Messianismo e cultura. Saggi di politica, teologia e storia 8811597110, 9788811597117

"Messianesimo e cultura" comprende diciannove saggi scritti da Taubes tra il 1949 e il 1987, un campione signi

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Messianismo e cultura. Saggi di politica, teologia e storia
 8811597110, 9788811597117

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AVVERTENZA Mancano le pagg. 28, 29, inerenti alla Prefazione della curatrice.

La parola ccteologia,, appare per la prima volta nella cri­ tica di Platone alla religione omerica e, a partire da qui, essa indica sempre una crisi della religione.

È

l'ora della

teologia, quando crolla una configurazione mitica e i suoi simboli, irrigiditi in un canone, entrano in conflitto con un nuovo stadio della coscienza.

Messianismo e cultura comprende dicianno­ ve saggi scritti da Taubes tra il 1949 e il 1987. Raccoglie dunque un campione signi­ ficativo di quanto egli ha scritto nell'arco di un'intera vita, in un dialogo serrato con alcu­ ni tra i massimi pensatori del Novecento: in primo luogo ovviamente Martin Heidegger, Walter Benjamin, Hannah Arendt, ma anche Paul Tillich, Karl Barth, Sigmund Freud, Martin Buber, Franz Overbeck e molti altri. Il procedere per scritti brevi è peraltro nella natura del pensiero di Taubes: dietro i suoi testi, anche se non sempre esplicitati, ci sono una controversia specifica e un interlo­ cutore concreto. Nonostante una frammen­ tarietà che elude qualsiasi idea di sviluppo sistematico, Messianismo e cultura ruota con estrema coerenza intorno a un tema di fondo: il mito e la teologia nel loro rapporto con la storia. Molti di questi saggi riguardano studi sulla gnosi: Taubes torna sulla contrap­ posizione tra la concezione gnostico-apoca­ littica del mondo e la cosmologia classica (uno dei temi di fondo di Escatologia occi­ dentale) ma fa anche emergere, per esem­ pio, un illuminante confronto tra gnosi e sur­ realismo. Come sempre, la riflessione di Taubes si dimostra quanto mai aperta agli stimoli e alle contraddizioni del presente.

Jacob Taubes (1923-1 987), discendente da una famiglia di rabbini e rabbino egli stesso. dopo gli studi di filosofia e storia a Basilea e Zurigo (dove la famiglia si era trasferita da Vienna per sfuggire alla persecuzione nazi­ sta) si laureò nel 1947: la sua tesi di dottora­ to, Escatologia occidentale, l'unico libro da lui pubblicato in vita, è stata proposta per la prima volta al pubblico italiano da Garzanti nel 1 997. Insegnò a lungo sia negli Stati Uniti (a Harvard, Princeton e per dieci anni, dal '56, alla Colum bia University) sia a Gerusalemme (dal '51 al '53 all'Università ebraica, sotto il patrocinio di Gershom Sholem). Nel 1 961 venne chiamato alla Freie Universitat di Berlino dove dal 1966 divenne ordinario di giudaismo. Nello stesso periodo tenne numerosi seminari a Parigi, alla Maison des Sciences de I'Homme e par­ tecipò attivamente alle vicende dei movi­ menti studenteschi. Gli ultimi anni della sua vita furono segnati da crisi fisiche e psichi­ che. Riposa nell'lsraelitischen Friedhof di Zurigo. Tra le sue opere tradotte in italiano. In divergente accordo. Scritti su Cari Schmitt (Quodlibet, 1996), La teologia politica di san Paolo (Adelphi, 1 997), Il prezzo del messia­ nesimo (Quodlibet, 2000).

Dello stesso autore in edizione Garzanti: Escatologia occidentak

JACOB TAUBES

Messianismo e cultura Saggi di politica, teologia e storia

edizione italiana a cura di Elettra Stimilli

GARZANTI

Prima edizione: novembre 2001

Traduzione dal tedesco di Elettra Stimilli

Titoli originali Saggi contenuti in Vom Kult zur Kultur Zu einer ontologisc�en lnterpretation der Theologie; Ober die Eigenart der theolo­ gischen Methode: Uberlegungen zu den methodischen Prinzipien der Theologie Paul Tillichs; Theodizee und Theologie: Eine philosophische Analyse der dialek­ tischen Theologie Karl Barths; Vom Kult zur Kultur; Religion und die Zukunft der Psychoanalyse; Martin Buber und die Geschichtsphilosophie; Nachman Kroch­ mal and Modern Historicism; Psychoanalyse und Philosophie; Entzauberung der Theologie. Zu einen Portriit Overbecks; Noten zum Surrealismus; Die Rechtferti­ gung t/es Hii}Jlichen in urchristlicher Tradition; Kultur und Ideologie; Der dogma­ lische Mythos der Gnosis; Zur Konjunktur des Polytheismus; Das stiihlerne Gehiiu­ se und der &:odus daraus oder ein Streit um Marcion, einst und heute © Wilhelm Fink Verlag, Munchen 1996

Die Entstehung des}Udischen Pariavolkes © Duncker & Humbolt, 1966

Von Fall zu Fall. Erkenntnistheoretische Reflexion zur Geschichte vom Silndenfall © Wilhelm Fink Verlag, Miinchen 1981

Élite oder Avangarde1 jacob Taubes im Gespri:ich mit Wolfert von Rahden und Norbert Kapferer © Wolfert von Rahden 1982

lnterview mitjacob Taubes

© Suhrkamp Verlag Frankfurt am Main 1987 ISBN 88- 11-59711-0 ©Garzanti Libri s.p.a., 2001 Printed in ltaly www.garzantilibri.it

PREFAZIONE

La presente raccolta contiene una parte cospicua della produzione di un'intera esistenza. In essa compaiono saggi scritti tra il 1 949 e il 1 987. Che l'opera di Taubes si presen­ ti quasi esclusivamente nella forma di scritti brevi , all'interno della quale opera la filosofia come possibile «correttivo antologico>> dei contenuti ontici (precristiani) propri dei concetti teolo­ gici fondamentali, Taubes, invece, oltre a ritenere che la «resurrezione>> della teologia > (infra, pp. 42s.). Se Heidegger muove dal positum della teologia, che è la fede, tanto che essa risulta essere, in tal senso, 7

«scienza della fede••, Taubes pensa che ciò significhi negare > (infra, p. 5 1 ), anche la teologia non si confronta mai con qualcosa di già dato come fatto mera­ mente oggettivo. Il ruolo della teologia, allora, non è quel­ lo di riesumare, ma di tradurre, di rendere sempre nuova­ mente operativa la verità rivelata nella Scrittura. Tanto che il suo lato conservatore sembra non poter rinunciare a quel­ lo rivoluzionario, da cui trae realmente alimento. «Come apologetica, essa cerca di conservare i simboli ori­ ginari; ma, nella misura in cui applica i simboli canonici a una situazione mutata, agisce da catalizzatore per la nascita di una nuova simbolica>> (ibid.). Agisce, cioè, allo stesso tem­ po, da forza conservatrice e dissolutrice. E questo secondo aspetto è quello privilegiato da Taubcs, perché porta pie­ namente all'espressione tutta l'urgenza del teologico. 9

Sintomatica in questo senso, per Taubes, è la religione cristiana, che risulta avere una particolare affinità con l'in­ terpretazione teologica. Anzi, ••quasi fin dall'inizio della sua storia la comunità cristiana ha cercato di servirsi della teologia, tanto che gli scritti canonici del cristianesimo non presentano solo un corpus di simboli originari, ma rappre­ sentano già diversi stadi dell'interpretazione teologica» (in· fra, p. 52). Anche se ••il cristianesimo ha dovuto servirsi del­ l'interpretazione teologica già nelle sue primissime fasi, perché i simboli della fede, in cui venivano all'espressione le attese della prima generazione, fin dall'inizio erano en­ trati in contrasto con la situazione effettiva della comunità» (ibid. ), nonostante l'attesa della parusia sia stata delusa, ri­ sultando per questo necessario ricorrere alla giustificazione dell'interpretazione teologica, tuttavia, ciò che conta per Taubes non è tanto la delusione che la comunità cristiana ha dovuto subire, o la mancata realizzazione dell'evento, quanto piuttosto il fatto stesso che la teologia sia riuscita co­ stantemente ad adeguare i simboli escatologici alla mutata situazione storica. E tale adeguazione non si riduce alla giu­ stificazione teologica del potere ecclesiastico. Anzi, questo è solo un uso successivo e secondario della funzione origi­ nariamente rivoluzionaria propria del potere per così dire «Costituente>> della teologia, di cui il potere costituito della chiesa si è impossessato volgendolo in senso conservatore. Da questo punto di vista risulta determinante il metodo al­ legorico, privilegiato dalla teologia cristiana delle origini, a cui Taubes attribuisce particolare rilievo. Una parte cospicua della produzione di Taubes è dedica­ ta agli studi sulla gnosi. Nel saggio del 1 97 1 intitolato Il mi· to dogmatico della gnosi, Taubes prende in considerazione la questione dell'interpretazione allegorica dal punto di vista gnostico, estremizzando, così, quanto emerge anche nella teologia cristiana. Se mitologia e teologia sono i due orizzonti all'interno dei quali si muove la riflessione di Taubes, in essa la gnosi rappresenta il loro punto di fusione. Indicativo in questo senso è già il titolo del saggio sopra menzionato Il mito dogmatico della gnosi in cui egli, provocatoriamente contro -

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ntumenberg, pone nella gnosi il mitico in stretto rapporto dottrina dogmatica della teologia. Blumenberg traccia uua netta linea di confine tra la tradizione dogmatica e quella mitica, rifiutando, così, la forma dell'allegoresi gno­ si i ca inaugurata dalla filosofia greca e dall'apologetica cri­ sliana, perché fraintenderebbe il mito; per Taubes, invece, non è corretto giudicare la forma dell'a11egoresi esclusiva­ mente dal punto di vista dell'originale, della mitologia ar­ l'aica, perché l'interpretazione allegorica non si riduce a 1ma mera esegesi del mito, ma veicola una nuova compren­ sione del reale. «!;allegoria è una forma di traduzione. Essa 1 raduce in concetti i contenuti, i nomi e i casi del racconto mitico. Ma nell'interpretazione a11egorica l'originale mitico oli iene un nuovo contenuto>> (infra, p. 3 14). Se rappresenta la vittoria della coscienza demitizzata, il llll'todo a11egorico testimonia anche la forza della tradizio­ m· mitica. Il mito resta a11a base di tutte le trasformazioni al legoriche, che sono solamente le sue ripetizioni e tradu­ t.ioni. Di qui la passione di Taubes per la gnosi, massima > (ibid.). a Ila

A partire dall'inizio degli anni Sessanta Taubes prende parte ai seminari organizzati da un gruppo di giovani ri­ cercatori su temi filosofici o di criti> e ab­ bandonata da Dio . .. n problema intorno a cui scoppia la protesta della gnosi e che la dottrina monoteistica della creazione e dell'onni­ potenza di Dio lascia irrisolto, era quello dell'origine del male nel mondo>> (infra, pp. 328s.). Quello che colpisce faubes è il fatto che «la strategia del mito gnostico resta sempre la stessa: per ricostituire l'unità mitica, per superare 14

i limiti che la dottrina della creazione pone tra Dio e uomo, bisogna combattere contro il Dio creatore del Genesi: il mi­ to politeistico dell'antichità non poteva tener testa all'espe­ rienza della trascendenza, di cui parla la rivelazione biblica. Essa doveva essere superata. Questo accade nel mito dog­ matico della gnosi» (ibid.). Suo metodo è l'allegoresi. Per Taubes è certo il fatto che «prima dell'incontro con la reli­ gione monoteistica rivelata, prima dell'esperienza della tra­ scendenza, come limite tra il Dio creatore e la creatura, una simile strategia del mito gnostico non sarebbe stata né pos­ sibile né necessaria» ( ibid).

Mito e paganità Non è del tutto sorprendente, a questo punto, il fatto che Taubes, nella sua produzione in fin dei conti limitata, dedi­ chi un intero saggio a Oskar Goldberg, singolare sostenito­ re di una teoria arcaicizzante del mito. Oskar Goldberg, senza ombra di dubbio una delle figure più problematiche della storia dell'ebraismo del Novecento, già in gioventù aveva sviluppato un'inconsueta ed esplosiva mistione tra una posizione conservatrice e un pensiero asso­ lutamente radicale. Nel 1908 esce il suo primo saggio, l cin­ que libri di Mosè, che è una sorta di interpretazione magico­ qabbalistica della Bibbia. Al 1909 risale la fondazione, a Ber­ lino, del Neue Club a opera di alcuni studenti appartenenti al­ la cerchia di Goldberg, tra cui spicca il nome di Erich Unger. C'è chi l'ha definita la prima associazione tedesca degli scrittori espressionisti. In ogni caso, il clima del primo espressionismo faceva da sfondo, qui, a una feroce critica della civilizzazione e del progresso di stampo assolutamen­ te goldberghiano. Nel 1 921 entrano in contatto col Neue Club persino Scholem e Benjamin. Nel libro su Benjamin, proprio ricordando gli anni di queste sue frequentazioni, Scholem afferma: «Il mio atteggiamento del tutto negativo sia di fronte agli sforzi che si facevano per introdurmi in quella cerchia, sia rispetto alla pseudo-Qabbalà che mi ve­ niva ammannita in nome di Goldberg, causò talvolta qual­ che imbarazzo a Benjamin che non si preoccupava affatto

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di lui, ma teneva molto a mantenere il rapporto con Unger» (G. Scholem, Walter Benjamin. Storia di un 'amicizia, Milano 1992, p. 1 54). Be�jamin considerava Unger di gran lunga il più brillante interprete dell'opera di Goldberg, ma intrave­ deva in lui anche una certa autonomia di pensiero. Nel 1 92 1 cita Unger nel saggio Sulla critica della violenza e lo vorrebbe come suo collaboratore nella rivista «A ngelus No­ vus•• che sta progettando di pubblicare. Consiglia calda­ mente a Scholem la lettura delle opere di Unger, «nelle qua­ li si affermava tra l'altro "la fondazione di un popolo ebrai­ co apolide" come obiettivo da conscguirsi mediante stru· menti metafisici contrastanti con quelli del sionismo empi­ rico, ripudiati dalla cerchia di Goldberg» (ibid.). L'attacco al sionismo e l'interpretazione magica e «pscudo-qabbalisti­ ca» della Bibbia non potevano di certo destare le simpatie di Scholem che, all'uscita di quella che viene considerata la sua opera più importante, La realtà degli ebrei, del 1925, muove alcune critiche durissime alle teorie goldberghiane. Va ricordata, soprattutto, una lettera, di cui sono conserva­ te nel NachlajJ di Scholem due versioni differenti, una che risale al 1928 indirizzata a Rosenzweig, l'altra del 1 929 per Rosa Okun. In essa Scholem si dichiara aperto oppositore del pensiero di Goldberg, critica l'intera esegesi del libro come «mistagogia della grammatica e dell'etimologia» e de­ finisce quello di Goldberg «un vero e proprio sistema gno­ stico» (G. Scholem, Briefe I, Miinchen 1994, p. 236). Il 24 ot­ tobre 1928 Rosenzweig scrive a Buber riguardo a questa lettera su Goldberg, prendendo chiaramente le distanze da Scholem, perché avrebbe dimostrato di essere parte inte­ grante dell' «ideologia liberale corrente» (F. Rosenzweig, Briefe und Tagebiicher, Haag 1979, p. 1200). In questi stessi anni persino Thomas Mann subiva il fascino de La realtà de· gli ebrei come risulta anche dal saggio di Taubes - e, pur con tutte le critiche che potrà muovere in seguito, dal 1937 chiama Goldberg a collaborare attivamente alla sua rivista «MaB und Wert». -

Nonostante tutte le contraddizioni e gli aspetti più o me­ no criticabili della sua multiforme personalità, Oskar Gold­ berg ha attratto l'interesse dei maggiori esponenti della cui16

tura ebraica del Novecento. Il suo nome, però, resta a tutt'oggi quasi sconosciuto. Dopo la seconda guerra mon­ diale, Jacob Taubes è stato uno dei pochi a occuparsene. Ha conosciuto Goldberg a Zurigo, tra il 1938 e il 1939, pre­ sentandosi come giovane figlio del rabbino Zwi Taubes. De­ ve essere rimasto molto colpito da questo incontro, come ri­ sulta anche da una lettera a Goldberg del 1 8 febbraio 1946, dove Taubes parla di un suo saggio sulla qabbalà, che «deve molto» all'opera goldberghiana (una parte di esso è lette­ ralmente ripresa dal libro di Goldberg su Maimonide del 1935) e in cui La realtà degli ebrei viene esplicitamente rico­ nosciuto come un contributo rivoluzionario nell'ambito del­ le ricerche sul Pentateuco (cfr. M . Voigts, O.çkar Goldberg, Berlin 1992, p. 330). Tra il 1 952 e il 1953 Taubes entra in contatto epistolare con Isidor Hepner, a cui rivela l'intenzione di raccogliere te­ sti di e su Goldberg. Fino a quel momento nessuno aveva ancora ordinato sistematicamente le sue pubblicazioni: la guerra e l'esilio avevano disperso molto di quello che rima­ neva del circolo di Goldberg. Hepner era uno dei pochi su­ perstiti. Negli stessi anni Taubes avvia un altro scambio epi­ stolare a questo riguardo. Dopo l'uscita del saggio su La di­ sputa tra ebraismo e cristianesimo, del 1953, riceve una lettera da parte di una sua lettrice. Si tratta di Tamara Fuchs la quale, dopo alcune osservazioni sul testo di Taubes, che de­ finisce «non convenzionale c non ortodosso••, azzarda un paragone proprio con Goldberg. Tamara Fuchs non era una vera e propria allieva di Goldberg, ma aveva fatto par­ te del «gruppo filosofico•• goldberghiano. La prima volta scrive a Taubes nel 1954. La loro corrispondenza durerà al­ meno fino al 1966. Nella lettera del 25 febbraio 1954, Tau­ bes annuncia alla Fuchs di aver cominciato a scrivere un te­ sto su Goldberg. Si tratta del saggio intitolato Dal culto alla cultura, pubblicato per la prima volta nel 1954, in «Partisan Review••, la rivista americana degli intellettuali di sinistra, e qui tradotto in italiano. Nonostante egli manifesti, in segui­ to, l'intenzione di dedicare altri lavori alla figura di Gold­ berg, questo è l'unico testo rimasto. Ciò che colpisce in primo luogo in questo saggio è il fatto 17

che Taubes, con tutto il tono provocatorio di cui è capace, non esita a schierarsi dalla parte di Goldberg, pur ricono­ scendo esplicitamente il suo conservatorismo estremo. «L'o­ riginalità di Goldberg», scrive Taubes, «non sta tanto nella sua interpretazione del mito, che a grandi tratti è stata con­ fermata successivamente dall'antropologia empirica e dal­ l'etnologia, quanto piuttosto nella letteralità con cui egli ha tradotto il mito in realtà e nella sua rigida decisione di pren­ dere sul serio tutti i segni sui culti e i rituali arcaici, e ciò non solo per poter civettare con le mode correnti» ( infra, pp. 1 1 1s.). Prendere sul serio il mito vuoi dire credere a quanto in esso viene raccontato. I miti, per Goldberg, nar­ rano eventi reali e non semplici «realtà psichiche••. E secon­ do Taubes la lettura goldberghiana del Pentateuco, in questo senso lancia ••una sfida del tutto seria all'interpretazione teo­ logica normalmente accettala•• (injra, p. 1 03), dimostrando che, forse, solo laddove il milo viene preso realmente sul se­ rio può esistere un dialogo tra mitologia e teologia. Che nella teoria arcaicizzante del mito di Goldberg si possano intravedere inequivocabili tratti reazionari da cui sarebbero «sorti i demoni del fascismo e del nazismo••, non è un segreto neppure per Taubes. Ciononostante egli so­ stiene che «la filosofia della mitologia di Goldberg non do­ vrebbe essere confusa con quella fittizia mitologia che, a partire da Nietzsche e da Sorel, era così amata in alcuni gruppi politici e circoli letterari. Nell'interpretazione di Goldberg, Socrate rappresenta una cesura che divide la sto­ ria dell'umanità in ante e post, e che non è possibile elimi­ nare a piacimento. Secondo lui, infatti, [ ... ] il razionalista greco aveva compreso che una società non può prolungare artificialmente la vita di un mito [ ... ]. Contro Socrate e nel tentativo di tornare a un'estasi di proporzioni tragiche, Nietzsche ha spianato la strada all'apoteosi politica e lette­ raria della mitologia di Sorel e all'ominoso "mito degli An­ ni Venti", entrambi culminati in una manipolata isteria di massa concentrata su nazioni e classi>• (infra, p. 1 02). Ma Taubes pensa che se davvero il mito è perduto per sempre, illusoria, allora, non è solo una posizione alla Nietzsche, bensì qualsiasi «umanizzazione•• del mito quale quella operata da Thomas Mann, che intende «togliere di 18

mano il mito ai subdoli fascisti e "trasformarlo" in ciò che è umano», dimostrando, però, in tal modo, che il suo inte­ resse per Goldberg non è andato oltre la mera fascinazione. Un'altra, invece, è la strada da percorrere per attuare una reale opposizione nei confronti del fascismo, come dimo­ stra Taubes sulle orme di Benjamin. E le parole con cui egli conclude il saggio su Goldberg sono una specie di pro­ gramma in questo senso, con le quali d'ora in poi non po­ trà più fare a meno di confrontarsi: di cui Gehlen si fa pro­ motore. La netta linea di separazione dai teorici del fascismo 20

tracciata nel saggio Cultura e ideologia diventa sempre più profonda, e alla fine arriva a toccare anche Heidegger. Ciò che li accomuna, secondo Taubes, è un ritorno all'antichità (a cui non sfugge neppure Freud), di cui egli, nell'intervista del 1 982 sul tema e «ozio>>, L' «ozio>> sta all'attuale società borghese come l' «inattività>> sta all'anti­ chità e al medioevo. «Nella società feudale l'inattività del poeta è un privilegio riconosciuto. Solo nella società bor­ ghese il poeta diventa ozioso>> (m 2a, 5). E nel frammento immediatamente successivo si legge: «L'ozio cerca di evitare ogni rapporto col lavoro di chi lo pratica, e col processo la­ vorativo in genere. Questo è ciò che lo differenzia dall'inat­ tività>> (m 3, 2). Ma in «m 4a, 4>> Benjamin afferma: «Riman­ ga pure in dubbio se e in che senso l'inattività sia determi­ nata dal sistema di produzione, che la rende possibile. Tut­ tavia si deve sottolineare quanto profondamente nell'ozio sono radicati i tratti del sistema capitalistico in cui esso pro.

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spera. D'altra parte l'ozio è nella società borghese, che non conosce inattività, una condizione della produzione artisti­ ca. E il più delle volte è proprio l'ozio a creare nella società borghese dei momenti che rendono drastica la sua affinità col processo economico di produzione••. Insomma, condizione di possibilità dell' ••inattività» è il si­ stema di produzione fondato sulla schiavitù, quindi una netta separazione, formalmente riconosciuta, tra lavoro e contemplazione. Nella società borghese, invece, dove le di­ stinzioni non sono più nette, tutto assume i tratti inquie­ tanti della caricatura. L'ozio, che è una condizione della produzione artistica, vale a dire di ciò che un tempo era l'ambito proprio della contemplazione, oggi mostra sem­ pre più la sua intima connivenza col processo economico di produzione capitalistica; tanto che nel secondo frammento di questa sezione egli afferma: > si colloca «faccia a faccia con quella di Paolo». Nell'intervista sul tema «élite o avanguardia>> Taubes ribadisce che l' «inattività>> è una for­ ma originariamente «pagana» di definire la ricerca della ve­ rità. Ciò che la caratterizza è il fatto che solo pochi possono trovarla, mentre molti lavorano per i loro bisogni materiali. «Con il cristianesimo diventa insopportabile il fatto che la verità sia accessibile solo a pochi. Perché la verità non è un ping-pong epistemologico [ ... ]; essa, piuttosto, è una pro­ messa di salvezza [ .. ]. La promessa di Cristo, il Vangelo, è il fatto che riguarda "tutti",, (infra, p. 349). Una delle più for­ ti testimonianze in questo senso è la Prima Lettera ai Corin­ zi (che nel saggio su La giustificazione del brutto nella tradi­ zione cristiana delle origini viene analizzata come primo esempio di sermo humilis, . E Nietzschc, secondo Taubes, vuole «ca­ povolgere i valori predisposti da Paolo [ ... ] revocare il capo­ volgimento dei valori antichi attuato da Paolo» ( injra, pp. 35 l s.). Allora, pur affermando chiaramente di non voler prendere parte alla fascinazione e alla moda nietzschiana, Taubes ammette, senza mezzi termini, che Nietzsche resta per lui un pensatore esemplare, non solo perché «pensa fi­ no in fondo alle alternative>>, ma anche «in quanto richiede .

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continuamente di scegliere tra sé e Paolo» (infra, p. 354). E ciò, per lui, è così vero che, pochi anni prima del suo deci­ sivo seminario di Heidelberg su Paolo, non può fare a me­ no di dichiarare: «Non ho compreso Paolo al catechismo della domenica o attraverso un "cristianesimo anonimo"; ma ne ho preso atto con Nietzsche, in quanto Paolo è il suo oppositore. Insomma, credo che ricorrere all'antichità post Christum vuoi dire finire nella barbarie» ( ibid. ) . Post Christum: il tempo è a termine

Post Christum è il titolo di un libro di Otto Petras, del 1 935, dal quale Taubes, attraverso la tecnica del collage e della citazione senza virgolette - di cui è stato spesso accu­ sato - attinge abbondantemente nell'.&catologia, nel capitolo intitolato Paolo e la dissoluzione del mondo antico. Non in sen­ so generico, ma nei termini di Petras l'espressione > . La teologia filosofica finisce nella rappre­ sentazione umana di Dio, e ciò non solo nella confusione delle trattazioni omiletiche, ma anche in tentativi più seri, che almeno richiedono un'acutezza logica. Ma è possibile, in generale, porre la questione del theos all'interno della di­ mensione umana? La teologia positiva, che non ha fonda­ mento antologico, tende a sprofondare nell'omiletica, e la teologia filosofica, che non è antologicamente fondata, ten­ de a prendere per theos il deus in nobis. La filosofia non ha alcun diritto di considerarsi una fondazione «naturale» del42

la teologia, poiché confonde le varie dimensioni nella pe­ nombra di una theologia naturalis. Non si tratta neppure di porre i modi propri della filo­ sofia a servizio della teologia, introducendo quella in un si­ stema teologico ( Karl Hcim); oppure di applicare le strut­ ture generali dell' e.çse all'existentia teologica (Rudolf Bult­ mann). In entrambi i casi la teologia viene ridotta a uno dei molti, possibili modi di interpretazione, che si servono, co­ me punto di orientamento, di criteri umani e che traggono tutti origine dalla filosofi>. Eppure, risulta che la teologia aveva il suo fondamento nell'ateismo ancora prima di essere colta dalla forza dell'a­ cume della riflessione ontologica. In quanto anti-tesi al logos theou, in quanto responsabile risposta a esso, la teologia è essenzialmente atea. Ma se «ateismo>> e «teologia>> sono co­ sì radicalmente legati, la «a» di «ateismo>> (come «a» priva­ tiva) non svuota il «teismo» del suo contenuto? Non è forse che l'aggettivo «ateo» divora il sostantivo «teologia»? Nella palese contraddizione presente in entrambi questi concetti, connessi per necessità, diventa visibile una dialettica del ro­ vesciamento. Storicamente teologia e ateismo provengono dall'orto­ dossia e dall'illuminismo. Contro qualsiasi illuminismo dogmatico che nasconde la teologia, bisogna difendere il punto di partenza della teologia. Qui, infatti, per quanto l'ortodossia si sia servita della teologia con rozzezza e bru­ talità, c'è sempre più verità che nell'altrettanto rozzo e brutale illuminismo dogmatico. La maggior parte degli ar­ gomenti che l'illuminismo ha avanzato contro la teologia, in fondo, non sono altro che fanatismo. Ma, come bisogna difendere il punto di partenza della teologia e assicurare, così, la legittimità dell'ortodossia, allo stesso modo è ne­ cessario sostenere l'istanza dell'ateismo e assicurare la le­ gittimità dell'illuminismo. Infatti, per quanto si manifesti con rozzezza e brutalità, nell'istanza dell'ateismo c'è molta più verità che nella rozza e brutale teologia ortodossa che, con argomentazioni insignificanti, cerca di evitare l'illu­ mmismo. Lo scontro tra ortodossia e illuminismo non è ancora ca-

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duto in prescrizione. L'illuminismo è vivo ancora oggi ed è di gran lunga più radicale che nel XVII e nel XVIII secolo. Le sue conseguenze atee, di cui l'ortodossia ha sempre diffi­ dato, ora sono venute chiaramente alla luce. L'ortodossia è viva ancora oggi ed è di gran lunga più radicale che nel XVII e nel XVIII secolo. Ha dovuto abbandonare tutte le po­ sizioni concilianti e ritirarsi sul suo baluardo in difesa della posizione di un Dio impenetrabile a cui nulla è irapossibile. Gli accomodamenti e le mediazioni del XIX secolo sono ve­ nuti meno. Dopo Hegel, in cui la volontà di mediazione ha raggiunto il suo culmine, la conciliazione tra ortodossia e il­ luminismo si è incrinata fino a dividersi nelle due posizioni radicali di Feuerbach e Kierkegaard. Basta rimandare all'origine della teologia dialettica nel­ l'ateismo di Feuerbach e all'origine dell'ontologia atea nella teologia di Kierkegaard per poter valutare il capovolgimen­ to che ha avuto luogo. Heidegger sviluppa tutta la proble­ matica dell'esistenza facendo riferimento a Kierkegaard. Il fenomeno dell'angoscia, centrale nella sua analitica esisten­ ziale, viene qui indagato tenendo conto di Agostino, di Lu­ tero, ma soprattutto di Kierkegaard. La teologia di Karl Barth concorda del tutto con la critica atea della religione messa in atto da Feuerbach e la considera la base e il fon­ damento su cui poggia la vitalità della teologia. (Le lezioni di Barth su Feuerbach costituiscono un'eloquente testimo­ nianza in questo senso.) Lo scontro tra illuminismo e ortodossia non si è risolto. La cosiddetta vittoria dell'illuminismo è risultata discor­ dante. Tutte le tesi dell'ortodossia si fondano sull'inconfu­ tabile presupposto che Dio è onnipotente. Una volta ritira­ tasi su un simile baluardo, l'ortodossia, da questa posizione, può anche continuare la battaglia. Se, infatti, quest'ultimo presupposto è inconfutabile, tutte le tesi che si fondano su di esso sono incontestabili. Quando il suo attacco teorico è fallito, l'illuminismo ha dovuto cercare di costruirsi un si­ stema pratico in cui il mondo e la vita potessero diventare comprensibili senza alcun riferimento a un Dio imperscru­ tabile. Lo strumento di cui esso si è servito è stata la scien­ za della natura. Questo spiega in che senso il metodo della matematica, quello della geometria e, successivamente,

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quello della fisica matematica siano potuti diventare, in epoca moderna, un criterio per la filosofia. Nel mos geome· tricus si esprime il desiderio di un mondo completamente comprensibile che tende all'ideale di una matheJis universa· lis, la quale, come formula universale, si sarebbe potuta ma­ nifestare in astronomia o in chimica. Il sistema razionale dell'illuminismo fallisce di fronte alla barriera dell'irrazionalità. Il tentativo di risolvere la fatticità nella necessità non riesce. Soltanto successivamente l'idea­ lismo e il materialismo, i due modi di interpretazione ge­ melli, scoprono la radicale storicità dell'uomo e del suo mondo. A partire da Hegel e da Marx l'idealismo e il mate­ rialismo possiedono un fondamento storico, e l'idea di una natura eterna e di una verità eterna è andata perduta. La scienza della natura moderna può fornire un'interpretazio­ ne del mondo solo storicamente condizionata. ì-: palese che non è la scienza naturale moderna a fondare l'illuminismo, ma è piuttosto questo a fondare quella; la conoscenza scien­ tifica non giustifica l'illuminismo, ma è piuttosto la fede dell'illuminismo - l'ateismo - a giustificare la conoscenza scientifica. L'ateismo, che giustifica la conoscenza scientifica, crede che «Dio non esiste». Ciò vuol dire che, nell'ambito delle af­ fermazioni di «esistenza••, non c'è posto per Dio. Con un'af­ fermazione di «esistenza» si fa riferimento a un oggetto e al­ la sua descrizione. La scienza non è altro che la somma del­ le affermazioni di «esistenza>> . Quello che non risulta essere un oggetto, è inconoscibile, non può essere ammesso nel­ l'ambito della conoscenza, e quindi deve essere annullato dalla scienza. Ma che «Dio non esiste•• è anche la tesi della teologia, che ha sempre contestato il fatto che Dio sia un oggetto, e in ciò essa concorda con l'ateismo e con la scien­ za che su quello si fonda. Affermando che «Dio non esiste••, la teologia e l'ateismo confermano che Dio non è un oggetto. È forse necessario, allora, che la teologia si sottometta al verdetto della logica scientifica e rinunci a Dio, in quanto nullo? Sì, la teologia deve riconoscere tale verdetto e sostenere con questo nulla le sue questioni. Può il nulla essere espresso in maniera significativa? Il 47

nulla non può essere in alcun modo un oggetto, ma, in quanto soggetto, precede sempre e comunque ogni cosa. Se il linguaggio viene ristretto entro i limiti delineati dalla lo­ gica degli oggetti, il nulla non può essere espresso. Il nulla, però, va liberato da un simile assoggettamento. Nel retico­ lato della logica degli oggetti non si dà un vero e proprio soggetto, e la distinzione grammaticale in soggetto e ogget­ to è ingannevole e illusoria. Infatti, in che modo il soggetto di una proposizione si distingue antologicamente dall'og­ getto logico? Entrambi sono oggetti. Qui, cioè, non è il lin­ guaggio che non funziona, ma è la logica degli oggetti a non essere in grado di esprimere il soggetto antologico. Se il linguaggio fosse liberato da tale logica, il silenzio potreb­ be trovarvi espressione. Circoscritto entro la logica degli oggetti, Dio - se non si rinuncia a lui, perché nullo - viene sottomesso alla sovra­ nità di un'idea; lo si considera un valore tra gli altri. Chiun­ que lo consideri il valore più elevato, oppure proclami che Dio sia l'idea suprema, si rende colpevole dell'atto più bla­ sfemo. I superlativi provenienti dalla sfera mondana non onorano Dio, ma lo profanano. Quanto più in alto sulla scala dei valori è valutato, tanto più viene profanato. Perciò la teologia non può mai essere è contenuto un nulla come suo fondamento; in ogni «cosa•• che sia soggetto antologico, il nulla è implicato, in quanto soggetto. Ogni ricerca si volge a quella «cosa•• che deve dar prova di sé di fronte alla seguente questione: perché in ge­ nerale c'è qualcosa e non piuttosto il nulla? La teologia e l'ateismo rivelano che Dio è il nulla. Quan­ do, in passato, si è cercato di definire il rapporto tra Dio e il mondo, è nata l'idea della creatio ex nihilo. In tale formu­ lazione resta oscura la relazione esistente tra l'ex nihilo e l'a deo, il quale, pur essendo ciò a cui si pensava, non viene espressamente menzionato. Se è dal nulla che Dio mette in 48

atto la creazione, egli deve avere un qualche legame con ta­ le nulla. Ma quale può essere questo «legame», se Dio è Dio? Si può trattare solo di un «legame» di identità, soltan­ to, cioè, se deus e nihil sono identici. Allora la creatio ex nihi­ lo è una creatio ex deo. Ma se la creatio ex nihilo a deo vuoi di­ re creatio ex nihilo a nihilo, quale significato può avere la creatio? L'ex nihilo fit ens creatum non è in contraddizione con l'ex nihilo nihilfit? Tale contraddizione si risolve nel fat­ to che Dio e nulla sono lo stesso. Se deus e nihil sono iden­ tici, la creatio ex nihilo e l'ex nihilo nihil Jit wincidono. Crea­ tio vuoi dire, allora, il frantumarsi del nulla nella moltepli­ cità del «qualcosa». Nel frantumarsi del nulla sorge la mol­ teplicità del ••qualcosa» . In essa si percepisce la nostalgia dell'uno propria della creazione che da tale frantumarsi ha origine. Il nulla riecheggia attraverso i dolori della nascita del «qualcosa''· La nascita, come frantumarsi del nulla nella molteplicità del «qualcosa''• e la morte, come fondersi della molteplicità nell'unità del nulla, ricadono eternamente l'u­ na nell'altra. L'ateismo teologico - secondo la sua designazione teori­ ca, la teologia atea - è l'ultima, assolutamente incontestabi­ le e più radicale conseguenza che sorge da posizioni con­ traddittorie; essendo la conseguenza più radicale, è anche l'inizio più originario. Perché radicale vuoi dire risalire alla radice, al fondamento. Se valgono le designazioni general­ mente riconosciute, l'ateismo teologico - con il suo prolego­ menon alla teologia atea - appartiene all'ambito dell'analisi ontologica, in cui i modi più estremi del pensiero e dell'esi­ stenza, fede e miscredcnza, coincidono.

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2. SULLA PECULIARITÀ DEL METODO TEOLOGICO: ALCUNE RIFLESSIONI SUI PRINCIPI METODICI DELLA TEOLOGIA DI PAUL TILLICH

La parola «teologia» appare per la prima volta nella criti­ ca di Platone alla religione omerica e, a p artire da qui, essa indica sempre una crisi della religione. E l'ora della teolo­ gia, quando crolla una configurazione mitica e i suoi sim­ boli, irrigiditi in un canone, entrano in conflitto con un nuovo stadio della coscienza umana. Quando i simboli, creati per esprimere l'incontro dell'uomo con il divino, che ha luogo in un particolare momento della sua storia, non soddisfano più l'esperienza umana, la teologia cerca di in­ terpretarli così come erano originariamente, in modo tale che questi si adattino a una nuova condizione: ciò che nel mito era presente, nell'interpretazione teologica viene solo nuovamente «rappresentato>>, attualizzato in una versione adattata. La riflessione teologica trasforma tanto i simboli origina­ ri del canone, quanto la coscienza dell'uomo, ponendo en­ trambi sullo stesso piano. Una situazione umana non si dà mai in una condizione di assoluta nudità. Solo attraverso i simboli linguistici, attraverso il logos, l'uomo può orientar­ si nel suo ambiente. I simboli determinano il suo orizzonte e, finché hanno senso, definiscono il suo pensiero e la sua azione. La teologia, allora, trasforma l'orizzonte dell'uomo, interpretando la sua situazione nelle categorie dei simboli canonici e fungendo da forza conservatrice e, allo stesso tempo, dissolutrice. Come apologetica, essa cerca di con­ servare i simboli originari, ma, nella misura in cui applica i simboli canonici a una situazione mutata, agisce da cataliz­ zatore per la nascita di una nuova simbolica. Pertanto, si po­ trebbe descrivere il compito della teologia anche come una dialettica della «durata nel cambiamentO>>, L'equilibrio tra 51

simbolo e situazione viene raggiunto solo raramente ed è sempre solo provvisorio. Nell'interpretazione teologica i simboli hanno una loro vita ciclica e muoiono se la teologia non riesce più a tradurli nella situazione in atto. Quasi fin dall'inizio della sua storia la comunità cristiana ha cercato di servirsi della teologia, tanto che gli scritti ca­ nonici del cristianesimo non presentano solo un corpus di simboli originari, ma rappresentano già diversi stadi del­ l'interpretazione teologica. Pertanto, si potrebbe anche eventualmente presumere che la religione cristiana abbia una particolare affinità con l'interpretazione teologica e che la teologia succeda legittimamente alla rivelazione. A mio avviso, tale interpretazione delle origini della teologia nella religione cristiana non è corretta. Il cristianesimo ha dovuto servirsi dell'interpretazione teologica già nelle sue primissime fasi, perché i simboli della fede, in cui venivano all'espressione le attese della prima generazione, fin dall'i­ nizio erano entrati in contrasto con la situazione effettiva della comunità. Infatti, contro le sue attese e contro la sua stessa volontà, la comunità cristiana è stata gettata nella sto­ ria, così che la frattura tra i simboli escatologici della fede e 1' esistenza continua nella storia è antica quanto la storia della chiesa cristiana. . La funzione della teologia nella chiesa cristiana è rimasta sempre la stessa lungo tutta la sua storia. La teologia ha co­ stantemente adeguato i simboli escatologici alla mutata si­ tuazione storica e ha portato a termine questa trasforma­ zione con l'aiuto della filosofia platonica e, successivamen­ te, di quella aristotelica, attraverso cui i simboli escatologici sono diventati ontologici. Senza un tale costante atto di tra­ sformazione, la comunità cristiana sarebbe degenerata in una «Setta limitata e superstiziosa••, e sarebbe stata irrispet­ tosamente trascurata dalla cultura generale. Eppure nessu­ na religione può concedersi il lusso di una teologia, senza pagare un prezzo per questo. La secolarizzazione è il prezzo che la comunità cristiana ha dovuto pagare per il fatto che, da setta avventista quale era, è diventata una chiesa univer­ sale, e la storia della teologia rappresenta la contabilità spi­ rituale di queste spese. Si tratterebbe di iconoclastia, se a una comunità non fosse riconosciuto il diritto allo svilup52

po, se si escludesse qualsiasi cambiamento, se ogni com­ mentario fosse interpretato come falso, e si difendesse l'i­ dea che solo il testo sia valido. Si tratterebbe di idolatria, invece, se si ignorasse il costante conflitto tra testo e commento e non si prestasse attenzione al fatto che il te­ sto canonico viene sempre •> della teologia. Rimproverando alla teologia di essere vittima del pregiudizio, la critica storica voleva emanciparsi essa stessa dal presupposto teologico secondo cui la verità sarebbe data all'uomo solo attraverso la parola rivelata da Dio. Una teologia ecclesiastica, che si compren­ de alla luce della parola divina rivelata, dovrebbe smasche­ rare l'illazione della critica storica che sostiene che essa stessa lavorerebbe senza i presupposti della rivelazione di­ vina, mostrando che questa è solo un'illusione dell'intellet­ to autonomo. Per legittimare l'esegesi pneumatica, la teolo­ gia dovrebbe portare avanti una «Critica della ragione stori­ ca>>, mostrando che il principio trainante dello storicismo, la «coscienza storica>>, in realtà rappresenta la hybris e l'illu­ sione dell'uomo. Leo Strauss, nel suo libro sulla critica del­ la religione di Spinoza, ha esposto chiaramente la genesi di questo problema, mostrando in maniera così puntuale le implicazioni filosofiche della critica storica che non ritengo necessario ripetere qui, nei dettagli, la sua argomentazio­ ne.3 Ma non una sola volta il positivismo teologico è voluto andare così lontano, lasciando il problema della critica sto­ rica in un confuso stato di sospénsione. Richiamando l'at­ tenzione sul fatto che la critica storica non è solo un pro­ blema di precisione filologica, ma implica anche alcune � L. Strauss, Die Religionskritik Spinozas als Gmndlage seiner Bibelwissenschaft Untersuchungr.n zu Spinozas theoloiJisch-politischem Traktat, Berlin 1 939.

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conseguenze filosofiche che hanno scosso le basi della ri­ velazione cristiana, Erwin Reisner resta l'unico a offrire un'ammonizione in questo senso.4 La chiesa poteva tollera­ re un'interpretazione storica del canone e del dogma solo se metteva in gioco la sua stessa esistenza, diventando, in tal modo, un gruppo sociale tra gli altri coinvolto nei conflitti mondani. Forse è arrivato il momento in cui la teologia deve impa­ rare a vivere senza il sostegno del canone e delle autorità classiche, e a mantenere, così, una sua solidità senza alcuna autorità mondana. Senza autorità, però, essa può impartire un insegnamento solo attraverso un metodo indiretto. La teologia si trova, in effetti, in una singolare posizione, visto che deve dar prova della sua purezza, dimostrando che è presente su tutti i piani dell'esistenza umana e che non può pretendere per sé nessuna sfera particolare. Anche se si perdesse nelle forme mondane, non tradirebbe la sua voca­ zione. Il maestro di Ernst Troeltsch, Richard Rothe, ne sa­ peva qualcosa. La teologia deve rimanere in incognito nel­ l'ambito mondano e, in incognito, lavorare alla santifica­ zione del mondo. Non dovrebbe aspirare alla vana gloria di essere una scienza inviolabile, che si ••distingue>> dalle altre per dottrine e dogmi particolari; ma in «umiltà di spiritO>> dovrebbe porsi piuttosto al servizio della vita e del sapere mondano. Perderebbe forse di senso se, invece di insistere su una determinata sfera, rinunciasse a una reputazione specifica e assumesse la forma dell'incognito? In tal modo, esprimerebbe in maniera molto più attendibile la relazione tra il divino . e l'umano nel nostro tempo. ·

IV

La teologia sistematica di Tillich non è solo una teologia ecclesiastica, ma anche una teologia filosofica, che egli svi­ luppa, pertanto, in costante relazione con la filosofia. Il suo scopo è quello di definire all'interno dei confini di una teo� E.

Reisner, Die GeJchichte als Sii.ndenfall und Weg zum Gericht. Grundlegung einer chri.stlichen Metaphysik der Geschichte, Miinchen/Berlin 1 929.

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logia filosofica un «topos» specifico della teologia e deter­ minare un criterio per distinguerla dalla filosofia. Mentre la filosofia indaga la struttura dell'essere, la teologia si oc­ cupa di individuare il significato che l'essere ha per noi. L'oggetto della teologia è ciò che ci riguarda assolutamente. Sono affermazioni teologiche soltanto quelle che trattano il loro oggetto in modo tale che esso sia qualcosa che si im­ pone assolutamente. A questo punto, però, sorge il seguente problema: «Esiste un criterio con cui sia possibile determinare cosa dovrebbe avere assolutamente a che fare con l'uomo? Non è forse che ognuno possa porre come teologia ciò che riguarda assolu­ tamente sé stesso?» Di fronte a tali interrogativi Tillich ri­ sponde che sono teologiche soltanto quelle dichiarazioni che trattano il loro oggetto in modo tale che esso diventi un problema dell'essere o del non-essere per noi. Il problema dell'essere o del non-essere ha un senso specificamente teo­ logico. Ma anche il secondo criterio rimane formale. Ciò che riguarda assolutamente l'uomo è profondamente radi­ cato in un problema antologico. L'antologia non è una dot­ trina teorica, ma l'atto del domandare con cui l'uomo si in­ terroga sul fondamento del proprio essere. Tillich parla di un criterio materiale solo nel capitolo successivo all'esposi­ zione dei due criteri formali della teologia quando defini­ sce la teologia un'interpretazione metodica dei contenuti della fede cristiana. In tal modo, tuttavia, non è chiaro co­ me questa osservazione si rapporti ai due criteri formali, e l'affermazione acquista un suo significato solo quando ri­ torna in mente il fatto che la teologia è, per definitionem, una funzione della chiesa. L'elemento ecclesiastico intessu­ to nella sua teologia lo induce a limitare la sfera teologica e a creare una separazione tra teologia e filosofia. Eppure la sfera teologica ha un raggio molto più ampio. E l'unico cri­ terio per delineare il suo perimetro, anche qui, è ciò che nel messaggio cristiano riguarda assolutamente l'uomo. Che ci sia qualcosa che lo riguardi assolutamente può tro­ vare espressione in egual misura tanto in una forma di op­ posizione che in una di sottomissione. Feuerbach e Nietz­ sche, allora, sono ancora all'interno di una sfera teologica? La separazione messa in atto da Tillich tra filosofia e teo-

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logia solleva una questione di vitale importanza per la filo­ sofia. Se la filosofia, come v iene concepita da Tillich, deve occuparsi solamente della struttura dell'essere in sé, mentre la teologia si occupa del significato che questo essere ha per noi, la filosofia, in quanto tale, dovrebbe fermarsi alla pura oggettività e rinunciare alla concreta condizione dell'uo­ mo. Ma è possibile, in generale, indagare la struttura del­ l' essere senza essersi preliminarmente interrogati sul signi­ ficato che esso ha per noi? Ogni ricerca ontologica della struttura dell'essere, infatti, resta fondamentalmente vuota anche nel sistema delle categorie più differenziato, finché non si chiarisce quale sia il significato dell'essere per noi. In tale questione ontologica non vedo alcuna divergenza pos­ sibile tra teologia e filosofia, poiché ogni indagine sulla struttura dell'essere, sulle sue categorie e i suoi concetti, che non accerti in primo luogo il significato che l'essere ha per noi, è destinata al fallimento. Un'ontologia che si fermi alla descrizione delle strutture oggettive, senza tener conto dell'origine soggettiva di questo atto, resta infondata. La separazione tra il Logos universale e il Logos concreto non si può interpretare attraverso il circolo teologico messo in atto da Tillich. Il Logos universale deve essere sempre connesso col Logos concreto, altrimenti diventa un mero fantasma di luoghi comuni. L'unità di universale e concreto non può «dipendere», in senso ontologico, da un determi­ nato evento che ha avuto luogo nel corso della storia. Se l'ontologia viene escatologizzata e l'escatologia ontologizza­ ta, è necessario che il dramma tra l' «essere» e il «nuovo es­ sere» sia un evento continuo. L'atto della riconciliazione de­ ve essere un evento eterno, oppure deve essere portato a compimento dall'essere storico dell'uomo. I simboli escato­ logici originari per l'antagonismo e la conciliazione tra il protos Adam e l'eschatos Adam avevano una loro coerenza in­ terna, che si allontana da una teologia che debba fare i con­ ti con il dato di fatto di una storia cristiana, convertire tali simboli in concetti ontologici e lasciare che l'eschaton irrom­ pa nella storia in un momento arbitrario del suo corso. È probabile che alcune riflessioni del genere, o comun­ que simili, abbiano dissuaso Martin Heidegger dall'accetta­ re un'interpretazione ontologica della teologia, che avrebbe 65

potuto manifestarsi come un correlato del tutto naturale della sua filosofia dell'essere. In alcune affermazioni che si possono leggere come un commento diretto della teologia di Tillich, Heidegger osserva: «Se dovessi scrivere ancora una teologia, cosa che a volte mi tenta, in essa non dovreb­ be comparire la parpla "essere". Per la fede non è necessa­ rio pensare l'essere. Se cc n'è bisogno, non è più tale. Lu­ tero lo aveva compreso. E persino nella sua chiesa sembra che sia qualcosa da dimenticare».5 Heidegger non dice co­ me svilupperebbe le categorie di questa teologia, ma una cosa è chiara: come fanno Kierkegaard e Barth, egli separa l'ontologia dalla teologia. In questa situazione contrastante starei dalla parte di Tillich, anche se dubito che l'interpre­ tazione ontologica della teologia si possa circoscrivere entro i limiti della sfera teologica. Ma la teologia sistematica di Tillich si limita alla sfera teo­ logica? Il destino paradossale della teologia del Logos è che essa finisce per diventare una teologia dell'immanenza. Questa conseguenza trova un suo supporto già nel princi­ pio della dialettica. Senza dubbio la teologia di Tillich de­ scrive soprattutto la profonda lacerazione della ragione e l'alienazione dell'uomo. Ma, da un punto di vista teologico, la riconciliazione non viene forse descritta come un'im­ provvisa manifestazione ••sovrannaturale», come una mira­ colosa guarigione che libera l'uomo dal conflitto? Se il polo sovrannaturale viene dialetticamente incluso nel ciclo ter­ reno e tutto ciò che appartiene a Dio viene interpretato alla luce del mistero dell'incarnazione, il divino scende nel mon­ do e diventa un principio immanente. Non sta più al di là o di fronte all'uomo, ma nella profondità del suo essere. La legge di Dio (teonomia) non è più un decreto divino rivolto all'uomo, ma nient'altro che «la ragione autonoma, unita al­ la propria profondità» (p. 103; tr. it. p. 1 03). In tale situa­ zione, «è altrettanto ateo affermare l'esistenza di Dio quanto negarla•• (p. 275; tr. it. p. 271 ), perché Dio non è un'essenza posta al di là o di fronte all'uomo, che lo chiama, da cui ri­ ceve ordini e che conta su di lui, ma l' «essere stesso». 5 M. Heidegger, Semina1-e, GA, Vol. 15, Frankfurt a.M. 1986, in particolare Zilrcht'T Seminar, Aussprache am 6. NovembeT 1 95 1 , p. 437.

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Ritengo importante indagare la «topologia» dei simboli fondamentali dell'interpretazione ontologica. Secondo Til­ lich essi sono tutti legati alla della rivelazione divina, guardando alla natm·a umana così come essa è «in cielo», e giudicando il modo in cui l'uomo conduce la sua vita «sulla terra», può fungere da negazione concreta di quello status quo, che la dittatura del­ l'intelletto medio accetta come condizione umana perma­ nente. La negazione teologica, dunque, non può forse ser­ v ire alla filosofia da catalizzatore per sviluppare le catego­ rie dialettiche con cui poter smascherare l'elemento con­ venzionale presente in ciò che si spaccia per natura eterna dell'uomo, e per rinviare, al di là dello status quo, a quella norma ideale secondo la quale gli uomini potrebbero esse­ re giudicati? 75

Il linguaggio teologico è sorto dal dualismo tra norma ideale e status quo della condizione umana. Finché questa tensione non trova un equilibrio, la teologia ha un compito legittimo. Tuttavia nel linguaggio della stessa teologia si ri­ flette la tensione tra norme ideali e norme dominanti del­ l'uomo e della società. Non appena i criteri ideali che la teologia ha fissato per giudicare l'uomo e la società hanno trovato una loro realizzazione nel corso della storia umana, il compito della teologia è terminato. La storia reale del­ l'uomo si rispecchia nella teologia, e non nelle scienze spe­ cialistiche della natura e dello spirito, come la fisica, la bio­ logia, la psicologia. Per una filosofia che si occupi dei vari gradi dell'autorealizzazione dell'uomo, lo sviluppo del lin­ guaggio teologico risulta, pertanto, di totale interesse. Il nostro metodo di ricerca è l'analisi filosofica; l'oggetto è il metodo dialettico così come è stato sviluppato nelle opere di Karl Barth. Scopo dell'analisi è quello di mostrare alcuni modelli generali emersi in questa opera teologica, che appaiono significativi per un'analisi filosofica della con­ dition humaine. Il filo conduttore di tale analisi è dato dalla premessa secondo cui il discorso teologico è un discorso sull'uomo. Ma esiste, in generale, la possibilità di indagare il senso delle dottrine teologiche a partire da una matrice universa­ le? Se si prende come matrice l'unità del discorso umano, allora anche le affermazioni «teologiche» (che esigono una validità solo all'interno di un «circolo teologico») devono poter essere esposte ai metodi di una ricerca filosofica. Per­ ché ogni teologia, per quanto perentoriamente si presenti come esegesi legittima di un'esperienza divina, è sempre in primo luogo discorso umano. Anche la «parola di Dio••, in quanto ••parola», deve sottomettersi ai limiti del linguaggio e, quindi, alla ricerca che passa attraverso l'uomo. Questa semplice, eppure fondamentale premessa ci permette di in­ traprendere un'indagine filosofica del discorso teologico. I simboli che, nel linguaggio della teologia, sono stati svi­ luppati come commento per un canone di Scritti sacri (mi sembra che la forma del commento sia sostanzialmente connessa al programma di una teologia, che si presenta proprio come esegesi di una rivelazione divina), rivestono 76

un significato fondamentale per un'interpretazione delle «pure» condizione umane di esistenza. Chi rimproverereb­ be a Colombo di aver creduto per tutta la vita di aver rag­ giunto l'India sulla rotta occidentale, quando, in realtà, ave­ va scoperto un nuovo continente? Un'analisi filosofica della teologia non sonda gli insegnamenti impartiti alla luce di un loro accordo con le Sacre Scritture e con le salde tradi­ zioni della chiesa, ma li tratta come categorie umane. I sim­ boli teologici sono segnali umani. In essi l'uomo scrive la sua storia; sono costitutivi per il suo sviluppo. Cos'è la dialettica? Questo concetto riemerge continua­ mente in contesti differenti all' interno della storia della fi. losofia, delJa teologia e delJa sociologia. Presupposto di tut· te le varianti dialettiche, tuttavia, è il fatto che il «metodo dialettico» si fonda sul dialogo. Il dialogo presuppone che una singola persona, da sola, non basta a dar forma al logos. Il logos può essere realizzato solo nella forma del discorso. Poiché, tuttavia, esso può essere interpretato in termini on­ tologici o in termini antropologici, il metodo dialettico può procedere in due modi differenti. In Eraclito il logos è on­ tologico e antropologico: . I sofisti hanno ripreso questo principio eracliteo, e ne han­ no fatto un metodo del discorso. NelJ'ambito di un discor­ so la dialettica può diventare un metodo per mettere in dubbio le affermazioni dogmatiche assolute. Può costituire un punto di vista critico contro l'eterno dogmatismo tipico del sentire comune. La dialettica di Socrate si fonda sulJ'i­ dcntico principio critico. Il suo discorso era e fungere, quindi, da tecnica apologetica, senza alcun riguardo per la situazione vigente (e sostenere, così, l'interesse di un canone stabile). Fu proprio questa sua indeterminata utilizzabilità che screditò tale metodo, indu­ cendo Kant a condannare i sofismi del pensiero metafisico come ••dialettici>>. La negazione teologica dell'ordinamento terreno tradizionale è in grado (in quanto elemento critico permanente) di ostacolare un uso indeterminato del sic et 77

dialettico? Oppure la base teologica della teologia dia­ lettica offusca l'elemento critico e permette che attraverso la teologia si introduca un'apologia del mondo? Dopo Barth, la teologia è possibile solo «nella forma di un dialogo, nel discorso tra domanda e risposta». Solo nell'in­ contro tra domanda e risposta si realizza il carattere tetico­ antitetico della teologia. La teologia è «pensiero dialettico». Se il carattere dialettico della teologia deve essere preso sul serio, essa allora deve restare un discorso aperto e non chiudersi in un sistema esclusivamente autoreferenziale. Co­ sì, infatti, la «parola propria» di Dio, la sua «teologia>>, come ha osservato Barth una volta, sarebbe una «teologia adialet­ tica>>. Ma l'uomo è mortale e non può pretendere di posse­ dere «l'ultima parola>>. La teologia, allora, può resistere alla tentazione di essere «l'ultima parola>> e di far passare la pa­ rola mortale dell'uomo come dogmatica «parola di Dio>>? non

II

La costellazione presente alla nascita della teologia dia­ lettica è caratterizzata dal legame tra la filosofia di Hegel e l'opposizione messa in atto da Kierkegaard contro il meto­ do hegeliano della mediazione. Hegel ha sviluppato la sua filosofia come esegesi del Prologo del Vangelo di Giovan­ ni: In principio era il Logos, e il Logos era presso Dio, e il Logos era Dio. Nell'equazione giovannea sono già predi­ sposte coppie identiche a quelle hegeliane: Dio è il Logos, il Logos è la logica, la logica è la verità, la verità è lo spiri­ to, lo spirito è la vita. All'interno di tale «logica circolare>>, Hegel sviluppa il suo schema di tesi, antitesi e sintesi sulla base dell'equazione giovannea. Le obiezioni di Kierke­ gaard riguardano la «mediazione» delle contraddizioni svi­ luppata da Hegel, perché le contraddizioni, secondo Kierkegaard, non possono essere conciliate in una sintesi , ma devono essere decise «O» in un modo, nell'altro. Di qui Aut Aut, il titolo della sua opera prin­ cipale, in cui viene sottolineata la «differenza qualitativa>> tra l'umano e il divino. Per avere sottolineato con così tan­ ta forza lo iato tra Dio e uomo, la differenza tra creatore e 78

creazione, Barth ha subito l'influsso della «dialettica nega­ tiva» di Kierkegaard. Ma dalla protesta di Kierkegaard contro la sintesi hegelia­ na non è possibile edificare alcuna teologia, visto che essa si esaurisce nella sua retorica critica negativa. Se la differenza tra il divino e l'umano, tra il creatore e la creazione viene in­ trodotta nella grammatica di una teologia dialettica, lo iato, così, viene sottolineato a tal punto, che la conciliazione tra divino e umano nell'atto della redenzione appare ancora più viva. Se la teologia di Barth ha posto l'accento sull'ele­ mento negativo del rapporto tra Dio e l'uomo, tale antitesi assume all'interno del sistema una funzione totalmente dif­ ferente dalla descrizione della frattura ripetuta più volte da Kierkegaard. Infine, in questo fondamentale modello teolo­ gico, la sintesi della conciliazione si manifesta tanto più chia­ ramente solo nello stato della redenzione. Ecco allora che l'arco di oscillazione tra un'estremità negativa e una positiva è molto più esteso rispetto a quello in cui si muovono la fi­ losofia della conciliazione di Hegel o la protesta negativa di Kierkegaard. Il culmine della teologia dialettica di Barth è dato dal fatto che essa deve descrivere la conciliazione tra Dio e uomo in modo tale da superare la dialettica hegeliana della conciliazione. Lo spettro di Hegel si aggira, dall'inizio alla fine, per tutto il corso della teologia di Barth. Ci siamo proposti di sottrarlo all'indeterminatezza. III

L'universalità della filosofia di Hegel viene sfidata dal­ l'universalità della teologia barthiana. La premessa panteo­ logica di Barth, che diventa la misura per tutti gli altri am­ biti teorici e pratici, muove contro la matrice panfilosofica hegeliana, che voleva integrare il regno della teologia. Non a caso Barth si è sentito costretto a trattare fin nei dettagli le filosofie di Descartes, Leibniz, Rousseau, Kant, Hegel, Feuerbach, Overbeck, Nietzsche, Heidegger e Sartre. In queste esposizioni egli offre una storia della filosofia mo­ derna molto più acuta della maggior parte delle «Storie del­ la filosofia» correnti. 79

Un confronto tra la filosofia dialettica di Hegel e la teo­ logia dialettica di Barth risulta evidente, se si osserva lo schema strutturale che seguono le teorie di entrambi. La dialettica di Hegel e quella di Barth si realizzano nell'esege­ si della cristologia trinitaria. L'incarnazione è l'alfa e l'ome­ ga del destino umano e costituisce lo schema per compren­ dere la natura e l'uomo. Sia nella filosofia dialettica di He­ gel sia nella teologia dialettica di Barth la cristologia non è semplicemente una teoria della coscienza religiosa (in senso soggettivo); essa piuttosto costituisce il sigillo impresso alla natura e all'uomo. L'esegesi della natura di Cristo fornisce a entrambi il modello che viene applicato a tutta la moltepli­ cità delle sfere naturali c umane. Hegel è l'ullimo filosofo occidentale che ha fatto della dottrina cristiana della trinità e del mistero dell'incarnazione la pietra miliare della sua fi­ losofia. A partire dalla grande opera di Agostino, il De Tri­ nitate, la dottrina della trinità è servita da schema a nume­ rose speculazioni filosofiche e teologiche. Con Gioacchino da Fiore lo schema trinitario è divenuto persino il fonda­ mento di un'interpretazione della storia. La filosofia dialet­ tica di Hegel ha cercato di combinare l'interpretazione spe­ culativa «agostiniana>> della trinità con l'interpretazione sto­ rica del dogma trinitario messa in atto da Gioacchino. Questo stesso schema struttura anche la teologia barthia­ na. In recenti discussioni sulla teologia di Barth si è cercato di mettere in evidenza l'influsso che il metodo dialettico avrebbe avuto solo su una piccola parte della sua opera. L'interpretazione di Hans Urs von Balthasar è caratterizza­ ta dal desiderio di conciliare la teologia di Barth con la teo­ logia e la filosofia cattolico-romane universali, dominate dal principio dell'analogia entis. Un simile tentativo deve fallire (anche se un interprete come von Ballhasar agisce con la maggiore prudenza possibile). Non è un «fraintendi­ mento•• di Barth, quando egli considera il principio dell'a­ nalogia enti.s un'invenzione dell' ••Anticristo>• che, come pie­ tra dello scandalo, si interpone tra lui e la filosofia e la teo­ logia cattolico-romane. La differenza tra il principio dell'a­ nalogia entis e il metodo della dialettica non va cercata nel­ la dottrina, e neppure nel metodo. Essa tocca molto più in profondità le hasi della schematizzazione in generale. 80

La filosofia e la teologia medievale sono ancorate a un principio cosmologico. L'analogia entis presuppone un co­ smo gerarchico, suddiviso in sfere e ambiti diversi. Tale principio è anche il motivo per cui nella teologia e nella fi­ losofia cattoliche la congiunzione «C>> è onnipresente. Na­ tura e grazia, opere e fede, ragione e rivelazione, Scrittura e tradizione sono gli elementi del duplex ordo, di cui è com­ posta la struttura della teologia e della filosofia cattoli­ che. Il principio della dialettica è antropologico, e la teo­ logia di Barth acquista una sua importanza e un suo signi­ ficato solo nel generale distacco dal modello cosmologico medievale verso lo schema antropologico moderno. Per questo (anche nel suo tardo periodo ortodosso), egli ha combattuto il principio dell'analogia entis, considerandolo una grande mistificazione che grava sulla ricerca teologi­ ca e filosofica. Il duplex ordo del naturale e del sovranna­ turale, secondo lui, assomiglia molto a una sorta di «par­ tita doppia•• . Essendo una teologia dell'attualismo, la teologia dialetti­ ca si oppone alla filosofia e alla teologia tomiste per i suoi concetti ontologici fondamentali. I simboli della creazione, del peccato originale e della redenzione non vengono in­ terpretati secondo il modello naturale/ sovrannaturale, ma in uno schema temporale (sovrastorico). Le sue categorie non esprimono la natura delle cose, ma dispiegano, piutto­ sto, una successione di eventi. Lo schema fondamentale del­ la teologia dialettica potrebbe portare adeguatamente all'e­ spressione solo una filosofia ontologica, che sia in grado di sviluppare la struttura temporale delle sue categorie. Si può presumere che la filosofia ami-aristotelica di Bergson o di Heidegger costituisca la fondazione epistemologica e on­ tologica delle categorie storiche di Barth - come una sorta di «a-evenemenziali tà•• . È possibile suddividere l'opera di Barth approssimativa­ mente in tre periodi: l ) il periodo di una dialettica sintetica «liberale•• fino al Romerbrief (del 1 9 1 9); 2) il periodo di una dialettica antitetica negativa - dalla seconda edizione del­ l'Epistola ai Romani (del 1 923) alla Christliche Dogmatik (del 1 928); e 3) il periodo di una dialettica sintetica «ortodossa», a partire dai suoi primi lavori sulla Kirchliche Dogmatik (del 81

1 932). Rispetto alla complessità della teologia barthiana, una simile ripartizione risulta quasi violenta e deve essere pensata solo come un aiuto per orientarsi nel labirinto del­ la sua enorme opera. Tale tripartizione, tuttavia, può deli­ neare le tendenze dominanti e isolare i rispettivi motivi conduttori. Credo che sia metodologicamenle falso servirsi del primo periodo opponendolo a quello tardo. Non biso­ gnerebbe giudicare la seconda edizione dell ' Epistola ai Ro· mani come un «classico)), liquidando, invece, la tarda Dog· matica ecclesiastica come una semplice fossilizzazione sul modello ortodosso; né, d'altra parte, ci si dovrebbe sbaraz­ zare delle prime opere, perché «Caotiche•• ed «espressioni­ ste••, come fa Hans Urs von Balthasar, accettando come au­ tentica l'ultima lettura che risulta dalle sue opere. Un'inter­ pretazione ha la libertà (oltre che il dovere) di far emergere l'unità dei motivi anche laddove l'autore pensa che neppu­ re una parte sia stata ripresa immutata dalla sua costruzio­ ne più antica. IV

Già la prima edizione dell'l:!.pistola ai Romani ( 1 9 1 9), che non ha riscosso l'attenzione del pubblico (e anche per que­ sto è una rarità nelle biblioteche teologiche), racchiude tut­ ti i fondamentali motivi conduttori dell'intera opera di Barth, come ha notato per primo Hans Urs von Balthasar. Il commento barthiano all'Epistola ai Romani di Paolo, stan­ do alla sua struttura, è «escatologia dinamica)). Il d ramma che viene descritto (come l'economia della salvezza di Pao­ lo) ha inizio con l'eone della morte, che è il regno del co­ smo naturale, e guarda all'eone della vita, in cui v iene ri­ stabilì ta l' «armonia originaria•• tra il div ino e l'umano. L'u­ scita da questo eone, dunque, per entrare nell'altro, è pos­ sibile perché l'uomo ha conservato un «ricordo•• dell'iden­ tità originaria tra il divino e l'umano. Il fon damento dell' >, pre­ suppone un atto libero che resta sempre una prerogativa di-

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vina. In effetti, il linguaggio con cui Barth descrive il movi­ mento attraverso il quale l'uomo, da antitesi di Dio, diventa uomo nella conciliazione con Dio, deriva dalla dinamica dialettica di Hegel. Ma il movimento che va dall'estrania­ zione alla redenzione è libertà divina, non necessità. I .'atto divino non è legge, ma amore libero, e perciò al di là di un intervento filosofico. Barth non avrebbe nulla da obiettare contro una «filoso­ fia>> che prenda in considerazione solo i problemi episte­ mologici «neutrali>>, ma si oppone nella maniera più vio­ lenta a ogni filosofia che teologizzi in segreto. Tuttavia, il suo ardente attacco alla filosofia non è forse caratterizzato da uno spirito da guerra civile? Mentre la filosofia di Hegel teologizza in segreto, la panteologia dialettica di Barth è se­ gretamente filosofica. La differenza che normalmente vie­ ne messa in risalto tra la dialettica hegeliana della «neces­ sità>> e il principio di Barth dell'assoluta libertà della sintesi divina, può essere irrilevante per il procedimento metodi­ co, ma anche per la struttura effettiva delle loro dottrine perde di significato, perché con il piano della sintesi si è raggiunta una condizione in cui il concetto di libertà e quel­ lo di necessità risultano ambigui e indefiniti. È vero (come ha osservato Barth una volta) che la filo­ sofia è sorta dalla teologia. Ma la relazione tra teologia e filosofia si può anche rovesciare. Lungo il cammino della storia, partendo dalla teologia, la teologia dialettica può rinviare alla filosofia: la teologia è l'origine. Ma un'inter­ pretazione altrettanto legittima può essere anche quella che parte da un altro punto di vista: e cioè dal fatto che la filosofia è la meta. Se si dà maggiore importanza all'origi­ ne, allora il corso successivo appare una graduale aliena­ zione e un allontanamento progressivo da questa. Se inve­ ce si sottolinea la meta, tale processo appare un crescente perfezionamento. Entrambe le interpretazioni seguono lo stesso schema. In nessun luogo la premessa della panteo­ logia barthiana contrasta con la dialettica di Hegel, persi­ no laddove Barth attacca la filosofia hegeliana in quanto >. Se si guarda all'apologia del mondo nella sua tota­ lità, così come è presente nella Dogmatica ecclesiastica, senza includervi le valutazioni negative della seconda edizione dell'Epistola ai Romani, una tale teodicea finisce necessaria­ mente col diventare un'apologia de11a violenza e dell'ingiu­ stizia del mondo. Le frecciate che Kierkegaard, Dostoevskij e Nietzsche scagliano contro Hegel, non dovrebbero forse colpire anche la teodicea teologica di Barth? La teologia dialettica di Barth non può evitare di trasferire le contrad93

dizioni nella stessa vita divina. Nell'atto dell'incarnazione Dio è colpevole della contraddizione contro di sé. Nell'atto dell'amore si rende oggetto della sua stessa ira. La dialetti­ ca arriva nel cuore stesso della vita divina e da qui passa al­ la vita dell'uomo. Ma se la vita divina non trascende la con­ traddizione, fino a che punto supera la natura contraddit­ toria propria della vita umana? Stranamente la teologia dialettica di Barth ha gli stessi li­ miti della filosofia dialettica di Hegel. In entrambi lo spiri­ to è posto come spirito divino assoluto, mentre la dialettica presuppone il dialegesthai degli spiriti limitati e finiti. Lo spirito assoluto non ha bisogno di dialogo; noi siamo, inve­ ce, finiti e limitati. Abbiamo bisogno l'uno dell'altro; per questo la verità, il logos umano possono realizzarsi solo nel dialogo tra gli spiriti finiti. Tale dialogo sta alla base del metodo dialettico. Quando uscì la seconda edizione dell'E­ pistola ai Romani di Barth, ci fu un momento in cui il falli­ mento della teodicea poteva essere interpretato con catego­ rie teologiche. In questo testo, che costituisce il protocollo della rovina della società convenzionale e dell'ordine natu­ rale, la distruzione del cosmo classico (e quindi anche del­ l'antologia classica) diviene trasparente. Con la distruzione dell'antologia classica è andato in frantumi anche il proble­ ma della teodicea. Il commento di Barth all'Epistola ai Ro· mani di Paolo non era rappresenta una realtà specifica. Perciò le mitologie variano di popolo in popolo e di luogo in luogo. I diversi miti raccontano una storia ogni volta dif­ ferente; ma il popolo che narra una storia, non sa che la sua è soltanto una storia particolare; crede, invece, nella sua va­ lidità universale. I suoi dèi vengono rappresentati come di forze trascendenti che si manifestano pro­ prio nella comunità umana. Tali forze sono gli dèi. L'unione cultuale è la prosecuzione dell'unità del Pantheon degli dèi con la comunità degli uomini. Finché «il cammino in discesa e quello in salita è uno e unico>>, l'epo­ ca mitica è reale. Si fonda sull'idea della contrapposizione tra divini e mortali. Gli uomini salgono al cielo, e gli dèi 106

scendono sulla terra. Tale epoca non ha alcuna concezione del destino, perché il rapporto tra gli dèi e gli uomini è an­ cora personale. Una volta emerso il concetto di destino, il crepuscolo degli dèi è vicino. L'uomo è tagliato fuori dal­ l'unione cultuale con gli dèi ed è abbandonato a sé stesso. L'idea del destino viene alla luce, quando un'epoca mitica sta per finire e la reciprocità del patto cultuale viene inter­ rotta. Una volta fatta l'esperienza del destino, si apre la stra­ da alla causalità che domina il regno degli uomini e quello della natura. La tragedia greca rappresenta il dramma del­ la graduale perdita degli dèi. La strada che va dal culto alla cultura attraversa un pe­ riodo di consolidamento, in cui il legame tra un popolo e il suo dio viene paralizzato. Le «forze» interessate a perpe­ tuare e a stabilizzare il dominio universale delle leggi natu­ rali, tendono a escludere tutti i «miracoli», tutto ciò che può creare interruzioni nel regno naturale, recidendo la comunione tra il popolo e il suo centro biologico, gli dèi. Questo processo di consolidamento e di irrigidimento ter­ mina con la dissoluzione del popolo come unità biologica. Al posto della comunità cultuale degli uomini con gli dèi, subentra la tecnica. Lo strumento tecnico, secondo Goldberg, può assolvere fino a un certo grado la funzione dell'atto rituale sacro, visto che la tecnica si occupa, sul pia­ no >. Tuttavia, nel tentativo di far rien­ trare il Pentateuco in un ••sistema••, Goldberg viene meno alla sua intenzione perché, così facendo, è costretto a tra­ scurare i molteplici strati che passano attraverso la compi­ lazione di libri assai diversi. A questo punto lo stesso storico del rituale diventa vittima del ritualismo. L'oggetto della ri­ cerca si ripercuote sul metodo. Tuttavia, la questione principale per Goldberg non era un' filologica, ma il problema fondamentale di una teodicea. La sua ricerca lo ha portato alla scoperta, piuttosto sorprendente, che il Pentateuco ha a che fare più volte con i . La presenza di dio è limitata al luogo in cui è cono­ sciuto il suo nome. Se egli, tuttavia, è legato alla sua mani­ festazione, allora è legato anche a una corporeità, di cui fuori del Pentateuco - si può liberare solo grazie a un tour de force teologico. Solo se i concetti di onnipotenza e onnipresenza di dio vengono lasciati da parte, può avere senso porre la questio­ ne della giustizia divina. La risposta di Goldberg a questo proposito è che non c'è un dio giusto per questo tempo e che la sua realtà e la sua potenza sono diventate più deboli. La questione sulla giustizia divina, dunque, non si pone. Parlare di giustizia in un senso definitivo è possibile, solo se la guerra combattuta tra le diverse divinità è finita e se il dio pre-mondano si manifesta nel mondo. Soltanto alla fine della storia terminano le milchamoth jahvè, le guerre di Jahvè. Solo attraverso categorie escatologiche il profeta Isaia può parlare della jeschuatjahvè, della vittoria di Jahvè nella guerra con le «altre divinità», quando l'«unico dio•• originario si manifesterà come Elohim Israel. Da quando il dio originario non è più presente nel mondo, il compito dei popoli è anche quello di portarlo al potere e di fare in mo­ do che si liberi della condizione limitante di un essere meramente potenziale. . Questa teogonia escatologica ricorda agli storici delle re­ ligioni l'ideologia degli gnostici ebrei del tardo XVIII secolo, quando l'ala radicale del messianesimo sabbatiano sviluppò una teologia altrettanto sbalorditiva, in cui si attuava la di­ stinzione tra un «unico dio•• premondano e i «molti dèi» presenti nella storia. Nella sua filosofia della religione Oskar Goldberg rifiuta, insieme agli gnostici, la sterile se­ parazione ortodossa tra monoteismo e politeismo e pone l'accento sulla dialett ica tra un dio presente e uno assente. L'assenza di dio è un tema diffuso nella filosofia e nella letteratura gnostica degli ultimi venti anni. Per Goldberg la perdita di dio assume la forma dell'assenza della giustizia 1 10

divina nell'ambito umano. L'azione sacrale de] popolo è un processo politico trascendentale. Mentre gli gnostici elevano fino all'apoteosi e universalizzano l'esperienza del­ la mancanza, Goldberg cerca di forzare l'assenza di dio at­ traverso la potenza magica di un atto sacrale. Come pro­ cesso politico l'azione sacrale è causa di una rivoluzione escatologica. In un tempo in cui i confini tra la mitologia cultuale e le fantasie poetiche sono così sfumati che l'entusiasmo per la mitologia può impossessarsi degli ultimi resti del prestigio di cui gode la religione, senza che questo debba uniformar­ si allo standard definitivo e rigoroso della fede o dell'azio­ ne, c in un'epoca in cui la libertà poetica manipola in ma­ niera frivola motivi mitici, indossando una maschera di se­ rietà, la radicale filosofia della mitologia di Goldberg ha il merito di affrontare direttamente il problema della realtà e della coscienza mitiche. Da essa apprendiamo che la mito­ logia presuppone l'attualità di una forma di vita mitico-re­ ligiosa. Tale premessa viene oscurata in ogni interpretazio­ ne teologica e letteraria della mitologia che sia capace di ri­ conoscere in questa solo una forma di espressione simboli­ ca. La teoria de] mito di Goldberg costituisce una verifica per ogni entusiasmo mitico che faccia sparire la semplice, ma fondamentale differenza tra il reale e il poetico. In una teoria radicale come questa vengono apertamente alla luce le conseguenze in parte grottesche, in parte nichi­ listiche di un ripristino della mitologia - conseguenze di cui non sono venuti a capo neppure ierofanti come Martin Heidegger in filosofia, o Ezra Pound in poesia, che sem­ brano meno consapevoli della propria responsabilità e più oracolari (e quindi di maggiore successo). Per poter dare nuovamente fondamento all'alleanza tra dèi e uomini, o per poter ricostituire la potenza dell'azione sacrale, l'uomo de­ ve rinunciare in primo luogo a tutta la storia della civiltà, oppure distruggerla. L'originalità di Goldberg, per me, non sta tanto nella sua interpretazione del mito, che a grandi tratti è stata confermata successivamente dall'antropologia empirica e dall'etnologia, quanto piuttosto nella letteralità con cui egli ha tradotto il mito in realtà e nella sua rigida decisione di prendere sul serio tutti i segni sui culti e i ri111

tuali arcaici, e ciò non solo per poter civettare con le mode correnti. L'arcaismo presente, in modo palese, nella filosofia del mito di Goldberg e, in forma latente, in una nostalgia vaga­ mente conservatrice indebolisce i fondamenti della cultura e minaccia di far emergere quella tabula rasa della civilizza­ zione, per la quale, oggi, i conservatori attribuiscono di buon grado la colpa alla «tirannia del progresso». Dopo Socrate la mitologia deve rimanere un'illusione. La filoso­ fia di Goldberg può attestare solo che dobbiamo mangiare ancora una volta dall'albero della conoscenza per ritornare nella condizione di innocenza. Perché questa è la legge del processo irreversibile della storia della coscienza.

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5. LA RELIGIONE E IL FUTURO DELLA PSICOANALISI

Freud ha sempre sottolineato con forza che la psicoanali­ si non è filosofia, ma un metodo terapeutico. Ciò nondi­ meno, tale metodo, che si è sviluppato a partire dall'analisi di alcuni casi di isteria, ha portato nel suo dominio le arti e le scienze, la filosofia e la religione. La psicoanalisi, infatti, come metodo terapeutico, è stata l'origine comune di con­ seguenze diverse, tutte di vasta portata per la comprensio­ ne dell'uomo. Un insegnamento rivoluzionario come questo poteva an­ dare pubblicamente per la propria strada solo affrontando l'opposizione ostinata delle ideologie dominanti e delle isti­ tuzioni vigenti. Una tale opposizione contro il metodo psi­ coanalitico non dovrebbe meravigliare lo storico. Ci do­ vrebbe stupire, piuttosto, il rapido successo che un metodo simile ha ottenuto negli ultimi anni. Tutto quanto si oppo­ neva alla psicoanalisi ha forse trovato una via di riconcilia­ zione con essa in seguito ai successi ottenuti dal metodo te­ rapeutico, oppure sono la teoria e la prassi dell'analisi che hanno subìto un mutamento? Non è che la psicoanalisi ha adattato le sue teorie alle ideologie vigenti? Lo sviluppo post-freudiano della teoria psicoanalitica ha offuscato le sue implicazioni critiche nei confronti della vita sociale? La sua unica funzione è forse quella di rafforzare le nostre isti­ tuzioni esistenti? Negli anni che precedono la prima guerra mondiale la religione rappresentava un baluardo per chi si opponeva alle tesi della teoria psicoanalitica. Tale contrasto da parte della religione non era casuale. Freud aveva vincolato la teoria psicoanalitica alle premesse dell'ateismo. Oltre a un generale riconoscimento delle concezioni atee norma}1 13

mente diffuse alla fine del XIX secolo, Freud e i suoi colla­ boratori facevano della religione un oggetto di ricerca per­ sino relativamente a quei concetti che erano in uso anche nella ricerca sulle nevrosi individuali. La religione era di­ ventata l'esempio fondamentale di una nevrosi originaria dell'umanità. Freud ha fatto parte di quell'avanguardia di «spiriti libe­ ri» che aveva in Nietzsche il suo precursore, il quale aveva compreso con molta acutezza che con la dissoluzione del teismo, in Occidente, erano crollati i fondamenti stessi del­ la nostra morale. Ben lontano dal lasciarsi scuotere dalla portata di questo evento Freud, come Nietzsche, ha conce­ pito la fine della religione come qualcosa di certo e ha osa­ to predire che essa sarebbe tramontata con l'inesorabilità fatale di un processo evolutivo, e noi ci troveremmo preci­ samente nel cuore di questa fase dello sviluppo. Dobbiamo diffidare del fatto che oggi, appena due decenni dopo la morte di Freud, psicoanalisi e religione ostentino segni evi­ denti di amicizia. Molte sono le motivazioni che si possono addurre per spiegare un tale mutamento. Una di queste è sicuramente la sfida e il crollo del messianesimo socialista in Occidente. Rispetto alla sfida lanciata dal chiliasmo secolarizzato, teo­ logi ed ecclesiastici scoprono nella psicoanalisi una versio­ ne secolarizzata della dottrina del peccato originale, grazie alla quale possono illustrare l'insensatezza delle istanze pro­ prie del chiliasmo marxista. Da quando le speranze che gli intellettuali occidentali avevano investito nella trasformazione della struttura socia­ le, sono state duramente deluse, la visione anti-escatologica dell'uomo e della storia di Freud poteva essere utilizzata come argomento contro le «illusioni» proprie di tutte quel­ le speranze chiliastiche che avevano atteso una conversione degli uomini che si realizzasse con la trasformazione della struttura sociale. Anche nella nuova società l'uomo rimar­ rebbe sempre l'antico Adamo, dominato dai suoi istinti e impulsi, schiavo dei suoi desideri e quindi ancora sottopo­ sto al pericolo di precipitare nella barbarie, una volta che le sicurezze conservatrici dell'ordinamento politico fossero lontane. Mentre il marxismo, in quanto versione secolariz-

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zata del chiliasmo, ha interpretato la storia come una fase di passaggio propria dell'uomo in cammino verso il · il suo messaggio di redenzione. Nella religione di Mosè (che per Freud rappresenta il caso esem­ plare della religione intesa come autorità) non c'è posto per un'espressione diretta dell'odio omicida verso il padre. Per­ ciò la religione di Mosè e dei profeti ha soltanto aggravato la colpa della comunità. «Legge e profeti» hanno oppresso l'uomo con il senso di colpa. Per Freud, allora, è indicativo che il chiarimento sul peso della colpa venga da un ebreo. Nonostante tutte le approssimazioni e anticipazioni nel mondo circostante, fu nello spirito di un uomo ebreo, Saulo di Tarso, che come cittadino romano s'era dato il nome di Paolo, che per la prima volta si fece strada la nozione: "siamo così felici perché abbiamo ucciso Dio Padre". È ben comprensibile che egli non poté cogliere questo frammento della verità altrimen­ ti che nella veste delirante della buona novella [ . ]. In questa maniera di esprimersi naturalmente era taciuta l'uccisione di ..

4 Id., Der Mann Moses, in � lbid. 6 lvi, p. 194 (tr. it. cit., p.

G. W. XVI, p. 192 [tr. it. L'uomo Mosè, cit., p. 98]. 99].

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Dio, ma un crimine che doveva essere espiato immolando una vittima poteva essere stato solo un a11sassinio. E l'anello di con­ giunzione tra il delirio e la verità storica lo forniva la certezza che la vittima immolata era stata il figlio di Dio. Con la forza che a questa nuova fede f luiva dalla fonte della verità storica, essa abbatté ogni ostacolo.7

Ciò che affascinava Freud nel messaggio di Paolo, era l'implicita confessione della colpa che era contenuta nella buona novella. Il vangelo era allo stesso tempo un disvan­ gelo, la cattiva novella del crimine originario dell'uomo. La forma delirante del messaggio è la «buona» novella che que­ sta colpa viene espiata con il sacrificio del salvatore. Ma in questa forma la confessione della colpa era ancora velata. Freud ritiene di essere il primo ad avere eliminato questa dissonanza e ad aver osato svelare la colpa segreta che af­ fligge l'uomo. Ciò che Paolo poteva riconoscere solo nel­ l'illusione di una ••buona novella», è stato espresso da Freud in una forma disillusa. La colpa non può essere espiata con il sacrificio del figlio di Dio; può essere solo riconosciuta. Attraverso il riconoscimento consapevole della colpa, l'uo­ mo si libera dalla sua cieca schiavitù. Freud non ha mai te­ nuto celato a sé stesso il fatto che le sue teorie finiscono col diventare una sorta di mitologia, «in questo caso neppure festosa». 11 In un contesto simile lo scritto di Freud intitolato Die Zukunft einer lllusion può assumere un significato ina­ spettato. Potrebbe risultare che questo saggio umanistico palesemente «progressista••, in realtà, metta in gioco, una contro l'altra, l'interpretazione tragica e quella escatologi­ ca. Mentre la coscienza tragica arriva solo alla percezione della colpa originaria, la coscienza escatologica, invece, porta all'espressione la speranza dell'uomo di superare la sua colpa. Mentre nella coscienza tragica l'uomo non può mai essere redento, ma può solo sopportare con gesto tra­ gico il peso della sua colpa, l'uomo escatologico ripone la sua speranza in una conciliazione e in una espiazione futui M

lvi, p.

244 [tr. it. cit., p. 148].

Id., Warom Krieg7, in G.

cit., p. 295].

W XVI, p.

22 [tr. it. in Id., Il di.�agio thlla

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civiltà,

ra. Per l'uomo tragico la speranza nel futuro è un'illusione. Il futuro non può fare altro che ripetere il passato, magari a un livello di maggiore consapevolezza, ma l'uomo non può mai interrompere il corso della storia. Non è di certo un caso il fatto che le potenze mitiche che Freud mette in rilievo, abbiano nomi greci: Eros e Thana­ tos, Logos e Ananke. Non c'è speranza di essere redenti dal vincolo della necessità, nessuna redenzione dagli artigli della morte. La storia è totalmente presa nel ciclo di co­ struzione e distruzione. È illusorio sperare che l'uomo po­ trà interrompere un giorno questo ciclo. IV

La premessa atea presente nella teoria e nella terapia psi­ coanalitica freudiana non è semplicemente un resto dell'ot­ timistico umanesimo borghese, che ha continuato a vivere all'interno delle classi colte del XIX secolo, ma appartiene al­ la storia dell'umanesimo tragico a partire da Nietzsche. La morte del Dio cristiano annunciata da Nietzsche attraverso la bocca del suo profeta Zarathustra, apre la strada a nuove mitologie. Nietzsche sapeva molto bene che la questione po­ teva capovolgersi a seconda di ciò a cui si dava maggiore im­ portanza: l'eterno ritorno o la storia escatologica. Nell'oriz­ zonte tragico-dionisiaco «la clessidra dell'esistenza continua a girare, e tu devi girare con essa, come uno sporco granel­ lo di sabbia». Nell'orizzonte escatologico la storia non è un continuo girare su sé stessa, essa piuttosto ha una fine. Nietzsche, che si definiva l' «Anticristo» e l' «ultimo figlio di Dioniso», ha colto la differenza più profonda tra la visio­ ne escatologica e quella tragica. Entrambi, Cristo e Dioniso, rappresentano divinità sofferenti. Ciò che li divide è il si­ gnificato che viene attribuito loro, quello escatologico, op­ pure quello tragico. «Nel primo caso la sofferenza è la via che conduce a un'esistenza beata; nel secondo, si ritiene che l'essere sia abbastanza beato da giustificare anche una sofferenza mostruosa». 9 9 F. Nietzsche, 2ooo:i, p. 554].

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tJolontà di potenz.a, Milano

Il metodo psicoanalitico freudiano si sviluppa nell'oriz­ zonte di un umanesimo tragico dionisiaco. Se c'è progres­ so, c'è solo quello che permette agli occhi degli uomini di aprirsi per vedere la struttura tragica della realtà. Ecco al­ lora la differenza tra la religione come cammino di salvezza e la psicoanalisi come metodo terapeutico nella speranza di una conciliazione. La vita umana è perduta, «senza speran­ za>>, nel processo di costruzione e distruzione, oppure si può nutrire la speranza di superare ogni distruzione? In un breve testo scritto già da studente, il giovane Nietz­ sche ha riassunto la sua conclusione nel titolo «destino e storia>>. Gli scritti teorici di Freud e la sua terapia pratica presuppongono il destino come categoria definitivamente valida. Anche i modelli della storia evolutiva (che sono un'eredità dell'antropologia e della sociologia del XIX seco­ lo) sono chiusi all'interno di un presupposto ciclo di eterno ritorno. Freud era convinto, come Nietzsche, che la fine della religione cristiana avrebbe portato a termine duemila anni di errori e illusioni. La religione è stata un'illusione, perché rappresenta la speranza in una conciliazione, in un'espiazione della colpa, dunque non è altro che un'illu­ sione. La colpa non può essere superata, può solo essere ri­ conosciuta. Sono sicuro che la critica psicoanalitica alla religione può servire da misura critica per riconosce gli elementi ma­ gici presenti nella speranza escatologica. Finché assume la funzione di un'operazione magica di espiazione, in cui la persona che cerca la conciliazione non viene completa­ mente ricostituita e trasformata, la religione cade total­ mente nelle mani della severa condanna espressa da Freud. Nella lotta tra l'elemento magico-sacerdotale e quello pro­ fetico-personale della religione escatologica, la psicoanalisi può aiutare a smascherare la forma reazionaria di manipo­ lazione magica che prende il posto dell'atto rigenerativo e rivoluzionario. Ma la stessa speranza escatologica è un'illu­ sione? Se la speranza escatologica è illusoria, allora anche il futuro è un'illusione. La differenza decisiva tra una fede in­ tesa come speranza e una fede intesa come illusione si è re­ sa manifesta già nel confronto tra Paolo e i filosofi stoici. 10 è così gretto, che possiamo solo nasconderlo con il silenzio. Più serie, invece, sono la prima e la seconda argomenta­ zione che Jaspers presenta. La prima richiama l'attenzione sul fatto che la psicoanalisi confonde «la comprensione del senso con la spiegazione causale••. «La comprensione del lvi, p. 19 [tr. it. cit . p. 43]. 111 /bid.

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senso si compie nella reciprocità della comunicazione, la causalità è estranea al senso ..... . 1 1 Quest'idea è stata espres­ sa più volte già prima di jaspers e più volte ripetuta dopo di lui. Freud - questa è la convinzione corrente - si è votato al positivismo deterministico e al materialismo del tardo XIX secolo e rimane cieco di fronte alla questione che concerne il senso o le aspirazioni delle azioni umane. Non ci sono dubbi sul fatto che la psicoanalisi abbia ripreso alcuni ter­ mini dal linguaggio scientifico degli anni Ottanta e Novan­ ta del XIX secolo. Ma si tratterebbe davvero di un inventario solo di seconda mano, se non si facesse attenzione alla co­ lorazione completamente differente che essi acquistano nel­ la teoria psicoanalitica. Anzi, saremmo ciechi di fronte alle rivoluzionarie impli­ cazioni del metodo psicoanalitico, se non riconoscessimo che supera la spiegazione causale degli eventi psichici per inoltrarsi in una forma immanentemente mirata di com­ prensione, e cioè verso una «comprensione del senso•• degli eventi psichici. Franz Borkenau, in un saggio eccellente, ma strano, ha richiamato l'attenzione sulla svolta che caratte­ rizza la ricerca di Freud e, data la frequenza con cui si sente ripetere l'argomentazione di jaspcrs, risulta necessario fare riferimento alle idee qui contenute. 1 2 Freud ha accolto l'e­ redità della psicologia radicalmente meccanicistica del tar­ do XIX secolo. Ogni evento psichico deve avere una causa fisiologica esteriore. La rottura da quella, però, si verifica già nei suoi primi lavori psicoanalitici. In un lavoro sull'afasia precursore dei tempi, egli dimostra che generalmente lesioni all'organo del linguaggio portano a di­ sturbi linguistici, ma che una coordinazione specifica tra la specifica lesione psichica e la paralalia funzionale che ne con­ segue, non è possibile. Quest'ultima, piuttosto, si determina es­ senzialmente a seconda di come il paziente si è impossessato delle sue conoscenze linguistiche. In tal modo [così pensa a ra­ gione Borkenau] veniva spezzato un processo storico, sulla cui importanza Freud, a quell'epoca, non aveva ancora fatto com11 12

lvi, p. 18 [tr. it. cit. , p. 42). F. Borkenau, Atomphysik und Tiefenpsychologie, in «Der Monat»,

colo H l , (giugno 1955), pp. 257-264.

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VII,

fasci­

pletamente luce, l'idea di una pura determinatezza esteriore degli eventi psichici. 1�

Cercando una formulazione del metodo psicoanalitico, negli ultimi anni del XIX secolo, Freud era stato indotto a supporre che i disturbi psichici dimostrassero soprattutto disturbi dello sviluppo sessuale. Questa intuizione avrebbe potuto essere facilmente introdo�ta nel contesto di una teo­ ria e di una terapia fisiochimica. E sorprendente, tuttavia, il fatto che egli abbia rinunciato a ogni terap �a fisiologica, ab­ bia rifiutato qualsiasi influsso biochimico sullo sviluppo sessuale e abbia costruito il suo metodo terapeutico esclusi­ vamente sulle rivelazioni dei suoi pazienti riguardo alle esperienze vissute al livello psichico e rimosse. Ma in cosa consiste, allora, la coerenza puramente immanente degli eventi psichici scoperta da Freud? Al paziente che soffre a causa di alcuni sintomi (che non può superare, finché per lui restano incomprensibili) il metodo psicoanalitico cerca di chiarire il contesto biografico concreto dell'esperienza vissuta in cui il sintomo è sorto. Cerca di dimostrare che il sintomo è un prodotto insensato, un compromesso - pure inadeguato e inutilmente angoscioso - tra desideri e divie­ ti contrastanti, che vanno dall' «io voglio•• infantile al «tu devi» sociale, ma anche interiorizzato. La psicoanalisi com­ prende il sintomo, come dice giustamente Borkenau, >.34 Solo nell'interpretazione del pro­ cesso della rimozione diventa chiaro in che senso il sogno sia il filo conduttore ermeneutico del metodo psicoanaliti­ co. Il sogno è l'unico luogo in cui si esprime l'immediatez­ za senza la macchia della negazione. In esso la negazione non vale; qui, pertanto, si è raggiunto un livello in cui il processo della rimozione non è ancora cominciato. Non possiamo seguire i singoli passi percorsi sulla via dello sviluppo che dalla coscienza giunge all'autocoscienza; piuttosto, vogliamo sollevare di nuovo la nostra questione a partire dal finale della Fenomenologia dello spirito. Il Sé del­ l'autocoscienza ha percorso la sua storia: Questo farsi presenta un torpido movimento e successione di spiriti, una galleria di immagini ciascuna delle quali, provve­ duta della completa ricchezza dello spirito, si muove con tanto � S. Freud, Das leh und das Es, ( 1923), in Werke Xlii, p. 24 1 [ tr. i t. in opere, Vol. IX, cit., p. 22). �1 Id., Neue Folge der Vo1'lesungen z.ur Einfuhrung in die Psyrhoanalyse, ( 1933), in Wn-ke XV, p. 7R [tr. it. in Opere, Vol. Xl, p. 1 80). �2 Cfr. Id., Die Verneinung, (1925), in Werke XIV, pp. 1 1-15 (tr. it. in opere, Vol. X, cit., pp. 192-20 1). �� lvi, p . 12 (tr. il. cit., p . 1 98). �4 Id., Tmumtùutung, ( 1 900), in Werke Il, p. 345 [tr. it. in opere, Vol. 111, cit., p. 3 10).

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torpore proprio perché il Sé ha da penetrare e da dirigere tut­ ta questa ricchezza della sua sostanza. Consistendo la sua per­ fezione nel sapere perfettamente ciò ch'e.uo è, ossia la sua so­ stanza, questo sapere è il suo insearsi, nel quale lo spirito ab­ bandona il suo essen:i e ne consegna la figura alla memoria.:l!i

La memoria ha conservato la storia ed è l'interno e la for­ ma effettivamente più elevata della sostanza. Lo spirito che ricorda la sua storia è libero dal peso del passato. «Il sapere assoluto o lo spirito che si sa come spirito ha sulla sua via la memoria» (tr. it., p. 305). Perché la memoria come cammi­ no dello spirito che si sa come tale o del sapere assoluto? Perché il compito della scienza è un'anamnesi o il ricordo? Negli Studien ilber Hysterie di Freud possiamo seguire le origini del metodo psicoanalitico. Qui veniamo a cono­ scenza del fatto che i pazienti isterici, che hanno «rimosso•• diversi sentimenti e presentano sintomi fisici, possono per­ derli, se, sotto ipnosi, si rammentano dell'evento traumati­ co e lo esprimono. Dobbiamo essere più precisi: }t'reud so­ steneva che a sospendere i sintomi isterici non è il metodo ipnotico o catartico, ma la memoria dell'evento traumatico e la sua comunicazione al medico. L'ipnosi era il medium che permetteva di portare a galla il ricordo e di infrangere le resistenze che, nello stato di veglia della coscienza, osta­ colavano il suo emergere. Ma per Freud era chiaro il fatto che la catarsi ipnotica attenuava solo provvisoriamente i sin­ tomi isterici e il paziente non veniva liberato dalla sua con­ dition humaine isterica. La cosa decisiva rimaneva la mmuni­ cazione. Freud aveva una concezione razionale, o meglio una concezione biografica in senso storico della malattia psichica in generale. La strada dalla catarsi ipnotica all'analisi era il cammino dall'estasi puntuale, che amplia e illumina fulmineamente la coscienza, a una scoperta razionale e gradatamente illu­ minante del passato che, proprio in quanto non ricordato, costringe l'uomo nel suo esilio. Non si tratta più di una rappresentazione, come nell'ipnosi, ma di una comprensio­ ne. Questa è l'intuizione che ha portato Freud al metodo "" G.W.F. Hegcl, Phiinomenologie de.ç Gei.1les, cit., p. 564 [tr. it. cit., p. 304).

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della psicoanalisi classica che, in questa prospettiva, si rive­ la un metodo razionale e storico. Per Freud non bastava far riemergere la scena in cui i sintomi nevrotici venivano con­ servati come residui; per lui, piuttosto, era in gioco il fatto che laddove era «Es•• doveva diventare «lo••, e cioè, l'Io può interiorizzare il suo passato, in quanto lo, e non tenerlo in sé come qualcosa di estraneo. Freud concepiva la malattia come una specifica forma di rifiuto del ricordo, rifiuto del processo di interiorizzazione o di costituzione dell'Io. Il metodo psicoanalitico, così come il metodo dialettico hegeliano, è la «scienza dell'esperienza della coscienza••, che si costituisce sul cammino dell'esperienza che dalla coscien­ za inconscia, che è «in sé» - come dice H egei - giunge alla au­ tocoscienza conscia, che è ••per sé». E Freud, come Hegel, de­ scrive l'attuale ed effettiva genesi del Sé. Egli è anche l'unico che, dopo il processo di dissoluzione della filosofia hegelia­ na, abbia posto nuovamente la questione del sapere assoluto. Che il metodo dialettico di Hegel e il metodo psicoanalitico siano paragonabili, lo ha visto giàJaspers, ma in maniera tale da capovolgere ogni cosa e da avere ragione solo sul confron­ to. Ma proprio per questo giova menzionare anche il gross� lano errore di un filosofo comejaspers, sebbene sia stato fat­ to nel furore di una cieca polemica. Ciò, tuttavia, solo se sia­ mo pronti a separare la sua intuizione sulla congruenza dei due metodi dalla retorica patetica della sua accusa.

·

III

Se Freud, con la sua teoria psicoanalitica, prende parte al corso del metodo dialettico, in che cosa va al di là di Hegel e Marx? Hegel e Marx hanno concepito J'autoproduzione del­ l'uomo come processo: l'autoproduzione nell'elemento del lavoro, nel processo storico di signoria e servitù fino ad arri­ vare al riconoscimento reciproco. Inizialmente Hegel ha cer­ cato di sviluppare il rapporto dialettico nell'elemento dell'a­ more, abbandonando successivamente tale raffronto, per­ ché l'amore gli appariva adialettico, astorico e naturale. Freud ha portato il metodo dialettico in regioni che, in quanto naturali o estatiche, sembravano proibite alla legge 1 82

storica. La sessualità, per Freud, è una prefigurazione del rapporto tra signoria e servitù e del suo superamento nel ri­ conoscimento reciproco, che determina il corso dello svi­ luppo storico. Se il piano storico è lo spazio di azione del de­ siderio umano, del desiderio umano di riconoscimento, se parlare dell'origine dell'autocoscienza vuoi dire necessaria­ mente discutere deHa lotta della vita e della morte per il rico­ noscimento, allora - e questo è decisivo per Freud - bisogna parlare anche del desiderio della sessualità, in apparenza animalesco, in realtà umano. È nel contesto naturale della sessualità, infatti, che si rivela, anzi, che si origina la situazio­ ne storica. Freud sottolinea il vocabolo hegeliano «deside­ rio» [Begierde] e, nella sua opera, rende esplicito lo sviluppo della libidine nell'individuo. Freud, dunque, non delinea una fenomenologia dello spirito, dello spirito identico a sé, ma pone il prius nella na­ tura. Eliminata la copertura mistica della dialettica hegelia­ na, e cioè il fatto di porre al primo posto lo spirito, per im­ battersi, invece, nella priorità sensibile dell'esistenza natu­ rale, già Marx, sulla scia di Feuerbach, ha reso possibile un'analisi dialettica della ••sensibilità». Ma resta comunque schiavo dei limiti del progetto hegeliano. Per lui «la natura presa astrattamente, di per sé, fissata nella separazione dal­ l'uomo, è nulla>>. 31; Il materiale naturale puro c semplice, nella misura in cui non vi è materializzato alcun lavoro umano, nella misura in cui è quindi pura materia, ed esiste indipendentemente dal lavoro umano, non ha alcun valore, giacché valore è soltanto lavoro materializzato. :i?

Lo sviluppo del dominio della ragione attraverso l'orga­ nizzazione del lavoro, per Marx, è un processo che appar­ tiene all'economia politica e non alla psicologia. Eppure, già in Marx, non dobbiamo comprendere le categorie eco­ nomiche nel senso di una disciplina scientifica rodata. :l•; K. Marx, Nationalokonomie und Philosophie (Manoscritto di Parigi), a cura

di E. Thier, 1950, p. 294. .. �; Id. Grundrisse de?· politischen Okorwmie, Berlin 1 953, p. 271 [tr. it. Linea· mentifondamentali di critica dell'economia politica, Vol. I, Torino 1976, p. 326]. .

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Come avv iene in gene1·ale in ogni scienza sociale storica, an­ che rispetto al corso delle categorie economiche bisogna sem­ pre tenere presente che [ . . . ] la società borghese moderna si è già formata, e che, quindi, tali categorie esprimono forme e determinazioni di esistenza, spesso solo singoli aspetti di que­ sta determinata società [ . . . ] e che pertanto l'economia, anche da un punto di vista scientifico, non ha inizio solo lì dove se ne co­ mincia a parlare in quanto tale. �"

I presupposti psico-somatici di questo sviluppo scoperti da Freud permettono di seguire il problema del lavoro e deH'economia fin neHe strutture più in ombra deHa libido deJI'esistenza umana. Che la storia si estenda anche al piano naturale, sensibile, anzi sessuale deH'uomo, non c'è ancora in Marx. Non è un caso, dunque, che in Hegel e in Marx, neH'analisi del processo storico, l'analisi deJI'amore passi sotto silenzio, oppure venga spostata in nota. Freud stesso fa riferimento al contrasto esistente tra sto­ ria c amore, o sessualità. Camore sessuale, infatti, è un rap­ porto tra due persone, in cui una terza può essere solo di disturbo, mentre la storia si basa sui rapporti fra numerosi individui. Nel processo evolutivo dell'uomo singolo il programma del principio di piacere, trovare soddisfacimento e felicità, è as­ sunto come meta principale [ . .. ]. Le cose vanno altrimenti nel processo d'incivilimento; qui la mela di gran lunga più impor­ tante è foggiare un'unità dagli individui umani, mentre la me­ ta della felicità sussiste ancora ma è relegata sullo sfondo; sem­ bra quasi che si giungerebbe assai più agevolmente a costituire una grande comunità umana se non ci si dovesse preoccupare della felicità del singolo.�,,

La questione de11a storia, per Freud, si pone sempre a partire da11a tensione tra l'Eros preistorico, che ripete con­ tinuamente sé stesso, e il lavoro progressivo, che porta il mondo a compimento. 11 prezzo per il progresso deHa sto­ ria sta ne11a perdita de11a felicità. E questo viene pagato con un incremento del senso di colpa. Una deHe intuizioni �" lvi, p. 43 [tr. it. ci t., p. 98]. :w S. Freud, Dn.1 Urtbehagen in der Kultur, ( 1930), ci t., p. 4!''2 [ tr. i t.

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ci t., p.

275j.

più profonde di Freud è quella secondo cui l'umanità, tan­ to nei singoli individui, quanto nella specie, è dominata ancora da potenze arcaiche. Arcaico o originario nel senso di Freud ha, allo stesso tempo, un significato strutturale e uno storico. L'arcaica struttura dell'istinto era quella pre­ dominante nella preistoria della specie. Nel corso della storia si è trasformata, ma, in maniera precosciente o in­ conscia, è rimasta attiva in sottofondo nella storia dell'in­ dividuo e della specie, di certo in forma più esplicita nella prima infanzia. Lo sviluppo storico viene offuscato da questo inizio. L'evento primordiale - uccisione del padre, pentimento e costituzione del patto tra fratelli come so­ cietà - in quanto storia delle origini, si trova al di là del processo della storia. Non c'è alcuno sviluppo che non sia all'ombra di questo evento. L'evento primordiale della sto­ ria originaria dell'individuo, così come di quella della spe­ cie, resta isolato e attende con impazienza il corso successi­ vo della storia. Ma anche questa storia delle origini è stori­ ca, e non un'idea platonica oltretemporale. l:inizio della storia, dunque, in Freud viene tematizzato in una forma che manca sia in Hegel che in Marx. L'inizio o l'origine della storia, che mette in ombra e necessita di tutti gli altri eventi successivi, è il problema del principio, dell'auctori­ ta.ç o autorità. In Freud, così, troviamo un doppio schema. Da un lato lo schema evoluzionistico, dello sviluppo storico e della libi­ do; d'altro lato, lo schema dell'eterno ritorno dell'uguale, la scoperta della tendenza fondamentalmente regrcssiva o conservatrice presente in tutta l'attività istintual�. Lo status quo dell'accadere naturale, che precede sempre il corso del­ la storia, richiede continuamente anche il processo storico. Queste tendenze opposte presenti nella teoria freudiana fanno vacillare il sistema della psicoanalisi. Freud osciJla; non sa se respingere la rinuncia all'istinto in quanto rimo­ zione e aberrazione patologica, oppure se considerarla po­ sitivamente come sublimazione che favorisce il progresso della storia. Il metodo psicoanalitico presenta lo stesso aspetto contrastante del metodo dialettico hegeliano, e do­ po Hegel è anche l'ultimo grande teorema che sia stato concepito per una critica della società borghese. Proprio

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per questo, però, tale «autocritica borghese è diventata un mezzo per assolutizzare, nella sua ultima fase, l'alienazione borghese, e per vanificare anche il sospetto dell'antichissi­ ma ferita, in cui si cela la speranza di qualcosa di meglio nel futuro».40 Questa ambiguità della costruzione teorica è anche il mo­ tivo per cui nella recezione di Freud (così come nella rece­ zione di Hegel) si è sviluppata un'ala destra e una sinistra. All'origine di queste esegesi contrastanti c'è il problema del passaggio dalla natura alla storia: analizzando tale passag­ gio, Arnold Gehlen pone l'accento sugli elementi perma­ nentemente repressivi presenti al momento della costruzio­ ne della società umana. La teoria psicoanalitica gli appare poco adatta a fornire le motivazioni del nostro comporta­ mento immediatamente sociale, in cui è in gioco un rap­ porto duraturo e stabilizzante tra uomini che devono vivere insieme. Come psicologia individuale, dunque, può ancora produrre risultati nella misura in cui descrive persone il cui senso sociale è malato, in quanto analisi della funzione stabilizzante della società, che deve arginare tutte le spe­ ranze e le fantasie chimeriche dei singoli, però, lavora male. L'alienazione sociale delle aspirazioni dell'individuo alla fe­ licità e alla libertà resta permanente. E su questo Gehlen de­ ve far riferimento a Freud stesso: «La libertà individuale non è un frutto della civiltà>>.4 1 E tanto più l'apparato viene sviluppato per garantire il progresso della società, quanto più opprimente è il sacrificio che essa impone agli indivi­ dui per conservare la struttura istintuale richiesta per l'isti­ tuzione e la continuità della società. A questo punto si inserisce Marcuse con la sua critica a Freud.4 2 Egli pone l'accento sulla meta utopica della storia come cammino verso la libertà. Non è forse che i tabù, su cui si basa, oggi, il progresso della società, devono essere custoditi con così tanta cura, perché la tentazione, come viene espressa nel principio di piacere individuale, diventa 40 Th. W. Adorno, Minima Morali.a, ( 1 950), p. 1 1 3 [tr. i t. Minima Moralia, To­ rino rist. 1 994, p. 68]. 41 S. Freud, Das Unbehagen in der Kultur, ( 1930), cit., p. 455 [ tr. i t. cit., 23 1 ]. 42 H. Marcuse, Trieblehre und Freiheit, in Freud in der Gegenwart, (Frankfurter Beitrii.gc zur Soziologie), Vol. 6, 1957, p. 4 1 1 .

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sempre più forte e persino oggettivamente sempre più ra­ gionevole rispetto alla crescente produttività? Se, come sot­ tolinea Freud, «la civiltà obbedisce a una spinta erotica in­ terna, che le ordina di unire gli uomini in una massa colle­ gata intimamente»,43 allora, conclude Marcuse, la civiltà de­ riva dal piacere e anche la meta dello sviluppo storico sot­ tostà al principio del piacere. E per la sua interpretazione utopica, egli può far riferimento alla seguente affermazione di Freud: Nelle relazioni sociali degli uomini accade la stessa cosa che è stata scoperta dalla psicoanalisi nell'evoluzione della libido in­ dividuale: la libido s'appoggia al soddisfacimento dei grandi bisogni vitali e, quali propri primi oggetti, sceglie le persone che vi concorrono. E, come nel singolo, anche nell'evoluzione dell'intera umanità solo l'amore ha operato da fattore d'incivi­ limento trasformando l'egoismo in altruismo.44

Superando Freud in termini provocatori, Marcuse sostie­ ne che anche il lavoro, essenzialmente interessato a mediare il passaggio dalla natura alla storia, è originariamente libi­ dinoso. L'uomo incomincia a lavorare perché raggiunge il piacere ne/ lavoro e non solo dopo aver lavorato. Ai suoi oc­ chi, in contrasto con Freud, il lavoro appare in una pro­ spettiva utopica come possibilità di sviluppo delle capacità umane, come una forma del libero gioco. Le Briefe uber die iisthetische Erziehung des Menschen di Schiller stanno sullo sfondo di questa nuova utopia. Freud, invece, come Hegel, resta ambiguo in questo con­ trasto e si apre a un'interpretazione utopica e a una con­ servatrice dello sviluppo sociale. Hegel ha portato a termi­ ne la sua grande opera nell'eco del fragore della battaglia di Jena. Leggeva il suo tempo, l'epoca della Rivoluzione francese, come la nascita e il momento di passaggio a un periodo nuovo. Questo momento continua ancora. Quello che, nel continente europeo, è venuto alla luce con la Rivo­ luzione francese, oggi si propaga in tutta la terra con le 0 S. Freud, Das Unbehagen in der Kultur, ( 1930), cit., p. 492 [tr. it. cit. p. 267]. 44 Id., MaSl·enpsychologie und lch-Analyse, in WI'Tke XIII, p. 1 1 2 [tr. it. in Id., Il disagio della civiltà, cit., p. 99].

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guerre e le rivoluzioni mondiali. E quello che Hegel sostie­ ne della sua epoca e della sua opera, la Fenomenologia dello .spirito, vale ancora oggi, alla lettera, per il nostro tempo e per quella fenomenologia dell'anima che Freud ci ha espo­ sto nelle sue opere: ... lo spirito che si forma matura lento e placido verso la sua nuova figura e dissolve brano a brano l'edificio del suo mondo precedente; lo sgretolamento eh� sta cominciando è avvertibi­ le solo per sintomi sporadici: la fatuità e la noia che invadono ciò che ancor sussiste, l'indeterminato presentimento di un ignoto, sono segni forieri di un qualche cosa di diverso che è in marcia. Questo lento sbocnmcellarsi che non alterava il pro­ filo dell'intero, viene interrotto dall'apparizione che, come un lampo, d'un eolpo, mette innanzi la piena struttura del nuovo mondo:"•

"" G.W.F. Hc�d. Phtinomrnologie dr.r (;pislf.r. d i . ,

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pp. l :is. [lr. it.

dl . ,

p. 91.

9. IL DISINCANTAMt:NTO DELLA TEOLOGIA: PER UN RITRAITO DI OVERHECK

La disputa su Overbeck Negli ultimi decenni il nome di Overbeck ha guadagnato un certo credito, nonostante il carattere erudito dei suoi primi studi di storia della chiesa e quello frammentario del­ le tarde pubblicazioni postume. Il mistero sulla persona e sull'opera aumentava, quanto piit venivano alla luce alcuni frammenti dal suo lascito. La sua voce dall'al di là era più chiara delle parole che egli aveva rivolto ai contemporanei. Nei confronti dell'istanza che emergeva da questi fram­ menti si sentiva confusa e disorientata la teologia liberale, che dopo la prima guerra mondiale aveva perso totalmente fiducia in sé stessa e, nella sua età giovanile, senza conte­ stazioni e in maniera imperturbabile, era passata sopra al testo polemico di Overbeck, 1 nonché alla sua appendice (del 1 903) - che, con asprezza e polemicamente, rivolgeva i suoi interrogativi alla « teologia moderna del protestantesi­ mo contemporaneo>> .2 «Da alcuni foglietti ordinati alfabeti­ camente che si trovavano in una madia stracolma••,:\ Cari Al­ brecht Bernoulli ha selezionato del materiale e - in parte una miniera, in parte un fondamento - nel 1 9 1 9, l'ha ordi­ nato per temi e l'ha pubblicato con il titolo Chri.slenlum und Kultur. Eberhard Vischer, il successore di Overbeck presso la cattedra di teologia di Basilea, che già nel 1 9 1 3, nel vcn­ tiquattresimo volume della Realenzyklopiidie der pmteslanti­ schen Kirche, aveva riassunto per pochi addetti ai lavori il 1 F. 0\'erbt�ck, 0/JI'T dii' ChriJtlirhkl'it unJI'TI'r hl'uligm Thl'ologil'. SlrPil· unti FrùiWnnrhrifl, Leipzig 1 H73, 1 90:-l2 [ u·. i L a nara eli A. J>t:lh.·grino, Sulla t:ri­ J/ianità t!Rlf.tt ll'ologia dei noJtri tf'mpi, Pisa 2000 ]. 2 lvi, pp. 200s. (u:. iL. ci l., pp. 1 55s.] :l

Id., Chrùlmlum. und Kultur. (;edanki'TI und AufZPidumngl'n ThPologil', clal lascilo a >, Ma Troeltsch, nonostante la sua cri­ tica superficiale, era sulle tracce del mistero di Overbeck, dal momento che ha concluso la sua recensione con il se­ guente giudizio: «Tuttavia, a parte tutte le critiche e il suo spirito, egli è stato più un teologo che uno storico, solo un teologo negativo».5 I frammenti di Overbeck, invece, hanno svolto un ruo­ lo proficuo nella cerchia dei teologi che hanno lavorato dopo la prima guerra mondiale e che, più tardi, etichet­ tati come ((teologi dialettici••, hanno avuto un certo suc­ cesso. Karl Barth, il loro primo portavoce, aveva concepi­ to quei frammenti che volevano fornire una prova ((della 4 E. Vischer, Overbeck redivivus (Dl'T neuentdeckte Overbeck), in «Die Christli­ che Welt», 36, 1922, pp. l l Os. 5 E. Troeltsch, recensione a Christentum und Kultur, in .. Historische Zeirsc:h· rift�. Terza serie, Voi.XXVI, 1920, pp. 279s.

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finis Christianismi all'interno del cnsuanesimo moder­ no»,fi come una paradossale ••introduzione allo studio del­ la teologia••, dove, però, questo modo di immettere [Einfohrung] «poteva forse diventare immediatamente un'energica maniera per estromettere [Au.ifiihrung] i non­ chiamati>>. La questione se Overbeck volesse proteggere il cristianesimo contro il mondo moderno o il mondo con­ tro il cristianesimo moderno, resta aperta. Ma Barth si è servito dei frammenti di Overbeck per la sua interpreta­ zione escatologica del cristianesimo, le cui implicazioni critiche per la sua comprensione e per la comprensione della storia, nel XIX secolo, non sarebbero state mostrate da nessuno con tanta chiarezza. Overbeck avrebbe indivi­ duato un problema nel presupposto fondamentale del cri­ stianesimo - l'attesa della parusia - e a partire da qui avrebbe posto alla teologia moderna alcune domande che restano a tutt'oggi irrisolte: e, cioè, se fosse possibile il cristianesimo come dimensione storica, oppure se avesse voluto esserlo e basta; e poi, cosa si sarebbe sviluppato da esso e avrebbe continuato a svilupparsi, una volta celato il suo presupposto primario; e, infine, se una teologia, che si presenta come mediatrice tra cristianesimo e storia, non sarebbe stata nociva per entrambi. Nella discussione «con quest'uomo molto singolare ed eccezionalmente devoto••, Barth si era visto costretto a ri­ nunciare al suo primo tentativo di commentare la Lettera ai Romani. Se «questa prima pietra non è servita da sostegno a nessun'altra••, come ammette Barth nella seconda e defi­ nitiva redazione del suo commento, allora bisogna imputa­ re un simile fenomeno soprattutto all' «ammonimento a tut­ ti i teologi>• pronunciato da Overbeck. Non poteva mancare che il suo successore presso la cattedra di teologia di Basi­ lea, uno dei suoi dall'oggetto, «a prezzo della conoscenza, nella misura in cui si è lontani da esso>>." Ciò che Overbeck solleva, in primo luogo, riguardo al discutibile metodo storico della teologia moderna, si acui­ sce nella considerazione inattuale Uber die Christlichkeit un­ serer heutigen Theologie, fino a divenire un verdetto genera­ le. Nella prefazione agli Studien zur Geschichte der alten Kir· chen Overbeck, con la maggiore «brevità e semplicità>> pos­ sibile, cerca di esporre le tesi già espresse nello scritto po­ lemico. Il cristianesimo è una questione molto più elevata del sempli­ ce fatto che, in un mondo totalmente estraneo a esso, sia per­ messo con così tanta facilità al singolo di identificarvisi senz'altro. In generale, nessuno lo fa oggigiorno, esclusi i teo­ logi; e se lo fanno e il giudizio pubblico viene loro incontro su questo, non si tratta che di un pregiudizio, e ciò accade sulla 7 K. Banh, UnPTlPdigte Anfragrn an die heutige TheologiP, in K. Barth e E. Thurncysen, 7.ur inmrm Lage de,ç Chrùtmtum, 1 920. H F. Overbeck, Da.f Johannesevangtdium. Studien z.ur Kritik .feiner Erforschung, dal lasdto a cura di C. A. 1\enoulli, Tiibingen 191 1 , p. �91 .

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base di un 'autoillusione infondata. Tuttavia, nella situazione in cui ci troviamo attualmente con il cristianesimo, risulta quantomeno importante il fatto che i teologi trovino una giu­ sta posizione rispetto a tale questione e siano in grado [di far­ lo], in un'epoca in cui la forza e la semplicità della fede dei tempi antichi, nel dubbio se ci caratterizzano ancora, siano comunque scomparse, e un'esperienza secolare e molto com­ plicata si è posta tra noi e il cristianesimo, e cioè quella di ser­ bare una certa accortezza per quelle decisioni verso cui siamo stati attratti. Questo può accadere, aggiungo oggi, per vie molto diverse; tra esse, in ogni caso, ci sarà anche quella di una spiegazione scientifica del cristianesimo [ ... ]. Ma non p� tremmo rinunciare così presto a una disciplina che, nel disor­ dine religioso del presente, ci chiami a restare desti, quando, attualmente, lo spirito della mistificazione sembra volersi im­ possessare anche di quest'ambito [ ... ] (VIIs.).

Il suo attacco contro la teologia apologetica e liberale del presente, sulle orme, ma anche in opposizione a Strauss, viene portato avanti principalmente sulla base piuttosto esi­ le di una teologia «critica». Questa teologia «migliore•• as­ sume un atteggiamento libero e critico nei confronti del cristianesimo, nello stesso modo in cui, però, potrà essere [ . . . ] [per esso] una protezione contro tutte le te� logie che sono convinte di rapprescntarlo conciliandolo con il mondo e che, per indifferenza nei confronti della sua conce­ zione della vita, o lo inaridiscono riducendolo una vuota orto­ dossia, che lo separa completamente dal mondo, oppure lo ab­ bassano fino alla mondanità, e lo lasciano sparire in essa. A ta­ li teologie la teologia critica dovrà obiettare che esse trascina­ no per il mondo, sotto il nome di cristianesimo, una cosa ir­ reale, alla quale è stato sottratto proprio ciò che è la sua anima, vale a dire la negazione del mondo."

Già negli anni trascorsi aJena, Overbeck si era occupato del problema delle origini del monachesimo, un fenomeno che la chiesa cattolica non riusciva più ad apprezzare, aven­ do perso ormai da lungo tempo la purezza per compren9

Id., Ober die Christlichkeit unsere-t· heutigen Theologie, Streit· und FriedensJch· rift, ci t., p. 1 1 O [ tr. i t. dt., p. 91 ).

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derlo, mentre quella protestante non ne aveva mai visto la legittimità. Nel monachesimo Overbeck riconosceva l'isti­ tuzione attraverso cui la chiesa poteva sottrarsi al «ferreo abbraccio» prodotto dallo stato pagano. Nel momento in cui la chiesa viene riconosciuta dallo stato pagano, si esau­ risce la sua stessa fonte, e cioè il martirio - di esso la chiesa si crea un sostituto nel martirium quotidianum del monache­ simo, che le salva «nulla di meno che la vita». 1 11 Esprimendo un giudizio sui vantaggi e gli svantaggi dell'ascesi, l'analisi di Overbeck si distacca dalla critica di Nietzsche al cristia­ nesimo. Secondo lui, infatti, l'impulso ascetico dell'uomo avrebbe «radici tanto profonde» quanto l'impulso opposto, quello volto al piacere, che Nietzsche mette in luce in ma­ niera unilaterale; l'ascesi costituirebbe il fondamento della civiltà umana. Del cristianesimo, però, si può sostenere che «sia fondamentalmente ascetico, vale a dire eccessivamente ascetico••. 1 1 Nella misura in cui pone alla vita umana, fin nelle sue radici, delle contraddittorie richieste ••iperasceti­ che••, esso finisce in un terribile conflitto ••con l'umanità o con ciò che esso stesso chiama il mondo••, e così la sua pre­ senza verrà meno anche tra gli uomini.12 Tuttavia cela cosa più interessante [ ... ] nel cristianesimo•• resta «la sua debo­ lezza, il fatto che non può dominare il mondo>>. 1 3 Quando, invece, la teologia moderna (e Nietzsche con essa), lascian­ dosi trascinare dalla Riforma, minimizza la condotta asceti­ ca di vita, considerandola un fenomeno effimero all'inter­ no del cristianesimo, deve trarre l' «assurda conseguenza•• storica secondo cui il cristianesimo avrebbe avuto bisogno di mille e cinquecento anni per arrivare a quella visione della vita a esso propria, che fino alla Riforma sarebbe sta­ ta contraffatta. 1 4 La teologia moderna, nel suo regresso a un elemento ipostatizzato di fondamentale importanza chiamato ••Vangelo•• o «cristianesimo delle origini>•, non vuole riconoscere il carattere ascetico di fondo del cristia10

lvi, p. 84 [tr. il. cit., p. 72]. Id. , Christentum und Kultur, cit., p. 33. l2 Jv� P· 34. 1� lv� p. 279.: 14 Cfr. id, Uber die Christlichkeit umerer heutigen Theulogie, Streit- und Frie­ densschrijt, cit., p. 84 [tr. it. cit., p. 72]. 11

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nesimo. In tale regresso, però, essa rivela il suo proton pseu· dos. «Infatti è impossibile trovare una fede più avversa al mondo di quella che i primissimi cristiani avevano nell'im­ minente ritorno di Cristo e nel tramonto della figura pre­ sente del mondo.. . 1 5 Se il cristianesimo delle origini non crolla di fronte al ritardo della parusia, ciò accade soltanto perché, da quando l'attesa del ritorno di Cristo era stata confutata dal corso della storia, la fede cristiana aveva tro­ vato «Una forma più ideale» a cui potersi adattare a dispet­ to dell'effettiva confutazione. L'idea e la condotta di vita ascetica appare a Overbeck una metamorfosi della fede protocristiana nel ritorno di Cri­ sto, nella misura in cui si fonda sulla persistente attesa di tale ritorno, e quindi continua a considerare il mondo come matu­ ro per il tramonto e incita i fedeli a sottrarsi ad esso, così da es­ sere pronti all'apparizione di Cristo, che può arrivare da un momento all'altro. L'attesa del ritorno di Cristo, divenuta in­ sostenibile nella sua forma originaria, [ ... ] si trasforma nel pen­ siero della morte che già secondo lreneo deve sempre accom­ pagnare il cristiano, nel memenlo mori con cui il saluto dei cer­ tosini riesce a racchiudere la saggezza fondamentale del cri­ stianesimo in maniera molto più profonda di quanto non fac­ cia ad esempio la formula moderna secondo la quale non do­ vrebbe ccinterporsi nessun elemento di disturbo tra l'uomo e la sua fonte originaria••, formula nella quale si ritrova un'insipida negazione [ ... ] finché si dimentica che a questi ccelementi di di­ sturbo••, secondo il punto di vista del cristianesimo, appartiene il mondo in generale. w

Overbeck, in contrasto con Strauss, e prendendo le di­ stanze anche da Nietzsche, con cui egli per molto tempo è in accordo contro quello, concepiva la negazione cristiana del mondo come un eccellente modo per l'umanità. Se Strauss sostiene «di avere chiuso i conti con il cristianesimo dopo averne annientato criticamente una serie di dogmi fondamentali, e soprattutto l'interpretazione della sua sto­ ria primitiva ( Urgeschichte) sostenuta dalla chiesa; e [se] ri­ tiene di poter passare oltre la visione ascetica della vita pro'" lvi, p. lvi, p.

'6

85 [ tr. i t. cit., p. 73]. 87 [tr. it. cit., p. 74].

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pria del cristianesimo con due o tre osservazioni sdegnose e occasionali», 1 7 contrapponendo alla fede antica una nuo­ va, allora bisogna domandarsi da quale punto di vista egli, qui, ha sbarrato la strada «alla nostra vita senza cristianesi­ mo». 111 Paragonando quello che Strauss ha detto sullo stato, la guerra, la giustizia penale e la situazione della classe ope­ raia con Agostino, nei testi cristiani si trova che tutto «è in­ comparabilmente più profondo e allo stesso tempo più umano, quindi più vero». 1 9 «Con una civiltà come quella prefigurataci da Strauss il cristianesimo già una volta ha chiuso i conti».20 «Per sostenere il proprio diritto contro il cristianesimo••, una generazione che è passata attraverso la scuola degli antichi, di cui il cristianesimo costituisce l'esito, deve mirare a un livello più alto, e non a uno più basso del punto di vista «del borghesuccio (SpiejJbilrger) dell'epoca im­ periale romana••,21 che il cristianesimo un giorno subor­ dinò a sé. Può essere pur sempre qualcosa di un «valore inestimabile••, se succede che su «tutta questa dissoluzione funesta•• della nostra epoca aleggi «almeno il nome di "cri­ stiani", come una sorta di imperativo categorico che la con­ danni; e in una tale epoca niente sarebbe più deplorevole del costituirsi di un tipo di religione il cui stesso apostolo non faccia mistero che, almeno fino a ulteriori sviluppi, es­ sa possa essere solo una religione del ceto medio>>. 22 La borghesia degli anni della rivoluzione industriale te­ desca, quando tanto l' «antica•• fede del cristianesimo, quan­ to la ••.35 .

��� li!i, pp.

208s. 31 lvi, p. 242. 32 /vi, p. 9. :•� lvi, p. 242. :11 lvi, p. 70. 35 lvi, p. 8.

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Ma questa intuizione non seduce Overbeck al punto da compiere il gesto retorico messo in atto da Kierkegaard, e cioè quello «di rimuovere mille e ottocento anni di storia cri­ stiana, come se nulla fosse stato••. Perché chi pensa con cate­ gorie storiche, «non può permettersi di cancellare dal mon­ do duemila anni come se fossero un nulla. Il cristianesimo, che ha avuto un'esistenza così lunga, non può più stare al mondo come faceva all'inizio, sulla base di tutte quelle espe­ rienze che allora aveva ancora davanti a sé e che ora sono dietro di se1». �6 Una teologia che è pervasa dall'esigenza di ap­ plicare al cristianesimo il metodo storico, quanto meno do­ vrebbe poterlo negare. Nell'idea di consegnare il cristiane­ simo alla storia si annuncia piuttosto l'inizio di un'epoca in cui esso è arrivato alla fine e sta prendendo congedo. �7 Nelle affermazioni di Overbeck, piene di riserve, che, ap­ parentemente senza meta, seguono la direzione di argo­ mentazioni opposte cambiando di volta in volta scena, emerge, invece, quella che è la tesi vera e propria. Non bi­ sogna frenare la storia servendosi del cristianesimo, è essa, piuttosto, che fa saltare i confini di questo. Perciò «ogni tentativo di fare sul serio con la periodizzazione cristiana della storia•• deve andare in frantumi.311 Il calcolo cristiano del tempo sarebbe fondato, solo se il cristianesimo avesse fatto sorgere «una nuova era». Ma questo è proprio ciò che viene negato da Overbeck, perché >. Chandala più escatologia, secondo Nietzsche, determinano il rivolgimento ebraico-cristiano dei valori, permettendo al­ la morale plebea di avere la meglio in Europa. «Nella mo­ rale la rivolta degli schiavi ha inizio da quando il ressenti­ ment diventa esso stesso creatore e genera valori; il ressenti­ ment di quei tali esseri a cui la vera reazione, quella dell'a­ zione, è negata e che si consolano soltanto attraverso una vendetta immaginaria•>. 1 7 16 S.W. Baron, Social and Religious History ofthejews, 1 952, pp. 8 e 23s. 1 7 F. Nietzsche, Genealogie der Moral, Aph. IO [tr. it. Gemalogia della morale, Adelphi, Milano 19999, pp. 25s.).

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Il risentimento diviene creativo, quando autonomamente crea un concetto che si oppone alle «condizioni naturali» della vita. La comunità postesilica, «in contraddizione ai va­ lori naturali», «ha capovolto» - nell'ordine - la religione, il culto, la morale, la storia del primo Israele. Questo capo­ volgimento dei valori si verifica ancora una volta e con pro­ porzioni indicibilmente più grandi, anche se solo come co­ pia: la chiesa cristiana, in confronto al «popolo dei santi», depone ogni esigenza di originalità. 111 La morale ebraico­ cristiana è assolutamente una morale del risentimento. Gli ebrei tentano di imporsi dopo aver perduto due caste, quel­ la dei guerrieri e quella degli agricoltori. In questo senso sono "eunuchi": hanno il prete - e poi subito il chandala ... Come è naturale, fra di loro avviene una rottura, una rivolta dei chan· dala: questa è l'origine del cristianesimo. Per il fatto di aver co­ nosciuto il guerriero soltanto come loro signore, nella loro reli­ gione ebbero bisogno dell'ostilità contro chi eccelle, contro chi è nobile e fiero, contro la potenza, contro i ceti dominanti [ ... ] Quindi crearono una nuova importante posizione sociale: il prete a capo dei chandala - contro i ceti eccellenti. . . Il cristiane­ simo trasse l'ultima conseguenza di questo movimento: sentire le caste, i privilegiati, i nobili anche nel sacerdozio giudaico accentuò il prete. Il cristiano è il chandala che rifiuta il prete... il chandala che redime se stesso ... Perciò la Rivoluzione francese è figlia e continuatrice del cristianesimo .. . È avversa per istinto al­ la Chiesa, agli aristocratici, agli ultimi priv ilegiati...1" VI

La storia d'Israele, per Nietzsche, è la «tipica storia di ogni snaturamento dei valori naturali». Con questa tesi egli ha semplicemente tratto le conseguenze dalle premesse po­ ste dalla critica protestante moderna della Bibbia, a partire da Wellhausen. Già Wellhausen, infatti, nel suo Prolegomena zur Geschichte lsraels (prima edizione 1 878), si era opposto alla falsificazione attuata dalla storiografia tardo-profetica e 1" Cfr. Id., Antirhrist, Aph. 24 [tr. it. Anticri.fto, Milano 20001u, p. 29 ]. 19 Id., Wille z�tr Macht, Aph. 184 [tr. it. La volontà di potenza, Milano 1 999�. pp. l 09s. ).

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postesilica, che ha redatto e censurato gran parte della let­ teratura antico-testamentaria. Cosa hanno fatto le Cronache a partire da David! Il fondatore del Regno è divent.at.o il fondatore del Tempio e del servizio di­ vino, il re e l'eroe in testa ai suoi compagni d'armi è diventato il cantore e l'affidante di una schiera di preti e )eviti, la sua fi­ gura, delineata con tanta forza, diviene una debole immagine sacra, annebbiata da una nuvola d'incenso!20

Le motivazioni e i criteri della critica biblica protestan­ te sono stati portati alla luce solo raramente. Non è un ca­ so che outsiders come Nietzsche e Weber diano prova di un intuito particolare per le premesse ideologiche della co­ struzione della storia delineata dalla critica protestante della Bibbia, un intuito più sottile di quello di alcuni esperti eruditi. Anche dall'accenno di Wellhausen alla sto­ ria del cristianesimo, Nietzsche trae importanti conse­ guenze, contro cui lo stesso Wellhausen, a partire dai suoi presupposti cristiani, si ribella. Anch'egli sottolinea la concorrenza esistente tra la chiesa cristiana e la teocrazia della comunità postesilica; ma egli ritiene di non dover in­ cludere nel percorso di decadenza (o del capovolgimento dei valori naturali) l'apostolo Paolo. Già Overbeck ha fat­ to riferimento a questa contraddizione presente in Wel­ lhausen: «Un giudizio di Wellhausen diametralmente op­ posto a quello di Nietzsche. Lo preferisco, per quanto mi sia antipatico il suo carattere sempre pronto all'invetti­ va>> .21 Nietzsche cita la Prima Lettera ai Corinzi 1 ,20 come testimonianza di primissimo ordine della psicologia della morale da chandala. Nietzsche e Weber riprendono alcune considerazioni di Tolstoj sul cristianesimo, sebbene uno lo faccia tacitamente, mentre l'altro in maniera manifesta. Come chiave di lettura del Vangelo si servono entrambi, con Tolstoj, di Matteo 5,39 («non opponetevi al malvagio . . . •• ) , riconoscendo entrambi nell'etica assoluta del Discorso della montagna la possibilità �11 J. Wellhausen, Prolegomena %UT Ge.Ichichte lsraelç, 1899, p. un . . �1 F. Overbeck, Christentttm und Kultur, cit., pp. 55·56.

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per un'esistenza privata, mentre la rifiutano come guida per un'esistenza sociale. Nietzsche scrive: Il cristianesimo è possibile come forma di esistenza privatissi· presuppone una società angusta, ritirata, totalmente im­ politica - si addice alle conventicole [ . .. ] Chi oggi dicesse: «non voglio fare il soldato••, «non mi curo dei tribunali», «non pre­ tendo i servizi della polizia», «non voglio fare nulla che distur­ bi la mia pace interiore, e, se devo soffrire, nulla meglio che la sofferenza mi conserverà la pace» - costui sarebbe cristiano.22 ma;

Allo stesso modo anche Max Weber ha posto un'alterna­ tiva tra l'esistenza cristiana e quella politica: Riguardo all'etica del Sermone della montagna - e intendiamo con essa l'etica assoluta del Vangelo - la cosa è più seria di quanto non credono quelli che oggi ne citano volentieri i pre­ cetti. Non è da prendersi a scherzo. Vale per essa quel che è stato detto a proposito della causalità della scienza: non è una carrozza di piazza di cui si possa disporre per salirvi e scen­ derne a proprio piacimento. Bensì il suo significato è tutto o nulla, se si vuole cavarne qualcosa di più che semplici banalità. [ .. . ]. Un'etica della mancanza di dignità - a meno che non si tratti di un santo. Questo è il fatto: bisogna essere un santo in tutto, almeno nell'intenzione, bisogna vivere come Gesù, come gli Apostoli, come san Francesco e i suoi pari, e solo allora quell'etica ha senso e una dignità. Altrimenti no. Infatti, laddo­ ve in conseguenza all'etica dell'amore si comanda: ••non resi­ stere al male con la violenza», il precetto che vale viceversa per il politico è il seguente: «Devi resistere al male con violen­ za», altrimenti sarai responsabile se esso prevale.2:i VII

Mentre Nietzsche prende univocamente posizione contro l'ideale ascetico della morale da chandala, Weber rimane ambiguo nel suo giudizio. Approva e rifiuta allo stesso 22 F. Nietzsche, Wille zur Macht, Aph. 2 1 1 e 2 1 2 [tr. it. cit., p. 1 24). 23 M. Weber, Politik als Beruf, in Gesammelte Politische Schriften, Tiibingen 1958, pp. 538s. [tr. it. di A. Giolitti in Id., Il lavoro intellettuale come professio· ne, Torino 1948, pp. 107s.].

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tempo il fatale processo di razionalizzazione: il razionali­ smo ascetico del mondo capitalistico-borghese, di cui Wc­ ber, come Nietzsche, individua le origini nella storia d'I­ sraele, ha trasformato il mondo in una «gabbia d'acciaio». Infatti, quando l'ascesi passò dalle celle conventuali alla vita professionale e cominciò a dominare l'eticità intramondana, contribuì, per parte sua, a edificare quel possente cosmo del­ l'ordine dell'economia moderna - legato ai presupposti tecnici ed economici della produzione meccanica - che oggi determi­ na, con forza coattiva invincibile, lo stile di vita di tutti gli in­ dividui che sono nati entro questo grande ingranaggio (non so­ lo di coloro che svolgono direttamente un 'attività economica), e forse continuerà a farlo finché non sia stato bruciato l'ultimo quintale di carbon fossile.24

La storia dello spirito occidentale, che nello spirito del capitalismo ha raggiunto la sua stazione finale, per Weber, però (contro Hegel e Marx) non è una storia a lieto fine. Tutta la nostra esistenza, le condizioni politiche, tecniche ed economiche di base della nostra vita restano esiliate nel­ la gabbia d'acciaio del mondo capitalistico-borghese. Nessuno ancora sa chi, in futuro, abiterà in quella gabbia, e se alla fine di tale sviluppo immane ci saranno profezie nuovissi­ me o una possente rinascita di antichi pensieri e ideali, o se in­ vere (qualora non accadesse nessuna delle due cose) avrà luogo una sorta di pietrificazione meccanizzata, adorna di una spe­ cie di importanza convulsamente, spasmodicamente autoattri­ buitasi. Poiché invero per «gli ultimi uomini» dello svolgimen­ to di questa civiltà potrebbero diventare vere le parole: «Spe­ cialisti senza spirito, edonisti senza cuore: questo nulla si im­ magina di essere asceso a un grado di umanità non mai prima raggiunto.2''

Per Weber, la profezia marxiana di una società socialista ••senza classi» portatrice di salvezza si è offuscata fino a di24

Id., Die ProtestantiscJu. Ethik und der Geist des Kapitalismus, in Id., Gl'.sam­ melte Aufsatze z:ur Religionssoziologie, Vol. l, p. 203 [ tr. it. L'etica protestante e lo �irito del capitalismo, Milano 2000 10, p. 1 39]. " 3 /v� p. 204 (tr. it. cit., pp. 240s.].

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ventare la prognosi di una futura «pietrificazione•• mecca­ nizzata della società, per la quale egli cita la visione nietz­ schiana dell'ultimo uomo. Con Nietzsche, Weber prende in considerazione la possibilità che, alla fine di questa de­ cadenza, in un contro-movimento vengano alla luce «pro­ fezie nuovissime e una possente rinascita di antichi pensie­ ri e ideali••. Weber si oppone alle idiosincrasie di Nietz­ sche, ma soprattutto ai nietzschiani suoi contemporanei, provando una certa avversione per la storiografia «monu­ mentale» e per una certa propensione estetica, nel disgu­ sto per la «forma religiosa recentemente partorita» senza «nuove e autentiche profezie» in grado di produrre solo «misere deformità••. Un comportamento adeguato, secon­ do lui, è quello di sopportare «virilmente•• il destino del momento. E la virtù che egli, sempre con Nictzsche, consi­ dera valida ncll'interim dell'epoca nichilistica è «la sempli­ ce onestà intellettuale». Ma questa stessa onestà intellettuale ci impone di dire che la si­ tuazione attuale di tutti coloro che attendono nuovi profeti c nuovi redentori è la medesima che viene descritta nel bellissi­ mo canto della sentinella di Edom dell'epoca dell'esilio... : «Mi gridano da Seir: "Sentinella, quanto resta della notte?" La sen­ tinella risponde: "Viene il mattino, poi anche la notte; se vole­ te domandare, tornate un'altra volta"». Il popolo a cui fu data questa risposta, ha domandato e atteso per ben più di duemila anni, e ne conosciamo il triste destino. Morale: desiderare e at­ tendere non basta. Noi faremo diversamente, ci metteremo al lavoro e risponderemo alla sfida che ogni nuovo giorno d lan­ cia, sia come uomini, sia come professionisti. È una cosa facile e immediata - purché si sia riconosciuto e dato ascolto al de­ mone che tira le fila della propria vita.21;

In questa importante confessione di Weber, che si trova alla fine di Wissenschaft al5 Beruf, viene rievocato lo scon­ volgente destino del popolo ebraico, la cui storia, la forza e la debolezza fanno riferimento alla speranza messianica. Già nei saggi sulla sociologia della religione la speranza 2'; Id., Wi.rsemt"hafl als Beruf, in Id., GPsammelte Aufratz.e z.ur Wis.renschaftslehre, cil., p. 555 [tr. il. ci!., p. 1 3 1 ].

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messianica sembrava essere il risultato dell'analisi della re­ ligione israelitica: L'elemento peculiare dell'aspettativa israelitica è perciò l'in­ tensità sempre piil forte con cui vengono proiettati nel futuro sia il Paradiso sia il re salvatore, il primo dal passato, il secon­ do dal presente. [ ... ] Il peso della profezia fece di Israele, in questa misura singolare, un popolo «dell'aspettativa» e «del­ l'attesa». 27

Ma il popolo di questa attesa messianica viene nominato come esempio per ammonire che ••desiderare e attendere non basta>>. Con questo accenno Weber porta alla luce un aspetto entrato nella discussione generale sull'idea messia­ nica solo da poco tempo. Penso al prezzo dell'idea messia­ nica che il popolo ebraico ha dovuto pagare in proprio. Questo problema che Weber ha sollevato, è rimasto come dimenticato finché, dopo quattro decenni, non è stato nuo­ vamente riproposto da Gershom Scholem nel saggio lum VerJtiindnis der messianiJchen Idee im judentum. 2H Alla gran­ dezza dell'idea messianica corrisponde la debolezza della storia ebraica; l'ebraismo dell'esilio, legato com'era all'idea messianica, non poteva entrare davvero in relazione con il piano storico concreto e finiva per condurre un'esistenza da «paria>> - questo, nonostante tutte le possibili critiche, è il punto in cui la concezione weberiana tocca l'ora della ve­ rità, se pensa quest'esistenza all'interno della storia e, co­ munque, al di là di essa. La speranza messianica possiede una sua grandezza, illumina l'oscurità dell'esilio, ma pos­ siede anche la debolezza del temporaneo, del provvisorio, che non si esaurisce. «Vivere nella speranza è qualcosa di grande, ma anche di profondamente irreale>>. Svaluta qual­ siasi situazione precisa che non può mai essere vissuta in pieno; in ogni impresa, quello che resta incompiuto scredi­ ta proprio ciò che per essa è centrale e rilevante. L'attesa �7 Id., (;esammelle Aufçiitze zur Religion.rsoziologie, Vol. III, p. 249 [tr. it. cit., Vol. Il, p. 598]. �H Cfr. G. Srholem, lum Vf.rstiindnis dfT mr.niani.rrhen Ml'e im judmtttm, in "Eranos", 1 959, p. 2:l8 [tr. it. in Id., Conutti fondaml'nlali dell'Phmùmo, Ge· nova 1 997:1, pp. 105-150].

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messianica, dunque, ha trasformato l'esistenza ebraica in una vita vissuta nel differimento, ha attribuito alla vita con­ creta l'indice del «come se», rendendola un'esistenza in cui >, o contengono, in forma ce­ lata, una tesi di filosofia della storia, che stabilisce il crite­ rio all'interno di una metafisica platonico-cristiana, rinun­ ciando ad un distacco da esso; oppure fanno riferimento a esperienze che oltrepassano l'orizzonte platonico-cristiano. Se, per descrivere la poesia di questa epoca, non esistono mezzi oltre i concetti «negativi», bisogna rendere palese il terreno su cui poggia tale negatività. Questo tentativo deve essere compiuto con l'esempio di un'affermazione tipica della teoria surrealista. Le nostre riflessioni ruotano attor­ no al prefisso sur della parola «surrealismo>>: quale senso può avere questo prefisso all'interno di un'esperienza ma­ terialistica, un'esperienza dell'aldiqua e puramente profa­ na? Aragon risponde: Seule signification du mot Au-delà, tu es dans la poésie. La rivalutazione della fantasia come organo della poesia, che è in voga dal romanticismo in poi, avviene a spese del­ la perdita di una costitutiva mondanità della sua simbolica, cosa che emerge dal carattere occasionale e spesso persino non impegnativo dell'allegoria romantica. L'ontologia me­ dievale è strutturata ((simbolicamente••. Natura e Sacra Scrittura sono entrambe, ma in modi differenti, rivelazioni del verhum divinum increato, e per questo anche inesauribi­ le. Si può parlare di triplice, quadruplice o molteplice senso della Scrittura, solo perché cose ed eventi sono, su piani di­ versi, immagini di un archetipo esemplare. Nell'esegesi me­ dievale, dunque, l'interpretazione resta un compito infini­ to, perché il fondamento, il verbum divinum, resta inesauri­ bile. La chain of being gerarchica permette, anzi richiede l'a­ nalogia e la comparazione tra il Sotto e il Sopra. Dal momento in cui si è affermato il metodo moderno delle scienze della natura, che da Bacone, Cartesio e Spi­ noza costituisce il filo conduttore per comprendere la realtà, l'interpretazione simbolica medievale della natura e della Sacra Scrittura viene privata del suo fondamento. Le corrispondenze simboliche non hanno valore perché si ri­ feriscono a un mistero infinito, ma vengono smascherate come mistificazioni. Solo il sensus literalis è considerato ve­ ro o può esigere verità. Spinoza, che nel Tractatus Theologi· co-politicus riconosce come valido solo il senso storico o Jet-

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terale della Scrittura, vuole anche costruire l'etica more geo­ metrico. A partire dal romanticismo, anche la poesia vuole procedere more geometrico. Novalis parla della poesia come matematica bella, matematica mistica o amante dell'arte. Questo nuovo legame tra poesia, costruzione e algebra dimostra che, nonostante la sua opposizione alla scienza della natura e al­ la tecnologia, la poesia vive all'ombra del concetto scienti­ fico di realtà. Il tentativo di una chimica pneumatica e di un'astronomia magica che, per Novalis, come esempi, si fan­ no garanti di tutte le scienze della natura, è il segno del pe­ so che la vittoria delle scienze moderne della natura impo­ ne alla poesia. La vittoria dell'interpretazione scientifica della realtà (e, con essa, dell'interpretazione storica del Ver­ bo rivelato) ha allontanato, in poesia, l'interpretazione «simbolica» del mondo, smascherandola come un prodotto della fantasia, che rimane senza un correlato mondano, in­ dirizzando così la poesia sulla strada dell'allegoria. A parti­ re dal barocco, la visione allegorica del mondo si origina nel contrasto tra l'immaginazione poetica c il mos geometri­ cus univoco, che la scienza moderna ha statuito da quando ha rifiutato J'equivoca interpretazione simbolica della realtà. Con l'affermazione e lo sviluppo del metodo scienti­ fico, dal barocco al surrealismo, passando per il romantici­ smo, l'allegoria moderna diventa sempre più intercambia­ bile e occasionale. I collegamenti romantici e post-romantici tra ordina­ menti ed esplorazioni di corrispondenze non abbattono i ponti esistenti tra la fantasia soggettiva e il mondo ogget­ tivo, ma restano esiliati nell'interiorità soggettiva. Per que­ sto, in Baudelaire, l'esperienza delle corrispondenze (les parfums, les couleurs et les sons se répondent) coincide con una cesura quasi manichea tra mondo e uomo. All'apice della modernità, nonostante il suo ritorno alla tradizione mistica medievale, Baudelaire può concepire l'idea della corrispondenza solo provocatoriamente, come paradosso. L'analogia e la metafora, infatti, in Baudelaire, sono pro­ dotti dell'immaginazione. Non si accordano all'ordine di una creazione, ma l'immaginazione scompone ogni creazione e, con i materiali ammassati e disposti secondo regole di cui si può trovare l'origine solo nel più profondo dell'anima, crea un

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mondo nuovo, produce la sensazione del nuovo. L'atto della creazione artistica non imita più, qui, una creazione esem­ plare, l'ordine del mondo; piuttosto lo scompone e lo di­ strugge, per creare con le singole parti, dal più profondo dell'anima, un mondo nuovo, e per produrre, così, la sen· sation du neuf Con il surrealismo, almeno nelle sue riflessioni teori­ che, vengono tirate le somme della situazione che abbiamo cercato di delineare in Baudelaire. L'accento viene inequi­ vocabilmente posto sull'interiorità del soggetto. L'analogia, o la correspondence, che era ancora definita, fino alle estre­ me propaggini, sul model lo medievale di un universo sim­ bolico, viene rifiutata e gli elementi eterogenei, laceri e senza alcuna connessione tra loro, ricomposti. Il singolo oggetto è strappato dal suo normale ed originario modo di rapportarsi e viene posto in un ambiente inatteso, oppure predisposto per un nuovo uso. Già in Baudelaire emerge il vocabolo Jurnaturalisme. Si tratta di un'eredità del linguag­ gio romantico. In lui, tuttavia, questa parola si colloca an­ cora in un sistema di corrispondenze e si fonda su un'ana logie réciproque, che non è più visibile da un punto di vista mondano, ma possiede una sua validità solo nell'ambito chiuso della poesia. Da Baudelaire questi impulsi passano al surrealismo dove, tuttavia, in ogni caso nella sua fase ri­ voluzionaria, l'universo analogico è andato in frantumi: il mondo e l'io in Baudelaire sono già separati, ma nel sur­ realismo il mondo è separato da sé stesso, come pure l'io, ed entrambi sono parimenti frantumati. L'allegoria surrea­ lista mette in scena la mancanza di mondo propria di un'e­ sperienza nichilista, in un primo momento legata ai postu­ lati di un comunismo rivoluzionario, ma che, una volta che gli impulsi rivoluzionari sono diventati routine, si distacca dal programma di una rivoluzione mondiale e, in quanto tale, si manifesta sempre più chiaramente nell'opera sur­ realista. La mancanza nichilista di mondo propria dell'esperienza surrealista «ripete» nella modernità quella che era la man­ canza nichilista di mondo della gnosi tardoantica. Ma se un paragone tra gnosi e surrealismo non deve fermarsi a ca­ ratteristiche esteriori e secondarie, in questo raffronto, al­

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l ora, anche la differenza tra l'esperienza della gnosi tar­ doantica e quella surrealista deve essere chiara e va discus­ sa guardando a ciò che un'assenza nichilista di mondo può significare in ogni differente epoca. In primo luogo, vorrei riassumere in poche note tutta l'enorme quantità di specu­ lazioni mistiche e di pratiche di culto soteriologiche che si celano dietro alla parola ••gnosi>•, seguendo, così, l'analisi che Hans Jonas ha condotto nel primo volume del suo libro Gnosis und spiitantiker Geist. Bisogna prendere le mosse dall'esperienza gnostica del mondo. Cosmo, nel linguaggio gnostico, vuoi dire anche «ordine» e «legge». Ma il segno che questi vocaboli possie­ dono in greco, viene invertito. L'ordine diventa l'ordina­ mento rigido e ostile, la legge diventa la legislazione tiran­ nica e malvagia. Ma in un simile mutamento di segno, non è che il più diventi semplicemente meno, e al cosmo antico vengano negate tutte le qualità positive; piuttosto è lo sche­ ma cosmologico dell'antichità che subisce un mutamento profondo. Infatti, l'idea di «limite» propria del cosmo anti­ co nell'esperienza gnostica viene superata. Il limite, che nello schema cosmologico antico era garante dell'ordine armonico, nell'esperienza gnostica diventa la barriera este­ riore che bisogna superare. Il concetto di Aldilà, dunque, nel linguaggio gnostico possiede un significato evidente. L'Aldilà è il luogo del Dio oltremondano, che è concepito come un contro-principio rispetto al mondo. I predicati gnostici di Dio - inconoscibile, innominabile, indicibile, il­ limitato, non esistente ccc. - sono predicati negativi. Devo­ no essere intesi come negazione del mondo e determinano polemicamente l'opposizione del Dio oltremondano nei confronti del mondo. Tale opposizione tra il mondo e il Dio oltremondano si ripete anche nell'uomo. La psiche è la dote delle potenze mondane e, nel linguaggio gnostico, è il termine per indicare la vita naturale, che nella redenzione bisogna lasciarsi alle spalle. Sull'altro polo rispetto a questa c'è il pneuma, l'idea di un Sé trascendente e acosmico pre­ sente nell'uomo, un centro acosmico dell'io, un'interiorità ultima e irrelata che corrisponde al Dio oltremondano. L'i­ dea del pneuma come intima trascendenza dell'uomo fon­ da, nella gnosi tardoantica, una nuova idea di libertà che,

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per quel che riguarda le sue conseguenze mondane, porta a un anarchismo e a un libertinismo morale. L'uomo pneu­ matico è un homo novus, per cui la legge e la sapienza del mondo non sono più vincolanti. Lo gnostico pneumatico è il dandy dell'antichità. Questo riferimento alla gnosi tardoantica offre in primo luogo la possibilità di liberare alcuni «concetti preliminari», come quello di vuota trascendenza o di Io artificiale, dal­ l'odio per il segno meno. Rispetto all'esperienza gnostica di un Io non-mondano, sia esso concepito in termini esca­ tologici o estatici, tali «concetti preliminari» risulterebbero definiti troppo sulla base di un criterio mondano, di una mondanità che l'esperienza gnostica vuole superare. Po­ trebbe essere lo stesso anche per la lirica moderna? Le ca­ tegorie interpretative di Hugo Friedrich indubbiamente col­ gono la sua struttura, ma il sottotono peggiorativo che gra­ va su di loro, non incontra affatto il carattere gnostico­ pneumatico di questa «negatività». Anche ciò che M.H. Abrams sottolinea in Baudelaire come extraordinarily trun­ cated Christianity, 2 sarebbe fondato su un principio peculia­ re, che bisognerebbe poter esplicitare anche nell'analisi del­ la lirica moderna. Infatti, le categorie di una dottrina cri­ stiana ortodossa (la quale, tenendo sempre conto della con­ cordanza tra l'A ntico e il Nuovo Testamento, anche se in maniera di volta in volta diversa, identifica il Dio creatore con il Dio redentore e, quindi, anche il mondo creato con il mondo redento) non sono utilizzabili per comprendere l'a­ cosmismo, sia nella sua variante teologica che in quella an­ tropologica, così come si manifesta nella gnosi e nella lirica moderna. Il nostro paragone tra l'acosmismo gnostico e la man­ canza di mondo della lirica moderna si fonda sul fatto che tanto nella protesta e nella provocazione della gnosi, quan­ to nella protesta e nella provocazione della lirica moderna l'interpretazione precostituita del mondo come un tutto viene messa tra parentesi. La dottrina gnostica della reden­ zione è una protesta contro un mondo dominato dal Jatum 2

Cfr. Immanente Asthetik, Asthetische Reflexion, in «Poetik und Hermencu· tik .. , n. 2, 1 966, p. 1 22.

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o dal nomos. Tale Jatum, nello stile mitologico della gnosi, viene rappresentato da potenze personificate: determini­ smo astrologico. Il mondo, così come viene rappresentato nell'interpretazione della scienza moderna e della tecnolo­ gia, e contro cui, a partire dal romanticismo, in diverse fasi si rivolge la protesta della lirica, ottiene, in quanto tutto, una nuova compiutezza mitica: determinismo scientifico. La protesta della lirica si rivolge contro il decadimento del­ la natura dovuto alla scienza e alla tecnologia, conseguenza di un sapere che è potere e che, in quanto dominio e vio­ lenza, può essere esercitato solo su una natura disincantata. Ma la circonferenza dell'universo moderno è un cerchio con un raggio infinito, tanto che la protesta della lirica mo­ derna, a differenza di quella gnostica, nella misura in cui vuole urtare contro i limiti di quel mondo che l'interpreta­ zione della scienza le offre, fino a superarli, non può mai raggiungere un Aldilà del mondo in senso strettamente co­ smologico. A partire da questa diversità tra la cosmologia antica e quella moderna, si può definire il modo differente in cui si articolano gnosi e surrealismo. Nella gnosi il Sé pneumatico, che si oppone al mondo in tutte le sue forme, deve c può trovare una garanzia per la sua amondanità in un Dio non-mondano, che sta al di là del cosmo. La rivolta surrealista, invece, si compie contro il mondo infinito posto dalle scienze moderne della natura e dalla tecnologia, che viene percepito come un sistema di dominio e di violenza; ma, cercando di evadere da tale sistema coercitivo e infini­ to del mondo, essa non può fare appello alla garanzia di un Dio che stia al di là del mondo. Il surrealismo sa di essere radicato nell'universo moder­ no unitario, oltre il quale non c'è Aldilà. L'ateismo e il ma­ terialismo sono le pietre di paragone della sua sincerità. Ciò nonostante, non è possibile far risalire, senza soluzione di continuità, l'origine del materialismo e dell'ateismo an­ tropologici di osservanza surrealista al materialismo e all'a­ teismo metafisici del XIX secolo. Rimane un resto, a cui fa cenno il prefisso sur della parola «surrealismo». Che senso può avere tale prefisso in questo contesto materialistico? I ,a risposta di Aragon Seule signification du mot Au-delà, tu es dans la poèsie diviene, ora, comprensibile. La poesia è -

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l'unico Aldilà, non perché tenda un arco tra l' «Aldilà» e l'«Aldiqua», tra Sopra e Sotto. Essa è l'Aldilà stesso. La pa­ rola non manifesta qualcosa d'altro, ma è essa stessa tra­ scendenza. Terza seduta

Surrealismo e gnosi Presiede: Dieter Henrich TAUBES (Riassunto del discorso) l . Un tentativo di para­ gonare gnosi e surrealismo presuppone in primo luogo che la gnosi tardoantica e il surrealismo moderno siano in ge­ nerale «paragonabili». Tuttavia, quando una costellazione dello spirito viene paragonata a un'altra, a fondamento di un simile tentativo c'è il presupposto che l'oggetto del pa­ ragone sia, allo stesso tempo, identico e differente. Quello che può essere paragonato tra gnosi tardoantica e surrealismo moderno è la rivolta e la provocazione gnostica e surrealista, che sono l'orchestrazione di una mancanza nichilista di mondo (acosmismo). Ma è proprio da un «Con­ fronto strutturale» tra l'acosmismo gnostico e quello sur­ realista che emerge la fondamentale trasformazione subita dai punti di orientamento trascendentali del mondo antico e di quello moderno, sottoponendo, così, le diverse confi­ gurazioni a un indice di filosofia della storia. La gnosi e il surrealismo, entrambi grandi oggettivazioni della rivolta acosmica, non si differenziano tanto per gli intenti a cui danno forma, ma per l'alfabeto cosmologico in cui si im­ battono, quando danno espressione alla loro protesta. Non si tratta di scoprire nella poesia surrealista le forme archetipiche della gnosi, più o meno come suggerisce la psicologia di C. G. Jung; piuttosto, il confronto tra la gnosi tardoantica e il surrealismo ha un senso solo perché nella configurazione moderna del surrealismo la struttura ar­ chetipica della gnosi viene costruita e disposta in modo nuovo. -

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L'indice storico di una mitologia non dice solo che essa appartiene a una determinata epoca, ma che solo in una de­ terminata epoca è ((possibile» o diventa leggibile, come ha acutamente osservato Walter Benjamin. Persino in ogni struttura archetipica, infatti, è fortemente presente il tem­ po. A nche un mitologema ((archetipico» è storico e non eternamente atemporale. L'aposteriori dell'indice epocale diventa concretamente l'apriori di una filosofia della storia. Questo tentativo non mira a compiere un'analisi dei testi surrealisti nei termini di una storia della letteratura, ma vuole discutere le condizioni di possibilità della poesia sur­ realista tenendo conto dell'esperienza e dell'insegnamento della gnosi tardoantica e, così facendo, fornisce un criterio per definire più precisamente, sebbene solo con concetti preliminari, la forma specificamente ((moderna». 2. Le nostre riflessioni ruotano attorno al prefisso sur della parola ((surrealismo». Tale prefisso corrisponde al greco metà che, come osserva Hans Jonas, è la fondamentale categoria del movimento del linguaggio gnostico e determina lo spettro dell'esperienza gnostica, dalla prassi magica e esteriore del culto fino alle forme interiori della contem­ plazione mistica. Quale senso può avere il prefisso sur nel contesto di un'e­ sperienza puramente immanente? Sono d'accordo con Wal­ ter Benjamin sul fatto che nel surrealismo si compie un su­ peramento creativo dell 'illuminazione religiosa a favore di un ' il­ luminazione profana, di un 'ispirazione materialistica e antropo­ logica. La domanda a questo punto è: come si compie questo superamento del linguaggio dell'illuminazione religiosa, e perche? 3. Il vocabolo surrealismo emerge già in Baudelaire, un'e­ redità del linguaggio romantico. In lui, però, è ancora inse­ rito in un sistema di corrispondenze e si fonda su un'analo· gie réciproque, che tuttavia non è più visibile in termini mon­ dani, ma possiede validità solo nell'ambito ristretto della poesia. Da Baudelairc, questi impulsi passano al simboli­ smo, dove, però, in ogni caso nella sua prima fase, l'univer­ so analogico è distrutto: il mondo si è separato da sé, l'io si è scisso e i ponti tra il mondo e l'io sono andati in frantumi. 4. La rivalutazione della fantasia come organo della poe231

sia, in voga dal romanticismo in poi, avviene a spese della perdita di una costitutiva mondanità della sua simbolica, cosa che emerge dal carattere occasionale e spesso persino non impegnativo dell'allegoria romantica. 5. Da un punto di vista ontologico, l'universo medievale è strutturato simbolicamente. Dal momento in cui è entrata in vigore l'interpretazione scientifica moderna che, a parti­ re da Bacone, Cartesio e Spinoza, fornisce il filo condutto­ re per un'interpretazione della realtà, tale interpretazione simbolica della natura e della Sacra Scrittura viene privata del suo fondamento ontologico. Le corrispondenze simbo­ liche non valgono più in quanto si riferiscono a un mistero infinito, ma vengono rifiutate come mistificazioni. Solo il sensus literalis è vero o può esigere verità. Spinoza, che nel Tractatus Theologico.politicus riconosce il senso storico o let­ terale della Scrittura come unicamente valido, vuole anche costruire l'etica more geometrico. 6. La vittoria dell'interpretazione scientifica della realtà (e, con essa, dell'interpretazione storica della Parola rivela­ ta) ha allontanato, in poesia, l'interpretazione simbolica del mondo, smascherandola come prodotto della fantasia, che resta priva di un correlato mondano. I collegamenti romantici e post-romantici tra ordina­ menti ed esplorazioni di corrispondenze non abbattono i ponti esistenti tra la fantasia soggettiva e il mondo oggetti­ vo, ma restano esiliati nell'interiorità soggettiva. Per questo, in Baudelaire, l'esperienza delle corrispondenze (les par· fums, les couleurs et les sons se répondent)3 coincide con una ce­ sura quasi manichea tra mondo e uomo. 7. Il nostro confronto tra l'acosmismo gnostico e la man­ canza di mondo propria della lirica moderna si fonda sul fatto che tanto nella protesta e nella provocazione della gnosi, quanto nella protesta e nella provocazione della lirica moderna l'interpretazione precostituita del mondo come tutto viene messa tra parentesi. La dottrina gnostica della redenzione è una protesta contro un mondo dominato dal fatum o dal nomos. Tale fatum nello stile mitologico della �

Cfr. M.H. Abrams, in Immanente Asthelik, Aslhetische Reflexion, in «Poetik und Hermeneutik .. , n. 2, 1 966, p. 1 1 7.

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gnosi viene rappresentato da potenze personificate: deter­ minismo astrologico. Il mondo, così come viene rappresentato nell'interpreta­ zione della scienza moderna della natura e nella tecnologia, contro cui, a partire dal romanticismo, in fasi diverse si ri­ volge la protesta della lirica, ottiene, in quanto totum, una compiutezza mitica: determinismo scientifico. Ma la circonferenza dell'universo moderno è un cerchio con un raggio infinito, tanto che la protesta della lirica mo­ derna, a differenza della protesta gnostica, per quanto vo­ glia superare i confini del mondo (così come viene rappre­ sentato dall'interpretazione della scienza della natura), non potrà mai sostenere un Aldilà del mondo in senso stretta­ mente topografico. A partire dalla differenza tra la cosmo­ logia tardoantica e quella moderna è possibile determinare la fondamentale trasformazione subita dai punti di orienta­ mento trascendentali dell'antichità e del mondo moderno. Nella gnosi il Sé pneumatico, che si oppone al mondo in tutte le sue forme, deve poter ancora garantire il suo essere non-mondano attraverso un Dio non-mondano, che si trova al di là del cosmo. Ma questa, in certo qual modo, è solo la grande proiezione del Sé non-mondano, che ha scoperto di essere rivoluzionario.4 La rivolta surrealista si compie contro il mondo infinito posto dalla scienza moderna della natura e dalla tecnologia e non può appellarsi alla garanzia di un Dio oltremondano. HESELHAUS -Dal punto 3 al punto 6 del suo riepilogo, fa­ cendo riferimento a Baudelaire e al romanticismo, J. Tau­ bes accenna anche al fatto che un elemento «gnostico>> è presente nella modernità già prima del surrealismo. Ag­ giungerei, allora, alcuni elementi letterari dello gnostici­ smo che si riscontrano in B.F.X. von Baader, D.F. Strauss (la dottrina dell'apocatastasi). In questo contesto meritano un'attenzione particolare anche l'immagine schopenhaue­ riana del Nirvana (il mondo come «rappresentazione>>) e il nichilismo di Nietzsche. Infine, in epoca moderna, in Ger­ mania, abbiamo almeno tre poeti che riprendono diretta'1 H. Jonas,

Gnosis und spatantiker Geist, Gottingen 1 934, p. 249.

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mente visioni gnostiche e continuano a mettere in versi i miti della gnosi: Th. Daubler, A. Mombert e O. Loerke. La poesia di Daubler Nordlicht contiene persino il tentativo mi­ tico, tipico delle scienze dello spirito, di rappresentare in Occidente la tradizione delle visioni gnostiche. Tutti questi elementi gnostici della poesia moderna con­ tribuiscono a portare l'interpretazione all'interno di un ambito che faccia appello allo spirito (pneuma) c alla spi­ ritualizzazione del mondo (pneumatizzazione), contro «l'interpretazione scientifica della realtà•• O- Taubes). Di conseguenza, la differenza secondo cui la gnosi antica si appellerebbe a un Dio non-mondano, mentre il surreali­ smo non potrebbe più contare sulla garanzia di un Dio del­ l'al di là, non mi sembra più sufficiente. Risulta comunque sorprendente come, nonostante la mancanza di tale garan­ zia, nella modernità emergano diverse analogie con le vi­ sione gnostiche. TAUBES - Non contesto il fatto che nella poesia moderna vengano ripresi direttamente motivi gnostici, vorrei piutto­ sto mettere in guardia contro un'analisi che segua la storia di alcuni singoli motivi, siano essi mitologici o terminologi­ ci, così come si usa fare nella scienza della letteratura, for­ nendo una rete di relazioni che faccia da filo conduttore. È possibile che, proprio laddovc vengono tramandati topoi gnostici ed ermetici, sia venuto meno il chiaro orizzonte della comprensione gnostica del mondo e del Sé. Per la maggior parte di questi motivi si tratta di prodotti secon­ dari, rinvenuti nell'ammasso di macerie della tradizione, che non offrono alcun fondamento per un'interpretazione strutturale e unitaria. ISER Queste derivate, però, sono estremamente istrutti­ ve. Si pensi, in questo contesto, al rapporto che sussiste tra gli scritti ermetici di Yeats e la sua poesia. L'ordine perfetto e dettagliato presente nei trattati esclude tanto il mondo quanto l'io. La poesia di Yeats si orienta all'idea di un anti­ self e di una perfezione che è caratterizzata proprio dalla sua indipendenza dalla natura e dalla sua mancanza di mondo (la poesia Bi.sanzio) La perfezione evm:ata nelle ima-

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ges della poesia Bisanzio, allora, è senza contenuto, dove, al­ lo stesso tempo, è chiaro come essa appaia nella prospettiva del mondo naturale. Per Yeats la perfezione diventa qual­ cosa di concreto, nella misura in cui cerca di superare il mondo e l'io che, neJla sua soggettività, è consapevole deJla finitezza (il tema della poesia Bisanzio). La perfezione attri­ buita alle images ermetiche acquista, così, un aspetto rivolu­ zionario. Ciò si manifesta, in Yeats, anche nella sua attività politica all'interno deJla «Rinascita irlandese>>. Rispetto alle tesi esposte da .J. Taubes, aHora, bisognerebbe domandarsi: l . Per quale motivo queste immagini della perfezione co­ struite a partire daJle radici ermetiche e gnostiche, in defi­ nitiva, restano finzioni, nella misura in cui, allo stesso tem­ po, viene deluso l'impulso rivoluzionario? 2. Una risposta a questa domanda può aiutare a chiarire le differenze qualitative dei modelli strutturali ora con­ frontati? Questo sembra un punto di vista importante, per­ ché il confronto strutturale tra gnosi e surrealismo pU> dell'opera di Hoffmann, Bau­ delaire scrive senza mezzi termini (De l'eses nce du rire) che sa­ rebbe comme un catéchisme de haute esthétique. Il carattere op­ positivo della poesia, che in Hoffmann viene continuamente tematizzato e che aiuta di certo a chiarire il confronto con la gnosi, non è forse il punto di vista decisivo per la grande considerazione di cui ha goduto? TAUBES W. Preisendanz ha giustamente recuperato il problema dell'ironia nella lettura gnostica della poesia mo­ derna. Kierkegaard, nella sua Dissertazione, ha fornito i -

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mezzi per collocare l'ironia romantica nella prospettiva propria della filosofia della storia: nell'ironia il soggetto scap­ pa continuamente, per ogni fenomeno parla senza tener conto della realtà, e ciò per liberare sé stesso, il che vuol dire per mante­ nersi nell'indipendenza negativa rispetto a ogni cosa. 12 L'analisi di Kierkegaard sull'ironia romantica fa continua­ mente riferimento a Socrate, mettendo così in relazione la svol­ ta romantica dello spirito con la svolta dell'antichità, che dallo spirito della tragedia è giunta allo spirito ironico del­ la filosofia: Socrates primus ironiam introduxit (Tesi X della Dissertazione). Nella sua interpretazione dell'ironia, Kierkegaard si im­ batte in HegeJ che, ne] capitolo sulla «coscienza infelice» connette, come in un montaggio, ]'alienazione antica con quella moderna. Con ]a mia tesi volevo dire solo questo; ed essa si potrebbe intendere come una prova sull'esempio del­ l'analisi hegeliana, un'analisi che Ja critica fiJosofica e lette­ raria moderna non ha raggiunto e tanto meno superato. FUHRMANN Il parallelo gnosi-surrealismo è stato soste­ nuto con chiarezza. La scienza letteraria richiede una forma di osservazione individualizzante. La scienza della religione vede qualcosa in più rispetto a ciò che è tipico. Anche que­ sto metodo è autorizzato a procedere. Decisivo è cosa si vuole trovare. -

TAUBES La differenza tra metodo individualizzante e metodo generalizzante è anch'essa un'eredità dell'erme­ neutica romantica, i cui limiti credo che vadano superati. Ma ammetto che nella prospettiva della scuola storica un confronto tra Ja gnosi tardoantica e il surrealismo moderno deve essere valutato come ]a variante di un metodo tipolo­ gico generalizzante, anche se, così, l'indice della filosofia della storia, che mi sembra decisivo per questo confronto, non risalta in maniera adeguata. Le presenti note di storia della religione devono contri-

12 S. Kierkegaard, Ober den Begriffder Ironie (mit stiindiger Ruck.sicht auf Sok­ rates), tr. ted: di H.H. Schaeder, Miinchen/Berlin 1929, p. 215 (tr. it. Sul con­ a•tto di ironia, Milano 1 989, p. 189].

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buire a interrompere il circolo di un'interpretazione del sur­ realismo immanente all'estetica. Solo se il canone estetico viene superato, è possibile prendere sul serio l'intento sur­ realista. Se non doveva tener testa a un ultimo giudizio este­ tico, tutto questo, allora, si oppone più alla legittimità di un tale giudizio che all'intento stesso del surrealismo. - Il confronto tra gnosi e surrealismo mes­ so in atto da ]. Taubes è statico e, da un punto di vista me­ todico, corrisponde al parallelo strutturale tra la metafisica antica e quella gnostica su cui si basa l'immagine della gno­ si che emerge dall'opera di Hans Jonas, che ]. Taubes ha preso a fondamento del suo discorso. Ma questo metodo, che è quello di definire i fattori sistematici al variare del se­ gno, non si può ripetere con la gnosi e il surrealismo. Se il cosmo, che è ormai divenuto infinito, ha reso insensata la trascendenza esteriore, e se il Dio oltremondano della sal­ vezza non ha più un suo spazio, il resto sistematico di una trascendenza volta all'interno (mitica: il pneuma) non è an­ cora emerso in maniera convincente, oppure è diventato un modo per chiedersi come starebbero le cose, se tra gno­ si e surrealismo fosse esistito un nesso storico. La conse­ guenza sistematica dell'interiorità è piuttosto banale: anche se il mondo appare sotto il segno negativo, visto che anco­ ra non esiste mondo, bisogna accontentarsi di seguire, al suo interno, una scala di atteggiamenti possibili. Ma - e questa è la mia domanda - con questa immanenza di ripiego non si è già data la preferenza proprio a quelle determinate compensazioni tipiche di un sotterfugio senza vie d'uscita? J. Taubes vede nella rivalutazione della fanta­ sia una risposta specificamente adeguata alla perdita di mondo, che deve avere il suo fondamento nella negatività della determinazione del cosmo moderno data dalle leggi naturali. Fantasia contro legalità - è affascinante. Ma sarà difficile verificare il fatto che il valore della legalità della natura, che dalla modernità si è imposto stabilmente contro il Dio della salvezza e dell'arbitrio proprio del nominali­ smo, sia divenuto consapevole un giorno, in questa epoca, del suo essere opprimente e soffocante, oppure che lo sia diventato in qualità negativa. Al contrario, un ribaltamento BLUMENBERG

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estetico del valore della natura, un'esperienza della sua bruttezza, come ha inizio nel XIX secolo, è legato precisa­ mente a quelle formazioni naturali organiche, in cui proprio non si poteva ancora esperire il momento della legalità, ma un'irregolarità tropicale, la follia dell'abbondanza prolife­ rativa dell'eterna autoriproduzione, a cui l'autocoscienza umana poteva contrapporre lo spirito della produttività creativa - per esempio nell'antitesi città e natura. Scanda­ losa, inoltre, risultava la mancanza di compassione e l'indif­ ferenza sociale della natura, che veniva percepita come lot­ ta per la vita, spinta alla selezione e dispersione atomica nel vuoto superiore, in contrapposizione a una nuova visione antropocentrica e acosmica che, nella ristrettezza del corpo terrestre - da Malthus evidentemente senza speranza - la­ sciava che l'uomo diventasse il prossimo di sé stesso. Ma la rivolta del surrealismo si oppone effettivamente alla natu­ ra? O non è forse che la funzione del modo di trattare la na­ tura, dipende dal fatto che l'uomo si crea una sicurezza a partire dalla totale funzionalità iletica del mondo per lui predeterminato, la quale riesce proprio nella misura in cui questo mondo non è più «natura••? Tra la decomposizione del dato e l'autocoscienza esiste un legame in cui si costi­ tuisce la sovranità della decisione del soggetto rispetto a ciò che non viene da lui originariamente prodotto, e questo non solo come autoattestazione, ma anche come garanzia della possibilità di un'azione grande che inizi da zero. Nel momento in cui non aveva più dubbi sul fatto che la natura non fosse stata creata per lui e non fosse a sua disposizione, l'uomo poteva sopportare che essa avesse ancora solo il ruolo di materiale. Il materialismo conforme al surrealismo non è solo la continuazione dell'ipostatizzazione delle pre­ messe poste da una nuova fisica, attuata nel XIX secolo, ma anche la conseguente messa a nudo del carattere puramen­ te materiale della realtà non umana e della sua pretesa, e con ciò l'unica visione antropocentrica possibile successiva alla svolta copernicana. Il significato del prefisso sur nella parola surrealismo, attorno a cui ruotano le osservazioni di J. Taubes, non ha nulla a che fare con lo schema verticale del JUrnaturel della gnosi e di tutte le ripercussioni che essa ha avuto in ogni «sovrannaturale••; ma concerne, piuttosto, 245

lo schema orizzontale di ciò che, dopo la realtà della natu­ ra, «sopravvivendo» (survivre) alla sua decomposizione, di­ viene possibile. L'analogia messa in atto da Taubes tra il prefisso sur e il greco metà come «Categoria fondamentale del movimento» nella gnosi è illuminante solo nella misura in cui non ha valore. La differenza decisiva, strutturale tra gnosi e surreali­ smo, che sfugge a J. Taubes, consiste nel fatto che la gnosi non ha conosciuto le forme di reazione proprie della pro­ testa e della rivolta. Il richiamo del Salvatore proveniente dalla trascendenza non è un appello volto a un atteggia­ mento oppositivo nei confronti del mondo o a un'azione contro di esso; tale richiamo, piuttosto, si esaurisce nell'at­ tualizzazione dell'anamnesi, nel ripristino di un rapporto dell'interiorità umana con l'origine. Risulta pertanto sem­ plicemente significativo, per la gnosi, il fatto che origine e Ji· ne del soggetto, simboleggiato nel pneuma, siano identici. Questa identità esclude che l'uomo possa aggiungere alla sua storia o possa ottenere in essa qualcosa di essenziale; basta che venga «ricordato», perché è chiaro che egli non può più . La divergenza nell'interpretazione della gnosi tardoantica non si può eliminare facendo riferimento ai ma­ teriali. H. Blumenberg, infatti, conosce le testimonianze dei Padri della Chiesa che stigmatizzano l'autocoscienza degli gnostici, dicendo che essa sarebbe l'arbitrio tirannico e l'il­ legalità di un Io libero da qualsiasi legame, e che si scanda­ lizzano per quella negazione estrema dei valori vigenti di cui essi si fanno promotori, che si è trasformata in anarchi­ smo e libertinismo morale. Conosce anche la trasfigura­ zione provocatoria e intimidatoria dei testi canonici messa in atto nelle allegoresi gnostiche, che attestano il risenti­ mento e l'aggressività della gnosi nei confronti degli ordi­ namenti vigenti. Eppure continuerà a considerare tutti que­ sti tratti rivoluzionari della gnosi solo come caratteristiche secondarie che, in una sua interpretazione strutturale, de­ vono essere eliminate, perché rappresentano un semplice rovesciamento e un mero cambiamento di segno, ma anco­ ra nessun nuovo concetto di realtà, che forzi i confini del­ l'antica esperienza del reale. In effetti, il discorso gnostico si è esposto all'imitazione dell'antica tradizione filosofica e, in una prospettiva stori­ co-filosofica, si può legittimamente trattare come una va­ riante del platonismo. Nella prospettiva della storia della re­ ligione, invece, la rivolta e la provocazione gnostica, nono­ stante la sua ripresa di topoi filosofici propri della tradizio­ ne antica, assume un valore completamente differente. Te­ stimonia una rivoluzione della coscienza che, se non de iure, almeno de facto, supera i limiti dell'esperienza antica. Per­ tanto, credo che in una prospettiva di storia della religione il confronto tra la provocazione gnostica e quella surrealista -

248

possa portare a un chiarimento reciproco, perché anche la rivolta della gnosi, nonostante sia ancora concettualmente legata all'idea antica di realtà, offre già un riferimento al concetto moderno di reale. Sicuramente, «il concetto moderno di realtà, e cioè quel­ lo di consistenza immanente offre tutt'altre possibilità ( dif­ ferenti rispetto a quelle che erano a disposizione nella gno­ si tardoantica, J.T.) per depotenziare la natura di fronte al soggetto•• . Questo accenno di Blumenberg può offrire una chiave per interpretare il romanticismo, ma non la moder­ nità postromantica, in cui nessun soggetto identico viene posto di fronte alla natura depotenziata; qui, piuttosto, il depotenziamento si estende sia al soggetto che all'oggetto. L'osservazione di Blumenberg sul rapporto esistente , coglie appena nel segno l'intento del surrealismo. Questo, infatti, distrugge tanto l'unità del­ l'Io - ogni unità dell'Io - quanto quella del «mondo>> o del­ la del­ l'apostolo Paolo, sorge anche dalla volontà di mostrare qua­ li sono le difficoltà interne e le resistenze esteriori che osta­ colano l'impulso blema simile. Ma questo caso non manca di altri paralleli. E di Origene (Contra Celmm, VI, 28) la testimo­ nianza secondo cui gli ofiti non facevano entrare nessuno nella loro comunità senza una preliminare maledizione di Gesù. Rispetto a questa testimonianza non possono sorgere lrcneo dà notizia della dottrina della salvezza di 1\asilidc (Adv. Haer. r. 24, 4): Et liberatos igitur eos, qui haP.c scianl, a mundi Jabrir.atoribus principibu.�; et non opo1·tere confitfTi rom, qui sit mlcifiX1u, .�nl rom qui in hominis .fo·rma vme· rit el putalus sii cmr.ifixu.5 et mratus sii jFsw Fl mi.s.ms a Patre, nli pPr dispositio· nem hanc opera m1mdiJabrimtorum di.�mlveTPI. Si quis igitur, (lif. mnfitelur l'TU· cifixum, adhur hù .5ervu.5 e.sl et .mb pote.5las eomm qui corpora Jecerunt; qui autem negaverit, libemtus est quidem ab iis, cognoscil aull'm dispositionem innati PalriJ. H

260

dubbi. Origene riferisce della prassi degli ofiti in un'argo­ mentazione contro Celso, il quale scherniva la loro dottrina definendola cristiana, volendo dimostrare che essi non pos­ sono essere considerati cristiani. La tendenza apologetica di Origene è palese ed è facile metterla tra parentesi. Pur senza volerlo, egli testimonia che la maledizione di Gesù, in voga presso gli ofiti, sia parte integrante dell'iniziazione nella comunità cristiana.!! Il rifiuto di un Cristo katà sarka, tuttavia, anche nelle cerchie gnostiche, non deve essere sempre portato alle estreme conseguenze, fino ad arrivare a un rituale della maledizione. La letteratura gnostica conosce un gran nu­ mero di tentativi di mediazione che attribuiscono al Gesù terreno un ruolo semplicemente subordinato nell'evento della redenzione. Valentino associa Gesù al piano «psichi­ co». Il Gesù carnale ha una sua importanza per la reden­ zione solo per i semplici, gli psichici, a cui non si è ancora rivelato (o meglio, a cui non si rivelerà mai) il senso «pneu­ matico» del mistero. Se l'anathema .fe.mus della comunità di Corinto (confermato dalla testimonianza di Ori gene) ac­ quista un senso solo se si tiene conto della differenza tra un Gesù terreno e un Cristo celeste, il problema che si po­ ne allora è cosa divide Paolo dai pneumatici di Corinto. Anche Paolo, infatti, conosce la distinzione tra un Cristo kata .mrka e uno kata pneuma. Così facendo sta con gli en­ tusiasti di Corinto contro la comunità originaria di Geru­ salemme. f: noto come Paolo riporti solo raramente le pa­ role di Gesù e come sia poco interessato alle sue azioni. Anch'egli è un pneumatico che non attribuisce alcun si­ gnificato salvifico alla «vita di Gesù» sulla terra. Egli, tut­ tavia, si ritrae di fronte alle conseguenze radicali che una tale differenziazione comporta e le respinge facendo ap­ pello alla «parola della croce» . Anche se, in generale, la sua cristologia si inserisce nello schema gnostico del Salva­ tore salvato, con l'evento della crocifissione, però, egli trac­ cia dei limiti ben precisi opponendosi alla tendenza radi­ calmente spiritualizzante della gnosi. Non riconosce nella dottrina dei corinzi la distinzione tra un Gesù terreno e un !J

Cfr.

W. Srhmithals, /)jl' (;noJiJ

in Korinth,

261

1956, pp. 4!'>s.

Cristo celeste da lui stesso attuata. l suoi avversari di Co­ rinto annunciano, così almeno appare ai suoi occhi, un . Ma la Lettera ai Corinzi è uno scritto d'occasione e non può anco­ ra valere come «letteratura». Diventa solo do­ po che, con altre lettere di Paolo e con qualche scritto spu­ rio, viene inserita nel Canone neotestamentario come cor· pus delle lettere paoline. Letteratura, cioè, è solo il suo de­ stino postumo, che non ha nulla a che fare con le intenzio­ ni originarie dell'autore. Gli scritti cristiani diventano letteratura in senso stretto solo con l'apologetica. Di fatto si rivolgonò a un ampio pub­ blico. Nell'intento di far accettare il cristianesimo a un pub­ blico non-cristiano nella forma conosciuta della letteratura generale, gli apologeti si servono in abbondanza di argo­ mentazioni retorico-filosofiche - per esempio, l'apologetica ripristina anche la forma del dialogo. La predicazione cri­ stiana degli apologeti e dei Padri della Chiesa ha trovato va­ ri punti di contatto tra la dottrina paolina deiJa croce e la 1 Cor. 1 , 1 1-13 1 Clem. 47, 1 ; 1 Cor. 12,12s. 1 Clem. 37,5 e 38, 1 ; l Cor. 13,47 = l Clem. 49,5. (cfr. W. Bauer, Rechtgliiubigkeit und Ketzerei im iiltl'.sten Chri· stentum, 1934, pp. 215s.). 21

=

=

270

sapienza del mondo. Nella letteratura apologetica appare per la prima volta anche il > e viene interpretata in sen�� Cfr. W. Bousset, Platons Weltseele und das Kreuz Christ� in ZNW XIV, 19 13, 273s.

pp.

271

so cosmico. Nel cosiddetto Martirio di Pietro 8, che fa parte degli antichi Atti di Pietro, si dice: Avvicinatosi [Pietro], stette presso la c roce e prese a dire: - o nome della croce, mistero nascosto; o grazia ineffabile espres­ sa nel nome della c ro ce; o natura umana inseparabile da Dio; o amore indicibile dal quale non ci si può separare che le lab­ bra contaminate non possono esprimere; ora che sono al ter­ mine della mia liberazione dalla terra io ti comprendo. Ora manifesterò chi tu sia. Non lacerò questo mistero della croce, da lungo tempo celato nella mia anima. Per voi che sperate in Cristo, la croce non sia ciò che sembra essere; essa, infatti, è enmpletamcntc diversa dalla a p paren za: am:hc que s t a passio­ ne, conf(mnemente a quella di Cristo, è di\·ersa da ciò che ap­ pare. Ora soprattutto che potete comprendermi, voi che ne avett: la f()rza, a scoltate m i nell'ora ultima e suprema della mia vita. Allontanate le anime vos 1 rt: ùa tutto ciò che è appare nza, ma non realtà. Dopo che egli fu sospeso come aveva chiesto, pn·se num·amente a dire: - Uomini dw avete il compito di ascoltare, udite ciò eh 'io vi annunzio, soprattutto in questo momento in cui sono crocifisso! Comprendete il mist.ero di tu tt a la natura e quale è sta t o il prin c ipi o di og n i cosa. Dun­ que, il primo uomo, della cui stirpe io , p rec ipit ato rivolto con la testa in basso, porto l'immagine, manifestò una n atura di­ versa da quella che aveva una volta; non avendo movimento, è morta. Egli aveva gettato a terra il suo stato primitivo e (:osì ro­ vesdato, organizzò tutto l'ordine di questo mondo: sospeso se­ condo l immag i ne della sua vocazione, (ccc vedere destra la si­ nistra e la sinistra destra; cambiò tutti i segni della sua natura tanto da considerare bel lo ciò cht.· non lo è, e buono d() che è cattivo. A questo proposito il Signore dkc i n un mistero: - Se della destra non fate la sinistra e della sinist.ra destra, inferiore dò che è superiore, e anteriore ciò che è posteriore, non com­ prenderete il Regno. Questo è il p e nsi e ro eh 'io pongo davant i ai vostri occhi; c la fi gura che voi vedete co ntem p lando m i so­ speso, è l'immagine dell'uomo che nacque per primo. Voi, dunque, miei diletti, tanto voi che udite adesso quanto quelli che vi ascolteranno, dovete abbandonare questo primitivo er­ rore c rialzarvi. È giusto, infatti, salire sulla croce di Cristo che è l'unica e sola parola distesa, della quale lo Spirito dice: Che cos'è Cristo, se non la parola, l'eco di Dio? - Sicché la pa­ rola è l'asse dritto della croce, quello al quale sono croc ifiss o ; l'eco è l 'ass e trasversak, cioè la natura dell'uomo; il ch iodo '

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che unisce l'asse trasversale a quello dritto è la conversione e la penitenza dell'uomo.23

La polemica degli Atti dei martiri contro la croce lignea presuppone la distinzione tra una croce visibile e una invi­ sibile. Ma a partire da una simile interpretazione, la strada per la ••croce luminosa» era aperta e, così, lo strumento del martirio a lungo disprezzato poteva trasformarsi nel segno l rionfale dell'epoca costantiniana. III

La trasformazione della croce da strumento di martirio a segno trionfale influenza anche il concetto dell'habitus este­ riore della figura di Cristo. Quanto viene detto in I Cor. 2,8 sulla sapienza divina, «che nessuno dei capi di questo mon­ do conobbe, perché se l'avessero conosciuta, non avrebbe­ ro crocifisso il Signore della gloria (kyrios tes doxes}», è pre­ sente in un'affermazione di Giustino (Dialog. 36,6): Quando i principi celesti videro che la sua figura era senza bel­ lezza, senza onore e gloria, non riconoscendolo domandarono: - Chi è questo Signore della gloria? - e lo Spirito Santo rispo­ se loro nel nome del Padre e a suo nome: - Il Signore delle po­ testà, è il re della gloria.

Questo contesto diventa ancora più chiaro negli Atti di 1òmmaso 45. Il diavolo-nemico dice: Ma tu gli somigli molto, come se lo avessi per padre. Mentre pensavamo di poterlo assoggettare al nostro potere, egli si voltò e ci precipitò nel suo. Noi non lo conoscevamo, avendoci egli ingannato con il suo brutto aspetto, con la sua indigenza e povertà. 24

La bruttezza del Cristo diventa, qui, un tema esclusivo. 2:1

Cfr. E. Hennecke, Nettle.�tamentlichl' Apokryphen, 1924, pp. 24 7s. [la tr. i t. del passo è di L. Moraldi, in Apocrifi del Nuovo Testamento, Vol. Il, Torino 1 97 1 , pp. 1024s.). 24 lvi, p. 269 [tr. iL in Apocrifi del Nuovo Testamento, cit., p. 1275].

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Negli Atti di Pietro (Actus Vervellenses, 24) si adduce espres­ samente come prova il passo di Isaia 53. Nella sua discus­ sione con Simon Mago, Pietro risponde: Anatema alle tue parole su Cristo! Hai avuto il coraggio di par­ lare così, nonostante che il profeta affermi: - Chi potrà narra­ re la sua generazione? - Ed un altro profeta dice: - L'abbiamo visto, ma non aveva né forma né bellezza.25

Isaia 53 rimane, nella Chiesa antica, la wstimonianza più importante per il Cristo «brutto». Gli Oracula Sibyllina cri­ stiani (VIII, 256),:w un'apocalisse del tempo della persecu­ zione, in cui si sente l'odio contro Roma, offrono una moti­ vazione in favore di questo tema: «Egli è venuto nel creato non in bellezza, ma come un uomo povero, disonorato e in­ significante, per dare speranza ai miserabili>>. Incerto resta il giudizio di Clemente Alessandrino. Egli, in­ fatti, riprende dalla Chiesa antica la tradizione secondo cui Gesù, stando a Isaia 53,2, doveva essere (Strom. II, 5,22), anzi, risultava piut­ tosto brutto (Pedagog. III, 1 ,3). Ma Cristo doveva essere invi­ sibile e deforme, così da non distoglierci, e attrarci, piutto­ sto, verso ciò che non ha forma (aeides), né corpo (asoma­ ton)! Cristo non voleva apparire in un bel sembiante, affin­ ché nessuno, ••apprezzando l'aspetto avvenente e ammiran­ do la bellezza fisica, si distogliesse dalle sue parole e restas­ se escluso dalle realtà intellegibili, per aver posto attenzione a ciò che è passeggero>> (Strom. VI, 1 7,51 ). Non meraviglia, pertanto, se Clemente, nonostante il suo legame con la tra­ dizione del cristianesimo delle origini, arrivi ad affermare direttamente di Cristo che egli (Strom. II, 5,2 1 ) Nella testimonianza di Celso parla l 'opposizione pagana contro il Cristo . Celso si oppone alla fede cristiana nella divinità di Cristo con una motivazione ••estetica>> (Con­ tra Celsum VI, 75 ): .

25 2';

ltJi, p. lvi, p.

269 [tr. it. in Apoc:rifi del Nuovo 1"PJtamento, cit., p. 1275]. 256.

274

Quindi Celso afferma: - Qualora uno spirito divino avesse al­ bergato nel corpo, questo avrebbe dovuto necessariamente su­ perare gli altri corpi, ò per grandezza, o per bellezza e forza, ? per la voce, o per la maestà, o per il dono della persuasione. E impossibile, infatti, che un corpo più divino degli altri non dif­ ferisca in nulla da quelli; eppure il suo corpo non differiva af­ fatto dagli altri corpi; ma - a quanto dicono - era piccolo (mik­ ron), brutto (dyJeib.s) e volgare (agenes).

Origene riconosce che Gesù era «brutto» (dyseides), ma cre­ de di poter rifiutare le altre caratteristiche, e, cioè, che fosse «piccolo» (mikron) e «volgare» (agenes). Proprio a partire da lmia 53, vuole dimostrare che Gesù non si è fatto vedere dal popolo con un brutto aspetto (Contra Celn.tm. VI, 77):

E quando Celso fa le seguenti osservazioni: - Dacché uno spi­

rito divino albergava nel corpo, questo avrebbe dovuto essere totalmente diverso da tutti gli altri, o per grandezza, o per bel­ lezza e forza, o per la voce, o per la maestà, o per il dono della persuasione. È impossibile, infatti, che un corpo, più divino degli altri non differisca in nulla da quelli; eppure il suo corpo non differiva affatto dagli altri corpi; ma - a quanto dicono era piccolo (mikron), brutto (dyseides) e volgare (agent's) - [noi, allora, vorremmo domandargli] come poteva sfuggirgli che quel corpo era diverso dagli altri, per il fatto che a ciascuno era apparso nell'aspetto conforme alle proprie possibilità e al­ la propria salvezza. Non bisogna stupirsi, allora, se la materia, per natura mutevole e plasmabile, in grado, cioè, di diventare tutto ciò che vuole il Creatore e di assumere ogni qualità se­ condo il volere dell'artefice, è tale da giustificare le seguenti parole: «Non aveva forma, né bellezza••; e neppure bisogna stu­ pirsi se essa è così gloriosa, impressionante e degna di ammi­ razione che, di fronte a cotanta bellezza, i tre apostoli saliti con Gesù sulla montagna «caddero davanti al suo volto».

In definitiva, sembra che Origene voglia accettare i due modi differenti in cui appare Cristo. Ai semplici non appa­ re come ai perfetti. La figura servite di Cristo, per Origene, ha valore solo ••per quelli che si dicono credenti»: «Per co­ loro che sono stati introdotti alla fede, egli possiede il sem­ biante di un servo, tanto che essi affermano: "Lo abbiamo visto, ed egli non aveva né forma, né bellezza". Si fermano

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alla figura del servo e non riconoscono la totalità del logos Il crocifisso vale solo per i semplici>>.27 In questo contesto emerge che solo Ireneo e Tertulliano, i due persecutori degli eretici, nella loro battaglia contro la gnosi, hanno portato avanti con fierezza la tradizione del Cristo brutto. Ireneo parla dell'uomo Gesù definendolo non solo infirmus o ingloriosus (Adv. Haer. IV, 33, 12) ma an­ che indeconLJ (III, 1 9,2). Tertulliano ha sottolineato con maggior forza e con una punta di antignosticismo il Cristo uomo. All'argomentazione tradizionale tratta da Isaia 53, egli aggiunge, come testimonianza del Cristo brutto, il pas­ so del Salmo 2 1 ,7: «Sono un verme e non un uomo» : Si in· glorius, si ignobilis, si inhono-rabilis, meus est Christus (Adv. Marcionem m, l 7). Il De carne ChriJti c. 9-1 7 fornisce alcuni testi quasi espressionisti sul tema del Cristo brutto. Cito ad esempio i1 passo da De carne Christi 9,4-8. .

Anche in Cristo vi sono stati tutti questi segni dell'origine ter­ rena, e sono questi che hanno celato in lui il figlio di ))io, che in nessun altro modo sarebbe stato considerato uomo se non soltanto per la sostanza del suo corpo [ ...] ma qui non colgo nulla di nuovo, nulla di straordinario. Insomma gli uomini co­ glievano il miracolo del Cristo solo per le sue parole e le sue azioni, solo per il suo sapere e la sua virtù. Invece si sarebbe dovuta notare in lui anche la novità della carne, effetto di mi­ racolo. Ma, presa in sé, non era straordinaria la condizione della carne terrena, che rendeva mirabile tutto il resto di lui, quando chiedevano: «Da dove giungono a costui questo sapere e questi segni?». Questo era l'esprimersi anche di quanti di­ sprezzavano il suo aspetto: a tal punto il suo corpo non ebbe decoro umano, immaginiamoci poi splendore celeste! Mentre anche presso di voi i profeti tacciono circa il suo aspetto mo­ desto, a parlare sono le sue stesse sofferenze e le offese stesse: le sofferenze parlano di carne umana, le offese di carne non nobile. O forse che qualcuno avrebbe osato con la punta del­ l'unghia graffiare un corpo inusitato, o macchiare di sputi un volto che non lo meritasse? Perché chiami celeste una carne, della quale non sai perché tu la debba intendere come celeste? Perché neghi che sia terrena una carne, della quale sai perché tu debba riconoscerla come terrena? Egli patisce la fame con il 2;

Origene, in Mt. 1 2, 30 GCS X, l , 1 33s. (ed. E. Klostermann).

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diavolo, patisce la sete con la Samaritana, versa lacrime su Laz­ zaro, trema di fronte alla morte - e infatti sta scritto: «carne de­ hoJe, -, da ultimo versa sangue. Questi, dico, sono segni cele­ sti? «Ma», voi dite, «perché mai avrebbe dovuto sortì-ire ed es­ sere offeso, se solo avesse emanato da quella carne un filo di c.:clestc nobiltà? E da qui, appunto, traiamo la dimostrazione che nulla in quella carne vi fu di celeste, precisamente per que­ sto: perché potesse soffrire ed essere offesa. :!H ...

Se, alla fine di queste ri flessioni, faccio ancora riferi­ lllento al problema di un' «an humilis>> nel cristianesimo tar­ doantico, questo è solo per segnalare i contrasti esistenti 11ci confronti di un «modus humilis» nel l'arte.29 Proprio nel passaggio dalla parola all'i mmagine l'esperienza cristiana ;1hbandona il suo terreno più proprio - perché al suo inizio c'era la parola e si sposta in un territorio stran i�ro, dove la legge c il canone vengono imposti dall'esterno. 1>, alcuni evidenti tratti della sovrastruttura con tratti corrispondenti della struttu­ ra. Questo è il punto contro cui si rivolge a ragione la criti­ ra di Adorno. La determinazione materialistica dei caratte­ ri culturali, infatti, gli sembra mediata solo dalJ'intero pro­ resso . .. n carattere di feticcio della merce non è un dato di 1;1tto della coscienza, ma è dialettico .nel senso eminente che produce coscienza>> . I!l Solo l'intuizione dell'universalità del feticismo della merce nel capitalismo organizzato del 1 1 Cfr. T.W. Adorno, Pri.lmen, Frankfurt a.M. 1 955, p. 7 1 [tr. it. Prismi, Tori­ no 1 972, pp. 54s.]. 1 .·. Cfi·. la lettera di Adorno a Benjamin del 2.8. 1935, in W. He�jamin, Briefe :!_. cit., p. 679 [tr. it. cit., p. 302]. 1 " Cfr. la lettera di Adorno a Be1�jamin del l 0. 1 1 . 1 938, in Id., Hriefe 2, ci t., p. 7H4 [tr. it. cit., p. 363117 lv� p. 786 [tr. i t. cit., p. 365]. " Cfr. Id., Da.f Kunslwerk, in Id., St:hriften 1 , cit., p. 367 [t.r. it. in Id., L'opera d 'a rlt' nell'epura della ma riproduribilità tecnica, ci t., p. 20]. 1 ' ' Cii·. la lettera di Adorno a Be�jamin del 2.8. 1 935, ci t., p. 672 [ tr. i t. ci t., p. 295].

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secolo poteva far prevedere, allo stesso tempo, un acu­ tizzarsi estremo sia del suo carattere sociale sia di quello economico. Questa svolta totalizzante del feticismo della merce doveva essere sensibilmente percepibile anche da un punto di vista storico. Il carattere della merce, specifico del XIX secolo, vale a dire la produzione industriale delle merci, avrebbe dovuto essere esaminato con una radicalità mag­ giore rispetto a quanto ha fatto Benjamin. Il rapporto tra merce ed estraniazione, infatti, è valido sin dall'inizio del capitalismo, e cioè dall'epoca manifatturiera. A partire da questo rapporto si costituisce ••l'unità•• del moderno, ma non la fisionomia del XIX secolo. Il problema della forma di merce della cultura capitalistica si può concretizzare solo at­ traverso categorie specificamente storiche, come commer­ cio mondiale e imperialismo.20 La differenza nell'interpretazione della fantasmagoria della cultura capitalistica che emerge tra testo e commento, non sta tanto nella diversa visione della violenza della stes­ sa fantasmagoria, quanto piuttosto nel fatto che Adorno è inequivocabilmente legato alla costellazione del xx secolo, dove struttura e sovrastruttura non sono più separate, dove l'ideologia non funziona più come facciata di un pesante in­ teresse nascosto, dove il processo di produzione materiale, alla fine, si rivela essere ciò ••che era sempre stato, già alle sue origini nel rapporto di scambio, in quanto falsa co­ scienza che i contraenti avevano l'un dell'altro (... ]: e cioè ideologia».21 Resta da chiedersi, tuttavia, se la costellazione del XX secolo, così come la descrive Adorno, può ancora es­ sere siglata col marchio del feticismo della merce; più pre­ cisamente, se il problema della società industriale si può ancora comprendere con il concetto di scambio. Ad Ador­ no va concesso il fatto che ancora oggi, quando lo scambio è universalmente realizzato, ••si rinuncia alla natura qualita­ tiva dei produttori e dei consumatori, al modo di produ­ zione, e al bisogno, che il meccanismo sociale finora ha soddisfatto come qualcosa di secondario••. Bisogna anche ammettere che oggi «l'umanità, classificata ancora come

XIX

2° 21

Cfr. ivi, pp. 676 e 680 [tr. it. cil., pp. 299s.). T. W. Adorno, PriJmen, p. 25 [tr. it. cit., p. 1 7).

290

dientela, il soggetto del bisogno [ ... ], al di là di qualsiasi concezione ingenua, [viene] preformata da un punto di vi­ s t a sociale, e cioè non solo a partire dalla condizione tecni­ ca delle forze di produzioiìe, ma anche dalla situazione eco­ nomica». 22 Ma il nucleo centrale dell'analisi critica della so­ cietà messa in atto da Adorno, la frase ••primario è il pro­ fitto», vale ancora per la società industriale? Anche se Adorno ammette che nell'epoca tardocapitali­ st.ica l'astrattezza del valore di scambio non è neutrale da un punto di vista sociale, e che «nella riduzione dell'uomo ad attore e vettore dello scambio di merci [ ... ] si nasconde il dominio dell'uomo sull'altro uomo»; anche se si perce­ pisce che la formazione industriale della società non si wmpie «al di là dei conflitti e degli antagonismi, o loro malgrado», ma che il suo medio, piuttosto, sono «gli anta­ gonismi stessi», i quali allo stesso tempo dilaniano la so­ cietà, tuttavia resta ancora da chiedersi se questo meccani­ smo si è conservato fino a oggi, in maniera stridente, con disagi vari e sacrifici indicibili, «solo grazie all'interesse del profitto». 23 L'analisi della società industriale non do­ vrebbe essere collocata vicino allo spazio della foiJia pro­ prio della nuda violenza e del dominio nascosto, più di quanto non osi fare Adorno? Chiedendole di comprendere la costellazione che caratterizza l'epoca della tecnica e del­ l'industria, non si è forse preteso troppo dalla legge dello scambio, come categoria universale, se il motivo del pro­ fitto sta declinando da un punto di vista soggettivo e og­ gettivamente non si manifesta più in una forma immedia­ t a, chiaramente riconoscibile, come nell'epoca del capitali­ smo classico? All'appello di Adorno alla società globale della scambio si addice, rispetto alle condizioni di produ­ zione della società industriale, un carattere chiaramente metaforico. Nell'organizzazione capitalistica della società emerge, solo marginalmente, un potere extraeconomico per regolare lo scambio globale, un po' come nelle situa­ zioni di crisi. Nella società industriale, invece, la quantità degli interventi del potere extraeconomico è capovolta. �t 2:1

Id., Gesellschaft, lbid.

in «Evangelischen Staatslexicon», Stuttgart 1966, col. 639s.

291

Nei termini della teoria e della prassi classiche del capita­ lismo, tutto ciò vuoi dire per la situazione attuale che la crisi è diventata permanente. Dal punto di vista di una teo­ ria della nostra epoca, questo significa che l'intervento dei poteri extraeconomici è ]'elemento caratteristico della no­ stra quotidianità. Tenendo conto dell'intervento perma­ nente dei poteri extraeconomici nel complesso della so­ cietà industriale, il dominio, oggi, non appare, forse, come un fattore autonomo, che non è possibile considerare esclusivamente nei termini di una funzione del motivo del profitto? Rispetto a questa costellazione, non è che persino J'attuale ricerca del profitto si può rivelare come una va­ riante del dominio? La tesi classica del marxismo, in cui si sostiene un capovolgimento nell'irrazionalità del capitali­ smo «razionale>> nella sua fase tarda, non si può accentua­ re, alla fine, ed affermare che solo questa irrazionalità ri­ vela totalmente la ratio del capitalismo, il dominio? Quando Marx, nel 1 857, nel suo «abbozzo>> di Introdu­ zione, ha cercato di dare una descrizione complessiva della società capitalistica, si è inoltrato fino ai limiti estremi del­ la sua organizzazione e ha riconosciuto proprio in essa l'ul­ tima barriera della produzione capitalistica. Nel processo capitalistico di produzione i mezzi tecnici del lavoro passa­ no attraverso «diverse metamorfosi, l'ultima delle quali [ ] è un sistema automatico di macchinari>>. Marx ritiene che il modo capitalistico di produzione, attraverso lo sviluppo della tecnica e dell'industria, lavora alla sua stessa dissolu­ zione. Infatti, .24 Con il progresso tecnologico, o meglio, con l'applicazione della scienza e della tecnologia alla produzione, quest'ultima, che si basa sul valore di scam­ bio, va in rovina. Marx crede che il processo immediato di produzione si libera autonomamente della forma del biso­ gno e dell'opposizione. Considera lo sviluppo tecnologico ...

..

24 K.

Marx, Gmndrisse der Kritik der politi.�chtm ÒkonomU>, cit., pp. 592s. [ tr. i t. cit., pp. 7 1 6s.].

292

c ll'lle forze di produzione come un fattore esplosivo della società capitalistica. Per il modo capitalistico di produzio­ l l t', infatti, l'industria e la tecnica sono solo mezzi «per pro­ c lurre a partire dalla sua base limitata». In realtà, però, la tecnica e l'industria sviluppano le condizioni materiali per .. litr saltare in aria»25 il modo di produzione capitalistico. Marx deve ammettere che, con lo sviluppo della tecnica e c lcll'industria, il problema dell'organizzazione sociale non si può più porre in base alla chiave interpretativa della so­ l 'ictà dello scambio. Ma, una volta eliminato il velo dell'e­ mnomia, la violenza può camuffarsi prendendo forme isti­ t uzionali e burocratiche e, attraverso nuovi meccanismi, può interiorizzare il dominio. Non appena le condizioni ist ituzionali del dominio vengono interiorizzate, le polariz­ t.azioni economiche possono essere appianate e gli antago­ uismi latentemente presenti nei dislivelli economici posso­ Ilo essere eliminati, senza che la violenza, come marchio di­ si intivo della preistoria, venga soppressa. Nel discorso del I H56 e nell'hilmophie wul tlil' J•ìug•· ua> - insomma, «Uno sforzo contro il corso del tempo per la conservazione dell'amor proprio e della con­ sapevole-au tostima dell'uomo>> .41 Perché l'uomo ormai ma­ turo perda il vizio della sua «autostima>> , in quanto indivi­ duo - «quel parto del XVI secolo, che l'Ottocento ha alleva­ tO>> (Hof mannsthal)42 - Gehlen deve ricorrere alla differen­ za tra «uomo primitivo>> e «tarda cultura>> , una formula, questa, tipica del suo linguaggio che, se applicata al nostro problema, si può trasformare nella differenza tra «cultura primitiva>> e «presente>>, Gehlen si vede posto di fronte al «nuovo compito>> «di dedurre le isti tuzioni, ormai au tono­ me e resesi indipendenti dal singolo, dalla natura dell'uo­ mo [... ]. Gli stessi ordinamenti, dunque, che gli uomini ge­ nerano tra di loro, nel loro agire e nel loro pensare, si ren­ dono autonomi e si trasformano in una potenza, che fa va­ lere le sue stesse leggi fin dentro ai cuori>> .43 Solo una cosa minaccia la forza delle istituzioni. n pericolo per essa è da­ to dall'esigenza che l'uomo ormai maturo rivendica. La più dura critica di Gehlen, dunque, si rivolge contro l'esigenza del soggetto che non si è ancora completamente votato alle istituzioni. Egli pone in maniera così assoluta il sistema di dominio, che è costretto a rif iutare, come affermazione ro­ mantica, la questione portata avanti da Weber, e cioè cosa abbiamo da opporre a questo meccanismo, perché un resto di umanità rimanga libera dall'assolutismo dell'ideale bu­ rocratico. «Chi si immedesima "anima e corpo" nel suo sta­ tus, non ha altra scelta che lasciarsi consumare dalle istitu40 lbid. 41

lbid.

42 lvi,

H Id.,

p. 2 1 7.

U1·men.fch und Spiitkultur, Bonn la tarda cultura, Milano 1986, p. 14].

1 956, p. 9 [t.r. it.

300

/.e origini dell'uomo

e

zioni vigenti, al di fuori di esse non trova alcun appiglio a cui potersi aggrappare. Questa è una virtù quasi del tutto assente nella nostra epoca, in cui i "soggetti" sono perma­ nentemente in rivolta contro le istituzionÌ > .44 Se Marx ha parlato di ••annientamento dell'estraneità>>, con cui gli uo­ mini dovrebbero porsi in rapporto al loro prodotto, se ha discusso del f atto che cela sua stessa azione ha reso l'uomo una forza a sé estranea, che gli si oppone, e lo sottomette, invece di essere lui a dominarla>>, se sostiene che gli uomi ni devono dominare lo scambio, la produzione e i modi del lo­ ro comportamento reciproco, egli, allora, secondo Gehlen, è preso dall'illusione di un possibile superamento dell'alie­ nazione, di cui Gehlcn ha tracciato la storia in un saggio mo lto istruttivo, ma anche altamente traditorc.45 L' aliena­ zione costituisce consapevolmente il fondamento della sua teoria della società. L'affermazione fondamentale di Rous­ seau , Fichte, ma anche di Hegel - e cioè, che l'uomo può arrivare a sé solo superando gli altri uomini - in Gehlen si inasprisce nelle seguenti parole: l'uomo può mantenere un rapporto continuativo con sé e con il suo simile solo in ma­ niera indiretta. egli deve ritrovare sé stesso per vie traverse a lienandosi. Queste vie passano attraverso le istituzioni, ma la perdita e il recupero dell'uomo attraverso le istituzioni, per Gehlen, si compie grazie a un rituale sacrificale molo­ chistico. Di proposito egli afferma: ccCosì almeno gli uomi­ ni vengono bruciati e consu mati dalle loro stesse creazioni c non dalla brutalità della natura, come gli animali. Le isti­ tuzioni sono g randi ordinamenti e fatalità, che proteggono c consumano , c sopravvivono di gran lunga alla nostra esi­ stenz a, all'interno delle quali gli uomini si introducono con­ sapevolmente».4(i Gli uomini non vengono consumati e bru­ dati solo ad Auschwitz e Hiroshima, bensì il rituale sacrifi­ cale è permanente. Il caso di eccezione conferma solo la re­ gola. Il f atto che l'uomo sia un essere sto rico, per Gehlen, vuoi dire solo che ccdeve farsi consumare>> dalle isti tuzioni. 11 1:'

lvi, pp. 233s. [lr. Id.,

il. cit.,

Sozialphilosophie», Vol. l"

p. 222].

Die (;ehurt der Freiheit mls der Hntfi1'mdttng, in

h•i, P· �52.

40, 1952/ 5�.

301

«Archiv

fùr Rechls- und

La fantasmagoria dell'inferno, da Benjamin esaminata ri­ spetto al XIX secolo, ma alla fine respinta, trova una sua collocazione soltanto in Gehlen: solo nella fantasmagoria della cultura industriale la correzione di Adorno all'imma­ gine di Benjamin funziona: non è l'anello di Saturno che dovrebbe trasformarsi in balcone di ghisa ma, viceversa, quest'ultimo dovrebbe trasformarsi nel vero anello di Sa­ turno.47 In questa fantasmagoria «la finzione della libertà e dell'au todeterminazione» si può «sopportare più facilmen­ te delle altre••, perché nella «seconda natura•• della società industriale le «idee e i sentimenti adottati> • possono «essere vissuti come propri . Non mi farebbe nessuna fatica••, affer­ ma Gehlen, «immaginare una società di termiti in cui ogni individuo senta di essere libero• •.4" Con u n capovolgimento beffard o dell'affermazione hegeliana, secondo cui la so­ stanza è essenzialmente soggetto, il soggetto e l'oggetto, in Gehlen, sono diventati uno. Ogni critica di Gehlen, però, naufraga di fronte a u n'o­ biezione, e cioè: nella sua teoria delle isLituzioni non viene descri tto, in realtà, un processo di storia naturale? In que­ sto senso, allora, egli non è un erede di Marx , proprio per il fatto che concepisce la struttura e la storia delle forma­ zioni sociali come u n processo di storia naturale? Almeno per quanto riguarda il metodo, l'analisi delle istituzioni por­ tata avanti da Gehlen e l'analisi economica di Marx sem­ brano prendere le mosse da u n'unica premessa. Ma l'appa­ renza inganna. Quando Marx, infatti, descrive il corso del­ la formazione economica della società come un processo di storia naturale, l'espressione «processo di storia naturale••, in lui, ha una sua ragion d'essere fondamentalmente ironi­ ca. La legge dell'accumulazione capitalistica che Marx de­ scrive, è una legge posta dagli uomini e il suo ordinamento dai dominanti. La legge dello sviluppo che caratterizza la formazione economica della società è una legge mistificata nella forma di una legge naturale. Come natura, intesa, cioè, come qualcosa di imprescindibi le, sembra esistere so47 Cfr. la lettera di Adorno a Benjamin del 2 agosto 1935, in W. Benjamin, Briefe 2, ci t., P· 679 [ tr. i t. cit., p. 302]. �·A. Gehlen, Uber kulturelle Evolutionen, ci t., p. 218. ..

302

lo nel caleidoscopio in mano dei dominanti, per cui, a ogni rotazione, tu tto ciò che è stato disposto per un nuovo ordi­ namento, va i n rovina. Marx descrive il processo dell'eco­ nomia capitalistica, così come lo immagina nel caleidosco­ pio dei dominanti. «l concetti dei dominanti sono sempre stati lo specchio grazie al quale si è formata l'immagine di un "ordinamento"».49 Il punto culminante della sua analisi sta nel fatto che ciò che deve essere mandato in frantumi è il caleidoscopio stesso. In Gehlen, invece, la tesi secondo cui la formazione della società sarebbe un processo di sto­ ria naturale, si trasforma in una legge biologica. Mentre Marx nell'espressione , in Gehlen non c'è più, e le tenebre della natura dominano definitivamente. IV

Emancipare vuoi dire ricondurre la condizione umana a ll'uomo stesso. Certo, per la società industriale, se pren­ diamo alla lettera le parole dei suoi apologeti, ha una sua importanza l'alienazione, ma non l'uomo. Da essi, tuttavia, bisogna imparare a conoscere dove si è spostato, oggi, i l campo di battaglia per l'emancipazione: e cioè dal campo dell'economia, studiato da Marx, all'intreccio tra dominio e profitto presente nelle i stituzioni, da indagare, però, solo in termini marxisti. Non è un caso, quindi, se oggi gli studen­ ti parlano della lunga marcia attraverso le istituzioni. La lunga marcia del grande esperto della lotta rivoluzionaria dei nostri giorni che, dal sud della Cina, è arrivato fino ai confini con la Mongolia, è ancora un evento di guerra na­ zionale. Ma l'alleanza tra filosofia e partigiani apre u na possibilità di lotta proprio all'interno della stessa cultura industriale per l'emancipazione dell'uomo dalle sue istitul!t W. Benjamin, Zenlralpark, in Jd.,llluminalimum, Frankfurt a.M. 1 961, p. 265.

303

zioni: questo è il segreto del xx secolo e della sua possibile rivoluzione. Il problema del rapporto tra emancipazione tecnologica e società si trasforma, per noi, oggi, nel problema del pas­ saggio dall'emancipazione tecnologica all 'emancipazione umana. Se della tecnica si dice che essa non va intesa come «il prodotto di uno sforzo umano volto al potenziamento della forza materiale, quanto piuttosto come un processo biologico», e cioè come un processo metaumano, che pro­ prio in quanto tale sfugge al controllo degli uomini, questa allora, anche se difesa dall'autorità di un fisico, risulta, nel senso più stretto della parola, una feticizzazione. Visto che l'emancipazione tecnologica ha potuto giungere a compi­ mento, e gli uomini vengono nondimeno bruciati e consu­ mati dalle loro stesse creazioni, v isto che essa ha potuto giungere a compimento, e le istituzioni della società indu­ striale hanno nondimeno consumato gli uomini secondo la legge di un rituale molochistico, dove essi si recano a occhi aperti, ne segue allora che l'emancipazione tecnologica non è l'emancipazione umana. Non è molto che siamo usci­ ti dalla storia per entrare nella poJthiJtoire; eppure siamo an­ cora profondamente arenati nella preistoria, ove viene ce­ lebrato il rituale sacrificale delle istituzioni. Con questo ri­ tcrimento alla storia delle religioni non tras(()rmiamo i pro­ blemi terreni della società industriale in problemi teologici; se sull'esempio dei mitologemi della teoria della società in­ dustriale facciamo vedere l'apparenza di questa teoria, che il fenomeno della società industriale riflette, convertiamo piuttosto questi in quelli.'' 0

A

ragione Gehlen f(mda l'origine della cultura nel rito. La cultura - come è possibile affermare a partire da Gehlen ancora più chiaramente di prima - è nata al servizio del ri­ tuale, prima magico, poi religioso. La sua fondazione è nel rituale, in cui essa «ha avuto il suo primo e originario valo­ re d'uso».' '1 Pur potendo essere ancora mediata in questo modo, continua a essere «riconoscibile come un rituale se''"Cfr. K. Marx., lur.JudrlljirJgt', in Id., Die Friiksrh1"ijtm, dt. ftr. it. La Tlf ebmira, dt . p. 54]. ···• W. Bc1�jamin, Da.� KunslwPrk, Srltrijien l, p. �74 [tr. iL cii., p. 21ì[. ,

304

IJlU!J(ÙJ·

colarizzato ••, persino nelle forme e manifestazioni più pro­ fane. Un compito sarebbe quello di fare in modo che l' ele­ mento del rituale sacrificale si affermi anche nella cultura. Proprio la cultura industriale moderna, infatti, in quanto costruzione, per la prima volta nella storia universale della sua «esistenza parassitaria nell'ambito del rituale••, si eman­ cipa in illo tempore dalla ripetizione mimetica. Al posto del­ la sua «fondazione nel rituale•• subentra oggi, come afferma Uenjamin in un passo decisivo, 53 in cui l'origine sia stata esautorata del suo potere, vuol dire mobilitare tutta la forza dell'Acheronte per annullare proprio questa storia. La storia non è solo un progresso nell'ambito del dominio della natura, un restare all'interno dei limiti della natura, ma una trasformazione dell'uomo stesso. Già ,

7-10).

Nessuno può sal vare ed estirpare quelli che vengono dall'Egit­ to, vale a dire dal c orpo e da questo mondo, a parte il Serpen­ te perfetto e colmo di pienezza. Chi ripone in ciò la sua spe· ranza viene morso dai serpenti del deserto, e cioè dagli dèi del 1:1

Manusniuo di H. Blumenberg. p. 27.

321

divenire. Nel libro di Mosè è scritto che questo serpente è la potenza che ha seguito Mosè, il bastone trasformato in ser­ pente. Alla potenza di Mosè in Egitto si sono opposti i serpen­ ti degli incantatori, gli dèi della corruzione. Ma tutti li ha vinti e mandati in rovina il bastone di Mosè. Il Serpente universale è il discorso saggio di Eva. Questo è il segreto di Edem, questo il fiume che proviene da F.dem, questo il segno impresso da Caino, secondo cui chiunque lo incontri, non lo uccide. Que­ sto è Caino, di cui il Dio di questo mondo non ha accettato il sacrificio, avendo accettato, invece, quello di Abele, macchiato di sangue. Il Dio di questo mondo, infatti, gioisce per il san­ gue. Questi è colui che negli ultimi giorni all'epoca di Erode è apparso in forma di uomo . . . 1 4

Ester iormente l'inter pretazione gnostica dell'Antico Te­ stamento procede come un midrash r abb inico. Ma l'inter­ prt!tazione pneumatica dell'allegoresi gnostica avanza se­ guendo un senso profondo che ribalta il primo significato dell'or iginale biblico. La comprensione «spir ituale>> della Scrittura si oppone a quella «carnale>>. Ma con i riferimenti al r acconto biblico l'allegoresi g nostica intesse un nuovo mito. Negli estratti degli ofiti tr amandati da lrcneo, in cui si tr atta del r uolo di Sophia, si affer ma (Adver.çus haereses l, �0.7) : Ma la loro Madre pensò di sedurre Eva e Adamo per mezzo del serpente e di far trasgredire il comando di Ialdabaoth. Eva, quasi che udisse ci1 i da lla rivelazione monoteistica e dalla sua inter pretazione rabbinica . l .'i nter pretazione dominante della g nosi tardoantica del­ la scuola di Bultmann prende per oro colato il sentimento t l i estra neità dalla storia che car atter izza la gnosi, oppure, a partire dall'idea di un'intima affinità ermeneutica (subor­ dinata alla lenomenologia assoluta e astor ica di Husserl e ;IIJ'indag inc analitico-esistenz iale heideggeriana dell'Esser­ ci), legge l'indice astorico [ageschichtlich] delle affer mazioni �nostiche da un punto di v ista non-storico [ungeschichtlich], ,·aie a dire fenomenolog ico. Ma anche la neg azione g nosti­ ca della storia è sorta in una determinata costellazione sto­ rica. Più for te è la perdita della realtà, più intensa diventa la coscienza negativa del mondo e del suo creatore c tanto più resta nascosto il mistero della redenzione. Per un'inter­ pre tazione della storia della g nosi mi sembr a importante ri­ corda re il nesso tra questa c l'apocalittica. In ta l modo è possibile comprendere come e perché il sapere sulla fine apocalittica e sulla redenzione si trasfor mi; come, a deter­ l l l i nate condizioni storiche, esso possa dar luogo alla for­ lllazione di una gnosi estranea alla storia che supera le con­ dizioni che hanno reso possibile la sua nascita. Nella gnosi, la stessa negazione della storia va compresa in ter mini sto­ ri ci . 1 x Sembra che questo sia uno dei modi in cui gr uppi 's C l'r. C. Colpe, M_vJti.srh.P und rPligioJI' Aus.�agf a ujJerhalb und innl'rhalb des Ch· ' i .• tf•nlu11�5, in Reitriil(l' z:u1· TlmniP des neuz.eitlich1'11. Christentum.5, a cura di HJ. l\ i rker l' D. Riisslt•r, 1\crlin 1 96R, pp. �Os.

325

ebr aici e cristiani abbiano reagito al ritardo della parusia. Dalla par usia cosmica e storica, l'accento si sposta sul fatto che Dio entr a nell'anima del singolo. Con l'aper tura alla soggettività la scena per la mitologia g nostica è pronta. Bisogna comprendere più a fondo questo spostamento di accento che av viene nel passaggio dall'apocalittica dell'e­ br aismo delle origini e del primo cristianesimo alla g nosi: l'apocalittica si basa ancor a su una storia della salvezza ge­ ner almente accettata nell'ebr aismo, in cui si riassume la sto­ ria di Israele. L'apocalittico pensa all'intero corso della sto­ ria dall'inizio alla fine - descrive la storia dell'elezione a par tire dalla fine. La sua visione ha il car attere di una rive­ lazione escatologica anticipata. Lo gnostico descrive i l viag­ gio dell'anima verso la redenzione attraverso un rnediurn in cui il marchio del tempo viene eliminato. Sembr a che la g nosi for muli l'anti tesi apocalittica di entr ambi gli eoni, quello di questo mondo e quello del mondo futuro, del do­ minio delle tenebre e della luce, senza accento futurista. Lo schema storico dell'apocalittica va -i n fr antumi di fronte al­ la delusione nei confronti di tutte le scadenze databili in senso tempor ale, e dà inizio a un ripiegamento verso l'inte­ riorità. La g nosi, almeno in par te, è apocalittica nella crisi del suo elemento futurista - una crisi che, all'inter no del cristianesimo, por ta, da un lato, a una spiritualizzazione al­ legorizz ante dell'escatologia nella gnosi or todossa o eretica, dall'altro, alla sacr amentali tà della chiesa che anticipa la fi­ ne, facendosene g ar ante . 19 Il ritir arsi dalla storia riduce il dramma della redenzione all'interiorità dell'uomo, all'ani­ ma, allo spirito, al pneuma. Contro l'inter pretazione corrente della g nosi, ho cercato di sostenere la tesi secondo cui la g nosi tardoantica r appre­ senterebbe una crisi della stessa religione monoteistic� ri­ velata, in cui viene messa in dubbio la dottrina del Dio crea­ tore oltremondano. Il problema intorno a cui scoppia la protesta della gnosi e che la dottrina monoteistica della creazione e dell'onnipotenza di Dio lascia irrisolto, era quello dell'origine del male nel mondo. Naturalmente la Hl Cfr. R. M. Grant, Gno.sticism and t.àrly Christianity, New York 1 959, pp. 27s. [tr. it. (;no.sticismo e criJtianesimo primitivo, Bologna 1976, pp. 40s.].

326

domanda «unde malum?» non offre un indice sufficiente per cogliere lo specifico del mito g nostico. Comune a tutte le mitologie gnostiche, però, è l'indirizzo del malum: e cioè, il Dio degli ebrei. Iao, Sabaoth, Adonais e Eloaios entr ano in gioco innanzi tutto come nomi di arconti. Ma ancor pri­ ma emerge dalla serie degli arconti Ialdabaoth, che è Dio de­ gli ebrei (Epifanio, Panarion haeresium 37,3,6). Il creatore del mondo affer ma di sé stesso: ego fJater et dew et .mper me ne­ mo. Ma allo stesso tempo, nel mito g nostico, il dominatore del mondo e suo demiurgo viene istruito con le seg uenti parole: noli mentiri Jaldabaoth, eJt .mper te pater omnium pri­ mus Anthropus (lreneo, Adversu,ç haereses I , 30,6). La strategia del mito g nostico resta sempre la stessa: per ricostituire l'unità mitica, per superare i limiti che la dottri­ na della creazione pone tra Dio e uomo, bisog na combatte­ re contro il Dio creatore del Genesi: il mito politeistico del­ l'antichità non poteva tener testa all 'esperienza della tr a­ scendenza, di cui parla la rivelazione biblica. Essa doveva es­ sere super ata. Questo accade nel mito dogmatico della gnosi . Il Dio oltremondano, degr adato a Demiurgo, lascia spazio al Dio contro-mondano, che possiede il suo correla­ to nel pneuma, nel Sé dell'uomo. Prima dell'incontro con la religione monoteistica rivelata, prima dell'esperienza della trascendenza, come limite tr a il Dio creatore e la creatura, una simile str ategia del mito gnostico non sarebbe stata né possibile né necessaria.

327

15. DI CA DUTA IN CA DUTA UNA RIFLESSIONE G NOSEOLOGICA SULLA STORIA DEL PECCATO ORIGINALE

A part ire dall' Einleitung in die Gei.çteswis.çenschaften di Dil they, il prog ramma di una «critica della ragione storica» s t a all'ordine del g iorno della rif lessione f ilosof ica. Il titolo del prog ramma - da Dilthey a Heidegger - si riallaccia con­ sapevolmente alla triplice forma della critica kantiana. Per Kant, infatti, er a in gioco in primo luogo una g iustificazio­ ne della conoscenza. Quello che nella sua teoria, ancora tradizionale, delle «facoltà » è suddiv iso in tre parti (una cri­ t ica della «ragione pura», una della «ragione pratica», e una «critica del g iudizio»), nel prog ramma di una «Critica della ragione storica» v iene ricongiunto. Questa quarta non è.� pensata come appendice, ma come somma delle altre tre limne di critica esposte da Kant. Su questo si può fare riferimento allo stesso Kant, quan­ do, quasi sotto forma di un catechis mo, formula così il pro­ blema dell'unità delle tre critiche: «Ogni interesse della mia rag ione (tanto quello speculativo, quanto quello pratico) si condensa nelle seguenti tre domande: 1. Cosa posso sapere? 2. Cosa devo fare? 3. Cosa posso sperare?» Queste tre domande caratterizzano l' uomo non come es­ sere naturale, bensì come persona storica, come «cittadino del mondo». Tanto che la triplice domanda, «in una pro­ spettiva cosmopol ita», può essere così formulata da Kant: 11 campo della f ilosof ia in una prospettiva cosmopolita può far sorgere le seg uenti domande: l . Cosa posso sapere? 2. Cosa devo fare? 3. Cosa posso sperare? ..

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4. Cos'è l'uom o?•• !:ultima questiont\ che definisce il campo della fi losofia «in una prospettiva cosm opolita••, non è leg ata alle prece­ de nti. Le riassum e, ti ra le somme della rif lessione kantiana, «perché le prime domande fanno riferimento all'ultima••. Il

Il fatto che Kant abbi a dato inizio alla sua enorme opera delle tre c ritiche sotto la costellazione dell'illuminismo, non è ri masto p rivo di conseg uenze per la sua im presa. Collocarsi in questa costellazione voleva dire portare avan­ ti l'attività critica di una giustificazione della conoscenza, e cioè la vittoria dell'illuminism o sull'ortodossia (protestan­ te), la quale riconosceva nelle testimonianze della Bibbia la verità rivelata condensa ta nella «Scriuura»; ma allo stesso tempo sig nificava avere dogmaticam ente dei presupposti. La giustif icazione kantiana della conoscenza affonda le sue radici nella m em oria religiosa. Alcuni suoi residui tra­ spaiono ancora e ha nno giustamente suscitato l'ira del pub­ blico illuminato, insom ma della religione degli eruditi del suo tempo. Tra questi c 'è la teoria del «male radicale ••. Nel 1793 Goethe scrive a Herder a proposito della Religion innerhalb der Grenzen der bloften Vernunft che anche Kant si sarebbe «empiamente sporcato il mantello filosofico con la macchia del male radicale, dopo aver passato tutta la vita a ripulirlo dalla lordura di vari pregi udizi, al punto tale che persi no al­ cuni cristiani vorrebbero baciare il suo orlo». In effetti, Kant mostra un volto da Giano. Da un lato ha coniato nella lingua tedesca l'espressione «Fortschritt.••, «pro­ g resso», e l'ha trasmessa alla filosofia della storia posteriore fino a Hegel e Marx. Persino la formula secondo cui la sto­ ria sarebbe un «progetto della ragione •• è da individuare già in Kant e con ciò è stata preventivamente coniata l'espres­ sione hegeliana della «ragione nella storia». D'altro lato, nessuno prima o dopo Kant ha mai delineato con così tanta chiarezza i limiti della ragione, sia dal punto di vista specu­ lativo, sia da quello pratico. Egli definisce il limite della co330

uoscenza anche nella prospettiva di una f ilosofia della storia, quando si chiede: > della critica di Kant definisce anche il nostro concetto di storia), ci non si cietermina a partire dall'idea che ogni epoca sia «in imme­ diato rapporto con Dio>> , La storia non è «in immediato rapporto con Dio>•; e neppure nessuna delle sue epoche. La storia è il racconto dell'ottavo giorno della creazione, cioè il racconto della caduta di Adamo, e del mondo che com­ prende tu tto ci() che questa caduta è st ata cd è ancora. L'Io del narratore, che vive in un «presente>• , ma che i n realtà, nell'assalto della storia, viene spinto d a un punto­ ora all'altro, in un «ora•> momentaneo evoca un'immagine del passato, che con il punto-ora (come punto di vista pri­ vilegiato) minaccia già subito di scomparire. Articolare il passato storicamente, dunque, vuoi dire mettere in atto una perenne «evocazione dei morti>> attraverso un Io sospinto da un «ora>> all'altro e, alla f ine, mortale. Se la teoria di Kant sull ' «idealità>> del tempo, non solo sull' «idealità>> del tempo naturale, ma in maniera ancor più evidente su quella del tempo transnaturale, e cioè del tem­ po storico, viene concepita, alla fine, in termini gnoseolo­ gici, ogni evento storico si rivela essere costitutivamente una creazione del Sé, in cui l'Io stabilisce un appuntamento t ra un presente irruente e un passato che presto svanisce. Walter Benjamin definisce «costellazione>> questo appunta­ mento tra un presente di volta in volta mutevole e un pas-

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sato ben definito, ma che presto svanisce. L'apparenza sto­ rica produce un'immagine eter na del passato, cerca di con­ gelare ogni «allor a» in un immutabile in atto possiede sempre preventivamente, per il passato corrispondente, il momento della presentificazione. Questa comprensione media del tempo e della tempor alità attribuisce all'espe­ rienza comune della storia un 'indiscussa evidenza. E ssa ca­ r atterizza lo schema della narrazione storica di impor tanti opere e costruzioni di filosofia della storia a par tire dall'il­ luminismo. Una «critica della r agione storica>> dovrebbe scardinare questa comprensione media del tempo e della tempor alità che car atterizza la narrazione della storia. Le diverse versioni della storia non possono r accontare un fat­ to ••come è stato veramente>>, non arriver anno mai all' «evento in sé>>, ma si muovono già sempre sul terreno dei fenomeni, hanno le loro r adici nel par ticolare stato del soggetto conoscitivo, nel suo «qui ed or a>>, Insomma, pro­ prio la scienza della storia, di cui Marx sostiene che sia «l'unica scienz a>> , non è priva di presupposti; al contr ario, essa por ta il peso di un fondamentale presupposto che è stato progressivamente oscur ato nella disputa tr a «illumi­ nismo» e ••ortodossia>> e nella conseg uente vi ttoria «stori­ ca>> dell'illuminismo, che caratterizza anche il testo di Kant 334

i ntitolato Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltburgerli­

cher Absicht.

Contro ogni moder no concetto di storia c'è il macig no del r acconto biblico del peccato originale. Il narratore bibli­ co pone fin dall'inizio Adamo come immagine di Dio nello status integritatis del Paradiso; da questo stato originario, soltanto, segue la caduta e un intreccio sempre più profon­ do con la colpa, che si propag a di caduta in caduta fino al Giudizio Universale. Se d'or a in poi, per una definizione gnoseologica del concetto di storia, richiamiamo alla mc­ moria il primo capitolo del Genesi, così fac endo, non ci pre­ figgiamo di seguire un'inter pretazione biblica, ma non vo­ gliamo neppure porre alla base della nostra rif lessione la Bibbia come testimone «oggettivo» della verità rivelata. Il nostro scopo, piuttosto, è quello di mostrare quanto sia pos­ sibile ricavare dal primo capitolo del Genesi, così com'è, ri­ spetto alla storia. Non ci ser viamo del racconto del peccato originale per ••speculare•• , come fa Kant, sul presunto inizio della storia dell 'uomo. Per noi, piuttosto, è importante soltan­ to perché in quanto racconto - è una storia sulla storia stes­ sa. Il concetto moderno di storia - in for ma nascosta o con­ sapevole - ha preso posizione contro i presuppos ti del r ac­ conto biblico. Il r acconto del peccato originale ha inizio nel momento in cui l'oper a di creazione, dur ata sette giorni, è compiuta. La storia della creazione prima del peccato originale non descrive ancor a alcun evento nel tempo. Qui, qualunque cosa contenga un indice tempor ale, proviene dalla pro­ spettiva successiva al peccato originale. L'inizio della storia è separ ato dal racconto sui sette giorni della creazione e in­ troduce l'ottavo gior no. Della creazione di Dio si dice che è rma di Humboldt all'ombra del ••Proget­ to di sistema>> di Hegel, Holderlin e Schelling, dall'altro, nel nostro secolo, la ri forma sulle orme della Wissenschaft als Ben�{ di Weber. Una volta p resi in considerazione questi due momenti focali della ri flessione scientifica tedesca, tutte le chiacchiere sul carattere elitario della scienza tede­ sca credo vengano smentite. Ciò mostra anche come la nuova congiuntura del concetto di élite i n am bi to scie nti­ fico sia occupata a introdurre metafore mitiche o si unisca alla loro comp arsa. Sarà al corrente del fatto che un anno fa l'éli te, come grido di battaglia e come p roposta di rifor­ ma, ha ricop erto un ruolo importante per la sci enza tede­ sca nella fase fondativa del Collegio Scientifico. Sono stato tirato in ballo, spinto nella discussione e ho preso una po­ sizione, perché, secondo me, si intravedeva il pericolo che l'idea di p er sé grandiosa di un Collegio inteso come co­ muni tà di ricercatori venisse a trovarsi nel fuorigioco di una concezione elitaria. Quando ho valutato più p recisa­ mente, nel loro valore metaforico, i testi attorno a questa questione, quando ne ho percepi to tutto il significato me­ taforico, e tutto quello che, anche al di là delle tesi espres­ se, comunicavano, mi sono accorto che qui si evocavano metafore mitiche, come quella degli eroi ; e, se p osso farlo notare con una certa eccitazione - ma, forse, posto sotto una luce più forte il problema diventa più chiaro - in tutto questo ho visto una ret•anche della scuola di George - di cui il rappresentante accademico più importante è stato Frie­ drich Gundolf e che il rettore del Collegio Scientifico, Pe­ ter Wap newski, ha evocato come suo teste p rincipale. I n 342

tutto questo, dunque, ho visto una revanche della scuola di Georgc contro Max Weber. Se si parla della Heidelberg de­ gli anni Venti, la tensione tra il circolo di Max Weber e i se­ guaci accademici di George è di certo l'evento più interes­ sante. Questa è l'ellissi attorno a cui si costruisce la Hei­ delberg dell'epoca precedente alla Grande Guerra, prima del 1 9 1 4 e dopo il 1 9 1 8. La normale vita accademica ha se­ guito il suo corso naturale a ogni livello. Ma sono stati questi due punti focali a fare di Heidelberg un luogo straordinario. Non so se Lei conosce il motto del circolo di Wcber, frequentato anche da Lukacs e Bloch - e cioè, quat­ tro sono gli evangelisti: Matteo, Marco, Lukacs e Bloch! C'era un'atmosfera apocalittica - e la parola «apocalisse» in bocca mia è qualcosa di positivo - un'atmosfera tesa, in cui si è combattuto per posizioni e decisioni ultime, per ciò che è all'ordine del giorno nella scienza. Credo che, senza offuscarne altri, si possa dire che in questi due modi di fare scienza ad Heidelberg, l'Atene tedesca degli anni immediatamente precedenti e successivi alla prima guerra mondiale, che in questa Atene tedesca, dunque, si lottava per il concetto di scienza, una scienza democratica oppure una scienza eroizzante, caratterizzata da un'immagine eroi­ ca. E se si riflette su questo punto, se ci si rende conto di questo aspetto, la v isione eroizzante della scienza che cir­ colava nel circolo di George, allora, consisteva nel trasferi­ re allo scienziato il modello del poeta che deve essere «creativo••. Ma la menzogna sta proprio nella parola «crea­ tivo»! Come se nell'uomo ci sia qualcosa di creativo, nel senso che non viene più creato, ma che è, per così dire, creante, come l'eroe, mezzo Dio e mezzo uomo. Ciò non ri­ guarda solo i medici, che girano per il mondo come «Se­ midei»- un'incarnazione parodistica del concetto, di que­ sta idea di creazione divina. E , quando ho avuto l 'impres­ sione che simili metafore eroizzanti stavano per introdursi nella concezione della scienza che andava applicata al Col­ legio Scientifico, ho preso una posizione, anche se questo fatto ha creato una certa tensione tra me e Peter Wapnew­ ski, con cui ho un rapporto di amicizia addirittura dal dif­ ficile periodo degli anni Sessanta. In questo punto, infatti, mi sembrava che fosse in gioco ùn problema di principio 343

tale che non potevo o non volevo nascondere in una que­ stione personale. Nel frattempo, credo di poter dire che la prassi del Col­ legio Scientifico è senza dubbio migliore della teoria che gli era destinata o che si pretendeva da questo, tanto che tra i suoi partecipanti, c tra il Collegio Scientifico stesso c l'Uni­ versità, si è consolidato un rapporto demi tizzato. Ma sareb­ be un errore credere che per amor di pace si sarebbe dovu­ to nascondere il problema fin dal l'inizio. Resto piuttosto

dell 'avviso c ritengo che ne sia valsa la pena c, se ci com­ porteremo ragionevolmente l'uno con l'altro, risul terà che il Collegio Scientifico, inizialmente progettato da Peter Glotz, non verrà risucchiato dalle forti correnti elitarie che dominano nella Repubblica Federale. Il motivo per cui l'élite è ridiventata attuale, è dato, cre­ do, dalla c risi di orientamento della scienza. La scienza, og­ gi, non si svolge più con la stessa nat uralezza di trenta o quarant'anni f�t, quando ci si poteva aspettare solo qualcosa di buono, quando la ricerca scientifica era naturalmente connessa al progresso. Per noi, invece, il progresso include un grande punto di domanda: progresso verso dove? pro­ gresso per che cosa? Questioni del genere sorgono sempre più spesso e l'intero progetto scientifico, vale a dire la scien­ za come progeuo, oggi, è gravato da un pesante punto in­ terrogativo. Ed è per questo che, proprio in un momento si­ mile, da una parte proviene la seguente risposta: dovete pie­ garvi, dovete fare solo il tentativo di imi tare, di dare ascol­ to al creativo presente nell'uomo. Jo: poi ci sono gli altri, quelli che chiedono: creazione per che cosa? Chi crea che cosa, e per chi? I nsomma, al di là delle metafore e della congiuntura del vocabolo «élite», sono in discussione, ·qui, problemi molto seri - vorrei dire le più serie questioni che riguardano la nostra autocomprensione.

Ma qui non si tratta soltanto del problema di restaurare un roncello di scienw, che forse non può più garantire autonoma­ mente l 'idea di progres.m cmì come poteva essere rivendicata, sia da parte positivista, sia da parte marxista, nel senso di un pro344

gresso scientifico e allo stesso tempo sociale. Nell 'ambito della scienza e della sua cri.fi - del progres.m inteso come un altro pas­ so avanti dell 'uomo! - .si pone chiaramente il problema del conso­ lidamento e della rivalutazione di determinate immagini del mondo. Se la premena è giu.fta, que.sta, dunquf., potrebbe essere una discussione che arriva a tocr.are il dibattito sulle prt�domi­ nanti concezioni dei valor� sulle norme fondamentali per la so­ r:ietà. Q)lali .sono, allora, le immagini del mondo che .� i celano die­ tro queste posizioni alternative? Si parla molto di élite di ricerca­ tori, élite di scienziat� ma è chiaro che ron ciò si pensa a una roncezione di élite che superi di gran lunga l'a,çpetto meramente st:ientifico. Per citare un po ' quello che ha detto a que.sto proposito Wapnrwski, si potrebbe dire che qui si tratta di coloro che fanno parte dell'élite dei ricercator� che «COn stile, ron gusto e sovrana rondotta di vita, risvegliano negli altri l 'irrifrenabile desiderio di Pssere come loro». Se ci si interroga sul concetto di ilile qui.fòrmtt­ lato e sulle sue implicazion� non si può forse affermare che eno non solo rappresenta quella forma di netta demarrazionr nel sen­ so di Stejan George - «e qui sotto trotta la stupida massa» - ma risulta anche un tentativo di superar/a?

Incomincio con quest'ultima cosa: «superare la demarca­ zione» - con l'imitazione! Questa parola è centrale nell'af­ fermazione di Peter Wapnewski. Credo che qui si ponga la domanda - vorrei quasi aggiungere: "metafisica" - sul rap­ porto t.ra uomo e uomo, e tra il grande uomo c le masse del­ l'imitazione. Mi suona quasi blasfemo. Si tratta di trasferire l'imitatio Christi all'élite dei ricercatori, della Scientific Com­ munitv, - dove una volontà di imitazione diventa la norma vi­ gente tra i comuni mortali, tra gente semplice come Lei e me. Credo che con questo si commetta un'ingiustizia nei confronti degli incentivi interni della circolazione scientifica tra le generazioni. Infatti, se mi è consentito mettere in ri­ salto una delle figure specifiche dell'Università tedesca, il li­ bero docente, un unicum nel panorama universitario del­ l'Europa occidentale, la sua specificità era tale che egli, con la sua tesi di libera docenza, che non poteva essere ignorata, si presentava in contrapposizione agli anziani, a coloro che si erano già sistemati. Parlo del libero docente, prima che que­ sti diventasse un tipico articolo dell'università massificata. _ 345

All'origine di questo progetto c'era la seguente idea: sulla base di un lavoro, ci aspettiamo - si trattava di una vera e propria ingiunzione - di poterti fare un profilo in contrap­ posizione alla generazione che è già entrata nell'istituzione. Era un rapporto ricco di tensioni e non uno fondato sull'i­ mitazione. E proprio la citazione che Lei, o >, che Hegel intende come un concetto moderno, asso­ dato a una religione moderna. Concretamente ciò vuoi di­ re: con il cristianesimo diventa insopportabile il fatto che la verità sia accessibile solo a pochi. Perché la verità non è un ping-pong epistemologico, la cui validità va misurata in ba­ se al grado di difficoltà degli studi universitari; essa, piut­ tosto, è una promessa di salvezza: così non vivi nella verità, ma nell'errore, nell'errare. La promessa di Cristo, il Vange­ lo, è il fatto che riguarda «tutti». Non è un caso, allora, che

t'l

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in uno dei testi più forti dell'apostolo Paolo, nella Prima Lettera ai Corinzi, dove - contro tutti i tentativi di istituire un cristianesimo aristocratico senza la croce - si parla del «Dio della croce•> (che per Nietzsche, ancora oggi, resta il simbolo più violento e per questo ha individuato in Paolo il suo oppositore), non è un caso, dunque, che in questo scrit­ to, una volta delineato il contesto, e dopo aver osato parlare della «debolezza di Dio» e della forza liberatrice della cro­ ce, Paolo discuta anche della comunità e metta in atto un capovolgimento dell'antico concetto di élite. Nietzsche, con fiuto inc redibile - si può torse dire che egli, con gli occhi dell'odio, veda più dci teologi, i quali, da duemila anni, non fanno altro che ripetere le stesse affermazioni, senza fare at­ tenzione al potenziale nascosto in esse - Nictzsche, dun­ que, si rende conto che, qui, si compie un capovolgimento, insomma comprende che la Prima Lrllera ai Co·rinzi è una testimonianza di primo ordine per ciò che egli stesso, Nietz­ sche, concepisce come l'inizio o il compimento della deca­ denza; e cioè il tatto che il suo messaggio è rivolto a tutti e che nel con> sia di quella >, Per quanto, oggi, un discorso a favore del mito e della mitologia venga pronunciato per lo più con aria minimiz­ zante, si sospetta che, dietro la facciata di un tono ameno e giocoso, la lode del politeismo messa in atto da Marquard contenga in sé una serietà, che richiede alcune decisioni. Supportata dal pregiudizio corrente in difesa di una forma di vita tutta intrisa di paganità, la sua t.esi offre qualcosa in più del fascino alla moda esercitato dal mito e dal politei­ smo. Entra nel merito delle tavole etiche di orientamento e in quelle epistemologiche sulla verità. Non per nulla il suo scritto polemico programmatico si intitola Abschied vom Prinzipiellen. Odo Marquard non mette in atto nessuna ri­ costruzione romantica del mito, non lo attrae il «potenziale effettivo del mito» in aestheticis, e neppure lo interessa «l'at­ tualità del mito» come compensazione contro «l'indiffe359

renza del mondo»; la sua , Io prendo la strada opposta. Per esplorare la funzione del mito con un intento etico, vorrei cercare di riflettere su quella costellazione in cui si compie un esodo dalla situa­ zione mitica. Questo problema era già in gioco nel lungo te­ sto introduttivo di Horkheimer e Adorno intitolato «Con­ cetto dell'illuminismo>>, a cui fanno seguito, come corollari, solo excursus e appendici. Dal punto di vista della storia della religione mi appare tutta la debolezza di quel possen­ te progetto di Horkeimer e Adorno, secondo cui essi vo­ gliono statuire l'esempio di Odisseo come «via di fuga del soggetto>> di fronte alle potenze mitiche. In effetti, l'astuzia di Odisseo è una forma di autoaffermazione di fronte alla superiorità delle potenze mitiche. Ma essa rientra nella ca­ sistica della coscienza mitica, evita le potenze mitiche, trat360

ta con loro, senza infrangere la magia che possiedono. Horkheimer e Adorno espongono la > e della monografia di Harnack. Così, nel primo dei quattro Reden Uher das)wlentum del 1952, ben riassunto con il titolo An der Wende, si legge: Nella stessa epoca in cui Adriano reprimeva la sommossa di Bar Kochba, facendo di Gerusalemme una colonia romana e costruendo, al posto del Secondo Tempio, un tempio dedicato a Giove, dall'Asia Minore arrivava a Roma Marcione, che por­ tava con sé, come contributo spirituale alla distruzione d'I­ sraele, il suo Vangelo».7

Lascio da parte la questione della cronologia, che Martin Buber tratta un po' troppo liberamente. Credo che egli non voglia creare alcun nesso causale, ma che intenda piuttosto mettere a confronto due esperienze storicamente concretiz­ zatesi: in Marcione l'anima redenta sta da un lato, e la co­ munità costituita dall'altro, e non si pensa a un suo miglio­ ramento. La Chiesa non ha seguito Marcione. Sapeva che, se creazione e redenzione «fossero state strappate l'una dall'al­ tra, le sarebbero venuti a mancare i fondamenti del suo in­ flusso sugli ordinamenti di questo mondo••. 11 È questo il punto in cui Buber recupera lo scritto di Harnack su Mar­ cione. Harnack, che non era affatto un >.19 Sarebbe pedante chiedersi se Martin Buber abbia reso totalmente giustizia alle intenzioni di Simone Weil. Il fatto che l'abbia portata ad esempio della questione nascosta che «muove un'intera generazione>>, e per la quale I H /vi, p. 68. I U /vi, p. 75.

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egli cerca continuamente di trovare una risposta, prova che Buber sia in possesso del fiuto e della sensibilità per com­ prendere che, come dimostrano gli appunti di Simone Weil, spiriti sensibili, oltre che «ebrei importanti da un punto di vista spirituale»,20 percorrono il cammino che conduce al ••Totalmente Altro» . Ma il Totalmente Altro non può essere detto dal porto sicuro di questo mondo, perché qui già il dicibile può solo sfigurare. Così Marcione inizia la sua Antitesi: •• O miracolo dei miracoli, estasi, forza e stu­ pore che non si possa dire nulla sul Vangelo, che non si possa neppure esprimere un pensiero su di esso, e che non di meno si possa paragonarlo a qualcosa>>, Nell'appassionante dibattito tra Barbara Aland e Hans Jonas sull'origine dell'esperienza gnostica, the startingfor alt Gno.sis, Barbara Aland ha osservato: Vedo il punto di partenza della gnosi in una gioia illimitata di esse­ liberali.

?"e

Hans Jonas, invece, ha notato che questo è un nuovo esperimento che si rapporta intellettualmente con ilfenomeno della gnosi, il quale mette al primo po.çto la gioia della li­ berazione, quindi il Jenso della pa.çsala oppressione.

Credo che il prologo di Marcione potrebbe appoggiare la tesi di Barbara Aland. I.:ab.sconditum non sparge terrore, ma vera gioia. Sarebbe necessario ritornare all'epoca di Marcione e chiedersi se, in effetti, sia possibile trovare la dottrina delle due potenze solo al di fuori dell'ebraismo, se, cioè, la linea di demarcazione tra lo spirito d'Israele e lo spirito dei po­ poli possa essere tracciata così chiaramente come fa Buber. Lo studio di A. E. Segai, Two Power in Heaven: Early Rabbi­ nic Reports about Christianity and Gnosticism, del 1 977, fa supporre che 'la crisi della fede monoteistica emerga dal­ l'interno. Persino nel cuore dell'élite rabbinica la•questione nascosta ha acquisito una sua ••forza>> nella figura di Elshu ben Abuja, soprannominato ••Acher>>, l'Altro. G. Stroumsa ha raccòlto alcuni materiali che rendono credibile il fatto 211

lvi,

p. 65.

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che il soprannome