e può conciliare l’unità e la tradi-
280
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
zione dello Stato con i sindacati e con i mutamenti continui del mondo economico. Da una parte dunque, la forza e il prestigio dello Stato contro ogni convulsione faziosa; dall’altra, libertà sindacali, comunali, provinciali e largo decentramento, unico mezzo per sottrarre al Parlamento la materia su cui si esercita l’intrigo e la corruzione dei politicanti a scapito della sua dignità. E noi vorremmo inoltre che il Parlamento riprendesse la sua originaria funzione di controllo finanziario e che con la severità e la giustizia fiscale andasse di pari passo crescendo la coscienza civica dei contribuenti e delle classi ricche, chiamate a pagare con il proprio sacrificio pecuniario i benefici della propria posizione. È quasi superfluo dichiarare che con tali tendenze liberali noi crediamo inconciliabile la dottrina nazionalista, che arbitrariamente identifica gli interessi nazionali sociali risolvendoli in una politica esterna di conquista e ha dell’imperialismo (che anche per noi è la forma moderna e storicamente necessaria della partecipazione dei popoli ricchi alla vita internazionale) un concetto antiliberale, monopolistico e prussiano. I Gruppi Nazionali Liberali Questi per sommi capi i principi cui vogliamo ispirare il nostro movimento di propaganda e di educazione. Urge – inutile dissimularlo – prepararsi a difendere lo Stato nazionale e le libertà civili faticosamente conquistate. Urge anche reagire contro lo spirito astrattista e falsamente umanitario della democrazia, opponendole una mentalità più educata storicamente e più consapevole delle forze realistiche, che stanno oggi foggiando il nuovo assetto del mondo, per difendere gli interessi più strettamente nazionali. Vogliamo perciò fondare in Roma e nelle altre città Gruppi Nazionali Liberali che continuino l’opera già iniziata durante la nostra neutralità e che si oppongano con la propaganda scritta e orale alla minaccia bolscevica e alle manovre dei gruppi finanziari che ne favoriscano l’avvento. I gruppi non avranno nessun scopo elettorale, ma compiranno un lavoro di educazione politica. Rivolgiamo dunque questo appello a tutti i vecchi liberali, che non si contentano più d’inviare soltanto i soliti telegrammi a S.M. il Re e di partecipare ai cortei patriottici, ai giovani, che sui campi di battaglia hanno visto quanto costi la Patria; a tutti coloro che odiano la mentalità faziosa e amano portare nella politica il contributo della loro cultura; a tutti quelli che nel metodo liberale vedono l’unico mezzo per sanare l’eterna ammalata, la democrazia. A costoro rivolgiamo viva preghiera di mettersi in relazione con noi21.
Il manifesto, firmato «Gli Iniziatori», poneva in primo piano il discrimine invalicabile tra democrazia e liberalismo, invitava a una vigorosa riscossa borghese contro lo spettro rosso del bolscevismo, e sembrava ispirarsi in generale a una completa assimilazione tra ideali liberali e 21 AFG.
IL VARIO LIBERALISMO ITALIANO
281
liberisti, propugnata soprattutto da Umberto Ricci, attraverso una fecondissima attività pubblicistica22. Quell’ipotesi, immediatamente spendibile sul piano della polemica politica, prendeva le distanze con nettezza dal protezionismo nazionalista, ma soprattutto metteva fortemente in discussione il ruolo dello Stato in quanto «grande elemosiniere», che Nitti aveva promosso sulla scia della vecchia politica collaborazionista, tra segmenti privilegiati del capitale e del lavoro, già ampiamente perseguita da Giolitti. Su questi punti concordavano, tuttavia, proprio nell’appoggio tendenziale al gruppo politico di Mussolini, anche molti economisti di tendenza liberale e antiprotezionista23. Accanto al tradizionale gruppo dei «liberisti puri», si schieravano naturalmente Maffeo Pantaleoni e Alberto De Stefani fautori del carattere squisitamente liberista che avrebbe dovuto contraddistinguere il nuovo regime24. Né mancava il nazionale liberale, Luigi Einaudi, che almeno fino al biennio 19241925, avrebbe visto nel fascismo il potente maglio capace di abbattere il conglobato improduttivo degli antichi e dei novissimi interessi costituiti, non senza risparmiare parole di lode rivolte ai «giovani ardenti che chiamarono gli italiani alla riscossa contro il bolscevismo», i quali avevano riportato la vittoria nella contesa ingaggiatasi «tra lo spirito di libertà e lo spirito di sopraffazione»25. Era un’adesione sostanziale, che trovava riscontro nelle linee programmatiche del Pnf, che mirava a presentarsi come il portatore di un’esigenza di razionalizzazione del meccanismo amministrativo dello Stato, di immissione in esso di criteri rigorosamente produttivistici e di severa efficienza tecnica nella gestione della cosa pubblica, volta a correggere radicalmente gli sprechi, il disordine e l’incuria della burocrazia centrale e periferica26. Il massiccio afflusso dei capofila del vario e intransigente liberismo italiano sarebbe stato visto con simpatia da Massimo Rocca, che, nel 1921, alla vigilia del Congresso nazionale del Pnf, invitava il fascismo a sbarazzarsi della sua «tendenza filo-proletaria» per attuare, accanto ai seguaci di quello che ormai poteva definirsi il «nuovo conservatorismo 22 Per un profilo di questo intellettuale, G. BUSINO, Materiali per la bio-bibliografia di Umberto Ricci, cit. 23 In generale, sul punto, Liberalismo, nazionalismo, fascismo, a cura di L. Michelini, Milano, Franco Angeli, 1999. 24 R. DE FELICE, Mussolini il fascista. I. La conquista del potere, 1921-1925, Torino, Einaudi, 19952, pp. 241-242; 398 ss. 25 E. DECLEVA, Liberismo e fascismo nelle Cronache di Luigi Einaudi, (1919-1925), in «Il movimento di liberazione in Italia», 1965, 4, pp. 3 ss. Diversamente, R. VIVARELLI, Il fallimento del liberalismo. Studi sulle origini del fascismo, Bologna, Il Mulino, 1981, pp. 252 ss. 26 A. AQUARONE, Aspirazioni tecnocratiche del primo fascismo, in «Nord e Sud», Nuova Serie, aprile 1964, pp. 109 ss.; ID., L’organizzazione dello Stato totalitario, Torino, Einaudi, 1965, pp. 5 ss.
282
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
liberale di destra», un potente rilancio neo-liberale e neo-liberista, in grado di contrastare vigorosamente «la mania collettivistica che, fra industrie di Stato, controlli burocratici, cooperative sussidiate e consorzi privilegiati, soffoca le libere energie produttive, piegandole a pagare le spese d’un vero parassitarismo»27. Una linea di tendenza che Rocca suggeriva con forza e che Mussolini pareva assecondare, con non minore energia, quando il 24 ottobre del 1922, alla vigilia della «marcia su Roma», domandava una «soluzione legalitaria» della crisi politica, accompagnata da «severi provvedimenti di indole finanziaria», in grado di «immettere nello Stato liberale tutta la forza delle nuove generazioni italiane che sono uscite dalla guerra e dalla vittoria» e di promuovere una politica liberista favorevole al capitale privato, restaurando l’ordine e la disciplina nel mondo del lavoro28. Molti, dunque, i punti di contatto, se non davvero di possibile apparentamento, tra il nazionalismo liberale e un movimento fascista, ancora segnato da grandissima fluidità dottrinale, tra i quali bisogna contare anche quell’appello alle competenze tecniche che avrebbero dovuto sostituirsi alla vecchia rappresentanza parlamentare, formulato da Umberto Ricci quasi in modo da poter evolvere in funzione antisistema, fino a costituire uno dei precedenti dell’organizzazione statuale corporativa, che il nazionalismo di Corradini e di Rocco, da tempo incubava nel suo seno29, e che Mussolini aveva declinato, fin dal marzo 1919, come secco ripudio del vigente sistema di delega politica, al quale occorreva sostituire un nuovo sistema di rappresentanza fondata sulle attività produttive e su di una più rigorosa selezione delle competenze. Inoltre il manifesto nazionale liberale poneva, al centro del dibattito politico, i problemi della necessaria e urgente espansione «imperialistica» della nazione italiana (pur senza diretto riferimento al diktat di Versailles imposto dagli antichi alleati), che però erano stati ben diversamente modulati, come si è visto, da due esponenti del piccolo gruppo politico: Antonio Anzilotti e Arrigo Solmi. Queste divisioni, di non poco peso, per quello che riguardava l’approccio alla delicatissima questione dei rapporti internazionali, presenti ieri come oggi all’interno della piccola pattuglia nazionale liberale, sembravano non intralciare l’attività del gruppo che sarebbe passato, di lì a poco, alla stesura di un programma politicamente più organico, che preludeva direttamente alla sua discesa in campo nella competizione
27 M. ROCCA, Un neo-liberalismo?, «Risorgimento», settembre 1921, ora in ID., Il primo fascismo, Roma, Volpe Editore, 1964, pp. 45 ss. 28 B. MUSSOLINI, Il discorso di Napoli, in ID., Scritti e discorsi, cit., II, pp. 339 ss. 29 A.J. GREGOR, Mussolini’s Intellectuals, cit., soprattutto ai capitoli II e III.
IL VARIO LIBERALISMO ITALIANO
283
elettorale. Nel novembre del 1919, Volpe era infatti tra i sottoscrittori, insieme a Luigi Einaudi, Giovanni Gentile, Widar Cesarini Sforza, Giuseppe Prato, Lionello Venturi, Ettore Lolini, ovviamente Umberto Ricci, di un nuovo manifesto dei Gruppi Nazionali Liberali Romani, i quali, uniti ad altre associazioni liberali, nazionalistiche e a gruppi di ex combattenti, organizzati politicamente, partecipavano all’Alleanza nazionale per le prossime elezioni30. Il ritorno in campo della piccola formazione dei Liberali Nazionali avveniva, anche in questo caso, sulla base di un programma ispirato ai principi del «nazionalismo modernista» e modernizzatore31, che aveva caratterizzato questo movimento alla vigilia del conflitto e poi durante il suo svolgimento. Nel documento, per la più parte redatto da Umberto Ricci, si proclamava l’insoddisfazione per la vittoria mutilata al tavolo delle trattative, e, per quello che riguardava la politica interna, si ribadiva la fiera avversione al bolscevismo, ma anche a ogni incauto riformismo istituzionale, la rivendicazione di uno «Stato forte», eppure provvisto di larghe autonomie regionali e comunali, in grado di combattere la metastasi burocratica, di fronteggiare i conflitti sociali, disciplinando le pretese del padronato e del proletariato, di farsi motore essenziale di una politica favorevole all’incremento della produzione, e soprattutto tale da porsi, all’insegna di un intransigente liberismo, dentro e fuori i confini nazionali, delineando un modello di sviluppo, disposto a realizzare un ampio progetto di riforma fiscale di carattere vigorosamente perequativo, ma radicalmente alternativo alle incaute aperture democratiche del governo Nitti sul piano economico e finanziario. Il Gruppo Nazionale Liberale Romano, entrato con altre associazioni di Liberali e con Associazioni di Nazionalisti e di Combattenti a costituire l’Alleanza Nazionale per le elezioni politiche, ne ha già sottoscritto il programma. Ma l’avvenuta pubblicazione di quella parte del programma che è comune a tutta l’Alleanza non importa attenuazione degli altri principii, ai quali è ispirata la nostra azione politica, né ci esime dall’esporre il nostro programma di Gruppo, con tutti i complementi e le specificazioni che esso richiede. E per prima cosa riaffermiamo la nostra profonda devozione alla Monarchia, oggi più che mai fondamento delle istituzioni dello Stato. La “costituente”, che molti a cuor leggero domandano, segnerebbe l’inizio dello sfacelo della nostra compagine politica e sociale. Ma quand’anche – il che non crediamo – lo sconvolgimento potesse arrestarsi al solo mutamento della forma di Governo, già troppo avremmo perduto, perché all’autorità di un Capo dello Stato su-
30 A. ROCCUCCI, Roma capitale del nazionalismo, cit., pp. 396 ss. 31 Per questa definizione, E. GENTILE, La Grande Italia. Il mito della nazione nel XX
secolo, cit., pp. 95 ss.
284
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
periore alle competizioni partigiane, avremmo sostituito una dittatura di Partito o di Classe. Dopo la Vittoria la posizione dell’Italia nel mondo è ingrandita. Noi desideriamo che, fedele alle sue tradizioni, l’Italia sia fattore di equilibrio e di pace. Appunto per questo biasimiamo che taluni Stati, dimentichi dei loro propositi, abbiano ceduto alla voce dell’interesse e dell’ambizione, seminando inquietudini e risentimenti. Noi chiediamo che all’Italia, scesa in campo per un’ideale di giustizia, sia resa giustizia. Noi siamo – è superfluo dirlo – vigorosamente contrari al bolscevismo, che ci darebbe in balia di una bieca e sfrenata tirannide; mobilitandolo contro di noi gli Eserciti dell’Intesa, costringendoci ad affrontare una nuova guerra; e ci condannerebbe irremissibilmente al disonore e alla fame. Noi vogliamo lo Stato forte, che non tolleri la sopraffazione di alcuna classe, né di borghesi né di proletari. Ma la nostra ammirazione per lo Stato politicamente forte non è consenso a una amministrazione accentratrice e soffocante: che anzi noi chiediamo autonomie regionali e comunali. I pubblici impiegati siano pochi, liberi e responsabili. Il loro lavoro, intelligente e assiduo, sia ben rinumerato e stimolato da premi. L’interesse economico supremo sta nell’aumento della produzione e a questo pongono un serio ostacolo le faziose e dissolventi lotte di classe. Intese oneste e leali fra gli imprenditori e dirette rappresentanze degli operai, contemperanti le mutue pretese, riportino nel cantiere, nella fabbrica, nell’officina il ritmo del lavoro ordinato e fecondo. Anche la produzione agricola deve essere accresciuta. I proprietari siano consapevoli dei loro doveri e favoriscano, con l’immissione dei capitali e con la stipulazione di equi patti agrari, la intensificazione delle culture, dove essa è possibile e socialmente vantaggiosa, o lascino il peso a chi meglio di loro sia in grado di aumentare le capacità produttive della terra. Ma ricordiamo che le invasioni tumultuose, compiute da persone sfornite di perizia tecnica e di capitali, non generano se non l’effetto opposto di abbassare il rendimento. Noi invochiamo il ristabilimento della libera concorrenza, che, meglio dei calmieri, dei divieti interni di esportazione, dei consorzi e simili altre antiquate istituzioni, è atto a mitigare i prezzi. Lo Stato e il Comune cessino di fare il commerciante e l’approvvigionatore e lascino il loro posto agli uomini competenti e interessati a ben fare. Noi proponiamo l’abolizione delle barriere doganali, per quanto è possibile coi fini della difesa nazionale e con lo sviluppo delle industrie giovani ma connaturate all’Italia: e ci dichiariamo in particolare contrari alla protezione siderurgica, che tende a esaurire in pochi anni le nostre riserve minerarie e a rincarare il ferro, materia prima di molte industrie. La riforma tributaria deve avere il suo corso: l’accertamento dei patrimoni e dei redditi sia affidato a magistrature tributarie ben retribuite e sottratte all’obbligo politico. E le classi abbienti non tentino di sottrarsi al loro dovere. Desiderosi di concorrere all’opera della ricostruzione, ma desiderosi altresì di riaffermare i principi ideali che spinsero l’Italia al terribile cimento dal quale uscì vincitrice, noi abbiamo scelto per compagni di lotta, durante il pe-
IL VARIO LIBERALISMO ITALIANO
285
riodo elettorale, uomini che con noi condividono gli ideali nazionali e alla ricostruzione si apprestano con animo di vincitori. E tutti insieme neghiamo appoggio a un Governo che, pur largheggiando in belle promesse e buoni propositi, si è palesemente dimostrato inetto a tutelare i supremi interessi della Nazione, incapace di coglierne e tanto meno di interpretarne i sentimenti più schietti e più nobili. Viva e ardente è la nostra fede nei destini della Patria. L’Italia, che scese in guerra nel momento del gran periglio; che non vacillò dopo Caporetto e a Vittorio Veneto segnò la Vittoria dell’Intesa, frantumando il minaccioso impero degli Asburgo, è, noi lo sentiamo, un’Italia immortale32.
Nel settembre del 1920, quando Giolitti era ormai subentrato a Nitti e le urne della nuova competizione elettorale amministrativa erano prossime ad aprirsi, Corrado Barbagallo forniva una sintetica analisi dell’identità politica di questa formazione33. In un momento in cui molti proclamavano il «tramonto del liberalismo italiano», anzi la sua morte e addirittura la sua trasfigurazione nel socialismo, i Gruppi Nazionali Liberali, sottolineava Barbagallo, osavano invece rivendicare orgogliosamente la loro identità liberale, che tuttavia nulla aveva a che fare con il vecchio liberalismo del notabilato e delle clientele. Soltanto la riscoperta di quella identità, la quale, con Cavour, fu alla base della costruzione della Nazione italiana, poteva oggi comporre, nel fermo ancoraggio all’istituto monarchico, l’apparente contraddizione tra autorità e libertà. In questo modo, i Nazionali Liberali, mentre gettavano alle ortiche le spoglie del «vecchio liberalismo» restavano fedeli allo spirito dell’autentica dottrina liberale nel punto in cui questa si saldava ai principi di un liberismo economico radicale, che, se valorizzava «l’industria individuale e la responsabilità personale della produzione», respingeva fermamente le «ubbìe della statolatria parternalistica», in materia economica. Nel dopoguerra, lo Stato si era dimostrato, ancora una volta, «pessimo produttore e incapace organizzatore», volendosi sostituire forzosamente alla dinamica del mercato, che poteva trovare invece una sua rappresentanza organica nel «sindacato», vuoi di datori di lavoro vuoi di maestranze, in quanto «forma integratrice e corroboratrice dell’iniziativa individuale». A compensare la «vacuità delle assemblee politicanti», dovevano intervenire direttamente le rappresentanze degli interessi dei produttori per quei «provvedimenti legislativi nei quali sia opportuno il concorso della loro esperienza e della loro preparazione». In tale quadro di riferimento, il liberismo integrale doveva coniugarsi con un intransigente antiprotezionismo, come proponeva Umberto 32 Programma dei Gruppi nazional-liberali, in Roma, 3 settembre 1919, in CV. 33 C. BARBAGALLO, Note di vita politica. I Liberali-Nazionali, cit.
286
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
Ricci, in un opuscolo pubblicato nella «Biblioteca di propaganda» dei Gruppi romani, significativamente intitolato La politica economica del Ministero Nitti. Gli effetti dell’intervento economico dello Stato34, dove venivano brillantemente ribaditi tutti i concetti fondamentali di una riforma economica audacemente antiprotezionista, primo, tra tutti, la critica vigorosa del «sofisma dell’assoluta indipendenza economica delle nazioni»35. Ma, con quel testo, veniva innanzitutto battuta in breccia la miscela di clientelismo e di consociativismo, sociale ed economico, che era stato il tradizionale punto di forza della politica di Giolitti e che era stata ripresa, senza originalità, nella disastrosa esperienza governativa di Nitti. I Nazionali Liberali non potevano infatti, per ferrea conseguenza dalle loro posizioni teoriche, essere dei «protettori senza scrupoli degli interessi industriali del nord contro quelli agricoli del sud», né trasformarsi in garanti degli «interessi di certe industrie così dette nazionali (per il loro valore politico) contro le altre». Essi combattevano, invece, «per il più libero, per il meno impacciato regime di concorrenza contro tutte le protezioni doganali, contro tutti i monopoli statali, contro il favore politico concesso particolarmente a questa o a quella intrapresa, contro l’universale ingerenza della burocrazia nella vita politica del Paese». Proprio per questi aspetti, assicurava Barbagallo, il manifesto nazional-liberale costituiva un’alternativa importante al «cieco nazionalismo dei puri nazionalisti e alla degenerazione pacifista e social-riformistica delle nostre classi dominanti», e rappresentava, forse, l’«unico e veramente serio programma di governo, che fin oggi la lanterna magica degli uomini e degli eventi contemporanei ci abbia permesso di conoscere». Ma appunto per questo, così concludeva l’intervento, il gruppo romano appariva votato, immancabilmente, all’insuccesso: Non solo perché gli uomini che vi stanno a capo non posseggono alcuna delle qualità pratiche indispensabili al successo; ma perché le loro idee sono troppo fini, troppo aristocratiche, troppo aliene da quella volgare faciloneria che oggi forma la potenza dei partiti e suscita la fortuna dei programmi politici, in seno a questo regime di suffragio universale e di rappresentanza proporzionale legiferante, cui anche essi i liberali-nazionali – ed è questa una delle loro pochissime mende teoriche – hanno nel loro programma avuto la debolezza di indulgere36.
34 U. RICCI, La politica economica del Ministero Nitti. Gli effetti dell’intervento economico dello Stato, Roma, Biblioteca di propaganda dei Gruppi Nazionali Liberali – Società Editrice “La Voce”, 1920. 35 Ricci era già intervenuto su questo punto in ID., Il mito dell’indipendenza economica, in «Riforma sociale», 1918, 3-4, pp. 23 ss. 36 C. BARBAGALLO, Note di vita politica. I Liberali-Nazionali, cit.
IL VARIO LIBERALISMO ITALIANO
287
Queste stessa critica era stata anticipata, ma senza alcuna generosità e partendo anzi da un preconcetto fazioso e a fini di pura propaganda elettorale, da Gobetti, sulle pagine di «Energie Nove», in un intervento della fine di novembre del 1919, posto a margine del manifesto nazional-liberale di settembre, che la rivista torinese pubblicava con questo titolo irridente: Frammenti di estetismo politico. Nel proseggiare oscuro di questo intellettuale, i partecipanti al movimento romano venivano definiti un «ascoso gruppo politico peregrino» e il loro programma un «esordio e pistolotto, politicamente inspiegabili, oltreché retoricamente disusati»37. Ai Nazionali Liberali non soltanto veniva rimproverata l’alleanza elettorale con i Nazionalisti, con uomini, quindi, apparentemente «discostissimi dai loro capisaldi ideali, per il loro passato e per il loro carattere, come Alfredo Rocco, Medici del Vascello, Federzoni». Ma di loro, soprattutto, era stigmatizzata l’astrattezza illuministica delle intenzioni, prive di ogni radicamento nella realtà sociale e quindi incapaci di elaborare una strategia di consenso e di egemonia. Il gruppo nazional-liberale è il partito della razionalità (pura e astratta). Avrà contro gli impiegati perché li vuole migliori, i grandi proprietari di terre, dai quali esige l’intensificazione della cultura, i contadini poveri perché non reclama l’espropriazione, i professionisti perché è contro la siderurgia e i liberisti perché parla sibillinamente di industrie giovani da sviluppare. Sentirà l’odio delle classi abbienti alle quali con evangelica innocenza raccomanda di non sottrarsi al loro dovere! E sentirà la furia dei proletari, che non sentono parlare di decimazione di ricchezza. Resteranno al partito, ben fermi, i filosofi e i poeti in numero che non sia di troppo soverchiante: resteranno gli uomini che non possono per definizione costituire un partito, se non il partito dell’intelligenza, come ha sostenuto Jacques Rivières, sulla “Nouvelle Revue Française”, IX, 1919: Il n’y a que nous dans le monde qui sachions encore penser38.
In questo specialmente, ma non soltanto in questo, la formazione politica, in cui Volpe militava, pareva, per Gobetti, costituire l’antagonista, più ancora nel metodo che nei contenuti, del gruppo degli Unitari, dove pure erano massicciamente presenti altri uomini di studio e di accademia: Piero Calamandrei, Filippo Crispolti, Carlo Ghini, Luigi Emery, Ettore Rota. Un rassemblement elettorale, questo, di contrastata ispirazione salveminiana e di scarsissimo impatto politico39, che già
37 Il manifesto, recapitato alla redazione della rivista da Umberto Ricci, veniva pubblicato, in «Energie Nove», II, 30 novembre 1919, 10, pp. 206-206, accompagnato dalla Postilla di Gobetti, ivi, pp. 206 ss. 38 Ivi, p. 207. 39 R. DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., pp. 441-442.
288
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
nell’aprile del 1919 aveva formulato un suo programma di sintesi40, anche in questo caso centrato sulla polemica con le tradizionali organizzazioni politiche e fortemente intransigente contro i vizi antichi del burocratismo, dell’accentramento amministrativo, del protezionismo e dell’assistenzialismo industriale rivolto a privilegiare gruppi economici e lobbies finanziarie, che avevano già in passato goduto del favoreggiamento del sistema di potere giolittiano, con grande danno del Paese nella sua interezza ma soprattutto del suo comparto meridionale. Questa formazione politica, in vista delle elezioni, era entrata a far parte della Lega Democratica di Rinnovamento della Politica Nazionale (dove anche Gobetti si era collocato), dalla quale invece i Nazionali Liberali avevano rapidamente fatto divorzio. Ad un esame serio e approfondito il gruppo Nazionale Liberale si rivela una piccola scimmiottatura della Lega degli Unitari. Sono un gruppo di lettori e collaboratori dell’Unità, che hanno…paura di Salvemini, della sua intransigenza e della sua invadente personalità. Si sono dati a ricercare le sfumature che ci separavano da noi e hanno fatto per se stessi. Nella dichiarazione dei principi nostri hanno visto un documento logico: l’esame di cultura politica, la prova di sapienza degli scrittori dell’Unità. Hanno affrontato anch’essi l’esame. E da bravi professori l’hanno superato. Gli unitari si sono chiamati democratici, chiarendo ciò che intendono per democrazia. I nostri amici romani sono d’accordo col chiarimento, ma non se ne soddisfano. Buttiamo a mare questo decrepito nome? Facciano pure. E si sono chiamati nazional liberali. Hanno essi pure ragione. Il contenuto del nostro programma, che essi han riassunto e fatto proprio, si può astrattamente chiamare tanto democratico che nazional liberale. Anche in linea di fatto i due nomi si equivalgono, perché sono entrambi screditati, falsi, equivoci. Ma l’importante non è il nome. L’importante è che vi sia un contenuto concreto accessibile al popolo e socialmente realizzabile. I nazional liberali hanno un contenuto logico. Fanno molto conto del nome accettato e che, quando si dimentichi quarant’anni di storia, può riuscire simpatico. Ma dimenticare quarant’anni di storia vuol dire dimenticare la realtà. Il partito liberale, come partito d’ordine e di imparzialità, come partito di governo, aveva un senso col suo programma eclettico, essenzialmente, nazionale, mentre si realizzava l’unità politica. Adesso non più. Adesso possiamo continuare la tradizione liberale, ma il programma deve rivestirsi di nuove forme. Liberali adesso sono gli unitari. E per essere tali devono abbandonare il programma eclettico. L’hanno abbandonato. I nazional liberali non se ne sono accorti. Per questo la loro scimmiottatura è politicamente inintelligente41.
40 Dichiarazione di principi, in «L’Unità», 26 aprile 1919, ora in L’Unità di Gaetano Sal-
vemini, cit., pp. 588. Il manifesto era stato formulato, in occasione del primo convegno degli amici dell’«Unità», svoltosi a Firenze dal 17 al 19 aprile 1919. 41 P. GOBETTI, Postilla, cit., p. 207.
IL VARIO LIBERALISMO ITALIANO
289
La polemica proseguiva ironizzando con ferocia contro l’indiscusso sostegno alla monarchia, tributato dai Nazionali Liberali, visto e considerato che, per Gobetti, l’affaticarsi intorno alla questione istituzionale, e persino il gran parlare attorno al progetto di una Costituente, pareva davvero una «buffonata idiota»42, da quando la rivoluzione russa aveva completamente sconvolto il tradizionale scenario della politica europea. Di qui, dall’incosciente baloccarsi di Gobetti con questo evento, del quale, con grande leggerezza, l’intellettuale piemontese non riuscirà o meglio non vorrà comprendere il contenuto totalitario43, nasceva un altro momento di contrasto con il gruppo nazionale liberale. Da quell’incauta affermazione, scaturiva un nuovo pretesto per la critica corrosiva al movimento romano, che dell’antibolscevismo militante aveva fatto, invece, un principio qualificante del proprio programma e della propria azione. La storia non è elucubrazione. Ma gli uomini neanche se ne accorgono. Si attaccano ai vecchi schemi. È più facile giudicare. Così adesso socialisti e conservatori (per dire le parole approssimative dell’uso) si atteggiano di fronte alla rivoluzione russa. Giudicano e, naturalmente, non intendono nulla. Si buttano per questa via, con molta buona volontà, anche i nazional liberali. Temono anch’essi il bolscevismo. C’è caso che anch’essi aderiscano all’unione antibolscevica. Io non so se mai sia venuto in mente a qualcuno dei nostri politicanti di militare tra i Guelfi o tra i Ghibellini. Eppure sentono tutti il bisogno di prendere una posizione politica di fronte alla rivoluzione russa. Non vedono che quella è storia: il moralismo dei giudici di quegli avvenimenti è grottesco, è coscienza di marionetta. Non sanno organizzare il proprio spirito, non sanno creare la propria attività. E si mettono a creare la propria storia e a organizzare l’universo. Una vendetta come un’altra. Ironia di insetti innocui. La Russia vivrà. Avrà il suo regime. È sulla buona via, perché è sulla sua via. L’autodecisione non ha bisogno delle sanzioni di Coppola o dei repubblicani o della Lega antibolscevica. Nel caso dei nostri nazional liberali voglio aggiungere un chiarimento. O bolscevichi voi chiamate i socialisti nostrani e allora la vostra posizione va benissimo. Avete il diritto di combattere l’Avanti! È lotta politica. O
42 Ivi, p. 209: «I nazional liberali pongono la loro differenza rispetto a noi, nel concretismo e antidemagogismo che essi portano nell’esame della questione costituzionale. Noi saremmo di fronte a loro degli astrattisti. Poiché essi affermano risolutamente di credere alla Monarchia e di sentire la Costituente come una leggerezza. Ma siamo d’accordo anche qui. […] In realtà la Costituente va combattuta come una crisi d’ignoranza. Dal 1789 sono passati centotrent’anni. Facciamone la commemorazione, festeggiamo l’anniversario: ma guardiamo innanzi. La nostra Camera è una costituente in permanenza. 43 «La Rivoluzione liberale», I, 1922, 2, p. 15, dove si sosteneva che «il rinascimento liberale si prepara (attraverso ogni sorta di astratti miti) per opera delle autonome forze popolari che credono di negarlo». L’intervento di Gobetti era redatto in margine all’articolo di G. DE RUGGIERO, I presupposti economici del liberalismo, ivi, pp. 6 ss.
290
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
alludete al fenomeno russo sia pure metaforicamente, e allora mi permetto di richiamarvi alla realtà. La rivoluzione russa è storia, voi dovete studiarla, senza pensare a combatterla. È un fenomeno sociale. Chiamare bolscevismo la rivoluzione russa e identificare bolscevismo con socialismo è semplicistico. Avete dinnanzi un mondo in formazione, e voi cercate lo schema in cui rinchiuderlo. Ma i mondi nuovi portano schemi nuovi. Troverete in Russia tirannia, dittatura militare, dittatura operaia, terrorismo, democrazia (nel senso volgare), ecc. Anzi tutte queste forme ci sono state, in realtà, successivamente. Ma non solo queste. E tutte queste forme hanno solo valore nel loro sviluppo storico. Il Governo in Russia non è, ma si fa44.
Fino a questo punto tracimava, dal suo corso, il processo di analisi, di decomposizione e di ricomposizione dell’idea liberale in Italia, fino al punto di tramutare quell’idea in mallevadrice della repubblica dei Soviet e di quel processo di involuzione dispotica che emergeva potentemente sotto l’imbroglio dell’esperimento di una democrazia diretta di tipo sarmatico45. Su questo punto, in particolare, e sull’insieme del petulante pezzo di Gobetti, contrastava, a nome dei Nazionali Liberali, Umberto Ricci46. Ma la replica si tramutava quasi in una risposta per causa personale, priva quindi di un effettivo mordente. Debolezza, questa, che permetteva a Gobetti di controbattere con facilità, anche se solo con un’altra stoccata, di dubbio gusto, inferta al gruppo politico romano, nella quale si misurava la distanza ormai incolmabile che lo separava da altri movimenti politici e dagli Unitari in particolare. Gli unitari fondando un’organizzazione politica a cui hanno dedicato un lavoro educativo e preparatorio, di più anni, rinunciando ai vuoti individualismi e agli atteggiamenti accademici, contano su una forza concreta capace di realizzarsi. Non hanno un programma letterario. Non dettano lezioni universitarie. Rappresentano dodici milioni di italiani, che sono state vittime sinora di privilegi di una casta egoisticamente chiusa. I contadini meridionali sono l’Italia. E un partito che si assuma di guidarli alla vita pubblica è una forza reale; la sola reale di fronte alla massa operaia del Nord. I nazionali liberali costituendo il partito dell’intelligenza portano con sé come proprio patrimonio i titoli di concorso per i quali hanno ottenuto la cattedra universitaria. E se questo è molto per il loro valore individuale non conta assolutamente nulla nella lotta poli-
44 P. GOBETTI, Postilla, cit., p. 211. 45 ID., Criteri di metodo per la storia della Rivoluzione russa, «Rivista di Milano», 20 feb-
braio 1921 poi in ID., Paradosso dello spirito russo, Torino, Einaudi, 1969, pp. 124-125: «Il popolo russo ha cominciato in questi anni a formarsi una coscienza politica. E per questo furono necessari i Soviet […] L’opera di Lenin e Trotzchi [sic] rappresenta questo. In fondo è la negazione del socialismo e un’affermazione e un’esaltazione del liberalismo. La storia dovrà riconoscerlo». 46 U. RICCI, La Poesia giocosa, «Energie Nove», II, 12 febbraio 1920, 12, pp. 246-247.
IL VARIO LIBERALISMO ITALIANO
291
tica. Perciò se il gruppo nazionale liberale pretende di influire nella vita pubblica italiana, noi vediamo nella sua costituzione un’ingenua scimmiottatura e una povera illusione di intellettuali. Poiché la vita degli studi non è la politica47.
Al di là dei toni, queruli e provocatori, questi strali coglievano nel segno, anche se il pulpito da cui si intonava quella predica era sicuramente quello sbagliato: perché né i salveminiani, né, tanto più, l’entourage di Gobetti potevano rivendicare, se non a parole, lo status di movimento capace di intercettare le grandi dinamiche politiche nazionali, ma solo quello di piccola ronda intellettuale che i risultati elettorali del 1919 avrebbero ineluttabilmente travolta. Quella competizione seppelliva per sempre le pretese del «partito degli intellettuali» di stampo vociano, faceva segnare il passo ai Nazionalisti, ai gruppi di ex combattenti ma anche a Radicali, Repubblicani e minori formazioni di democrazia laica, ridimensionava fortemente la compagine liberale, nelle sue componenti giolittiane e antigiolittiane, umiliata anch’essa, dall’irrompere impetuoso dei nuovi partiti di massa cattolico e socialista, che la sbalzavano dalla posizione di forza maggioritaria, con la perdita di circa cento deputati48. Si trattava di una vera e propria rivoluzione politica, che Giovanni Amendola avrebbe sintetizzato, parlando dell’ascesa irresistibile di formazioni politiche «potentemente organizzate che rappresentano, nel campo parlamentare, i metodi strategici della Grande Guerra». In quella nuova congiuntura, nasceva il «partito-milizia», o forse, come sarebbe più giusto dire, il «movimento-milizia»49, e scompariva ogni margine di sopravvivenza «per gli individui e le pattuglie», mentre occorreva guadagnare il controllo delle moltitudini e «disporre di grandi forze»50. Una conclusione, che Gaspare Ambrosini avrebbe ripreso analiticamente, soltanto l’anno successivo, riflettendo sulla comparsa nella trincea della politica di «partiti veri e propri», provvisti ormai di «vita continuativa», destinati a «esplicare la loro azione prima e dopo le elezioni e in un campo che è molto più vasto di quello strettamente elettorale»51.
47 Ivi, p. 249. 48 C. MORANDI, I partiti politici nella storia d’Italia, cit., pp. 354 ss. Sul punto, ora, E.
GENTILE, Fascismo e antifascismo. I partiti italiani fra le due guerre, Firenze, Le Monnier, 2000, pp. 21 ss. 49 ID., Storia del partito fascista. Movimento e milizia, 1919-1922, Roma-Bari, Laterza, 1989, pp. 460 ss., che esagera, in ogni caso, la coesione interna e il livello di subordinazione gerarchica dell’organizzazione politica fascista, in questi anni. 50 G. CAROCCI, Giovanni Amendola nella crisi dello Stato italiano, cit., p. 128. 51 G. AMBROSINI, Partiti politici e gruppi parlamentari dopo la proporzionale, Firenze, Società Editrice “La Voce”, 1921, pp. 19 ss.
292
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
2. Sui risultati di quel verdetto delle urne è lecito supporre che anche Volpe abbia riflettuto, traendone qualche non piccolo insegnamento, immediatamente percepibile nelle sue future scelte di campo, ormai lontanissime dalle convulsioni preagoniche del liberalismo tradizionale, che si dibatteva nella vana ricerca di una sua nuova organizzazione interna in grado di permettergli di contendere, almeno ad armi pari, con le altre formazioni politiche per la conquista del potere52. In occasione delle elezioni amministrative del 1920, Volpe, insieme a un altro nazionale liberale, Arrigo Solmi, abbandonava i compagni di strada che, dal 1914, avevano scortato il suo cammino politico, per presentarsi, come indipendente, a Milano, nel Blocco cittadino di Azione e Difesa sociale, di tendenza antisocialista e antipopolare, soprattutto anticomunista, che affrontava la prova del voto con un programma che il «Corriere della Sera» del 30 ottobre così sunteggiava: La lotta elettorale amministrativa vivrà le sue ore più intense nell’ultima settimana prima della votazione. Sono stati discussi in privato e fatti conoscere dalla stampa i programmi e gli uomini che i socialisti massimalisti intendono portare al Comune; ma non si conosceva ancora l’atteggiamento degli altri partiti politici che sembravano quasi appartarsi da una vivace competizione. Ieri sera solamente sono stati comunicati i risultati di un fecondo e ordinato lavoro di fusione condotto alacremente fra le diverse correnti politiche non socialiste né cattoliche. Lavoro che ha condotto alla costituzione di un solo e compatto organismo elettorale tendente a uno scopo unico e massimo di opposizione recisa all’azione comunista. Il Blocco cittadino di azione e difesa sociale riunisce la totalità delle associazioni economiche e politiche milanesi non legate al partito socialista né a quello popolare e ha realizzato una unità di intenti veramente confortante, superando con successo la crisi di formazione spesso deleteria a siffatti organismi, per il gioco delle ambizioni o delle esibizioni personali. Stabilite le linee sistematiche di un programma amministrativo sorretto da criteri riformatori e rinnovatori, si è svolto da un primo nucleo di associazioni il lavoro di raccolta delle adesioni che, come dicemmo, ha avuto risultati veramente lieti. Anche per la scelta dei candidati i sistemi sono stati ben diversi e ben più razionali di quelli passati: un ristretto gruppo di fiduciari ha selezionato rigidamente le liste presentate dalle diverse associazioni aderenti senza preoccuparsi di soddisfare speciali esigenze di equilibrio o di proporzione numerica, ma ricercando solamente le competenze tecniche e le tempre adatte e trovandole anche fuori delle liste proposte e al di fuori delle stesse associazioni aderenti53. 52 U. ULLRICH, Dai gruppi al Partito liberale (1919-1922), in Il partito politico dalla Grande Guerra al fascismo. Crisi della rappresentanza e riforma dello Stato nell’età dei sistemi politici di massa (1918-1925), cura di F. Grassi Orsini e G. Quagliarello, Bologna, Il Mulino, 1996, pp. 493 ss. 53 Il blocco di difesa sociale per le elezioni, in «Il Corriere della Sera», 30 ottobre 1920. Il trafiletto appariva, tra le «Ultime di cronaca», a p. 4.
IL VARIO LIBERALISMO ITALIANO
293
Anche quel tentativo si rivelava, tuttavia un fallimento, ma solo sul piano personale. Alla bocciatura di Volpe e della sua lista, nella competizione, che aveva registrato, nel capoluogo lombardo, una nuova indiscussa affermazione dei socialisti, faceva riscontro l’ancora relativo ma pure assai significativo successo dei candidati fascisti, che venivano eletti a Roma e in altre grandi città all’interno dei Blocchi nazionali, nel quadro di un’alleanza politica, quindi, che contribuiva ad abbattere le residue paratie tra fascismo e liberalismo, tra «filofascismo», in quanto mero partito d’ordine, e fascismo vero e proprio, in quanto «movimento eversivo di destra»54. Il movimento dei Fasci risollevava il capo dopo l’avvilente prova delle politiche, quando, nonostante l’entrata in campo di Marinetti e di Mussolini, non era stato in grado di piazzare un solo candidato nella nuova rappresentanza nazionale. La vittoria del novembre 1920 era stata soprattutto il risultato di un decisa ridislocazione di questo partito dalla sua tradizionale posizione politica, effettuata con il passaggio dal variegato fronte della sinistra interventista al ruolo di comprimario e poi di protagonista della riscossa borghese55, che la situazione, forse non rivoluzionaria, ma certo di collasso istituzionale e di vasta e ramificata anarchia sociale, nella quale l’Italia era sprofondata durante il biennio rosso56, aveva suscitato di necessità. La contromarcia di Mussolini si faceva evidente nel cambio di toni e di contenuti delle sue esternazioni. Dall’articolo del 29 ottobre 1919, dove il fascismo rivendicava il suo splendido isolamento, e che quindi risultava critico naturalmente contro il «Partito socialista ufficiale», ma non tenero neppure con gli uomini e i programmi della «destra», dalla quale, nonostante il comune sentire sulla questione nazionale, i fascisti si sentivano divisi per «un insieme di sentimenti, d’impulsi e di ribellioni, che non si pesano con il bilancino e che tuttavia scavano fra uomini e uomini un solco profondo come un abisso»57. A quello, molto più rassicurante, del 20 settembre 1920, sistematicamente improntato ad «antidemagogia e pragmatismo», e soprattutto incentrato a smascherare l’assalto al potere del movimento bolscevico in Italia, fomentato da «una dittatura di pochi uomini intellettuali non operai, appartenenti ad una frazione del 54 Per queste definizioni, R. VIVARELLI, Il fallimento del liberalismo, cit., pp. 150 ss. 55 R. DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., pp. 590 e 606 ss. 56 R. VIVARELLI, Storia delle origini del fascismo, cit., pp. 436 ss.; ID., Il fallimento del
liberalismo, cit., pp. 111 ss. in particolare p. 129: «Sulla base della reiterata fedeltà alla Terza Internazionale, alla quale il Psi aveva aderito fin dalla sua fondazione, si sviluppa in tutto il paese una accesa campagna di propaganda, i cui termini corrispondono ad una vera e propria dichiarazione di guerra civile contro le istituzioni vigenti e, più in generale, contro ogni forma liberal-democratica di governo». 57 B. MUSSOLINI, In campo da soli, «Popolo d’Italia», 29 ottobre 1919, in ID., Scritti e discorsi, cit., II, pp. 39 ss.
294
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
partito socialista, combattuta da tutte le altre frazioni»58. A quello, infine, del 13 novembre, che, con l’accettazione del Trattato di Rapallo, non solo suonava a fermo «rappel à l’ordre», contro le velleità insurrezionali ed eversive di dannunziani e marinettiani, ma costituiva anche una presa di distanza nei confronti dei nazionalisti, accusati di mostrarsi incapaci di comprendere il «bisogno di pace» dell’Italia, sul piano interno e su quello internazionale. Quanto alla Dalmazia noi dissentiamo nettamente dai nazionalisti romani. Questo equivoco tra nazionalismo e fascismo – sorto in taluni centri – deve cessare. I nazionalisti, come tutti i buoni partitanti legati a un sistema mentale rigidamente immutabile, biascicano le giaculatorie strategiche del 1914 (e i socialisti quelle economiche!), come se, da allora a oggi, niente di cambiato ci fosse al mondo. Inoltre il nazionalismo romano è imperialista, mentre noi siamo espansionisti; è pregiudizialmente monarchico, anzi, dinastico, mentre noi al disopra della monarchia e della dinastia mettiamo la nazione59.
Nonostante questo drastico, seppur provvisorio, ridimensionamento della rilevanza assegnata al problema del confine orientale e l’accenno alla questione istituzionale, tradotto ormai, tuttavia, in termini di «neutralità di fronte al regime» (e quindi smorzatissimo negli accenti, una volta confrontato con altri, anche recenti, pronunciamenti di Mussolini), nel novembre del 1920, Volpe transitava, come abbiamo visto, sia pure nelle vesti di semplice fiancheggiatore, nelle fila del movimento fascista, sulla base di un fiducioso progetto di restaurazione degli ideali nazionali ma anche in considerazione della capacità dimostrata da quel movimento di saper accortamente maneggiare la nuova «politica delle masse», alla quale era restato totalmente estraneo lo sdegnoso e miope misoneismo delle vecchie forze liberali60. L’adesione era ratificata da un intervento indirizzato a Mussolini, che, redatto il 18 di quello stesso mese, veniva dato alle stampe, sul «Popolo d’Italia», in casuale ma significativa coincidenza, la domenica della strage di palazzo d’Accursio a Bologna, dopo la quale lo squadrismo compiva un ulteriore salto di qualità politico e militare, e in ragione della quale il problema della violenza fascista si trasformava da semplice problema di ordine pubblico a problema di praticabilità del sistema co-
58 ID., Discorso di Trieste, pronunciato il 20 settembre 1920, al Politeama Rossetti, ivi, pp. 95 ss. 59 ID., Ciò che rimane e ciò che verrà, «Popolo d’Italia», 13 novembre 1920, ivi, p. 112. 60 ID., La Dottrina del Fascismo, con una Storia del movimento fascista di Gioacchino Volpe, Milano-Roma, Treves-Treccani, Tuminelli, 1932, p. 46. Si tratta della parte storica della voce «Fascismo», pubblicata in quello stesso anno nell’Enciclopedia italiana.
IL VARIO LIBERALISMO ITALIANO
295
stituzionale italiano61. Dato, questo, che Volpe francamente sottovalutava e in ogni caso giustificava in quanto reazione non reazionaria, ma legittima e salutare, necessaria a salvaguardare lo status quo sociale, a difendere le tradizioni del passato, ponendo tuttavia le basi dell’avvenire. Al “Popolo d’Italia” si potrà perdonare qualche intemperanza, se è riuscito a inquadrare e disciplinare, nell’ambito degli ideali nazionali, tanti giovani, ridestando in essi, e, per riverbero, nella maggioranza del popolo italiano, quella volontà e capacità di energica difesa di cui gli avversari hanno fatto recente e inaspettata esperienza. Ora questi giovani sono il nocciolo della reazione di oggi. Diciamo pure, senza timore, “reazione”. Non quella feroce reazione o terror bianco che conclamano (certo, ridendo sotto i baffi) i socialisti italiani, ai quali pare farebbe molto comodo uccidere un uomo morto; ma quella reazione che è volontà di vivere da parte di gente che sente di aver ancora capacità di vivere e ragione di vita. Reazione, perciò, che non si esaurisce in uno sterile “no”, ma suona come energico “sì”: “sì” per la patria e la nazione italiana e per il principio di nazione in genere, che è come dire il principio di organizzazione e di ordine del genere umano. “Sì”, per la libertà che è sforzo, è selezione, è giustizia, è moralità. “Sì”, per un ordinamento sociale che riconosca le ragioni e i diritti dei migliori. “Sì”, per questo e altro ancora che la rozza infantilità del massimalismo nostrano calpesta. Valori e principi che possono non rappresentare l’assoluto; ma sono ancora troppo vivi nel cuore di milioni di uomini, per credere che abbiano esaurito già oggi il loro ciclo vitale62.
Nel giugno del 1921, ancora Volpe, con una nuova lettera al direttore del «Popolo d’Italia», pur tra qualche esitazione e qualche difficoltà, esprimeva la fiducia che il fascismo avrebbe saputo rapidamente liberarsi delle sue incrostazioni antisistema (repubblicane e socialiste), la cui eco ritornava sporadicamente nelle affermazioni di Mussolini63, per divenire partito d’ordine, garante del mantenimento dell’assetto istituzionale. Questo attestato di fiducia era, in realtà, una richiesta pressante, che riecheggiava quella formulata da un fascista moderato, come Massimo Rocca, nel febbraio di quello stesso anno, il quale, anch’esso rivolgendosi direttamente al leader delle camicie nere, domandava lo smantellamento del vecchio armamentario ideologico giacobino, a partire dalla pregiudiziale antimonarchica. Se molte volte infatti,
61 R. DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., pp. 599 ss. 62 G. VOLPE, Per la nuova Italia, cit., pp. 243-244. 63 B. MUSSOLINI, Discorso all’Augusteo, cit., p. 203: «Chi può dire che le attuali istitu-
zioni siano in grado di difendere sempre gli interessi, soprattutto ideali, del popolo italiano? Nessuno […] Sulla questione del regime, il Fascismo deve essere agnostico, ciò che significa vigilanza e controllo. Perché il regime è l’abito che deve adattarsi alla Nazione e non già la Nazione che si deve adattare al regime».
296
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
nella storia, l’istituto reale era stato qualcosa di più autenticamente «democratico e più morale che non la dittatura esercitata da pochi gruppi di banchieri e di politici negli Stati Uniti e nella moderna Francia», il nostro passato prossimo rivelava come il sovrano avesse sempre correttamente interpretato l’autentica volontà nazionale, come quando, nel maggio del 1915, si era fatto «strumento del suo popolo contro il Parlamento», debellando la «repubblica presidenziale di Giolitti», evitando una guerra civile tra neutralisti e interventisti e mantenendo l’ordine all’interno del paese. Cosicché, concludendo, una rivoluzione repubblicana in Italia non si sa bene che cosa sarebbe, se troppo o troppo poco. Come impresa negativa è facilissima: e se i Fasci adottassero la famosa pregiudiziale dovrebbero regalarci il nuovo regime entro pochi mesi, sotto pena di apparire venditori di fumo rivoluzionario, come i socialisti. Ma nessuno ci assicura sulla durata e sulle direttive della “ricostruzione”, dopo che il Paese fosse stato messo a soqquadro: e il cambiamento dei francobolli, come giustificazione di simile rischio, sarebbe veramente troppo poco. Sarebbe troppo, invece, il rischio: perché io, conoscendo i repubblicani e i repubblicaneggianti che la “rivoluzione” incomincerebbero, e i socialisti che tenterebbero subito d’inserirvisi (tutta gente che vive d’idee astratte, senza curarsi di confrontarle) pavento molto che il preteso «rinnovamento» si tradurrebbe in una ulteriore esagerazione dei poteri del parlamento, dei politicanti e della burocrazia. E faccio in proposito gli scongiuri più disperati, per il bene del mio paese e l’onore del fascismo, se il fascismo, come il nazionalismo, significa idealmente qualche cosa64.
Nel riprendere queste tesi, Volpe non si limitava tuttavia, come Rocca, a riformulare lo slogan sonniniano «o monarchia o deriva parlamentare» e a riaffermare, sulla falsariga della tradizione del Risorgimento cavouriano e degli uomini della Destra, l’imprescindibilità dell’istituto monarchico per la tenuta stessa della compagine nazionale, la quale altrimenti avrebbe rischiato di dissolversi, in preda alle spinte centrifughe «dei mille iati e discontinuità e squilibri e particolarismi», o di presentarsi disarmata nel confronto ideale con il suo grande antagonista interno, il quale non aveva cessato di contrapporsi allo Stato italiano che «pur avendo debellato il papato politico e temporalesco ed essere entrato in Roma, vede sempre rizzarsi davanti a sé la grande ombra del Vaticano». La rivoluzione fascista, infatti, doveva portare non a un depotenziamento della corona, ridotta a divenire «un punto d’appoggio, un alleato insomma» del nuovo ordine, ma determinare, inve-
64 M. ROCCA, Repubblica o Monarchia. Lettera aperta a Benito Mussolini, in «Popolo d’Italia», 19 febbraio 1921, in ID., Il primo fascismo, cit., pp. 34-35.
IL VARIO LIBERALISMO ITALIANO
297
ce, una forte ripresa di iniziativa politica della dinastia, dopo i molti anni di torpore e di silenzio che avevano rischiato di comprometterne l’esistenza e che, ancora oggi, mettevano a repentaglio la sua capacità d’azione e di indirizzo. Un progetto di lungo respiro, questo, che Volpe illustrava, senza compiacenza e anzi con qualche asprezza nei confronti del recente operato del sovrano, e quindi con tono molto differente, mi pare, da quello utilizzato dai cosiddetti «fascisti monarchici»65, quando sosteneva che: In questo momento alla Monarchia di Re Vittorio Emanuele III noi facciamo molti rinfacci. Egli si è isolato per quattro anni al fronte. Un Savoia non poteva essere assente, anche materialmente, nella guerra guerreggiata: lo so. Ma vi eran cose ardue da fare e vigilare anche a Roma e nel fronte interno. E dopo la guerra, in questi ultimi tempi di passione, raramente ha detto, dall’alto, parole alte o severe o dure che il popolo attendeva o che al popolo si dovevano dire. Non ha fatto tutto quel che si poteva per evitare la tragedia di Fiume. Ha firmato amnistie ai disertori, ha tollerato che ai soldati, tornati dalla guerra, si lesinasse avaramente ogni onore, egli che doveva essere il più geloso e intransigente custode dello spirito militare. Ma vedete: noi – compresi, mi pare, i fascisti – rimproveriamo al re non tanto di esserci quanto di non esserci, di non fare veramente il Re. Colpa sua personale e nostra. La borghesia italiana ha lasciato solo il Re, si è curata poco del Re, come poco, in fondo, degli interessi veramente nazionali. Ma ora è possibile animare del nuovo spirito della nazione italiana Re e Monarchia, in modo che essi siano una realtà più veramente coordinatrice e direttrice? È possibile creare questo sentimento monarchico che sia una cosa col sentimento nazionale? Esso avrebbe poco a che fare col vecchio repubblicanesimo; ma altrettanto poco avrebbe a che fare col monarchesimo dei cosiddetti monarchici. Esso potrebbe veramente essere carattere distintivo di un movimento o partito come i Fasci, forse più che non la neutralità di fronte al regime e la tendenzialità repubblicana66.
Erano posizioni che l’ala estremista del movimento di Mussolini avrebbe considerato addirittura blasfeme, ma che sarebbe sbagliato leggere come testimonianza del fatto che, nel pensiero di Volpe, il fascismo rappresentava soltanto la «guardia bianca» della borghesia e dell’ordine monarchico. Certo i Fasci avevano evitato la «Caporetto interna, civile», se con questa dizione metaforica s’intendeva dire, facendo corrispondere un nome, denso di dolorose risonanze, a fatti inoppugnabili, «freni inibitori che non agiscono più, servizi necessari che vanno a catafascio, vincoli di disciplina e subordinazione gerarchica che sono rotti, alti coman65 Sul punto, F. PERFETTI, Fascismo monarchico. I paladini della monarchia assoluta fra integralismo e dissidenza, Roma, Bonacci, 1988. 66 G. VOLPE, Consensi e dissensi, cit., pp. 256-257.
298
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
di irreperibili o partecipi del generale smarrimento, fede caduta a terra e incapace a sostenere lo sforzo dell’azione»67. Ma in quel movimento non albergava la sola forza della reazione. Né esso pareva poter essere considerato il depositario in esclusiva di una filosofia antiparlamentare, e insieme di un modo diverso di concepire la competizione politica accanitamente anti-socialista ma anche decisamente anti-democratico e persino anti-liberale, se per liberalismo si intendeva la degenerazione dell’idea liberale, il suo snaturarsi, durante la stagione giolittiana, attraverso il connubio con ideologie da essa tutt’affatto diverse e contrapposte. Il fascismo infatti preesisteva alla crisi profondissima del sistema politico italiano. Non ne era stato il fattore ma piuttosto il prodotto. L’importanza della nostra storia interna, specialmente nel dopoguerra, sta nell’essere venuti a maturazione due processi antitetici e pure corrispondenti. Tutti e due preesistenti: la guerra li ha accelerati. Preesisteva e si è accelerato il processo degenerativo del socialismo italiano, come azione pratica e come dottrina, corroso e svalutato dallo sfrenarsi dei suoi mille egoismi di categoria, dal suo materialismo, dalla sua incapacità di spremere dal proprio seno una aristocrazia di dirigenti che non fossero avvocati e borghesi; battuto in breccia dal suo figliolo ribelle, il sindacalismo, e dal suo contrapposto, il nazionalismo, due movimenti che avevano attirato nella propria orbita molti degli elementi migliori del socialismo e dato qualche energica scossa alla borghesia. Preesisteva il decadimento e quasi esaurimento di quei ristretti gruppi di governo che, nel vocabolario dei partiti politici, si chiamavano “liberali” e “democratici” o l’uno e l’altro insieme, ormai estraniati dall’autentico liberalismo della prima ora, col loro protezionismo ad oltranza e con lo sfruttamento dello Stato da parte dei gruppi parassitari della borghesia; ridotti a vivere di transazioni e patteggiamenti fra le Camere del lavoro e le sagrestie, senza nessuna capacità di resistenza di fronte alla tracotanza dei demagoghi rossi e dei demagoghi neri. Preesisteva, infine, il discredito del regime parlamentare a cui il suffragio universale, il sistema proporzionale, la inasprita lotta fra i partiti, il loro cresciuto egoismo e nel tempo stesso il loro quasi equilibrio, che si risolveva in impotenza di governo, hanno dato il colpo di grazia68.
Il fascismo piuttosto pareva in grado di portare a termine un grande disegno di coesione nazionale, non solo modernizzando politicamente la monarchia, ma anzitutto valorizzando, anche se certo non in egual misura, quanto di meglio aveva prodotto la tradizione liberale, nazionalista, nazional-liberale, persino socialista, che si erano variamente intrecciate, confrontate, contrastate nella nostra vita politica durante il corso dell’ultimo quarantennio. 67 ID., Giovane Italia, cit., p. 393. 68 Ivi, pp. 386-387.
IL VARIO LIBERALISMO ITALIANO
299
Sì, all’analisi chimica può risultare che nel Fascismo c’è qualcosa del liberalismo, del vecchio, autentico ed energico liberalismo che accettava la lotta e la concorrenza e la selezione, riconosceva ed esaltava i valori individuali, lasciava entro lo Stato una larghissima sfera d’azione ai cittadini, ma vigilava con occhi d’Argo i cancelli dello Stato stesso e giungeva sino all’“adorazione” dello Stato, come vi giungevano gli uomini alla Silvio Spaventa. E c’è qualcosa – e ancora di più – del nazionalismo: del nazionalismo come passionalità e come senso dello Stato e come volontà di vita nel mondo e disprezzo di pacifismo e umanitarismo e cosiffatti impiastri democratici. Il Fascismo richiama i gruppi nazionali-liberali, sorti dopo la scissione del partito nazionalista nel 1914, che ebbero qualche anno di vita non infeconda al principio della guerra; e un lor modo di intendere l’intervento e la guerra, che li distingueva dalla democrazia della “libertà e giustizia”, dai patrioti della “Trento e Trieste”, dal liberalismo dei liberali; e un loro giornale bolognese e poi milanese, L’Azione, con qualche uomo di buona tempra e di saldo intelletto, come Alberto Caroncini. Dirò di più: può risultare che nel Fascismo c’è anche del socialismo, intendo certe esigenze del socialismo, il senso di certi problemi posti dal socialismo e ignorati o guardati un po’ dall’alto in basso per molto tempo dai nazionalisti. Sono ora in mortale contrasto, Fascismo e socialismo: ma chi oserebbe negare che quello presuppone questo e riprende con altri modi il compito di questo? Insomma vediamo riflettersi nel Fascismo, con maggiore o minore compiutezza e consapevolezza, un po’ tutte le nostre correnti di pensiero politico degli ultimi decenni, tutti gli sforzi di minoranze e di masse. Mescolanza e giustapposizione o sintesi o superamento? Vedremo. Per ora, questi uomini pare che vogliano più operare che dissertare. La loro produzione dottrinale è scarsissima. Potrebbe essere anche segno di insufficiente autocoscienza, ma anche titolo e motivo di superiorità69.
E qui, per davvero, il Volpe storico dava la mano a quello politico. Soltanto lo studioso che, come nessun altro, aveva colto le pulsioni profonde del «sottosuolo» della storia italiana nell’età medievale70, l’agitarsi apparentemente contraddittorio di scismi e ortodossie, di spinte al cambiamento e di movimenti apparentemente retrogradi, che pure tutti avevano contribuito a formare una stagione storica straordinaria, poteva intendere il carattere composito, apparentemente caotico, dell’eresia politica del fascismo, che forse, proprio in virtù della scarsa coerenza del suo corpo di dottrina, anche da altri messa in evidenza71,
69 Ivi, pp. 401-403. 70 L’espressione era contenuta nella recensione di Vincenzo Bucci al volume di G. VOLPE,
Momenti di storia italiana, apparsa nel «Corriere della Sera» del 5 maggio 1926. 71 A. DE MARSANICH, La situazione del Partito Nazionale Fascista, in «Critica fascista», 15 dicembre 1923, p. 254: «Ecco dunque delinearsi la massima deficienza del Partito Fascista: la mancanza di un pensiero centrale organico e ben definito, intorno a cui raccogliere tutte le fila del movimento e dargli una base e un’unità, così come il marxismo costituisce
300
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
aveva inglobato molte delle dinamiche, delle speranze, e insieme delle illusioni, delle deviazioni, dei traviamenti, che si agitavano, in modo irresistibile, nell’inquieto dopoguerra italiano, senza, probabilmente, pensare di poterle rappresentare così compiutamente, senza, sicuramente, ambire di rivendicarne un giorno la piena delega politica. Un giudizio dunque, quello di Volpe, che decretava la non estraneità, nel bene e nel male, del fascismo alla storia d’Italia: a una storia «che passava» seguendo il suo flusso impetuoso, travolgendo tutte quelle paratie ideologiche che avrebbero dovuto disciplinare il suo corso e che, invece, lungi dal moderarlo, lo rendevano soltanto più travolgente. Un giudizio che, non solo per paradosso, trovava qualche punto di tangenza con l’analisi di De Ruggiero, che pure, già dal marzo del 1921, aveva assunto, senza equivoci, una posizione fortemente polemica contro il movimento di Mussolini e i suoi sostenitori, provenienti dagli ambienti della borghesia liberale, incapaci di comprendere, che, proprio con l’entrata in campo del fascismo e con la pretesa di rintuzzare per sua mano la «tracotanza socialista», rendendo violenza per violenza, «mai la borghesia è stata tanto schiava del proletariato quanto oggi, che, per affermare la propria autonomia, ne accetta passivamente e servilmente il massimo postulato della lotta di classe» e che in nessun momento, come ora, «il filo-socialismo, sconfessato nelle formule, è stato così presente in atto»72. Anche da questo punto di vista, allora, nessun rapporto di convergenza, nemmeno parziale e temporanea, era possibile instaurare tra liberalismo e fascismo, come sosteneva Augusto Monti, in un intervento che riecheggiava largamente le posizioni di De Ruggiero, dove si sosteneva che l’avvento di Mussolini era stato «la pietra di paragone del liberalismo italiano». Da quel momento, infatti, «i liberali di razza, anche se militanti in altri partiti, subito, di istinto, si son posti contro al fascismo, e ne han sentito tanto maggior ripugnanza quanto più radicato era in loro il liberalismo»73. Ma questo generoso appello, concentrato sulla base del socialismo, e il mito della libertà e il diritto naturale e il liberismo economico costituiscono quella del liberalismo. Che non esista una dottrina politica fascista, oltre l’idea della Nazione gerarchicamente ordinata, che non è integralmente nostra, è dimostrato dalla molteplicità delle interpretazioni che gli stessi fascisti danno del fascismo, sì che ognuno crede in un suo proprio Fascismo». Sullo stesso punto si esprimeva anche Angelo Tasca, ancora nel 1938, «Vi sono più specie di fascismo, ciascuna delle quali implica tendenze molteplici e talora contraddittorie, che possono evolvere fino a mutare alcuni dei loro tratti fondamentali». Si veda ID., Nascita e avvento del fascismo. L’Italia dal 1918 al 1922, Bari, Laterza, 19652, p. 554. 72 G. DE RUGGIERO, Il concetto liberale, in «La nostra scuola», 16-31 marzo 1921, ora in ID., Scritti politici, cit., pp. 365 ss., in particolare p. 368. 73 A. MONTI, Due fascismi, in «La Rivoluzione liberale», I, 1922, 1, p. 57.
IL VARIO LIBERALISMO ITALIANO
301
la necessità di mantenere intatto il proprio patrimonio ideale, si scontrava con gli aspri fatti della storia che in breve avrebbero travolto molte distinzioni tradizionali, quando, secondo una più tarda versione di Volpe, «molti “intellettuali”, orientati in gran parte verso quel liberalismo, che era, per i più, vivere e lasciar vivere, e non impegnava troppo le coscienze, si strinsero di più al fascismo»74. Il non glorioso «crepuscolo degli dei» dell’idea liberale decretava anche la fine del vecchio regime statutario, e con esso l’umiliazione dei rappresentanti legali, anche se da molti non più ritenuti legittimi, della nazione, come sempre Volpe annotava in questa palpitante, eppure ironica, testimonianza inviata alla moglie, subito dopo la marcia su Roma, nella quale si intravedeva il suo futuro destino politico che, per un lungo ventennio, si sarebbe sviluppato all’ombra del profilo carismatico e inquietante del Duce del fascismo. Ma, in quella corrispondenza, redatta quando ancora ardevano i fuochi del bivacco dei manipoli accampati nell’Urbe, la vecchia Italia giolittiana dei compromessi, dei favori richiesti e concessi per fedeltà di famiglia e di campanile, delle estenuanti attese nelle anticamente del potere, delle lotte intestine tra camarille politiche e corporazioni intellettuali sembrava erigersi ancora potente, impermeabile a ogni cambiamento e a ogni rivoluzione. Ieri sono andato in Senato, alla biblioteca. Ho visto Ruffini, visto Croce. La sera ho fatto visita a Gentile. Quella stanzetta era piena di gente: scolari, amici, parenti venuti da Castelvetrano di Sicilia, con fiera aria fascista. Ho detto all’avvocato Gentile: “Anche lei ha fatto la marcia su Roma!”. E lui: “L’avremmo fatta, se ci fosse stato bisogno!”. Gentile non era molto scandalizzato dal trattamento fatto a quei poveri Deputati: sta prendendo anche lui il colore del tempo… Del resto, è tranquillissimo pel suo ufficio di Ministro. La povera signora deve ora combattere con tutti i postulanti che vanno lì per favori: e deve conciliare un cartello ammonitore, inchiodato sull’uscio (“Per cose d’ufficio rivolgersi al Ministero”), col suo buon cuore che vorrebbe dare ascolto a tutti. Stamattina poi sono andato alla Consulta per vedere il Duce. Non avevo appuntamento, ma ho approfittato di Casati che ho trovato lì e che entrava, per mandar il mio biglietto da visita. Uscendo, mi ha detto che sarei stato ricevuto. Ma aspetta, aspetta, non veniva mai il mio turno. Sono così rimasto lì più di due ore, finché ho visto Mussolini uscire. “Voi qui ancora?”, mi ha gridato. “Credevo foste andato via! Perché non siete entrato?”. Quindi Casati mi aveva riferito male le sue parole. E così, poiché gli ho detto che non sarò a Milano, martedì giorno del suo ritorno da Losanna, abbiamo combinato di trovarci al suo ritorno a Roma. Ha sempre più la maschera truce, angolosa, di uomo che quasi non vede il basso mondo dall’alto del suo piedistallo. Certo che se non perde la testa con tanta smaccata adulazione che gli gorgoglia intorno, è segno che quella te74 G. VOLPE, Storia del movimento fascista, Milano, Ispi, 1939, p. 125.
302
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
sta è quadra sul serio. Ho parlato a lungo con Casati, in anticamera. Mi ha accennato al pericolo grave che io e lui entriamo nella lista nuova dei consiglieri. Per me, ha accennato a un pericolo anche peggiore: l’assessorato della Pubblica Istruzione. Mi sono messo a ridere e voi non dite a nessuno queste sciocchezze. Jacini poi, che ho pure visto, ha aggiunto: “Si parla di un sindacato Casati!”. Insomma, casa nuova su tutta la linea75.
3. L’avvicinamento di Volpe al fascismo non era senza effetti per la sua attività di studioso e influenzava anche, in misura non solo residuale, il progetto di «Storia d’Italia in collaborazione», che pure aveva raccolto l’adesione di intellettuali di vario temperamento ideologico: da De Ruggiero, a Omodeo, a Casati, a Gentile, ad Anzilotti, a Ugo Monneret de Villard, a Gino Luzzatto, a Giuseppe Prato, a Francesco Ercole, Ettore Rota, Salvemini, Raffaele Ciasca, Pietro Egidi, Paolo Negri, Nino Cortese, Leonardo Vitetti e Roberto Cantalupo e in un secondo momento, forse, anche Mario Vinciguerra76. Il disegno della collana si sarebbe ulteriormente precisato con la stesura di un opuscolo, in cui erano suggeriti alcuni indirizzi generali «per armonizzare un po’ il lavoro dei collaboratori»77, concepito alla fine del 1920, redatto già nell’ottobre del 1921, infine pubblicato nel marzo dell’anno successivo, che avrebbe dovuto servire anche come base di discussione tra tutti i partecipanti al piano editoriale. In quel Programma e orientamenti per una Storia d’Italia in collaborazione e per una Collana di volumi storici, si manifestava un disegno di storia nazionale che doveva dare il senso del nuovo clima politico, sociale e morale che si era affermato al termine della guerra, pur «senza retorica e senza enfasi, senza “boria di nazioni” e parole pronunciate ore rotundo e supervalutazione, cioè deformazione del nostro passato, a scopo di effimera propaganda». Di qui la struttura a piramide rovesciata dell’opera, che tendeva ad allargarsi con lo scorrere dei secoli, quando la storia della nazione italiana aveva dovuto confrontarsi, tra luci e più spesso tra ombre, ma sempre con formidabili ricadute sul contesto interno, con quelle delle altre formazioni politiche mediterranee e continentali. Una storia d’Italia, infatti, doveva e non poteva non essere anche una storia dell’Italia nella storia d’Europa e nella storia del mondo78. 75 Gioacchino Volpe a Elisa Serpieri Volpe, Roma 19 novembre 1922, CV. 76 Sul punto, il mio Storia d’Italia e identità nazionale. Dalla Grande Guerra alla Repub-
blica, cit., al capitolo III. 77 G. VOLPE, Programmi ed orientamenti per una storia d’Italia in collaborazione e per una “Collana di volumi storici”, ivi. 78 Questo indirizzo sarebbe stato poi direttamente sviluppato da Volpe nei saggi Europa e Mediterraneo nei secoli XVII e XVIII, in «Politica», 1923, poi in ID., Storia della Corsica italiana, Milano, Ispi, 1939, pp. 89 ss.; Italia e Europa, «Gerarchia», 1925, poi in ID., Mo-
IL VARIO LIBERALISMO ITALIANO
303
Questa internazionalizzazione della storia patria risultava soprattutto evidente nel progetto di affiancare, ai volumi di storia d’Italia propriamente detta, altri contributi che, dal Medio Evo in poi, investigassero le «vicende dell’Italia fuori d’Italia», i «problemi di rapporti fra noi e gli altri, problemi di interesse vivo ancor oggi e che stanno fra la politica e la storia, con visibili riferimenti pratici». Rapporti di cultura e di religione. L’influsso dell’Islam attraverso la Spagna e la Sicilia. L’irradiazione europea del Rinascimento. La Controriforma, individuata, quindi, come movimento della «cattolicità, ma che lascia in Italia il suo contro», che «è papato, che nel XVI secolo ha così visibili segni, direi, nazionali, che pur mentre opera nel mondo, si nutre di succhi nazionali»79. E ancora, la matrice europea del «Settecento riformatore» italiano, i rapporti di reciproco scambio ma anche di lotta e di contrasto per l’egemonia intellettuale con Spagna, Francia, Inghilterra, Germania, di cui un capitolo fondamentale doveva essere costituito dalla storia del fuoriuscitismo politico a partire dal 1815. Ma soprattutto rapporti di economia, di politica, di potenza: dall’espansione commerciale italiana verso il Levante dopo l’XI secolo, al predominio del «commercio e banca italiana nell’Europa centrale e occidentale», alla «trasformazione e crisi dell’economia italiana nel ’400 e ’500, per circostanze interne ed esterne», fino al vasto moto dell’emigrazione prima artistica e intellettuale poi, a partire dal secolo XIX, prevalentemente di risorse imprenditoriali, artigianali, di mano d’opera verso l’Africa e le Americhe. Questa materia era delineata nella lettera del 24 maggio 1921, indirizzata a Fortunato Pintor80. Al quale si domandava di intercedere presso il fratello, Luigi, importante dirigente del Ministero delle Colonie, per ottenere la segnalazione di «qualche intelligente e onesto funzionario dello Stato, affiatato con i paesi di immigrazione italiana» disposto a stilare una storia della Colonizzazione italiana in America nell’ultimo cinquantennio. Nella corrispondenza emergeva con energia la necessità di distaccarsi dalla tradizionale trattazione di questo argomento. L’emigrazione italiana non doveva essere studiata dal «punto di partenza, cioè delle condizioni italiane che han provocato l’esodo», e di conseguenza esclusivamente come depotenziamento demografico e culturale della comunità nazionale, come era accaduto nei pur pregevoli studi di Francesco Coletti81, ma «nel suo punto d’arrivo» e in quanto analisi «della formazione, dello sviluppo, della vita e stato presente
menti di storia italiana, cit., pp. 301 ss. 79 Gioacchino Volpe a Guido De Ruggiero, Milano, 22 maggio 1921, AGDR. 80 La lettera è conservata in FFP. 81 F. COLETTI, Dell’emigrazione italiana, Milano, Hoepli, 1912.
304
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
delle colonie italiane in America dalla metà del XIX secolo in poi». Il flusso migratorio andava considerato, dunque, non soltanto come penosa «diaspora» e cartina di tornasole del sottosviluppo della Penisola e delle sue zone più arretrate, ma come fenomeno di espansione dell’Italia nel mondo, in qualche misura paragonabile alla dinamica dell’incremento nazionale assicurato dalla conquista coloniale. E non casualmente al volume sull’emigrazione doveva affiancarsene un altro, che solo la «sua posizione ufficiale e una certa tal quale sua paternità della recente politica africana del nostro paese» impediva di affidare a Luigi Pintor. Uno studio, che doveva incentrarsi sulle «vicende dell’azione e politica italiana in Africa dai viaggiatori del secolo scorso in poi», e soprattutto sull’«azione nostra allo studio del continente, gruppi di immigrazione (in Egitto, Tunisi ecc.), politica coloniale, problemi relativi, rapporti con Inghilterra, Francia, Turchia, mondo arabo in conseguenza di tale politica»82. La storia del nostro paese doveva essere, quindi, anche la storia della sua spinta propulsiva nello scenario internazionale: antica e nuova. Anzi quella storia doveva rafforzare l’impeto di quella spinta, come Volpe, a più riprese, negli anni a venire, avrebbe sostenuto con insistenza. Ma già con i due saggi progettati nel 1921 – poi precisati nel titolo come Gl’Italiani d’America e L’Italia nel continente africano – il disegno della «Storia d’Italia», conosceva una sua decisa flessione in senso nazionalista. Nel rispondere alla più che scontata domanda su quando si dovesse datare il momento storico costitutivo dell’unità italiana, il suo primo impiantarsi come «nazione», Volpe rispondeva, senza esitazioni, indicando quell’epoca nel Medio Evo. Così si sosteneva nel Programma e così si ribadiva nel saggio del gennaio 1922, apparso su «Politica», con il titolo emblematico di Albori della Nazione italiana83, dove Volpe, con un forte rimando al primo assai sintetico abbozzo di storia nazionale, apparso nel 191484, operava la scelta dei secoli XI e XIII come culla della storia italiana, ma questa volta in quanto processo di de-bizantinizzazione e de-arabizzazione della penisola, di contenimento della pressione slava sul confine nord-orientale, di opposizione alla struttura sovrastatale dell’Impero, di affacciarsi di alcune dinastie provviste di un pur del tutto embrionale progetto di dominio peninsulare, di diffuso senso dell’unità di uno «spazio politico», se non altro, come «avversione al dominio di genti estranee». Ma non era tutto. In questo contributo e in altri interventi, Volpe vedeva l’Italia farsi nazione soprattutto nella sua
82 Gioacchino Volpe a Fortunato Pintor, Milano 17 giugno 1921, in FFP. 83 Lo si veda in G. VOLPE, Momenti di storia italiana, cit., pp. 3 ss. 84 ID., La «Dante Alighieri» e la vita italiana fuori dai confini, cit.
IL VARIO LIBERALISMO ITALIANO
305
spinta verso l’esterno, già nell’età medievale. Non solo grazie all’attività degli «Italiani fuori di Italia» e come semplice egemonia commerciale sul Mediterraneo85, ma come vera e propria conquista territoriale volta verso l’Istria, la Dalmazia, la Tripolitania, la Corsica, il Levante, le Baleari86, che suggellava quella che verrà poi definita l’«età dell’espansione» dell’economia italiana tra XII e XIII secolo, tanto impetuosa da ribaltare completamente il tradizionale equilibrio di potere tra mondo cattolico-latino e mondo greco-mussulmano e da assicurare al contempo una vasta e profonda penetrazione nei mercati dell’Europa centrale e settentrionale. Il problema storico degli «Italiani fuori d’Italia», che avrebbe avuto larga diffusione da Volpe in sede storiografica87, trovava in questo modo un’immediata ricaduta politica, anche in relazione ad alcuni diretti interventi del nuovo capo del Governo, che collegava il problema dell’emigrazione da «tutelare», perché «dovunque è un italiano là è la Patria, là è la difesa del Governo per questi italiani», al passato splendore dell’espansione della genti della Penisola fuori dai confini nazionali, nel XIV secolo, quando «gli altri popoli erano mal vivi o non erano ancora nati alla storia»88. Anche sotto l’influsso di queste sollecitazioni Volpe era passato con disinvoltura dalla storia passata alla «storia dei propri tempi», tanto da riecheggiare sostanzialmente, se non fedelmente, le sempre più aggressive dichiarazioni di Mussolini sulla politica estera italiana, la quale avrebbe dovuto liberarsi, al più presto, dell’«ipoteca» del Trattato di Versailles e «smascherare le utopie» della Società della Nazioni, che costituivano un «sistema» di oppressione internazionale garantito dalle «potenze conservatrici» europee89. Era una linea decisamente «revisionista», antifrancese e soprattutto antibritannica, la quale riecheggiava alcuni temi del terzomondismo populista già ampiamente sviluppati dal D’Annunzio «diciannovista», che ora si concentrava sui desolanti risultati della «Caporetto albanese» provocati dalla neghittosa politica di Nitti, ora apriva un nuovo fronte di polemica, puntando, tra giugno e ottobre del 1922, sulla situazione del vicino Oriente, dove, si affermava, il nostro paese aveva «buone carte da 85 G. VOLPE, Italiani fuori d’Italia alla fine del Medio Evo, pubblicato in due distinti articoli su «Gerarchia» nel 1922, ora in ID., Momenti di storia italiana, cit., pp. 61 ss. 86 ID., Albori della Nazione italiana, ivi, pp. 26 ss. 87 ID., L’Italia in cammino, cit., pp. 64 ss. e 151 ss. 88 B. MUSSOLINI, Il problema dell’emigrazione. Discorso pronunciato alla Scuola Normale Femminile “Carlo Tenca”, 2 aprile 1923, ID., Scritti e discorsi, cit., III, pp. 97 ss. 89 La polemica di Mussolini contro l’ordine di Versailles, sarebbe stata riepilogata, più tardi, da G. CAPRIN, Sistema e revisione di Versaglia nel pensiero e nell’azione di Mussolini, Milano, Ispi, 1940. Sul punto, G. RUMI, Alle origini della politica estera fascista, 1919-1923, Bari, Laterza, 1968, pp. 225 ss.
306
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
giocare» se avesse saputo favorire il «nazionalismo arabo in pieno sviluppo». La diplomazia italiana doveva liberarsi della sua tradizionale anglofilia, che aveva da sempre compromesso l’autonomia della nostra politica nel Levante, e disimpegnarsi «una buona volta dalla sudditanza inglese». Bisognava, infatti, «prepararsi all’eventualità di fare una politica praticamente anti-inglese». L’Italia non aveva infatti alcun «interesse a contribuire al mantenimento dell’impero inglese», ma anzi sua convenienza consisteva nel «collaborare a demolirlo». Erano parole che avevano già avuto qualche ripercussione pratica, nel giugno del 1922, quando il gruppo parlamentare fascista votava un ordine del giorno contrario alla ratificazione dei mandati anglo-francesi su Siria, Libano, Palestina90, che era enfaticamente approvato da un editoriale di Mussolini91, il quale, in un altro articolo apparso sul «Popolo d’Italia», nel marzo del 1922, aveva puntato il dito sui difficili rapporti anglo-egiziani e sulla possibilità di un loro sviluppo favorevole agli interessi mediterranei dell’Italia92. Volpe interveniva a sua volta sulla materia, con una serie di corrispondenze dall’Egitto, pubblicate su quello stesso quotidiano, tra giugno-luglio 192293. Erano testimonianze in presa diretta, nelle quali si sosteneva che la rottura del vecchio ordine internazionale determinato dal conflitto aveva avuto diversissimi risultati nell’«Europa centrale e sudorientale» e nel vicino Oriente. In un caso, la catastrofe degli antichi Imperi aveva portato alla nascita «di nuove creature, cioè nazioni e Stati, che hanno visto la luce del sole e altre che sono in faticosa gestazione». Nell’altro, popoli che la rovina delle grandi potenze plurinazionali ha liberato dal passato servaggio, sono ora costretti a cercare la loro salvezza contro «i trionfatori dell’Intesa liberatrice», che pure a quelle genti avevano chiesto, durante la guerra, «sangue e denaro», martellando le loro orecchie di parole come «libertà», «indipendenza», «autodecisione», facendo loro acquistare «coscienza di diritti da far valere», permettendogli di concepire «speranze che è ora difficile eludere». Nessuna delle «cambiali» sottoscritte durante la guerra era però stata onorata, né nelle isole del Mediterraneo sottratte alla Turchia, né in Palestina, né in
90 J.B. DUROSELLE, Storia diplomatica dal 1919 ai nostri giorni, Milano, Led, 1998, pp. 48 ss. 91 B. MUSSOLINI, Italia e Oriente. La gratitudine dei siriani per l’Italia, «Il Popolo d’Italia», 14 luglio 1922, in ID., Opera omnia, a cura di E. e D. Susmel, Firenze, La Fenice, 1951-1980, 36 voll., XVIII, p. 281. 92 ID., Italia e Mediterraneo. L’Egitto indipendente?, «Il Popolo d’Italia», 2 marzo 1922, ivi, pp. 76 ss. 93 Le corrispondenze sarebbero state rifuse in due articoli apparsi su «Politica», tra 1922 e 1923, ora in G. VOLPE, Guerra Dopoguerra Fascismo, cit., pp. 116 ss.
IL VARIO LIBERALISMO ITALIANO
307
Irak, né in Libano né nella Siria, dove i nativi avevano contrastato armi alla mano alla Francia «il diritto di mettere nuove imposte, di introdurre la coscrizione da cui il paese era libero anche sotto i Turchi, di pigliarsi i tre quarti delle entrate doganali, di fare regolamenti e leggi, di esercitare il mandato indipendentemente dalle condizioni che solo la Società delle Nazioni potrà stabilire e che finora non ha stabilito». Se, nelle vie di Damasco, «beduini del deserto, e commercianti della città, studenti e plebe, mussulmani e cristiani» avevano organizzato contro tutto ciò «scioperi, boicottaggi, resistenza attiva e passiva», fino alla «guerra guerreggiata», il «regno d’Egitto di nuovissima formazione» aveva acquistato una sovranità, sia pure monca e parziale, «sotto la pressione del movimento nazionale» che, tra 1919 e 1921, con violenti moti al Cairo e ad Alessandria, aveva obbligato la Gran Bretagna a compiere un deciso «mutamento di rotta» della sua politica. Dall’insofferenza contro l’Occidente di quelle regioni, ormai non più semplici espressioni geografiche o meri agglomerati tribali, si levava così una sfida che era necessario raccogliere, perché nella loro resistenza contro un alieno dominio, accanto a «elementi negativi, residue xenofobie, fanatismi religiosi, misoneismi di gente chiusa in sé», esistevano anche «aspirazioni nuove, impulsi nuovi, che sono anti-europei non in quanto neghino l’Europa e quel che le è intrinseco e proprio, ma in quanto vogliono, armati di talune delle sue stesse armi, contrastare all’Europa, liberarsene e gareggiare con essa nel campo politico ed economico»94. Quella sfida non riguardava soltanto i tradizionali potentati coloniali, ma anche l’Italia, che doveva favorire l’ascesa delle giovani nazioni arabe, nel suo stesso interesse. Se l’Egitto cercava di conquistare la sua piena indipendenza, sul piano sostanziale e non solo formale, questo voleva anche dire che quello Stato avrebbe potuto, una volta raggiunto quell’obiettivo, sottrarsi al monopolio commerciale inglese e cercare altri partners nell’area mediterranea, in particolare per quello che riguardava l’esportazione del cotone, che, proprio in quel momento, soffriva della fortissima concorrenza statunitense nei mercati tradizionalmente riservati a quella merce95. Per il nostro paese si sarebbe trattato non solo di un ritorno all’origine dei nostri commerci internazionali, che avrebbe potuto rinverdire la sua antica tradizione mercantile verso Oriente, ma del rafforzamento di un ruolo che, in realtà, non era mai del tutto venuto meno, come ancora testimoniava la presenza di attivissimi gruppi artigianali, imprenditoriali, mercantili in quella nazione. Gli «Italiani d’Egitto» costituivano infatti una «rispettabile colonia», per 94 Ivi, p. 124. 95 Ivi, pp. 142 ss.
308
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
potenziale umano se non per risorse finanziarie, e un «vitalissimo interesse economico italiano» anche se la sua presenza era stata a lungo sottovalutata dalla «cecità grande di uomini dirigenti nostri che credevano poter risolvere i problemi interni del nuovo Stato, sequestrandosi all’attività internazionale», quasi operando una «anticipazione e preparazione moderata o democratica del futuro socialismo italiano e del suo feroce “piede di casa”». Ma quegli «Italiani fuori d’Italia» rappresentavano un interesse grande anche sul piano politico e geopolitico, dato che «quei nostri nuclei nazionali sono l’anello centrale di quella sottile ma ben radicata colonizzazione nostra che da Algeri, attraverso Tunisi, Tripoli, Bengasi, Alessandria, Cairo, Rodi, Smirne, Costantinopoli, fino a Salonicco, accompagna quasi tutta la costa mediterranea attorno alla penisola, si estende nel Mar Rosso, dove si affacciano insieme Egitto ed Eritrea, nella baia di Solum in cui si toccano Libia italiana ed Egitto, per prolungarsi, poi, fino ai confini del Sudan con le nostre colonie»96. Dopo la metà del XIX secolo, la presenza italiana sulle rive del Nilo si era inoltre consolidata e allargata fino a toccare le 50.000 unità, tanto da risultare numericamente superiore «in rapporto a Francesi e Inglesi», nonostante la politica a loro ostile della Gran Bretagna, la strategia di assorbimento culturale e linguistico messa in atto da altri gruppi europei, e non solo inglesi, che era aggravata dalla mancanza di un sostegno attivo dalla madrepatria, per quanto riguardava la costituzione di scuole primarie, secondarie, specialmente professionali, del tutto trascurata dopo il breve interludio rappresentato dalla politica mediterranea di Crispi. Questo abbandono della «colonia» italiana d’Egitto faceva ostacolo alla possibilità di «legare il nostro nome a questa decisiva fase della storia degli Egiziani e degli Arabi», che si stava aprendo, per «apparire ai loro occhi un coefficiente utile del loro rinnovamento, orientarli verso di noi, moltiplicare mutui rapporti d’ogni genere». In tutto questo, la nostra inferiorità non era certo immediatamente sanabile, perché «inerente alla nostra complessiva inferiorità nel Mediterraneo e al posto che noi occupiamo nella gerarchia delle Potenze». Eppure l’Italia poteva giocare con forti speranze di successo, proprio in questo scenario, la carta dell’oggettiva convergenza del proprio interesse nazionale con quello dei paesi arabi, «poiché solo la piena indipendenza dei nuovi Stati d’Oriente potrebbe garantirci una relativa parità di trattamento con Francesi e Inglesi o altra gente; solo la piena indipendenza dell’Egitto potrà distogliere dal capo dei nostri Italiani anche solo la minaccia di diventare per forza cittadini francesi o inglesi, e di essere snazionalizzati, come si vuole fare a Tunisi e a Malta e forse si vorrà fa96 Ivi, p. 152.
IL VARIO LIBERALISMO ITALIANO
309
re in Siria e Palestina dai Mandatari»97. La politica dei «mandati» non costituiva infine un ostacolo unicamente alla nostra proiezione commerciale, imprenditoriale e al flusso della nostra emigrazione, in quell’area, ma minacciava anche la nostra economia interna nel suo complesso. Un tema, questo, che Volpe ribatteva con maggiore urgenza, in un articolo del «Popolo d’Italia» del 14 luglio del 1922, nel quale si deprecava la politica di boicottaggio che la Francia andava sviluppando contro l’importazione di merci provenienti da altri paesi in Siria, per favorire i propri manufatti. Da uno degli ultimi posti, nelle importazioni in Siria, la Francia è salita al secondo. E siamo ora nelle prime e incerte fasi di questo “mandato” alias dominio; e ci sono stati di mezzo frequenti boicottaggi, contro le merci francesi; e la Francia era malamente preparata a quel commercio, poiché essa non ha mai prodotto in fatto di cotoni l’articolo specializzato per il Levante, come hanno fatto sempre l’Italia e l’Inghilterra. Che cosa avverrà quando il dominio sarà assicurato; e il boicottaggio, per forza di cose, interrotto; e l’industria francese meglio addestrata nella produzione di certi articoli? L’Inghilterra e l’America potranno risentir questa piccola crisi delle loro esportazioni come una puntura, ma noi la risentiamo come una ferita. Mettiamola nel conto del nuovo assetto del Mediterraneo e del Levante, dove, al posto di una Turchia aperta a tutti, ci sono Stati europei che o controllano o sbarrano le porte d’accesso, come la Grecia, la Francia, l’Inghilterra, a Salonicco, a Costantinopoli, a Smirne, a Beyruth. Esportare uomini, esportare merci ci sarà, se questo assetto diventa definitivo, sempre più difficile. Ciò che vuol dire: alcuni dei problemi centrali della nostra esistenza, posti con sempre maggiore urgenza negli ultimi decenni, si stanno non risolvendo ma ingarbugliando. La loro soluzione la vediamo più difficile e più lontana, se noi proseguiamo su la rotta che abbiamo battuto sino ad ora dal giorno dell’armistizio in poi. La distanza fra noi e gli altri condomini del Mediterraneo è aumentata anziché diminuita. E forse aumenterà ancora nel prossimo avvenire se ciò che si preannunzia a Tunisi, in Egitto, a Rodi diventerà un fatto compiuto; se l’ordine nuovo improvvisato nei territori dell’ex-Impero turco in Asia e a Costantinopoli si consoliderà98.
L’ingiustizia del nuovo assetto internazionale, partorito a Versailles e nutrito a Ginevra, andava dunque, se non distrutta dalle fondamenta, almeno fortemente corretta, se l’Italia non voleva rassegnarsi a nuove e ulteriori penalizzazioni. Volpe rilanciava questo messaggio, anche in margine di un intervento in apparenza di carattere squisitamente culturale, censurando il presunto pacifismo, che affiorava da qualche tendenza della storiografia francese, come ipocrisia di beati possidentes 97 Ivi, p. 174. 98 ID., Gli effetti economici dei mandati, in «Il Popolo d’Italia», 14 luglio 1922, p. 1.
310
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
che, dopo aver usurpato un vastissimo impero d’oltremare, avevano la spudorataggine di definire «ingordigia i desideri tedeschi sul Marocco e velleità dei “megalomanes d’Italie” le aspirazioni italiane su Tunisi attorno al 1880»99. Ma la polemica era già tornata, con maggiore irruenza, sul terreno della «grande politica» nel gennaio del 1923, quando si paragonava il «mollamento generale nei rapporti esterni, con Lloyd George e Clemenceau, con Albanesi e Jugoslavi e Turchi e Greci» dell’immediato dopoguerra, che aveva caratterizzato «la fase della massima impotenza internazionale dell’Italia» e la sua quasi «mania di annientamento», con le nuove prospettive, che si aprivano dopo la marcia su Roma, grazie a «un ben avviato ringiovanimento dello spirito italiano, una più salda compagine nazionale e un più energico senso della vita: il tutto, necessario viatico per un popolo, che, più forse di ogni altro d’Europa e del mondo, potrebbe tra trenta anni o cinquanta anni trovarsi dinnanzi a imperiosi doveri e tragiche necessità»100. Al tempo delle abdicazioni doveva seguire ora quello della riscossa dell’Italia sul piano internazionale, come prometteva Mussolini, inaugurando, nel febbraio di quello stesso anno, una «nuova politica estera» audacemente revisionista nei confronti degli accordi successivi alla Grande Guerra, non escluso lo stesso Trattato di Locarno, che non poteva né doveva essere «tra tutte le centinaia di Trattati, che sono stati stipulati da quando il mondo fa la sua storia, proprio l’unico Trattato irreparabile, tombale, perpetuo»101. Quasi a corollario di questa affermazione, Volpe aveva modulato l’elogio della muscolosa politica del nuovo presidente del Consiglio, palesatasi nell’incidente di Corfù102, a proposito del quale Salvemini avrebbe poi messo violentemente in discussione la fable convenue del «Mussolini diplomatico»103. Per Volpe invece la «politica delle cannoniere»
99 ID., Bella storia, la storia di Francia! (Mentre si riprende a “dissipare gli equivoci”),
in «Gerarchia», 25 marzo 1923, in ID., Guerra Dopoguerra Fascismo, cit., pp. 185 ss., in particolare p. 201. 100 ID., Giovane Italia, cit., pp. 391 e 401. 101 B. MUSSOLINI, La nuova politica estera. Discorso tenuto alla Camera dei deputati, nella tornata del 16 febbraio 1923, in ID., Scritti e discorsi, cit., III, pp. 59 ss., in particolare p. 64. 102 Dopo la fine del conflitto, l’Italia appoggiava l’Albania nel contenzioso insorto con la Grecia, a proposito di alcune questioni territoriali. Un ufficiale italiano, il generale Tellini, membro della commissione internazionale preposta alla delimitazione dei confini tra i due paesi, veniva ucciso dai greci. In risposta all’eccidio, il 31 agosto 1923, Mussolini faceva bombardare Corfù dalla nostra flotta e ne disponeva l’occupazione. Su pressione di Francia e Inghilterra, la Società delle Nazioni obbligava l’Italia a sgombrare l’isola, in cambio delle scuse del governo di Atene e del versamento, a titolo di indennizzo, di 50 milioni di lire. 103 G. SALVEMINI, Mussolini diplomatico, Paris, Editions contemporaines, 1932, ora in
IL VARIO LIBERALISMO ITALIANO
311
inaugurata dal Capo del governo doveva leggersi come un necessario, seppur parziale, regolamento di conti con gli antichi alleati, che, già durante la fase terminale del conflitto e poi negli accordi che lo conclusero, avevano dimostrato la volontà di trasformarsi in duri e risoluti antagonisti nella competizione internazionale, riducendo agli occhi del mondo il nostro contributo alla vittoria, escludendoci da «ogni beneficio coloniale pattuito e no», creandoci alle spalle un «presuntuoso jugoslavismo», stigmatizzando duramente il presunto «imperialismo italiano», rinnovando la collaudata «entente franco-britannica» in un «fronte unico verso di noi»104. Era il proseguimento di una politica di antica data, già ampiamente manifestatasi «nella non benevola neutralità accordataci durante l’impresa libica e durante la faticosa sistemazione balcanica che seguì alle guerre del 1912-13», a cui l’imbelle giolittismo aveva saputo opporsi in maniera del tutto insufficiente, ma che ora giungeva finalmente a scontrarsi, così Volpe si sarebbe più tardi espresso, con una personalità politica, del tutto estranea ai calcoli spesso meschini dei corridoi diplomatici. Una personalità d’eccezione, che si dimostrava capace di rompere l’accerchiamento internazionale nel quale era stata rinserrata l’Italia immediatamente dopo la vittoria. I piccolo Stati nuovi o ingranditi dell’Europa centrale e sud-orientale già accodati alla Francia e stretti ad essa in virtù di trattati e convenzioni militari e crediti aperti largamente… Francia e Inghilterra, piene di ripicche, gelosie e sospetti l’una di fronte all’altra, ma risolute a mantenere la loro posizione egemonica e solidali di fronte a noi. L’Italia isolata. Prima della guerra, alleati, amici o aspiranti alla nostra amicizia, sia pur per far saltare l’alleanza. E fu colpa nostra se non sapemmo valorizzare adeguatamente né l’alleanza né l’amicizia. Fra il 1922 e il 1923, non più né alleati né amici, ma, attorno, attorno, gente sprezzante e botoli ringhiosi, sicuri dell’impunità. Chiusi, poi, sempre più gli sbocchi migratorii nostri e messisi quasi tutti i paesi di immigrazione, a far politica di assorbimento degli elementi etnici forestieri… Ma pur tuttavia si è rivelato subito, al governo della nostra navicella risollevatasi dal gorgo, la presenza di un nuovo timoniere. Non era un diplomatico dalle lunghe basette, incanutito sopra una piccola e logora scacchiera. Non un ricostruzionista ad oltranza. Non un conciliatore ostinato degli altrui imperialismi, che poi avrebbero fatto fronte unico, verso di noi. Non un professore di diritto costituzionale. Ma un uomo di volontà semplice e diritta, che aveva un sentimento altissimo del suo paese e rispecchiava la passione di milioni di combattenti, i quali non si accontentavano di aver fatto la guerra per la libertà e la giustizia… degli altri e non intendevano essere messi alla porta come servitori. E così lavorando alacremen-
ID., Preludio alla seconda guerra mondiale, a cura di A. Torre, Milano, 1967, pp. 41 ss. 104 G. VOLPE, A crisi superata. Constatazioni e previsioni, «Gerarchia», ottobre 1923, in ID., Guerra Dopoguerra Fascismo, cit., pp. 203 ss.
312
GUERRA DOPOGUERRA FASCISMO
te per un anno e mezzo, molto si è edificato. Nuovi rapporti si sono stretti con la Jugoslavia, con l’Albania, con la Polonia, con la Cecoslovacchia, con la Russia. Nel blocco che la sorella latina aveva sistemato ai nostri fianchi nell’Europa centrale, è entrato un cuneo. E si vigila con occhio attento e quasi geloso, sopra ogni interesse nostro fuori dei confini; senza pregiudiziali di partito, senza filie o fobie, senza più bardature ideologiche. Si vigila sul vicino Oriente, nei centri lontani della nostra emigrazione, a Tunisi, si ché, crediamo noi, di dare ai nostri vicini d’oltralpe il senso vivo che essi creerebbero l’irreparabile e provvederebbero non durevolmente al proprio interesse, tagliando con un tratto di penna la nazionalità loro a decine di migliaia di Italiani che in Tunisia hanno preceduto la Francia e hanno, prima della Francia, contribuito alla valorizzazione economica del paese105.
105 G. VOLPE, Fascismo. Governo fascista. Problemi italiani del momento. Pnf. Elezioni politiche, 1924, Milano, Società Anonima Istituto Editoriale Scientifico, s. d., pp. 17 ss.
III.
DENTRO LA DITTATURA
1. LA PARTE DELLA POLITICA 1. Più che la sostanza della politica estera di Mussolini, la quale, tutto sommato, si sforzava di preservare, al di là delle dichiarazioni di principio, un accordo di fondo con Francia e Inghilterra, pur sfruttandone di volta in volta i reciproci contrasti, per dare all’Italia un maggior prestigio nei Balcani, nel Medio Oriente e soprattutto nel continente africano1, Volpe nelle sue esternazioni pareva prendere sul serio, ingenuamente e con qualche sprovvedutezza, il carattere bluffistico della strategia internazionale del nuovo governo, senza rendersi conto del suo carattere tutto strumentale, fondamentalmente subordinato alla stabilizzazione del quadro interno2. Quella politica, fatta più di slogan che di azioni concrete, la quale avrebbe incontrato scarso favore negli ambienti nazionalisti e ultrafascisti3, assicurava però la cornice ideale per l’insistito elogio della volontà di potenza della «Nuova Italia» che Volpe andava modulando e che sembrava non scandalizzare in alcun modo i suoi vecchi compagni di strada. L’articolo Albori della Nazione italiana, con il suo trascorrere dal passato all’ora presente, dalle conquiste delle antiche «Repubbliche del mare» alle nuove ambizioni espansionistiche conculcate da un’ingiusta pace, era accolto con grande favore da Salvemini, seppure con qualche disappunto per la sua collocazione editoriale4. Ma gli umori, si dica pu-
1 R. MOSCATI, Gli esordi della politica estera fascista, in La politica estera italiana dal 1914 al 1943, Torino, Eri, 1963, pp. 39 ss. 2 R. DE FELICE, Mussolini il duce. I. Gli anni del consenso, 1929-1936, Torino, Einaudi, 1974, pp. 323 ss. 3 G. CAROCCI, La politica estera dell’Italia fascista, 1925-1928, Bari, Laterza, 1969, pp. 23 ss. 4 Ernesto Sestan a Gioacchino Volpe, s. l., 4 dicembre 1957, CV: «Salvemini, negli ultimi mesi, si era ridotto molto male, senza speranza e anche senza volontà di vivere, che è brutto segno. Mi è dispiaciuto molto della sua dipartita, anche se scontata da tempo, perché troppo dei miei primi passi nella via degli studi e della mia formazione giovanile è legato al ricordo del suo insegnamento. E fra quei ricordi c’è anche il ricordo di un giorno del 1923 [sic], in cui, con alti elogi per Lei, mi consigliò e invogliò a leggere il Suo saggio su Gli albori della Nazione italiana uscito allora in una rivista che, per altro verso, non doveva riuscirgli molto gradita, la “Politica” di Coppola».
316
DENTRO LA DITTATURA
re scopertamente nazionalistici di quegli interventi, non dovevano aver disturbato neanche gli altri autori della «Storia d’Italia» e sicuramente non De Ruggiero, che, il 5 febbraio del 1922, pubblicava un ampio resoconto del progetto editoriale di Zanichelli sul «Resto del Carlino», dove si parlava di «un’opera veramente grandiosa che rappresenterà uno dei frutti migliori del nuovo “storicismo” e darà all’Italia una coscienza adeguata di sé e del suo passato». Di quell’iniziativa e del suo spirito guida, così diverso da quello che aveva dominato l’«era spirituale del Risorgimento», De Ruggiero valorizzava soprattutto la ricaduta pratica e politica, la capacità di voler essere programmaticamente storia del passato che diveniva anche «storia del presente». Oggi la vita del nostro popolo trabocca dagli angusti limiti in cui settant’anni fa audaci minoranze costrinsero la storia d’Italia. C’è uno sviluppo esuberante di quistioni sociali che non trova ragione nelle stilizzate vicende dell’unità nazionale, e che ci spinge invece ad affondar lo sguardo in quella zona ancora grigia della popolazione (la quasi totalità!) che fu assente dal moto unitario ma che pur visse e lavorò per l’avvenire. Vi son valori positivi di opere, di tradizioni, di cultura in quegli statarelli d’Italia che ci son stati rappresentati come pezzi di carne da insaccare per far salcicce. E ce ne accorgiamo o confessiamo di accorgercene solo ora che abbiamo dimesso i vecchi pudori patriottici. C’è un respiro più ampio di vita internazionale, pur nelle vicende nazionali dell’Italia che non si lascia misurare con le solite filie e fobie – in istile patriottico – degli stranieri verso noi o viceversa. Investito dalla luce del presente, l’orizzonte del passato si allarga5.
In quegli anni tempestosi, il progetto della «Storia d’Italia in collaborazione» iniziava il suo cammino, anche grazie a una serie d’incontri, tra Firenze e Bologna, con i responsabili della Zanichelli, ai quali partecipavano, insieme a Volpe, anche Anzilotti e Ciasca, e nel corso dei quali si precisavano i criteri economici e scientifici della collana6. L’iniziativa procedeva, così, apparentemente al riparo dai contraccolpi terribili della congiuntura storica e anzi conosceva una sua diretta ricaduta pubblica. Nell’ottobre del 1921, Volpe impegnava De Ruggiero per una conferenza, da tenersi a Milano, presso il Circolo Filologico («un’istituzione seria di coltura, pur volgendosi al pubblico mezzanamente colto»), che doveva riprendere il soggetto del volume in preparazione. La scelta del tema era motivata con questa considerazione: «Una quan-
5 G. DE RUGGIERO, Per una Storia d’Italia, «Resto del Carlino», 5 febbraio 1922, p. 3.
Sul punto, Gioacchino Volpe a Guido De Ruggiero, Milano, 14 febbraio 1922, AGDR. 6 Si vedano le lettere di Volpe ad Alessandro Casati del 22 settembre, 14 ottobre, 15 novembre 1921, FAC.
LA PARTE DELLA POLITICA
317
tità di frammenti di idee brulicano in molti cervelli su ciò: si tratterebbe di aiutar quei cervelli a dar loro un ordine, un organismo, sia pur sommario»7. Nella lettera d’invito si aggiungeva che: sarebbe preferibile che la conferenza avesse un carattere generale, cercasse di mostrare, nella sua genesi e nell’epoca della sua maturità, il nocciolo del pensiero liberale, osservato nei paesi ove rappresentò qualcosa di vivo e di fattivo. E accennare che cosa è stato corroso poi, e come e da chi, di quel pensiero e che cosa è rimasto. Non una conferenza politica la sua e quelle tutte del Circolo; ma che possa contribuire a chiarificare le idee politiche e determinare qualche atteggiamento pratico8.
Alla risposta positiva di De Ruggiero, che aveva addirittura proposto di raddoppiare il numero delle conferenze, Volpe così replicava, quasi delineando le linee direttive essenziali del libro futuro: In caso che si potesse farne due, certo mi piacerebbe che la prima si occupasse del liberalismo in genere, del suo sorgere e svilupparsi nei paesi che gli furono più veramente patria; la seconda, del liberalismo italiano, magari in speciale riguardo agli scrittori meridionali. Qualora ci si dovesse contentare di una sola conferenza bisognerà mettere un pizzico di liberalismo europeo, un altro di liberalismo italiano, un ultimo di meridionalismo. Servirà per invogliare a leggere qualche libro e chiarire qualche idea9.
Nell’elenco degli altri relatori, che avrebbero dovuto partecipare agli incontri milanesi, figurava Gentile con lo stesso tema (Il pensiero del Rinascimento italiano e il pensiero europeo), che doveva costituire la materia del volume della collezione alla quale si stava lavorando10. Ma anche Croce, a cui soltanto il suo ancora troppo recente atteggiamento di fermo oppositore dell’entrata in guerra dell’Italia impediva di attribuire, nonostante l’intenzione di Volpe, un tema fortemente calato nella attualità politica, come «il pensiero politico o i dibattiti di pensiero durante la guerra»11. Non era questo un caso isolato, tra quelle che poi pote7 Gioacchino Volpe a Guido De Ruggiero, Santarcangelo di Romagna, 8 ottobre 1921, in AGDR. Tra gli altri argomenti proposti da Volpe: «le correnti del pensiero filosofico del XIX secolo» e anche il «pensiero politico dei giacobini italiani fra il XVIII e il XIX secolo». 8 Gioacchino Volpe a Guido De Ruggiero, Milano, 10 novembre 1921, ivi. 9 Gioacchino Volpe a Guido De Ruggiero, Santarcangelo di Romagna, 17 ottobre 1921, ivi, 10 Gioacchino Volpe a Giovanni Gentile, 15 novembre 1921, AFG 11 Gioacchino Volpe a Giovanni Gentile, settembre 1921, ivi: «Croce sarebbe l’uomo per una tale conferenza ma credo che non accetterebbe e su lui e contro di lui corrono ancora troppe prevenzioni». Su quella opposizione a Croce, tacciato di antipatriottismo, si esprimeva P. GOBETTI, Benedetto Croce e i pagliacci della cultura, «Energie Nove», I, 15-20
318
DENTRO LA DITTATURA
rono apparire come innaturali convergenze che il mondo della cultura manteneva in vita in quel momento, valicando i confini che la crudezza del confronto politico andava segnando. Nel settembre del 1923, era ancora Salvemini, uno degli intellettuali italiani che con maggiore precocità aveva manifestato la sua opposizione verso il nuovo ordine politico, a progettare «una serie di 5 o 6 conferenze sull’Italia negli ultimi cinquant’anni», alle quali avrebbe dovuto assistere soltanto «un pubblico assai ristretto di diplomatici e uomini politici»12. Tra i relatori di quello che sembrava poter divenire un vero e proprio laboratorio politico, venivano elencati Gino Luzzatto («Lo sviluppo economico dell’Italia dal 1870 ad oggi»), Luigi Salvatorelli («I partiti democratici»), Rodolfo Mondolfo («Il movimento socialista»), Ernesto Buonaiuti («Il movimento cattolico»). Infine, Volpe che avrebbe dovuto impegnarsi sul tema: «Il movimento nazionalista e fascista». Solo molto più tardi, sempre Salvemini avrebbe accusato «il prof. Volpe» di avere smarrito, a partire da quel momento e per sempre, il limite che divideva «la politica in quanto storia dalla storia in quanto fede politica»13. Un giudizio, questo, che occorre verificare nel dettaglio, e senza pregiudizi, prendendo in considerazione non soltanto l’attività scientifica di Volpe durante il ventennio ma anche il suo impegno militante, che, nella lettera inviata a Gentile nel febbraio 1924, per accettare la candidatura alle prossime elezioni, sembrava configurarsi nel segno di un’esperienza del tutto temporanea di intellettuale prestato alla politica e sempre pronto a ritornare alla quiete appartata degli otia accademici. Che cosa debbo dirti? Ho esitato 24 ore prima di dire si; e anche in questo momento ho forte dubbio di essermi messo su di una cattiva strada. Il mio timore precipuo è: essere distolto dagli studi e specialmente dal volume sulla guerra cui ora attendo, destinato al pubblico anglo-giapponese; e rendere poco come deputato, almeno per questo primo anno, seppure non oltre. E allora? Avrei lasciato una via buona per una cattiva: e il mio rendimento me lo vedrei diminuire. È un pericolo per me mettere troppa carne sul mio fuoco: cioè assumere incarichi superiori alla mia capacità di lavoro! Comunque ti ringrazio
novembre 1918, ora in ID., Scritti politici, cit., p. 17: «La gazzarra contro Benedetto Croce dura ormai da qualche tempo: l’hanno sollevata, sotto l’egida del patriottismo, pochi, interessati, nemici personali, più che nemici, botoli ringhiosi, invidiosi, impotenti. Gli ingenui hanno abboccato e c’è uno sciocco a Torino, pieno di pretese e di bile, che lo chiama von Kreutz». Per il progetto della conferenza al Filologico, si vedano anche le lettere indirizzate da Volpe al filosofo dell’ 8 ottobre 1921 e del 16 marzo 1922, in ABC. 12 Gaetano Salvemini a Gino Luzzatto, 14 aprile 1923 in, G. SALVEMINI, Carteggio, 1921-1926, a cura di E. Tagliacozzo, Bari, Laterza, 1985, pp. 186-187. 13 ID., Memorie di un fuoriuscito, a cura di G. Arfé, Milano, Feltrinelli, 1960 p. 41.
LA PARTE DELLA POLITICA
319
per la parte che hai avuto tu in questa faccenda. La tua buona opinione di me a volte mi spaventa, ma certo mi fa molto piacere. Vedremo se sarà un bene avermi improvvisamente e inaspettatamente in medias res della politica14.
Questa, e altre più tarde testimonianze15, hanno contribuito a creare la tentazione di arrivare a una valutazione giustificazionista della sua biografia politica16, tramite il suo inserimento nella categoria, per altro assai mistificatoria, del «fascismo critico», del «fascismo defascistizzato»17 o peggio a confezionare, con incredibile superficialità, il figurino di un Volpe «maldestro nel muoversi tra i meandri politici dell’Italia fascista, un galantuomo lontano da mezzucci e lenocini ideologici, un candido, a suo modo, a proprio agio soltanto in quegli studi dove non c’era posto per faziosità ideologiche», addirittura un «liberale»18. Si tratta, in ambedue i casi, di una ricostruzione assolutamente erronea, basata soprattutto sull’errata valutazione di quello ius mormorandi, di quel diritto al mugugno, che il regime concesse più o meno largamente a molti degli intellettuali attivi nel Ventennio19, e che in Volpe toccherà livelli di spregiudicatezza sicuramente alti, addirittura eccezionali e fuori norma, ma non tali da poter configurare una vera e propria contestazione sistematica alla dittatura. Anche dopo il fallimento del tentativo di arrivare a una normalizzazione liberale del fascismo, Volpe resterà, almeno fino al 1941, un intellettuale fedele al regime, nonostante le tantissime disillusioni che il dispiegarsi di quella «rivoluzione» gli avrebbe provocato, anche se mai supinamente allineato con le direttive di Palazzo Venezia, come molti al-
14 Gioacchino Volpe a Giovanni Gentile, 20 febbraio 1924, in AFG. 15 Gioacchino Volpe a Elisa Serpieri Volpe, 12 settembre 1944, in ID., Lettere dall’I-
talia perduta, 1944-1945, a cura di G. Belardelli, Palermo, Sellerio, 2006, p. 57: «Mi son trovato iscritto, per iniziativa altrui, più che mia, in un partito: ma non ho mai sentito, pensato, operato da uomo di partito, che astrae da ciò a cui il partito debba veramente servire. E perciò ho finito coll’aver danno da tutti i partiti, anziché come ad altri accade, vantaggio da tutti i partiti». 16 M. DE LEONARDIS, Gioacchino Volpe e la storiografia sulla “morte della patria”, in «Annali di Storia Moderna e Contemporanea dell’Istituto di storia moderna e contemporanea dell’Università Cattolica del Sacro Cuore», VIII, 2001, pp. 483 ss.; G. BELARDELLI, Il Ventennio degli intellettuali, Cultura, politica, ideologia nell’Italia fascista, Roma-Bari, Laterza, 2005, pp. 97 ss. Correttamente, sul punto, E. GENTILE, La grande Italia. Il mito della nazione nel XX secolo, cit., pp. 170 ss. 17 G.B. GUERRI, Giuseppe Bottai, un fascista critico, Milano, Feltrinelli, 1974, ora ristampato con diverso titolo, Milano, Mondadori, 1996. Per la critica a queste categorie, E. GENTILE, Fascismo. Storia e interpretazione, Roma-Bari, Laterza, 2003, pp. VII-VIII. 18 G. ALIBERTI, Da Cavour a Giolitti: l’Italia di Croce e di Giolitti, «Elite&Storia», 2006, 2, pp. 15 ss. 19 R. DE FELICE, Mussolini il duce. I. Gli anni del consenso, cit., pp. 106 ss.
320
DENTRO LA DITTATURA
tri chierici di quel periodo20, se si eccettua la ristretta schiera dei veri e propri Mussolini’s intellectuals21. Durante tutto questo periodo, lo storico fu infatti integralmente «fascista», a patto naturalmente di considerare il carattere, composito, poliforme contraddittorio di questo movimento22, le sue diverse anime che se non furono forse quelle migliaia, che Volpe avrebbe enumerato nel 193123, corrispondevano sicuramente a svariate componenti, spesso divergenti e in contesa tra loro, le quali andavano dalla «sinistra estrema» a un «centro destra» tendente a trasformarsi in «un partito conservatore» sul tipo della vecchia Destra storica, critico verso le degenerazioni del parlamentarismo ma assolutamente contrario alla liquidazione del sistema parlamentare24. Come molti altri protagonisti di quella drammatica e ancora oggi controversa stagione, Volpe sarebbe entrato nel movimento dei Fasci, forte della sua passata esperienza politica, nella quale l’esigenza di arrivare a costruire una forte compagine statale si sposava a quella di non soffocare, all’interno di quella struttura, le necessarie e salutari spinte autonomistiche, che provenivano dalla periferia del Paese e soprattutto dal corpo vivo della società civile. Dimostravano molto bene quest’atteggiamento due interventi redatti tra il luglio del 1920 e il marzo 1921, ambedue pubblicati su «La Sera»25, destinati ad approfondire il senso di quel progetto di riforma federalistica dell’ordinamento statale, che aveva costituito uno dei punti qualificanti del programma dei Gruppi Nazionali Liberali tra 1914 e 1919. Entrando in diretta polemica con una nota di Napoleone Colajanni, pubblicata su quello stesso quotidiano milanese, Volpe dichiarava di non aver certo nessuna intenzione «di portare acqua al mulino repubblicano» né di prestare alcun aiuto al tentativo di resuscitare quella, che «50, 60, anni addietro, fu la disputa tra unitari e federali e anche l’altra sul problema istituzionale». La ripresa di queste problematiche era troppo rischiosa, infatti, «in un’Italia, come quella che oggi ci sta davanti agli occhi, agitata da passioni fierissime, turbata da
20 E. DI RIENZO, Intellettuali fedeli ma non allineati, in «il Giornale», 11 luglio 2005. 21 A.J. GREGOR, Mussolini’s Intellectuals. Fascist Social and Political Thought, cit. Sul
punto, il mio, Anche il Duce aveva i suoi professori, in «il Giornale», 30 marzo 2005. 22 D. CANTIMORI, Conversando di storia, Bari, Laterza, 1967, p. 134. 23 Una lettera aperta di S. E. Volpe sui “modi di sentire e vivere il Fascismo”, «Il Tevere», 27 novembre 1931, ora in G. VOLPE, Scritti sul fascismo, 1919-1938, Roma, Volpe Editore, 1976, 2 voll. I, pp. 147 ss. 24 V. FANI CIOTTI, sotto lo pseudonimo di VOLT, Le cinque anime del fascismo, in «Critica fascista», 15 febbraio 1925, pp. 8 ss. 25 G. VOLPE, Regionalismo e federalismo, in «La Sera», 12 luglio 1920 e ID., Unità e regionalismo, ivi, 10 marzo 1921, poi in ID., Guerra Dopoguerra Fascismo, cit., pp. 221 ss.
LA PARTE DELLA POLITICA
321
sforzi e delusioni e stolte propagande di cinque anni, con gente disposta a seguir qualunque pazza bandiera o a cercare nella bandiera pretesto a mal fare». Eppure, aggiungeva Volpe, una trasformazione istituzionale che sapesse contemperare le esigenze dell’«unità» e quelle del «regionalismo» si imponeva davvero, se si voleva seriamente intraprendere una battaglia contro la metastasi amministrativa (altro grande cavallo di battaglia di Alberto Caroncini), al fine di rendere «possibile, più agevole, più redditizio il funzionamento della macchina statale, sopraffatta di lavoro, impari ai suoi compiti enormemente cresciuti, messasi a far tutti i mestieri, invasa da una lussureggiante gramigna burocratica che succhia il bilancio dello Stato, offende gli interessi dei cittadini, annulla il senso di responsabilità degli impiegati e ogni loro virtù e iniziativa». Era un intervento che non preludeva, evidentemente, a nessuna riforma né autoritaria né tanto meno totalitaria dello Stato, ma che si poneva invece nel segno della riflessione di Minghetti e della polemica «fin de siècle» contro l’ingerenza dei partiti nella vita pubblica26. Il decentramento amministrativo avrebbe infatti «un po’ disarmato il parlamentarismo e rafforzato in cambio il Parlamento, con i suoi compiti specificatamente politici non assorbiti dalla amministrazione». Ma il «dimagrimento», se non davvero lo smantellamento, dell’«ingombro burocratico» avrebbe soprattutto dovuto far evolvere le strutture statali, in senso autenticamente liberale e persino liberista, «restituendo ai privati e alle loro libere associazioni di uomini e di capitali una quantità di compiti che Stato e Municipio, sotto la pressione delle correnti “democratiche” e social-riformiste, hanno assunto e seguitano allegramente ad assumere». Come Anzilotti e in ossequio al manifesto nazional-liberale del 1919, anche Volpe pensava, infine, che quel poco o quel tanto di «rimaneggiamento istituzionale», già realizzato in questo senso, aveva prodotto risultati positivi e agevolato «l’ingresso nella famiglia italiana delle due nuove creature, il Trentino e l’Istria con Trieste, ricche veramente di robusta vita e di sani organi regionali». Su questi argomenti Volpe sarebbe tornato più tardi, nel 1927, in un articolo dedicato a uno dei classici dell’idea federalista nel Risorgimento, Giuseppe Ferrari27, che faceva la sua comparsa quando il fascismo, tra 1925 e 1926, aveva invece già avviato e quasi portato a termine un’ulteriore, fortissima accentuazione
26 M. MINGHETTI, I partiti politici e le ingerenze loro nella giustizia e nell’amministrazione, Bologna, Zanichelli, 1881, che veniva esplicitamente citato. 27 G. VOLPE, Ritorno di Ferrari?, in «Corriere della Sera», 8 ottobre 1927, poi in ID., Guerra Dopoguerra Fascismo, cit., pp. 235 ss. Si trattava del resoconto di P. SCHINETTI, Le più belle pagine di Giuseppe Ferrari, Milano, Treves, 1927.
322
DENTRO LA DITTATURA
del carattere centralistico dello Stato italiano28. Pezzo che dispiacque a Croce, come meglio vedremo, ma che soprattutto procurò al suo autore, sul «Popolo d’Italia», una «cortese tiratina d’orecchi, come io volessi nell’Italia fascista, risuscitare il federalista, democratico, francofilo, nonché bislacco, Ferrari»29. In quest’ottica pregiudizialmente favorevole al contenimento dell’azione e delle prerogative dello Stato entro i suoi «giusti limiti», si muoveva anche il forte ritorno di interesse di Volpe per i problemi della formazione superiore e universitaria e dell’«Alta Cultura», in coincidenza con l’esperienza ministeriale di Croce nel dicastero della Pubblica Istruzione tra giugno 1920 e giugno 192130. Allora, Volpe s’impegnava, assieme a Gentile, Lombardo Radice, Ernesto Codignola, per la realizzazione di alcune importanti innovazioni normative delle istituzioni scolastiche, portata avanti dal filosofo, redigendo un nuovo programma di storia per l’esame di maturità, che riceveva il giudizio favorevole di uno dei membri del Collegio degli ispettori centrali delle Scuole medie31. I progetti di Croce si scontravano, tuttavia, con gravissime resistenze provenienti dall’interno e dall’esterno del mondo della scuola, sapientemente organizzate in una sorta di regia nella quale sembrava possibile di poter intravedere la longa manus di Nitti allora impegnato in una politica di ostilità, anche e spesso del tutto strumentale, contro il ministero Giolitti32. Questo era almeno il senso dell’articolo che Volpe inviava al «Popolo d’Italia», in forma di lettera aperta al direttore, e che il quotidiano pubblicava, con ampio rilievo, il 13 febbraio 1921, con il titolo I progetti di Croce e le manovre nittiane33, facendolo precedere da questo cappello redazionale. Il nostro amico prof. Gioacchino Volpe ci manda – a proposito delle manovre nittiane che si stanno svolgendo in questo momento a Roma, prendendo a pretesto i progetti scolastici di Croce – la seguente lettera che ci affrettia-
28 A. AQUARONE, L’organizzazione dello Stato totalitario, cit., pp. 82 ss. 29 G. VOLPE, Nota del 1928, in ID., Guerra Dopoguerra Fascismo, cit., p. 243. 30 Sul punto, R. FORNACA, Benedetto Croce e la politica scolastica in Italia nel 1920-21,
Roma, Armando, 1968; G. TOGNON, Benedetto Croce alla Minerva. La politica scolastica tra Caporetto e la marcia su Roma, Brescia, La Scuola, 1990. 31 Si veda rispettivamente Gioacchino Volpe a Giovanni Gentile 3 ottobre 1920 (AFG) e Gaetano Cogo a Gioacchino Volpe, 16 febbraio 1921, FV. 32 Sull’ostilità di Nitti contro Croce, si veda Fortunato Pintor a Giovanni Gentile, fine ottobre 1921, in Giovanni Gentile e il Senato. Carteggio, 1895-1944, a cura di E. Campochiaro, L. Pasquini, A. Millozzi, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2004. p. 372. Sul punto, diffusamente, G. TOGNON, Benedetto Croce alla Minerva, cit., pp. 470 ss. 33 G. VOLPE, I progetti di Croce e le manovre nittiane, in «Il Popolo d’Italia», 13 febbraio 1921, p. 1. L’articolo era datato al 12 febbraio.
LA PARTE DELLA POLITICA
323
mo a pubblicare, perché ne condividiamo le idee essenziali. Noi non conosciamo i progetti e non li discutiamo. Per noi c’è una questione di massima da affrontare ed è questa: può e deve lo Stato assumersi il monopolio dell’istruzione primaria, secondaria, universitaria? Il regime di monopolio è utile alla gioventù che studia e, in generale al progresso delle idee? La scuola monopolio di Stato – come le poste, i telegrafi, i tabacchi e il lotto – è l’ultima definitiva parola in materia di progresso civile e scolastico? Lo Stato non potrebbe liberarsi di quest’altra bardatura, almeno per le scuole secondarie, salvo ad esercitare tutti i controlli possibili, in nome e negli interessi della collettività nazionale? Sono domande queste e altre se ne potrebbero aggiungere, assai gravi, alle quali è troppo stupido e ridicolo rispondere coi più vieti luoghi comuni di certo anti-clericalismo di maniera.
Nella prima pagina del «Popolo d’Italia», seguiva poi il testo di Volpe: Può essere che il corrispondente romano del “Popolo d’Italia” abbia oggi colto nel segno, quando ha indicato nell’on. Francesco Nitti il montatore della macchina parlamentare contro i progetti scolastici del ministro Croce. Certo, è difficile sottrarsi all’impressione di qualcosa di artificioso che è dietro questo movimento anticrociano. Si ha il senso di una parola d’ordine data da qualcuno e ripetuta da altri, consapevole e inconsapevole delle finalità estrinseche alla scuola che si vogliono raggiungere. La discussione svoltasi presso la Commissione parlamentare, ad esempio, è parsa a noi lettori di giornali estremamente leggera. Mai tanta faciloneria nel giudicare un complesso di idee scolastiche che pure non sono uscite dal cervello di un idiota, né da un solo cervello. Si sono visti illustri pedagogisti come l’on. Agostinoni far “cariche a fondo” contro quei disegni di legge; altri proporre il loro “completo naufragio”. Riferisco dai giornali. E se qualche commissario suggeriva di interrogare il ministro della P.I., prima di dar voti sfavorevoli, ecco la maggioranza gridar risoluta che “non aveva quesiti da sottoporre al ministro”. Come dire: non vale la pena neppure di discutere. Porcheria! Ma non è solo un giuoco parlamentare quello che ora si spiega contro Croce e i suoi progetti. Bisogna considerare quella atmosfera anticrociana che si è venuta addensando negli ultimi anni sotto il bel cielo di quell’Italia che pure, fino a non molto addietro, era quasi unanimemente crociana… In Croce molti italiani vedono ancora il “neutralista”, il “germanofilo”, l’hegeliano o seguace di quella filosofia a cui si deve la guerra e la barbarie teutonica, l’uomo della “politica realistica”, di quella “Realpolitik” che, dopo tutto, non è neppure una invenzione prussiana, ma piuttosto italiana. Questo Croce neutralista, germanofilo, hegeliano, realpolitico è sempre vivo e verde, nell’anno di grazia 1921, davanti agli occhi di chi si mette a giudicare anche il gusto artistico o l’erudizione archeologica, i criteri scolastici o, perché no?, l’eleganza personale del filosofo o studioso napoletano. Da un anno a questa parte, poi, Croce rivelava anche altre facce. Come ministro era, via! un po’ seccante con i suoi subordinati e collaboratori. Lavorava di lesina dentro il suo dicastero. Violava certe buone consuetudini di “lasciar fare e lasciar passare”. E il
324
DENTRO LA DITTATURA
mormorio, attorno al filosofo-ministro, cresceva. Peggio ancora: “Benedetto Croce se la dice coi preti e col loro partito. Vuol distruggere la scuola di Stato. Vuole annullarne la laicità…” Gli ambienti romani e scolastici sono pieni di questi sussurri! Ora, io non voglio far qui l’elogio del ministro Croce né dei suoi progetti scolastici; e neppure contrastare alle fondate critiche di che questi sono suscettibili. Intendo solo richiamar l’attenzione di chi voglia mettersi da un punto di vista non interventista o germanofobo, non socialista o massone, ma scolastico, per giudicar progetti scolastici. Evitare i guazzabugli! In quanto nei disegni di legge in questione, vi son talune idee direttive che, se applicate, potrebbero rinnovare veramente e profondamente la nostra scuola. Non chiediamo tutti che essa sia più seria, che prepari meglio alla vita? A questo precisamente si mira nei progetti del ministro. Si vuol mutar la scuola da fabbrica di diplomi e diplomati in dispensiera di coltura. Si vuol togliere alla licenza liceale la virtù di abilitare ad impieghi, per sfollare la scuola classica dei troppi che vi son fuor di posto e poter esigere dagli altri tutto quel che l’indole di essa scuola impone. Si vuole che l’Università sia non un diritto di tutti, ma solo degli ottimi, di quanti in un esame generale di ammissione – esame di Stato – dimostrino di aver le necessarie attitudini. Si vuole che il professore medio non sia esso solo giudice dell’alunno che esce dalla scuola media per andare all’Università, ma che a formar il verdetto abbiamo parte anche quelli che debbono ricevere il giovane, cioè gli universitari. Si vuole garantire una maggiore eguaglianza di trattamento, negli esami, a quelli che provengono da scuole di Stato ed a quelli che han fatto gli studi in istituti privati. Si vogliono sopprimere ginnasi e licei ove questi non abbiano un sufficiente numero di frequentatori. Si vuol questo ed altro. Ci sarà del discutibile, ma discutere si deve, non “divagare”. E discutere mettendo da parte pregiudizi o apriorismi. Certo, oggi la scuola come è concepita in quei disegni di legge sarà cosa più ardua che ora non sia. Ma chi crede che sia venuto il momento, per grandi e piccoli, di darsi al bel tempo? Certo, vi sarà, per la scuola di Stato, i suoi discepoli, i suoi maestri, da temer la concorrenza delle scuole private, degli allievi privati, dei professori privati. Ma chi crede che alla scuola sia utile l’attuale regime di quasi monopolio, la mancanza di seri stimoli all’opera degli insegnanti? È ora che i nostri istituti, di noi “laici”, di noi “liberali” si cimentino in gara con altri. Sarà pericoloso per essi? Brutto segno. Ma forse dal pericolo potrebbe nascere la loro salvezza; dal pericolo potrebbe nascere nei “civili”, nei “liberali” uno stimolo di revisione continua dei propri valori ideali, un attaccamento più cordiale, un interessamento più vivo alle proprie scuole, ai propri istituti di coltura.
In questo scritto, Volpe difendeva a spada tratta non soltanto l’uomo Croce, da alcuni speciosi argomenti ad personam, ma soprattutto i punti più qualificanti del suo tentativo di riordino dell’assetto pedagogico: l’introduzione dell’esame di Stato, una tendenziale parificazione tra istituti pubblici e privati, e quindi la parziale dismissione del monopolio statale in questo settore, l’introduzione dell’insegnamento religioso nelle elementari, la costruzione di un sistema di educazione superiore e universitario in quanto scuola di élite e vivaio delle classi dirigenti
LA PARTE DELLA POLITICA
325
della nazione, l’eliminazione della piaga delle «classi aggiunte», la lotta all’endemico malcostume che affliggeva questo ramo dell’amministrazione, recentemente mascheratosi sotto il fraseggio sindacale della difesa dei «diritti di categoria» degli insegnanti. Punti qualificanti, questi, che trovavano largo spazio in alcune prese di posizione, di segno autenticamente liberale, dello stesso Volpe tra 1921 appunto e 1923, a partire da un articolo dedicato all’attività del Gruppo d’azione per le Scuole del Popolo di Milano34, di cui lo storico aveva assunto la presidenza, dalla fondazione, avvenuta alla fine del 191935. Nel contributo, si lamentava la penosa situazione dell’educazione elementare, che soprattutto alla periferia del Paese, nelle aree depresse del Meridione, del Veneto, delle regioni alpine e appenniniche, era affidata alle «scuole rurali e di villaggi», la cui disastrata situazione materiale (dal punto di vista edilizio all’insopportabile penuria di materiale didattico) si rifletteva sulla classe insegnante, sottopagata nei confronti del personale operante nelle città e abbandonata a un «isolamento morale che avvilisce, specie i giovani, taluni giovani, non ancora sufficientemente immaterialiti». Nel tentativo di alleviare questa disagiatissima condizione, che si rifletteva drammaticamente sulla preparazione tecnica dei lavoratori e sullo stesso processo di nazionalizzazione delle masse, si era sviluppata, già negli ultimi decenni del secolo trascorso, una rete di associazioni di carattere privato, sulla quale Volpe si sarebbe soffermato poi, ampiamente, in un capitolo di Italia Moderna36. Tra queste istituzioni, nate soprattutto per iniziativa dell’operosa borghesia ambrosiana, e poi diffusesi a Torino, Firenze, Bologna e in altre città, si distingueva, per attivismo e concretezza di iniziative, l’Unione Italiana per l’Educazione Popolare, nata nel 1906 da una costola della Società Umanitaria di Milano, sviluppatasi poi con ben 2500 biblioteche aderenti in ogni parte d’Italia, assumendo le dimensioni di una «grande azienda» destinata a vendere a prezzo politico materiale librario e scolastico. Proprio per l’ingente volume d’affari sviluppato, questa istituzione era esposta al rischio di veder snaturata la sua originaria fisionomia di ente morale, disinteressato e filantropico, come Volpe avrebbe comunicato a Gentile, ormai divenuto Ministro della Pubblica Istruzione, con la lettera del 18 marzo 1923. Avrai sentito parlare dell’Ufficio acquisti, che dipende dall’Unione italiana
34 G. VOLPE, Gruppi d’azione per le Scuole del popolo, in «Risorgimento», 31 marzo
1921, pp. 9-11. 35 Gioacchino Volpe a Giovanni Gentile, Milano, 4 dicembre 1922, AFG. 36 ID., Italia Moderna, cit., II, pp. 291 ss.
326
DENTRO LA DITTATURA
per l’educazione popolare, e compra in grande materiale scolastico e lo rivende ai patronati, ai municipi, alle scuole, a condizioni alquanto migliori che non facciano i commercianti. È un azienda che conchiude affari per milioni ed è organizzata con criteri mercantili: ad esempio, da alti stipendi e, forse, percentuali, a due o tre impiegati: dei quali, qualcuno lo merita perché il suo lavoro rende, qualche altro no, perché è contemporaneamente amministratore della Giustizia. Tu sai che l’Ufficio Acquisti ha chiesto di conservare la franchigia. La cosa sta a voi e dipenderà dai criteri che adotterete per la franchigia. Ma a noi del Gruppo preme sapere se, come tu mi accennavi, la concessione la farete precedere da una sommaria inchiesta su l’andamento dell’istituzione. Preme a noi saper questo, perché ora l’Ufficio Acquisti (per il passato non troppo benevolo con il Gruppo d’azione) ci ha chiesto di unirsi al Gruppo, il quale dovrebbe essere rappresentato al Consiglio dell’Ufficio e ricevere una parte degli utili. Evidentemente, si vogliono appoggiare ad un ente disinteressato come il nostro, per sanare qualche manchevolezza loro e rendere più facile la conservazione della franchigia. Noi non diremo no a simile offerta, ma solo se saremo sicuri che l’Ufficio acquisti non sia attaccabile da nessuna parte e non offra canonicati a nessuno. È quel che la vostra inchiesta, o meglio, l’indagine potrebbe assodare. Si dice poi che il governo sarebbe rappresentato presso l’Ufficio Acquisti da due o tre membri nel Consiglio, fra i quali sarebbe Franzoni. Dio mi guardi dal mettere troppo il naso nei vostri atti e erigermi a vostro consigliere… Ma per il desiderio che io ho vivissimo che quel che voi fate trovi il massimo consenso ed offra il massimo bene, vorrei suggerirti di non spingere troppo in alto quell’uomo, il quale gode di pochissima reputazione presso quelli che lo conoscono da vicino, cominciando dai suoi insegnanti. Cose tutt’altro che corrette e pulite circolano largamente sul conto suo37.
Come si evince proprio da questa corrispondenza, apparentemente più modesta ma non meno utile era la funzione del Gruppo d’azione, presieduto da Volpe, che, accanto a limitati compiti di sussidio materiale, si prefiggeva di attuare un vero e proprio «collegamento morale» con gli insegnanti attivi nelle «scuole più povere e abbandonate», grazie alla creazione di filiali dell’associazione operanti fino alle Puglie e alla Basilicata, impegnate a «dare a quei maestri la sensazione che qualcuno li guardi e tenga conto dei loro sforzi, gli apra qualche spiraglio sul mondo, li faccia partecipare alla vita dell’istituzione, affiati i migliori perché l’opera di ciascuno riceva stimolo da quella degli altri». Ma il sodalizio milanese, al di là dei concreti risultati ottenuti, costituiva soprattutto un esempio politico, che testimoniava la possibilità di affiancare e in qualche caso di sostituire l’iniziativa privata, proveniente da una minoranza consapevole e virtuosa, a quella pubblica, anche in questo settore delicatissimo e vitale della vita nazionale, dove la presenza 37 Gioacchino Volpe a Giovanni Gentile, Milano, 18 marzo 1923, AFG.
LA PARTE DELLA POLITICA
327
esclusiva di uno Stato tutore e imprenditore doveva corrispondere necessariamente a inefficienza e degenerare in involuzione illiberale. Vi è qualcosa di religioso nell’attività del Gruppo d’azione per le Scuole del popolo, così come essa è ideata e svolta: religioso nel senso più largo e meno confessionale della parola. Ma qualcuno sorriderà di fronte a questi sforzi e dirà: “Deve intervenire lo Stato!”. “Ci vogliono milioni e diecine di milioni!”. D’accordo: lo Stato ed i milioni. Ma Stato e milioni non bastano se non fiancheggia il paese: non l’astratto “paese” in blocco, creduto e adulato migliore del suo governo, ma determinate iniziative. Non basta un’esperienza decennale a mostrare che Stato e milioni, anche quando ci sono, malamente possono risolvere problemi di tale e consimile natura? Lo Stato fa o tende a fare opera uniforme, e ci vuole invece una nazione snodata, agile, varia e capace di rapidamente rinnovarsi. Lo Stato, per la stessa sua natura o, più, per l’isolamento in cui lo lascia un popolo abituato a considerarlo come qualcosa di estraneo e di trascendente, a bestemmiarlo o, che è lo stesso, a invocar tutto da esso; lo Stato, dico, tende a burocratizzare e meccanizzare ogni sua attività: poco male quando si tratti di sali e tabacchi, ma assai male quando è in gioco la scuola (e lo stesso potremmo dire l’esercito), cioè una spiritualissima attività la quale esige contatti di uomo ad uomo. Lo Stato faccia quel che deve. Rimproveriamolo se non fa quel che deve. Ma non chiediamogli ciò che non può fare, specialmente in Italia, per le particolari condizioni storiche e di ambiente in cui esso si è costituito e funziona. Bisogna che accanto ad esso vivano altri organismi, volontari, di minor mole, nei quali il lavoro proceda più sollecito, la eliminazione degli inetti sia più rapida e facile, il rendimento complessivo più grande. Il momento non è favorevole, se si guarda ai mezzi che scarseggiano; ma favorevole esso è sotto altri rapporti: poiché cresce ogni giorno di più, dopo l’elefantiasi statale degli ultimi anni, la fiducia che molti problemi nostri potranno essere risolti da enti e istituzioni non statali ma che fiancheggino, con maggiore o minore autonomia, lo Stato, investiti, idealmente o giuridicamente, di quelle funzioni che noi possiamo magari considerare funzioni statali ma che non è affatto necessario siano assolte da organi burocratici dello Stato38.
Il finale «produttivistico» dell’articolo, di segno ancora una volta radicalmente neo-liberale e neo-liberista, anche se non certo ispirato a un «liberalismo radicale e anarcoide», sarebbe stato ribadito in un intervento, immediatamente successivo, composto in vista della vigilia delle amministrative del 192139, dove si lamentava la pressoché totale assenza della questione scolastica nel dibattito che andava precedendo la competizione elettorale e che pure era quasi contemporaneo all’infuocata polemica «pro o contra i recenti progetti crociani che per qualche 38 ID., Gruppi d’azione per le Scuole del popolo, cit., pp. 10-11. 39 ID., Un assente: la scuola, in «Risorgimento», 15 aprile 1921, poi in ID., Guerra Do-
poguerra Fascismo, cit., pp. 247 ss.
328
DENTRO LA DITTATURA
giorno, un mese fa, monopolizzarono quasi tutto l’interesse del paese e accesero una specie di guerra civile». Un silenzio tanto più quanto colpevole, annotava Volpe, se si rifletteva a come e a quanto gli effetti della «guerra sovvertitrice» si fossero abbattuti sul sistema dell’educazione nazionale, sconvolgendone il già precario equilibrio e aprendo la strada a una licenza persino superiore a quella della stagione giolittiana, in virtù della quale si m